Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXI - NUMERO 200 - APRILE 2014
Abbonamento 2014
(nuovo o rinnovo) in omaggio Fotografia nei francobolli di Maurizio Rebuzzini prefazione di Giuliana Scimé testimonianza di Michele Smargiassi
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
O T N E M A N O B B A N I O L SO
ANNO XXI - NUMERO 199 - MARZO 2014
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XXI - NUMERO 200 - APRILE 2014
Gian Paolo Barbieri Giovanni Gastel LA MODA FOTOGRAFATA
Gabriele Chiesa Paolo Gosio DAGHERROTIPI E CONTORNI
ANNO XXI - NUMERO 198 - FEBBRAIO 2014
Alcide Boaretto VOLTI DEL CINEMA
Steve McCurry QUANTE STORIE!
1839 - 2014 CENTOSETTANTACINQUE ANNI
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prima di cominciare COSÌ, IN ANTICIPAZIONE. Del film I sogni segreti di Walter Mitty intendiamo occuparci a breve, probabilmente già sul prossimo numero di maggio. In anticipo su quanto andremo a osservare, sollecitato dalla componente fortemente fotografica della trama, con brillante sceneggiatura di Steve Conrad, diamo un consiglio: andatelo a vedere, per quanto possa essere ancora in programmazione in qualche sala “minore”, all’indomani del suo arrivo in Italia, a cavallo dell’anno. Risolviamo subito la genesi, in modo da precisare termini che vanno posseduti. Diretto da Ben Stiller, anche protagonista, il film è un remake di un identico The Secret Life of Walter Mitty, con Danny Kaye, diretto da Norman Z. McLeod, nel 1947, che la critica considera il migliore del celebre attore specializzato in film musicali, che in Italia è stato tradotto in Sogni proibiti. Sceneggiata da un racconto di James Thurber, pubblicato dal prestigioso e autorevole The New Yorker, nel 1939, la vicenda originaria si svolge nell’ambito di riviste periodiche, pubblicate dalla casa editrice per la quale lavora Walter Mitty, che sogna continuamente a occhi aperti, prendendo spunto da quanto gli accade durante il giorno.
La fotografia che si avvicina alla verità è superiore sia alla verità, sia alla fotografia. Quando è grande, la fotografia esprime il ritratto di un’epoca. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Sempre e comunque, sappiamo come e quanto ciò che annotiamo, riferiamo e scriviamo componga i tratti di avvincenti suggerimenti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 54 Non conta mai ciò che si è fatto, ma quello che non si è stati capaci di fare. Quello che hai fatto, te lo puoi anche scordare; mentre, al contrario, quello che non hai fatto è scolpito nel cuore, e torna sempre nella mente. Sempre e in ogni istante di Vita. E su questo, ciascuno di noi deve agire. mFranti; su questo numero, a pagina 32
Copertina Numero Duecento, dal maggio 1994 di esordio. Due considerazioni e osservazioni sui venti anni trascorsi, che sono stati travolgenti: dalle trasformazioni tecnologiche inevitabili (la storia va avanti, sempre, con o senza di noi) alle relative proiezioni sul modo di intendere la fotografia; con qualche amaro retrogusto, affrontato in un terzo intervento: rispettivamente, da pagina ventitré, quarantasette e otto
Questa base è stata conservata nell’attuale remake di Ben Stiller. Però, per noi (almeno), la differenza di sostanza sta nel fatto che la rivista in questione è Life, al proprio tramonto: si deve preparare l’ultimo numero cartaceo, prima che l’edizione passi sul Web. Più specificamente, tutto approda a un impiccio relativo alla fotografia dell’ultima copertina, misteriosamente sparita (la copertina del numero Uno, del 23 novembre 1936, fu firmata da Margaret Bourke-White). Così che il film si offre e propone come un autentico e sentito omaggio alla nobile testata, il cui giornalismo e -soprattutto!- fotogiornalismo ha fatto storia ed epoca. Qui e ora, in acconto su quanto andremo a rilevare nell’approfondimento anticipato e promesso, sottolineiamo soltanto alcuni passaggi: il sistematico risalto dato alla dichiarazione di intenti originaria del fondatore Henry R. Luce, la proposizione scenografica di celebri copertine (e di alcune inventate) e apprezzate riflessioni del fotografo Sean O’Connell, tormentone del film, interpretato da un convincente Sean Penn.
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio da un francobollo emesso da Wallis e Futuna, il 20 settembre 1983, in ricordo e celebrazione del centocinquantenario dalla scomparsa del francese Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833), indiscutibilmente il pioniere per eccellenza
7 Editoriale Ecco. Doverosa riflessione fotografica a completamento e integrazione di quanto rilevato nell’articolo pubblicato da pagina cinquantasei. Rilevazione di sostanza (?) in relazione a una certa distinzione tra pittura e fotografia. Senza alcuna contrapposizione, sia chiaro, ma considerazione che definisce confini e proiezioni
8 Chi fotografa, oggi Non è tutto qui, non è solo questo: ci mancherebbe altro. Però questo è quanto sta anche accadendo al mondo della fotografia non professionale italiana, soprattutto esercitata attraverso circoli preposti, che si sta orientando verso una autoreferenzialità quantomeno imbarazzante
APRILE 2014
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
12 Detto Cesco
Anno XXI - numero 200 - 6,50 euro
In ricordo di Cesco Ciapanna, mancato a metà marzo, a tutti gli effetti l’innovatore del giornalismo fotografico
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
14 Notizie
Maria Marasciuolo
Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
Antonio Bordoni Angelo Galantini
16 Punto fermo (e datato) Non un film con accompagnamento fotografico, ma una considerazione a più ampio raggio sulla presenza del fotografo in sceneggiature cinematografiche Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
23 Duecento Maggio 1994 - aprile 2014: Duecento numeri di FOTOgraphia, venti anni di edizione. Con l’occasione, considerazioni e riflessioni al proposito di Maurizio Rebuzzini (Franti)
34 Kodak Senior 1A Diaproiettore 24x36mm, dal 1962 a cura di New Old Camera
36 Storia dal mondo Quante storie di Uomini dietro una fotografia! La World Press Photo of the Year 2014, di John Stanmeyer, rimanda a tante e tante riflessioni di Lello Piazza
47 Top Ten (in doppio) In sintesi, riproponiamo venti testi. Sono testimonianza palpitante del nostro modo di intendere, affrontare e svolgere la materia, che non si conclude alla Fotografia, ma da questa parte: s-punto privilegiato di Angelo Galantini
56 Per le strade di Londra Affascinante combinazione tra visioni fotografiche attuali, da Google Street View, in origine soprattutto utilitaristiche, e quadri dell’Ottocento (e precedenti) di Lello Piazza e Antonio Bordoni
REDAZIONE
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Alessandra Alpegiani Pino Bertelli Alberto Dubini mFranti Chiara Lualdi Lello Piazza Piero Raffaelli Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 StenopeiKa 810S Grande formato folding con intenti tradizionali e arbitrari: fino al foro stenopeico (pinhole)
64 Vivian Maier Sguardo sulla fotografia della vita quotidiana di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale SHYSTONE
E
ppure... è ancora opportuno, oltre che necessario, precisare e aggiungere altre parole all’insieme di quanto già riferito a proposito del convincente progetto London Street View (la definizione è nostra), di Shystone / Pietra timida, presentato in questo numero, da pagina cinquantasei. Eppure... alla meta del numero Duecento, dei venti anni di edizione, è ancora opportuno, oltre che necessario, precisare che -contravvenendo quasi (forse?) alla promessa esplicita in testata (FOTOgraphia, nel senso di Fotografia)- questa è più una rivista di parole e meno (?) di immagini. Per certi versi, considerato che alcuni degli argomenti affrontati mensilmente (non tutti) sono latenti nell’aria e a disposizione di ognuno, è proprio il modo di trattarli, è l’insieme delle nostre opinioni che compone i tratti di quella che può anche definire una certa differenza (ammesso, e non concesso, che questa differenza ci sia). Così, ora, aggiungo qualcosa a quanto valutato da Lello Piazza e Antonio Bordoni. Siccome questa ulteriore riflessione non avrebbe aggiunto nulla a quanto analizzato dai due autori, non è stata inclusa nel loro perspicace intervento. Allo stesso momento, non mi riferisco al progetto fotografico in quanto tale, ma da questo prendo spunto, per andare altrove, per aggiungere altro merito all’apprezzato autore. Subito, ricordo che si tratta di una fusione e combinazione tra fotografie “casuali”, recuperate da Google Street View (spontanee nelle propria ricercata sola utilità), e opere pittoriche dell’Ottocento (circa). Correttamente, nel loro commento, Lello Piazza e Antonio Bordoni sottolineano soprattutto l’allineamento prospettico dei soggetti di Shystone / Pietra timida, che ne definisce e determina lo stilema espressivo. Ora, andiamo altrove, rimanendo comunque- nel territorio della combinazione tra pittura e fotografia. Tra tante e tali personalità proprie, secondo me, una delle differenze tra pittura e fotografia riguarda le rispettive proiezioni nel Tempo. Mentre il quadro perde cognizione del proprio soggetto, per rivelare soltanto l’attribuzione al suo autore, la fotografia conserva sempre inalterato il contenuto del soggetto rappresentato. Per esempio, poco sappiamo di Monna Lisa (e altrettanto poco ci interessa saperne), ma il ritratto della Gioconda è irremovibilmente conferito a Leonardo da Vinci. Invece, anche le fotografie più antiche continuano a richiamare il soggetto esplicito. Per esempio, è il caso delle scene della guerra Civile americana (1861-1865). Ora, e clamorosamente, magari senza averne intenzione, Shystone / Pietra timida ha modificato questa condizione, restituendo alle opere pittoriche la propria identità originaria, che antepone il soggetto della raffigurazione all’eventuale riconoscimento dell’autore, che è proprio tale: eventuale, ma non necessario, né determinante, né discriminante. Da cui, e per cui, con giro tondo, questa Fotografia riconsegna all’opera pittorica la propria corrispondenza con il racconto intenzionale di esecuzione. Azione mirabile, oltre che meritevole. Maurizio Rebuzzini
Nel quadro di William Logsdail, sul lato sinistro della tela, si riconosce The Old Bank of England, raffigurata cinquant’anni prima della demolizione. Il soggetto è comunque il corteo del sindaco, che, il 9 novembre 1888, passa attraverso la Bank Junction. William Logsdail: The Ninth of November (The Lord Mayor’s Procession, London, 1888); 1890; olio su tela, 190x274cm.
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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)
CHI FOTOGRAFA, OGGI
A
Ancora, e anche qui: Duecento numeri di FOTOgraphia, conteggiati a partire dal numero Uno di esordio, del maggio 1994. In altra scala, venti anni di edizioni, al ritmo di dieci l’anno. Come annotato in altra parte della rivista, su questo stesso numero, da pagina 23, «Determinata dall’acquisizione e gestione digitale delle immagini, a diversi livelli, oggi si esprime una nuova prospettiva di personalità fotografica, che distingue l’attualità fotografica da quanto è esistito prima. Intendiamoci bene: non sono cambiate le fotografie, che tali ancora si presentano, inviolabilmente simili a se stesse, ma si è trasformata la loro realizzazione. Oggigiorno, volente o nolente, l’esaurimento delle competenze tecniche necessarie per governare gli utensili ha portato in primo piano l’Immagine, come mai è accaduto nei centosettantacinque anni precedenti, sempre in bilico tra mediazioni strumentali e risultati espressivi: questa è l’autentica rivoluzione, l’autentica riflessione». La meta dei venti anni sollecita almeno una considerazione, forse la richiede addirittura. In quale misura, la travolgente evoluzione tecnologica ha trasformato il gesto della fotografia, ammesso e concesso che lo abbia proprio fatto? Qui, e ora, è doveroso domandarsi chi fotografa, oggi? Ancora, e in raffronto, questo chi è diverso da quelli precedenti? Questo chi si riferisce a parametri nuovi, non soltanto innovativi, impensabili e inesistenti soltanto venti anni fa? La risposta dipende proprio da quanto è accaduto in questi venti anni (coincidenza casuale, che comunque ci troviamo tra le mani), che sono stati travolgenti, impetuosi e vorticosi come nessun precedente lasso di tempo (di pari tempo), nella storia dell’umanità. In questo senso, la Fotografia non corre da sé e per se stessa, ma ha partecipato in proprio modo e propria misura alle rivoluzioni tecnologiche che hanno stravolto la vita sociale, quantomeno nel mondo occidentale, con rimbalzi a tutto il pianeta. Se interessa quantificarlo, nel
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Dall’incontro (conferenza?) ufficialmente intitolato Che la Fotografia sia s-punto di partenza, svolto lo scorso nove novembre, presso New Free Photo, di Brescia. Ufficiosamente, il titolo richiamò la fantastica sequenza numerica di cifre dispari consecutive 9 11 13 15 17: 9 novembre 2013, dalle 15,00 alle 17,00. Ancora: nel centenario della nascita di Martina Galantini, mamma di Maurizio Rebuzzini [ FOTOgraphia, novembre 2013].
1994 di esordio di FOTOgraphia (e di odierno riferimento temporale), a grandi linee, ma in realismo, l’acquisizione e gestione digitale di immagini era agli albori, il telefono cellulare muoveva i primi passi, la connessione Internet una ipotesi, inimmaginabile la connessione attuale e diffusa (magari a tavola, con gli amici: non discuto la tecnologia, avvincente, seducente, perfino utile... ma la maleducazione; sì, questa la condanno). Dunque, i nostri venti (appassionanti) anni di giornalismo compongono i tratti di una esperienza che consente di parlare e scrivere con cognizione di causa. Torniamo al soggetto esplicito: chi fotografa, oggi? Risposta certa: tutti. Dopo di che, o forse anche in anticipo, bisogna intendersi su cosa si giudica e definisce “Fotografia”. Però, in acconto, non possiamo ignorare che la produzione di immagini non è più alla portata di soli attori addetti e convinti, ma si è diffusa a macchia d’olio, senza alcuna soluzione di qualsivoglia continuità.
Personalmente, non conteggiamo l’attuale socialità dell’immagine (in Rete) come continuazione diretta e lineare del processo originario, apparso nel mondo all’alba del 1839, di presentazione ufficiale del dagherrotipo. Personalmente, la annoveriamo come un ramo che parte dal tronco principale, per stabilire connotati e connotazioni autonome, che non considerano l’immagine (la fotografia) come elemento portante, ma la declinano come espressione di costume e/o socialità. In parallelo, ma non tra parentesi, non ascriviamo i messaggi sms nell’ambito della letteratura. Nel nostro riferimento/richiamo temporale di venti anni di rivista, valutiamo come solo venti anni fa, per l’appunto, la mediazione tecnica della Fotografia esprimesse connotati di autentica intromissione: tra la possibile volontà d’azione e la sua realizzazione. Forse, tutto era anche allora più semplice di come veniva presentata la tecnica fotografica di base, ma la percezione diffusa di una necessaria
Parliamone competenza strumentale limitava gli addetti, escludendo considerevoli quantità di utenti potenziali. Oggi, venduta senza sovrastrutture, al pari di ogni strumento di alta/media/bassa tecnologia attuale, la Fotografia è effettivamente per tutti, nessuno escluso. Oggi, basta schiacciare un pulsante, senza preoccuparsi di nulla: la fotografia viene sempre e comunque. Quindi, è Fotografia anche quella che non parte da uno strumento preposto, ma da una funzione aggiunta ad altro (smartphone, tablet...). Tanto che, mentre un tempo il gesto era sempre e comunque consapevole e in varie misure volontario (bisognava uscire di casa con una macchina fotografica autenticamente tale), oggigiorno, la Fotografia è frequentabile e fruibile ovunque. La previsione (ottimistica, fiduciosa e speranzosa), che nel 1839 accompagnò la nascita, si è realizzata soltanto recentemente, è plausibile solo da una manciata di ore: nulla avverrà più senza la documentazione fotografica. E, in effetti, nulla avviene più senza essere fotografato: dalle catastrofi naturali agli incidenti, dagli accadimenti leggeri alle tragedie della vita, non più registrate da professionisti della comunicazione, ma da semplici cittadini. Quindi, la linea demarcatoria ierioggi è presto individuata. Ieri, fotografavano soltanto attori consapevoli di volerlo fare (da ogni professionismo selettivo alla fotografia non professionale con intenzioni espressive, alla fotoricordo familiare); oggi, fotografano tutti: ammesso e concesso che il contenitore “fotografia” intenda soltanto l’ottenimento di una qualsivoglia immagine fissa, base per altezza. Però, per quanto la tecnologia abbia anche influito sul lessico, sugli approcci, sul linguaggio e sull’espressività (come tutto, sia in termini positivi, sia con retrogusti amari e negativi), rimane costante e continua la personalità di coloro i quali fotografano con convinzione e per princìpio creativo. In questo momento, lasciamo perdere il professionismo, che ha proprie regole, propri richiami e relazioni, proprie logiche. Riferiamoci invece al non professionismo che fa della Fotografia momento e opportunità di rivelazione creativa individuale. Questa identificabile quantità e qualità di fotografi è oggi analoga a ogni
Dal primo di dieci incontri di Maurizio Rebuzzini, programmati per conto di Afip (Associazione Fotografi Professionisti International) e CNA Professioni, dalla fine di aprile. Il primo incontro del programma Consapevolezza della fotografia tratta di Origini e Preorigini.
Una delle slide della presentazione della fotografia di Weegee, svolta a Rovereto, in provincia di Trento, nel luglio 2009, a contorno di una fantastica mostra di originali del celebre fotocronista newyorkese [ FOTOgraphia, luglio 2009].
Dalla prima di tre lezioni per i Master in fotografia dell’accademia Naba, presso lo Spazio Forma, di Milano (primavera 2011).
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ALBERTO DUBINI (5)
Parliamone
altra che l’ha temporalmente preceduta. Qui la presunta difficoltà o semplicità operativa non fa alcuna differenza. Qui non ci sono mai stati ostacoli infrastrutturali (altrimenti, il solo caricamento del rullo 120 nella seisei Rolleiflex biottica avrebbe fatto desistere molti)... casomai è vero il contrario, con affermazioni tecnico-commerciali inversamente proporzionali all’effettiva praticità di utilizzo. A posteriori, con il senno di poi, alla luce delle agevolazioni odierne, possiamo menzionare anche nomi clamorosi, da Leica (soprattutto quelle con innesto a vite 39x1 degli obiettivi intercambiabili, e caricamento certosino della pellicola trentacinque millimetri) a Nikon F (con il suo dorso estraibile, non incernierato al corpo macchina), da Rolleiflex (in ripetizione a quanto appena annotato) al foro stenopeico, dalla restituzione stereo (forma fotografica diffusa del 3D) alla visione panoramica a obiettivo rotante, dalle pellicole infrarosso alle manipolazioni in camera oscura (che oggi si ottengono con la semplice pressione di un tasto del computer). In tutti i casi, quando la Fotografia è interpretata e frequentata con la volontarietà e la caparbietà dell’impegno creativo individuale, sia in forma autonoma, sia inquadrandosi tra le fila dell’associazionismo dei circoli preposti, dovrebbe rispondere anche a una condizione irremovibile: quella che lascia intendere che non ci sono soltanto diritti (propri), ma anche doveri (verso se stessi, gli altri... e la Fotografia, nel proprio insieme e complesso). Purtroppo, costa annotarlo, ma lo si deve fare: corresponsabili mille e
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mille componenti di ricercata gratificazione forzata, chi fotografa oggi con queste titolate intenzioni ha maturato e ampliato un tale egocentrismo e una tanta autoreferenzialità, che non hanno precedenti in tutta la lunga e nobile storia della fotografia non professionale italiana, scandita da personalità di alto casato. Non parlo per sentito dire, ma lo faccio dalla consistenza di venti anni di concentrazione assoluta sulla materia (più altri ventidue precedenti, dall’autunno 1972 di mio esordio; FOTOgraphia, settembre 2012), ma lo faccio dalla solidità che offre un impegno professionale di meditazione profonda e dedizione assoluta. E lo faccio anche alla luce di uscite fuori campo, oltre i confini redazionali, quando e dove sono invitato a raccontare. E qui sta una grande differenza: in queste occasioni, non relaziono mai focalizzando su quanto realizzo (anche perché conta soprattutto quello che non si è fatto, non tanto quello che si è fatto: su questo stesso numero, a pagina 32); piuttosto, informo per chi mi ascolta, a suo unico e assoluto beneficio. Da ridere, avendone voglia: rarissimamente, quasi mai per il vero, vengo ringraziato per il tempo e il succo concesso; il più delle volte, c’è silenzio (una volta, ci si inviava lettere di gratitudine, quantomeno formale); spesso, si manifesta un inutile contraddittorio ad personam, giusto farmi intendere che mi si è ascoltato soltanto per obbligo. Per esempio, parlando io senza appunti, ma citando libri, monografie, autori, anno di edizione e reperibilità,
Annotazione d’obbligo: per i propri incontri sulla fotografia (o conferenze, o lezioni, o conversazioni), Maurizio Rebuzzini preordina sempre una serie di visualizzazioni in quantità... controllata. Volontariamente e con caparbietà, predispone sempre un accompagnamento visivo di supporto -dal quale parte per considerazioni, riflessioni e sollecitazioniche sia quantitativamente riconducibile a una cifra affascinante e gradita. In genere, in numero primo; a volte, ma più raramente, in novantanove slide; oppure, centouno.
una volta mi fu rimproverato di non aver compilato un elenco pratico dei libri citati (lo faccio in altri ambiti: in lezioni universitarie, per legittimo dovere), ma di costringere chi interessato a prenderne nota da sé! Un’altra volta, in occasione di una panoramica della presenza della fotografia al cinema, mi sono stati ricordati titoli che non avevo preso in considerazione (e che conosco bene, ma il discorso era filato su altri binari; qualcuno ha la sensazione che mi sfugga qualche abbinamento fotografia-cinema?). Questo chi che fotografa, e che apparentemente mostra interesse, nella realtà dei fatti non prende in alcuna considerazione i propri doveri, ma considera soltanto i propri diritti: primo tra tutti, quello dell’autoreferenzialità, dell’Io anteposto a molto, forse a tutto. Invece, umiltà e dedizione sono ingredienti indispensabili del dovere di avvicinare autori, personaggi, esperienze e parole (pronunciate e/o scritte), che arricchiscano il proprio bagaglio individuale, fino a influire positivamente sul proprio gesto fotografico, sulla propria azione fotografica (oltre che nel proprio cuore). Indipendentemente dal come, ma non certo del perché, a mio modo di vederla, pensarla e dirla, chi oggi fotografa (quel chi consapevole e motivato) deve essere cosciente che (da miei incontri pubblici): «Con la fotografia tutta, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro, che ciascuno trova prima di tutto in se stesso»; «Non è un problema del sapere (conoscenza?), ma di voglia di condividere. E capacità di farlo. Forse»; «Non cerchiamo parole che facciano la differenza nella nostra vita. A volte, le incontriamo»; «Il dire senza steccati è sempre una sfida all’indicibile, è vivere se stessi come verità che denuncia l’impensato. [...] Ciascuno detiene il coraggio di ciò che veramente sa, o è solo poca cosa di fronte all’inavvertenza di tutte le cose» (Pino Bertelli); «In ogni caso, Fotografia come Storia dell’Uomo, i suoi sogni, i suoi amori, le sue speranze, i suoi dolori»; «Il fascino estraniato e stregato della fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla vio-
Parliamone Precisato e confermato che gli incontri fotografici di Maurizio Rebuzzini (altrove, mFranti; FOTOgraphia, dicembre 2013) non sono mai autopresentativi, ma, in assoluto, si rivolgono e indirizzano alla sollecitazione del pubblico, va anche sottolineato il ritmo alternato tra immagini e parole, a volte consequenziali, altre volte in successione ragionata. Ancora, in questi incontri vengono segnalati testi e fonti presso cui approfondire le singole vicende affrontate. Il tutto, nella composizione volontaria e consapevole di una condizione di fondo assoluta e non negoziabile, della quale ognuno potrebbe fare tesoro (oppure, lasciare perdere): «Non è un problema del sapere (conoscenza?), ma di voglia di condividere. E capacità di farlo. Forse».
lenza esasperante della quotidianità mai affrontata» (Pino Bertelli); «La fotografia, che deve essere un inviolabile gesto d’amore, non dipende mai da come la si realizza, ma perché lo si fa [anche se il come ha la propria importanza, ma non qui, ma non ora]»; «La poesia, come l’amore, abita dove la si lascia entrare» (Pino Bertelli) / «Dunque… anche la Fotografia [in Maiuscola consapevole, oltre che volontaria]»; «C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova» (Martin Buber: Il cammino dell’uomo); «È la diversità degli uomini (la differenziazione delle loro qualità e delle loro utopie) che costituisce la grande risorsa del genere umano»; «L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare» (Eduardo Galeano); «Nessuna religione! Ogni applicazione fotografica, ogni arbitrarietà fotografica elevata ad assoluto, a religione, dischiude porte che avviano in luoghi imbarazzanti e inquietanti»; «Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza»; «L’amore è sempre dove non si guarda; l’amore ama nascondersi nel florilegio di bellezze incolte, ma lascia segni profondi o tracce indelebili nei nonluoghi dell’anima» / «L’amore è sempre altrove, ma solo l’amore si accorda con quella situazione di verità che restituisce alla vita la bellezza che le è propria» (Pino Bertelli). E, soprattutto: «Nel fotografare, ciascuno ha opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro». Chi fotografa, oggi! ❖
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Ricordo di Maurizio Rebuzzini
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DETTO CESCO
All’anagrafe Francesco Ciapanna, a partire dalla sua straordinaria avventura con il mensile Fotografare, in edicola dal marzo 1967, Cesco Ciapanna ha definito una avvincente stagione della fotografia italiana, quantomeno del suo commercio, del suo mercato, del suo mondo, delle sue applicazioni non professionali; in contemporanea, e parallelo, va ricordata anche l’altra sua sorprendente testata periodica, Almanacco di Fotografare, per decenni guida assoluta del comparto fotografico italiano. Cesco Ciapanna, che è da considerare e conteggiare come l’innovatore dell’editoria e del giornalismo italiano della fotografia, che per mano sua ha traghettato da un passato remoto accademico e sfibrato a una attualità brillante, vivace e piena di idee, è mancato lo scorso sedici marzo. Da tempo, aveva ceduto il timone della sua creazione, attualmente identificata come Fotografare Novità, ritirandosi nei propri studi e nelle proprie considerazioni riguardo la sua intuizione e frequentazione dell’onomanzia, che è ufficialmente identificata e definita come «Pratica divinatoria basata sull’interpretazione etimologica, simbolica e numerica del nome di una persona; in origine, era intesa sia per individuare presagi nel nome già imposto, sia per scegliere un nome che fosse di buon auspicio». Nell’interpretazione di Cesco Ciapanna, la decodificazione di segnali e accadimenti e preavvisi è stata la chiave di decifrazione di oscuri e incombenti complotti internazionali volti al rovesciamento di equilibri preesistenti, piuttosto che all’instaurazione di nuovi Poteri. Per anni e anni, con queste sue profezie ha riempito pagine e pagine del suo mensile Fotografare, spaziando da presunte cospirazioni ai danni del mondo fotografico (per il suo controllo globale) a congiure planetarie. Leggendo e interpretando (a modo suo?) segni e segnali, anagrammando parole e motti, sapientemente distribuiti nelle nostre città (?), Cesco Ciapanna si era convinto di es-
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sere l’unico in grado di smascherare oscure trame, prontamente rivelate e denunciate nei suoi testi, nelle sue analisi. Difensore unico nel mondo e paladino di una Verità sovrastante, ha interpretato questo ruolo con intensità, partecipazione e convinzione assolute... mai negoziate. Anche avendone parlato con lui, anche avendo ascoltato le sue motivazioni, confessiamo di non averci capito nulla. Quindi, ancora oggi, non siamo in grado e condizione di esprimere alcun giudizio sulla vicenda, tanto più che -per nostra indole- siamo soliti non esprimere mai giudizi, ma, piuttosto, incamminarci per riflessioni e osservazioni dialettiche, oltre che paritetiche: tra le parti coinvolte. Ancora, conta nulla che, in taluni passaggi, anche alcune nostre azioni professionali -sia per le riviste per le quali abbiamo agito, sia per altri incarichi svolti per committenze commercialisiano state coinvolte nella individuata macchinazione, nel presupposto intrigo (internazionale: da e con Alfred Hitchcock). Così come è superfluo sottolineare l’infondatezza assoluta dell’analisi e delle conclusioni di Cesco Ciapanna nei nostri confronti. Invece, e per beneficio assoluto, altro è significativo: soprattutto, la nostra speran-
È probabile che le coincidenze siano i soli accadimenti che rivelano che la vita possa avere senso. Lo scorso autunno, un paio di giorni dopo aver rintracciato, in un mercatino antiquario, una cinepresa Canon Zoom 8, di avvincente valore estetico, in una bancarella di libri usati, ho trovato il manuale Guida Canon Zoom, di Francesco Ciapanna, pubblicato quando era redattore di Progresso Fotografico, nei primi anni Sessanta. Forse è niente, ma, ora, è il mio ricordo per Cesco.
za che, per quanto espresse in maniera aggressiva e tossica, queste visioni gli siano servite per trovare quella pace interiore, quella serenità di vita che auguriamo a tutti e verso le quali ambiamo tutti approdare. Comunque, non posso oggi vantare una amicizia che non c’è stata. Neppure, posso quantificare una frequentazione intensa e partecipe. Se proprio dovessi conteggiare il tempo che abbiamo trascorso insieme, fino al mezzogiorno di una dozzina di anni fa, quando è immotivatamente uscito dalla nostra redazione, alzandosi all’improvviso, senza alcun preavviso, per poi sparire (per noi) del tutto, se proprio dovessi conteggiare tutto il tempo insieme, probabilmente non arriverei alle ventiquattro ore che compongono una sola giornata delle nostre rispettive vite ed esistenze. In questo senso, altri, più qualificati, possono raccontare di Cesco Ciapanna con motivi leciti per farlo, sulla base di rispettive conoscenze profonde e condivise. Io ne posso riferire da distanza, da un punto di vista sostanzialmente parallelo. Prima di tutto, oggi, in occasione di questo ricordo dovuto (e voluto), constato che il mio arrivo in questo mondo, nel quale sto viven-
Ricordo do da quaranta stagioni abbondanti, è stato sotto il suo segno. Niente di diretto, ma il primo contatto con l’editoria fotografica e il giornalismo della fotografia l’ho avuto, nell’autunno 1972, con un direttore/editore intenzionato a scalfire la leadership dell’Almanacco di Fotografare (tradotto nel concreto, autentica miniera dalla quale sono stati ricavati sostanziosi redditi d’impresa). Le sue motivazioni erano vendicative, a fronte di una contrapposizione personale con Cesco Ciapanna; le mie aspettative erano molto meno nobili, ammesso e concesso che l’ostilità e il rancore possano essere comunque sentimenti di qualche dignità. Sono sincero: a me bastava un lavoro qualsiasi, tanto per risolvere l’immediato... mai avrei supposto di aver aperto la porta di una avventura che si sarebbe protratta in avanti per decenni, fino a diventare la mia stessa dimensione vitale. Comunque, quella sera, più che di progetti e proposte, sentii solo diffamare Cesco Ciapanna, del quale, fino ad allora, ignoravo l’esistenza. Curiosamente, mai prima d’ora riaffiorato alla mente, questo ricordo si è presentato in queste ore. Non significa nulla, ma, se servissero prove e accertamenti, anche questo è uno di quei tasselli che ci accordano con colui il quale affermò (circa) che le coincidenze sarebbero i soli accadimenti che rivelano che la vita possa avere senso. Possa avere un qualche senso.
Dal mio stare comunque di lato, confermo che la statura professionale di Cesco Ciapanna è stata determinante e fondante per il giornalismo fotografico, entro il quale agisco anch’io. Redditività di impresa a parte, che riguarda lui soltanto, in assoluto, il rinnovamento editoriale che Cesco Ciapanna ha impiantato nel nostro settore -magari ispirandosi a precedenti altre esperienze internazionali (altro merito suo: l’aver guardato a trecentosessanta gradi, quando gli altri limitavano l’osservazione al proprio orticello)- è stato tanto e tale che l’attuale panorama redazionale della fotografia italiana dipende ancora oggi dalle sue radici. Certo, va osservato anche che i suoi sono stati tempi opportuni e favorevoli; però, va annotato soprattutto che lui è stato capace sia di decifrarli, sia di cavalcarli, sia di farli in larga misura propri. Basti pensare che nei secondi anni Settanta, lasciata la direzione editoriale a Giulio Forti (oggi editoredirettore di Fotografia Reflex), Fotografare raggiunse una autorevolezza e un prestigio capaci di influenzare il mercato nel proprio insieme. Oggigiorno ruota di scorta di un veicolo tutto ammaccato, il giornalismo fotografico (di allora) ebbe nella redazione di Fotografare l’apoteosi del valore informativo della stampa (per quanto di settore). Ciò che scriveva Fotografare era legge e credo, addirittura una verità assoluta, temuta da tutto il
commercio della fotografia. Fino al punto che, lo ricordiamo bene, l’ipotesi di rinnovamento di una certa pellicola bianconero congelò letteralmente le sostanziose vendite di quella che sarebbe andata a sostituire. Quel valore, costruito con capacità giornalistiche fuori dal comune, che Cesco Ciapanna aveva riunito attorno a sé, determinò un successo editoriale senza precedenti (né successivi): con la direzione di Giulio Forti, Fotografare raggiunse le centomila copie mensili, e certamente le superò in allungo; con la gestione di Franco Polizzi, l’Almanacco di Fotografare vendeva circa quarantamila copie trimestrali, ognuna delle quali imbottita di oltre cento pagine di annunci pubblicitari. E questi sono numeri di tutto rispetto, da considerare con l’attenzione che meritano: perché sono cifre che disegnano la personalità di un comparto vivace e brillante, frequentato da utenti (fotografi non professionisti) convinti e convincenti. Dei quali, Cesco Ciapanna seppe fare tesoro. In ogni caso, Cesco, nel considerare la fotografia, ciascuno di noi ha avuto opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma entrambi abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. Mi/ti auguro che il tuo, tu sia riuscito a crearlo. ❖
Notizie a cura di Antonio Bordoni
IN VELOCITÀ. La Nikon 1 V3, terza generazione della configurazione che non è più legittimo definire Mirrorless, e magari neppure CSC (Compact System Camera), ma -più direttamente- interpretazione fotografica dei nostri giorni, si offre e propone per velocità e prestazioni di qualità professionale, in un corpo macchina compatto. Nel concreto, top di gamma della efficace linea di compatte a obiettivi intercambiabili Nikon 1, la V3 sottolinea soprattutto una straordinaria velocità di ripresa, adatta a coloro i quali intendono mettere a frutto la massima affidabilità fotografica, in una dotazione con peso e ingombro adeguatamente contenuti. L’autofocus ibrido include centosettantuno punti AF (171), centocinque dei quali a contrasto di fase e in grado di “bloccare” l’azione in tempi rapidissimi. La sua velocità di scatto in sequenza di immagini in formato grezzo Raw è addirittura più rapida di quella di una reflex, e questo consente alla nuova Nikon 1 V3 di effettuare efficaci riprese fotografiche in frazioni di secondo. Definito da una sensibilità da 160
a 12.800 Iso equivalenti, l’ampio sensore Cmos da 18,4 Megapixel garantisce acquisizioni ricche di dettagli in ogni condizione di utilizzo; mentre il nuovo processore di elaborazione delle immagini Expeed 4A finalizza le prestazioni generali, gestendo l’alta velocità e l’ampia gamma dinamica dell’interpretazione fotografica. Ancora, la Nikon 1 V3 è la prima configurazione del sistema Nikon 1 a vantare un monitor con controllo touchscreen basculante, con il quale è possibile accedere comodamente alle funzioni fondamentali di ripresa e gestione dei file. Inoltre, la funzione WiFi incorporata semplifica la condivisione delle immagini tramite gli smart device. (Nital, via Vittime di Piazza Fontana 52, 10024 Moncalieri TO; www.nital.it).
PIÙ CHE COMPATTO. Benro Flat Mini è una proposta tecnico-commerciale avvincente, oltre che appassionate: un treppiedi che da chiuso è spesso solo quattro centimetri! Soluzione ideale per la fotografia in viaggio e nella natura (trekking), il treppiedi così configurato trova facilmente spazio in qualsiasi borsa, e può essere ancorato allo zaino fotografico in maniera più comoda e più sicura di quanto non si possa fare con un treppiedi “tradizionale”. Anche nei trasferimenti aerei, fa valere la propria prerogativa, trasportato in valigia... visto e considerato che
non tutte le compagnie consentono di tenerlo con sé in cabina. Il Flat è una dotazione esclusiva di Benro, realizzata per accordare dimensioni, peso e robustezza, adatta a sostenere un equipaggiamento reflex professionale, anche con obiettivi di volumi consistenti. La sua particolarità si basa soprattutto sulla apertura “a compasso”: una struttura originale ed esclusiva, che ha richiesto soluzioni altrettanto innovative, per dotare il treppiedi di gambe con apertura ad angolazione variabile a tre posizioni (condizione indispensabile per programmare riprese fotografiche e video dal basso) e colonna centrale aggiuntiva. Già articolata su vari modelli (in alluminio e in fibra di carbonio), la serie di treppiedi Benro Flat si arricchisce, quindi, della configurazione compatta Flat Mini, realizzata in esclusiva per il
distributore italiano Rinowa. La struttura in alluminio e magnesio si avvale di gambe a quattro sezioni telescopiche. Dalla lunghezza di soli 38cm (quando il treppiedi è chiuso, e a riposo), si arriva all’altezza operativa di circa 80cm, alla massima estensione, con capacità di sostegno fino a sei chilogrammi. Come accessorio opzionale, è altresì disponibile una colonna estensibile aggiuntiva, che porta l’altezza totale del treppiedi a oltre un metro. Da cui e per cui, è possibile posizionare la macchina fotografica ad altezze comprese tra otto centimetri e un metro. Ovverosia, con una gamma di posizioni idonea e adeguata a ogni tipo di impiego in natura, dal paesaggio all’avvicinamento macro. Il Benro Flat Mini è disponibile in kit, con testa a sfera Benro N0, dotata di doppio comando di blocco/sblocco e frizione, e piastra “quick” standard QR. Una pratica custodia in panno e i puntali intercambiabili in acciaio completano la dotazione. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
PUNTO FERMO (E DATATO)
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Qui e là, ne abbiamo già scritto. Ma oggi, in occasione dei duecento numeri di FOTOgraphia, e dei suoi coincidenti venti anni di edizione, è bene fermarsi a riflettere in generale, senza richiamare un solo film con presenza di fotografia. Invece, magari confermando e ribadendo osservazioni e valutazioni già espresse, a partire da altri richiami e riferimenti, è più opportuno e congeniale un punto fermo complessivo, che definisca una chiave di interpretazione e considerazione di ampio respiro, oltre che di adeguata consistenza. In assoluto, ribadiamo una nostra opinione sostanziale. A proposito di rappresentazione della fotografia nel cinema, oltre mille e mille altre sue presenze trasversali, nel bene come nel male, a ciascuno il suo, una linea di confine è stabilita dal leggendario Blow up, di Michelangelo Antonioni [la nostra più recente evocazione, in FOTOgraphia del settembre 2012]. Ancora, e anche qui, non entriamo nel merito dell’opera, quanto, più miratamente, continuiamo le “annotazioni a margine” attorno al personaggio fotografo rappresentato sul grande schermo. Comunque si guardi ai fatti e comunque si colleghino rapporti e relazioni (presunte oppure reali), ribadiamo la nostra ipotesi iniziale. La narrazione di Blow up si afferma come spartiacque, sia della più generale vicenda cinematografica della fotografia, sia della raffigurazione del suo mondo e dei suoi personaggi. La data è storica per molte ragioni. Soprattutto, all’alba del 1966, e grazie a questa produzione italo-britannica, per la prima volta, il fotografo diventa protagonista -diciamo cosìliberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene anche al pubblico, ovverosia diventa interprete di una angoscia da mass media. Ispirata al racconto Le bave del diavolo, di Julio Cortázar (sceneggiato da Michelangelo Antonioni con Tonino Guerra e Edward Bond), la vicenda del fotografo di moda londinese
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Suo malgrado, il leggendario film Blow up, di Michelangelo Antonioni, del 1966, ha stabilito una linea demarcatoria per la presenza della fotografia e del fotografo al cinema. Pur essendosi proposto come profonda osservazione e ampia riflessione, ha lasciato soprattutto l’apparenza del fotografo sessuomane.
che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «È una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti: Dizionario dei film; Baldini & Castoldi, dal 1993). Rivista oggi, questa testimonianza sull’angoscia esistenziale contemporanea ha francamente perso un poco della sua sottigliezza originaria e ha smarrito per strada pure la persuasione dei propri primi giorni di proiezione. Anche se il film è considerato un capolavoro della cinematografia italiana, le schematizzazioni narrative sono precocemente appassite. Però, ai propri tempi, Blow up ottenne un grande successo, soprattutto relativamente ai contenuti più
facili: nel clima della swinging London, il fascino del presunto giovane fotografo di moda circondato da incantevoli modelle, peraltro disponibili a incontri ravvicinati (una giovanissima Jane Birkin tra i fondali di carta), attorniato da donne intriganti e altrettanto disinibite (per motivi suoi, Vanessa Redgrave), in perenne movimento tra ambienti affascinanti, raggiunti al volante di una RollsRoyce decappottabile. A conseguenza, Blow up va considerato discriminante anche per la semplificazione scenica che ha finito per influenzare tanto brutto cinema. Alla rappresentazione di Blow up va dunque addebitata la linea discriminatoria tra una visione della fotografia precedente e una seguen-
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Con Blow up, per la prima volta, il fotografo diventa protagonista liberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene al pubblico, ovverosia diventa interprete di una angoscia da mass media (a sinistra, il protagonista David Hemmings, nei panni di Thomas, con la modella Veruschka von Lehndorff, che interpreta se stessa). A seguire, perfide frequentazioni cinematografiche del fotografo sporcaccione: in ordine sparso, Le foto di Gioia (1987), Vergogna schifosi (1969), Le foto proibite di una signora per bene (1971), Fotografando Patrizia (1984) e Sotto il vestito niente (1985).
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te. In particolare, gli va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings, senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi.
ROBUSTE OSCENITÀ All’indomani di Blow up, in un tempo di grandi sommovimenti, ma di inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale: «Il fotoamatore è diventato un maniaco sessuale, un appassionato del coito ripreso con la macchina fotografica», ha presto rilevato Maurizio Porro, su Photo 13, dell’ottobre 1971. Il giovane playboy di Una storia d’a-
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In Legittima difesa, di Henri-Georges Clouzot, del 1947, la prima figura di donna fotografa nel cinema si accompagnò con una oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale più che immorale e -novità per il cinema di allora- dedito ad amori omosessuali. La fotografa Dora Monier fu interpretata dall’attrice Simone Renant.
more, di Michele Lupo (Italia, 1969), campa seducendo e fotografando belle signore, che poi vengono ricattate. Circa lo stesso accade anche in Una lucertola con la pelle di donna, di Lucio Fulci, con Florinda Bolkan e Jean Sorel (Italia, 1971), dove si registra anche la variante dell’amore particolare. Invece, Le foto proibite di una signora per bene, di Luciano Ercoli (Italia, 1971), proposero l’aggravante sadica, che però era già stata superata dal ricatto foto-erotico con slittamento verso l’omicidio di Vergogna schifosi, del 1969 (con Lino Capolicchio, regia di Mauro Severino). I titoli dei film di questa genìa rivelano subito la propria inconsistenza. Tanto è vero che ricordiamo perfettamente un equivoco di quegli anni, quando l’ottimo Diario di una casalinga inquieta (Usa, 1970) venne inizialmente veicolato attraverso un canale di sale equivoche; invece, la vicenda con Richard Benjamin aveva nulla di morboso, ma si trattava, più concretamente, di un crudo ritratto della bor-
ghesia newyorkese rampante. Con un salto temporale di una quindicina di anni, la fenomenologia porno-fotografica si abbinò, successivamente, al filone del film pseudo erotico italiano. In Fotografando Patrizia, nel 1984, Salvatore Samperi, maestro del cinema di “pruderie”, presentò un sesso raccontato e spiato attraverso il torbido rapporto tra una sensuale donna di successo (Monica Guerritore) e il fratello minore, introverso, ipocondriaco e pornofilo. Poco dopo, con Le foto di Gioia, del 1987, Lamberto Bava portò sullo schermo un cast di grande richiamo sessuomane: Serena Grandi, (Capucine), Daria Nicoldi e Sabrina Salerno sono al centro di una contorta storia imperniata su una serie di barbari omicidi compiuti nella villa-studio di una piacente proprietaria di una rivista per soli uomini. Questo è pure il motivo conduttore, oppure il pretesto, delle due puntate di Sotto il vestito niente, con le quali Carlo Vanzina, prima (1985), e
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Dario Piana, poi (1988), hanno raccontato un certo mondo della moda e delle top model, che proprio allora cominciavano a contendere alle attrici internazionali il palcoscenico dello star system. Se possibile, Sotto il vestito niente 2 è addirittura peggiore del film originario, che era stato tratto dall’omonimo pasticciatissimo giallo parapsicologico di Marco Parma (pseudonimo usato da Paolo Pietroni, allora direttore di Max).
ALLEGRI PRECEDENTI È un vero peccato che Blow up abbia innescato questa volgare escalation -che magari sarebbe anche nata da sola-, perché il sottile tema dell’equivoco rapporto potenzialmente stimolato dalla macchina fotografica e dalle sue applicazioni ha sempre trovato una ospitalità cinematografica soprattutto compiacente e garbata. Certo, l’apparizione sullo schermo della prima figura di donna fotografa, in Legittima difesa, di Henri-Georges Clouzot (Francia, 1947),
si accompagnò con una oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale più che immorale e -novità per il cinema di allora- dedito ad amori omosessuali. Però, bisogna considerare che il regista calcò i toni per sottolineare i pericoli e le nefandezze che si possono commettere sull’onda di un isterismo collettivo, ben noto a chi, come lui, era stato messo al bando (accusato di filonazismo) più per esaltazione e fanatismo che per prove reali. Per cui, le tinte fosche del pessimismo di Henri-Georges Clouzot non modificano il giudizio sulla grande stagione del più sereno e corretto accostamento cinematografico tra la fotografia e la sua implicita proprietà indagatrice, magari anche erotica o pseudo tale o garbatamente tale, che si è esteso nei decenni e che non si è lasciato coinvolgere nei facili e banali slittamenti che abbiamo appena commentato, ma che si è mantenuto simpaticamente ammiccante. Per esempio, il gustoso breve
Cult cinematografico, La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock, del 1954, si segnala anche per particolari scelte tecniche, tra le quali spicca la scenografia unica, che impone allo spettatore di guardare tutto dal punto di vista del protagonista: James Stewart, nei panni del fotogiornalista L. B. “Jeff” Jefferies, costretto all’immobilità da un incidente (qui con la fidanzata Grace Kelly, nei panni della redattrice di moda Lisa Carol Fremont), che scopre un assassinio spiando con il teleobiettivo nel cortile di casa.
sketch di Totò-Don Felice Sciosciammocca, scrivano con licenza di fotografare di Miseria e nobiltà (Italia, 1954 [ FOTOgraphia, settembre 2008]), inserisce la fotografia in un garbato tentativo di seduzione: in fondo, l’elemento discriminatorio della scena è più l’avvenente sposina che non la macchina fotografica, sublime pretesto. Curiosamente, Totò interpretò ancora un fotografo nello stesso anno, per l’episodio La macchina fotografica che fa parte del corpus di Tempi nostri (Zibaldone n. 2), di Alessandro Blasetti: qui, il comico napoletano cerca di accedere alle grazie di Sophia Loren, presente pure nel cast di Miseria e nobiltà, ma viene beffato da un furbastro che sfrutta le pose lunghe per rubargli la macchina fotografica. Un ulteriore momento fotografico di Totò fa capolino in Totò, Vittorio e la dottoressa (Italia, 1957), nel quale, nel corso di un pedinamento, due improvvisati investigatori privati, Michele Spillone detto Mike (Totò) e Gennaro detto Johnny (Agostino Salviet-
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Cinema sto transfert porta il protagonista verso una crisi che investe tutto il proprio rapporto con la realtà, fino a condurlo, appunto, al suicidio. Tanto per approdare alla raffigurazione scenica del cineamatorismo che confina con il fotoamatorismo, che dire del leggendario L’occhio che uccide, di Michael Powell (Gran Bretagna, 1960)? Qui, addirittura, la cinepresa è strumento di morte usata anche per riprendere il terrore delle vittime che si rendono conto di ciò che sta succedendo. Metafora sull’arte della visione, l’opera di Michael Powell è anche un geniale saggio sul cinema come voyeurismo, in questo caso arricchito di necrofilia e scopofilia: il bisogno morboso di contemplare, anche attraverso la mediazione di strumenti tecnici, quali sono quelli cinematografici e quelli fotografici.
ti), fanno appunto uso di una attrezzatura fotografica opportunamente camuffata: la macchina a soffietto sotto il cappello di Totò, il flash sotto quello del compare. E anche per Sophia Loren si possono individuare altre delicate squisitezze fotografico-cinematografiche, che riportano nel terreno del civile tentativo di seduzione. Peppino De Filippo è il fotografo con “l’occhio che scruta...” che la insidia in Il segno di Venere, di Dino Risi (Italia, 1955), film costruito su misura per Franca Valeri (Cesira), alla quale Sophia Loren fa da spalla. E poi, in La fortuna di essere donna, di Alessandro Blasetti (Italia e Francia, 1956), Sophia Loren finisce per innamorarsi del fotografo (Marcello Mastroianni), al quale avrebbe voluto far causa per una propria immagine finita sulla copertina di un rotocalco.
OSCURE AMBIGUITÀ Ma al cinema la complicità fotografica in tema di seduzione non è stata dipinta soltanto con le allegre tinte della commedia. Prima di fotografare giovani consenzienti, in Girolimoni, il mostro di Roma, di Damiano Damiani (Italia, 1972), Nino Manfredi aveva già interpretato anche un reporter che usa la fotografia per sedurre ragazzine desiderose di fare del cinema. Siamo nel pieno della vicenda che nel 1965 Antonio Pietrangeli raccolse in Io la conoscevo bene: acuto ritratto dell’Italia anni Sessanta, malinconico e cattivo, pieno di millantatori, arrivisti e volgari seduttori. Anche in Ci divertiamo da matti, di Desmond Davis (Gran Bretagna, 1967), il fotografo della swinging London è una specie di satiro che cerca di allettare, con l’inganno della fotografia pubblicitaria, due giovani ragazze di provincia appena approdate alla capitale. E in La ragazza con il bastone, di Eric Till (Gran Bretagna, 1970), David Hemmings ritorna a essere fotografo -come lo fu in Blow up, da cui abbiamo preso le mosse-, questa volta con componente delinquenziale.
DEVIAZIONI PARANOICHE Da queste confuse doppiezze all’autentico squilibrio, il passo è veramente breve: e ancora una volta tocca sottolineare il carattere comunque
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Nota tecnica, oltre che di costume: in La finestra sul cortile, per le sue osservazioni a distanza, il fotografo L. B. “Jeff” Jefferies (l’attore James Stewart) usa sempre una reflex Exakta con teleobiettivo Kilfitt Fern-Kilar 400mm f/5,6 (qui in un posato promozionale del film).
schizoide del protagonista di Blow up. Per quanto il gioco e la complicità della fotografia, soprattutto intima, magari tra partner e spesso polaroid, rappresenti un morbido collante in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri (1970), in Cattivi pensieri, di e con Ugo Tognazzi (1976), e in Kika, di Pedro Almodóvar (1993), dobbiamo registrare anche accelerazioni da psicanalisi. Nel suo La prigioniera, del 1969, il già citato Henri-Georges Clouzot (di Legittima difesa) dipinge il voyeurismo come una ragione estetica di vita. La vicenda è contorta: la moglie di un pittore si innamora di un mercante d’arte, con cui instaura un rapporto di totale dipendenza sessuale e psicologica. Lui ama fotografare le donne in pose oscene, e la giovane amante si adatta. Alla fine, in preda a complessi rimorsi, lei si uccide sotto un treno. Il suicidio è la conclusione (logica?) a cui approda anche Giochi particolari, velleitario film di Franco Indovina, girato in un’epoca nella quale il cinema italiano era concentrato nella descrizione minuziosa della crisi della coppia borghese (1971). Nonostante il cast e la sceneggiatura di Tonino Guerra, il film risultò subito approssimativo, e oggi dovrebbe fare addirittura sorridere. Marito annoiato, Marcello Mastroianni procura un amante alla moglie (nell’ordine, Timothy Dalton pre-007 e Virna Lisi), per poterli filmare mentre fanno l’amore. Que-
PACATE OSSERVAZIONI Del resto, prima di Michael Powell, nel proprio periodo americano, un altro celeberrimo regista inglese aveva messo in scena le complesse relazioni che legano l’apparecchio fotografico alla voglia di guardare, ovverosia spiare (attività nella quale lo stesso Alfred Hitchcock si dilettava). Ecco quindi che un fotoreporter immobilizzato da un incidente sul lavoro usa il teleobiettivo per scrutare l’intimità degli appartamenti di fronte al suo. Ambientato al Greenwich Village, di New York, quando era ancora un’area povera, La finestra sul cortile, del 1954, è più che un classico: addirittura è un cult, sia per gli amanti del film giallo, sia per chi si occupa di fotografia, sia per i cinefili [ FOTOgraphia, marzo 2007]. Infatti, il film si segnala anche per particolari scelte tecniche, tra le quali spicca la scenografia unica, che impone allo spettatore di guardare tutto dal punto di vista del protagonista: James Stewart, che scopre un assassinio e che resiste a una aggressione difendendosi a colpi di flash a lampadine, che accecano il pur coriaceo Raymond Burr. Note di cronaca spicciola: all’inizio del film, su un tavolo, si intravede una Speed Graphic, mentre per le sue osservazioni a distanza, James Stewart usa sempre una reflex Exakta con teleobiettivo Kilfitt Fern-Kilar 400mm f/5,6. Punto fermo (e datato). ❖
Maggio 1994 - aprile 2014: Duecento numeri di FOTOgraphia, venti anni di edizione. Con l’occasione, una considerazione e una riflessione, in questo ordine. Considerazione sulle trasformazioni indotte alla Fotografia in questi venti anni: determinata dall’acquisizione e gestione digitale delle immagini, una nuova prospettiva distingue l’attualità fotografica da quanto è esistito prima. Non sono cambiate le fotografie, ma si è trasformata la loro realizzazione. Oggigiorno, l’esaurimento delle competenze tecniche necessarie per governare gli utensili ha portato in primo piano l’Immagine. Riflessione: nello spirito che la Fotografia sia sempre fantastico s-punto di partenza, mai arido punto di arrivo, non conta mai ciò che si è fatto, ma quello che non si è stati capaci di fare. Sempre
DUECENTO di Maurizio Rebuzzini (Franti)
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olto dipende da quale e con quale prospettiva si osservano gli accadimenti. Forse, tutto dipende da questo. Al ritmo di dieci edizioni annuali, la meta di Duecento numeri di FOTOgraphia, conteggiati dall’Uno del maggio 1994, stabilisce la successione e il trascorso di venti anni di Riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia. Nel proprio microcosmo rappresentativo (e, anche, esemplare) di altri e alti svolgimenti esistenziali, anche (soprattutto) per la Fotografia sono stati venti anni di profonde trasformazioni: che dai modi si sono proiettate/allungate sulla concretezza tutta del lessico (perché si fotografa oggi). Certo: come molti aspetti e fenomeni della Vita, la Fotografia non rappresenta una sovrastruttura fondante e portante, ma si adegua, si deve adeguare, al ruolo canonico ed esistenziale di infrastruttura. Altrettanto certo: al pari e in comunione con molti aspetti e fenomeni della Vita -ciascuno per sé, ma, alla resa dei conti, tutti assieme-, anche l’infrastruttura della Fotografia subisce e crea -allo stesso tempo- le condizioni e le evoluzioni (anche involuzioni, per qualche verso) e le trasformazioni di molti aspetti e fenomeni della Vita. In questo senso, il giornalismo fotografico ha un dovere... dovrebbe averlo: quello di passare dalle registrazioni in cronaca (siano anche solo tecnologiche) alle rispettive conseguenze e consecuzioni. Da parte nostra, questo è quanto siamo convinti di aver fatto. E speriamo vivamente di averlo fatto. Prova ne è che l’edizione di FOTOgraphia si è trasformata, giornalisticamente ed editorialmente, in relazione e dipendenza ai cambiamenti. Per dirne una, che è poi la sostanza di tutto, partiti nel maggio 1994 con dichiarate intenzioni rivolte alla fotografia professionale (utensili, loro proficuo impiego e logiche del mestiere), lungo il percorso abbiamo via via modificato/adattato le nostre statutarie Riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia. Diciamola meglio, forse: all’inizio, abbiamo agito in tempi nei quali alcune discriminanti quoti-
diane e assolute passavano anche attraverso l’applicazione consapevole e capace di talune mediazioni tecniche. Ora, esaurito quel mondo, è più tempo di ragionare attorno la Fotografia nel proprio insieme, a partire dal linguaggio in trasformazione, piuttosto che sugli strumenti, che non offrono più margini per considerazioni, oltre l’annotazione delle rispettive caratteristiche e capacità operative... esplicite e manifeste. Da questo punto di vista, osservazione, valutazione e considerazione, qual è la differenza, tra la situazione di due decenni fa e quella di oggi? Tante ce ne sono, ma una è fondamentale: non c’è più necessità di conoscenze e competenze che sostengano l’azione tecnica rispetto le intenzioni espressive. Traduzione: a parte applicazioni individuali e volontarie, slegate da qualsivoglia adempimento sostanziale, non c’è più necessità di conoscere a fondo l’affinità tra l’azione tecnica soggetto-inquadratura-prospettiva-fotografia, in rappresentazione della combinazione (a cui si aspira) soggetto-visione-percezione. Ovverosia, non si tratta più di risolvere anche l’equazione obiettivo-pellicola in ordine con occhio-cervello, ma -più direttamente (e concretamente?)- di assolvere la rappresentazione dell’emozione da proporre, suscitare e sollecitare. Determinata dall’acquisizione e gestione digitale delle immagini, questa nuova personalità fotografica è quella che oggi si esprime a diversi livelli, ed è quella che distingue l’attualità fotografica da quanto è esistito prima. Intendiamoci bene: non sono cambiate le fotografie, che tali ancora si presentano, inviolabilmente simili a se stesse da centosettantacinque anni, ma si è trasformata la loro realizzazione. Oggigiorno, volente o nolente, l’esaurimento delle competenze tecniche necessarie per governare gli utensili ha portato in primo piano l’Immagine, come mai è accaduto nei centosettantacinque anni precedenti, sempre in bilico tra mediazioni strumentali e risultati espressivi: questa è l’autentica rivoluzione/riflessione; il resto, a partire da tante discussioni pretestuose, è solo gioco dialettico a tutela e protezione di propri pre-concetti e preinteressi, tutti inviolabilmente fuori luogo e tempo. (continua a pagina 32)
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Dal punto di vista individuale, l’edizione di FOTOgraphia è stata avviata dopo precedenti venti anni (abbondanti) di impegni professionali e giornalistici, sostanzialmente nomadi. Per il direttore/editore Maurizio Rebuzzini, tutto è cominciato nel settembre 1972, con il primo contatto con la redazione del mensile Clic, appena acquisito da Etas Kompass, per la neocostituita divisione Etas Tempo Libero. Inizialmente, si trattò di compilare casellari per una guida commerciale intenzionata a scalfire il dominio dell’Almanacco di Fotografare: ma non successe nulla, e la Foto Cine Guida venne ignorata dal pubblico e abbandonata dall’editore. Da lì, comunque, il passaggio alla redazione; quindi, il trasferimento presso altre riviste di settore, a partire da Photo 13, diretta da Ando Gilardi e Roberta Clerici, ai tempi riferimento assoluto e prestigioso della riflessione fotografica. Ancora: altre redazioni, altre collaborazioni, altre esperienze. Appunto, fino a FOTOgraphia, originariamente indirizzata alle logiche della fotografia professionale, via via trasformatesi in considerazioni sull’espressività, il linguaggio, il costume e la storia della fotografia. Oggi: duecento numeri, dal maggio 1994, di origine.
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Per l’appunto: aprile 2014... numero Duecento di FOTOgraphia; in altri termini -coincidenti- venti anni di edizione della rivista. Tra tanto: venti anni di sostanziose trasformazioni tecnologiche, che hanno consistentemente influito sull’applicazione e, in allungo, sul linguaggio. Oggigiorno, non è più il caso di dibattere per contrapposizioni (e non è mai stato il caso di farlo); invece, è tempo di dare spazio a riflessioni che riguardino l’attenzione fotografica attuale, in relazione alle sue proiezioni e implicazioni sociali potenziali ed esplicite.
(continua da pagina 23) Sì: a questo dobbiamo oggi pensare, senza l’affanno o l’impiccio di altre mediazioni infrastrutturali. Che poi, alcuni di noi intendano ancora approcci tecnici conformi a realtà antiche... rimane un fatto personale e un accidente individuale, estraneo al percorso lineare e diretto dell’evoluzione (inevitabile) del linguaggio e della socialità della fotografia, a partire dalle proprie modalità di realizzazione. Ecco dunque che, per esemplificare, ancora si possono applicare i passi cadenzati della fotografia con apparecchi a corpi mobili, per lo più con pellicola (piana) di dimensioni generose, ma non sono queste resistenze personali a stabilire alcuna differenza, alcuna attualità. In questo senso, non serve neppure sottolineare che, in tempi ormai remoti, proprio le nostre pagine hanno spesso affrontato con determinazione (e competenza, lo affermiamo senza alcuna autoreferenzialità) le logiche di impiego degli apparecchi a corpi mobili. Non è necessario tornare alle considerazioni secondo le quali i piani principali degli apparecchi a corpi mobili possono essere governati per il controllo della resa prospettica e della distribuzione della nitidezza sull’intero campo inquadrato (oppure, a propria volontà, per la contrazione consapevole della stessa nitidezza). Casomai, se servirà farlo ancora, non saranno più considerazioni finalizzate alla spesa quotidiana, all’applicazione necessaria, ma al piacere personale di altri tempi e modi fotografici. A ciascuno, il proprio. Quindi, oggi, alla meta di Duecento numeri di FOTOgraphia (venti anni di edizione), confermiamo, ribadendola, una considerazione che ha accompagnato trasversalmente tutte il nostro Riflettere, osservare e commentare la Fotografia: magari forti di esperienze del passato (ognuno ha le proprie), è la decifrazione del presente proiettato al futuro che compone i tratti dell’autentica differenza, che dà senso, spirito e valore a qualsivoglia impegno individuale. Da parte nostra, sentiamo che giornalisticamente dobbiamo svolgere proprio questa funzione sollecitante e in promozione e in approfondimento della Fotografia, alla quale (funzione) offriamo un punto di vista mai condizionato da rancori, livori e risentimenti del momento, da protezioni di qualsivoglia altro equilibrio. Nel conteggio, offriamo venti anni di questa disciplina, che abbiamo rispettato e onorato (ne siamo convinti) con irrinunciabile onestà intellettuale. Quindi, se è il caso di ripensare a questo lungo tempo, peraltro coincidente con evoluzioni e trasformazioni radicali, ancora una volta, va annotata la necessità di ragionare nel concreto, a partire dalla condizione che il nostro microcosmo ha (comunque) manifestato termini identici a quelli con i quali si è espressa la società contemporanea nel proprio insieme e complesso.
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Per esemplificare, quando noi cominciammo, nel maggio 1994, la produzione formale della rivista dipendeva da una serie di fornitori di servizi, che è stata successivamente e sistematicamente eliminata dalle possibilità offerte dalle tecnologie produttive che sono subentrate. Oggigiorno, la rivista è confezionata con un limitato numero di persone/contributi e risolta da un computer adeguato. Però, microcosmo nel macrocosmo, non possiamo dimenticarci, né tantomeno sottovalutare, che questo ha minato/eliminato posti di lavoro e, in altra considerazione, professionalità specifiche. Tanto che molte brutture dei nostri giorni, specifiche e presto individuate (sia fotografiche, sia di contorno), dipendono anche dalla contraddittoria consecuzione che confonde la proprietà dei beni strumentali con la capacità (e competenza) si usarli. Ancora microcosmo nel macrocosmo: in questi venti anni di FOTOgraphia, a propria volta immediatamente seguenti altrettanti venti (abbondanti) di giornalismo fotografico nomade, tra varie testate di settore, abbiamo focalizzato come e quanto il nostro mondo sia analogo a qualsiasi altro. Non conta affatto che tutti noi abbiamo/avremmo modo di essere migliori, visto che trattiamo una materia straordinariamente nobile e affascinate (tanto per quantificare, estremamente diversa dalla biancheria pulita, che riguarda chi si occupa di elettrodomestici): viviamo in questa società e a questa rispondiamo. Quindi, eventuali considerazioni circa manchevolezze e debolezze del nostro comparto di riferimento e frequentazione, magari a partire dall’assoluta mancanza/assenza di riconoscenza e gratitudine (due cardini dell’esistenza), non sono così endemiche del solo mondo fotografico (come pure sono), quanto ereditate dalla vita sociale entro la quale agiamo. Chiusura d’obbligo: siamo fieri e orgogliosi dei nostri Duecento numeri, dei nostri venti anni; e non stiamo qui a sottolineare presunte intuizioni, anticipazioni, ispirazioni e altro, che probabilmente ci sono state: macchine fotografiche giocattolo, fine/inizio millennio, quattro colori in scomposizione, numero Nero [...]. Non ci interessano le brutte compagnie che abbiamo dovuto subire. Non ci rammaricano errori commessi, dai quali abbiamo imparato molto. Non rimpiangiamo nulla. Soltanto, sempre e comunque, sia chiara una condizione esistenziale sulla quale invitiamo a Riflettere, osservare e commentare. Nello spirito che la Fotografia sia sempre fantastico s-punto di partenza, mai arido punto di arrivo: non conta mai ciò che si è fatto, ma quello che non si è stati capaci di fare. Quello che hai fatto, te lo puoi anche scordare; mentre, al contrario, quello che non hai fatto è scolpito nel cuore, e torna sempre nella mente. Sempre e in ogni istante di Vita. E su questo, ciascuno di noi deve agire. ❖
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World Press Photo of the Year 2014: John Stanmeyer, Usa, VII per National Geographic. 26 febbraio 2013, Djibouti City, Gibuti; migranti che stanno cercando campo telefonico per parlare con i loro cari rimasti a casa.
Quante storie di Uomini dietro una fotografia! Ma anche quanta arte. Lo stile della World Press Photo of the Year 2014, del fotogiornalista statunitense John Stanmeyer, basato in Asia, ricorda l’illusionismo onirico dei quadri notturni di René Magritte: non solo fa emergere i sentimenti dell’Uomo, ma rimanda oltre e avanti... ai lati misteriosi dell’Universo. È la presenza di quella straordinaria luna nel cielo a suggerirlo. È la luce degli schermi dei telefonini, che sembrano catturare la luce della luna, a testimoniarlo. È la ricerca dei fili immateriali e invisibili che ci possono collegare alla nostra casa a confermarlo. Una volta ancora, una volta di più, mai una di troppo... missione della fotografia è anche quella di spiegare l’Uomo all’Uomo! E ogni Uomo a se stesso (sempre, da e con Edward Steichen) di Lello Piazza uardo e riguardo la fotografia vincitrice del World Press Photo 2014, sul 2013, conclusosi a marzo con la proclamazione dei vincitori. Non dovrebbe servire, ma non si sa mai. Dunque, sottolineo e ribadisco che il World Press Photo è il più importante, più prestigioso e più credibile concorso di fotogiornalismo che abbiamo. Ogni inizio anno, premia il reportage dei dodici mesi precedenti, scomponendolo in categorie di riferimento, per ciascuna delle quali è prevista la doppia formula della fotografia singola (Singles ) e della storia raccontata, per l’appunto Stories. A monte di tutto viene,
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quindi, indicata e segnalata una fotografia vincitrice in assoluto. E a questa, mi sto riferendo. L’autore della World Press of the Year 2014, ovverosia dello scatto dell’anno, è John Stanmeyer. Ecco cosa dice di lui il sito di National Geographic Magazine, al quale il fotogiornalista statunitense collabora con regolarità: «John Stanmeyer è co-fondatore della VII, un’agenzia di proprietà dei fotografi che l’hanno creata, specializzata in temi riguardanti l’ambiente, la società, la guerra [FOTOgraphia, settembre 2002, febbraio 2004, marzo 2004 e luglio 2007]. Dal 1998, John è fotografo a contratto per Time. Nato negli Stati Uniti, vive in Indonesia. Negli ultimi anni, si è dedicato in modo particolare a problemi riguardanti l’Asia. Sta lavorando a due progetti, che saran-
STORIA
DAL MONDO
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Primo premio General News Singles: Alessandro Penso, Italia, OnOff Picture. 21 novembre 2013, Sofia, Bulgaria; centro per rifugiati, che ospita circa ottocento siriani, trecentonovanta dei quali bambini, avviato il precedente settembre. Secondo premio General News Stories: William Daniels, Francia, Panos Pictures per Time. 17 novembre 2013, Repubblica Centrafricana; folla di dimostranti a Bangui, durante una protesta volta a richiedere le dimissioni del presidente ad interim Michel Djotodia, dopo l’assassinio del giudice Modeste Martineau Bria da parte dei membri di Seleka, organizzazione islamica che avversa la maggioranza della popolazione cristiana del paese.
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Primo premio Spot News Singles: Philippe Lopez, Francia, Agence France-Presse. 18 novembre 2013, Tolosa, Filippine; superstiti del tifone Haiyan, durante una processione religiosa.
Primo premio Spot News Stories: Goran Tomasevic, Serbia, Reuters. 30 gennaio 2013, Damasco, Siria; nascosti tra le rovine delle case di Ain Tarma, un sobborgo di Damasco, alcuni ribelli si proteggono dai detriti sollevati dall’esplosione di proiettili sparati contro di loro da un carro armato dell’esercito siriano.
no pubblicati in monografia: uno sull’Aids in Asia, l’altro sui cambiamenti in corso in Indonesia dal 1997 [l’anno che ha preceduto le dimissioni del dittatore Suharto, al potere dal 1967 al 1998]». Vincitore di molti premi -tra i quali i prestigiosi, autorevoli e qualificati Robert Capa Gold Medal Award, nel 2000, PoYi (Pictures of the Year International Competition: primo assoluto, nel 1999; secondo assoluto, nel 2001; terzo assoluto, nel 2002; più altre affermazioni di categoria negli anni) e World Press, in diverse sezioni-, il suo lavoro è noto in tutto il mondo. Inoltre, come scrittore, John Stanmeyer ha pubblicato anche articoli su National Geographic, riguardanti gli aiuti umanitari e la malaria. Dunque, un curriculum di tutto rispetto. Tornando alla fotografia che si è affermata come World Press of the Year 2014, che gli ha permesso
di essere nominato fotogiornalista dell’anno al World Press Photo 2014, sul 2013, ecco come hanno commentato due membri della giuria. Jillian Edelstein, affermata fotografa freelance, specializzata in ritratti, ha annotato: «Questa immagine iconica di un attimo di pace lungo le tragiche rotte delle moderne migrazioni narra dei sentimenti di ogni essere umano, in cui mai viene meno il desiderio di collegarsi ai propri cari rimasti a casa. Questa immagine ci parla, dunque, di umanità universale. È un’immagine di speranza». Jillian Edelstein ha poi aggiunto: «Questa fotografia propone molte tematiche di grande attualità, che riguardano la tecnologia e la vita: globalizzazione, telefonini, macchine fotografiche digitali, migrazioni, povertà, disperazione, alienazione, senso di appartenenza a un’umanità più grande. È un’immagine sofisticata e potente, al contempo
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Secondo premio Spot News Stories: Tyler Hicks, Usa, The New York Times. 21 settembre 2013, Nairobi, Kenya; una donna e un bambino cercano di proteggersi, nascondendosi, dal fuoco degli attentatori, nell’attacco al Westgate Mall, dove trentanove civili sono stati uccisi nel piÚ tragico attacco terroristico nella storia del paese.
Terzo premio Contemporary Issues Singles: Christopher Vanegas, Messico, La Vanguardia / El GuardĂan. 8 marzo 2013, Saltillo, Coahuila, Messico; scena del crimine: la polizia ha appena scoperto cinque cadaveri, due dei quali impiccati a una parete, uccisi in uno scontro tra organizzazioni criminali.
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Primo premio Contemporary Issues Stories: Sara Naomi Lewkowicz, Usa, Time. 17 novembre 2012, Lancaster, Usa; durante una furiosa discussione familiare, Shane urla a Maggie che può scegliere tra essere picchiata lì in cucina o scendere con lui in cantina, per continuare a litigare senza che nessuno possa vederli.
Primo premio Daily Life Singles: Julius Schrank, Germania, De Volkskrant. 15 marzo 2013, Birmania; bevendo e cantando, soldati delle forze ribelli, che combattono per l’indipendenza dello stato del Kachin (Birmania), celebrano il funerale di uno dei loro generali, morto il giorno prima durante un attacco dell’esercito birmano.
poetica, piena di significati, in grado di riassumere con solennità le grandi paure del mondo d’oggi». Il fotografo David Guttenfelder, responsabile di Associated Press Asia, conosciuto per intensi reportage dalla Corea del Nord, ha dichiarato: «Questa fotografia è come un messaggio lasciato in una bottiglia affidata al mare, che vivrà più a lungo di tutti noi». Sentiamo invece cosa ha annotato l’autore, John Stanmeyer: «È un grande onore per me aver vinto il World Press Photo con questa immagine, con la quale ho inteso comunicare che lì, con quei telefoni alzati, ci potrebbe essere ciascuno di noi. Ciascuno di noi che, lontano da casa, cerca nell’etere un ponte immateriale per raggiungere i propri cari lontani». Poi, ha raccontato come si è trovato nel posto giusto al momento giusto: «Avevo passato più di un mese in Etiopia, girandola in lungo e largo a piedi e
in automobile, su incarico di National Geographic, per documentare la migrazione umana dall’Africa. Alla fine, sono arrivato a Djibouti [Gibuti]. Una sera, stavo camminando lungo la spiaggia in cerca di momenti da fotografare, e parlavo con Paul Salopek, il giornalista che mi accompagnava, incaricato di scrivere la storia del servizio fotografico che stavo producendo. Stavamo commentando con ironia il fatto che sessantamila anni fa un ponte di terra univa l’Africa alla Penisola Arabica, e il mare non avrebbe potuto interrompere il cammino dei migranti verso il Medio Oriente. Poi, ho visto alcune persone sulla spiaggia, e ho chiesto al mio interprete cosa stessero facendo. Mi rispose che erano migranti che stavano cercando campo telefonico per parlare con i loro cari rimasti a casa. Nel mio lavoro, mi sono tro(continua a pagina 45)
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I NUMERI DEL WPP 2014
Creata nel 1955, la World Press Photo Foundation è una istituzione internazionale senza fini di lucro, che ogni anno organizza il più prestigioso concorso di fotogiornalismo a livello mondiale: per l’appunto, il World Press Photo (www.worldpressphoto.org). Per l’attuale cinquantasettesima edizione del concorso, datata 2014, per fotografie realizzate nel 2013, sono state sottoposte alla giuria quasi centomila immagini (98.671), inviate da oltre cinquemila fotogiornalisti professionisti (5754), di centotrentadue nazionalità. La competizione è stata divisa in nove categorie: General News, Spot News, Contemporary Issues (reportage d’attualità), Daily Life (vita quotidiana), Sports Action, Sports Feature (sport in primo piano), Observed Portraits (ritratti in presa diretta), Staged Portraits (ritratti posati) e Nature. Ogni categoria segnala un primo, secondo e terzo premio, sia per lo scatto singolo (Singles), sia per un servizio composto da più immagini (Stories). Solo il primo premio è in denaro: millecinquecento euro; la World Press Photo of the Year riceve, invece, diecimila euro. La giuria, che ha lavorato due settimane per raggiungere le decisioni finali, è stata composta da diciannove membri e presieduta da Gary Knight (Inghilterra), tra i fondatori dell’agenzia VII: Daniel Beltrá (Spagna / Usa), fotografo; Luciano Candisani (Brasile), fotogiornalista naturalistico; Jillian Edelstein (Inghilterra / Sudafrica), fotografa; Alessia Glaviano (Italia), senior photo editor di Vogue Italia e L’Uomo Vogue; David Guttenfelder (Usa), capo dei fotografi della Associated Press Asia; Tom Jenkins (Inghilterra), fotografo di sport; Hideko Kataoka (Giappone), photo editor di Newsweek Japan; Rosamund Kidman Cox (Inghilterra), former editor di BBC Wildlife; Koyo Kouoh (Camerun), fondatore e direttore artistico di Raw Material Company; Adrees Latif (Pakistan / Usa), fotografo e photo editor di Reuters Usa; Susie Linfield (Usa), professoressa associata della New York University (autrice dell’ottimo The Cruel Radiance: Photography and Political Violence, pubblicato dall’University of Chicago Press, nel 2012); Miriam Marseu (Usa), photo editor di Sports Illustrated; Daniel Merle (Argentina), picture editor; Kerim Okten (Turchia), fotografo; Terence Pepper (Inghilterra), consulente della National Portrait Gallery; Marie Sumalla (Francia), photo editor di Le Monde; Newsha Tavakolian (Iran), fotografo; Francesco Zizola (Italia), fotografo dell’agenzia Noor Images. Sono stati premiati cinquantatré fotografi, di venticinque nazionalità: Argentina, Australia, Azerbaijan, Bangladesh, Bulgaria, Cina, Repubblica Ceca, El Salvador, Finlandia, Francia, Germania, Giordania, Inghilterra, Iran, Italia, Messico, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Russia, Serbia, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica e Svezia. Al World Press Photo 2014 si sono affermati tre fotografi italiani: Bruno D’Amicis, Gianluca Panella e Alessandro Penso. Tutte le foto premiate sono pubblicate in www.worldpressphoto.org/awards/2014. A cura dell’Agenzia Contrasto(www.contrasto.it), viene pubblicato il catalogo in edizione italiana: World Press Photo 2014, a cura di Kari Lundelin; 154 fotografie; 160 pagine 23x27,9cm; 25,00 euro. La mostra itinerante delle fotografie vincitrici è prevista in quarantacinque paesi, per un totale di oltre cento allestimenti. In Italia, sostanziale contemporanea, a cura dell’Agenzia Contrasto: al Museo di Roma in Trastevere, in piazza Sant’Egidio 1b, dal tre al ventitré maggio (martedì-domenica, 10,00-20,00); alla Galleria Carla Sozzani, in corso Como 10, a Milano, dall’undici maggio all’otto giugno (lunedì, 15,30-19,30; martedì, 10,30-19,30; mercoledì e giovedì, 10,30-21,00; venerdì, sabato e domenica 10,30-19,30). Quindi, la stessa mostra verrà allestita a Lucca, il prossimo novembre, nell’ambito del qualificato Photo Lux (www.photoluxfestival.it).
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Primo premio Observed Portraits Stories: Carla Kogelman, Olanda. 19 luglio 2012, Merkenbrechts, Austria; le sorelle Hannah e Alena ritratte nel villaggio di campagna di Merkenbrechts.
(pagina accanto, in alto) Primo premio Daily Life Stories: Fred Ramos, El Salvador, El Faro. 10 agosto 2013, San Salvador, El Salvador; scheda della polizia. Data del ritrovamento: Primo febbraio 2013, ore 15,45 / Località: piantagione di zucchero a Apopa, San Salvador, El Salvador / Sesso: femminile / Età: tra diciassette e diciotto anni / Momento della scomparsa: non disponibile. Il triangolo che riunisce Honduras, Guatemala e El Salvador rappresenta una delle regioni più violente del mondo. Nella maggior parte dei casi, le vittime possono essere identificate solo attraverso i propri abiti.
(pagina accanto, in basso) Terzo premio Sports Action Stories: Quinn Rooney, Australia, Getty Images. 27 aprile 2013, Adelaide, Australia; l’australiano Daniel Arnamnart durante la gara dei cento metri dorso, degli Australian Swimming Championships, che si sono tenuti presso il SA Aquatic and Leisure Centre, di Adelaide, in Australia.
Secondo premio Staged Portraits Stories: Denis Dailleux, Francia, Agence Vu. 3 febbraio 2011, Cairo, Egitto; Ali, un culturista egiziano, posa con la madre.
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Primo premio Nature Stories: Steve Winter, Usa, per National Geographic. 2 marzo 2013, Los Angeles, Usa; un puma sorpreso da una trappola fotografica lungo un sentiero del Griffith Park, a Los Angeles. Questo parco, dove il puma ha vissuto negli ultimi due anni, è situato tra le due più trafficate autostrade degli Stati Uniti. In questi anni, i puma godono di una relativa crescita numerica, dovuta al fatto che hanno saputo adattarsi a vivere ai bordi delle zone suburbane delle città della California.
Terzo premio Nature Stories: Christian Ziegler, Germania, per National Geographic. 25 gennaio 2011, Congo; un bonobo di cinque anni, il più confidente del suo gruppo, fotografato presso la Kokolopori Bonobo Reserve.
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Primo premio Observed Portraits Singles: Markus Schreiber, Germania, Associated Press. 13 dicembre 2013, Pretoria, Sudafrica; una donna mostra il proprio disappunto per non essere riuscita a entrare nell’Union Buildings, di Pretoria, dove, per tre giorni, era stata allestita la camera ardente di Nelson Mandela.
Primo premio Staged Portraits Singles: Brent Stirton, Sudafrica, per Getty Image. 25 settembre 2013, Bengala Occidentale, India; un gruppo di ragazzi albini e ciechi fotografati nella missione di Vivekananda, dove ha sede una delle rarissime scuole indiane per ciechi.
(continua da pagina 41) vato decine di volte in quelle condizioni. Mi sentii uno di loro. Li ho interpellati. Per ovvie ragioni, erano restii a farsi fotografare. Ma la notte e la mia inquadratura avrebbero protetto le loro identità». Confesso che a me questa fotografia piace molto. E, soprattutto, mi piace la storia che c’è dietro. Quante storie di Uomini dietro una fotografia! Ma anche quanta arte. Lo stile non vi ricorda l’illusionismo onirico dei quadri notturni di René Magritte? Parafrasando quello che è stato scritto dal pittore belga, mi piacerebbe che mi lasciaste dire che questa fotografia non fa solo emergere i sentimenti dell’Uomo, ma rimanda oltre e avanti: ai lati misteriosi dell’Universo. È la presenza di quella straordinaria luna nel cielo a suggerirlo. È la luce degli schermi dei telefonini, che sembrano catturare la
luce della luna, a testimoniarlo. È la ricerca dei fili immateriali e invisibili che ci possono collegare alla nostra casa a confermarlo. John Stanmeyer riceverà i diecimila euro di premio durante la cerimonia dei Giving Awards, che avrà luogo il ventiquattro e venticinque aprile, ad Amsterdam. Una premiazione che questa volta vale il viaggio. Nota aggiuntiva, oltre che finale. Una persona cara, che non ho il permesso di nominare, mi ha fatto notare un’ulteriore qualità di questo scatto. Quella di mostrare un momento della vita dei migranti che, senza il tocco magico di John Stanmeyer, nessuno avrebbe mai scoperto. Quando mai, infatti, i migranti sono stati ritratti nella ricerca del filo invisibile e profondo che li lega ai loro amati rimasti a consumarsi, in ansiose paure, sulla soglia di una casa lontana? Missione della fotografia! ❖
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TOP TEN
(IN DOPPIO) di Angelo Galantini
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ncora va sottolineato come FOTOgraphia, che ha appena raggiunto i suoi (primi) venti anni di edizione, dal maggio 1994 di origine, sia una rivista che dà peso, senso e valore alla parola. Sia a seguito dell’inevitabile trasformazione di indirizzo -conseguente al mutamento di molte condizioni della fotografia contemporanea, ovviamente acceso e suscitato dalla travolgente evoluzione tecnologica-, sia in adempimento di altri doveri avvertiti (e ascoltati), la riflessione a partire dalla fotografia approfondisce una condizione esistenziale fondamentale: la Vita è altrove (negli affetti, prima di tutto), ma la stessa Vita è guidata, accompagnata e indirizzata da quanto ciascuno di noi fa giorno per giorno (magari per mangiare: distinzione d’obbligo). Dunque, in allungo, è plausibilmente vero e puntuale quanto annotato da altri (a partire da Lello Piazza, attento e fedele compagno di strada), secondo i quali, in queste pagine, tratteremmo appunto della Vita, magari anche solo a partire e con il pretesto della fotografia: s-punto privilegiato. In questo senso, non è facile isolare dalla quantità, dal totale, una serie di articoli pubblicati, per segnalarli sopra e avanti tutti. Subito, si potrebbe essere traviati, fino all’inganno, da ap-
parenze più forti delle altre, che così furono declinate, in cronaca. Sopra tutto, ricordiamo ancora la riflessione -in anticipo su tanti- sulla fotografia con apparecchi giocattolo (Gioco o son desto?; settembre 1998), le annotazioni di fine/inizio millennio (Salviamo il salvabile; dicembre 1999), l’edizione in quattro colori tipografici separati (Giallo, Magenta, Cyan, Nero; marzo 2001) e l’intraprendente numero Nero (Vogliamo parlarne?; aprile 2011). Però, così facendo, avremmo punito e puniremmo l’ammontare di parole convinte che si susseguono mese dopo mese, aggiungendosi le une alle altre. In effetti, non ci è facile indicare una graduatoria, e da questa eventualità ci teniamo ben distanti, ma ci è congeniale rimarcare ed evidenziare ancora come e quanto sia proprio la parola una delle discriminanti del nostro giornalismo, forse, a ben vedere, la discriminante del nostro giornalismo: soprattutto oggi, soprattutto in questo confuso momento, nel quale l’approssimazione e la non selezione e l’assenza di valori infrastrutturali di guida stanno condizionando la comunicazione, anche quella giornalistica (per l’appunto), o presuntamente tale. In ogni caso, per coincidenza numerica, venti anni di edizione, abbiamo reputato opportuno (necessario?) richiamare altrettanti venti testi pubblicati nel corso degli anni. Li presentiamo in queste pagine, in sintesi, che -comunque- non li scredita, né sva(continua a pagina 54)
Allora: riproponiamo all’attenzione venti testi, tra quanti pubblicati negli ultimi dieci anni, dal 2004 (sarebbe stato eccessivo retrocedere più indietro). Li consideriamo testimonianza palpitante del nostro modo di intendere, affrontare e svolgere la materia, che non si conclude alla Fotografia, ma da questa parte... come immancabile e irrinunciabile e non negoziabile s-punto privilegiato. Non si tratta di una selezione in alcun modo, né misura, graduatoria, ma di una distinzione che tocca diversi ed eterogenei punti di partenza, per comporre un complesso adeguatamente significativo 47
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Sessant’anni!, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, febbraio 2007). 21 febbraio 1947 - 21 febbraio 2007: la fotografia a sviluppo immediato compie sessant’anni. Ancora si impongono le considerazioni sulla magia dell’immagine che crea se stessa, sia nelle applicazioni quotidiane, sia nella fantastica proiezione verso la colta fotografia d’autore (arte e contorni). Dieci anni dopo la celebrazione dei primi cinquant’anni Polaroid, ricordati nel febbraio 1997, la ricorrenza dei sessant’anni cambia la propria declinazione. Infatti, nei recenti dieci anni appena trascorsi, la tecnologia fotografica è stata stravolta da interpretazioni e soluzioni che hanno dato avvio a una nuova era, che per semplificazione identifichiamo come digitale. In definitiva, sono stati dieci anni che hanno completamente stravolto ogni precedente equilibrio, avviando una serie di evoluzioni tecniche e, a conseguenza, operative. Molte delle precedenti certezze sono evaporate, se ne sono affacciate di nuove e la fotografia nel proprio complesso ha compiuto balzi in avanti più consistenti di quanti abbiano scandito i decenni precedenti. La rivoluzione digitale, riconosciamolo, ha rovesciato tutto, introducendo nuovi
parametri tecnici e commerciali. E poi anche sociali: discorso diverso, da affrontare in tempi e modi adeguati, in spazi preposti a questo. Quindi, l’attuale anniversario 21 febbraio 19472007 impone una riflessione che soprattutto ponga l’accento su come la fotografia a sviluppo immediato sia stata una delle grandi invenzioni del nostro tempo, e una invenzione discriminante dal punto di vista dell’evoluzione tecnologica della fotografia, con fantastiche proiezioni e consecuzioni nel costume e nel modo complessivo di intendere l’immagine. Ancora oggi, la stessa fotografia a sviluppo immediato, così particolare e autonoma nella propria espressione, continua a ribadire e affermare un insieme di singolarità assolute, sia nelle proprie peculiari applicazioni quotidiane (professionali e non), sia nelle interpretazioni di quegli artisti che fanno gesto, segno, significato dell’immagine pronta una manciata di secondi dopo lo scatto e, anche, del valore della copia unica. Tutte queste sono considerazioni che appartengono al fantastico cammino del linguaggio fotografico e all’affascinante storia di un pensiero visivo che nel corso dei decenni si è manifestato in opere che appartengono alla cultura contemporanea e alla socialità dei nostri tempi.
Qualcosa di travolgente (Photokina 2004), di Maurizio Rebuzzini e Alessandra Alpegiani (FOTOgraphia, novembre 2004). L’incontro tra tecnologie del presente, con inviolabili radici nella storia evolutiva della fotografia, e proiezioni in avanti è avvincente, addirittura entusiasmante (con franchezza). Dopo anni di incertezze, indecisioni e inesattezze perfino sostanziali, l’industria fotografica è avviata lungo una direttiva chiara e inequivocabile. Oggi è chiaro come l’industria produttrice possa dare risposte soddisfacenti; rimane da individuare la domanda potenziale. In una consistente misura, la parola passa all’Immagine, ovverosia al valore aggiunto che la fotografia può vantare, sia nell’esercizio non professionale, sia nell’impegno professionale. Oggigiorno, tutto è cambiato: gli equilibri sono slittati altrove. Ormai, le novità tecniche si alternano con un ritmo tale da non consentire a nessuno, né produttore né pubblico, di aspettare la cadenza biennale. Complice la rete Internet, le novità tecniche sono oggi annunciate in tempo reale e arrivano sul mercato a immediata conseguenza. Quindi, il ruolo delle fiere merceologiche è analogamente mutato, assumendo valori diversi, per indicazioni altrettanto differenti.
A dispetto di facili liquidazioni in superficie, la Photokina 2004 è stata autenticamente fantastica. Senza temere dibattiti sul tema, è stata la più bella Photokina tra quante viste negli ultimi trent’anni! Siamo pronti a difendere questa nostra visione, che qui andiamo a spiegare. Per la prima volta il mercato fotografico non ha presentato soltanto prodotti, più o meno nuovi, dipende dai punti di vista, ma ha addirittura rivelato la propria anima più profonda. [M.R.] Cosa mi aspettavo non lo so dire. In genere, in ogni esperienza, se riesco, mi impongo di non avere aspettative precise né disegni precostruiti, per poter vivere le novità nel modo più pulito possibile, non inficiato da preconcetti, da esprimere poi in lucidi giudizi. Cosa ho trovato, invece, adesso lo so. Innanzitutto, la Fotografia: quella che intendo io. L’ho respirata, assaporata, l’ho sentita aleggiare in superficie e nell’approfondimento dell’esposizione tecnica (ma non solo), che si è presto rivelata qualcosa di più di una semplice passerella commerciale. Anche se la scena ufficiale spetta alle attrezzature in quanto tali, la Fotografia è comunque trasversale, ovunque a ogni situazione, e non mi riferisco solo ai padiglioni fieristici di Colonia. [A.A.]
La vituperata fototessera, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, ottobre 2005). Mal considerata per tanto tempo, la fototessera sta recentemente vivendo una propria particolare stagione: colorata in toni alti e bassi (in alternanza). Non pensiamo che questo cambio di rotta sia merito del cinematografico Favoloso mondo di Amélie, che casomai ne è una registrazione, ma annotiamo una certa convergenza di manifestazioni; ognuna per proprio conto, ognuna a insaputa delle altre, si sono concretizzate idee riguardo la fototessera, che oggi censiamo e mettiamo in ordine per offrire all’insieme una contestualizzazione di significato, rappresentativa di un fenomeno che merita di essere annotato e sottolineato. Dovendo individuare un momento di passaggio, di transizione tra l’indifferenza diffusa e un certo protagonismo della fototessera, richiamiamo prima di altro due affascinanti monografie fotografiche, entrambe pubblicate negli Stati Uniti, rispettivamente nel 2002 e 2003. In Hilhaven Lodge, il secondo dei due titoli che richiamiamo, il regista e produttore hollywoodiano Brett Ratner ha raccolto una consistente sequenza di strisce di fototessere scattate dai/ai suoi ospiti con una cabina auto-
matica installata in casa sua. Mentre il discriminante e fondamentale Photobooth, di Babbette Hines, presenta una avvincente lunga serie di fototessere anonime, ma più spesso autentici autoritratti, realizzate con cabine automatiche, appunto Photobooth negli Stati Uniti. A nostro personale, educato e competente avviso, questa edizione è la selezione per antonomasia che traccia una autentica linea di confine, al culmine di un movimento che in America è particolarmente florido e vivace. Però, per il nostro percorso è determinante il forte richiamo visivo dei soggetti di Brett Ratner, che con il suo libro si esprime con un tono di voce più alto, dunque più penetrante. Brett Ratner, del quale in Italia conosciamo soprattutto i due capitoli della serie Rush Hour (del 1998 e 2001), vive nella villa che fu di Ingrid Bergman durante la Seconda guerra mondiale e di Kim Novak negli anni successivi, appunto Hilhaven Lodge, a Hollywood. Qui ha installato una vecchia cabina per fototessere in bianconero, direttamente derivata dall’originario progetto di Anatol Josepho, l’immigrato siberiano al quale si attribuisce la paternità della cabina automatizzata per fototessere (1925). Ed è proprio nella cabina che si siedono e posano gli illustri amici di Brett Ratner.
Kubrick lui medesimo, di Piero Raffaelli (FOTO graphia, aprile 2004). Kubrick. Il nome “Kubrick”, che suonava misterioso e kafkiano quasi come “Kafka”, è apparso dieci volte in quarant’anni nei titoli di testa di dieci film così innovatori, unici e diversi tra loro da far dubitare che indicasse una persona vera. I cinefili, ovviamente, sapevano, ma il grande pubblico poteva immaginare ci fossero autori diversi dietro Full Metal Jacket, Shining, Barry Lyndon, A Clockwork Orange, 2001: A Space Odyssey, Dr Strangelove, Lolita, Spartacus, Paths of Glory e The Killing. Noi, che certo conosciamo bene Weegee, non ci stupiamo nello scoprire (su Stanley Kubrick. Una vita per immagini, a cura della moglie Christiane, Rizzoli libri illustrati) che il regista conosceva bene e ammirava quel fotografo. Però, è curioso vedere Stanley Kubrick, quand’era ancora fotografo (inviato da Look), aggirarsi con una Rolleiflex sul set del film Naked City (in Italia, La città nuda; 1948), diretto da Jules Dassin e liberamente ispirato alla vita del fotografo Weegee, o -quantomeno- alla sua monografia, pubblicata nel 1945. Su quel set, il futuro regista fotografa lo stesso Weegee in cima a una scala, mentre riprende le scene del “suo” film. Sedici an-
ni dopo, Stanley Kubrick ingaggerà Weegee come fotografo di scena per Il dottor Stranamore, e su questo set, l’accento anglotedesco di Arthur H. Fellig (questo il vero nome del vecchio oriundo austriaco, di Sloczew, oggi in Polonia) verrà copiato da Peter Sellers per caratterizzare il personaggio dello scienziato nazista pazzo che ama la bomba. Tra parentesi: Peter Sellers era fotografo dilettante, come pure l’attore Matthew Modine, che interpreta il fotografo militare in Full Metal Jacket e firma altre fotografie impaginate nello stesso Stanley Kubrick. Una vita per immagini. Che significa ciò? Forse niente. Vediamo poi, nello stesso libro, Stanley Kubrick sul set dei propri film, non solo nel ruolo di regista, ma spesso anche in quello di operatore, direttore delle luci, progettista delle scene e degli effetti speciali, montatore, eccetera; e sempre in compagnia di qualche macchina fotografica, Nikon a telemetro, Minox, Widelux e Polaroid, vestito sempre come il tenente Colombo. Da cineoperatore, si riservava le riprese a mano più dinamiche, quando non esisteva ancora la steadycam, che poi sarà il primo a impiegare, quando arriverà. Non c’era novità tecnica che Stanley Kubrick non abbia cercato di anticipare e imparare personalmente.
Colta scrittura fotografica, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, ottobre 2006). Annotatevi questo nome: Federico Garolla. E, quindi, sottolineatelo, meglio con inchiostro colorato (rosso?!), sì da dargli l’evidenza che merita. Oggi ottantunenne, ancora alle prese con la gestione quotidiana del proprio vasto archivio fotografico, Federico Garolla è una delle tante (troppe, forse) personalità della fotografia italiana colpevolmente poco considerate dalle storiografie ufficiali, che raccontano l’evoluzione di questo fantastico linguaggio visivo nel nostro paese. Grazie a sapienti iniziative, all’interno delle quali si segnalano consistenti partecipazioni a mostre collettive (tutte con visione storica di luoghi, situazioni e personaggi) ed esposizioni personali di spessore e fascino, Federico Garolla è recentemente uscito dall’oblio, per affermare a chiare lettere e voce tonante il proprio straordinario valore. [Federico Garolla è poi mancato il 31 maggio 2012; FOTOgraphia, luglio 2012]. Da una parte, lo stesso Federico Garolla ha, in qualche misura, creato i presupposti per tanta colpevole dimenticanza (ribadiamo entrambi i concetti: colpevole e dimenticanza): quando, all’alba degli anni Ottanta, accantona il reportage e la moda che l’hanno impegnato dalla fine dei Qua-
ranta (!), per dedicarsi all’illustrazione enciclopedica, all’edizione di guide di Musei e alla fotografia di cucina. Dall’altra, è doveroso sottolineare come il suo professionismo e la sua professionalità fotogiornalistica appartengano a pieno diritto (e dovere) alla straordinaria stagione dei settimanali e periodici e rotocalchi che hanno accompagnato la vita e la storia italiana nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. In quale contesto si collocano, la sua personalità di fotogiornalista (a volte prestata alla moda: un’alta moda ambientata in avvolgenti esterni delle città d’arte italiane) e la sua capacità di racconto (che si è manifestata in notevoli e non comuni servizi pubblicati da testate autorevoli e prestigiose)? Soprattutto, occorre rilevarlo, in una interpretazione fotografica costruita su una solida cultura individuale: non nozionismo di date, persone e luoghi, ma fondata e solida materia attraverso la quale esprimere inquadrature dirette, composizioni di immediata decifrazione, resoconti in forma fotografica che hanno alimentato, assieme a una identificata schiera di altri autori parigrado, una irripetibile stagione del fotogiornalismo italiano, in capace equilibrio tra la cronaca del giorno e la testimonianza in profondità.
Caravaggio fotografo (?), di Angelo Galantini (FOTOgraphia, febbraio 2010). Mediazione tecnica a parte, è noto e risaputo che l’idea della natura che si fa di sé medesima pittrice ha profondi debiti di riconoscenza con tutta la storia dell’arte. Tant’è che la fotografia è una invenzione culturalmente, filosoficamente e ideologicamente occidentale, con espliciti richiami alle lezioni di prospettiva, avviate con il Rinascimento. La fotografia nasce ufficialmente in forma di dagherrotipo, anche se la fotografia come l’abbiamo sempre intesa, e come l’intendiamo ancora oggi, dipende non dal dagherrotipo, preziosa e affascinante copia unica, ma dal processo calotipico negativo-positivo di William Henry Fox Talbot. In genere, quando si riprendono i termini della pre-fotografia nell’arte, è sempre e solo citata l’epopea della camera obscura, usata da molti pittori come ausilio per il disegno dal vero. Due nomi di vedutisti si impongono immancabilmente sugli altri, su tutti gli altri: Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto (1697-1768) e suo nipote Bernardo Bellotto (1722-1780). La consecuzione lineare di questa pittura con la fotografia si basa soprattutto (ma non soltanto) sulla restituzione prospettica in forma ottica.
Tutto vero, tutto sacrosanto, ma la fotografia non dipende soltanto dai valori e contenuti formali della propria composizione. L’anima dell’immagine fotografica poggia anche su altro: in particolare, è una delicata e magica miscela di luce e istante. Ecco perché non è lecito, né tantomeno legittimo, continuare a svolgere il solo e semplificato compitino della prospettiva (fondamentale, sia chiaro), che rischia di incamminarsi lungo un tragitto deviato, banalizzato ed estraneo al più doveroso approfondimento oltre la superficie a tutti apparente. In questo senso, la lezione di Caravaggio è a dir poco mirabile. A Caravaggio (Michelangelo Merisi, o Merigi o Amerighi; 1571-1610) va riconosciuta una sostanziosa idea di “istantanea” della visione, oltre alla sapiente distribuzione della luce all’interno della composizione. In tutti i casi, si tratta di straordinarie rappresentazioni che hanno influenzato il linguaggio fotografico (e che possiamo conteggiare “fotografia”, così come l’intendiamo: luce, composizione e capacità di sintesi visiva), e che dovrebbero appartenere al bagaglio di conoscenze e competenze di tutti coloro i quali si occupano di fotografia e realizzano fotografie, sia con connotati professionali sia con intendimenti non professionali.
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Attualità di un antico messaggio, di Giuliana Scimé (FOTOgraphia, dicembre 2006). «Il mondo di Bravo appare come quello raro e prezioso che partecipa all’ansia o la prova di un pericolo; è l’aria immobile, in silenzio con gli uccelli le fronde e le pianure, il tempo fermato che si ritrova dopo la fucilata che ci ha cercato e non si sa da quale anfratto sia venuta; è la natura quale ci appare, dolce in quei comuni particolari che solo in quegli istanti lucidi, quasi per assurda distrazione, percepiamo nella loro essenzialità, mentre la proterva attenzione dell’istinto ci guida un superamento e a una salvezza insieme. [...] Soffiata la vita alla sua immagine, Álvarez Bravo scompare, nulla più sappiamo di lui all’infuori di questa creazione ben sua, ma che ormai vive autonoma, tanto da apparirci come casuale prodigio di natura poetante». Si direbbe un brano del testo che Octavio Paz, premio Nobel della letteratura nel 1990, scrisse in prefazione, con alcuni fulminanti rapidi poemi, a, forse, il più bel libro mai pubblicato sull’opera di Manuel Álvarez Bravo. La sorpresa, invece, è sconvolgente. Queste poche righe, estratte da una lunga e magistrale analisi, sono di Carlo Mollino, da uno dei tanti temi che affronta nel suo compendioso Il
messaggio dalla camera oscura, pubblicato nel 1949. A metà del secolo scorso, furono rarissime le incursioni organiche nella storia della fotografia: Helmut Gernsheim dà alle stampe, nel 1955, un volume che, tuttavia, si interrompe al 1914; il francese Jean-A. Keim pubblica il suo breve saggio nel 1970. Non è correlato da illustrazioni, ma tuttora è consigliabile, malgrado le inevitabili carenze temporali; nel 1982, esce negli Stati Uniti l’opera di Beaumont Newhall, che ignora totalmente le esperienze europee, e Carlo Mollino si era già avviato verso la misteriosa nebulosa della fotografia teorica. Carlo Mollino deve aver raccolto, prima, e consultato con metodica riflessione centinaia di riviste e pubblicazioni sparse, per recuperare un così ricco paniere di immagini, idee, informazioni. Il messaggio dalla camera oscura, per decenni, è rimasto appunto “oscuro”, privilegiata avventura per quei pochissimi che lo possedevano. Oggi, finalmente, è un’esperienza unica per tutti: la nuova casa editrice AdArte di Torino ne ha stampato una stupenda copia anastatica che rispetta il formato, la veste grafica, le illustrazioni con le tavole a colori applicate a mano su cartoncino, come l’originale.
Riproducibilità tecnica, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, maggio 2011). Vivere in Italia è un privilegio. Vivere con gli italiani, con un certo modo di essere italiani, lo è ancora di più: una palestra esistenziale, che rivela presto e subito ciò che è bene non fare, come è bene non essere. Fedeli al princìpio secondo il quale il nostro occuparci di Fotografia e stare con la Fotografia non è mai un arido punto di arrivo, ma uno straordinario, fantastico e impagabile s-punto di partenza, è necessario ribadire. Non mi interessa nulla, non soltanto poco, della Fotografia in quanto tale, estraniata dalla società, ma pensarla e viverla sempre e comunque per i rapporti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). Per cui, sono consapevole di quali e quante opportunità vengano sistematicamente offerte e proposte da qualsivoglia evoluzione tecnologica: è stato sempre così, e lo è anche e ancora oggi, in era digitale (non soltanto in fotografia). Comunque, oltre tanto d’altro, la fotografia è anche una scienza: progredisce, deve progredire, malgrado tutto e nonostante tutti. Però, ancora, insisto con la Fotografia s-punto di partenza e con i rap-
porti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società. In assoluto, e con i dovuti distinguo che mi fanno riconoscere i retrogusti amari, ribadisco, confermando: benedico quanto la tecnologia digitale offre all’esistenza e alla professione quotidiane. Tra tanti esempi, uno recente è addirittura luminoso. Dallo scorso Primo febbraio è attivo un fantastico sito Internet collegato a Google. Si tratta di Google Art Project, all’indirizzo www.googleartproject.com. Come rivela la definizione esplicita, Google Art Project è un programma di raffinata presentazione dell’arte, appunto. Al momento della sua partenza, conta sulla presenza e collaborazione di diciassette musei di prima grandezza, di eccellente grandezza, di nove paesi (e undici città). A parte tanti altri dettagli, che ognuno individui e frequenti da sé, Google Art Project si concretizza soprattutto in due direzioni. Da una parte, per mezzo di una applicazione derivata dalla nota tecnologia Street View, è possibile compiere un tour a trecentosessanta gradi nelle sale dei musei coinvolti. Quindi, ogni museo ha messo a disposizione una consistente quantità di opere dalle proprie collezioni permanenti.
Non uccidere!, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, luglio 2007). Contro la pena di morte, vengono solitamente prodotte due posizioni, almeno due posizioni. La prima, che ha sicuramente maggiore presa su tutte le coscienze, sottolinea la possibilità di errore giudiziario, con conseguente esecuzione di un innocente. L’altra opinione contro la pena di morte è più radicale: indipendentemente dal corso della giustizia, afferma che non è legittimo uccidere nessuno. Sull’argomento, l’avvincente edizione libraria di Omega Suites, della fotografa statunitense Lucinda Devlin, è una visione di taglio, di rimbalzo, di margine, che finisce per essere più esplicita della semplicistica raffigurazione diretta degli avvenimenti. Per dire, questa di Lucinda Devlin è una fotografia alla maniera di quella guerra assente sulla quale abbiamo riflettuto e ci siamo soffermati in FOTOgraphia del luglio 2004: la “guerra assente” (apparentemente assente) dai volti dei profughi, dei disperati, delle vittime innocenti, che finisce per rappresentare l’orrore del conflitto più direttamente e con maggiore forza comunicativa di una spettacolare immagine di combattimento. Nel proprio richiamo, nell’evocazione esplicita e nell’accenno implicito,
le rappresentazioni visive di Omega Suites, convincente contributo fotografico al pensiero contro la pena di morte, fanno vibrare l’animo e le coscienze. Si associano idee, sentimenti e si sollecita la Memoria... hai detto poco! L’identificazione The Omega Suites, conservata dall’editore Steidl Verlag per la monografia che rispetta e replica la sequenza formale degli originali fotografici, allude alla lettera finale dell’alfabeto greco: metafora della fine. Infatti, le Omega Suites sono le camere della morte, della fine appunto, che Lucinda Devlin ha fotografato negli Stati Uniti nel corso degli anni Novanta: camere a gas, sedie elettriche, morte per iniezione letale, bracci della morte... e qualche residua impalcatura con nodo scorsoio! Lucinda Devlin è contro la pena di morte. Le sue stanze della morte legalizzata sono quindi rappresentate con innegabile orrore. Siccome la fotografia è un linguaggio comunque sia estetico ed estetizzante, che mette addirittura ordine nel disordine, che compone belle e affascinanti inquadrature, Lucinda Devlin ha accelerato il concetto. Ha fotografato con l’armonia formale, la pulizia compositiva e il rigore estetizzante della più concentrata fotografia di... architettura d’interni: addirittura, di arredamento (!).
Cambiamenti a New York, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, luglio 2005). La qualificata Princeton Architectural Press, di New York, ha pubblicato una raccolta fotografica di assoluto prestigio. Avviato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, e completato nel 2003, il progetto fotografico di Douglas Levere è meritorio sotto diversi punti di vista. Coma rivela il titolo, New York Changing è un’analisi fotografica approfondita dei cambiamenti urbani e architettonici di una delle più accattivanti e mutevoli megacittà del mondo: traduciamo in I cambiamenti di New York. Il riferimento visivo tra il presente e il passato non è casuale, e neppure fortuito, né marginale; il sottotitolo è esplicito: Revisiting Berenice Abbott’s New York, ovvero Rivisitando la New York di Berenice Abbott. Qui corre l’obbligo riferirsi all’originale, prima di sottolineare i meriti del progetto odierno. Changing New York, della quale oggi sono stati volontariamente invertiti i termini, fu la campagna fotografica realizzata dalla trentunenne Berenice Abbott (1898-1992) sul finire degli anni Trenta. La fotografa avviò la propria documentazione visiva nel gennaio 1929, al suo ritorno a New York dopo un lungo soggiorno europeo.
Già vicina al mondo dell’arte d’avanguardia del primo dopoguerra, all’inizio degli anni Venti, Berenice Abbott lasciò gli Stati Uniti, per studiare scultura a Parigi e Berlino. Nel 1923, diventa assistente di Man Ray, presso il cui studio parigino si avvicina alle tecniche della fotografia. A seguire, la cronologia degli avvenimenti impone la segnalazione di un proprio studio per il ritratto a Parigi, dal 1925, e una prima esposizione personale alla galleria Au Sacre du Printemps. Soprattutto, nel proprio vivere la fotografia, Berenice Abbott incontrò Eugène Atget, allora sconosciuto, del quale acquista l’intero archivio nel 1928, all’indomani della scomparsa del fantastico autore-visionario, salvando così l’opera di uno dei più espressivi e grandi pionieri della fotografia moderna. Sicuramente influenzata dalla Parigi di Atget, tornando negli Stati Uniti, Berenice Abbott è colpita/folgorata dai cambiamenti avvenuti a New York in meno di un decennio. Così, all’alba di quel crollo della borsa (29 ottobre 1929), che diede avvio alla Depressione, inizia a documentare questa rapida trasformazione, applicando una lezione visiva rigorosa ma partecipe, emotiva quanto oggettiva.
Sul Reichstag sventola bandiera rossa, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, giugno 2005). Immagine-simbolo della conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa, la bandiera issata sul Reichstag, alla conclusione della Seconda guerra mondiale, nella primavera 1945 (e di date stiamo per parlare, in bilico tra fine aprile e inizio maggio), è una delle fotografie più conosciute del Ventesimo secolo. È un’immagine che appartiene alla memoria collettiva. Questa raffigurazione occupa un posto di rilievo nella storia della fotografia; e, ovviamente, compare in ogni retrospettiva storica delle vicende del mondo e della cronologia fotografica: appunto, simbolo della conclusione della Seconda guerra mondiale (fronte occidentale). Tuttavia, da tempo il mondo fotografico riflette sulla sua autenticità. Il dibattito è antico; non riguarda solo questa fotografia, ma si estende a una identificata serie di immagini storiche, in analogo odore di non autenticità. Ora, nel corso del corrente 2005, la bandiera sul Reichstag è tornata di attualità per due motivi: uno interno alla filosofia fotografica, l’altro storico. Dal punto di vista “fotografico”, si è ripreso il caso della bandiera rossa issata sul Reichstag alla luce delle più recenti alterazioni al-
l’immagine, che nel mondo giornalistico si stanno moltiplicando grazie alla semplicità e semplificazione dei software di gestione digitale (tra i tanti possibili, ricordiamo ancora il caso della copertina dell’Espresso sull’attentato di Nassirya, presentato e commentato, in FOTOgraphia, del dicembre 2003). Allo stesso momento, dal punto di vista “storico”, questa fotografia è tornata d’attualità in occasione del sessantesimo anniversario della caduta di Berlino e della fine della Seconda guerra mondiale (1945-2005). A parte la distinzione tra falso confezionato e sceneggiatura a uso fotografico (come sono molte delle fotografie della storia: più pose che istantanee), nel caso della bandiera sul Reichstag convergono numerosi fatti. In particolare, non va sottovalutato il sistematico adattamento alla politica quotidiana, perpetuato per decenni dai paesi socialisti, maestri della correzione e mistificazione della storia: Unione Sovietica, prima di tutti, ma anche Repubblica popolare cinese e altri. Ricordiamo soprattutto le revisioni storiche, con cancellazione da pose precedenti di personaggi scomodi, caduti in disgrazia o indesiderati (per esempio, eliminazione di Lev Trotskij dalle fotografie dei comizi di Lenin).
Intelligenza stenopeica (e dintorni), di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, aprile 2008). FOTOgraphia si è occupata di foro stenopeico in diverse occasioni, sia analizzandone il linguaggio, sia commentando apparecchi fotografici e sistemi finalizzati, sia riferendo esperienze pratiche. A questo punto, si impone una considerazione a monte, che non possiamo evitare. Spesso svilito a solo giochino fine a se stesso, altrettanto frequentemente adottato da fotografi privi di talento e capacità, alla spasmodica ricerca di una personalità creativa mai meritata, applicato alla ripresa (ed espressività), il foro stenopeico è una costante che ha attraversato indenne i decenni e le tecnologie, tanto da essere anche abbinabile (e abbinato) agli attuali e futuribili sensori ad acquisizione digitale di immagini. Ciò detto, rimane solo lo sconforto, un certo sconforto, per le frequentazioni di quei fotografi che approdano all’uso del foro stenopeico (pinhole) come ultima spiaggia di controversi e contraddittori percorsi individuali, totalmente privi della minima coscienza e coerenza espressiva. Così che, in molti casi, che abbiamo anche avvicinato e incontrato personalmente, si finisce per confondere i termini del discorso creativo: la nobiltà del foro
stenopeico diventa alibi dietro il quale celare l’assoluta assenza di valori, intenzioni e capacità. Per fortuna, in contraltare, ancora ai nostri giorni, soprattutto ai nostri giorni, la fotografia a foro stenopeico impegna di nuovo eccellenti autori, che declinano con intelligenza la profondità culturale dell’esposizione senza obiettivo. Allo stesso momento, la magia del foro stenopeico, che forma immagini proiettate di straordinario fascino, conferma ancora indiscutibili doti didattiche. Perfino ai nostri odierni tempi tecnologici, caratterizzati e definiti da esuberanti compagnie della vita quotidiana, l’azione primitiva del foro stenopeico coinvolge e seduce in quegli incontri sull’educazione all’immagine, magari finalizzati alla sua consapevolezza, che si rivolgono ad ascoltatori in età scolare. Per un attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni, la proiezione del foro stenopeico, così come la creazione di una immagine fotografica (chimica o digitale, poco conta), surclassa tutto. Non ci sono più telefonini portatili, lettori di musica, effetti speciali e programmi televisivi senza soluzione di continuità: c’è solo “la natura che si fa di sé medesima pittrice”.
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Dark Memories, di Maurizio Rebuzzini (FOTO graphia, giugno 2013). Siccome la fotografia si distingue da ogni altra forma di comunicazione -non soltanto visiva- per il suo vincolo fondante con un soggetto esplicito, che registra, spesso la si riconduce soltanto a questo: per l’appunto, al soggetto. Sia che si tratti di soggetti reali, ovverosia la vita nel proprio svolgersi, sia che si tratti di soggetti costruiti, non è mai facile per l’osservatore compiere il doveroso passo in avanti: dalla raffigurazione soltanto necessaria alla rappresentazione volontaria e consapevole. Quando dipinge, il pittore può applicare punti di vista a scelta, così come può includere nella propria opera elementi a piacimento; oppure, li può escludere. L’azione del fotografo è vincolata altrimenti, perché deve organizzare il proprio soggetto -fosse anche solo mentalmente, per esempio nel caso della ripresa dal vero- affinché l’osservatore possa riconoscere il contenuto dell’immagine realizzata, oltre la sua forma esplicita e apparente. Nelle proprie fantastiche ricostruzioni in sala di posa, Gian Paolo Barbieri risponde a entrambi questi canoni, simultaneamente. Sia quando agisce nell’ambito della fotografia di moda, che lo vede eccellere nel pa-
norama internazionale, con primati fotografici di grande valore (magari a partire dalla copertina del primo numero di Vogue Italia, del novembre 1965), sia quando realizza progetti propri, indipendenti dalla committenza, Gian Paolo Barbieri offre e propone interpretazioni fotografiche assolutamente personali, edificate su solide basi culturali: da cui, richiami e riferimenti espressi e impliciti dalla letteratura, dal cinema, dalla pittura, dall’arte tutta... dalla vita. Una nota retrospettiva, prima di affrontare l’attualità di Dark Memories, utile per definire il quadro d’ambiente che guida la fotografia di Gian Paolo Barbieri. Le sue ricerche etniche, che si aggiungono alla sua fantastica fotografia di moda, sollecitano una riflessione. Il pensiero va agli uomini che adoravano la pietra, ed eressero l’inquietante Stonehenge, nel sud dell’attuale Gran Bretagna. Tutti coloro che la eressero sono periti e sconosciuti, mentre Stonehenge rimane. Eppure quegli uomini, i nostri antenati, volti anonimi, sono vivi in tutti noi, nei loro discendenti; mentre Stonehenge, e quello che rappresentava, è morta. Oltre il suo professionismo nella moda, con queste fotografie Gian Paolo Barbieri afferma che è l’Uomo a continuare in eterno.
Nikon nel cuore e nell’anima, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, dicembre 2007). Strana, la memoria. Strano, il ricordo. Per quanto mi sforzi di pensarci, non riesco proprio a ricordare la prima volta che ho sentito nominare “Nikon”, marchio fotografico e produzione di straordinarie reflex (lascio perdere il resto) che -data la mia professione in fotografia- ha accompagnato la mia vita adulta. Potrei richiamare i mesi passati al banco di un celebre e celebrato indirizzo commerciale di Milano, alla fine degli anni Sessanta, quando la Nikon F era al vertice del mercato: per prezzo di vendita, lo ricordo bene centottantamila lire (io ne guadagnavo trentacinquemila al mese), e per caratteristiche. Ma non penso di aver incontrato allora Nikon per la prima volta, perché sono certo di averne avuta già coscienza e conoscenza. Però, allo stesso momento, ricordo molti aneddoti e altrettante storie che riguardano Nikon, e su queste mi soffermerò più avanti; non prima, sia inteso, di una riflessione e considerazione a monte, che inserisce l’epopea Nikon in un contenitore più generale, e per questo vasto. Da una parte, c’è la storia Nikon, segnata e tratteggiata da una identificata serie di consecuzioni ufficiali, stabilite da date certe. Dall’altra, il concreto e
fattivo contributo che Nikon ha dato alla storia espressiva della fotografia, che assegna propri capitoli fondamentali e discriminanti al fotogiornalismo che si è distribuito sui decenni, a partire dai Sessanta (almeno), e che ha vissuto un proprio momento epocale con la guerra del Vietnam: tra l’altro, efficacemente rievocata in una identificata serie di film, tra le cui sceneggiature e scenografie fa appunto capolino sempre l’immancabile Nikon F, nella propria versione semplice, come anche nella configurazione dotata di pentaprisma esposimetrico Photomic. Proprio dal cinema, e al cinema, Nikon ha tratto straordinario beneficio, con relativa proiezione nel costume e socialità internazionali. Il riferimento d’obbligo è per Blow up, di Michelangelo Antonioni, del quale la Nikon F è in qualche misura coprotagonista, tra le mani del fotografo Thomas (l’attore David Hemmings), a tutti gli effetti il protagonista della vicenda, narrata attorno le sue azioni e a partire da queste. Per generazioni successive, è stata una autentica folgorazione. Avvolti dal racconto cinematografico, siamo stati anche ammaliati dalla presenza continua e costante di quella Nikon F, che abbiamo osservato con intrepida commozione e partecipazione. Il resto, sarebbe arrivato dopo.
Fotogramma Zero (e meno), di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, maggio 2007). Prima di affrontare lo specifico dell’argomento, sono necessarie due precisazioni. Tra forma e contenuto del nostro commento, chiariamo anzitutto che l’idea fotografica del francese Jean-Christophe Béchet, annotata in queste pagine, ha già incrociato una sorta di trasversalità che appartiene a tutta la riflessione fotografica, in proprio equilibrio tra ricerca pura e osservazione mirata. A differenza di questa trasversalità, soltanto statistica e giocosamente aneddotica, l’attuale gesto di Jean-Christophe Béchet è qualcosa d’altro, addirittura di più. È mirabile e definitivo: il suo valore e spessore è di profilo indiscutibilmente e inviolabilmente elevato. Facendo linguaggio della casualità, per dichiarazione esplicita, l’autore francese ha composto un autentico manifesto per la fotografia argentica (analogica) convinto, motivato, maturo, appassionato e commovente. Bravo! Seconda annotazione preventiva: personalmente siamo estranei a qualsiasi contesa e polemica che contrapponga la fotografia su pellicola (appunto argentica, oppure analogica) all’acquisizione digitale di immagini. Come abbiamo avuto modo di annotare in tante occasioni, a questa prece-
denti, e come pensiamo di dover fare ancora in altrettante future occasioni, a questa successive, il problema non sta tanto nella presunta e pretestuosa antitesi, quanto nella concreta messa a frutto di ogni tecnologia. Quello che conta è sempre e comunque lo scopo finale: l’immagine. In generale, non c’entra tanto il come (che pure vanta proprie influenze e condizionamenti: altro discorso), quanto il perché. E su questa lunghezza d’onda allineiamo il nostro pensiero con l’intelligenza della presa di posizione di Jean-Christophe Béchet. La riflessione creativa di Jean-Christophe Béchet è riunita in un volume che ne riprende il richiamo. Vues n° 0 è esattamente ciò che il suo esplicito titolo dichiara: ragionata e intelligente raccolta di prefotogrammi numero zero, e anche meno. Ovvero, registrazioni casuali su quella porzione iniziale di pellicola 35mm sulla quale si fonda il caricamento nell’apparecchio fotografico. Pellicola che può essere stata completamente bruciata o parzialmente velata dalla luce, oppure può aver subìto infiltrazioni di luce dal caricatore metallico o attraverso il feltrino di uscita e invio. Pellicola, eccoci, che se non “bruciata” registra le indicazioni numeriche “0A” e “0” sul proprio bordo perforato.
Novantanove anni, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, marzo 2013). Leica, e Leica sempre, e fortissimamente Leica (in parafrasi da Vittorio Alfieri). Questo è quanto sollecita e induce a considerare la straordinaria edizione di una monografia che racconta un secolo di fotografia Leica, conteggiato dal 1914 di preorigine, appropriatamente identificata e identificato -la monografia e il secolo- come Ninety Nine Years Leica, ovverosia novantanove anni... Leica. Ovviamente, non ignoriamo che -tra le tante/tutte possibili- quella Leica è la storia produttiva più raccontata della lunga evoluzione degli strumenti della fotografia. Molti i titoli tra i quali scegliere, forse addirittura troppi. Di Leica si è detto tutto (forse); quindi, stupisce che ci sia ancora qualcosa da enunciare e riportare. Ma così è, in questa mirabile edizione, che nasce in casa, e che osserva la vicenda con un occhio e un piglio che nessuno ha mai posseduto (a parte episodi marginali, che stiamo per richiamare). Oltre i valori tecnici e operativi concreti, che le hanno consentito lunga e gloriosa esistenza, a margine di molto, Leica rappresenta oggi anche l’apoteosi e l’esaltazione del particolare fenomeno del collezionismo storico, av-
viato in forma ufficiale e solenne all’alba degli anni Settanta, con capitolo italiano sollecitato e guidato da due personalità fondanti: i compianti Ghester Sartorius e Gianni Rogliatti, rispettivamente mancati nel settembre 1999 e lo scorso marzo 2012. A diretta conseguenza, la storia Leica ha sollecitato studi e casellari, utili per l’identificazione dei singoli modelli e del loro relativo valore collezionistico, e proficui dal punto di vista della conseguente redditività editoriale. Soprattutto a livello internazionale, in lingua inglese, ma anche in italiano, la quantità di titoli è impressionante, anche se non altrettanto si può affermare a proposito delle connesse qualità. Per cui, senza farci abbagliare dai lustrini di costose opere, solitamente impreziosite da una abbondante quantità di illustrazioni in dettaglio (fino a minuziosi censimenti di particolari produttivi), sfrondiamo la quantità conferendo la dote assoluta e incondizionata di aver composto i due casellari discriminanti alla Carta d’identità delle Leica e alla Carta d’identità degli obiettivi Leica, originariamente compilate da Ghester Sartorius, e ora attribuite a Giulio Forti e Pierpaolo Ghisetti (Editrice Reflex): il resto sono solo parole in più, spesso di scarsa utilità.
Tecnica d’autore, di Maurizio Rebuzzini (FOTO graphia, aprile 2005). Anche se dipende tutto dall’anagrafe, non fa differenza. Infatti, in ogni caso, si tratta sempre di anagrafi datate indietro nei decenni. Ci riferiamo, per arrivare al concreto, ai richiami/riferimenti individuali ai fotografi che sono stati anche capaci di trasmettere le proprie conoscenze tecniche. C’è una attuale generazione di fotografi che ricorda perfettamente i manuali di Andreas Feininger, e su questi ha cominciato a formare le proprie conoscenze fotografiche; poi, c’è un’altra generazione, altrettanto attuale, moderatamente più giovane (non quanto basta per arrivare a una identificazione “giovane” in assoluto), che ha avuto come nume tutelare Ansel Adams. Ma non ci fermiamo a questa sostanziale divergenza, che poi tale non è (probabilmente è vero l’esatto contrario). Invece, con l’occasione di un recente ritrovamento, segnalatoci da Gianni Berengo Gardin, torniamo con la memoria e le osservazioni alla lunga e luminosa stagione dei fotografi che hanno scritto e pubblicato manuali pratici, basati sulla propria esperienza professionale, che non si esaurisce -la stagione- con i riferimenti ai soli Andreas Feininger e Ansel Adams, appena ricordati.
L’avvio del censimento, se di questo si tratta, si deve, come abbiamo appena annotato, a Gianni Berengo Gardin, che sul mercato dell’antiquariato bibliografico ha recentemente individuato una preziosa e più che rara copia del poco conosciuto Il manuale del perfetto fotoreporter, scritto nientemeno che da Willy Ronis, una delle più significative personalità della fotografia del secondo Novecento (che ha raggiunto la venerabile età di novantacinque anni) [è poi mancato, il 12 settembre 2009, a novantanove anni compiuti]. Il manualetto, piccolo nelle dimensioni ma grande per i contenuti, è uscito allo scoperto la scorsa estate, all’inaugurazione dell’affascinante retrospettiva di Willy Ronis, intitolata Doni del caso, allestita ai veronesi Scavi Scaligeri (FOTOgraphia, maggio 2004). Si sa, poi, come vanno queste vicende. Quando si possono vantare decenni di esperienza, è inevitabile cadere nel pericoloso gioco dei “ricordi”; meglio, o peggio, del “ti ricordi?”. Parola chiama parola, ricordo evoca ricordo, ed ecco che tra amici, tutti vicini al mondo della fotografia, tutti anagraficamente datati (io sono del 1951), si è arrivati a dare corpo a un autentico filone/fenomeno, in precedenza mai affrontato come tale.
In minuscolo: kodachrome!, di Antonio Bordoni (FOTOgraphia, ottobre 2009). Quando furono chiare e palesi sia le problematiche di trattamento della diapositiva kodachrome, sia l’incapacità di interpretazione dei nuovi processi di trasformazione litografica, nel dicembre 2005 celebrammo e commemorammo la fine di questa straordinaria emulsione, ufficialmente ancora disponibile, ma nel concreto improbabile. Ora, in allineamento con la fine ufficiale, fissata al dicembre 2010, riprendiamo la testimonianza di allora, per ribadire, confermandola, la nostra commossa testimonianza. Cosa sia stato il kodachrome è presto detto: la diapositiva per eccellenza per una nutrita schiera di professionisti di primo piano, a partire da quelli di natura e paesaggio. Tanto è vero che, leggenda neanche troppo metropolitana (?), pare che per molto tempo, fino a pochi anni fa, l’autorevole National Geographic Magazine, non abbia accettato altra diapositiva dai propri fotografi. A parte la versione per cinematografia a passo ridotto, che per lunghi decenni ha alimentato i processi Kodak di trattamento di tutto il mondo, l’autentico kodachrome 35mm è stato quello da 25 Asa di sensibilità. La versione da 64 Asa è stata sempre considerata con riserva,
per non parlare dei 200 Iso di più recente configurazione e della confezione a rullo 120, arrivata nella seconda metà degli anni Ottanta. I termini usati per descrivere l’interpretazione cromatica del kodachrome hanno sempre sottolineato la personalità del suo “corpo”: quindi, “profondità”, “smalto” e trascrizione “reale” e “naturale” sono stati connotati che hanno attraversato i decenni, accompagnandosi con una definizione straordinaria e una grana finissima. Di fatto, la diapositiva kodachrome è stata assolutamente unica. Una diapositiva a colori derivata da un’emulsione che nasce bianconero ed è colorata in fase di trattamento (semplifichiamola così): tre strati di emulsioni bianconero sovrapposti, rispettivamente sensibili alla luce rossa, verde e blu-violetto. In assoluto, dove si sono formati, i coloranti kodachrome sono diversi da quelli amorfi di ogni diapositiva. Sono coloranti duri, cristallini, chimicamente forti, che si depositano in modo particolare e autonomo attorno i granuli d’argento, contribuendo a mantenere la grana estremamente fine, pressoché inesistente. Tra l’altro, proprio questi coloranti sono alla base di una fantastica stabilità cromatica nel tempo: la diapositiva kodachrome ha attraversato i decenni senza deperimenti di colore.
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Lettera da lontano, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, dicembre 2010). Presentato in un luogo inconsueto -la sala di posa di Gian Paolo Barbieri, il più significativo fotografo italiano contemporaneo, uno spazio dove sono state create e realizzate le più avvincenti fotografie di moda (e dintorni) dei nostri tempi (se le pareti potessero parlare e raccontare!)-, da fine ottobre, l’esposizione di fotografie del progetto FullBeauty, di Yossi Loloi, cominciato negli Stati Uniti, nel 2006, ha rivelato una intelligenza fotografica fuori dal comune. Al solito, non abbiamo paura delle parole che esprimiamo, sempre con franchezza convinta: si tratta di una delle serie fotografiche più affascinanti, tra quante ne abbiamo incontrate in questi ultimi tempi. Una serie che ci riconcilia con la fotografia contemporanea, che troppo spesso si manifesta in maniera quantomeno deludente. Ormai. Il lavoro di Yossi Loloi, che si è incontrato/scontrato con un tema inconsueto -l’obesità (al femminile)-, è ammirevole per mille e mille motivi. Cerchiamo di isolarne alcuni, senza la presunzione di rivelarli tutti. Anzitutto, sopra tutto, la poesia! Come abbiamo già annotato su queste stesse pagine, che danno spazio e fiato soprattutto alla parola, alla riflessione,
solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante (da e con Pino Bertelli). Yossi Loloi è un poeta: le sue immagini sono fantastiche, coinvolgenti, amorevoli. Raggiungono direttamente il cuore di chi, speriamo noi tra questi, sa ancora commuoversi, fino a piangere. Ha speso bene il suo tempo (fotografico), consapevole che i giorni non torneranno più. Quindi, ancora e avanti, FullBeauty offre occasioni per fermarsi a ragionare sul valore implicito, oltre che esplicito, della fotografia, sulla sua capacità di raccontare con delicatezza, leggerezza e morbidezza. In un tempo nel quale, in Italia soprattutto, si pensa soltanto a colpire allo stomaco, non sempre per raggiungere altro che questo, Yossi Loloi sottolinea i pregi espressivi della fotografia lieve, che sfiora i sentimenti... per sollecitarli. A questo punto, chi si ferma alla superficie apparente delle sue raffigurazioni, senza approdare alla loro rappresentazione, può perdere rinchiudersi nei propri pre/giudizi: bravo è quel fotografo che concede anche questo. Che permette a ciascuno di rimanere l’idiota che è. Lui ne avrà sentite delle belle. Speriamo soltanto che non le esterni, e ci lasci vivere nell’inconsapevole limbo dell’intelligenza del pensiero e delle parole dette.
Morire a vent’anni, di Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, dicembre 2008). All’anagrafe Stuart Fergusson Victor Sutcliffe, Stu Sutcliffe è mancato ad Amburgo il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni; era nato il 23 giugno 1940. Dalla cronaca alla storia, oggi è ricordato come promettente pittore, e le opere che ha lasciato sono apprezzate, ammirate e, per quanto valga rilevarlo, quotate (www.stuartsutcliffeart.com). Ancora dalla cronaca alla storia, Stu Sutcliffe è stato anche un modesto chitarrista basso, modesto per propria ammissione. Amico di John Lennon, suo compagno all’Art College, di Liverpool, insieme a Paul McCartney, George Harrison e Pete Best (successivamente sostituito alla batteria da Ringo Starr), fece parte della prima formazione dei Beatles. Il 16 agosto 1960 (data storica della musica rock?), partì insieme agli altri quattro Beatles e ad amici di contorno per Amburgo, in Germania, dove il gruppo aveva ottenuto un ingaggio per suonare in uno dei locali sulla Reeperbahn, la strada del quartiere di St. Pauli, centro della vita notturna e della prostituzione legalizzata. Stu Sutcliffe è morto a vent’anni, e con lui ha perso parte della sua vi-
ta, per molto tempo tutta la sua vita, anche Astrid Kirchherr, di due anni più “vecchia”, per la quale il giovane scozzese, nato a Edimburgo, lasciò i Beatles, per rimanere ad Amburgo. Proprio questo amore, fino al triste epilogo, è il filo conduttore del film Backbeat, che in Italia si è accompagnato con un sottotitolo esplicativo, quanto banalizzato: Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore. Firmata da Michael Thomas e Iain Softley, anche regista, la sceneggiatura è circoscritta ai due anni iniziali dei Beatles, che avviarono la propria folgorante parabola con le serate di Amburgo. Non si va oltre, per limitare le luci della ribalta alla storia di Stu e Astrid, che sullo schermo sono interpretati da Stephen Dorff e Sheryl Lee, fisicamente assolutamente somiglianti e compresi nella leggenda che avvolge la storia originaria. Allo stesso modo, nel film non si attribuiscono a Astrid Kirchherr due grandi meriti, che invece ha avuto: quelli di aver delineato la pettinatura a caschetto e disegnato il taglio di abito/divisa (con giacca priva di colletto), autentici marchi di fabbrica dei Fab Four delle origini. La sceneggiatura ha ritoccato un poco anche la sua personalità fotografica, in relazione alla quale su queste pagine ci occupiamo del film.
(continua da pagina 47) luta. Paradossalmente, è probabilmente più vero il contrario; da e con Blaise Pascal (1623-1662), matematico, fisico, filosofo e teologo francese: «Questa lettera è più lunga delle altre, perché non ho avuto agio [tempo] di farla più breve». È proprio vero, sintetizzare è più difficile e oneroso che dilungarsi; è altrettanto vero, sintetizzando si raggiunge prima e meglio la meta. Questi venti testi, che -senza alcuna autoreferenzialità- consigliamo vivamente di leggere, non soltanto scorrere, sono testimonianza palpitante del nostro modo di intendere, affrontare e svolgere la materia, che non si conclude alla Fotografia, ma da questa parte... come immancabile e irrinunciabile e non negoziabile s-punto privilegiato. Individuati nell’ultimo decennio, dal 2004, sono venti testi che non rappresentano soltanto se stessi, come pure fanno, ma che si offrono e propongono come campione significativo dell’insieme giornalistico e redazionale al quale appartengono, del quale fanno consistentemente parte. Attenzione, e sia chiaro. Non è stata (e non si tratta di) una selezione in alcun modo, né misura, graduatoria, ma proponiamo una distinzione che tocca diversi ed eterogenei punti di parten-
za, per comporre un complesso adeguatamente eloquente: commenti e considerazioni a partire da libri, portfolio di immagini, accadimenti, condizioni tecniche, celebrazioni storiche. Anche l’avvicendamento di messa in pagina non risponde ad alcun princìpio presuntamente meritorio o in classifica, ma si basa su una alternanza che sia educatamente e civilmente in equilibrio tra i contenuti e la forma, tra la sostanza e l’aspetto. In definitiva, abbiamo una convinzione assoluta. Sempre e comunque senza alcuna forma di presunzione, né autoreferenzialità soggettiva, sempre e comunque nella ferma opinione che ci fa riconoscere che non conta mai ciò che si è fatto, ma quello che non si è stati capaci di fare (anche e ancora su questo stesso numero, a pagina 32: «Quello che hai fatto, te lo puoi anche scordare; mentre, al contrario, quello che non hai fatto è scolpito nel cuore, e torna sempre nella mente. Sempre e in ogni istante di Vita»), sempre e comunque, sappiamo come e quanto ciò che annotiamo, riferiamo e scriviamo componga i tratti di avvincenti suggerimenti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Il resto, come spesso registriamo, è soltanto mancia. ❖
PER LE STRADE
DI LONDRA S Combinazione tra visioni fotografiche attuali, da Google Street View -in origine solo utilitaristiche-, e quadri dell’Ottocento (e precedenti). Shystone ha pubblicato su Reddit affascinanti interpretazioni di Londra, andando a alternare il tempo pittorico di alto profilo con la spontaneità fotografica di riferimento. La creatività ce la messa lui (o lei?)
Costruita nel 1660, Covent Garden Market è stata la prima piazza aperta del suo genere a Londra. Nel 1737, quando Balthazar Nebot ha realizzato la sua opera, la piazza era conosciuta come ritrovo equivoco, frequentato da prostitute. Il mercato coperto arrivò solo più tardi, nel 1830. Balthazar Nebot: Covent Garden Market ; 1737; olio su tela, 64,8x122,8cm.
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di Lello Piazza e Antonio Bordoni
hystone, da tradurre in “Pietra timida”, è un nickname degno di un indiano sioux (più correttamente, di un nativo americano). È l’identificazione di un utente del social network Reddit, che ha avuto la felice e ammirevole intuizione di inserire viste pittoriche di Londra, realizzate da cinque autori ben noti (quattro, almeno), in panoramiche della città, ricavate e riprese da Google Street View (www.google.com/landing/londonview). Ovviamente, ha agito con circospezione, oltre che maestria, andando a padroneggiare le rese prospettiche della fotografia attuale in uniformità e consenso a quelle pittoriche originarie. Prima che qualcuno vi si impegni, con la veemenza e il risentimento che stanno definendo, fino a (s)qualificarla, l’attuale stagione della fotografia commentata, lo riveliamo subito noi: l’operazione è niente affatto nuova, se ne sono già visti esempi precedenti. Del resto, lontano e staccato da qualsivoglia autoreferenzialità (evviva!), Shystone / Pietra timida non afferma e ricerca alcuna priorità... molto più serenamente e tranquillamente propone i propri elaborati all’osservazione complessiva, alla condivisione. Dal canto nostro, sottolineiamo come
e quanto conti nulla, non solo poco, l’agognata priorità, anche perché, in fotografia, da centocinquant’anni a questa parte non si può inventare nulla di espressivamente significativo, casomai si può emozionare, stupire, commuovere, appassionare, entusiasmare, far riflettere, far pensare... con la magia del suo linguaggio applicato. In questo senso, hanno sostanzioso valore le idee, i progetti e le rispettive buone esecuzioni. E questa serie di Shystone / Pietra timida appartiene proprio a tanta e tale identificata e apprezzabile e lodevole categoria. Come è noto, le visualizzazioni fotografiche di Google Street View sono a disposizione di tutti, al semplice collegamento in Rete. Avvincenti e seducenti, sono realizzate senza altra intenzione (peraltro esplicita) che di rendere visibile aree cittadine, in forma diretta, con la convinzione e il realismo (presunto o reale che sia) della fotografia. Insomma, sono raffigurazioni panoramiche, lontane da qualsivoglia raffigurazione creativa, realizzate in quantità e per esclusiva informazione, fosse anche soltanto visiva. Detto questo, sono estremamente pratiche e utili per l’orientamento individuale, magari anche solo per rintracciare indirizzi, negozi o contorni. Quindi, la combinazione realizzata da Shystone / Pietra timida è affascinante, proprio perché non si basa su nulla di filtrato o per addetti, ma su quanto ciascuno di noi ha sotto gli occhi ogni giorno, oppure, e fa lo stesso, può avere sotto gli occhi ogni giorno. Da qui, l’accostamento e la coincidenza con opere pittoriche è tutt’altra questione: questa sì, individualmente creativa, encomiabile e apprezzata, quantomeno da noi.
tra timida non risponde a nessuno di questi, ma è doveroso inquadrare la sua azione spontanea entro l’ampio contenitore del quale, volente o nolente, istintivamente e senza intenzioni specifiche, fa comunque parte. In particolare, va richiamato l’ottimo saggio Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia, di Peter Galassi, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, nel 1989, dall’originale del 1981, che accompagnò la mostra omonima, allestita a New York. A testimonianza del valore e qualità di questo testo, ricordiamo che Peter Galassi è stato Chief Curator del Dipartimento fotografico del Museum of Modern Art (MoMA), di New York, dal 1991 al 2011, carica che assunse dopo essere stato Curatorial Intern, Associate Curator e Curator della stessa istituzione, rispettivamente nel biennio 1974-1975, dal 1981 al 1986 e dal 1986 al 1991. Peter Galassi teorizza che la coincidenza tra fotografia e prospettiva, sulla cui linea ha agito Shystone / Pietra timida, rappresenta un sostanzioso tema ricorrente della teoria fotografica (e qui si deve chiamare in causa lo storico dell’arte tedesco Erwin Panofsky, con il suo La prospettiva come “forma simbolica”, riproposto lo scorso 2012 dall’editore Abscondita). Di fatto, si realizzano due opposti modelli
PROSPETTIVA (IN APPROFONDIMENTO) In questo senso, è opportuno scomodare qualche studio che ha indagato il sottile rapporto che obbligatoriamente intercorre tra paesaggio pittorico e fotografico. Ovviamente, il progetto di Shystone / PieNel quadro di William Logsdail, sul lato sinistro della tela, si riconosce The Old Bank of England, raffigurata cinquant’anni prima della demolizione. Il soggetto è comunque il corteo del sindaco, che, il 9 novembre 1888, passa attraverso la Bank Junction. William Logsdail: The Ninth of November (The Lord Mayor’s Procession, London, 1888); 1890; olio su tela, 190x274cm.
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Northumberland House venne edificata tra il 1605 e il 1874. È stata la residenza londinese della famiglia nobile Percy, duchi di Northumberland, per molti secoli una delle più influenti dinastie aristocratiche inglesi. In tempi recenti, una parte è stata demolita, per consentire un passaggio viabilistico; la porzione restante ospita una libreria della catena Waterstones. Canaletto: Northumberland House; 1752; olio su tela, 84x137cm.
Il quadro di John Atkinson Grimshaw dà legittimo rilievo alla raffigurazione di san Giorgio martire, sul fronte della chiesa. Oggi, la Blackman Street dell’Ottocento si chiama Borough High Street, e offre una vista sul Shard, la più grande guglia che si vede, guardando a nord-est. John Atkinson Grimshaw: Blackman Street London; 1885; olio su tela, 76,5x63,8cm.
Lo Strand ha visto molti cambiamenti; nel corso dei secoli, è stato demolito, ampliato e sostituito più volte. La maggior parte degli edifici raffigurati sul dipinto è stata abbattuta. Lo Strand è una delle principali vie di Londra: la denominazione è stata registrata una prima volta, nel 1002, come Strondway, più tardi, nel 1185, come Stronde e nel 1220 come La Stranda. In ogni caso, le identificazioni si basano sull’antico termine inglese “Strand”, che significa riva. Autore sconosciuto: The Strand looking East from Exeter Exchange; 1822.
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visivi ed espressivi (concettuali): una realtà frequentabile da ciascuno e osservabile attraverso l’oggettività dello strumento ottico (la fotografia) e la sua rappresentazione interpretata da un mediatore (il fotografo e anche il pittore). Così che, coesistono due ipotesi di osservazione, che comportano propri rispettivi rapporti con lo sguardo e le intenzioni dell’autore, oltre che con le sue relative capacità di esecuzione. In ogni caso, a partire da antiche lezioni rinascimentali, si dipende sempre da una consuetudine prospettica, educata giorno dopo giorno, giorno per giorno, nella vita quotidiana, alla quale la fotografia avrebbe offerto una propria risposta, una propria interpretazione: da cui, ecco che l’analisi di Peter Galassi contrappone la pittura paesaggistica precedente al 1839 di nascita della fotografia alla pittura paesaggistica successiva, che ha dovuto necessariamente tenere conto di rinnovati stilemi visivi e raffigurativi (per non chiamare in causa anche la presunta veridicità della fotografia rispetto l’opera di fantasia del pittore: altra vicenda, considerazione sostanziale, ma non qui, ma non ora). Allo stesso momento, Peter Galassi, non ignora
che, a propria volta, anche la nascente fotografia ha debiti di riconoscenza con la pittura precedente. Ha magistralmente annotato Giacomo Daniele Fragapane, sul sito Around Photography, il cui logotipo sottolinea l’idea di “Art”, finalizzando i relativi alfabetici (www.aroundphotography.com; 15 novembre 2009): «In particolare, il nesso “pragmatico” tra pittura e fotografia è individuato a partire dall’abbandono, da parte di molti pittori dell’epoca, di un utilizzo “rigido” e teatrale della prospettiva a favore di una maggior mobilità e flessibilità della cornice del quadro (Galassi fa risalire questa cesura al graduale passaggio, nella pratica pittorica, dall’ébauche all’étude, dal bozzetto preparatorio allo studio dal vero). In questa chiave, il problema di “cosa sia” la fotografia degli esordi viene svincolato da ogni determinismo tecnologico, e diviene piuttosto una questione di regime scopico, qualcosa che riguarda il campo, ben più ampio e complesso, della formazione culturale delle prime forme moderne di rappresentazione visiva. «Estendendo il paradigma concettuale proposto da Peter Galassi al di là degli esempi presenti nel testo, e applicandolo “in blocco” ai primi decenni di esistenza della fotografia, sembra delinearsi una grossa dicotomia tra una fotografia che imita la pittura precedente -le prime manifestazioni del vedutismo fotografico (delle quali le Excursions daguerriennes, del 1840-1844, rappresentano l’esempio più tipico), che riprendono i temi e gli schemi visuali dell’incisione traghettandoli verso il modello della “cartolina”- e una fotografia che dialoga con la pittura coeva, su cui Peter Galassi si sofferma maggiormente, con puntuali riferimenti al milieu realista e impressionista, o che prosegue il cammino di pittori che utilizzavano la prospettiva in forme più sperimentali ed “esplorative” rispetto a quelle praticate nelle accademie». Citazione d’obbligo dal testo di Peter Galassi, in un passaggio suggerito proprio nell’analisi di Giacomo Daniele Fragapane, appena richiamata: «Sin da quando Leon Battista Alberti pubblicò Della pittura, Nel 1749, all’epoca del dipinto, il Palazzo di Westminster, come lo conosciamo oggi, non era stato edificato. Il Parlamento si riuniva ancora nell’Abbey’s Chamber. I Cavalieri, qui raffigurati in livree rosso fuoco, sono oggi riconosciuti come il più prestigioso e onorevole Order of the Bath. Canaletto: Westminster Abbey with a Procession of Knights of the Bath; 1749; olio su tela, 101,5x99cm.
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A parte la presenza di un paio di barche a vela, la vista del Greenwich dal fiume è rimasta per lo più invariata. Il Tamigi è ancora un fiume importante per il trasporto di merci, ma -risolti altrimenti i collegamenti di viaggionon è più utilizzato con l’intensità che ha caratterizzato il passato remoto. Canaletto: A View of Greenwich from the River; 1750-1752; olio su tela, 59,1x94cm.
Millennium Bridge incombe oggi su questo tratto del Tamigi. Ma, nel 1746, quando il quadro fu dipinto, la cattedrale di St. Paul era la sola a dominare lo skyline di Londra. Per trecento anni, è stato l’edificio più alto della città. Canaletto: The River Thames with St. Paul Cathedral on Lord Mayor’s Day; 1746; olio su tela, 26,8x37,6cm.
La cattedrale di St. Martin in the Fields si trova sul lato opposto di Trafalgar Square, a Northumberland House. A destra, la fotografia fa intravedere un mercato: uno dei pochi rimasti, rispetto la grande quantità che animava la Londra dell’Ottocento. William Logsdail: St. Martins in the Fields; 1888; olio su tela, 143,5x118,1cm.
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nel 1435, l’immagine prospettica è stata definita come un piano che interseca la piramide visiva [...]. A dispetto di tutte le ingegnose obiezioni possibili, la definizione di Alberti stabilisce che un’immagine prospettica, se costruita perfettamente e vista da un occhio che si trovi all’apice della piramide immaginaria, sarà come una finestra aperta sul soggetto. Partendo da questa definizione, qualsiasi immagine prospettica è implicitamente il prodotto di tre scelte fondamentali. Uno, l’artista deve scegliere la disposizione del soggetto, oppure (cosa praticamente equivalente) scegliere il momento in cui rappresentare un soggetto dato; Due, scegliere il punto di vista; Tre, scegliere l’estensione della veduta, o, in altre parole, stabilire i confini dell’immagine. Queste tre scelte determinano la composizione di base del quadro».
RITORNO A LONDRA Dunque, e ancora con Giacomo Daniele Fragapane, «La rappresentazione prospettica è innanzitutto, prima che una forma di organizzazione del rappresentato, il prodotto della scelta, da parte dell’artista, di un momento, di un punto di vista e di una estensione del quadro in relazione al mondo visibile». Tornando a terra, dopo una digressione a volo alto (troppo alto?), confermiamo come e quanto Shystone / Pietra timida sia stato attento e cauto nel-
le proprie combinazioni prospettiche, andando a alternare il tempo pittorico di più nobile profilo con la spontaneità fotografica soltanto utilitaristica, realizzata senza alcuna altra intenzione, né sovrastruttura espressiva. La creatività ce la messa lui (o lei?). Nel suo totale di dieci opere messe a frutto (a noi note, da noi avvicinate, e proposte in queste pagine), due sono del paesaggista inglese del secondo Ottocento William Logsdail (1859-1944), artista in stile en plein air, noto soprattutto per i suoi paesaggi urbani di Londra (eccoci!) e Venezia [a pagina 57 e pagina accanto], e una ciascuna del paesaggista inglese Balthazar Nebot, considerato e conteggiato come un “minore”, attivo tra il 1729 e il 1765 [a pagina 56], e dell’artista vittoriano John Atkinson Grimshaw (1836-1893), celebre per i suoi paesaggi e per le sue visioni notturne di città, a partire da Londra [a pagina 58]. Quindi, dopo un anonimo di inizio Ottocento [a pagina 58], ci sono cinque Canaletto (Giovanni Antonio Canal; 1697-1768), il pittore veneziano al quale più spesso e con retorica costante si attribuisce l’utilizzo della camera obscura [FOTOgraphia, dicembre 2008]. Oltre le raffigurazioni di Venezia, Canaletto ha dipinto anche in altre città. Ha vissuto a Londra, dal 1746 al 1756, oppure 1757, con due brevi interruzioni, nel 1750 e 1753. Tra le sue opere del periodo inglese, quelle inserite da Shystone / Pietra timida nelle sue London Street View : un paio di vedute del Tamigi, A View of Greenwich from the River (1750-1752) e The River Thames with St. Paul Cathedral on Lord Mayor’s Day (1746) [pagina accanto]; quindi, Northumberland House (1752) [a pagina 58], View of the Grand Walk (1751) [qui sotto] e, infine, Westminster Abbey with a Procession of Knights of the Bath (1749) [a pagina 59], per la realizzazione del quale l’artista ha fatto chiaramente uso delle tecniche utilizzate per raffigurare le grandi feste della lussuosa scenografia veneziana. Buona visione, buon divertimento. ❖ Nel corso del Seicento, i Pleasure Gardens, a Vauxhall, raffigurati in questo dipinto di Canaletto, ospitavano musica e intrattenimenti. È anche il luogo dove Joseph, fratello di Amelia, si ubriaca nel romanzo Vanity Fair, di William Makepeace Thackeray (tradotto in italiano in La fiera della vanità). Canaletto: View of the Grand Walk; 1751; olio su tela, 51x76cm.
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Ritorno al grande formato di Antonio Bordoni
STENOPEIKA 810S
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SAMUELE PICCOLI / STENOPEIKA (5)
A
Anche qui, come altrove, su questo stesso numero e in molte occasioni precedenti: è probabile che le coincidenze siano i soli accadimenti che rivelano come e quanto la vita possa avere anche senso, possa avere un qualche senso. Così, ora, e in conferma, annotiamo una confortevole coincidenza di date che allinea la presentazione ufficiale della nuova configurazione StenopeiKa 810S, nel senso di “Super”, con la Giornata Mondiale della Fotografia a Foro Stenopeico (Worldwide Pinhole Photography Day): domenica ventisette aprile, in una manifestazione specifica a Verona. A questo punto, va sottolineato e precisato come, dal 2001 di origine, la Giornata Mondiale della Fotografia a Foro Stenopeico, della quale ci siamo occupati in altre occasioni, le più consistenti delle quali nel marzo 2007 e aprile 2008, si proponga per celebrare la fantasia, la creatività, l’arte, il divertimento e l’esperienza della fotografia senza obiettivo. Promossa a livello internazionale, è aperta a tutti quanti ne vogliano far parte. Nei diversi fusi orari della Terra, in forma autonoma, oltre che spontanea, gli autori e gli appassionati sono invitati a una partecipazione attiva, oltre le specifiche iniziative a tema che vengono organizzate e svolte da associazioni e organizzazioni. Si chiede di realizzare una fotografia con un qualsiasi sistema a foro stenopeico (ufficiale o autocostruito), per contribuire alla salute e conseguente continua diffusione di un procedimento fotografico storico, che prevede l’esposizione senza obiettivo di materiale sensibile e la sollecitazione, sempre senza obiettivo, di sensori digitali. Dopo questa annotazione istituzionale, è necessaria una nostra precisazione. Riveliamo anche qui un certo sconforto per le frequentazioni di quei fotografi, di quegli autori, che approdano all’uso del foro stenopeico come ultima spiaggia di controversi e contraddittori percorsi individuali, totalmente privi della minima co-
Nella casualità e disordine organizzato di un luogo di lavoro, in questo caso, di produzione, visualizzazioni del prototipo operativo della nuova configurazione folding grande formato StenopeiKa 810S: per fotografia senza e con obiettivo... in 8x10 pollici.
scienza e coerenza espressiva. Così che, in molti casi, che abbiamo anche avvicinato e incontrato personalmente, si finisce per confondere i termini del discorso creativo: la nobiltà del foro stenopeico diventa alibi dietro il quale celare l’assoluta assenza di valori, intenzioni e capacità. Per fortuna, in contraltare, ancora ai nostri giorni, soprattutto ai nostri giorni (pare incredibile, ma è così), la fotografia a foro stenopeico impegna di nuovo eccellenti autori, che
declinano con intelligenza la profondità culturale dell’esposizione senza obiettivo. In questo senso è doveroso sottolineare il valore di coloro i quali agiscono con il foro stenopeico per realizzare immagini fotografiche con alto senso visivo: immagini che si affermano e impongono per la propria indiscussa espressività, che scarta a lato la forma (per quanto indispensabile e qui applicata con ricercata volontarietà), per portare in primo piano i contenuti. Allo stesso momento, la magia del foro stenopeico è appunto tale: magia. Per un attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni, la proiezione del foro stenopeico, così come la creazione di una immagine fotografica (chimica o digitale, poco conta), surclassa tutto. Non ci sono più impellenze quotidiane, ma solo la natura che si fa di se medesima pittrice,... con relative considerazioni nostre e altrui (di Michele Smargiassi), già riportate in FOTOgraphia, del settembre 2012. Risolti i perché, o -quantomenoindicati i perché, c’è il come: esattamente in questo ordine. Ecco qui, la StenopeiKa 810S, che si aggiunge all’offerta differenziata, che già propone una affascinante e avvincente quantità e qualità di configurazioni, estremamente articolate (FOTOgraphia, maggio 2012). A differenza di quanto realizzato fino a oggi, e quanto prospettato fi-
Ritorno al grande formato no a oggi dalla convincente produzione italiana (da Pistoia: www.stenopeika.com), l’attuale 810S non è chiusa e vincolata a se stessa, ma si promette e concede una struttura modulare, ereditata dalla lunga e nobile storia degli apparecchi fotografici grande formato, con costruzione folding (a base ribaltabile, per trasporto confortevole e pratico). La sigla numerica è esplicita, almeno per coloro i quali hanno già incontrato e/o frequentato la fotografia grande formato: “810”, nel senso di otto-per-dieci... pollici, ovverosia 20,4x25,4cm, con interpretazione alternativa italiana 18x24cm. A parte la piastra porta obiettivi con fori stenopeici in torretta (o foro stenopeico fisso), opportunamente in diametro adatto a diversi tiraggi al piano focale, si registra che la StenopeiKa 810S può utilizzare anche obiettivi tradizionali, per l’appunto su piastra porta ottica di antica memoria: di ogni produzione tra quante hanno
definito il passato prossimo e remoto della fotografia grande formato. La sua costruzione folding prevede che l’apparato si ripieghi a valigetta, con maniglia di trasporto ricavata nello stesso corpo macchina: dimensioni chiuse 37x34x20cm, peso 4,5kg. Indirizzata, quindi, sia alla fotografia arbitraria (foro stenopeico / pinhole), sia alla fotografia antica (con processi ripresi da operatività ottocen-
Costruita in Mdf o multistrato di betulla, la StenopeiKa 810S è proposta in due versioni: Top (accoppiamento dorso-châssis a pressione e vetro smerigliato) e Basic (accoppiamento del dorso ad elastici).
tesche, dal collodio umido in avanti), sia alla fotografia tradizionale, la StenopeiKa 810S -in Mdf o multistrato di betulla- propone due versioni: Basic, con accoppiamento dorso-châssis ad elastici; Top, con accoppiamento dorso-châssis a pressione e vetro smerigliato di visualizzazione. Nell’uso, si registra una estensione al piano focale da 10cm a 53cm, con sostanziosi movimenti dei corpi mobili, anteriore (porta obiettivo) e posteriore (focale). Nello specifico, il corpo anteriore è dotato di rotazioni di basculaggio di venti e trenta gradi nelle due direzioni orizzontali e di trenta e trenta gradi nelle due direzioni verticali; sempre il corpo anteriore decentra di nove più nove centimetri in orizzontale e sette più sette centimetri in verticale. Il corpo posteriore è privo di decentramento, e offre un basculaggio di dodici più trenta gradi attorno l’asse orizzontale. Insomma... sostanzioso ritorno al grande formato. Ne riparleremo. ❖
Sguardi su
di Pino Bertelli (Burkina Faso 30 volte gennaio 2013 / Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte gennaio 2014)
M
Merda! puttanaccia la miseria!... corpo di un cristaccio morto (sempre troppo tardi)!... che il diavolo se lo porti!... insieme alla masnada di canaglie che lo adorano!... alla pretaglia senza regalità e alla nobiltà dell’odio affinato!... tutti al macello!... con i saprofiti del sapere!... buoni loro!... fedeli servitori di ogni potere!... in ogni epoca!... poliziotti dell’intelligenza!... adulatori di forche!... arlecchini di molti padroni!... alla garrota!... senza lacrime!... in pasto ai cani randagi!... l’appellativo di ribelle a tutto!... senza dio, né patria!... è l’insulto più elogiativo che si possa rivolgere a un Uomo in rivolta! L’indignazione universale passa dalla coscienza insorta e dalla conoscenza che gli uomini di potere sono validi solo il giorno in cui pendono dalle loro stesse forche! Battuta di spirito (ma non troppo): nell’immaginario di un padrone si cela un’anima di assassino. È sempre quello che detestiamo a qualificarci!... lo sanno perfino gli impediti! «Quando incontriamo un essere vero, la sorpresa è tale che ci chiediamo se siamo vittime di un abbaglio» (Emil M. Cioran), o comparse in un banale film da Oscar alla Spielberg o Benigni. Lo scoramento è sapere che l’ottimismo è una mania degli imbecilli, e la speranza il postribolo degli agonizzanti. Meglio l’utopia!... che è l’arte del ribaltamento! Almeno sappiamo contro chi sputare! Bisognerebbe essere nel partito dei deficienti, per credere che l’arroganza della finanza, la corruzione della politica e le armature della fede possano portare a qualcosa di buono! Allora... tabula rasa! Prima sarà!... meglio è! L’amore dell’Uomo per l’Uomo insegue il profumo di libertà e giustizia sul filo dei secoli! E solo i bambini, i poeti e i folli sanno che la bellezza coincide
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VIVIAN MAIER col cammino che porta dalla libertà alla liberazione.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’INDEGNITÀ È la fotografia dell’indegnità mercantile che tradisce la vita quotidiana e la fotografia stessa... invece di rendere la vergogna del potere ancora più vergognosa. Gli ultimi, gli esclusi, gli sconfitti -porco boia! l’abbiamo gridato cento! mille volte!- cadono in fotografia come i Comunardi sulle barricate di Parigi! Il mondo comincia e finisce con loro!... per la miseria! E i fotografi? I fotografi fissano il loro assassinio in bella posa, per la storia dei vincitori!... bella roba! La fotografia che vale non ha bisogno di martiri!, né di eroi!, tantomeno di gente che fa della fotografia una sommatoria del miserabilismo e dell’edonismo da galleria. I diseredati hanno diritto alla dignità (calpestata dai governi) e non dello spettacolo decadente che deterge millenni di soprusi invendicati! Applicare la fotografia come crocifissione e resuscita del delitto di indiscrezione è come riprodurre i ferri dei dominatori e infierire su chi ha come primo pensiero del mattino non morire per fame, o in qualche guerra sostenuta dai governanti dello spettacolare integrato. Si può essere fieri di ciò che si è fotografato, ma si dovrebbe esserlo molto di più di ciò che abbiamo contribuito a smascherare. Anche la fotografia sociale è da reinventare. La fotografia può esistere senza la realtà, ma non senza la possibilità della realtà. Al culmine dell’indecenza, una sola immagine riuscita vale più di tutto il sapere fotografico... il resto è comunicazione abortita! Roba da dizionario per rincitrulliti dell’impero dei media! Sozzura patinata! Megalomania dell’impotenza! Che schiattino i fotografi senza utopie!... al macero tutti!... in-
sieme alle loro immagini da boudoir! Ci si può immaginare un fotografo che non abbia in corpo la voglia di ammazzare, prima di fotografare? C’è sempre un premio internazionale che lo abilita all’assassinio! È sempre quello contro cui ci scagliamo, o assolviamo, a qualificarci briganti o coglioni! La fotografia -va detto!esprime la magia del disinganno o è parte del firmamento dell’ipocrisia! Sbarazzarsi della fotografia, a ogni livello o stadio di putrefazione estetica, significa non privarsi del piacere di mostrare la sua ridicolezza! Fotografi, critici, storici e addetti alla manutenzione mercantile della fotografia confondono debitamente il genio col cretinismo, senza sapere mai che la bellezza della fotografia sta in ciò che c’è di più arcaico e vitale nell’intera umanità: la rivolta. Gli dèi di ogni arte, di ogni fede, di ogni politica sono sempre all’erta. Vivono nel terrore di essere declassati a piccoli uomini quali sono! Costruiscono mitologie e rancori ordinari, perché non sanno nemmeno accendere il fuoco di una stufa!... né acquistare il biglietto di un treno o deporre una rosa rossa sui maglioni inzuppati di sangue delle giovani generazioni che nel passato -come oggi, ancora- hanno osato assaltare il cielo spento dei potenti... e fatto dell’utopia incendiaria i migliori anni della loro vita. Il disgusto per ogni potere è un sintomo di salute!... una condizione necessaria per andare al di là dei propri singhiozzi... fare della propria esistenza ereticale un’opera d’arte. Mai il potere si è stimato così tanto! Mai l’arte è stata così asservita! Mai la stupidità (specie quella elettorale) è stata così diffusa! È così che si creano i destini! I fuori gioco non meritano desideri!... solo miseria, centri com-
merciali e bombe! Il Nobel per la pace, la vecchia Europa se lo merita proprio! Il traffico d’armi, della droga, dei diamanti, dell’acqua, i colpi di Stato della finanza internazionale passano da qui! (benedetti dalla bandiera a stelle strisce di Wall Street). Le democrazie parassitarie si sostengono bene!... come i regimi comunisti! Esistono finché dura il sostegno degli schiavi che hanno allevato! Come per dio!... finché dura la stupidità della grazia e della vita eterna. Al fascino della lusinga politica e al fervore ottimista degli eruditi, preferiamo di gran lunga la compagnia dei quasi adatti, ubriachi o folli, perché non vogliono avere a ogni costo dei discepoli. «A che pro frequentare Platone, quando basta un sassofono a farci intravedere un altro mondo?» (Emil M. Cioran: Un apolide metafisico. Conversazioni; Adelphi, 2004). Anche la fotografia senza compassione, né malinconia, si afferra alle nefandezze del passato e alle buffonerie del futuro. La fotografia che si avvicina alla verità è superiore sia alla verità, sia alla fotografia. Quando è grande, la fotografia esprime il ritratto di un’epoca.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA VITA QUOTIDIANA Tenera è la fotografia, quando incita gli Uomini della Terra a ribellarsi contro un sistema che ogni giorno offende la dignità. Lo sguardo autentico della fotografia sorge ancora dove la vita quotidiana è trattata con amore, compassione e coraggio necessari per congedarsi dal feudalesimo culturale e dalle forze finanziare che lo sostengono. Spesso, storici, critici, galleristi si avvedono trent’anni dopo della grandezza poetica di un fotografo, e cercano di imbalsamarlo nel catramaio mercantile. Tuttavia, i poeti di ogni
Sguardi su arte sanno che il pane si spezza, non si taglia!... ed è per questo che la loro creatività s’ispira al vissuto, al sogno e alla disinvoltura... come l’immensa opera di Vivian Maier. Il fatto è che, in fondo, le sue immagini (come per i grandi corsari della fotografia) rimangono sempre da qualche parte nell’infanzia, dove hanno giocato con spade di legno, e lì ritornano e contengono il sale del vero e dell’eternità. Una annotazione necessaria per i saccenti e i prosseneti dei dizionari: Vivian Maier nasce nel 1926, a New York; cresce in Francia, e al ritorno negli Stati Uniti lavora come bambinaia, per quasi quaranta anni, a Chicago. Si sa poco di lei, nulla del suo percorso di studi; impara la lingua a teatro; fino al 2007, il suo lavoro fotografico resta sconosciuto. Ciò che sappiamo è che nel 2007, all’età di ottantuno anni, non potendo sopravvivere, dovette cedere la maggior parte delle sue proprietà a un fondo d’asta. Questa “dilettante” della fotografia di strada lascia a un “rigattiere” circa centomila fotografie (mai pubblicate, né viste). Nel 2009, un ventiseienne (John Maloof), incuriosito da quelle scatole piene di migliaia e migliaia di fotografie, ne compra circa trentamila, e si accorge presto di essere di fronte a un talento innato: così, contatta altri compratori e mette insieme l’intera l’opera della fotografa (negativi, stampe, filmati, cassette d’interviste audio, macchine fotografiche, documenti appartenuti a Vivian Maier). John Maloof cerca informazioni su questa misteriosa fotografa; tutto ciò che riesce a trovare è un trafiletto su un giornale, che annunciò la sua scomparsa, avvenuta a Chicago (per una caduta sul ghiaccio) nel 2009, all’età di ottantatré anni (questa annotazione si avvale di diverse fonti; non è poi significativo precisare troppo sulla vita di una autrice che ha evitato accuratamente la fogna del suc-
cesso sociale; le sue immagini dicono tutto ciò che si doveva dire nella propria epoca; per i curiosi senza curiosità, rimandiamo -invece- al sito ufficiale www.vivianmaier.com). Ciò che resta di questa persona singolare, malinconica, solitaria, sono le fotografie di una vita (per la maggior parte scattate con una Rolleiflex biottica), in gran parte non ancora stampate su carta.
quotidiano non aderiscono che alla pelle di coloro ai quali la lebbra del successo non s’attacca. I veri poeti di ogni espressione artistica sono sempre misconosciuti. Quando vengono idolatrati, sono morti. (Da qualche stagione, nell’effluvio del riconoscimento artistico di Vivian Maier, si succedono mostre, articoli, rivisitazioni -non sempre pertinenti- della scrittura fotografica della bambinaia. So-
«A colui che ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha» Matteo 13, 12 Di lì a poco, anche i ciechi e sordomuti della critica sentenziano che ci troviamo di fronte a un genio della street photography (che non ha nulla da invidiare a certi blasonati maestri della fotografia del letame profumato d’incenso, come Alfred Stieglitz). Va detto. Abbiamo talmente ascoltato, visto, letto che siamo nauseati del genio in fotografia e dappertutto dove si fa professione di pensare. Troppi esteti e esegeti della street photography hanno dissertato su ciò che non conoscevano: è tempo di ristabilire la grandezza della fotografia diretta e lo straordinario nell’ordinario della vita quotidiana. Vivien Maier... la tata, la colf, la serva delle famiglie della media borghesia americana, nei ritagli di tempo -tra un culetto di bambino da pulire, una stanza da rassettare, giornali del mattino da comperare (per suoi datori di lavoro)-, si aggirava con una Rolleiflex nelle strade delle città (soprattutto a New York e Chicago), e con amorevolezza e un tanto di cinica ironia (che avrebbe fatto bene perfino all’ultimo finanziere che si è impiccato per il crollo delle azioni in Borsa) riusciva a cogliere valori e disvalori della dolente umanità che fermava nella sua macchina fotografica. Le sue immagini del
no state pubblicate monografie: Vivian Maier. Street Photographer, a cura di John Maloof, 2011; Vivian Maier: Out of the Shadows, di Richard Cahan e Michael Williams, 2012; Vivian Maier: SelfPortraits, a cura di John Maloof, 2013; e segnalo i documentari Vivian Maier: Who Took Nanny’s Pictures, di Jill Nicholls, del 2013, per la serie televisiva Imagine, Finding Vivian Maier, di John Maloof e Charlie Siske, del 2013, The Vivian Maier Mystery, di Jill Nicholls, del 2013. È l’inizio di qualcosa che a che vedere con la poetica straordinaria di questa fotografa di strada e con gli affari: i miti hanno bisogno di incensatori, come i martiri di supplizi. Tuttavia, la fotografia randagia di Vivian Maier travalica ogni macchinazione farisaica e disselcia i viatici degli annali ufficiali della fotografia, per dare più verità alla vita quotidiana). A leggere con attenzione la fotovita di Vivian Maier restiamo abbagliati di tanta completezza formale, della sapienza tecnica, della forza estetica/etica che le sue immagini contengono: bambini che giocano sui marciapiedi, giovani innamorati, neri di “buona famiglia”, bianchi ricchi, poveri ubriachi, star del cinema, gente delle periferie urbane... vanno a costruire un rizomario del vissuto quotidiano, al di là del bene e
del male... figurano un atlante di persone amate (i bambini, gli indifesi) o respinte (gli arricchiti, i potenti), inconsapevoli della propria bellezza, o derisione, e del loro debutto sul palcoscenico della strada. In ogni fotografia, si coglie l’attenzione di Vivian Maier per i particolari... i corpi, gli atteggiamenti... una sorta di semplicità volontaria, che contrasta e deterge l’emersione della produzione di massa e del mercato, che già ai suoi tempi griffava l’esistenza (non solo) degli americani. Le sue fotografie sembrano dire che i rapporti tra gli Uomini, le Donne, e le forme di vita che li favoriscono, sono influenzati da un’aridità dei sentimenti affogati in una quotidianità affrettata e sempre più affollata nell’anonimia: per estensione, non proprio arbitraria, considerato che dicono (John Maloof) che Vivian Maier avesse inclinazioni socialiste, femministe e fuori dal conformismo del proprio tempo. La gioia, la tenerezza, la bellezza, la giustizia, la condivisione, l’accoglienza, che sono al fondo del suo fotografare, mostrano che la creatività non dipende dal possesso; tuttavia, la semplicità volontaria non è abbastanza, e allora, nel corpus delle sue immagini, vediamo emergere il risentimento e il desiderio delle cose negate. Di più... un percorso di accesso ai non privilegiati e una forza di resistenza che ha la capacità di fronteggiare le incomprensioni e sostenere l’immaginazione verso nuovi desideri di vita sociale. La messa a fuoco dell’iconografia di Vivian Maier taglia via le costellazioni della sociologia insegnata. Le implicazioni culturali/politiche di Dorothea Lange, Lisette Model e Diane Arbus sono disseminate ovunque, e la forza dello sguardo è la stessa di queste maestre della fotografia insequestrabile. Nelle scaturigini del fare-fotografia di Vivian Maier, l’autentico parla per l’Uomo, la Donna, attraverso la ragione, l’intima fratellanza, l’a-
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Sguardi su more... e la fotografia costituisce un modo di pensare che, in quanto concezione dell’esistente, diviene l’essenza stessa di chi la pratica senza velature o censure mercantili. Infatti, compito del fotografo è infrangere gli ostacoli del perbenismo e della benevolenza, e ricondurre l’Uomo, la Donna a se stessi. È lo stupore del vero che sconfigge l’indifferenza, e sono fotografie come quelle di Vivian Maier che offrono schegge di verità e prospettive sterminate, e -nell’intreccio di situazioni rovesciate- si dischiudono ad epoche sconosciute. Gli autoritratti di Vivian Maier (anche quelli a colori) ci appaiono iconici, anche troppo ricercati... simbolici... non proprio riusciti (come altre immagini che si perdono nel formalismo di oggetti, specchi, tende, linee, ombre, luci). È altro che fa di questa fotografa di strada, e della sua grandezza autoriale, un’eretica della fotografia d’impegno civile. Pensiamo alla ritrattistica più diretta: una cartografia di volti, corpi, pezzi di vita quotidiana, nei quali vediamo destini spezzati e difficoltà esistenziali, dove la verità esige che si riconosca quel che è stato e ciò che sarà. Walter Benjamin sosteneva che, quando procede libera e sovrana, la fotografia ha un effetto distruttore e purificatore e si rende indipendente dalle convenzioni e dagli stili imposti. La fotografia così realizzata contiene l’epifania del tempo e della storia, e si configura in una fenomenologia dell’esistente come coscienza delle molteplicità: raccoglie la vivenza collettiva e libera dalla prigionia di questo mondo. L’apparenza della totalità che Vivian Maier rivela nelle sue fotografie è un profluvio di asserzioni immaginali ricche di similitudini, allusioni, autoinganni, sviamenti, che vanno al di là dell’imperio di leggi, codici, classificazioni. E una tale nobiltà d’animo porta fuori da noi stessi e si affranca al rispetto di ogni singola persona fotografata. La fotografia acquista consa-
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pevolezza di sé quando incontra il coraggio della speranza e ingenera la fine del dolore nella ricerca della felicità possibile. Quando si considera apolitica, la fotografia ha sempre un significato politico; la fotografia del vero è una costruzione della comunità nella libertà e respinge l’insolenza ripugnante della politica che si fonda sulla violenza. La politica domina su anime di schiavi, e la fotografia può essere un utensile che denuncia o incrina i pretesi valori dei corruttori e degli affossatori della libertà. Ad entrare nella serie dei contatti fotografici di Vivian Maier bene si apprendono le intenzionalità creative della fotografa col cappello, di semplice eleganza vestita. Le serie fotografiche sono la testimonianza di un acume espressivo da studiare con attenzione. La fotografa è parca, quasi ossessionata dalla ripetizione formale; la distanza tra soggetti e autore è sempre la stessa. Vivian Maier sembra scomparire di fronte ai soggetti
visualizzati; tuttavia, si sente la presenza di un intuito che accompagna le sue inquadrature. Non sono, però, fotosequenze... ma ricostruzione di un evento quotidiano per “strappi”, dove la veridicità del momento si trascolora in comprensione, e il bello, il brutto, il volgare e il regale sono imperativi di verità, di realtà significanti. Si fotografa per vivere o per meglio morire... il resto è prostituzione. La fotografia della malinconia, di Vivian Maier, è una sorta di gioia raffinata: non appartiene a niente, se non alla propria sensibilità esiliata ai bordi della realtà. Non ha patria, né identità, che non sia l’atto del fotografare, testimoniare il vero che avanza. Se non si possiede il senso dell’irrealtà del ludico, si è cattivi fotografi e si perde il sentore di ciò che vive, di ciò che sente la soggettività del fotografo: ci si aggrappa disperatamente a una tecnica come a una fede, e la seduzione di ciò che accade davanti alla macQuesto Sguardo su, di Pino Bertelli, è arrivato in redazione a metà gennaio. La sua pubblicazione segue la cronologia con la quale l’autore scrive i suoi (apprezzati) interventi. A integrazione di quanto qui riportato, concluso da Pino Bertelli all’inizio dell’anno, in tempi antecedenti a quanto possiamo aggiungere (oggi), segnaliamo che domenica nove marzo, La Repubblica ha pubblicato tre pagine su Vivian Maier, con lancio dalla prima (!... La storia straordinaria della tata con la Rolleiflex), a firma di Alessandro Barricco. Non entriamo in alcun merito: basta solo la comunicazione dovuta.
china fotografica si colloca a fianco di un dio (senza eresia) che fa ridere perfino un visionario che vede nei falsi bisogni dei piaceri mercantili l’agorà della felicità. Il fatto è che la felicità si crea, non si paga, diceva. Dove la fotografia ha seminato la propria felicità mercantile non spunta più che la sua tirannia. La fotografia della vita quotidiana fruga nelle ferite dell’esistenza, anzi deve allargarle o non è niente. A cosa serve la fotografia? A imparare una tecnica o un delirio di consenso? No!... di certo! Per imparare le tre o quattro regole della fotografia, basta andare a scuola dal primo imbecille che ha letto qualche libro e ha fatto un po’ di fotografie la domenica. La fotografia, io credo, deve essere davvero una ferita sanguinante nel corpo della società!... che può cambiare in qualche modo la vita dell’autore e del lettore. Si tratta di lavorare a una filosofia del risveglio e alla fustigazione dei luoghi comuni. Una fotografia che promuove l’esaltazione o la sacralità dell’immagine consumerista è una fotografia fallita! Si tratta di sabotare lo stile della fotografia accademica, attentare l’idea di fotografia come sistema che si erge sulla disuguaglianza sociale. La fotografia che agisce sotto il fascino dell’impossibile è la sola capace di generare un’utopia di bellezza e giustizia nel mondo, e minaccia da vicino la sclerosi, la rovina, la catastrofe annunciata della civiltà dello spettacolo. È l’utopia a riscattare la storia delle violenze subite! È terribile che un fotografo riesca a diventare celebre! Il potere bruttura ogni cosa! La fotografia senza la grazia dell’utopia è un ossessione del nulla o del vuoto! La fotografia è la negazione della morale dominante! La fotografia è l’elusione della menzogna e della mediocrità (statuale, religiosa, finanziaria, ideologica, culturale), che si sbarazza di tutti i tormenti della notorietà in nome della conoscenza dell’Uomo, della Donna. E li sdogana nel mondo. ❖