Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXI - NUMERO 201 - MAGGIO 2014
I sogni di Walter Mitty ATTO D’AMORE PER LIFE
Nikon Df e Fujifilm X-T1 OLTRE SE STESSE
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(nuovo o rinnovo) in omaggio Betty Page
Nikon Df e Fujifilm X-T1 OLTRE SE STESSE
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O T N E M A N O B B A N I O L SO
I sogni di Walter Mitty ATTO D’AMORE PER LIFE
ANNO XXI - NUMERO 200 - APRILE 2014
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XXI - NUMERO 201 - MAGGIO 2014
ANNO XXI - NUMERO 199 - MARZO 2014
Gian Paolo Barbieri Giovanni Gastel LA MODA FOTOGRAFATA
Gabriele Chiesa Paolo Gosio DAGHERROTIPI E CONTORNI
(trentadue visioni più una)
di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)
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prima di cominciare PASSO INDIETRO (DOVEROSO E DOLOROSO). Confido sulla fiducia che si è instaurata su queste pagine, da queste pagine, tra noi che proponiamo e chi legge. Promessa come omaggio per l’abbonamento 2014, nella sua stesura, la monografia Fotografia nei francobolli è diventata qualcosa di diverso, di molto diverso, da quanto originariamente preventivato. Subito detto: non potrà essere il volume accompagnatore della campagna abbonamenti, perché si stanno rivelando i termini di una analisi e un approfondimento e un racconto assai compendioso. I conti sono presto riferiti: rispetto le centosessanta pagine dei titoli che abbiamo pubblicato in precedenza, Alla Photokina e ritorno, nel 2008, e 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, nel 2009, entrambi di centosessanta pagine -a tutt’oggi, in corso di lavorazione-, si prevede che Fotografia nei francobolli superi abbondantemente le seicento pagine.
[In un mondo magico nel quale] Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza. Da Georges Simenon; su questo numero, a pagina 20 In fondo, ma neppure tanto in fondo, la fotografia non può mai essere pensata come avanguardia sociale, ma deve essere sempre considerata nel proprio ruolo di inviolabile infrastruttura... altrettanto sociale. mFranti; su questo numero, a pagina 9 Oggi, in un tempo nel quale un diffuso appiattimento ha sconvolto radicalmente la concezione di chi fotografa, è opportuno riprendere lezioni espressive che hanno scandito tempi e modi di stagioni fantastiche. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 59 La realtà, come la verità, risiede nella bellezza e nel dolore dei secoli che cadono in un’immagine. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64
Copertina Fotografo attento sia alla propria creatività applicata, sia alle osservazioni d’intorno (nello specifico, a propria volta fotografiche), il bravo Virgilio Fidanza ha osservato le ritualità della fotoricordo dei nostri giorni, che si replicano incessantemente sul Bund di Shanghai. Ampia e ammirevole selezione di immagini, da pagina 34
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio da un francobollo emesso in Ungheria, il 15 giugno 1989, in occasione dei centocinquant’anni della fotografia: 1839-1989
7 Editoriale Verrà pubblicato a autunno inoltrato, e si svolge su ventisei capitoli tematici: al solito, le emissioni filateliche sono soprattutto pretesto per parlare di fotografia, e la Fotografia -a propria volta- è pretesto per parlare d’altro... forse di Vita. Si prevedono oltre milleseicento illustrazioni specifiche (francobolli e dintorni), completate da altre quattrocento illustrazioni in accompagnamento e chiarimento e definizione. Incredibile a dirsi, sono accreditati centosessanta paesi del mondo, per quanto due di invenzione. In assenza di una identificazione ufficiale di “fotografia nei francobolli”, l’individuazione di ciò che secondo noi è meritevole di attenzione fotografica è trasversale a molto. Sempre e comunque per una visione che sia s-punto privilegiato di riflessione. Grazie per la comprensione. M.R.
Afip. Accantonata la propria originaria definizione di associazione italiana, questa autorevole unione (di intenti) si sta offendo come referente privilegiato e qualificato della fotografia nazionale. Soprattutto, nel coinvolgimento delle nuove generazioni di professionisti e autori. Ma non soltanto in questo
8 Chi fotografa, oggi (2) Dopo aver considerato coloro i quali si occupano di fotografia con consapevolezza e volontarietà (in FOTOgraphia, dello scorso aprile 2014), valutiamo quanto la fotoricordo familiare sia stata trasformata, non solo influenzata, dalla recente alternanza tecnologica
10 Leica con impeto Novità di mercato, la nuova e intrigante Leica T rivela anche una innovativa posizione tecnico-commerciale
MAGGIO 2014
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
12 Epopea Tri-X Per i sessant’anni della celeberrima pellicola bianconero Kodak da 400 Iso (in origine 27 Din / 400 Asa), il bimestrale Intelligent Life, dipendente dal settimanale inglese The Economist, ne ha celebrato valore e fasti Traduzione (e altro) di Lello Piazza
18 Evocazioni con stile Le illustrazioni che accompagnano un affascinante album portafotografie, realizzate da Christine Berrie, ripercorrono una fantastica epopea fotografica
22 Ecce homo Terzo appuntamento espositivo del Mast, di Bologna: con tanti distinguo, soprattutto di carattere sociale, la mostra Capitale umano analizza la sostanza del lavoro di Angelo Galantini
29 Faccia a faccia Soprattutto, Nikon Df e Fujifilm X-T1, in rappresentanza di quanto assolve se stesso e gratifica l’intero comparto fotografico nel proprio insieme e complesso. Eccoci qui di Antonio Bordoni
34 Ritualità della fotografia Incessante e elettrizzante sequenza di visioni che Virgilio Fidanza ha realizzato sul Bund di Shanghai di Maurizio Rebuzzini
42 Linhof Technika Studio 70 6x9cm, dal 1964, con Voigtländer Apo-Lanthar 100mm f/4,5 a cura di New Old Camera
44 Straordinario atto d’amore Il film I sogni segreti di Walter Mitty celebra il giornalismo di Life. Meglio, il suo fantastico fotogiornalismo. Da cui... Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
52 Cose di Natura Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin: visioni fotografiche comparate su un tema comune
Anno XXI - numero 201 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Antonio Bordoni Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Virgilio Fidanza mFranti Chiara Lualdi Luisa Menazzi Moretti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Marco Maria Zanin Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
59 Luci e ombre Oltre il proprio svolgimento ordinario, la monografia Film Noir. 100 All-Time Favorites offre utilità fotografiche
64 Philip Jones Griffiths Sguardo sulla fotografia liquida e in anarchia di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale A
utorevole associazione di categoria, con radici che affondano sia nel Tempo, sia nel Prestigio, nella sua recente combinazione con la potente CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato), l’Afip ha intrapreso un percorso di rinnovamento sostanziale, rivolto alle nuove generazioni della fotografia del nostro paese. Per farlo, senza alcun clamore, è stato riequilibrato l’acronimo di identificazione. Nata Afip (Associazione Fotografi Italiani Professionisti), all’esordio degli anni Sessanta, questa convincente unione (di intenti) si propone oggi come Afip - International. Personalmente, siamo tra coloro i quali hanno partecipato al dibattito (latente) a conseguenza del quale è stata tralasciata l’identificazione italiana: infatti, siamo convinti che non esista -e mai è esistita- una scuola italiana della fotografia. Dunque, se anche di questo potrebbe trattarsi, non è risolutiva una eventuale specifica in questo senso. Fin qui ci siamo, ma occorre una precisazione d’obbligo. Certo, non esiste alcun contenitore italiano sovrastante e determinante; però, allo stesso tempo e momento, è doveroso riconoscere che la somma di esperienze e visioni individuali dei fotografi (per quanto ci riguarda direttamente) compone i tratti di una sostanziosa italianità. Ovvero: per quanto assente qualsivoglia ipotesi di scuola di pensiero fondante e sovrastante, non possiamo ignorare la socialità entro la quale si sono formate le singole coscienze, che poi si allineano le une alle altre per comporre un contesto più ampio e complessivo. In definitiva, nazionalismi a parte, non possiamo non prendere in considerazione che ciascuno di noi, svolgendo la propria creatività, ma anche soltanto vivendo giorno per giorno, risponde a uno spirito coltivato nella quotidianità del nostro paese e alimentato dalla sua storia culturale (di nobili trascorsi, per quanto di misera attualità). Insomma, nessuno di noi può evitare di essere italiano, né ignorare di esserlo; e con questo si possono identificare prerogative, caratteristiche, peculiarità... ma anche talenti, doti e virtù. Professionista nelle intenzioni originarie, conservate nella propria personalità presente, l’Afip si sta orientando ad esprimere un valore sovrastante e imperativo/categorico: quello di registrare e raccogliere la testimonianza della fotografia nazionale, al fine di darle giusto peso e merito, magari anche in proiezione internazionale. In questo senso, il punto di osservazione e il palcoscenico di proposta dell’Afip hanno tempo, modo e competenza (autorevolezza!) per sottolineare peculiarità, specificità e singolarità che possono essere sfuggite (e che spesso sono sfuggite) a osservazioni critico/teoriche estranee al concreto dell’impegno effettivo di fotografi-autori che hanno accolto e soddisfatto esigenze latenti nella società... con il reportage, la fotografia di moda, di design, di architettura e altro ancora. In una parola (definitiva), nel momento nel quale accantona l’identificazione Italia, l’Afip si presenta come il più competente e influente interprete della fotografia italiana. Maurizio Rebuzzini
I tredici soci fondatori dell’Afip (da sinistra, e dall’alto, su tre file): Giancolombo, Gianni Della Valle, Fedele Toscani, Alfredo Pratelli, Luciano Ferri e Gian Greguoli; Mario Dainesi, Roberto Zabban, Aldo Ballo e Italo Pozzi; Davide Clari, Edoardo Mari e Gian Sinigaglia.
Afip. International!
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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)
CHI FOTOGRAFA, OGGI (2)
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MAURIZIO REBUZZINI (3)
C
Conferma d’obbligo: la trasformazione tecnologica della fotografia, che in tempi recenti è passata dalla pellicola fotosensibile (dalle origini) all’acquisizione digitale di immagini, con relativi annessi e connessi, ha modificato anche il proprio insieme. Per qualcuno, questo cambiamento, con il quale si debbono fare i conti (da quelli commerciali fino a quelli espressivi), si configura come alterazione: giudizio di merito, più spesso di demerito, dal quale ci teniamo discosti, se non già lontani. In effetti, come è nostra consuetudine e predisposizione -anche professionale, anche giornalistica-, siamo prudenti nei giudizi e, in simultanea, evitiamo gli assoluti inderogabili. A questi, preferiamo sempre e comunque lo scambio di visioni e opinioni. Ciò detto, siamo coscienti dello stravolgimento che ha snaturato molti equilibri precedenti, molte condizioni che si erano affermate nel corso del tempo, dei decenni e anche di più. Però, da qui, non partecipiamo al contrasto tra passato (prossimo o remoto, che sia) e presente; in conferma, privilegiamo e anteponiamo l’osservazione e la riflessione. Quindi, lo scorso aprile, abbiamo registrato l’amaro retrogusto attuale di taluni atteggiamenti che si stanno rivelando propri e caratteristici di molti di coloro che frequentano la fotografia con convinzione e partecipazione, magari riconoscendosi persino nelle istituzioni preposte (circoli fotografici e contorni). Abbiamo annotato come una certa egocentrica autoreferenzialità sia trasmigrata verso una sovrastima di presunti diritti, a scapito dell’assunzione e serena accettazione di immancabili doveri. Si esige tanto, spesso tutto, con poca disposizione all’ascolto: in conseguenza di questo, ratificando la convinzione che chi racconta debba essere chiaro ed esaustivo, aggiorniamo nel senso di sentirci responsabili di quanto affermiamo, non di ciò che qualcuno capisce (dal basso delle proprie prevenzioni interessate). Ora, la riflessione attorno il tema
The Avenue of Stars, di Hong Kong, nell’area di Tsim Sha Tsui, è una passeggiata lungomare che sottolinea la storia dell’industria cinematografica locale. Si estende lungo quattrocentoquaranta metri, dall’Hong Kong Museum of Art al New World Centre. Alla maniera del celeberrimo Hollywood Boulevard, di Los Angeles, negli Stati Uniti, presenta settantatré stelle di celebrità del cinema di Hong Kong. Rituali fotoricordo.
fondante di chi fotografa oggi si completa con una seconda considerazione, riferita al pubblico generico, che intende la fotografia nel suo senso di fotoricordo familiare, e niente di più, né diverso. Una premessa è indispensabile, affinché non sorgano equivoci di sorta (siamo responsabili di quanto affermiamo). Nella convinzione che la Box Kodak, del 1888, è stata la prima di sostanziose svolte senza ritorno della tecnologia fotografica, che si sono allungate dal proprio ambito (in origine, soltanto fotografico) per approdare alla socialità nel proprio insieme e complesso, le sue linee demarcatorie sono inequivocabili. Per le nostre attuali considerazioni, ne tralasciamo alcune, per quanto altrove e altrimenti fondanti (nascita del
marchio di fabbrica Kodak / Eastman Kodak; avvio della personalità commerciale della fotografia come l’abbiamo intesa per lungo tempo, con servizio conto terzi di sviluppo e stampa; fotografia che si rivolge alla vita nel proprio svolgersi). Le tralasciamo, per rimanere concentrati sulla questione della fotoricordo familiare. In definitiva, a cinquant’anni dalla sua invenzione (con le date ufficiali del 1839, di origine), alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, la facilità di uso della Box Kodak ha fatto la differenza, consentendo la nascita del fenomeno della fotografia di massa così come ancora oggi lo conosciamo e intendiamo: l’autentico hobby fotografico, con relativa conservazione accurata delle stampe, è cominciato allora, generato dall’invenzione di George Eastman e successivamente alimentato da tutti gli apparecchi fotografici semplici e semplificati che ne sono derivati, non soltanto Kodak, sia chiaro. Da un punto di vista non professionale, la fotoricordo ha definito la differenza sostanziale tra tutta la fotografia pre-1888 e quella successiva. Hanno iniziato ad essere realizzate istantanee di vita quotidiana, precedentemente estranee al percorso della fotografia: non più soltanto pose, dunque, ma anche istanti colti al volo, o quasi. Tanto che, annotiamo presto, da questo momento compaiono soggetti precedentemente esclusi dall’esercizio fotografico: momenti di vita ordinaria, gite, scampagnate, animali domestici in libertà, altri animali, bambini per la strada... e anche qualche sana buffoneria. Tutti soggetti impossibili con gli ingombranti strumenti della fotografia precedente: sia per oggettivi limiti tecnici e pratici, sia anche per soggettive valutazioni economiche. Con franchezza: le onerose lastre al collodio secco non si prestavano di certo né all’istantanea, né al gioco delle parti. Oggi, nell’attualità tecnologica dei nostri giorni, la fotoricordo si è radicalmente trasformata. Una volta ancora, la ragione di questo va soprat-
Parliamone tutto accreditata agli strumenti, al loro impiego, alla loro gestione. In particolare, si deve tenere conto della virtualità odierna della fotografia, che per essere tale e visibile e condivisa non ha più bisogno della propria copia su carta. In una realtà nella quale si sono dissolti i costi di gestione, registriamo una conseguente moltiplicazione esponenziale di scatti. Dopo un tempo (lungo), durante il quale sono stati indispensabili strumenti preposti (macchine fotografiche), al giorno d’oggi, tutti hanno a disposizione apparati capaci di registrare fotografie. Se è autentica la rilevazione che quantifica una presenza di smartphone superiore alla quantità della popolazione mondiale attiva (non soltanto conteggiata nel mondo occidentale), per conseguenza è altrettanto convalidata l’osservazione che traduce questo in quantità di possibili registrazioni fotografiche, con annessi e connessi attuali: infatti, ogni smartphone attuale (ogni telefonino attuale) dispone di funzione fotografica. In ogni situazione della vita, ovviamente a partire da quelle preposte al turismo di massa, tutti, proprio tutti, si fotografano tra loro in varie combinazioni. Lo fanno compulsivamente, perché tanto non costa più nulla farlo. È un male? Probabilmente, no, considerata la serena felicità che possiamo leggere sui loro volti. Altrettanto probabilmente, sì, se attribuiamo alla fotografia, fosse anche solo alla fotoricordo familiare, valori assoluti e inderogabili, magari riferiti alla lunga e avvincente Storia della fotografia. Dunque, il dubbio, che spesso sollecita prese di posizione categoriche: è male? è bene? Di certo, la questione non sta qui, tra male e bene, ma altrove. Non serve schierarsi. Se è questa la direzione che certa fotografia ha preso, per approdare a consumi autenticamente e consistentemente “di massa”, non debbono stupire le strade che percorre l’industria produttrice. E, dunque, arriviamo a una conclusione inevitabile, che si allunga persino alla combinazione di funzioni fotografiche integrate al telefono cellulare. Questo aspetto dell’attualità fotografica, in qualche misura fotografica, in altra misura fotografica, non appartiene alla lunga storia evolutiva della fotografia, dalle origini ai giorni
La lunga passeggiata dell’Avenue of Stars, di Hong Kong, è costellata di evocazioni della cinematografia locale. Meta di turismo, sia nazionale sia internazionale, è altresì palcoscenico di rituali fotoricordo in combinazione cinematografica. La domanda è sempre la stessa, con risposta di dovere: chi fotografa, oggi? E, soprattutto, quali sono i riti indotti, se non già creati e sollecitati dall’attualità tecnologica dei nostri giorni: fotoricordo compulsiva, in risposta ad esigenze di presunta attestazione di esistenza.
nostri. Queste tecnologie applicate manifestano e rivelano altri debiti di riconoscenza, esterni ed estranei alla consecuzione fotografica. Non nascono nel mondo dell’immagine consapevole, ma declinano l’immagine nel mondo quotidiano. È tutta un’altra socialità, estranea al linguaggio fotografico così come lo intendiamo da centosettantacinque anni. Da una parte (la nostra?) ci sta la Fotografia, dall’altra immagini frettolosamente registrate, che compongono i tratti di una vicenda diversa. Insomma, due storie che non si incontrano. E la fotoricordo compulsiva dei nostri giorni, spesso realizzata per buffoneria e condivisione immediata attraverso la molteplicità dei social network abbondantemente frequentati, è uno degli aspetti più macrosco-
pici di chi, e come e perché, fotografa oggi. Diversamente da ieri, ma non in peggio (?), ma non in meglio (?), l’immagine ha perso la propria aura originaria, per acquisirne altre, magari più effimere, ma -in tutti i casi- figlie dei nostri tempi. In fondo, ma neppure tanto in fondo, la fotografia non può mai essere pensata come avanguardia sociale, ma deve essere sempre considerata nel proprio ruolo di inviolabile infrastruttura... altrettanto sociale. Tra tante registrazioni possibili, rimandiamo alla avvincente e convincente serie fotografica che il bravo e attento Virgilio Fidanza ha realizzato sul Bund, di Shanghai, presentata da pagina 34, su questo stesso numero di rivista: riti fotografici in stretta attualità sociale. ❖
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Sul mercato di Antonio Bordoni
LEICA CON IMPETO
P
Per molti di noi, l’identificazione “Leica” è ad esclusivo appannaggio della genìa degli apparecchi a telemetro, esordita con l’originaria Leica I, del 1925, e approdata a nuova veemente personalità con la Leica M3, del 1954, che si riconosce nelle attuali Leica M9-P, M-E, M e M Monochrom, ad acquisizione digitale di immagini. Si tratta di una convinzione tanto alterata da essere falsa. Infatti, nel concreto tecnico-commerciale, non possiamo ignorare che la nobile produzione tedesca -che è tornata a Wetzlar, da dove tutto è nato- ha frequentato la fotografia con passi e cadenze di ampio respiro. Ovverosia, ha offerto e proposto anche configurazioni fotografiche di altro tipo, altro indirizzo. Tanto che, in stretta attualità tecnologica, possiamo registrare una odierna consistente linea di apparecchi compatti e una reflex con sensore di dimensioni generose, la medio formato Leica S2. Per non estendersi, poi, ai binocoli, cannocchiali e strumenti di visione e controllo, ulteriori alla specificità della fotografia, così come noi la intendiamo e frequentiamo. E non si tratta di una condizione solo presente e corrente, magari favorita dall’applicazione di tecnologie di stretta attualità, ma di una personalità che si è affermata ed è stata edificata nello scorrere del tempo: soprattutto, con il sistema reflex 35mm, nato Leicaflex e proseguito Leica R, gli ingranditori Focomat e i diaproiettori Pradovit. Oggi, questo carattere fotografico ad ampio raggio viene rafforzato e ribadito con l’arrivo sul mercato della configurazione Leica T, attorno il cui corpo macchina si snoda un sistema fotografico che unisce assieme una identificata quantità e qualità di doti, che il marchio di fabbrica ha affinato nei decenni: dal
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progetto sofisticato alla maestria costruttiva, dal design raffinato alla semplicità d’uso... il tutto, in una dotazione consistentemente innovativa. L’avveniristico sistema Leica T si basa su una macchina fotografica “Made in Germany”, dalla finitura accattivante, che -insieme a una gamma di obiettivi di alto casato e nobile dinastiaoffre avvincenti versatilità di impiego. A questo proposito, subito una precisazione d’obbligo: evitiamo l’iscrizione a qualsivoglia ipotesi di scomposizione tecnica (Mirrorless, CSC - Compact System Camera, o altro), e rima-
grafia a telemetro. Da cui, linee pulite, superfici levigate e minimalismo formale. Evviva! Personalmente, siamo estranei a qualsivoglia ipotesi di test operativo teorico, che appartiene di diritto ad altri, che lo sanno interpretare e proporre con maestria, oltre che credibilità. Personalmente, ci fidiamo delle dichiarazioni ufficiali, e interpretiamo l’utensile fotografico anche per la sua fisicità, che si traduce in straordinaria compagnia sulla via della ricerca e realizzazione di immagini. Quindi, dal nostro punto di vista (viziato?), sottolineiamo che una delle caratteri-
niamo con i piedi saldamente piantati a terra, senza inutili distinguo. La Leica T è una macchina fotografica dei nostri giorni, a costruzione compatta, con obiettivi intercambiabili e versatile sistema di accessori. Punto. Ogni ulteriore dietrologia sarebbe (è!) soltanto deviante. Il corpo macchina della Leica T è a tutti gli effetti “Leica”, nello stesso momento nel quale offre e propone una affascinante interpretazione del design dei nostri giorni. La livrea a tutti evidente è stata rivisitata e reinterpretata in stretta collaborazione con il centro stile di Audi Design: linee essenziali e senza tempo, in una continuità storica con l’inconfondibile soggettività della foto-
stiche che colpisce subito è il corpo macchina compatto e solido della Leica T, che certifica di essere prodotta nella nuova fabbrica a Wetzlar, con tecnologie innovative, partendo da un singolo blocco di alluminio. L’uso di materiali con requisiti raffinati e la lavorazione in un avveniristico processo di produzione, che non hanno precedenti nella storia della costruzione di macchine fotografiche (e sappiamo di cosa stiamo parlando), conferiscono alla Leica T un aspetto, una solidità e una successione di sensazioni inconfondibili: la forma per il contenuto (da e con Vasilij Vasil’evič Kandinskij). A partire dal display touch screen, che consente di con-
trollare tutte le funzioni applicative, il sistema operativo è chiaro, semplice e concentrato sulle relative funzioni. Inoltre, l’attuale Leica T (con sensore Cmos 23,6x15,7mm da 16,5 Megapixel) è la prima Leica dotata di un modulo Wi-Fi integrato. Le fotografie e i video si possono trasmettere in wireless direttamente dalla macchina fotografica a uno smartphone, tablet o computer, e si possono condividere via email, oppure su Facebook o altri social media (è già disponibile un’app Leica T per dispositivi iOS). Il sistema Leica T offre una vasta varietà di accessori. Realizzato appositamente per la Leica T, e perfettamente armonizzato con il corpo macchina, il mirino elettronico Visoflex (definizione ripresa dalla propria Storia) dispone anche di funzione GPS integrata. È previsto anche un nuovo flash Leica SF 26, che fornisce opportunità aggiuntive per l’illuminazione complessiva o lampi di riempimento (fill-in), per rischiarare soggetti in condizioni di illuminazione critica. Un altro pratico accessorio è l’Adattatore M per T, che consente di usare gli obiettivi Leica M sul corpo macchina Leica T. Quindi, non mancano elementi di contorno, a partire dalle borse e dai frontali di protezione, interpretati con affascinante eleganza formale ed estetica. In avvio di commercializzazione, da fine maggio, sono disponibili due obiettivi: Leica Summicron-T 23mm f/2 Asph (equivalente al medio grandangolare 35mm) e zoom Leica Vario-ElmarT 18-56mm f/3,5-5,6 Asph. A seguire, il sistema ottico si allineerà a quello già conosciuto del sistema M: e qui, il cerchio si chiude. Oppure, più correttamente, si apre. (Leica Camera Italia, via Mengoni 4, 20121 Milano; www. it.leica-camera.com). ❖
Sessant’anni traduzione (e altro) di Lello Piazza
N
Nel numero dello scorso marzo/aprile, Intelligent Life, supplemento bimestrale dell’autorevole settimanale inglese The Economist, ha riservato dieci pagine alla pellicola fotografica Kodak Tri-X, uno dei baluardi e fondamenti della fotografia contemporanea (recente), che proprio nell’attuale 2014 celebra i suoi sessant’anni di vita: con franchezza, sessant’anni spesi bene, come rilevammo dieci anni fa, in occasione del cinquantenario [FOTOgraphia, maggio 2004]. Ora, prima di quanto e come Intelligent Life ha celebrato questo consistente anniversario (compleanno?), richiamando le esperienze di celebrati fotogiornalisti (letteralmente, La pellicola bianconero Kodak Tri-X, che i grandi fotografi hanno amato. Anton Corbijn, Don McCullin e Sebastião Salgado spiegano perché a Bryan Appleyard ), è opportuno ribadire nostre osservazioni al proposito. Quindi, a seguire, la traduzione di Lello Piazza dell’articolo in questione. La pellicola bianconero Kodak Tri-X, da 27 Din / 400 Asa (poi, riclassificati Iso), è stata la più usata dai fotogiornalisti di tutto il mondo. Non è azzardato ipotizzare che la stragrande maggioranza delle fotografie che hanno raccontato il secondo Novecento siano state scattate proprio in Tri-X. Nella successione dei decenni, dal 1954 di origine, i suoi toni di grigio hanno definito i termini della ripresa in bianconero, sia in campo professionale sia nell’ambito non professionale. Ancora oggi è sinonimo di fotografia tradizionale. In questo senso, non siamo affatto lontani dal vero, quando affermiamo che il bianconero Tri-X rappresenta l’autentica e indiscussa “icona” della gamma di pellicole Kodak, ma non solo: è uno dei riferimenti più solidi e consolidati dell’intera fotografia. In ses-
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EPOPEA TRI-X
parecchi fotografici di grandi autori, interpreti e fotogiornalisti degli ultimi cinquant’anni. «Quasi tutto quello che ho fotografato nella mia vita, è stato realizzato con la pellicola Tri-X», ha dichiarato Sebastião Salgado; «sono così legato al Tri-X, che anche quando cerco di immaginare tutte le possibili sfumature di grigio, materializzo i miei pensieri con le tonalità riprodotte da questa fantastica emulsione».
DA INTELLIGENT LIFE sant’anni di mercato, la pellicola bianconero Kodak Tri-X da 400 Iso è diventata prodotto di riferimento in tutti i settori della fotografia professionale (pubblicità, natura, arte, ritratto, editoria, didattica) e delle applicazioni non professionali, affermandosi come la più venduta in tutto il mondo. Dieci anni fa, in occasione del cinquantenario, Miriam Quinones, al tempo Product Manager del settore pellicole Kodak Professional, affermò che «Cinquant’anni fa, l’emulsione Tri-X ha creato una categoria a sé, con una rapidità (allora) senza pari e una resa tonale unica. Ancora oggi, continua a distinguersi, in quel mercato fotografico tradizionale che si esprime in bianconero». Quindi, in aggiunta: «Se un fotografo desidera comunicare potenza, bellezza, intensità e grazia, il tutto in assenza di colore, la pellicola Tri-X è in grado di rappresentarle più di ogni altra. La resa tonale della Tri-X non ha eguali, per questo è rimasta la pellicola in bianconero preferita dai fotografi professionisti e dai non professionisti». Quando è stata introdotta, il Primo novembre 1954, era l’emulsione bianconero più rapida dell’intera offerta fotografica. I propri 400 Iso (ai tempi 27 Din / 400 Asa) hanno suggestionato il modo di fotografare, l’interpretazione tonale del biancone-
ro fotografico e lo stesso linguaggio espressivo della fotografia, influenzato da una resa che poteva, e può ancora, essere indirizzata verso la completa distribuzione della scala dei grigi o nel senso di un volontario contrasto alterato e interpretato dall’autore. Ricordiamo qui il fantastico reportage New York, di William Klein, raccolto in una monografia epocale, che ha letteralmente influito su generazioni di fotogiornalisti, introducendo un nuovo modo di avvicinare e raffigurare il soggetto. Inoltre, in termini oggettivamente utilitaristici, l’alta sensibilità di 400 Iso (27 Din / 400 Asa) spinse la fotografia bianconero in luce ambiente, senza uso di flash, verso situazioni in precedenza proibitive. Da allora, luoghi di scarsa luminosità e movimenti hanno potuto essere fotografati con risultati eccellenti. Fotografi professionisti ed esperti del settore hanno esaltato la pellicola Kodak Tri-X per la propria straordinaria varietà tonale, l’ampia latitudine di esposizione e sviluppo e la peculiare struttura della grana, mai invadente, mai sovrapposta alla raffigurazione del soggetto fotografato. Nelle confezioni dal rullo 35mm al medio formato 120/220 alle piane grande formato (dal 4x5 pollici in su), la pellicola Tri-X ha documentato il mondo, negli ap-
E ora, dopo le nostre rilevazioni ed evocazioni, la traduzione di Lello Piazza di The Tri-X Factor, da Intelligent Life, dello scorso marzo/aprile, a firma di Bryan Appleyard. Attenzione, tra parentesi quadra sono riportate sue note di traduzione, di traduttore. Quando le cose per la Eastman Kodak Company [Kodak, nel seguito] hanno cominciato ad andare male -fino ad arrivare all’amministrazione controllata, del gennaio 2012-, alcuni grandi fotografi sono caduti nel panico. «Ho chiamato immediatamente il mio fornitore, per ordinargli centocinquanta rulli di Kodak Tri-X, la pellicola in bianconero che uso. Mi è passato per la testa l’idea che fosse la fine della mia carriera professionale. A tutt’oggi, non so nemmeno se la producono ancora » (Don McCullin). Dopo aver evitato la bancarotta per un soffio, una nuova azienda, Kodak Alaris, sta continuando il lavoro di Eastman Kodak Company e, presumibilmente, la produzione della Tri-X [Il 3 settembre 2013, l’UK Kodak Pension Plan (KPP), fondo di investimento che sovraintende alle pensioni dei dipendenti Kodak di oggi e ieri, ha annunciato di aver acquisito i rami Personalized Imaging e Document Imaging della società, e di aver creato Kodak
Sessant’anni Alaris. La nuova azienda potrà utilizzare per sempre il marchio Kodak, ma non avrà nulla a che fare, dal punto di vista degli impegni verso creditori e verso lo Stato, con la precedente Eastman Kodak Company]. Perciò, rilassati Don, la producono ancora. Ma non rilassarti troppo, perché i rulli che hai ordinato dovranno essere utilizzati abbastanza in fretta. Al contrario dei sensori digitali, la pellicola fotografica richiede cure. Deve essere conservata in frigorifero e, come il cibo che si acquista al supermarket, ha una data di scadenza. Queste precauzioni obbligatorie non hanno però scoraggiato Anton Corbijn, fotografo e film-maker, dall’acquistare un grosso quantitativo di Tri-X. «Ne ho acquistati duemilacinquecento rulli. Il mio studio, in Olanda, occupa tre piani. Su ogni piano, c’è un grande frigorifero, e tutti i frigoriferi sono pieni di Tri-X. I rulli sono prossimi alla data di scadenza, e non so cosa fare [bizzarra questa dichiarazione: tutti i fotografi nati con la pellicola sanno che, se sistemati in un freezer a meno diciotto gradi, i film diventano praticamente eterni]. Oggi, Don McCullin fotografa in digitale, ma usa ancora anche la Tri-X. Invece, Anton Corbijn usa quasi solo la pellicola, Tri-X per il bianconero e Kodak Portra per il colore. Anton e Don sono veterani -Don ha settantotto anni e Anton cinquantotto-, ma non sono luddisti e non vivono di nostalgia: cercano soltanto di mantenere in vita un prodotto artigianale, una professione e una forma d’arte, che non sono compatibili con la fotografia digitale. Cercano anche di mantenere vivo uno stile espressivo [e quindi artistico] che è indissolubilmente legato alle caratteristiche tecnologiche dello strumento. Don McCullin ha ripreso con la Tri-X alcune delle immagini più commoventi della guerra del Vietnam: il ritratto del soldato americano con lo sguardo perduto
nel vuoto e del cadavere di un combattente vietnamita con i suoi oggetti personali rovesciati lì accanto. E, con la Tri-X, Anton Corbijn ha realizzato alcuni degli scatti più celebri della storia del rock’n’roll, compresi quelli dedicati al funambolico Tom Waits, la cui carriera è iniziata quaranta anni fa. Se pensiamo all’elenco degli utilizzatori di Tri-X -per esempio, a Henri Cartier-Bresson, Garry Winogrand, Alfred Eisenstaedt, Irving Penn, Richard Avedon, Josef Koudelka e ai talentuosi fotografi dell’Agenzia Magnum Photos-, dobbiamo ammettere che questa pellicola rappresenta la più importante risorsa estetico-tecnologica della Storia della Fotografia. La sua epopea è unica. E non può non costringerci a ripensare a come guardiamo alla Fotografia oggi, ai miliardi di immagini digitali scattate a casaccio, a come, per esempio, la realtà venga costantemente stravolta da ritratti ritoccati e impeccabili, ma totalmente inespressivi, di attori e modelle, che ci guardano insulsamente dalle pagine dei giornali. Originariamente, la Tri-X è apparsa sul mercato nel 1940, come pellicola piana per apparecchi grande formato [la più usata per la fotocronaca negli Usa è stata la Speed Graphic 4x5 pollici], e solo nel 1954 esce in rullo 35mm e 120 [soprattutto, per riprese 6x6cm, ma anche 6x7 e 6x9cm]. Perciò, compie sessant’anni. Grazie alla Tri-X, è iniziata un’età d’oro della fotografia in bianconero, allungatasi fino agli anni Ottanta, quando cambiarono anche le esigenze dei quotidiani e delle riviste. Il suo successo fu reso possibile da una semplice ragione tecnologica. Eccola. Le pellicole vengono classificate in base alla propria sensibilità alla luce, un tempo definita in Asa, acronimo successivamente sostituito da Iso. Più alta è la cifra che indica gli Asa, più sensibile (più rapida nello slang dei fotografi) è la pellicola... oggi il sensore. L’aumento
della sensibilità provoca un aumento della grana nel risultato finale (o del rumore, in parametri digitali attuali). La Tri-X ha una sensibilità nominale di 400 Asa, molto rapida per i propri tempi (mentre, le configurazioni professionali dei nostri giorni arrivano a ventiseimila Iso e vanno persino oltre). Ma aveva una notevole latitudine di posa e perdonava gli errori di esposizione. I piccoli errori potevano essere facilmente compensati, e -grazie a trattamenti chimici appropriati- era diventata prassi tirarla a 800 o 1600 Iso, in fase di sviluppo. La sua rapidità e la sua flessibilità permettevano ai professionisti di usare la stessa pellicola sia per gli interni sia in esterno, mentre la benefica latitudine di posa garantiva risultati buoni o accettabili anche a chi professionista non era. «Non sapevo nulla di tecnica, quando cominciai a fotografare», annota Sheila Rock, divenuta celebre per le sue immagini dei punk a Londra, negli anni Settanta; «e mi chiedevo spesso se sarebbe venuto fuori qualcosa dai miei scatti. Ma, grazie alla Tri-X, quasi tutte le mie fotografie erano buone». Anton Corbijn ci ha rivelato: «La Tri-X ha perdonato tutti i miei errori, che sono stati tanti negli anni, e sono sempre riuscito a ottenere una stampa valida dai miei scatti». La novità più importante della Tri-X era rappresentata da una caratteristica estetica. È difficile spiegare a parole il look di una fotografia ripresa con la Tri-X. Grana e contrasto spiegano solo in parte quel look. Che ha invece qualcosa a che fare con un nero ossidiana [il nero del vetro vulcanico], che conferisce una forza speciale, soprattutto alle fotografie del rock degli anni Sessanta e Settanta. Steve Schofieldun, fotografo inglese che oggi vive a Los Angeles, e che incontrò la Tri-X proprio negli anni Settanta, è esplicito: «Riuscivo ad avere negativi con un tale contrasto che
si leggevano bene i dettagli sia nelle zone scure sia in quelle chiare. I negativi sembravano d’acciaio e non mostravano tonalità calde, come la maggior parte delle altre pellicole. È proprio questo la caratteristica della Tri-X, che cerco ancora oggi di avere nel mio lavoro, nonostante ormai fotografi quasi solo in digitale e a colori. Per il bianconero, cerco di riprodurre digitalmente la palette monocromatica della Tri-X, finalizzando i tre colori fondamentali. E comunque, se devo fotografare in bianconero, lascio il digitale e utilizzo la mia vecchia macchina fotografica analogica, con la Tri-X». Un’altra valida definizione di questa pellicola è sporca [qui, ho optato per la traduzione letterale del termine inglese dirty, declinato dal giornalista, per rendere tutta una sfumatura di vari significati attribuibili a dirty]. Nei primi anni Cinquanta, le fotografie in bianconero erano caratterizzate da una nitidezza ereditata dalle pellicole nate nei precedenti anni Trenta. Ma, nonostante la ricca gamma tonale -molte sfumature di grigio- che le caratterizzava, le fotografie apparivano piatte. Per merito della sua ridotta gamma tonale, raramente, le copie stampate con la Tri-X apparivano piatte, e il loro aspetto duro, con sfumature che ricordano l’acciaio, incontrò la visione/interpretazione estetica del Realismo degli Cinquanta e, immediatamente a seguire, il temperamento senza regole degli anni Sessanta. La sua mancanza di nitidezza -dovuta alla presenza della grana che dipendeva dalla sensibilità elevata- ha un equivalente espressivo in tre arti diverse dalla fotografia: la letteratura della corrente di Angry Young Man, la pittura della Scuola di Londra e il cinema delle tematiche sociali di Lindsay Anderson e Tony Richardson. In quel periodo, ci fu un rifiuto della vita borghese, confortevole e ricca, in favore di un’e-
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Sessant’anni sistenza intensa, instabile e senza riferimenti. Da tutto questo, negli anni Settanta emerse Anton Corbijn, probabilmente il supremo interprete della Tri-X sporca. Nei suoi primi lavori, questa sporcizia fu esagerata attraverso le tecniche di sviluppo, e il risultato è rappresentato da immagini crude e (apparentemente) imperfette. Però, la grana molto evidente riusciva a rendere le situazioni fotografate incomparabilmente meglio di ogni altra tecnica pulita, incisa e perfettamente a fuoco. «La grana riproduce la vita -afferma Anton Corbijn-, al contrario del digitale, dove c’è tutta una propensione alla perfezione. La perfezione va bene, ma limitarsi ad arrivare lì è un limite. Mi piace che nelle mie fotografie ci sia lo sporco dell’umano, che soffia vita nelle immagini. Per me, la perfezione è l’imperfezione». È stata la stessa sensibilità di Anton Corbijn a spingere sia i fotografi di reportage -grandi autori come Henri Cartier-Bresson e Don McCullin-, sia i fotografi della domenica che collaborano a piccoli giornali locali, a usare la Tri-X. Tutto quello di cui si aveva bisogno per potersi sentire fotografi era una Nikon F -costosa, ma robusta, e infinitamente più semplice da usare delle assurde reflex digitali di oggi-, qualche rullo di Tri-X e forse una stanza da bagno, in casa, da allestire come camera oscura. Bisogna aggiungere che nacque una devozione irrazionale nei confronti della Tri-X. Perché, sebbene fosse la più apprezzata pellicola in bianconero dell’epoca, non era certo la sola sul mercato. Ilford presentò una pellicola competitiva di 400 Iso [in sequenza tecnico-commerciale: HPS, nel 1954, HP3, nel 1960, HP4, nel 1965, e HP5 nel 1976], che molti utilizzarono come alternativa alla Tri-X. Tri-X sì, Tri-X no: molto prima dell’arrivo di Photoshop, nella fotografia bianconero, abili stampatori riuscivano a fare praticamente tutto in camera oscura.
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«Riuscivamo ad ottenere qualsiasi cosa il cliente ci chiedesse», ricorda dice Mike Spry, di Downtown Darkroom, che sviluppava e stampava le pellicole / i negativi di David Bailey, Patrick Lichfield e Anthony Armstrong-Jones (lord Snowdon). «Infatti, a differenza della pellicola a colori, con il bianconero è possibile intervenire su quasi tutti i particolari del soggetto». Benché sia, per esempio, vero che il ritratto scattato in digitale ha trasformato questo genere di fotografia nello stile morto, pallido e ritoccato pesantemente che si vede oggi su tutte le riviste patinate, non possiamo dimenticare che le tecniche della vecchia gloriosa camera oscura non erano meno invasive. Il prodotto finale era migliore di quello di oggi, ma non era meno manipolato. Cionondimeno, è stata la Tri-X a creare il bisogno di grana, contrasto e drammaticità in fotografia. E non si è limitata a dare nuova vita alla fotografia in bianconero, ma ha influenzato la fotografia in generale. Ciò invita a riflettere sul fatto che, nonostante la possibilità di intervenire anche sul colore, nonostante i miliardi di sfumature cromatiche e di intensità luminose del digitale, esiste qualcosa di naturale e genuino nella fotografia in bianconero, che scaturisce direttamente dallo scatto della e con la macchina fotografica. Sebastião Salgado, che considera il colore come un fattore di distrazione per il fotografo, ha addirittura fatto modificare la sua Canon digitale in modo che il monitor sul dorso mostri solo il risultato in bianconero [e comunque, afferma di non controllare mai, a ogni scatto, il risultato sul monitor]. Dobbiamo anche ringraziare la Tri-X, perché, grazie a lei, la presenza della grana e del negativo sporco nel reportage ha cambiato profondamente l’arte fotografica. Arte che, negli anni Sessanta e Settanta, imponeva un bianconero pervaso da
un realismo sporco, pieno di grana, anche nell’alta moda. «Sono stati tempi d’oro per stampatori come me -riflette Mark Spry, di Downtown Darkroom-, perché, come l’acconciatura dei capelli divenne una moda, diventò moda anche la fotografia in bianconero». Si affermò la filosofia di Anton Corbijn, che prevede la presenza della grana per raccontare meglio lo stile di vita degli anni Sessanta e Settanta. Quel periodo fu caratterizzato dalla ribellione contro un modo astratto e rassicurante di raccontare, in favore di una fotografia verità, emozionante e adatta a rivelare le miserie della vita. Lo straordinario film Blow up, di Michelangelo Antonioni (1966), ha descritto quel periodo meglio di ogni altro. Thomas, un fotografo stile David Bailey, interpretato da David Hammings, realizza ingrandimenti esasperati da fotogrammi in bianconero che ha scattato in un parco. E vede emergere, come un fantasma dalla grana, un corpo. Ma la verità su quel corpo -torna al parco, per verificare se il corpo esiste veramentecontrasta con i colori sfolgoranti del film, con le fantasie erotiche e allucinanti della Swinging London [termine coniato il 15 aprile 1966 dal settimanale Time per definire la società della moda e della cultura, che dominava la capitale inglese negli anni Sessanta, un po’ come la nostra Milano da bere degli anni Ottanta]. Alla fine, Thomas è sedotto dalla non realtà. Sfugge alla realtà della grana e sprofonda nella non realtà hippie priva di grana, una scelta simbolizzata dall’inesistente partita di tennis che si gioca alla fine del film: una non realtà, appunto. Difficile immaginare una presentazione più precisa del valore archetipico della Tri-X e della sua centralità, non solo come pellicola, ma come simbolo di un’epoca. Alla fine degli anni Novanta, Sebastião Salgado ha dovuto affrontare una crisi esistenzia-
le. Aveva cominciato a fotografare con la Tri-X, a partire dal 1960, e adesso non era più sicuro di poter continuare a usarla, non era più neppure sicuro di riuscire a continuare a fare il fotografo. Conosciamo il suo lavoro, le sue epiche spedizioni fotografiche, durante le quali ha raccolto straordinarie testimonianze, dedicandosi soprattutto agli effetti della industrializzazione sul Terzo Mondo. Dopo l’Undici settembre, i controlli più severi al check-in degli aeroporti gli hanno creato un problema. Ha faticato molto a convincere gli addetti alla sicurezza che i suoi film potevano essere rovinati dalle macchine a Raggi X, dove passano i bagagli per i controlli. I cartelli che rassicurano i viaggiatori sul fatto che i Raggi X non rovinano le pellicole, non lo convincevano. Sebastião Salgado spiegava ai controllori che, in un viaggio, i suoi film sarebbero passati otto-dieci volte attraverso quelle macchine, e ciò avrebbe aumentato il rischio danneggiamento. «La grana -diceperde la sua struttura». E anche se i tecnici della Kodak affermano di aver eseguito molti test, facendo passare e ripassare ripetutamente rulli di Tri-X attraverso macchine a Raggi X e ottenendone risultati negativi, come tanti altri professionisti, Sebastião Salgado non ne è mai stato convinto. La sua reputazione e Genesis, il grande progetto a cui stava lavorando [ FOTOgraphia, luglio 2013], furono salvati da Canon: i cui tecnici lo convinsero che i loro apparecchi digitali erano in grado di riprodurre le caratteristiche della pellicola Tri-X. Dopo test eseguiti personalmente, Sebastião Salgado se ne è convinto, e oggi fotografa sempre in digitale. Ma sull’uso del digitale, le perplessità rimangono. Alcuni riducono queste perplessità al numero di pixel di cui è composto il sensore. Ma ci sono ragioni più profonde. La pellicola, come strumento analogico,
Sessant’anni crea immagini grazie all’effetto della luce che colpisce uno strato di materiale chimico fotosensibile, steso su una superficie di celluloide. Crea dunque un analogo fisico della scena che sta davanti all’obiettivo. Al contrario, un apparecchio digitale immagazzina la luce attraverso piccolissimi sensori e trasforma questa luce in una copia elettronica / virtuale della scena [la differenza è sottile: la pellicola crea un’immagine fisica, il digitale no]. La pellicola può immagazzinare una grande quantità di informazione, e i primi apparecchi digitali -con sensori da cinque-sei Megapixel- non erano in grado di immagazzinarne altrettanta. Questo non significava che le immagini digitali fossero meno aderenti alla realtà fotografata di quelle analogiche, ma solo che non potevano essere ingrandite più di tanto, senza perdere qualità. Per i professionisti, questo limite rendeva molto penalizzante, in termini di qualità, il processo di cropping [ritaglio di una parte del fotogramma], nonostante si potessero utilizzare software di interpolazione che aggiungono pixel a uno scatto, simulando, ma non perfettamente, il fatto che la ripresa sia stata realizzata con un sensore dotato di un numero maggiore di pixel. Il numero di pixel dei sensori è cresciuto rapidamente, e oggi Nikon o Sony offrono sul mercato, per meno di duemila euro, apparecchi da più di trenta Megapixel, una capacità che supera quella della pellicola, Naturalmente, ciò non è bastato a risolvere il dilemma pellicola vs digitale. Il fatto di comprimere sempre più pixel in un sensore riguarda problemi di tecnologia e non è comunque questo il punto. Don McCullin sottolinea che, tra i professionisti, il dibattito non riguarda il numero dei pixel. La qualità della pellicola riguarda più la potenziale autenticità dell’immagine che non la sua risoluzione. La pellicola avrebbe poi al-
tre misteriose proprietà. «Ha più profondità -rileva la fotografa Sheila Rock-; una profondità di immagine che non ritrovo negli scatti digitali. Che considero (e sono) più piatti. Comunque, le cose stanno cambiando e ho visto alcuni risultati che mi hanno colpito». Sebastião Salgado era cosciente di questo presunto piattume e non era disposto ad accettare la nuova estetica digitale. Voleva che i suoi scatti digitali fossero uguali agli scatti effettuati con la Tri-X, ed è riuscito a ottenere questo risultato. «Ho visto la mostra di Genesis, esposta al Natural History Museum, di Londra. Ho osservato attentamente le stampe da vicino, e mi ero convinta che fossero state scattate con la Tri-X. Poi, mi hanno detto che sono state riprese con un apparecchio digitale», ha annotato Sheila Rock [qui c’è qualcosa da dire: oggi, anche le fotografie scattate su pellicola vengono trasformate in immagini digitali, per essere stampate. Sappiamo che anche gli scatti di Genesis realizzati con la Tri-X hanno subìto questo processo]. Quando ho chiesto a Sebastião Salgado come si sia riusciti a trasformare i suoi scatti digitali in scatti Tri-X, in tutta risposta ha alzato le spalle. «L’unica cosa che so è che i tecnici sono riusciti a darmi il risultato che volevo». Sebastião Salgado non lavora al computer, fa tutto un suo assistente, nello studio di Parigi. Del resto, e questo è un indiscutibile segno dei tempi, esistono oggi molti software che promettono la film emulation [effetto pellicola]. Apri il programma, scorri il menu delle pellicola previste in simulazione, scegli Tri-X e il tuo scatto viene istantaneamente trasformato -grana, sporco, drammaticità e tutto il resto- in Tri-X. I software lavorano veramente bene, e questo rappresenta un motivo di allarme in più per gli affezionati alla pellicola. Il software che trasforma uno scatto digitale attuale in uno
scatto del passato [stile pellicola fotosensibile] è un altro segnale della sconfitta della fotografia analogica, ma provoca anche la reazione violenta di chi continua ad amare il mondo pre-digitale. Le vendite di dischi in vinile è in crescita, si sta manifestando una ostinata resistenza agli e-book e, a New York, è apparsa Master Cactus [rivista sperimentale di audio arte, che encourage you to hear the way you see, incoraggia ad ascoltare quello che vedi], un periodico registrato su audiocassetta. La “rivista” è acquistabile in libreria e nei negozi di musica. Nel settore fotografico, Lomography continua a vendere (a uno strano mercato di nicchia) apparecchi giocattolo in plastica, che producono risultati fotografici bizzarri e imprevedibili. Le Polaroid si vendono ancora, e Fujifilm produce la Fuji Instax, versione giapponese del film a sviluppo immediato, usato nel passato soprattutto dai non professionisti, dai fotografi della domenica. Online, gli oltre cento milioni di utilizzatori di Instagram hanno a disposizione una serie di filtri software che possono applicare alle loro immagini per trasformarle in fotografie dall’aspetto retrò. Il pubblico sembra perversamente affascinato dai difetti fotografici: le infiltrazioni di luce delle Holga, l’aspetto disadorno delle polaroid amatoriali e perfino i filtri Instagram che provocano vignettature come i vecchi obiettivi di scarsa qualità. Nel mercato, sta crescendo questa sfida al digitale in favore dell’analogico. Probabilmente, convertirà poche persone alle scocciature manuali della pellicola, ma rappresenta un’affermazione di princìpio e ha un impatto enorme sulla progettazione degli apparecchi digitali. Le macchine fotografiche analogiche, anche le più costose, erano molto semplici da usare, sostanzialmente dotate di soli tre comandi, messa a fuoco, diaframma e tempo di
otturazione. Le macchine digitali professionali, ma anche i più semplici modelli prosumer, hanno talmente tanti comandi che è quasi impossibile elencarli tutti. A questi comandi si accede attraverso pulsanti unfriendly, di non immediata comprensione. Tutto ciò scoraggia gli amatori. E le aziende produttrici, guidate da Fuji con i suoi modelli della serie X, hanno reagito mettendo sul mercato modelli molto simili alle vecchie macchine analogiche. Il fenomeno ha un tale rilievo, che perfino Nikon è uscita con il modello Df, un apparecchio dalla forma molto simile alla gloriosa Nikon F [no, Nikon FM / FE], con cui sono stati scattati milioni di rulli di Tri-X. Si tratta di un apparecchio assurdo, che costa circa tremila euro [con il 50 mm f/1,8] e che, secondo i miei conti, fa pagare all’acquirente circa milleduecento euro in più solo per tre nottolini di metallo sulla parte superiore del corpo macchina. In tutto questo, si legge una svolta a centottanta gradi per sfuggire alla perfezione del digitale. Ma alcuni sono andati addirittura oltre, con una ribaltamento che si potrebbe definire di trecentosessanta gradi. Facciamo un esempio. Tutti conoscono Google Street View, un progetto che consiste nel fotografare le vie delle città con apparecchi digitali montati su una automobile. Due artisti, Michael Wolf e Jon Rafman, hanno usato una selezione di immagini scelte dai milioni di scatti prodotti da Google, per realizzare inquietanti opere artistiche. Le immagini di Street View sono tecnicamente scadenti, ma al contempo stimolanti. Con queste immagini, i due artisti hanno messo in atto un tentativo di resuscitare l’arte della street photography, così brillantemente interpretata da grandi autori, come Gary Winogrand e Henri Cartier-Bresson, che caricavano i loro apparecchi con la pellicola Tri-X. Ai loro tempi, la street photography era accet-
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Sessant’anni tata e non presentava pericoli. Oggi, se la pratichi, sei a rischio: puoi essere accusato di pedofilia, sospettato di essere un ficcanaso o fermato come terrorista dalla polizia. O anche, può capitarti che i soggetti fotografati conoscano i loro diritti legati al model release [documento che viene firmato dalle persone fotografate, una liberatoria, che svincola il fotografo da impegni di qualsiasi genere nei confronti del soggetto, anche in caso di pubblicazione delle immagini] e pretendano di essere pagati. Street View sembra aver risolto il problema. Ma queste riflessioni non hanno a vedere solo con la pellicola. Infatti, assodato che la maggior parte dei software che analogizzano gli scatti digitali sono considerati dai professionisti materiale da e per dilettanti, rimane aperta la domanda: se i risultati digitali soddisfano gli standard di Sebastião Salgado, ha ancora senso desiderare la Tri-X? O una qualunque altra pellicola? C’è un vecchio adagio: imposta f/8 quando sei sul posto. f/8 è considerata l’apertura più indicata per un obiettivo, quella che offre i risultati migliori, quella che promette la probabilità più elevata che lo scatto sia valido. Quando sei sul posto sottolinea quello da cui non si può prescindere in fotografia: la presenza del fotografo sul luogo. Rappresenta l’imprescindibile, la priorità massima. Così, quando, nel 1948, Henri Cartier-Bresson si stava precipitando a fotografare Nehru che annunciava l’assassinio di Gandhi, non si preoccupò se aveva o no messo a fuoco, se l’esposizione era corretta o se aveva riflessi di luce che entravano nell’obiettivo; si preoccupò solo di essere nel posto giusto, per riuscire a catturare qualcosa, qualunque cosa, dal caos che gli stava davanti. E, senza ombra di dubbio, realizzò un capolavoro. La caratteristica della foto-
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grafia in pellicola, che spinge alcuni professionisti a continuare a usarla, e si teme vada perduta con il digitale, è la sua intrinseca capacità a raccontare la verità. «La pellicola è onesta», è la perentoria affermazione di Sheila Rock, quasi a sintesi di tutto quanto abbiamo detto: «La Tri-X è onesta». Da questo punto di vista, la disonestà la si vede ogni giorno, in ogni edicola. Il business del ritocco digitale è imposto dall’American Star System. Sheila Rock, che deve usare il digitale per il suo lavoro commerciale e che ha cercato di convincere un cliente della disonestà di certi ritocchi, si è sentita rispondere: «Le donne americane vogliono apparire più che perfette». Si crea quindi una convergenza digitale verso uno stile iconico che, in copertina, fa sembrare le star simili alle mogli di Stepford Wives, prive di personalità e di volontà, simili a robot [Stepford Wives è il titolo di un romanzo di Ira Levin, pubblicato nel 1972, a cui si ispirò anche un film, del 1975 (in Italia, La fabbrica delle mogli); la trama narra di Johanna Eberhart, una fotografa di New York, che si trasferisce con la famiglia a Stepford, nel Connecticut, dove finisce per abbandonare la professione in cui eccelleva, per trasformarsi in ubbidiente e perfetto robot al servizio del coniuge, al pari di tutte le altre mogli della città]. Che poi le donne americane possano o non possano essere tutte come Jennifer Aniston, non fa differenza. Sempre a questo proposito, ricordiamo che Anton Corbijn ha pubblicato recentemente uno dei suoi scatti Tri-X su una rivista patinata. L’editor gli ha chiesto se poteva trasformare l’immagine in una fotografia a colori. Anton gli ha però risposto che per lui una fotografia si conclude al momento dello scatto. I colleghi guardano Anton Corbijn con invidia mista ad
ammirazione, anche se lui non si considera neppure un professionista -«Ci sono talmente tante cose che ancora non conosco!»-, e rimane convinto che l’utilizzo di strumenti troppo facili deprima la creatività. Usa la pellicola proprio perché non ha la flessibilità del digitale, una flessibilità che gli toglie forza e concentrazione al momento dello scatto. Anton Corbijn non desidera altro che ricavare fotografie da una pellicola. «Quando iniziai a fotografare, sentivo che non potevo accontentarmi di un lavoro normale. Ero alla ricerca di quel senso dell’avventura che senti quando incontri uno sconosciuto e lo fotografi. Penso che fotografare in digitale sia proprio un lavoro normale: dopo lo scatto, controlli subito sul monitor. Se la fotografia è adeguata, bene; altrimenti, ne scatti subito un’altra. Quando torno da una missione fotografica, non so esattamente qual è il mio bottino e non lo so ancora per un paio di giorni, fino a che non ho sviluppato il materiale. Mi piace questa tensione in attesa del risultato». «Non c’è niente di paragonabile al fatto di andare in Vietnam», aggiunge Don McCullin, facendo quasi eco a questo pensiero, «dove, per settimane intere, ero costretto a lavorare ignorando cosa ci fosse nelle pellicole che avevo esposto e dovevo conservare nella testa la memoria del lavoro già svolto e di quello che mi mancava. Per sapere com’era andata, dovevo avere pazienza e aspettare il mio ritorno in Inghilterra. E l’attesa diventava preziosa, di settimana in settimana. Alla fine, andavo al laboratorio chiedendomi cosa ci sarebbe stato di buono tra i miei scatti. L’attesa e il tormento rendevano il tutto eccitante. Oggi, controlli istante per istante sul monitor dopo ogni singolo scatto. È come mangiare al fast food, è come se tu ti sedessi a un ristorante dove hanno tolto i
piatti migliori dal menu». E, oltre a quell’elettrizzante tormento, c’è il lavoro manuale in camera oscura -del fotografo, o del suo tecnico di fiducia-, che utilizzano uno stupefacente ventaglio di tecniche diverse. «Si mascherano certe zone del fotogramma con ogni genere di sagome, costruite con materiale vario e tenute insieme con fil di ferro», sottolinea Don Mc Cullin. «Si scalda la carta fotografica nei bagni, sfregandola con le mani per far emergere ciò che cerca di rimanere latente, e si lavora, si lavora fino a quando il risultato è il più possibile simile a quello che ha avuto in testa il fotografo». Tutte queste cose andranno perdute se le camere oscure chiudono e i produttori smettono di vendere pellicole. Anche se abbiamo ricavato indubbiamente vantaggi, non è ancora possibile calcolare l’intero costo del passaggio al mondo digitale, e non solo in fotografia. La nuova Kodak afferma che la Tri-X è salva, e con lei, in generale, anche la pellicola è salva. Ma ho sentito una fitta al cuore quando, alla mia domanda su cosa avessero in programma per festeggiare le nozze di diamante della Tri-X [sessant’anni!], quelli di Kodak mi hanno risposto che nessun progetto definitivo era ancora stato fatto. Non ha importanza, la festa la celebriamo noi, ricordando la golden age [l’età d’oro] della Tri-X, rivedendo i lavori di Sebastião Salgado, Sheila Rock, Anton Corbijn e, naturalmente, Don McCullin, il vecchio maestro. Era in India quando gli ho parlato per questo articolo, e mi ha salutato dicendo: «Essere in India con la Tri-X, è come essere in paradiso». Tanti auguri Tri-X e cento di questi giorni. E noi ci associamo, nella consapevolezza che si tratta di un capitolo della Storia della Fotografia ormai concluso. Ci piaccia o meno, la storia (fosse anche solo quella tecnica/tecnologica) va avanti con o senza di noi. ❖
Illustrazione di Angelo Galantini
EVOCAZIONI CON STILE
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Noi l’abbiamo acquistato in un negozio londinese indirizzato all’oggettistica di design e garbo (che preferiamo a molto, insieme all’educazione, alla gratitudine e alla riconoscenza). Sappiamo che è rintracciabile in Rete, e acquistabile a diretta conseguenza. Ma! Ma non è questo il problema, ammesso e non concesso che ci siano problematiche al proposito. In definitiva, e concreto, ci basta la conoscenza dell’oggetto in questione (in essere), del quale -prontamente- rendiamo partecipi. Photo Journal PJ128 è un incantevole album portafotografie, che esprime e manifesta affascinanti cenni di intesa con la fotografia tutta, nel suo percorso complessivo e globale. Soprattutto, storico. Ancora una annotazione personale, poi basta: ovviamente, nel nostro caso, Photo Journal PJ128 interessa nella sfera, di ampio diametro, nella quale includiamo presenze della fotografia estranee e/o incluse nel suo percorso statutario, verso le quali indirizziamo molte nostre attenzioni, anche verso le quali indirizziamo molte nostre attenzioni. Nello specifico, questo album sta assieme alle evocazioni fotografiche sui generis, che a propria volta includono diversi contenitori sovrastanti: fotografia nel cinema (della quale ci occupiamo coerentemente, ogni mese), nei fumetti, in filatelia, nella narrativa... insomma, nella società. Però, in assoluto, oltre e a parte ogni nostro intendimento altro e specifico e individuale, Photo Journal PJ128 merita una attenzione assoluta e a monte di tutto, non soltanto molto. Le sue specifiche utilitaristiche sono presto riferite. Si tratta di un album portafotografie di dimensioni contenute, 19,5x22cm, sul quale sono state predisposte pagine di accoglienza: per fotografie senza alcun ulteriore commento, piuttosto che stampe fotografiche da specificare con propri dati di riferimento e richiamo. A completamento, eccoci!, l’insieme di questo affascinante opuscolo, che si presenta alla maniera del-
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le confezioni di carta fotosensibile note a coloro i quali (e sono sempre meno) hanno frequentato la camera oscura, è illustrato con visualizzazioni a dir poco accattivanti. Firmate da Christine Berrie -brava!-, queste illustrazioni compongono un incantevole, delizioso e ammirevole casellario della fotografia che è stata, e che ancora deve essere! Una individuata serie di utensili della fotografia, soprattutto apparecchi fotografici, ma non soltanto questi, accompagna la successione che ciascuno può combinare con le proprie immagini, quantomeno con le stampe delle fotografie che gli sono in qualche misura care. Meglio di quanto possano fare fotografie degli stessi oggetti, le illustrazioni disegnate evocano sogni, pensieri, emozioni. Richiamano momenti e istanti che possono essere stati vissuti da ognuno di noi, o da molti di noi, e li fanno rivivere con il magico gusto e sapere del ricordo, della partecipazione diretta. Certo, bisogna accettare lo svolgimento del tempo... e lo accettiamo di buon grado. Ma, allo stesso momento, non possiamo esclude-
Confezionato alla maniera delle carte fotosensibili di buona memoria (tempi e modi di copie bianconero stampate in camera oscura), l’album portafotografie Photo Journal PJ128 è illustrato con evocazioni che provengono dalla storia evolutiva degli strumenti della fotografia: soprattutto apparecchi fotografici, ma anche altro in complemento. Prima delle singole illustrazioni (della brava Christine Berrie), è visualizzata una ipotizzata esposizione del passato.
Illustrazione Illustrazioni di Christine Berrie, dal portafotografie Photo Journal PJ128. Hasselblad 500 C (1957-1970). Contax II (1936-1942). Polaroid SX-70 Model 2 (dal 1977). Speed Graphic (dagli anni Venti). Rulli bianconero e colore 35mm e 120 in frigorifero. Deardorff 8x10 pollici (dagli anni Venti).
re dal nostro cuore quelle suggestioni e trepidazioni sulle quali e con le quali abbiamo anche edificato la nostra stessa esistenza, fosse anche solo quella fotografica. Certamente, non è il caso di farefinta-che. Non è il caso di fare finta di niente. A partire da un punto di vista tecnico-commerciale, che presto si proietta verso e sull’espressività del linguaggio applicato e svolto, è inutile -non soltanto superfluo- ignorare la realtà fotografica dei nostri giorni (in pieno Duemilaquattordici). Annunciata da Akio Morita, presidente della Sony Corporation (da lui fondata, nel 1946, con Masaru Ibuka), il 24 agosto 1981, e arrivata a maturazione/compimento nei decenni a seguire, la tecnologia di acquisizione (e gestione) digitale di immagini è, oggigiorno, inviolabilmente so-
stitutiva della lunga storia chimica (materiali sensibili alla luce e contorni e dintorni), evolutasi a partire dal 1839, di nascita ufficiale della fotografia, in forma di dagherrotipo. Questa registrazione, che datiamo oggi, in curiosa ricorrenza del centosettantacinquesimo anniversario (18392014), è dovuta, oltre che doverosa. Senza alcuna animosità, lontani da qualsivoglia nostalgia (fine a se stessa), estranei a inutili controversie e contrapposizioni, siamo qui a registrare che la storia (fosse anche solo quella tecnologica) va comunque avanti, con o senza di noi. Però! Però, con altrettanta pacata e lieve serenità, siamo qui anche ad affermare come e quanto ci piaccia attardarci con compagnie fotograficamente storiche: del passato, sia prossimo, sia remoto, che da que-
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Illustrazione
Illustrazioni di Christine Berrie, dal portafotografie Photo Journal PJ128. Leica I [cromata?] (1925-1935). Nikon FE (dal 1978). Kodak Brownie Flash IV (1957-1959). Holga 120S (dal 1981). Provini a contatto. Sekonic Digitalmaster L-758D (d’attualità). Diana F+ (dagli anni Sessanta).
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sto stesso passato avvolgono il presente con un’aura che arricchisce e impreziosisce le nostre esistente. Ancora, e sia chiaro una volta per tutte: non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -molto più concretamente- invitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen; Adelphi, 2014). Fino a qualche stagione fa utensili indispensabili e irrinunciabili di qualsivoglia impegno fotografico, oggi, i soggetti delle illustrazioni di Christine Berrie, che completano l’edizione di Photo Journal PJ128 e che sono replicati anche in altro merchandising di maniera (a partire da affascinanti sacche in tela), si offrono e presentano con altri connotati, si ri-propongono per altra personalità... niente affatto necessaria, né tantomeno richiesta, ma frequentata con immutato ardore: per attardarsi con compagnie fotografiche estranee all’incessante ritmo delle lancette che scorrono rapide sul quadrante dell’orologio. ❖
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ECCE HOMO
di Angelo Galantini
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arico di significati, aggravato da mille e mille considerazioni aggiuntive, che riguardano -soprattutto- il contraddittorio e spesso contrastante (e inconciliabile?) rapporto aziendale, il tema del Capitale umano è affrontato e svolto dalla terza sostanziosa mostra fotografica tematica allestita presso il Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), che dalla sua creazione, con sontuosa inaugurazione lo scorso autunno [FOTOgraphia, dicembre 2013], si offre e propone come osservatorio autorevole e privilegiato della cultura sociale dell’Industria. In genesi, e anche in ripetizione d’obbligo di quanto abbiamo già avuto modo di sottolineare, va ricordato che l’insieme delle mostre che hanno accompagnato il fastoso debutto si è presentato con la necessaria lievità, che ha legittimamente trala-
sciato qualsivoglia ulteriore considerazione di carattere sociale: nel proprio insieme e complesso, tra selezioni d’autore e collettive in qualche modo tematiche, i diciassette allestimenti originari, distribuiti in città, hanno sostanziosamente appagato e gratificato il cuore di chi -speriamo, noi tra questiapprezza la buona fotografia, senza soluzione di continuità tra tempo, stili e applicazioni. Analogamente, il secondo consistente appuntamento fotografico dello stesso Mast, rimasto in cartellone per tre mesi, fino alla fine dello scorso marzo, ha prospettato una analoga visione e osservazione trasversale, priva di qualsivoglia appiglio di altro genere, oltre lo specifico della raffigurazione/rappresentazione fotografica annunciata e proposta: la collettiva I mondi industriali 014, della quale ci siamo occupati a marzo, ha celebrato l’Industria (consueta maiuscola volontaria, prima ancora che consapevole) attraverso le proprie magnificenze visive e esuberanze soddisfacenti.
Max Alpert: Worker, 1930 (© Max Alpert, Courtesy of Nailya Alexander Gallery, New York).
Sebastião Salgado: Brasil, Gold Mines, Serra Pelada, 1986 (© Sebastião Salgado / Amazonas Images / Contrasto).
Il soggetto esplicito del terzo appuntamento fotografico allestito all’autorevole Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), di Bologna, verte sul rapporto lavorativo nell’industria, osservatorio statutario. Nella consistente selezione Capitale umano, che si svolge al ritmo di ducentocinquantaquattro immagini, di quarantuno autori, è analizzata la presenza dell’Uomo, del suo lavoro, della sua fatica, della sua Vita. La mostra impone ritmo visivo adeguato, un passo mentale capace di andare oltre la superficie a tutti apparente: non più teorico e intellettuale, ma anche sociale
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Mike Mandel e Larry Sultan: Senza titolo, da Evidence, 1977 (© The Estate of Larry Sultan & Mike Mandel, Courtesy Galerie Thomas Zander, Cologne).
Ora, diavolo!, il terzo allestimento di Urs Stahel, accreditato e autorevole curatore della Collezione di Fotografia Industriale della Fondazione Mast, abbandona le precedenti prudenze, per affrontare un tema che non può limitarsi alla sola osservazione asettica di fotografie, magari anche di belle fotografie, da valutare soltanto per esplicite e manifeste componenti fotografiche: quali l’inquadratura, la composizione, l’esposizione e la distribuzione armoniosa e rassicurante/incoraggiante di toni, volumi e (eventualmente) cromatismi. La presenza dell’Uomo, del suo lavoro, della sua fatica, della sua Vita... impone un altro ritmo visivo, un altro passo mentale: non più teorico e intellettuale, ma anche sociale. Non possiamo esimerci.
FOTOGRAFIA UMANISTA Allo stesso momento, non ci possiamo esonerare dal riprendere concetti, rilevazioni e considerazioni che il nostro direttore Maurizio Rebuzzini ha espresso nella sua retrovisione fotografica-esistenziale 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, nella quale quattro svolte fotografiche senza ritorno (Box Kodak, Leica, Polaroid / fotografia a sviluppo immediato e acquisizione digitale
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di immagini) sono state declinate in relazione alle rispettive influenze sul come della Fotografia, con relativa e rispettiva proiezione sul suo perché nella società e nel mondo, nel proprio insieme e complesso. In questo senso, oltre altre considerazioni (non qui, non ora), giusto la Box Kodak, del 1888, ha dato avvio alla fotografia della vita nel proprio svolgersi: le dimensioni contenute e la sostanziale facilità di uso consentirono alla fotografia di scendere per la strada, applicandosi alla vita reale. Individuando prerogative visive e di contenuto, rileviamo ancora che la fotografia pre-1888 è stata tutta chiusa in se stessa e rivolta a se stessa (autoreferente e autoreferenziata): fotografia da guardare, apprezzare e valutare come tale. Appunto, fotografia. Quella successiva, innescata dalla Box Kodak e consecuzioni, sollecita anche la riflessione e considerazione del soggetto rappresentato, non soltanto raffigurato. La differenza non è minima, né poca, ma sostanziale. La differenza, in provocazione, distingue l’osservazione della luna dalla sola individuazione del dito che la indica. La fotografia considera la vita nel proprio svolgimento. Tanto per quantificare, le immagini di Jacob A. Riis che rivelarono le terribili condizioni di vita de-
gli immigrati a New York, raccolte in How the Other Half Lives, sono del 1890. E la fotografia umanista di fine Ottocento indica un altro autore che si muove nello stesso identico modo: Lewis W. Hine. Da FOTOgraphia, estraiamo anche qui, e ancora qui, passaggi significativi sui due autori principali della fotografia umanista, appena ricordati, curiosamente pubblicati in stretta successione: Sguardi su Jacob A. Riis e Lewis W. Hine, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del settembre e ottobre 2005. Da Jacob A. Riis, ladro di immagini (per dire): «Ci sono alcuni randagi della fotografia dolente che non sono proprio amati o elogiati mai abbastanza per il proprio impegno di difesa dei diritti dell’uomo, e uno di questi disertori del successo d’arredamento è Jacob August Riis (1849-1914), un immigrato di origine danese che fece del linguaggio fotografico una rivoluzione. [...] «Jacob A. Riis iniziò a fotografare gli slum della metropoli. Si aggirava come un “ladro di immagini” nella miseria profonda dei quartieri poveri, e riuscì a scippare alla realtà martoriata e vilipesa della storia lo specchio rovesciato della povertà. [...] Le fotografie Il nascondiglio di Mulberry Bend e La banda Growler dell’East Side di New York mostrano non solo
la spregiudicatezza, il coraggio o l’incoscienza del cronista d’assalto; quanto emerge da una lettura attenta delle immagini sono l’attenzione formale e il senso profondo del coinvolgimento del fotografo in ciò che ha scippato al reale celato, e suggerisce una pratica della solidarietà, dell’accoglienza o della bellezza, che smaschera il moralismo camuffato [...]. «Le fotografie di Jacob A. Riis non hanno niente a che fare con l’attualità, la cronaca o la pietistica dei migranti; le sue immagini non riguardano le periferie invisibili di New York: sono icone universali e figurano il malessere esistenziale, la povertà, la miseria profonda nelle quali milioni di esseri umani si trovano ai margini di tutte le metropoli. È esattamente per questa “visione inattuale”, non malgrado, che dureranno (giustamente!) fin quando l’uomo si interesserà dei propri fratelli». Da Lewis W. Hine, un fotografo dell’ingiustizia: «La fotografia di protesta di Lewis W. Hine nasce dai bassifondi, dalle periferie, dalle povertà già scavate dalla fotografia di Jacob A. Riis e denuncia, senza timore d’essere inviso al potere, le situazioni di sfruttamento che bambini, operai, contadini subivano per arricchire una minoranza che faceva del “sogno americano” qualcosa che funziona solo nel cinema hollywoodiano. Fo-
Erich Lessing: Moser glass factory, Karlovy Vary, Czech Republic, 1956; da Europe: History 1956-1973 (© Erich Lessing / lessingimages.com).
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Josef Sudek: Steel Worker, 1923 (© Josef Sudek, Courtesy Galerie Johannes Faber, Vienna).
tografare significa “comporre” o, meglio ancora, fare della macchina fotografica uno sguardo della storia. «L’illusione del consenso corre col sangue in prima pagina e, siccome la fotografia “corteggia la morte” (Susan Sontag), tutto ciò che cade in una fotografia è anche un messaggio che unisce la memoria del passato alle sensazioni del presente. Le fotografie hanno sull’immaginazione contemporanea non solo l’autorità che un tempo aveva la carta stampata, ma sono divenute ponti, schegge, ordinamenti del sistema nervoso con quanto attiene al comportamento sociale. [...] «Al fondo della fotografia di denuncia di Lewis W. Hine c’è una visione dell’utopia che rimanda non tanto alla scoperta di una nuova vivenza tra gli uomini, quanto alla responsabilizzazione della collettività di fronte alle violazioni dei diritti più elementari dell’uomo. La libertà non è un privilegio che spetta alla classe dominante, né un codice di condotta intrusiva sulla quotidianità del più svantaggiato. L’utopia espressa da Lewis W. Hine nelle proprie fotografie è una difesa della libertà d’espressione appassionata e allo stesso tempo l’indignazione di un poeta contro l’imperio della disumanità. «La fotografia errante di Lewis W. Hine scopre
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mondi, scoperchia tutto quanto è nemico delle idee e disvela la responsabilità dei potenti nella devalorizzazione dei propri precetti di socialità omologata. Lo spirito libero del fotografo, del giornalista indipendente, del sociologo non addomesticato lo porta ad attraversare il “grande paese” e raccogliere i volti, i corpi, i gesti di braccianti stagionali, immigranti, bambini schiavizzati nelle fabbriche. «Spesso, Lewis W. Hine corredava le fotografie con commenti salaci, come questo, del febbraio 1911, dal South Carolina: “Nove di questi bambini, dagli otto anni in su, vanno a scuola mezza giornata, ma sgusciano ostriche per quattro ore prima della scuola e per tre ore dopo la scuola nei giorni feriali, e di sabato dalle quattro antimeridiane al primo pomeriggio (Maggiori Canning Co)”. Le ostriche, s’intende, erano destinate ai “palati fini” della “buona borghesia” montante». A questo punto, ognuno prosegua per proprio conto, aggiungendo eventuali altre linee demarcatorie innescate dalla Box Kodak, ovverosia dalla possibilità della fotografia di osservare la vita nel proprio svolgersi. Cioè, della fotografia che dalla fine dell’Ottocento si prepara a imporsi come l’autentico linguaggio, non soltanto visivo, del Novecento.
PER L’APPUNTO, CAPITALE UMANO
L’attuale collettiva Capitale umano, a cura di Urs Stahel, propone duecentocinquantaquattro immagini, di quarantuno autori, selezionate dalla consistente Collezione di Fotografia Industriale della Fondazione Mast (qui in terza valutazione a tema), che raccontano le persone nei luoghi di lavoro. Inaugurata a fine aprile, la mostra è programmata fino al prossimo trenta agosto. Va visitata senza prevenzione alcuna e senza rancore, ma con animo disposto alla comprensione delle ragioni di tutti, e, dunque, lasciando alla fotografia uno dei propri compiti istituzionali: quello di raccontare, senza giudicare. Da qui, le note ufficiali di presentazione. A partire dalla metà del Diciottesimo secolo, in Europa e nel resto del mondo, l’avvento dell’industrializzazione ha prodotto un mutamento così determinante nelle condizioni di vita delle persone da indurci a coniare il termine “rivoluzione industriale”. Questo fenomeno ha avuto forti ripercussioni sulla società, sulle nostre conoscenze, sul nostro modo di pensare. Se da un lato l’industria ha radicalmente cambiato la vita delle persone, d’altro lato la sua esistenza è impensabile senza di loro, senza i lavoratori.
Fino a poco tempo fa, prima che la recente ondata di automatizzazione trasformasse la produzione in un processo affidato in gran parte alla tecnologia (anche robotizzata), uomini e macchine, industria e lavoratori sono stati una sola grande entità (a volte definita da contrasti e contraddizioni, spesso stridenti... va detto). Comunque, questa unità, questo vincolo, ha trasformato le grandi fabbriche, per esempio quelle che producono automobili, in comunità autonome. Risalgono all’inizio del Ventesimo secolo le prime strutture per il dopolavoro, che hanno offerto occasioni di svago e formazione. La storia dell’industria coincide anche con il racconto dell’evoluzione dei rapporti tra lavoratori e imprese, sempre caratterizzati da negoziazioni sulle condizioni lavorative. Attraverso le immagini delle persone nei luoghi di lavoro, Capitale umano sollecita l’attenzione sul ruolo determinante che questo, per l’appunto il capitale umano, ha sempre svolto nello sviluppo dell’economia e della società. ❖
Antonio Paoletti: Impresa Umberto Girola, Diga di Agaro, 1935-1941 (© Antonio Paoletti, Courtesy Michael Jakob).
Capitale umano, dalla Collezione di Fotografia Industriale della Fondazione Mast, a cura di Urs Stahel. Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 40-42, 40133 Bologna; www.mast.org. Fino al 30 agosto; martedì-sabato, 10,00-19,00.
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Senza attardarci su caratteristiche ufficiali e prerogative di uso, una considerazione (volante?) su quanto si distingue nel mercato fotografico, offrendo al contempo materia aggiuntiva e complementare. Ci riferiamo alle personalità di Nikon Df e Fujifilm X-T1, richiamando anche Sony α7R e la fantastica genìa delle Leica M contemporanee, non intendendo fermarci a questo, ma offrendo spunto di considerazione per quanto assolve se stesso e gratifica il comparto fotografico nel proprio insieme e complesso
FACCIA A FACCIA di Antonio Bordoni
iusto tra un mese, sul prossimo numero di FOTOgraphia, presenteremo i quaranta prestigiosi e ambìti TIPA Awards 2014, assegnati ai migliori prodotti fotografici (e attuali contorni) presentati sul mercato internazionale nel corso dell’ultimo anno. Categoria per categoria, scomposizione per scomposizione, questi premi identificano lo svolgersi delle tecnologie applicate all’imaging, dalla ripresa fotografica vera e propria (intramontabile e consistente zoccolo duro dell’intero comparto) alla gestione di immagini, al video, alla conservazione e presentazione. Di fatto, come in ogni precedente stagione, da ventiquattro anni a questa parte, la qualificata e autorevole giuria dei TIPA Awards ha vivisezionato il mercato, conferendo e attribuendo meriti assoluti, dei quali tenere preziosamente conto. Oltre a questo, però, il comparto fotografico dei nostri giorni, che può contare su infinite interpretazioni tecnologiche, esprime anche indicazioni e configurazioni che non assolvono soltanto e semplicemente il cammino preordinato, ma interpretano a proprio modo e con piglio altre visioni, approdando a proposizioni, definiamole così, sostanziosamente trasversali. Con audacia, magari la nostra di sempre (?), e -allo stesso momento- senza alcuna impertinenza e irriverenza, qui e ora, riflettiamo giusto su questo, accostando tra loro due recenti configurazioni fotografiche che si segnalano per proprie sostanziose personalità, almeno in un caso con voce (tonante) fuori dal coro.
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Sia chiarito subito: ufficialmente, la reflex Nikon Df e la compatta a obiettivi intercambiabili Fujifilm X-T1, due sicuri TIPA Awards di categoria (tra un mese, vedremo quale e perché), hanno nulla in comune; ufficiosamente, però, entrambe rispondono con forza e intensità (quasi irruenza) a quella fantastica voglia di fotografia che -nonostante molto- continua ad attraversare il nostro mondo. Ovvero, ognuna per sé e i propri intendimenti, ma entrambe in individuata (da noi, almeno) comunione di intenti, le personalità esplicite della Nikon Df e della Fujifilm X-T1 rivelano come e quanto sia ancora possibile applicare scarti a lato capaci di fare bella differenza, anche e ancora in un comparto troppo spesso vincolato alla costante e continua frequentazione di un copione noto e prevedibile, scandito da pixel in progressione, da caratteristiche attese e da risposte evidenti. Con tutto questo, qui e ora, non presentiamo alcuna caratteristica formale delle due configurazioni: dati, cifre e quantità sono facilmente rintracciabili con una semplice ricerca in Rete, con una visita al proprio fotonegoziante, con una richiesta ai rispettivi e relativi distributori nazionali. Invece, ma non in opposizione (ci mancherebbe altro), intendiamo sottolineare quelle linee conduttrici, addirittura filosofiche (!), per le quali e attraverso le quali abbiamo individuato quella luce di personalità che distingue queste due proposte tecnico-commerciali dalla quantità e qualità (sia certo... alta, altissima) che definisce l’attualità degli utensili della fotografia.
E POI... C’È DELL’ALTRO
Ovviamente, concentrando certe nostre attuali considerazioni alle Nikon Df e Fujifilm X-T1 abbiamo fatto torto ad alcune altre attuali configurazioni fotografiche analogamente meritevoli di parole, commenti e interpretazione sottotraccia. In particolare, oltre quanto scandisce tempi prestabiliti e annunciati e attesi e inevitabili, pensiamo alla Sony α7R, con tutto il proprio bagaglio di prestazioni e avvincente personalità; ma anche alla genìa delle Leica M (a scelta individuale, M9-P, M-E, M e M Monochrom), che continua a segnalare la vitalità di una storia che affonda le proprie radici indietro nei decenni, fino a scandire il tempo clamoroso del secolo tondo (1914-2014). Anche in questi casi, che nello specifico Leica ha del fragoroso, si tratta anche di soggettività in consistente misura fuori dal coro, capaci di stabilire passi in differenza e di altrettanta differenza per il mercato. Dunque, nessuno ce ne voglia per esserci limitati a due esempi, e non estesi ad almeno quattro (con Leica in moltiplicazione). Di questo si è trattato: di esempi significativi di qualcosa che canta da sé, che affiora oltre l’apparenza, che si impone a dispetto di molto, che si esprime non soltanto per sé (come pure fa, ed è legittimo che faccia), ma in rappresentanza di un mercato.
SOTTOTRACCIA Come è evidente (e, persino, certificato), la Nikon Df è trasversale al proprio ampio e differenziato sistema reflex, tanto da non essere collocabile in posizione certa al proprio interno. È professionale, nello stesso momento in cui non lo è (le mancano alcune delle prerogative di definizione); è selettiva nel prezzo di vendita-acquisto; è avvincente, ma non per tutti convincente; è affascinante, con un taglio che non si rivolge agli utenti più giovani, verso i quali sono sempre più indirizzate le attenzioni produttive (non soltanto quelle fotografiche). Su un corpo macchina ereditato da esperienze lontane, ma non così remote da retrocedere fino alle Nikon F... F2... F3, ma concentrate sulla fantastica stagione delle FM e FE di buona memoria, la Nikon Df fa della propria forma motivo per i propri contenuti. Non si tratta tanto di arida e inutile nostalgia, quanto, più espressamente, di appagamento tattile con interpretazione attuale. È stata privata della possibilità di riprese video, oggi indispensabili a ogni reflex che voglia stare autorevolmente sul mercato, ed è stata realizzata con un pertinente equilibrio di impostazioni virtuali e regolazioni effettuate (effettuabili) a mano, quasi analogicamente. Insomma, con un passo adeguatamente a lato (ma anche indietro), è una reflex con la quale possono dialogare i quarantenni, e anche oltre, che sono nati e cresciuti in stagioni nelle quali il rapporto individuale con gli strumenti si basava su compagnie solide, potenti... che stavano bene in mano.
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STRETTA ATTUALITÀ
Dal canto suo, e in tutt’altro percorso, la Fujifilm X-T1 è perentoria e intransigente. Per quanto altrove sia indispensabile catalogarla (magari nell’ambito degli anticipati TIPA Awards 2014), rifiuta appartenenze limitanti. Di fatto, con questa configurazione (e, per lo stesso identico motivo, anche con la Sony α7R; riquadro a pagina 31), viene a cadere la discriminante Mirrorless, oppuresia CSC - Compact System Camera, a favore di una più concreta identificazione di “macchina fotografica”... dei nostri giorni. Dunque, è compatta nella forma e dotata di obiettivi intercambiabili; prosegue la strada imboccata da Fujifilm, che da tempo ha rinvigorito e riattualizzato design ereditati dal passato (spesso remoto) [FOTO graphia, marzo e aprile 2012]; impone un passo di alta qualità formale; esige attenzione.
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In una parola, e magari al pari di altre configurazioni analoghe (per quanto con minore personalità formale e di contenuto), la Fujifilm X-T1 è una assoluta e inviolabile interpretazione fotografica dei nostri giorni, completa di quanto serve e ripulita da quanto non è espressamente necessario alla ripresa fotografica più concentrata. Se anche questi sono valori, e lo sono senza alcuna ombra di dubbio, la riflessione sulla tecnologia fotografica e le sue applicazioni dovrebbe tenerne conto. Due nostre parole, queste di oggi, a certificazione che di strumenti fotografici si può ancora parlare e scrivere: a parte le cifre, le quantità e le presunte prestazioni. Che ci sono, e non sono in discussione, perché non sono negoziabili. Invece, ciò che traspare oltre l’apparenza è (dovrebbe essere) materia di analisi. ❖
RITUALITÀ DELLA FOT Incessante e elettrizzante sequenza di visioni di Virgilio Fidanza, realizzate sul Bund di Shanghai: la fotografia privata, l’antica fotoricordo, come rifugio consumistico illusorio, anticipatore di una idea feticista (e perfidamente autoreferenziale) di possesso dell’oggetto. Oggigiorno, “Sono quello che ti mostro!” è l’imperativo comportamentale della società: quantomeno è una delle manifestazioni evidenti ed esplicite della globalizzazione trasversale a tutto e tutti... della non cultura. Interpretata e svolta da autori capaci di pensare, la fotografia può far ragionare l’osservatore
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À E GESTI TOGRAFIA
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di Maurizio Rebuzzini
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sposto fino al trentuno agosto nelle sale del Four Points by Sheraton Milan Center, nel capoluogo lombardo, in via Cardano 1, nei pressi della Stazione Centrale, il progetto fotografico di Virgilio Fidanza Shanghai - il Bund - la Fotografia, curato da Stefano Bianchi, ha mille e mille motivi di fascino e coinvolgimento: a ciascuno, il proprio. Da parte nostra, nell’educazione ed esperienza che derivano dalla frequentazione convinta e consapevole della fotografia, e delle sue relative implicazioni, potrebbe maturare una chiave di lettura specifica, che antepone il soggetto alla sua interpretazione. Non è legittimo farlo, quantomeno non qui e non ora, per non privare l’autore di rilevazioni conformi alla sua creatività, che in alle-
stimento di ingrandimenti fotografici si estende dalla Reception alla Lounge dell’hotel, per approdare al Ristorante Nectare; diciamola anche così, come da intenzione espositiva esplicita: relax culturale, riservato a ospiti e visitatori. E proprio i visitatori, ospiti di passaggio piuttosto che pubblico indirizzato, clienti quotidiani o osservatori consapevoli (oltre che interessati), sono i fruitori ai quali va fatto riferimento, verso i quali si debbono declinare le osservazioni a proposito di questa avvincente e affascinante serie fotografica Shanghai - il Bund - la Fotografia, di Virgilio Fidanza. Doverosa precisazione: esteso per centosettantamila metri quadrati, alla confluenza dei fiumi Huangpu e Suzhou, il Bund di Shanghai è considerato e conteggiato come l’origine della città, situata vicino alla foce del fiume Yangzi, attualmente la più popolosa dell’intera Cina (paradossalmente, Repubblica
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popolare?), che con i suoi oltre venti milioni di abitanti è altresì una delle più popolose del mondo. Importante centro finanziario, nonché commerciale, della Cina, Shanghai ha un porto tra i più trafficati della Terra, al pari di Singapore e Rotterdam. La vivacità economica della città è ben rappresentata dai numerosi e moderni grattacieli del distretto finanziario di Pudong, che replica l’aspetto dei maggiori centri finanziari statunitensi ed europei: autentica vocazione storica internazionale della città e finestra sull’intera Cina e la sua economia emergente e dinamica. Dunque, il Bund, sul quale si affaccia tutto questo, è valutabile come porta di ingresso di un mondo in rapida trasformazione, peraltro arricchita da numerosi edifici storici, protetti dalla municipalità. Per diretta conseguenza, il Bund di Shanghai è meta continua e costante di turisti. Qui, l’attento e cosciente Virgilio
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Fidanza ha concentrato una attenzione trasversale, che definisce applicazioni e considerazioni fuori dal comune, delle quali dobbiamo essergli grati. Con i propri riti inevitabili, ripetuti e replicati all’infinito, per Virgilio Fidanza, il Bund si è magicamente convertito e trasfigurato in fantastico palcoscenico rappresentativo non soltanto di se stesso, come pure è, ma di una condizione più globale. La riflessione dell’abile autore -conscio della ritualità della fotografia- è di quelle che emozionano e coinvolgono: con lui e attraverso la sua serie fotografica, il Bund si offre e propone come specchio di quanto l’uso dell’immagine tecnologica sia sempre più in contrapposizione con il mondo concreto. Fatto certo che l’evoluzione tecnologica influisce sempre sul come della fotografia, arrivando a trasformarne persino il perché, fino alla proiezione sociale della stessa fotografia (in
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un percorso privo di qualsivoglia soluzione di continuità), oltre quanto avviene per opera e capacità interpretative di professionisti (e addetti), si registra anche l’azione generalizzata, casuale e improvvisata di coloro i quali declinano la sola (e altrove nobile/avvincente) fotoricordo. Per certi versi, analfabeti visivi, e oggi anche nativi digitali, costoro dispongono di ogni sorta di congegno tecnologico attuale... finalizzato anche alla registrazione di immagini, oltre e a dispetto di precedenti volontà consapevoli, che esigevano e imponevano l’utilizzo di strumenti preposti. Eccola qui, l’incessante e elettrizzante sequenza di visioni di Virgilio Fidanza: la fotografia privata, l’antica fotoricordo, come rifugio consumistico illusorio, anticipatore di una idea feticista (e perfidamente autoreferenziale) di possesso dell’oggetto. Oggigiorno, “Sono quello che ti mostro!” è l’imperativo comporta-
mentale della società: quantomeno è una delle manifestazioni evidenti ed esplicite della globalizzazione trasversale a tutto e tutti... della non cultura (non nel suo solo senso nozionistico). Quindi, amorevolmente -questo va rilevato-, Virgilio Fidanza raffigura, rappresentandola, un’umanità confusa e smarrita, che riproduce modalità stereotipate nel farsi fotografare e nel gesto del fotografare. La sua è una incantevole raccolta di visioni che celebrano la vittoria dell’immagine sul mondo concreto. Fotografare, invece di vedere. Fotografare, per sancire una identità (?). Fotografare, per esserci. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo: missione della fotografia, quando è interpretata e svolta da autori capaci di pensare (ed è il caso attuale, di Virgilio Fidanza), che riescono a far ragionare l’osservatore. Con tanta nostra gratitudine. ❖
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folding 6x9cm, dal 1964
Mirino sportivo e Voigtländer Apo-Lanthar 100mm f/4,5
Linhof Technika Studio 70
www.newoldcamera.com
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STRAORDINARIO ATTO D’AMORE
All’indomani della sua programmazione nelle sale cinematografiche internazionali, già disponibile in Dvd, per una comoda e confortevole visione domestica, I sogni segreti di Walter Mitty è un film con avvincente e convincente presenza della fotografia. Remake di una antica sceneggiatura omonima (quasi, in italiano), è ambientato nella redazione di Life, alla vigilia della conclusione della sua parabola giornalistica e, soprattutto, fotogiornalistica. Si deve preparare l’ultimo numero, e va smarrita la fotografia prevista per la copertina conclusiva. Trama (senza rivelazione della copertina in questione: non roviniamo la visione a nessuno), svolgimento e, in diritto/dovere, retrovisioni sulla lunga vicenda della nota e nobile testata. Esattamente in questo ordine di Maurizio Rebuzzini ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
P
rima di approdare alla sostanza fotografica che definisce il film I sogni segreti di Walter Mitty, dall’originario statunitense The Secret Life of Walter Mitty, diretto da Ben Stiller, anche protagonista, e uscito nelle sale cinematografiche alla fine dello scorso anno, è opportuno ricordarne la genesi, e liquidarla subito: per consentirci, poi, di rimanere sulla vicenda, di energetica personalità fotografica. E stiamo per vedere come e perché, e stiamo per approfondire, allargandoci e comprendendo considerazioni e ragionamenti che qualificano la nostra (noi e voi, insieme) consapevolezza della fotografia e partecipazione al
suo fenomeno, alla sua disciplina, al suo linguaggio, alla sua creatività e, perché no?, alla sua filosofia. Attualizzata come stiamo per vedere, la sceneggiatura di I sogni segreti di Walter Mitty, firmata da Steve Conrad, non è originale, per quanto sia assolutamente e inviolabilmente efficace e affascinante. Il film dei nostri giorni riprende il contenuto di un film del 1947, diretto da Norman Z. McLeod, che in originale ha lo stesso titolo: The Secret Life of Walter Mitty, tradotto in Italia come Sogni proibiti. Per il protagonista di allora, la critica considera l’interpretazione di Danny Kaye (1913-1987), maestro del film musicale, come la più convincente della sua lunga carriera cinematografica: un anonimo redattore di riviste periodiche, che sogna continuamente a occhi aperti, prendendo spunto da quanto gli accade durante il giorno.
I sogni segreti di Walter Mitty, dall’originario The Secret Life of Walter Mitty (che nel suo titolo include anche il richiamo alla leggendaria testata di riferimento: Caso apprezzato), è un film che nel proprio svolgimento compone i tratti di un commovente omaggio al fotogiornalismo di Life.
Nella scenografia del film I sogni segreti di Walter Mitty sono evocate molte copertine di Life, nella cui redazione prende avvio la vicenda. Alcune copertine sono note e celebri, persino leggendarie e mitiche, altre inventate: come questa del protagonista Walter Mitty (interpretato dall’attore Ben Stiller, anche regista del film) in tuta da astronauta. Anche questo è uno dei suoi sogni.
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Responsabile dell’archivio di Life (affascinante la rievocazione scenica), Walter Mitty (Ben Stiller) deve gestire l’ultima copertina cartacea, a partire dai fotogrammi inviati dal fotogiornalista Sean O’Connell (sostanziale cameo cinematografico dell’attore Sean Penn).
A propria volta, l’antica (?) sceneggiatura di Ken Englund e Everett Freeman si basò esplicitamente sull’omonimo racconto di James Thurber, originariamente pubblicato sul prestigioso e autorevole The New Yorker, nel 1939 (attenzione, è disponibile l’edizione italiana La vita segreta di Walter Mitty, in edizione Bur/Rizzoli, del 2012, rieditata alla fine del 2013 con copertina che richiama la locandina del film). Dunque, a conti aritmetici fatti, siamo in presenza di un remake di un film sceneggiato da un libro, da un racconto: triplo passaggio... che finisce per approdare alla fotografia. Un poco di pazienza, ancora. Concludiamo il dietro-le-quinte, la dietrologia hollywoodiana, annotando che per la direzione del film, Ben Stiller ha sopravanzato altri celebrati registi, che si erano già resi disponibili (si sono fatti i nomi di Steven Spielberg, Ron Howard e Gore Verbinski); ancora, per la parte principale, ha sorpassato Sacha Baron Cohen e Johnny Depp.
NELLA REDAZIONE DI LIFE
Inizio e fine di Life, al cinema. Nel film Jump!, di Joshua Sinclair, del 2008 [ FOTOgraphia, aprile 2012], il giovane Philipp Halsmann, che sarebbe poi diventato il fotografo Philippe Halsman, dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, riceve un invito a partecipare alla neo costituita rivista. Nell’attuale I sogni segreti di Walter Mitty, di Ben Stiller, del 2013, i dipendenti si recano in amministrazione a ritirare l’ultimo stipendio e la liquidazione.
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A differenza della sostanziale genericità dell’impiego professionale di Walter Mitty / Danny Kaye, del film di Norman Z. McLeod, del 1947, nell’attuale remake, la vicenda si svolge nella redazione di Life: e da questo dipende e su questo si basa/edifica il nostro coinvolgimento attuale e mirato (noi e voi, insieme). Walter Mitty / Ben Stiller è il responsabile dell’archivio fotografico della blasonata redazione, al cui fotogiornalismo si riconduce molto della Storia della fotografia, ma anche -volente o nolentedella Storia del Novecento. Siamo al tramonto dell’edizione cartacea, con l’immancabile tagliateste aziendale, che nulla sa della gloriosa eredità della testata, che deve traghettare verso la conversione in Rete, previa pubblicazione di un ultimo numero della rivista. Per questo, il fotografo freelance Sean O’Connell, una delle colonne portanti di questo fotogiornalismo sceneggiato, tormentone del film, invia in redazione una serie di negativi (lui scatta ancora e intransigentemente con pellicola), tra i quali indica il fotogramma Venticinque come quello rappresentativo della conclusione dell’esperienza giornalistica. Solo che, per un fortuito concorso di fatti, elementi e confusioni, il fotogramma manca dalla serie ricevuta. A parte i sogni segreti di Walter Mitty, che a noi non interessano mi-
In sintesi dalla dichiarazione originaria di Henry R. Luce, alla nascita di Life, il cui primo numero datò 23 novembre 1936 (completa nel testo): «Vedere il mondo, gli avvenimenti pericolosi da avvicinare, vedere oltre le pareti, avvicinarsi alla vita, per trovare l'altro ed emozionarsi. Questa è la promessa di Life». La dichiarazione di intenti, che sta alla base (che è stata alla base) del fotogiornalismo di Life, è incisa nel portafogli che il fotografo Sean O’Connell regala a Walter Mitty in ringraziamento del suo buon lavoro svolto nei decenni. Nel film I sogni segreti di Walter Mitty, la stessa dichiarazione è ribadita nella scena nella quale il protagonista parte con un volo aereo: scomposta tra le scenografie dell’aeroporto, dell’aereo e del decollo.
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Il primo numero di Life data 23 novembre 1936. In copertina, una fotografia di Margaret Bourke-White: la diga nei pressi di Fort Peck, nel Montana, le cui dimensioni sono esaltate dalle sagome in basso. All’interno, il servizio apre, quindi, con i lavoratori vestiti della festa, che danzano in un saloon.
Immagine promozionale del lancio di Life, che illustra una signora che sceglie il settimanale in una edicola statunitense, nella quale non mancano certo opportunità di lettura.
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nimamente (e lasciamo al pubblico tutto i propri gusti personali), il succo del film sta tutto qui: nella ricerca del fotogramma, nell’inseguimento di Sean O’Connell, impegnato in un progetto svolto in luoghi imperversi e non raggiungibili che di persona (per quanto, con fatiche fisiche e oneri di tutto rispetto). Ovviamente, non spetta a noi, e non qui, e non ora, svelare questa fotografia conclusiva, che dà luce e emozione all’intera vicenda, oltre che alla nostra partecipazione alla cosa fotografica (noi e voi, insieme). Invece, per sottolineare una volta ancora, una di più, ma mai una di troppo, come e quanto sia cosciente e persuasivo l’attraversamento fotografico in sceneggiature/scenografie cinematografiche statunitensi, sottolineiamo alcuni dettagli, che danno senso all’insieme. Scenograficamente, sono affascinanti i generosi ingrandimenti di copertine storiche di Life, appesi alle pareti della redazione (con volontaria combinazione di copertine autenticamente tali, e realizzate, e copertine
confezionate e ipotizzate per l’occasione, una delle quali comprende anche il protagonista Walter Mitty / Ben Stiller, che, in base a propri sogni, vi compare in veste di astronauta) [a proposito, come stiamo per rilevare più avanti, ma l’anticipazione non guasta, la copertina del numero Uno, del 23 novembre 1936, fu firmata da Margaret Bourke-White]; così come è pertinente la Nikon F3/T che usa il fotogiornalista Sean O’Connell, una volta raggiunto all’estremo nord dell’emisfero (sostanziale cameo di Sean Penn). Per non riferirsi, poi, ai reinventati locali dell’archivio fotografico di Life, con le sue relative procedure operative, percepibili soltanto da chi frequenta la fotografia. Invece, per i dialoghi, ci riferiamo ai contraddittori tra lo zoccolo storico della redazione e il giovane dirigente d’assalto, che nulla sa e poco capisce; ma, soprattutto, richiamiamo l’idea del fotografo Sean O’Connell / Sean Penn, che, una volta raggiunto un leopardo difficilmente avvicinabile, non fotografa, estasiato dal poterlo guardare: e la differenza tra guardare e vedere è essenziale e fondamentale. (A margine, ricordiamo che, cinematograficamente parlando, lo stesso Sean Penn ha già incrociato la fotografia, curiosamente ancora con Nikon, a telemetro questa volta, nel film Milk, di Gus Van Sant, del 2008, dove interpreta il fotografo Harvey Milk che diventa il primo componente delle istituzioni statunitensi apertamente omosessuale, ucciso il 27 novembre 1978, assieme al sindaco di San Francisco George Moscone, dall’ex consigliere comunale Dan White; FOTOgraphia, giugno 2013). Riguardo il film in quanto tale, non possiamo omettere una nostra diffidenza. Lo confessiamo: a una prima visione, in Dvd, l’abbiamo presto interrotto, affaticati, se non già infastiditi, dall’aspetto etereo dei sogni a occhi aperti di Walter Mitty, che danno avvio alla storia. Poi, per onestà, ci siamo detti che se accettiamo il fantastico cinematografico in altri film, dobbiamo farcene ragione anche quando questo stesso fantastico coinvolge, magari introduce, aspetti fotografici, ai quali teniamo molto, forse troppo. Dunque... è cinema, bellezza, e noi non possiamo farci niente. Ne dobbiamo accettare il linguaggio e lessico, dobbiamo acconsentirne i termini espressivi. Al solito, a ciascuno, il proprio. Dunque, in conclusione sul film. Sua personalità fotografica compresa (e interessa noi: noi e voi, insieme), sua personalità fotografica a parte (alla portata del pubblico nel proprio insieme), si tratta di un film piacevole e godibile e spendibile. Per quanto una identificata critica lo abbia accusato di eccessivo sentimentalismo, noi possiamo accettare questo presunto carico (negativo? fino a quale punto, poi?) alla luce di una considerazione assoluta: senza ombra di alcun dubbio, si tratta di uno straordinario e sentito omaggio a Life, il cui giornalismo e -soprattutto!- fotogiornalismo ha fatto storia ed epoca. Non a caso, uno dei tormentoni del film ripete e propone in diverse versioni, persino scenografiche, la dichiarazione di intenti originaria del fondatore Henry R. Luce (la stiamo per rievocare), per quanto in forma stringata, ma efficace. Quindi, senza altrettanto dub-
bio, si tratta di una esplicita e implicita affermazione d’amore... che sappiamo riconoscere, quando la incontriamo. E, spesso, tanto ci basta.
LE TRE CHIUSURE DI LIFE Il 23 novembre 1936, lanciando il settimanale Life, il suo creatore Henry R. Luce promise: «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi; vedere cose strane, macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla e sulla luna; vedere l’opera dell’uomo: dipinti, torri, scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose da avvicinare; le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e gioire nel vedere; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano». Da allora, per ogni settimana dei trentasei anni
successivi, Life ha mantenuto la promessa di Henry R. Luce. E dal 1978, come mensile, continuò a mantenerla per altri ventidue anni, fino al 2000. La prima copertina di Life è ricordata in tutte le Storie della fotografia: una diga dalle sagome inquietanti, che evocano le forme degli edifici alieni dei quadri di Sironi. È una fotografia di Margaret Bourke-White, ai tempi fotogiornalista di Fortune, che fu inviata da Henry R. Luce a realizzare un servizio sulla costruzione della diga. Immediatamente a seguire, la fotografia di apertura dello stesso servizio raffigurò i lavoratori vestiti della festa, che danzano in un saloon nei pressi di Fort Peck, nel Montana. Da qui, i ricordi personali, che abbiamo anche richiamato in una precedente retrospettiva giornalistica (Life per noi, nel giugno 2007). Dunque, pensando alla lunga epopea del fotogiornalismo di Life, ricordiamo il bacio di un marinaio a una crocerossina, in una fotografia scattata da Alfred Eisenstaedt, pubblicata nell’agosto 1945. E altre due straordinarie icone, dove si è formata in parte la nostra conoscenza della Storia: i marine che alzano la bandiera statunitense sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima (febbraio 1945), nella celebre fotografia di Joe Rosenthal [che Clint Eastwood ha trasformato in film; FOTOgraphia, maggio 2013], e i reclusi del campo di concentramento e sterminio di Buchenwald, nella fotografia scattata nell’aprile 1945, ancora da Margaret Bourke-White.
Le poche fotografie di Robert Capa dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944, D-Day) scampate alla devastazione di un processo di sviluppo sbagliato sono state impaginate sul numero di Life (settimanale) del diciannove giugno.
1948: la messa in pagina del celebre servizio di W. Eugene Smith sul medico di campagna (Ernest Ceriani, di Kremmling, Colorado).
Pubblicata da Contrasto nel 2004, Life - I grandi fotografi è una raccolta fotografica in forma enciclopedica: in ordine alfabetico, vengono presentati i fotografi che hanno lavorato per la celeberrima testata (608 pagine 20,3x25,4cm, cartonato; 600 illustrazioni bianconero e colore; 55,00 euro). Come risaputo, sostenuti da un’edizione di grande influenza giornalistica internazionale, nei decenni, i servizi di Life hanno tracciato le linee portanti del fotoreportage, e dunque questa raccolta è uno dei titoli fondamentali del nostro tempo, perché mette in ordine un fenomeno fotografico tra i più significativi e fondanti del processo evolutivo del linguaggio fotografico contemporaneo.
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IN BREVE, LA STORIA DI LIFE
Laconico, l’annuncio del 27 marzo 2007, con il quale l’editore Time Inc decretò e motivò la terza chiusura di Life, che già aveva cessato le pubblicazioni settimanali all’inizio degli anni Settanta, per poi riprendere come mensile (dal 1978 al 2000), prima della più recente personalità abbinata a una identificata serie di quotidiani: «Benché presso il pubblico l’idea della rivista Life come supplemento settimanale di molti quotidiani sia stata un grande successo, la crisi di questi media e le prospettive nel mercato pubblicitario ci inducono a rinunciare a ulteriori investimenti nell’iniziativa». Evidentemente, non bastò che Life venisse distribuita in tredici milioni di copie, da centotré quotidiani, e occupasse il terzo posto nella classifica degli inserti di questo tipo. Come ricordato, questa chiusura fu la terza e definitiva della storia di Life. Nata nel 1936 come settimanale, interruppe una prima volta le pubblicazioni il 29 dicembre 1972. Nonostante cinque milioni e mezzo di copie vendute, il newsmagazine arrivava a perdere circa dieci milioni di dollari l’anno a causa della pubblicità, che aveva abbandonato la carta stampata per la televisione. Rilanciata nel 1978 come mensile, Life sopravvisse fino al 2000, quando viene chiusa per la seconda volta. Ecco alcune cifre riguardanti le sue performance in questi ventidue anni: 1.364.800 copie a numero vendute mediamente nel 1980; nel 1994, 1.614.700; nel 1998, 1.558.800. Risorse nel 2004 come supplemento di quotidiani, ma dopo il 20 aprile 2007, Life si trova solo sul web, non più come giornale ma come collezione di oltre dieci milioni di immagini. Tutte queste fotografie, che coprono gli eventi e i temi più importanti del Ventesimo secolo, possono essere scaricate for free a patto che non se ne faccia uso commerciale. Occorre infine ricordare che il 1936 non rappresenta per Life una vera e propria nascita, ma una metamorfosi. Infatti, Henry R. Luce, fondatore nel 1923 di Time e nel 1930 di Fortune, acquistò la testata da Clair Maxwell, che ne era stato l’editore dal 1921 al 1936. La rivista, più di humor che di informazione, fu fondata nel 1883 da John Ames Mitchell, bizzarra figura di intellettuale. Henry R. Luce la cambiò completamente, trasformando Life in un giornale dove «le immagini avrebbero avuto la stessa importanza delle parole».
All’alba degli anni Sessanta, fotografia di gruppo dei fotoreporter dello staff di Life.
29 dicembre 1972: ultimo numero di Life settimanale, in edizione doppia con le fotografie dell’anno. Fino al 1978, furono pubblicati soltanto fascicoli speciali, e poi la testata riprese con cadenza mensile, fino al 2000. La sua terza versione, in allegato a quotidiani statunitensi, è stata pubblicata dal 2004 al marzo 2007.
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Nella propria lunga e nobile storia, caratterizzata da tre chiusure, Life ha anche pubblicato una vasta serie di monografie, nelle quali ha riunito per tematiche le fotografie scattate dai propri inviati. Si segnalano anche edizioni speciali da edicola, come questa del 1990, dedicata ai Classic Moments, il cui richiamo di copertina ripropone il celebre bacio in Times Square, a New York, tra il marinaio e la crocerossina, abilmente fotografato da Alfred Eisenstaedt il 14 agosto 1945, giorno della fine della Seconda guerra mondiale (V-J Day).
Ricordiamo le scene di panico a Shanghai, in Cina, fotografate da Henri Cartier-Bresson, nella disperata corsa dei cittadini a farsi convertire in oro il proprio denaro prima dell’arrivo dei comunisti. E lo splendido ritratto di John F. Kennedy con il fratello Robert, scattato nel luglio 1960 da Hank Walker. E la fotografia di Eddie Adams del vietcong giustiziato in strada con un colpo di pistola alla tempia dal capo della polizia di Saigon, Nguyen Ngoc Loan, del febbraio 1968. E, ancora, quella di Nick Ut della bambina ustionata dal Napalm, nel giugno 1972. La bimba, che si chiama Phan Thi Kim Phúc (Kim Phúc), fu fotografata in Canada ventitré anni dopo da Joe McNally e pubblicata nel numero del maggio 1995. Lo ricordiamo. Ricordiamo ancora la straordinaria pietà dei tempi moderni, “scolpita” da W. Eugene Smith nel dicembre 1971, durante un reportage sull’avvelenamento da mercurio nei pressi di Minamata, in Giappone. Ricordiamo il Dalí atomico, una fotografia “impossibile” quando non esistevano i computer, realizzata con straordinaria abilità da Philippe Halsman. E il Picasso fotografato da Gjon Mili, nella sua casa di Vallauris, nel gennaio 1950. Ci fermiamo qui, ma riflettete. Nessuno ha bisogno di rivedere le immagini citate, perché nessuno le ha dimenticate. Queste fotografie rappresentano le pietre miliari della storia del fotogiornalismo. Life ha vissuto tre stagioni, una successiva all’altra, concludendo definitivamente la sua esistenza cartacea nel marzo 2007: prima edizione settimanale (quella che ha anche scritto la Storia), dal 1936 al 1972; seconda edizione mensile, dal 1978 al 2000; terza esperienza editoriale come supplemento settimanale di una identificata serie di quotidiani statunitensi, dal 2004 al 2007. Comunque, è attivo il sito images.google.com/hosted/life, che offre l’intero archivio fotografico storico della casa editrice: una decina di milioni di immagini, rintracciabili per autore, soggetto, anno e argomento. Come preavvertito nelle istruzioni introduttive, le immagini recuperate non possono essere usate commercialmente, ma debbono restare in ambiti sostanzialmente privati. I file sono forniti in risoluzione adatta alla stampa fotografica in formato 8x10cm a 300dpi, ovverosia 15x20cm abbondanti ai 150dpi delle comuni stampanti domestiche. Ribadiamo: per solo uso privato. Life per noi. Punto. ❖
In visione comparata e accostata, Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin esprimono diverse e proprie interpretazioni di un soggetto (apparentemente) comune, la Natura. Allestita alla Galleria d’Arte Moderna, di Genova Nervi, l’esposizione a tema approfondisce, prima di altro e oltre altro, il rapporto fotografico con la natura... per l’appunto. Le immagini presentate e accostate in mostra mettono in luce la forte dicotomia visiva tra modi e modalità personali di osservare e rappresentare la realtà
MARCO MARIA ZANIN: TRA SANTA EFIGENIA E CAMPOS ELISEOS, SAO PAULO; 2013
COSE DI
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di Antonio Bordoni
S
esto appuntamento della compendiosa rassegna Natura ConTemporanea, ideata e curata da Fortunato D’Amico e Maria Flora Giubilei per due musei di Genova Nervi -la Galleria d’Arte Moderna e le Raccolte Frugone-, l’allestimento Cose di Natura, programmato fino al prossimo ventidue giugno, alla Galleria d’Arte Moderna, è incentrato sulla lettura delle differenze espressive degli artisti in rapporto alle collezioni esposte e al suggestivo contesto naturale dei parchi storici e della
costa. Opere di Luisa Menazzi Moretti [della quale, lo scorso ottobre 2013, abbiamo presentato la selezione Words] e Marco Maria Zanin, che si esprimo con diverse interpretazioni site specific, frutto di un dialogo creato in loco con le raccolte museali e il paesaggio circostante. Come è legittimo che sia, l’esposizione a tema approfondisce, prima di altro, il rapporto fotografico con la natura e assolve, quindi, in seconda battuta, non gerarchica, ma egualitaria, il dialogo tra l’arte contemporanea e i lavori esposti nelle collezioni permanenti della Galleria d’Arte Moderna di ambito otto-novecentesco, particolarmente legati al tema del
LUISA MENAZZI MORETTI: TERRA E
CIELO;
2013
NATURA
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MARCO MARIA ZANIN: LUZ, SAO PAULO; 2013 2013 E SPECCHIO;
LUISA MENAZZI MORETTI: ALBERI
paesaggio. In questo senso, le immagini allestite e accostate in mostra mettono in luce la forte dicotomia tra modi personali di osservare e rappresentare la realtà. Da parte sua, Luisa Menazzi Moretti è attenta a luoghi e situazioni verso le quali -normalmente- si lascia scivolare lo sguardo, senza ulteriori intenzioni. Qui in veste di artista, l’autrice si esprime attraverso l’osservazione del dettaglio, e le sue inquadrature mettono in risalto la ricerca dell’armonia della forma, di equilibri geometrici e di colori densi di espressività, come si desume nell’insieme delle opere esposte in mostra: Alberi e specchio, Sfere, Serre e Terra e cielo. Elementi simbolici, quasi immateriali, conducono in un mondo metaforico ricco di rimandi al mondo reale. In combinazione e integrazione -vediamola anche così-, Marco Maria Zanin privilegia la panoramica d’insieme, descrive la realtà dei luoghi attraverso un racconto lirico e contemplativo, entro il quale architettura e paesaggio assumono connotati del simbolo: segni attraverso i quali riconoscere l’anima dell’Uomo che li abita e vive. Toni riflessivi e melanconici sono ri-
portati nelle campagne immerse nelle nebbie, che l’autore -a propria volta in veste di artista- ha ampiamente documentato nella serie di fotografie intitolata Cattedrali rurali o in città apparentemente vuote, nelle quali strutture architettoniche dominano incontrastate l’inquadratura e la composizione. Significative, a questo proposito, sono le opere Luz e Rua General Carneiro, realizzate a San Paolo del Brasile. A conti fatti, la fotografia di Natura ha anche un compito essenziale, che oggi Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin svolgono con linguaggi propri e autonomi, ma allineati all’idea comune. Torna alla mente l’esclamazione del cosmonauta sovietico Jurij Gagarin (o Yuri Gagarin, secondo altre grafie), il primo uomo lanciato nello spazio, che portò a termine la sua missione, con la navicella Vostok 1, il 12 aprile 1961; una sola orbita attorno alla Terra: «Vedo la Terra! È così bella», avrebbe esclamato, avrà certamente esclamato. Incamminandoci verso queste fotografie di natura, l’ipotizzato richiamo è d’obbligo, forse. Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin non volano nello spazio, e neppure si allontanano da
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MARCO MARIA ZANIN: STROPPARE, PADOVA; 2012
MARCO MARIA ZANIN: VILLA DONDI
DELL’OROLOGIO
SGARAVATTI, ABANO TERME, PADOVA; 2012
LUISA MENAZZI MORETTI: RAMI; 2011
terra, ma sorvolano gli spazi, i luoghi e la Natura da distanze (ideali?) che permettono di coglierne dettagli e sfumature. Così che, il loro occhio fotografico si proietta alla parte... per il tutto. Fotografano il reale, ma non lo rappresentano. Raffigurativa per propria natura, che richiede la presenza fisica di un soggetto, intaccato o costruito che sia, la fotografia è rappresentativa per scelta e linguaggio. Soprattutto nelle intenzioni dell’autore, che si offrono e propongono all’osservazione, non necessariamente ciò che la fotografia mostra corrisponde a ciò che ha visto. Da cui: le visioni di Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin, che si inseriscono in una corrente espressiva e culturale di antiche radici. Questa è fotografia dell’illusionismo, che affida all’elemento realistico compiti diversi dalla sola raffigurazione oggettiva. Diversi, perché più profondi e, siamo sinceri, migliori: è un illusionismo (pittorico?) che dischiude una finestra sull’eternità, che scruta e offre al di là di ciò che vede l’occhio fisiologico, per edificare un’esistenza fondata sulla spiritualità e lo sguardo interiore. Pur nell’apparente uguaglianza
della superficie delle proprie raffigurazioni (con analoghe visioni realistiche), la fotografia di Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin è tanto diversa da altre immagini analogamente “prese dal vivo”, “dal vero”. Non sprofonda nell’esteriorità, nell’emotività e nel soggettivismo, ma si impone altrimenti, e lascia libero l’osservatore di volare per propri richiami, guidato da proprie esperienze, proiettato verso strade autonome (ma anche coincidenti con quelle dell’autore, forse). Sulla psiche individuale, le immagini -anche quelle fotografiche- hanno una forza che può essere paragonata a quella di certi elementi della natura. Le immagini plasmano la psiche più di ogni altra cosa. E ora, abbiamo a disposizione altre due serie fotografiche convergenti e divergenti, allo stesso momento, con le quali fare i nostri conti. Ciascuno faccia i suoi. ❖ Cose di Natura. Fotografie Luisa Menazzi Moretti e Marco Maria Zanin, a cura di Fortunato D’Amico e Maria Flora Giubilei. Musei di Nervi - Galleria d’Arte Moderna di Genova, Villa Saluzzo Serra, via Capolungo 3, 16167 Genova; fino al 22 giugno, martedì-domenica 10,00-18,00.
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LUCI E OMBRE di Maurizio Rebuzzini
1941 FIRST NATIONAL PICTURES INC - WARNER BROS / TASCHEN
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gnuno di noi può valutare le monografie sul cinema secondo propri intendimenti: senza alcuna soluzione di continuità, dall’informazione di superficie e statistica all’approfondimento di temi e problematiche, si possono percorrere mille e mille e mille strade personali e individuali. Oltre a queste tante migliaia, l’attuale raccolta Film Noir. 100 All-Time Favorites (con testo in italiano!), pubblicata dall’attento e meritevole Taschen Verlag, di Colonia, ne offre una in più a coloro i quali si occupano di fotografia (noi, tra questi): retroguardando indietro nei decenni, la monografia offre e propone un impagabile catalogo di fotografie di scena, che rivelano la magica consistenza e il fantastico spessore della luce evocativa. Infatti, nel momento nel quale una selezionata serie di titoli specifici -che per convenzione accettata rientrano nel denso contenitore del film noir, esplicitato nel titolo, genere cinematografico parente stretto del film poliziesco (giallo, per quanto riguarda l’Italia)- distende il tema dell’inchiesta e sottolinea l’ambientazione tipicamente cittadina delle sceneggiature e scenografie, (eccoci!) caratterizzate da forti contrasti di luce tra bianco e nero, che rappresentano simbolicamente il conflitto tra bene e male, di fatto lo stesso casellario offre e propone persino un avvincente e convincente insieme di fantastici e concreti esempi visivi. Da approfondire, studiare, comprendere, assimilare e, a conti fatti, declinare nella propria fotografia quotidiana, soprattutto in quella in sala di posa, con la figura, intesa nel senso di ritratto, piuttosto che di moda, o altro tanto ancora. Soprattutto oggi, in un tempo nel quale un diffuso appiattimento (frutto di mal interpretate lezioni tecnologiche contemporanee) ha sconvolto radicalmente la concezione di chi fotografa, è opportuno ripercorrere e riprendere lezioni espressive che hanno scandito tempi e modi di stagioni fantastiche. Quindi, non una luce in fotografia genericamente tale, che tutto illumi-
Una bella lezione dal cinema. Una bella e confortevole lezione che si può mettere in pratica, subito e proficuamente. Oltre i livelli di consultazione e lettura propri e caratteristici, la monografia Film Noir. 100 All-Time Favorites, a cura di Paul Duncan e Jürgen Müller, ha anche un consistente merito adeguatamente “fotografico”: quello di visualizzare l’illuminazione di un cinema capace di sottolineare le caratteristiche dei personaggi (e interpreti). Non più luce avvolgente, ma tagli di luce con relative ombre. A circolo, una lezione dal cinema alla fotografia. Se si vuole che anche così sia 59
(pagina precedente) Nel film Il mistero del falco, del 1941, di John Huston (in originale The Maltese Falcon), Sam Spade (Humphrey Bogart) è coinvolto nella caccia a una misteriosa statuetta.
ACCENDI QUELLA LUCE! In definitiva, la fotografia in sala di posa, quella che compone il proprio soggetto avendo cura di coordinare la composizione (e inquadratura) con intenzioni incisive, ha subìto la consecuzione di tempi e modi relativi all’evoluzione stessa della comunicazione visiva. Purtroppo, però, spesso si è confusa l’apparenza della realizzazione con l’intensità dei proponimenti e delle finalità creative. Per conseguenza, una certa fotografia di figura, morbida, tutta illuminata, tutta evidente (con luce bank diffusa) ha finito per estendersi oltre i propri confini identificati, per diventare una condizione assoluta, per quanto non più necessaria. Da un certo momento in poi, diciamo dalla fine degli anni Settanta, sono pressoché sparite le luci dirette, i tagli di ombra, le evocazioni di contenuto, sostituite dall’illuminazione avvolgente, per tanti versi ereditata dalla fotografia di still life (per catalogo, soprattutto). Utile, oltre che necessaria, per talune comunicazioni, presto identificate (e pensiamo soprattutto alle campagne Benetton, ideate e realizzate da Oliviero
1950 20TH CENTURY FOX / TASCHEN
Nel film I trafficanti della notte, del 1950, di Jules Dassin (in originale Night and the City), Harry Fabian (Richard Widmark), americano a Londra, equivoco avventuriero, va in contrasto con la malavita locale.
na e tutto uniforma, ma una luce capace di stabilire gerarchie visuali, ipotesi suggerite, soluzioni proposte. Al solito... hai detto poco!
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1944 20TH CENTURY FOX / TASCHEN 1956 MANDEVILLE PRODUCTIONS - UNITED ARTISTS / TASCHEN
1953 CICC - PATHÉ CONSORTIUM CINÉMA / TASCHEN
1944 RKO / TASCHEN
In Vertigine, del 1944, di Otto Preminger (in originale Laura), la protagonista Laura (Gene Tierney), tornata in vita, è interrogata dal detective Mark McPherson (Dana Andrews).
Nel film L’ombra del passato, del 1944, di Edward Dmytryk (in originale Murder, My Sweet), la femme fatale Helen Grayle (Claire Trevor) lavora con l’investigatore Philip Marlowe (Dick Powell).
Nel film FBI divisione criminale, del 1953, di Bernard Borderie (in originale La Môme vert de gris), Lemmy Caution (Eddie Constantine) e Carlotta de La Rue (Dominique Wilms) si scontrano con una banda avversaria. Nel film Spionaggio internazionale, del 1956, di Sheldon Reynolds (in originale Foreign Intrigue), Dave Bishop (Robert Mitchum) è accusato di omicidio.
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Il leggendario direttore della fotografia John Alton ha realizzato l’immagine finale iconica di La polizia bussa alla porta, del 1955, di Joseph H. Lewis (in originale The Big Combo), con i protagonisti Susan (Jean Wallace) e il detective Leonard Diamond (Cornel Wilde) in piedi, in un hangar, nella nebbia.
2000 NEWMARKET - SUMMIT ENTERTAINMENT / TASCHEN
Avvincente film contemporaneo, caratterizzato da un montaggio a ritroso, Memento, del 2000, di Christopher Nolan, è uno dei cult cinematografici del nostro tempo [ FOTOgraphia, ottobre 2011]: privo di memoria breve, il protagonista Leonard (Guy Pearce) affida la sua vita a una serrata successione di polaroid.
Toscani), comunque declinate su altri piani e livelli, oltre quello ufficiale (e apparente) del soggetto-immagine, il bianco-luce, o il fondo neutro, meglio se chiaro, ha finito per estendersi a macchia d’olio, annullando il senso e la costruzione della fotografia di figura che comunica per se stessa, e con se stessa. Probabilmente, o forse obbligatoriamente, bisogna tornare a studiare la luce, ad avere il coraggio, la forza e la capacità di accendere illuminatori non ammorbiditi, in relazione ai quali si deve gestire e guidare l’espressività forte e clamorosa dell’alternanza tra luce e ombra, tra visto e intuito, tra evidenza e trama. Ovviamente, le lezioni del passato (anche remoto) non devono essere applicate in sola copiatura, ma riattualizzate sulle consuetudini visive che sono maturate e si sono educate nel corso dei decenni, nell’inevitabile trascorrere del tempo. In questo senso, se servisse una valutazione in più, basta confrontare tra loro, e ragionare di conseguenza, le serie televisive dei nostri giorni, comodamente alla portata di ciascuno di noi. Mentre le fiction italiane, ma anche tedesche, ma anche inglesi, non danno senso alla luce, mostrando sempre i luoghi e le situazioni in illuminazione complessiva (oltre che piatta), ogni serie statunitense ha un
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proprio personale stilema luminoso, finalizzato alla sottolineatura di scenografia e svolgimento (ambientazioni e situazioni), che accompagna il coinvolgimento emotivo con la sceneggiatura. Allora, e in definitiva: si abbia l’audacia di tornare a una fotografia in sala di posa ricca di connotati, tutti declinati con illuminazioni sapienti e incisive. Questo, anche questo, è ciò che si può studiare sulle e con le illustrazioni che accompagnano il racconto (altrimenti concepito e altrimenti confezionato) della affascinante monografia Film Noir. 100 All-Time Favorites, riccamente corredata di immagini, spesso proposte in riproduzioni tipografiche di dimensioni consistenti.
1946 MGM / TASCHEN
1955 ALLIED ARTISTS / TASCHEN
COMUNQUE, LA MONOGRAFIA Definita una sostanziosa validità e opportunità fotografica, spendibile subito nel proprio impegno fotografico quotidiano, rimane l’essenza originaria della convincente monografia pubblicata da Taschen Verlag. A cura di Paul Duncan (che ne ha curate a decine per lo stesso editore, sempre riguardo al cinema) e Jürgen Müller (critico d’arte altrettanto presente nel catalogo di Taschen), Film Noir. 100 AllTime Favorites prospetta una incantevole immersione in un mondo popolato da occhi che spiano, gangster, psicopatici e femme fatales, nel quale l’inganno, il tradimento e l’avidità dominano incontrastati: è cinema, bellezza, e tu non puoi farci niente! Se anche questo è un valore del quale tenere conto, se anche la primogenitura significa qualcosa (come peraltro significa proprio), si tratta della prima raccolta che -film dopo film, sceneggiatura dopo sceneggiatura, interpretazioni dopo interpretazioni- ricostruisce la storia del cinema noir e neo noir. Il tragitto è lungo, oltre che ben cadenzato. A partire dai film muti francesi e tedeschi di inizio Novecento (soprattutto, dall’intramontabile Il gabinetto del dottor Caligari, di Robert Wiene, del 1920), che hanno influenzato il genere ai propri albori, passando attraverso grandi classici (tra i quali si segnalano Il postino suona sempre due volte, del 1946, con remake del 1981, Vertigo / La donna che visse due volte, del 1958, e La fiamma del peccato, del 1944), si approda alle pietre miliari del cinema internazionale più recente: Chinatown (1974), Pulp Fiction (1994), Heat (1995), Memento (2000 [FOTOgraphia, ottobre 2011]) e all’attuale cult movie Driver, del 2011. Per ogni titolo selezionato e presentato, sono proposte locandine, fotogrammi, dettagli sul cast, citazioni, pareri critici e un’analisi del film. L’introduzione a questo casellario per i fedeli del cinema noir è firmata da registi, critici e dallo sceneggiatore di Taxi Driver, Paul Schrader. Un’opera che rende omaggio non solo ai registi più importanti del genere -come Alfred Hitchcock, Billy Wilder, Orson Welles, Roman Polanski, Michael Mann e Martin Scorsese-, ma anche ai grandi attori protagonisti, tra i quali Robert Mitchum, Humphrey Bogart, Rita Hayworth, Ingrid Bergman, Cary Grant, Lauren Bacall, Joan Crawford, Jack Nicholson e Al Pacino. Per chiudere: utilità fotografica e soddisfazione individuale, senza alcuna soluzione di continuità. ❖
Film Noir. 100 All-Time Favorites, a cura di Paul Duncan e Jürgen Müller; Taschen Verlag, 2014 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); in italiano; 688 pagine 21,5x27,4cm, cartonato con sovraccoperta; 39,99 euro.
Nel film Il postino suona sempre due volte, del 1946, di Tay Garnett (in originale The Postman Always Rings Twice), Nick Smith (Cecil Kellaway) canta allegramente come Frank (John Garfield), per rimuovere il principale ostacolo al suo amore ossessivo per Cora (Lana Turner). [Nel 1981, remake di Bob Rafelson, con Jack Nicholson e Jessica Lange; dallo stesso romanzo omonimo originario, di James M. Cain, sceneggiatura del film Ossessione, di Luchino Visconti, del 1943].
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte aprile 2014)
PHILIP JONES GRIFFITHS
L
La fotografia contemporanea esprime bene la modernità liquida descritta dal sociologo/filosofo Zygmunt Bauman (Modernità liquida; Laterza, 2003), e cioè il passaggio dalla società stanziale, basata sulla produzione, la famiglia, il consumo, a una società mutevole, mobile, fluidificante, che contiene una politica dell’assimilazione e della diaspora. Nella modernità liquida, il potere seduttivo del carnevale consumerista è quello di soffocare il senso antico di comunanza; e la liquefazione della società evaporizzata nei mercati globali, nelle guerre umanitarie, nei dividendi delle banche internazionali connesse alla politica criminale dei governi forti... garantisce la ricchezza di un numero ristretto di saprofiti e impoverisce un numero sempre più vasto delle popolazioni ai quattro venti della Terra. Va detto. Ogni promessa elettorale è la storia di un tracollo. Se i proclami dei politici sono così accattivanti e condivisi da larghe fasce di elettori... è perché i politici, non meno dei vigliacchi, si sforzano a introdurre nel corpo sociale regole e dogmi che ammutoliscono anche l’ultimo degli stupidi, che ancora crede che con la scheda elettorale si possa cambiare la cosa pubblica. Bisognerebbe essere fuori del mondo, come un cretino o un angelo, per credere che nelle chiacchiere di un capo di Stato, un ministro, un finanziere, un sindacalista o un artista da salotto... possa esistere una qualche verità sostenuta a favore degli Ultimi, degli Esclusi e degli Oppressi... solo l’arte del ribaltamento di prospettiva della società consumerista/autoritaria può inventarsi il diritto di vivere tra Liberi e Uguali.
SULLA FOTOGRAFIA LIQUIDA La fotografia liquida è sparsa ovunque. L’industria specializzata ha portato le immagini a una tale di-
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mensione che tutti sono fotografi e tutti credono che ciò che fotografano sia la realtà. Vero niente. La realtà, come la verità, risiede nella bellezza e nel dolore dei secoli che cadono in un’immagine... il resto è merda. Non ho incontrato un solo fotografo di grido che non abbia una mente disturbata e servente al mercimonio. Si deve concluderne che esiste un legame fra il desiderio di idolatria e la disgregazione del cervello. «Il disprezzo è la prima vittoria sul mondo; il distacco l’ultima, la suprema. L’intervallo che li separa coincide con il cammino che porta dalla libertà alla li-
lo scarto per raggiungere finalmente il vero. Appena la fotografia fa un balzo fuori della vita demistificata, la menzogna si vendica e riconduce il fotografo nella culla della soggezione: ma non tutti i fotografi si adeguano a codici, regole, convincimenti dell’ordine costituito, e alcuni di loro -come Philip Jones Griffithsrisuscitano il piacere della disobbedienza e la traducono magistralmente in atti eversivi. La fotografia del disgusto disvela lo scoraggiamento dell’esistente e lo affranca alla conoscenza tragica della vita quotidiana. Conoscere la fotografia
bro effettivo nel 1971). La pubblicazione del suo libro, Vietnam Inc. (1971, rieditato nel 2001, da Phaidon Press, con prefazione di Noam Chomsky), sommuove le acque inquiete della coscienza americana, mostra le sofferenze del popolo vietnamita e la stupidità di tutte le guerre. È un fotoreportage eccezionale, che ha contribuito a modificare l’opinione pubblica degli Stati Uniti nei confronti della guerra. Time Magazine lo ha definito «Il miglior reportage di guerra mai pubblicato». C’è da aggiungere che non sempre Time, come molto gior-
«La pressione che un moderno Stato totalitario può esercitare sull’individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: la propaganda diretta, o camuffata da educazione, da istruzione, da cultura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni; il terrore. Il vincitore è padrone della verità... resta la memoria dei superstiti» Primo Levi berazione» (Emil M. Cioran: Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti; Adelphi, 1988). È più facile intendersi con un illetterato che con tutta la masnada di sapienti che di smarrimento in smarrimento si trovano a pontificare sulle divinità ipocrite della società dello spettacolo, che, come sappiamo (con Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979), è il monologo elogiativo che il potere tiene su se stesso. Philip Jones Griffiths è un fotografo dell’anomalia: sa che la fotografia autentica esiste fintantoché vivono i poeti in anarchia che fanno del disinganno
significa ricredersi su qualcosa; conoscere l’origine del male vuol dire ricredersi su tutto e fare della fotografia uno strumento di rivolta, che è la più arcaica e vitale delle reazioni dell’Uomo. Annotazione a margine. Philip Jones Griffiths nasce nel Galles, a Rhuddlan (Denbighshire), il 18 febbraio 1936. Studia farmacia a Liverpool e inizia a fare il fotoreporter nel Manchester Guardian. Nel 1961, passa all’Observer, e l’anno dopo è in Algeria, per documentare la guerra di liberazione. Dal 1966 al 1971, fotografa la guerra del Vietnam (nel 1966, era entrato in Magnum Photos, e diventa mem-
nalismo statunitense, fu tenero sul conflitto del Vietnam, indipendentemente da un sostanzioso patriottismo di base. La deriva fotografica di Philip Jones Griffiths attraversa molti paesi: è in prima linea nella guerra in Cambogia, fotografa la siccità in India, la povertà in Texas, la guerra del Golfo in Kuwait; non trascura di lavorare in Inghilterra: i reportage sui minatori del Galles, il disarmo nucleare a Londra, i funerali politici in Irlanda del Nord, i Beatles... figurano cambiamenti e turbolenze della società britannica. Lo sguardo è quello del partigiano (scegliere la parte con la quale stare), e ma-
Sguardi su ledice il terrore e le abluzioni bottegaie delle multinazionali a danno dei popoli impoveriti, sostenute dai governi occidentali e regimi “comunisti”, che sono l’ultimo asilo della violenza. Nel 2003, Philip Jones Griffiths pubblica Agente Orange - Danni collaterali in Vietnam, e nel 2005, Vietnam in tempo di pace. Agente Orange è un vero e proprio atto di accusa contro le gerarchie militari statunitensi per l’uso di defolianti (erbicidi) utilizzati in Vietnam: documenta gli effetti devastanti sull’ambiente e la popolazione nel dopoguerra. Ricordiamolo, allontanandoci dai richiami biografici di Philip Jones Griffiths: Agente Orange era il nome in codice dato dall’esercito statunitense al defoliante (arma chimica!) che fu sparso su tutto il Vietnam, tra il 1961 e il 1971... voluto dalle amministrazioni Kennedy, Johnson e Nixon, concordato con i segretari della difesa Robert McNamara, Clark Mac Adams Clifford e Melvin Robert Land. Le contaminazioni dell’Agente Orange (ancora oggi persistenti sulle cortecce degli alberi) sono state responsabili di malattie terminali e difetti della nascita, e hanno colpito sia la popolazione vietnamita sia soldati americani. Tra i maggiori fornitori dell’Agente Orange, si incontrano Diamond Shamrock, Dow Chemical Company, Hercules, T-H Agricultural & Nutrition, Thompson Chemicals, Uniroyal e Monsanto. Un rapporto governativo del 2003 (finanziato dalla National Academy of Science) è giunto alla conclusione che, durante la guerra del Vietnam, duemilacentottantuno villaggi (2181) furono investiti da erbicidi, e tra i due e quattro milioni di persone sarebbero stati vittime dell’irrorazione. Nel 2004, vietnamiti e ex soldati statunitensi hanno intentato cause di risarcimento danni contro le multinazionali produttrici dell’erbicida, ma le loro richieste sono state respinte. Soltanto nel 2011, con un decreto, il Congresso degli Stati Uniti ha introdotto una legge a favore dei veterani di guerra e dei loro discen-
denti colpiti dalla cloracne e da altre malattie legate all’avvelenamento da Agente Orange. Una sentenza della Corte Suprema di Seul (Corea del Sud), del 2013, ha obbligato la Monsanto a rimborsare le spese per cure mediche a trentanove soldati sudcoreani che hanno avuto contatto diretto con l’Agente Orange. Philip Jones Griffiths muore di tumore, a Londra, il 19 marzo 2008. Con lui, scompare un umanista della fotografia sociale, ma restano le sue opere a testimoniare che l’essenza della fotografia è l’immagine, l’essenza dell’immagine è l’inno alla Bellezza e alla Giustizia.
SULLA FOTOGRAFIA IN ANARCHIA La fotografia dell’autentico è un’intimazione rivolta contro le caste dell’ingiustizia che governano il mondo. La fotografia, quando è grande, figura il dolore di un’epoca e anche il suo riscatto. Fotografare significa figurare i propri rancori, disfarsi dei propri rimorsi, vomitare i propri segreti... far parte di un’opera di demolizione che rovescia crimini e miti, e afferma il disonore delle guerre e delle canaglie che le producono ed eseguono. Fotografare vuol dire dissentire dalla ferocia dei governi e stare dalla parte della perduta gente. Fotografare è schierarsi col dolore delle vittime, mai con le medaglie dell’eroe, del profeta e del santo, perché lì regna la menzogna. La fotografia non ha generi... è brutta o bella, buona o falsa, giusta o ingiusta... è il risultato di una pienezza d’amore o una sommatoria di schifezze contrabbandate come arte. La fotografia muore per mancanza d’amore verso il bello, il giusto, il buono e -solitamente- è una ruminazione di formule, preghiere e confessioni senza un filo di decenza, né etica né estetica. Ogni apologia della fotografia del mercimonio dovrebbe essere un assassinio per discrezione. Per un fotografo di successo immeritato, la sventura più esecrabile è quella di essere capito. La fotografia in anarchia, di
Philip Jones Griffiths, non teme di essere compresa... interroga il fanatismo delle guerre, la povertà delle popolazioni colpite dai piani economici sovranazionali, il delirio di una società montante che mostra l’impoverimento dell’esistenza di un intero pianeta. Le sue immagini, ovunque siano state realizzate, figurano la crisi dell’autorità, la crisi della solidarietà, la crisi dell’accoglienza, e si affrancano ai rapporti trasversali tra le persone, di ogni ceto, ogni nazionalità, ogni credo... sono il fiore e il frutto di una seminagione libertaria che dichiara la propria fragilità e -al contempo- la forza e il desiderio di sostituire la cultura dei bisogni indotti (dei mercati globali) con la riconfigurazione della comunità. Come Michel de Montaigne, che non sapeva se era lui a giocare con la sua gatta o era la gatta a giocare con lui, Philip Jones Griffiths gioca con la fotografia sociale, ed è uno tra i testimoni più acuti che ha fermato nella fotografia la spiritualità devastata, crollo di valori e bisogno di speranza della società contemporanea. Le immagini della guerra del Vietnam sono ammantate di amorevolezza, commozione, fraternità verso vittime e carnefici... ne ricordiamo solo una. Tre soldati americani sono (in semicerchio) attorno a un vietnamita morente... sembra un cristo dei poveri... i soldati assistono alla sua sorte: uno è appoggiato al fucile, uno gli porge un po’ d’acqua, l’altro lo sostiene con una mano... il vietnamita è poco più di un ragazzo... ha la bocca aperta, gli occhi fissi al cielo... la guerra è bandita, l’amore, la compassione dell’Uomo per l’Uomo non ha frontiere, né divise, supera tutte le atrocità commesse dalla ferocia dei dominatori, incapaci di comprendere che «Democrazia significa organizzare la società per il bene di tutti e a spese di tutti, e non soltanto a beneficio di una classe privilegiata» (George Bernard Shaw di-
ceva nel Manuale del rivoluzionario, nel 1905: Piano B Edizioni, 2014). Libertà significa responsabilità di sé e per l’altro, ecco perché la maggior parte dei politici la teme e la uccide. Da qualche parte, Philip Jones Griffiths ricorda: «In guerra, la verità emerge. Tesa tra la vita e la morte, la gente si rivela, getta la maschera e si mostra con un’onestà che non c’è altrove nella vita. Tutto ciò che vale, si fa con passione. A sedici anni, lessi su un giornale un’intervista a Robert Capa, che raccontava di Magnum Photos: ricordo che mi entusiasmai, perché diceva che l’agenzia si occupava anche della sua biancheria. La Magnum era un gruppo umanistico, con un’etica che affascinava un giovane comunista come me. Io ero giovane, m’interessavano i meccanismi del potere, e capii che o lavoravo come Henri Huet [19271971], dell’Associated Press, con la speranza -giorno per giorno- che la tua fotografia finisse in prima pagina, o dovevo raccogliere pezzi, lentamente. Così, raccontai la mia storia: l’attacco della potenza più tecnologica del mondo contro la popolazione più semplice del mondo. Quando il libro uscì [Vietnam Inc.], non mi fu più permesso di tornare in Vietnam, fino al 1976. A ogni singolo scatto, sapevo di fotografare per i posteri. Era molto difficile, io ero povero, perché nessuno voleva comprare le mie fotografie. C’erano giorni in cui dovevo scegliere tra mangiare un piatto di riso e comprare un rullino. L’acqua con cui sviluppavo le pellicole era più pura di quella che bevevo. Non pensavo che ai negativi. Il difficile era capire come persuadere gli altri. Si può farlo in due modi: o scioccandoli, ma rischi di disgustarli, o accendono la loro umanità». Dal momento in cui nasce la Resistenza contro la violazione dei diritti umani, l’ingiustizia non esiste più. I bambini colpiti dai veleni dell’Agente Orange, fotografati da
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Sguardi su Philip Jones Griffiths, raggiungono un’intensità emotiva mai vista prima: sono un’accusa all’inclemenza dei barbari delle guerre e denuncia il crimine contro l’umanità. Non si capisce niente della politica se si crede che i potenti rifuggano dalla malvagità per la quale sono stati eletti a rappresentare il popolo (sostenendo il contrario), o se si dimentica che i disastri della storia testimoniano le loro gesta e i deliri di onnipotenza spinti fino alla frenesia del genocidio. La visione radicale di Philip Jones Griffiths fuoriesce in tutto il suo percorso creativo, anche quando fotografa nelle strade d’Inghilterra. Va a “toccare” le gioie e i dolori dell’innocenza: i frammenti di vita quotidiana che fissa nella macchina fotografica fanno parte dell’umano che è al fondo di ogni immagine scattata nel mondo... contengono esperienze, aspettative, sogni... invece di fissarsi sulla società consumistica, vanno nella direzione opposta... le fotografie diventano connessioni, legami tra persone, l’essere insieme, ponti verso quella società aperta e migliore che alberga nei cuori degli uomini in Utopia. I giochi dei bambini nelle strade, le braccia incrociate degli operai in sciopero, la ventata di cambiamento delle giovani generazioni che si affacciano alle turbolenze del Sessantotto... debordano dalla sua scrittura fotografica e si richiamano all’alterità, alla solidarietà, al coinvolgimento degli Ultimi, degli Esclusi, degli Indifesi... cercano di contrastare, eliminare la dura realtà della vita e respingere l’infelicità dappertutto. Quella di Philip Jones Griffiths è una fotografia dell’identità che lavora sulla perfezione incompiuta della bellezza, e sembra dire che non dobbiamo ignorare nulla della secolarizzazione delle lacrime: è più importante mostrare quello che è giusto sapere, violare il sacro che rende le verità impenetrabili, e incuranti dell’opinione e del consenso di politici, religiosi, storici e
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delle folle... preferire verità impopolari a banalità artistiche intrise di invidia e cinismo. A leggere le fotoscritture di Philip Jones Griffiths sull’Irlanda del Nord si entra a pieno titolo in una guerra civile, dove vinti e vincitori sono accostati con delicatezza e rigore affabulativo. L’atmosfera che albeggia nelle sue fotografie è una fusione di corpi, gesti, atteggiamenti; restituisce alla storia la ritrattistica corale di una coesistenza difficile; è una cronaca in bilico tra la disperazione degli insorti e l’opportunismo degli invasori. Non è con i fucili che si esporta la democrazia, e il martirio esacerbato delle religioni è comunque un esercizio della pietà condizionata dalle gerarchie ecclesiali. La fotografia in anarchia, di Philip Jones Griffiths, degrada la società sacerdotale e consumerista nella mediocrità delle sue intenzioni. Il visionario che è in lui trionfa sugli scrupoli del teologo, la rapacità del finanziere, i crimini del militare e va alla radice effimera dell’edificio politico... getta il paradiso nella polvere e deride il dileguamento degli uomini di potere dalla realtà... il suo insegnamento etico/estetico ci è dedicato, e ciò che ha lasciato nel vento delle anime insorte è quell’idea di bellezza che fa di un Uomo il protagonista di un sogno di libertà e di giustizia per tutti gli Uomini. Chi fa la fotografia corrente non la capisce, e chi vi partecipa in un modo o nell’altro ne è vittima o complice. Come non sapere che senza l’inviolabilità del mistero ogni ordine crolla? Sul versante del dissidio, non solo fotografico, mentre alcuni fanno la rivoluzione, altri fanno pena! Ogni fotografia implica un’ascesa verso il falso e la rivolta a fianco del giusto... giacché la fotografia dominante non promuove né educa a valori che redimono gli orrori dell’uniformità Siamo assaliti dal rimorso di non praticare fino in fondo il diritto d’eresia, che salva la raffinatezza e condanna a morte la stupidità. ❖
Chi? Fujifilm X: sistema fotografico in pertinente equilibrio tra prestazioni tecniche di profilo alto e design ereditato dalla lunga e nobile storia evolutiva della tecnologia fotografica. New Old Camera: indirizzo privilegiato del commercio fotografico, sia in interpretazione storica-collezionistica-antiquaria, sia in personalità attuale (per quanto concentrata soprattutto su apparecchi fotografici di alta qualità). FOTOgraphia: proposta giornalistica con visioni trasversali della propria materia.
Cosa? NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fujifilm X-T1, con Mir-20, grandangolare estremo 20mm f/3,5 di produzione sovietica (dal 1972), tramite anello adattatore K e ulteriore raccordo alla vite 42x1, slitta flash doppia Voigtländer e flash Ferrania Microlampo alimentato a batteria (dal 1957), per bulbi FB 1b.
Come? Ancora NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fotografia di Angelo Galantini scattata con Fujifilm X-E1, montata sul corpo posteriore di una Sinar Norma 4x5 pollici (del 1955) tramite anello stringiobiettivo RBM, già BRM (Romualdo Brandazzi, di Milano; degli anni Trenta... Cinquanta), e anello adattatore Quenox Nikon, su colonna Fatif (anni Sessanta). Obiettivo Rodenstock Imagon 300mm H=5,8 (anni Quaranta), con selettore H 9,5-11,5 aperto.
Perché? Perché no?
La forma per il contenuto Combinazioni fantasiose di macchine fotografiche Fujifilm X, tra oggi (domani) e ieri, in doppia interpretazione NewOld, ideate e realizzate da
www.newoldcamera.com