Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXI - NUMERO 203 - LUGLIO 2014
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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
O T N E M A N O B B A N I O L SO
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ANNO XXI - NUMERO 203 - LUGLIO 2014
ANNO XXI - NUMERO 202 - GIUGNO 2014
Tipa Awards 2014 QUARANTA ECCELLENZE Swpa 2014 COMUNQUE, FOTOGRAFIA
Abbonamento 2014
(nuovo o rinnovo) in omaggio Betty Page
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LEICA RITORNO A WETZLAR ANNO XXI - NUMERO 201 - MAGGIO 2014
I sogni di Walter Mitty ATTO D’AMORE PER LIFE Nikon Df e Fujifilm X-T1 OLTRE SE STESSE
(trentadue visioni più una)
di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)
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prima di cominciare IN ALTO, I CALICI. Il suo progetto più recente è stato quello di una consistente serie di fiori di latta. Nelle sue avventure tra arte e artigianato, Gherardo Frassa ha proposto numerose coniugazioni d’arte nella vita quotidiana: oggetti ed evocazioni che accompagnano la vita di tutti i giorni, con la bellezza di raffinati richiami a esperienze visive in combinazione di materiali e forme. Senza alcuna soluzione di continuità, ha progettato e lavorato ferro, legno, stoffa, carta. Curiosamente, per quegli intrecci dell’esistenza che non si possono spiegare, e forse neppure decifrare, i nostri destini si sono incrociati in diverse occasioni, per collaborazioni nelle quali ho aggiunto quel poco/tanto di fotografia che mi porto addosso. Così, mi sono trovato coinvolto in alcune delle sue esplorazioni, sia con ruolo infrastrutturale, di sola e appassionata registrazione e documentazione, sia con intenti collaborativi in fase progettuale e realizzativa. Ora, che il ricordo è obbligato a soffermarsi su momenti e istanti comuni, richiamo alla mente almeno due momenti fondanti della nostra discontinua frequentazione. Il primo riporta a tempi e modi che ormai appartengono al passato remoto della nostra società, quando l’appuntamento milanese autunnale con il Festival dell’Unità (allora organo del Partito comunista) era una delle tappe significative della cultura nazionale: oltre l’apparenza ludica e ricreativa (a partire dai ristoranti regionali e/o etnici), incontri, dibattiti, mostre, convegni e concerti di alto profilo. In quella occasione, Gherardo Frassa progettò un fantastico spazio Pirelli, allestito con affascinanti figurazioni in legno derivate dalla pittura di Depero. Ricordo bene sia l’emozione degli spazi, sia la mia concentrazione per la necessaria documentazione fotografica. Quindi, anni dopo, ci fu l’apoteosi dell’affascinante progetto Mai dire Mao, che sarebbe stato esposto alla Fiera di Parma: sistematica documentazione di tutti gli oggetti previsti in allestimento, con relativo catalogo ampiamente illustrato [richiamo, in FOTOgraphia, del settembre 2010]. Tra queste due esperienze comuni, altre ce ne sono state, ognuna con proprie caratteristiche e partecipazioni, fotografiche e non fotografiche. E tutte hanno espresso un filo conduttore comune, che poi è stato lo stesso filo conduttore della vita di Gherardo Frassa: ironia, anticonformismo, amore per l’inconsueto, attenzione per l’intelligenza, rispetto della storia. Gherardo Frassa è mancato la notte tra domenica e lunedì ventidue-ventitré giugno. Alziamo i calici, per un saluto commosso e partecipe. Ciao, Gherardo, e grazie per tutto quanto (tanto) ci hai concesso e lasciato. M.R.
A causa del tempo che passiamo stralunati davanti al monitor, non abbiamo più tempo di occuparci di materiale di prima mano. Karl Taro Greenfeld; su questo numero, a pagina 25 L’opera d’arte non è un fenomeno casuale, ma ha -come ogni essere- energie creative, attive. Wassily Kandinsky; su questo numero, a pagina 49 La storia va comunque avanti, con o senza di noi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 37 Uno degli elementi decisivi nell’esercizio delle pratiche spirituali è il fatto che queste non perseguono alcun fine pratico, ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima. Teitaro Suzuki; su questo numero, a pagina 43 La fotografia rivela ciò che non sa, e quando lo sa vuol dire che partecipa alla dominazione del mondo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Amici di merende? mFranti; su questo numero, a pagina 8
Copertina Deardorff 8x10 pollici (20,4x25,4cm): folding in legno che ha contribuito a scrivere capitoli fondamentali della Storia della Fotografia. È elevata a simbolo di un identificato Ritorno al grande formato, affrontato per attardarsi su qualcosa di lento, senza le pressioni utilitaristiche originarie. Ne riflettiamo da pagina 34
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio da un chiudibusta emesso a Firenze, nell’aprile 1899, a supporto di una Esposizione Fotografica. Grande, il formato
7 Editoriale Il 14 luglio 1839, centosettantacinque anni fa, Hippolyte Bayard allestì quella che possiamo conteggiare come la prima mostra fotografica. In assoluto
8 Citarsi addosso Malcostume di citazioni proditorie, spesso richiamate per propria convenienza, in difesa e attacco. Triste
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
LUGLIO 2014
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
12 Vite vere (e vissute)
Anno XXI - numero 203 - 6,50 euro
Al cinema, tre autori della Storia: Margaret Bourke-White, Weegee e E.J. Bellocq. Sceneggiature ad personam Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
18 Cento di queste Leica Con precisazioni dovute (ci mancherebbe altro), aggiudicazioni all’asta WestLicht Photographica Auction, per i cento anni Leica, conteggiati dal 1914 di origine di Antonio Bordoni
REDAZIONE
Antonio Bordoni Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
24 Maledetta cultura Illuminante testo da The New York Times. Vediamo molto, forse troppo, ma conosciamo poco di Karl Taro Greenfeld (traduzione di Lello Piazza)
27 America delle origini Avvincente monografia, An American Odyssey racconta la nascita degli Stati Uniti. Con la forza di illustrazioni fotografiche compone tratti di Storia della Fotografia
34 Ritorno al grande formato Con gustose e autorevoli complicità (anche, di intenti), la Bottega Antonio Manta sollecita il risveglio di condizioni fotografiche del passato, anche remoto: senso e valore individuale della fotografia in grande formato. Oggi di Maurizio Rebuzzini
44 Polaroid Big Shot Configurazione di prestigio e fascino, dal 1971 a cura di New Old Camera
46 Scarabocchi Doodles di Edoardo Romagnoli, accostati alle sue lune. Identità individuale, di radici profonde. Quaranta anni di Lello Piazza
52 Gli chef sono loro Beyond the Chef è un progetto di Gianni Rizzotti, che riunisce una fantastica galleria di ritratti di cuochi di Angelo Galantini
COLLABORATO
Pino Bertelli Giancarlo D’Emilio mFranti Luciano Leonotti Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Gianni Rizzotti Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Edoardo Romagnoli Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
58 Casa Morandi Eccellente ed emozionante riflessione fotografica del bravo Luciano Leonotti: omaggio a un maestro
63 André Adolphe Eugène Disdéri Sguardo sulla fotografia della “bella” borghesia di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale B
isogni impellenti, oltre che incombenti. Abbiamo spesso bisogno di date, richiami e riferimenti, sui quali edificare le nostre certezze. Così, oggi, registriamo la data del 14 luglio 1839. All’indomani dell’annuncio del sette gennaio, in polemica con l’accademico François Jean Dominique Arago, che ha fatto in modo che si desse credito soltanto a Louis Jacques Mandé Daguerre e al suo dagherrotipo (presentato il successivo il diciannove agosto), proprio il quattordici luglio, nel cinquantesimo anniversario della Rivoluzione, Hippolyte Bayard espone a Parigi trenta immagini realizzate con il suo metodo positivo su carta. Se si escludono le esternazioni pubbliche di William Henry Fox Talbot, peraltro indirizzate a spettatori accademici mirati e selezionati, di fatto, è lecito conteggiarla come prima mostra fotografica in assoluto: registrazione ufficiale. Allora, di chi si tratta? Funzionario del ministero delle Finanze francese, Hippolyte Bayard (1801-1887) è uno degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri, per lo stesso intento: la natura che si fa di sé medesima pittrice. Fu messo da parte dal potere scientifico e politico, altrimenti indirizzato e alleato (con Daguerre). Comunque, aveva realizzato sia un processo autopositivo (come Daguerre) sia un processo negativo-positivo (come Fox Talbot), entrambi su carta. Yuri Gagarin, il primo uomo lanciato nello spazio, che portò a termine la sua missione, con la navicella Vostok 1, il 12 aprile 1961 (una sola orbita attorno alla Terra), avrebbe esclamato, certamente avrà esclamato: «Vedo la Terra! È così bella». E dal 1839, di nascita ufficiale della fotografia, in forma (ahinoi) di dagherrotipo, la bellezza della Terra è stata visibile a tutti, per tramite di straordinari fotografi-autori. A questo ha contribuito in misura sostanziale anche lo screditato (dal Potere!), Hippolyte Bayard. Oltre i suoi meriti di sperimentatore, ne ha conquistati tanti come fotografo-autore; tra l’altro, è stato uno dei cinque convocati per la Mission héliographique, voluta e organizzata nel 1851 dalla Commission des monuments historiques, ente governativo francese dipendente dalla Administration des Beaux-Arts, la prima campagna di documentazione fotografica del paesaggio: con lui, anche Édouard Baldus, Gustave Le Gray, Henri Le Secq e Auguste Mestral, tutti conteggiati e considerati nelle storie evolutive del linguaggio fotografico. Ragionevolmente, gli si deve riconoscere anche il primo autoritratto fotografico della Storia, realizzato nel 1840 (con lettera di accompagnamento, sul retro della fotografia, datata diciotto ottobre), peraltro paradossale e oggettivamente “impossibile”: ironicamente realizzato in posa da affogato, perché lo Stato francese, complice l’affarista François Jean Dominique Arago, ha finanziato Daguerre e lui è rimasto senza un soldo. Dunque, il primo autoritratto fotografico della Storia è impossibile; ed è anche la prima messa in scena. Maurizio Rebuzzini
Sul retro della posa da affogato (18 ottobre 1840), Hippolyte Bayard scrive: Il cadavere della persona che qui vedete è quello di Monsieur Bayard, inventore del procedimento di cui avete visto, o di cui vedrete, gli straordinari risultati. Che io sappia, erano circa tre anni che questo ingegnoso e instancabile ricercatore si adoperava per perfezionare la sua invenzione. L’Accademia, il Re e tutti coloro che hanno visto le sue fotografie che egli trovava imperfette, le hanno ammirate come voi ora le ammirate. Ciò gli ha fatto molto onore, ma non gli è fruttato un soldo. Il governo, che aveva dato troppo a Monsieur Daguerre, ha detto di non poter far niente per Monsieur Bayard, e il poveretto si è annegato per la disperazione. Oh! Umana incostanza! È stato all’obitorio per diversi giorni, e nessuno è venuto a riconoscerlo o a reclamarlo. Signore e signori, passate avanti, per non offendervi l’olfatto, avrete infatti notato che il viso e le mani di questo signore cominciano a decomporsi.
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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)
CITARSI ADDOSSO
S
Subito una precisazione d’obbligo: già il titolo è una citazione, in forma di nomen omen (diciamola così, vediamola così). Citarsi addosso è il titolo di una raccolta di racconti giovanili di Woody Allen, pubblicata in Italia da Bompiani, nel 1976, nella traduzione di Cathy Berberian e Doretta Gelmini (titolo originale Without Feathers, ovvero Senza piume, del 1975). Prima di questa attuale occasione, sollecitata da una individuata osservazione a tutto tondo, attorno a noi, ho già usato questo titolo per il capitolo conclusivo e chiarificatore della lunga cavalcata Alla Photokina e ritorno, scritto e pubblicato alla fine del 2008, in tempi immediatamente seguenti lo svolgimento della Photokina 2008, che ne ispirò l’analisi e l’approfondimento (non tanto paradossalmente, sono considerazioni ancora di stretta attualità; riferimenti tecnici a parte, ha calzato / avrebbe potuto calzare alle seguenti Photokina 2010 e 2012... come potrebbe riferirsi anche e ancora alla prossima Photokina 2014, a Colonia, in Germania, dal sedici al ventuno settembre). In quella occasione, Citarsi addosso (da e con Woody Allen) identificò la spiegazione delle citazioni introduttive di ogni capitolo del libro, che svolsero (che svolgono ancora) una propria funzione introduttiva e decifratoria dello stesso (capitolo). Al solito, in allineamento con quanto FOTOgraphia fa ogni mese, mese dopo mese, non si tratta di sfoggio di cultura, che peraltro non abbiamo (o, quantomeno, non ci riconosciamo): se così fosse / fosse stato, sarebbe / sarebbe stato soltanto triste. Invece, oltre il piacere di buone compagnie, quelle che circondano la vita quotidiana di ognuno, ogni citazione va intesa come sottotitolo dichiarato. Alla maniera dei
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«La semplice contemplazione delle cose così come sono, senza superstizioni o inganni, errori o confusioni, vale più di tutti i frutti dell’invenzione»
Francis Bacon (1610) sommarietti dei giornali e delle riviste, ogni citazione decodifica, certifica e, per quanto im-possibile, spiega il testo. Così facendo, ribadiamo anche i tratti della nostra personalità fotografica (ce lo diciamo da soli): appunto aperta a ogni visione possibile, ed estesa, senza soluzione di continuità, dai valori tecnologici alle considerazioni di carattere commerciale, dalle caratteristiche tecniche al linguaggio espressivo, dal contemporaneo alla storia, dal mercato al costume. Ancora, senza alcuna preclusione, in andata-e-ritorno, avanti-e-indietro, su-e-giù, di-qui-e-di-là. Allo stesso momento, così facendo, consentiamo a ciascuno di conservare e coltivare i propri pregiudizi sulla nostra azione in fotografia: l’abbiamo capito, e lo comprendiamo anche. Per qualcuno, rimarremo soltanto tecnici, lontani ed estranei a qualsiasi manifestazione della cultura fotografica (kultura?); per altri, saremo sempre l’esatto contrario. Imperativo è solo tenerci a distanza. Da cui, e per cui, ecco qui (ekko qui!?), il conforto delle citazioni, che rivelano anche l’essenza delle singole esistenze. Cosa deve guidarci nella vita di ogni giorno, sia quella individuale e personale, sia quella professionale e condivisa e proiettata? Etica e morale (non moralità, che è un atteggiamento, spesso di como-
do: proprio morale, che è una convinzione e persuasione e princìpio che amministra il nostro quotidiano). Etica e morale, ovviamente accompagnate da garbo, educazione, gratitudine e riconoscenza. E tanto altro ancora, sulla stessa linea conduttrice. In merito alle citazioni, soprattutto una considerazione deve essere chiara e palese: le loro eventuali evocazioni devono rispondere soprattutto (ma forse soltanto) a una inviolabile onestà intellettuale. Altrimenti, si tratta di un gioco al massacro, perché ogni citazione, ogni nascondiglio dietro autorevoli parole altrui (a beneficio e sostegno delle nostre), è valida per se stessa come anche per il suo esatto contrario. Se si agisce in pre-venzione, si può attingere a tutto e ci si può far scudo di tutto. Ancora, se si parte per dimostrare ciò in cui si crede, si può essere confortati da qualsivoglia opinione altrui, soprattutto se accreditata e prestigiosa. Dunque, legittime le citazioni, tutte le citazioni, se e quando sono frequentate e sottolineate in assoluta e inderogabile onestà, magari -addiritturarispettando le intenzioni originarie, rispettando il pensiero e richiamandolo in rafforzo e allineamento. La ricchezza delle parole, del pensiero, è tale e tanta da meritare (non solo consentire) di viaggiare anche oltre il proprio tragitto originario.
Del resto, fatte salve le sane opinioni personali, che scortano e indirizzano qualsivoglia espressività, anche quella soltanto fotografica, etica e morale sono garanzia di rispetto per se stessi e per gli interlocutori, mai ingannati o raggirati, ma sempre accompagnati alla frequentazione di idee e pensieri. In questo senso, magari soltanto da queste stesse pagine, è esemplificativa l’onestà intellettuale di Pino Bertelli, i cui clinici e apprezzati Sguardi su (a volte, persino cinici) concludono la fogliazione della rivista. Sì, Pino Bertelli analizza e commenta a partire dalla propria visione delle esistenze e del vivere in comune. Sì, Pino Bertelli risponde a un proprio concetto di vita. Ma! Ma con quanto garbo, quanta eleganza, quanto rispetto, quanta etica, quanta morale, quanta educazione accompagna i propri giudizi con richiami a avvisi altrui! Sempre, e comunque, Pino Bertelli non ricerca nulla a proprio comodo, ma si conforta e ci conforta con visioni ampie e consistenti. Invece, e in troppi casi, l’uso, e più spesso abuso della citazione, in proprio conforto, è una scorciatoia truffaldina e in malafede: giocata in difesa e attacco (proditorio), invece che per compagnia. Del resto, concludiamo in citazione, ha avuto ragione Oscar Wilde (uno dei più usati e abusati in citazione d’autore, spesso a sproposito; qui, pensiamo a proposito), quando avrebbe affermato che la differenza tra pornografia ed erotismo (in evidente declinazione che distingue un certo male da un certo bene) è tracciata da una linea individuale e personale e interessata: pornografica può essere considerata l’azione di un anonimo, erotica è, invece, la stessa medesima azione svolta da un amico. Amici di merende? ❖
RITORNO
AL GRANDE FORMATO workshop
a cura di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini
27 e 28 settembre Bam - Bottega Antonio Manta (Laboratorio di stampa Fine Art) via Ammiraglio Burzagli 229 - 52025 Montevarchi AR www.bottegamanta.com
Notizie a cura di Antonio Bordoni
CENTO ANNI LEICA. Come annotato in altra parte della rivista, su questo stesso numero, per i cento anni Leica, conteggiati dalla originaria UR-Leica, di Oskar Barnack, del 1914, è stata preordinata una confezione celebrativa Leica Edition “100 Years of Leica”, coniata in cento esemplari numerati e commercializzata al prezzo ufficiale di ventiduemila euro. Ovviamente, all’asta del centenario, svolta a Wetzlar da WestLicht Photographica Auction, di Vienna, in trasferimento temporaneo -della quale relazioniamo, appunto da pagina diciotto-, l’edizione 1/100 è stata disputata tra vari acquirenti interessati, fino a raggiungere l’aggiudicazione a centoventimila euro.
Oltre a questa confezione, è stata predisposta anche un’altra edizione limitata Leica M “100 Years of Leica Photography”, certificata con una incisione dedicata. In due versioni, cromata argento e laccata nera, la Leica M del centenario è disponibile in soli cinquecento esemplari, riconoscibili per l’apposito adesivo sulla confezione di vendita. Prezzo ufficiale 6380,00 euro. A parte le identificazioni, con logotipo specifico, si tratta di una Leica M senza altre caratteristiche che quelle ufficiali e conosciute, finalizzate per l’uso con gli obiettivi M e R. In ripetizione d’obbligo: sensore Cmos a pieno formato Leica Max da ventiquattro Megapixel di risoluzione, Live View, video Full-HD. Insieme al processore ad alte prestazioni Leica Maestro, il sensore Cmos a pieno formato (24x36mm) garantisce il massimo della velocità e della qualità dell’immagine in acquisizione digitale. Quindi, grazie al Live View e al Live View Focusing, le immagini si possono comporre anche
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PHOTOKINA 2014. Sì, la Photokina, la più imponente e vasta fiera merceologica della fotografia, è soprattutto indirizzata agli operatori commerciali. Però, da tempo, l’attenzione per il pubblico (finale e consumatore) si è notevolmente alzata, fino a definire allestimenti scenici dei singoli espositori proprio finalizzati alla presa di contatto diretta con le attrezzature. Quindi, alla resa dei conti, la Photokina è a tutti gli effetti un appuntamento sostanzioso e di consistenza per coloro i quali intendono avvicinare con coerenza l’intera offerta tecnica della fotografia. A Colonia, in Germania, da martedì sedici a domenica ventuno settembre, la tecnologia fotografica mostra il meglio di sé e, allo stesso momento, dà il meglio di sé. In combinazione, sia all’interno dei padiglioni espositivi, sia in città, sono programmati centinaia di eventi collegati: mostre, incontri, dibattiti, lezioni, conferenze... e altro, ancora. Con franchezza, si possono ripetere e ribadire le rilevazioni riportate nel consistente saggio Alla Photokina e ritorno, scritto e pubblicato (dalla nostra casa editrice) alla fine del 2008, in tempi immediatamente seguenti lo svolgimento della Photokina 2008, che ne ispirò l’analisi e l’approfondimento. Non tanto paradossalmente, sono considerazioni ancora di stretta attualità; riferimenti tecnici a parte, ha calzato / avrebbe potuto calzare alle seguenti Photokina 2010 e 2012... come potrebbe riferirsi anche e ancora alla prossima Photokina 2014 (www.photokina.com). osservando e visualizzando il soggetto direttamente attraverso l’obiettivo. Le esposizioni si possono valutare con precisione sul monitor da tre pollici ad alta risoluzione, dotato di 920.000 pixel e altamente resistente ai graffi. La capacità di registrazione video FullHD 1080p espande ulteriormente la versatilità di questa avvincente configurazione fotografica. Ancora, l’Adattatore Leica R per M consente di usare anche gli obiettivi Leica R del sistema reflex. Tra gli altri accessori, si segnalano, quindi, il mirino elettronico Leica Visoflex EVF2, l’impugnatura multifunzionale M con modulo GPS integrato che -in combinazione con il passadita opzionale in varie misure (S, M e L)contribuisce ad assicurare una presa stabile e sicura dell’apparecchio fotografico e un set adattatore per microfono Leica, per una perfetta registrazione del sonoro nelle riprese video. (Leica Camera Italia, via Mengoni 4, 20121 Milano; www.it.leica-camera.com).
VERSATILE E RESISTENTE. Primo obiettivo del sistema ottico dedicato che si propone resistente alle intemperie, lo zoom Fujinon XF 18-135mm f/3,5-5,6 R LM OIS
WR è ideale complemento della CSC (Compact System Camera) X-T1. Di indirizzo professionale, per caratteristiche e qualità di utilizzo, copre una gamma di escursioni 7,5x, compresa tra l’inquadratura grandangolare 27mm e l’avvicinamento tele 206mm, in equivalenza ai parametri della fotografia 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo. Dotato di una avanzata tecnologia per la stabilizzazione dell’immagine, grazie venti punti di sigillatura della montatura, dispone di una struttura meccanica resistente all’acqua e alla polvere. Quindi, lo zoom Fujinon XF 18-135mm f/3,5-5,6 R LM OIS WR consente di affrontare situazioni di impiego estreme, con applicazioni agevoli nell’ambito di ogni situazione in esterni. Per assicurare prestazioni di notevole qualità, a partire da una eccellente nitidezza e un elevato contrasto su tutta l’escursione focale, sono state utilizzate lenti con alti requisiti ottici, nella cui combinazione si segnalano quattro elementi asferici in vetro e tre lenti in vetro ED, a basso indice di dispersione. Per ridurre efficacemente i riflessi e le immagini fantasma, che spesso si
verificano in controluce, su tutte le lenti è applicato il trattamento Multistrato HT-EBC a elevata permeabilità (99,8 percento) e bassa riflessione (0,2 percento). Il Fujinon XF 18-135mm f/3,55,6 R LM OIS WR dispone di un autofocus ad accomodamento interno estremamente rapido, basato su un motore lineare. Quando lo zoom è utilizzato con corpi macchina della avvincente gamma Fujinon X, compatibili con l’AF a rilevamento di fase, sono possibili riprese più fluide e una rapida regolazione autofocus : ancora, la tecnologia del motore lineare -che posiziona direttamente le lenti di messa a fuoco- garantisce un’operatività silenziosa anche durante le riprese video.
Al fine di raggiungere l’efficienza di 5.0-stop di stabilizzazione dell’immagine, è stata migliorata la capacità di rilevare il movimento nella banda a bassa frequenza; inoltre, è stato elaborato un algoritmo per identificare con precisione la sfocatura dal segnale rilevato. La correzione è raddoppiata nei tempi di scatto più lunghi. Questo aiuta a evitare l’uso di treppiedi, mantenendo più leggera la propria dotazione fotografica. (Fujifilm Italia, Strada Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
VITE VERE (E VISSUTE)
N
Non se ne esce più. Ed è bene che sia così! Da come ci addentriamo nel fenomeno della raffigurazione cinematografica della fotografia e dei fotografi, è assolutamente improbabile completare in modo plausibile l’analisi: rimangono le nostre tessere, che compongono un mosaico diversificato, oltre che fascinoso; magari, addirittura un casellario. Ogni punto di vista individuato e isolato finisce subito per aprire prospettive nuove e inattese; cosicché -diamine- questo arriva a proporsi come storia infinita. Alla quale, oggi, aggiungiamo il capitolo dei fotografi veri, che hanno attraversato scenografie e sceneggiature cinematografiche. Prima di farlo, ovverosia prima di arrivare alla raffigurazione cinematografica di autori che hanno scandito tempi e modi della storia del linguaggio e dell’espressività fotografica, ricordiamo ancora due fotografi che hanno interpretato se stessi, al cinema, in due occasioni distinte (uno in assoluto, l’altro in fantasia): Greg Gorman, fotografo di ritratto in sala di posa, in Tootsie, di Sidney Pollack, del 1982, e il fiorentino Maurizio Berlincioni, fotografo nelle scene di avvio di La famiglia, di Ettore Scola, del 1987 [abbiamo approfondito, in FOTOgraphia, dell’ottobre 2008].
Nel film Gandhi, di Richard Attenborough, del 1982, Candice Bergen interpreta la fotogiornalista Margaret Bourke-White. L’episodio è storico: nel 1946, Life inviò la fotografa per un servizio sul Mahatma.
PRESENZE REALISTICHE Già in Soldati a cavallo, di John Ford (con John Wayne; Usa, 1959), il fotografo che all’inizio del film ritrae gli ufficiali nordisti in posa viene appellato “mister Brady”: ovvero Mathew B. Brady, che fotografò la guerra civile americana assieme a Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan. E sono pure riconducibili alla realtà le figure tratteggiate nella tetralogia del filone giornalistico-rivoluzionario degli anni Ottanta: Sotto tiro, di Roger Spottiswoode (Usa, 1983), Salvador, di Oliver Stone (Usa, 1986), Urla del silenzio, di Roland Joffé (Gran Bretagna, 1985), e Un anno vissuto pericolosamente, di Peter Weir (Australia, 1982), vicende rispettivamente ambientate tra le pieghe delle guer-
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Margaret Bourke-White realizzò l’iconico ritratto di Gandhi, concentrato in lettura, con un arcolaio in primo piano: una delle fotografie più celebri del Novecento. Questa fotografia è stata utilizzata per un francobollo celebrativo del Mozambico, emesso il 30 novembre 2009.
Cinema re civili centroamericane (Nicaragua e Salvador), nella Cambogia dei Khmer rossi e nell’Indonesia di Sukarno. Soprattutto, in Urla del silenzio, è sostanziale la figura del fotografo cambogiano Dith Pran, poi trasferitosi negli Stati Uniti, alla corte del New York Times, mancato nel marzo 2008 [FOTOgraphia, maggio 2008]. Ancora, con sostenuta leggerezza, il carattere che Fred Astaire recitò in Cenerentola a Parigi, di Stanley Donen (Usa, 1957), ha ricalcato la personalità autentica di Richard Avedon, che del resto contribuì alla produzione in veste di consulente del colore e degli effetti fotografici [FOTOgraphia, febbraio 2013]. Anche i tratti schizoidi del protagonista del cult Blow up, di Michelangelo Antonioni, del 1966 (diversi i nostri richiami al film), avrebbero avuto una ispirazione realistica; ai tempi, si parlò di David Bailey, esponente di spicco delle contraddizioni esistenziali e comportamentali della supponenza degli anni Sessanta. A seguire, ricordiamo anche la storia cinematografica costruita attorno la fotografia di Joe Rosenthal dei marine che issano la bandiera statunitense sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, nella quale (sceneggiatura) fa appunto capolino la caratterizzazione del reporter dell’Associated Press (Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006 [approfondito in FOTOgraphia, del maggio 2013]). Ancora, merita una attenzione autonoma e propria la ricostruzione scenografica del passaggio da Amburgo dei Beatles, non ancora tali. Fu lì, e in quell’occasione, che -all’inizio degli anni Sessanta- i Fab Four (ai tempi in cinque) conobbero Astrid Kirchherr, giovane allieva e assistente di Reinhart Wolf, che realizzò ottimi ritratti, in sessioni fotografiche appunto riproposte nel film Backbeat, del 1994, che racconta di quegli anni [FOTOgraphia, dicembre 2008 e giugno 2014]. Da qui, ai casi sostanziosi, fosse anche solo in termini quantitativi.
BOURKE-WHITE Una presenza realistica particolare è quella di Margaret Bourke-White, che compare nel film Gandhi, di Richard Attenborough (Gran Bretagna, 1982), nell’interpretazione di Candice Ber-
gen. L’episodio visualizzato nel film è storico. Nel 1946, due anni prima del suo assassinio, quando il Mahatma aveva attirato l’attenzione internazionale, la reporter statunitense fu inviata da Life in India. Celeberrimo è il ritratto con l’arcolaio compreso nell’inquadratura orizzontale. Quell’incontro è ben descritto nella biografia della fotografa, scritta da Vicki Goldberg (pubblicata in Italia da Serra e Riva Editori). Leggiamo: Margaret arrivò in India nel marzo del 1946, e si mise subito all’opera fotografando Gandhi.
Nel film Occhio indiscreto, di Howard Franklin, del 1992, la figura del fotografo protagonista Bernzy è stata disegnata sulla personalità di Weegee: come rivelano un posato del film e la locandina promozionale, qui accostati al ritratto più noto del celebre fotografo (a destra). Un credibile Joe Pesci replica e interpreta bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali ognuno individua il fantastico Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quando il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio.
Lo aveva spesso udito inveire pubblicamente (da un moderno microfono) contro i macchinari moderni, dal trattore al telaio meccanico. Di fronte alla siccità, alla fame, all’incredibile miseria dell’India, che a suo parere il progresso tecnologico avrebbe senz’altro potuto risolvere, Margaret non comprese mai fino in fondo il violento malanimo di Gandhi nei riguardi della macchina. In occasione del loro appuntamento, Gandhi si fece trovare in compagnia di un gruppo di intoccabili, in una baracca che odora-
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Cinema
va di escrementi umani. Margaret era appena entrata e già la segretaria del maestro le stava domandando se sapeva filare. L’arcolaio rappresentava per il Mahatma il simbolo della sua ferrea volontà di liberarsi dal dominio britannico. Come accadeva in ogni altro impero coloniale, l’Inghilterra importava dalle colonie materie prime, per incrementare l’industria in patria. Il cotone indiano veniva trasformato in tessuto negli stabilimenti tessili britannici e poi rivenduto in India per la confezione di capi d’abbigliamento. Gandhi ripeteva che gli indiani avrebbero dovuto spezzare le catene della dipendenza filando e tessendo da sé il cotone. [...] La segretaria ricordò a Margaret che Gandhi stava conducendo una giornata di silenzio, e che quindi non gli si poteva rivolgere alcuna domanda. Né usare luci artificiali, non le gradiva. Ma la capanna era troppo buia; Margaret prego che le si concedesse un minimo equipaggiamento elettrico e le fu permesso l’uso di tre flash. Trovò Gandhi seduto a terra a gambe incrociate, indossava un panno tessuto a mano intorno ai fianchi e leggeva il giornale attraverso un paio di occhialetti cerchiati di metallo. Aveva settantasette anni, era un uomo minuscolo, asciutto, calvo, e aveva sfidato il più grande impero nella storia del mondo. Non prestò alcuna attenzione alla fotografa che aveva interrotto la
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Ancora un confronto tra realtà e finzione cinematografica. A sinistra, ritratto di Weegee al portabagagli della sua Chevrolet, dal 1935 adibita a studio volante. La tempestività del suo fotogiornalismo nella cronaca nera newyorkese si deve alla rapidità che questo modo di agire gli ha sempre consentito. A destra, posato promozionale di Joe Pesci, nei panni di Bernzy, nel film Occhio indiscreto.
sua ora di lettura, e Margaret gliene fu grata, perché la nuda stanza era molto buia. L’unica finestra, in alto sulla parete, gettava raggi di luce direttamente nella sua macchina rendendole assai disagevole il compito, a meno di complicate manovre. Non appena Gandhi prese a filare, Margaret usò uno dei suoi tre flash. Ma il lampo venne ritardato dal caldo umido che anche in seguito, in India, rischiò sovente di sabotare i suoi sforzi. Non rimanendole che due soli flash, Margaret decise di usare la macchina con il treppiedi. Anche quest’ultimo, tuttavia, si rifiutò di collaborare: una gamba si bloccò all’altezza minima e un’altra alla massima. Dopo aver controllato attentamente il secondo flash, Margaret scattò a questo punto un’altra istantanea. Funzionò tutto a meraviglia. Solo che aveva scordato di caricare la macchina. Fortunatamente, l’ultima fotografia riuscì. Da questo incubo di inconvenienti uscì una fotografia che fu in seguito riprodotta innumerevoli volte. La silhouette dell’arcolaio in primo piano occupa tutta la metà sinistra dell’immagine. Leggermente più indietro siede il Mahatma, concentratissimo nello studio di certe carte che ha in grembo. Il capo chino nella lettura, Gandhi appare come soffuso nella luce che proviene direttamente dalla finestra. Margaret aveva composto l’icona di un santo laico, umile, medi-
tativo, inondato di luce, e accompagnato dal simbolico arcolaio, proprio come i santi sono rappresentati con i loro emblemi. La biografia di Margaret BourkeWhite è significativa, perché è stata usata anche per la sceneggiatura di un film televisivo che in Italia viene spesso trasmesso in seconda o terza serata. Il coraggio di Margaret, di Lawrence Schiller (Central Independent Television; Usa, 1989) è la storia della celeberrima reporter di Life, così come è stata benevolmente raccontata nel testo di Vicki Goldberg, sceneggiato da Marjorie David. Il fascino del personaggio è ben rappresentato da una avvenente Farrah Fawcett, la cui sfortunata carriera cinematografica è stata forse compromessa dallo stereotipo fissato dalla serie televisiva Charlie’s Angels.
SIMIL WEEGEE Quando Occhio indiscreto arrivò sugli schermi italiani se ne parlò molto. Siccome poi tutto cade sempre più precipitosamente nel dimenticatoio, all’indomani del proprio momento di gloria e di notorietà, la vicenda a sfondo fotografico si è presto esaurita in se stessa. La locandina dell’epoca e la confezione della videocassetta non ammettono equivoci (in Italia, non è mai stato pubblicato il Dvd). Non ci si può sbagliare, anche se non si arriva allo strillo di richiamo: «Omicidi. Scandali. Crimini. Non è importante su cosa punta l’obiettivo, lui scatta solo delle foto...».
Cinema Non c’è dubbio, non ci sono equivoci: si tratta della messa in scena di un reporter anni Quaranta sullo stile di Weegee, il celebrato fotografo di cronaca nera newyorkese che nella propria autobiografia didascalizzò un mandato di pagamento di Time relativo alla fotografia di due assassinati come «L’omicidio è il mio business» ( Weegee di Weegee. Un’autobiografia; Contrasto, 2011 [FOTOgraphia, marzo 2011]). Così come l’originale Weegee-Arthur H. Fellig, anche il cinematografico Bernzy si muove nel sottobosco newyorkese: in una città violenta nella quale ogni notte si rinnova la sfida della vita, e dove il valore dell’esistenza non supera i tre dollari a cadavere con cui i giornali di nera pagano ogni cadavere. Sullo schermo, un ottimo Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali ognuno di noi è disposto a individuare il leggendario Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quanto il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio. Cediamo la parola a Weegee, dalla cui autobiografia ricaviamo qualche riga significativa: L’altro tabloid, il Daily Mirror, era un giornale anticonformista. Distrattamente, lasciavo intendere a Manny Elkins, il picture editor, che avevo appena venduto una serie al News. Allora la voleva anche il Mirror, perché i due giornali erano come cane e gatto e si facevano una concorrenza spietata. All’inizio della mia collaborazione con il Mirror, mi era capitato di vendergli una foto e di vederla pubblicata il giorno dopo anche su Journal-American. Avevo chiesto a Elkins: «Come mai?». Mi aveva risposto che anche Journal-American era un giornale della Hearst. Allora gli avevo fatto notare il timbro sul retro della stampa, “Foto: Weegee The Famous. Per singola pubblicazione”, e gli avevo scucito altri cinque sacchi. [...] Gli affari andavano a gonfie vele. Mi sentivo in gran forma. I giornali cominciavano a dipendere da me per la fornitura del materiale. Un bell’omicidio per notte più un incendio e magari una rapina con ostaggi mi bastavano a procurarmi la pancia piena tutti i giorni, oltre alla confortevole sensazione di un gruzzolo in tasca.
BELLOCQ MEDESIMO
Totalmente sconosciuto in vita, E.J. Bellocq (1873-1949) deve la sua acquisita notorietà a Lee Friedlander, celebrato fotografo americano, esponente di spicco della corrente della nuova oggettività affermatasi a partire dagli anni Sessanta: prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo [FOTOgraphia, dicembre 2011]. Proprio Friedlander scoprì il lavoro di Bellocq, e nel 1966 acquistò ottantanove lastre in vetro di ritratti di prostitute e allestì la rassegna retrospettiva intitolata Storyville Portraits, esposta al Museum of Modern Art, di New York, nel 1970. L’accurato catalogo, realizzato in quella occasione, è a tutti gli effetti l’unico libro che consegna E.J. Bellocq alla storia della fotografia: sulle sue pagine, trentaquattro ritratti sono preceduti da un buon testo critico, che vale la pena sottolineare. Si tratta, infatti, di una discussione improbabile, ma possibile. Alla maniera delle indimenticate Interviste impossibili radiofoniche, dell’inizio degli anni Settanta, in questo testo libero è stato ipotizzato un dibattito che non ha mai avuto luogo nella realtà. Lee Friedlander ha immaginato di parlare con personaggi diversi, completamente slegati tra loro, ma prossimi alla parabola esistenziale di Bellocq: due fotografi, uno scrittore, tre suonatori di jazz e una prostituta dell’inizio del secolo, soggetto di molti ritratti di Bellocq, si incontrano sull’argomento. I materiali oggettivi sui quali Lee Friedlander ha costruito l’ipotetica discussione sono stati ampiamente manipolati, mescolati e cambiati rispetto la sequenza originaria. In ogni caso, le intenzioni e le opinioni dei partecipanti sono state rispettate. Del resto, Friedlander non è certo all’oscuro del sottile legame che unisce ogni autore alle proprie immagini. Tant’è che quando parla della vicenda Bellocq precisa anche l’attenzione con la quale lui stesso ha condotto l’intera operazione. Dalla prefazione al catalogo di Storyville Portraits: «Larry Borenstein ha un istinto eccezionale per circondarsi di cose belle e rare. [...] Tra i suoi tesori, c’erano anche le lastre di Bellocq. [...] Nel 1966, gli chiesi di vendermele, o di prestarmele, per far realizzare delle stampe di buona qualità. Acconsentì a ven-
Primo film americano del regista francese Louis Malle, Pretty Baby, del 1978, racconta con fantasia cinematografica la figura del fotografo E.J. Bellocq, che ha agito a New Orleans a cavallo del Novecento. In particolare, la sceneggiatura è limitata alle fotografie che Bellocq realizzò nei bordelli del quartiere Storyville, nel 1912. Il fotografo è interpretato da Keith Carradine, e Susan Sarandon interpreta la prostituta Hattie. Presenza di comodo, l’esordiente Brooke Shields ipotizza una evanescente Violet, giovane figlia di Hattie.
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Cinema dermele, e io le imballai per portarle a casa, dove le avrei fatte stampare. «Scoprii ben presto che non avrei potuto utilizzare il mio solito processo di stampa, poiché le lastre non rispondevano bene alla carta al bromuro. La gamma tonale era eccessivamente limitata, anche stampando con la gradazione più morbida. Dopo alcune ricerche, scoprii una tecnica di stampa popolare attorno all’inizio del secolo, basata su una carta chiamata P.O.P. (Printing Out Paper), che possedeva una caratteristica insita di auto-mascheratura. Secondo questo metodo, le lastre venivano esposte a contatto della carta a una luce diurna indiretta per un tempo che andava da tre ore a sette giorni, in funzione della densità della lastra e della qualità della luce. Quindi, la carta veniva sottoposta a un bagno di viraggio al cloruro di oro. Fissaggio e lavaggio erano quelli convenzionali, ma dovevano essere effettuati con grande attenzione, data la fragilità dell’emulsione. «Questo metodo, perseguito con pazienza e olio di gomito, mi ha permesso di ottenere una serie completa di ottantanove stampe tali quali io pensavo dovessero essere. Non avendo mai visto stampe fatte da Bellocq stesso, sono stato obbligato a seguire il mio gusto personale nella stampa, e spero che questo non sia in contrasto con le intenzioni di Bellocq». Fotografo commerciale che ha lavorato a New Orleans a cavallo della Prima guerra mondiale, E.J. Bellocq ha probabilmente esteso la sua intera parabola professionale tra il 1895 e i primi anni Quaranta, fotografando soprattutto motori e turbine per navi [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del dicembre 2005]. Le ottantanove lastre di ritratti di prostitute del quartiere di Storyville furono rinvenute nel suo studio dopo la sua morte. Sono state datate al 1912 circa [FOTOgraphia, febbraio 2012]. Per quanto è dato sapere, questo fondo costituisce l’unico frammento del suo lavoro che gli sia sopravvissuto. Ed è il materiale visivo sul quale il regista francese Louis Malle si è basato per costruire la storia raccontata in Pretty Baby, suo primo film americano, del 1978. La vicenda è ambientata appunto a Storyville, quartiere a luce rossa di New Or-
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In una certa misura fedele alla sequenza di ritratti presentati nella monografia Storyville Portraits, di E.J. Bellocq, la sceneggiatura di Pretty Baby, di Louis Malle, alterna sessioni fotografiche in esterno a situazioni in interni: con fantastica presenza di improbabili ombrelli riflettenti, inesistenti nel 1912 di ambientazione.
leans; e tutto ruota attorno la figura di una dodicenne Brooke Shields, la cui inconsistenza recitativa è seconda solo alla povertà del film. Più apprezzabile è la presenza sullo schermo di Susan Sarandon, che interpreta una delle prostitute che vengono ritratte da un evanescente Bellocq: interpretato da un Keith Carradine uguale a se stesso (come sempre), ma questa volta in ordine con le esigenze di copione, al quale serviva una figura eterea che facesse da spalla alla ragazzina offerta al voyeurismo popolare (Carradine è comunque fisicamente diverso da Bellocq, descritto da chi l’ha conosciuto come un “na-
no idrocefalo, ignorato dalla gente”). Per quanto le fotografie originali di Bellocq siano risultate utili alla scenografia, bisogna annotare che Pretty Baby deve la propria sceneggiatura alle Memorie di una maîtresse americana, di Nell Kimball (pubblicate in Italia da Adelphi). I dialoghi del film e il sapore che condisce tutte le piccole storie di casino sembrano uscire direttamente dalle pagine del libro. Ma a noi interessa soprattutto la figura del fotografo. «Mi chiamo Bellocq. Sto cercando madame Livingstone; mi può ricevere?...». «Sì accomodi pure, monsieur Bellocq. [...] Santo cielo, lei è nel luogo sbagliato monsieur. La nostra attività non è comprare...». «Madame, forse conosce il mio nome... Faccio fotografie, nel quartiere, da molto tempo». «[...] Solo che non è l’ora giusta. Le mie ragazze dormono tutte a quest’ora. Lavorano fino a tardi, sa. Sono le dieci del mattino, monsieur...». «Ho bisogno della luce del sole. Questa è l’ora migliore per me... Quella signorina lì, andrebbe bene». «Io gestisco un buon bordello all’antica, monsieur! E lei è troppo scalcagnato per me! Fotografie?... Di che diavolo di roba si tratta?... Io non ricevo gente dai gusti strani. Se cerca qualcosa di diverso, le assicuro che può trovarne fin che ne vuole, qui a New Orleans». «Madame, la prego, non mi parli di New Orleans! Sono vissuto qui tutta la vita!». «Le domando scusa, monsieur». «Sono disposto a pagare la sua perdita di tempo». «Gradisce un bicchierino di assenzio?». «Madame, la luce... Vorrei approfittarne...». «Ah, già, la luce; avevo dimenticato. Vada pure dalla nostra Hattie. È molto brava, sa; farà tutto quello che lei vorrà». [...] «Vuole che mi spogli adesso?...». «No, no... Lei mi piace così com’è». «Mi vuole così?... Spettinata, nemmeno lavata?!?!...». «Sì, sì. Grazie». Insomma, alla fin fine, la fotografia è approdata al bordello. Che sia da interpretare come una simbologia? Come un segno? ❖
Collezionismo (?) di Antonio Bordoni
CENTO DI QUESTE LEICA
L
Lo scorso giugno abbiamo commentato la sontuosa cerimonia di inaugurazione della nuova fabbrica e sede aziendale Leica, in Leitz Park, a Wetzlar: dopo i decenni di Solms, ritorno nella città delle origini, da cui tutto è nato. Soprattutto, abbiamo sottolineato il significato trasversale e protagonista, allo stesso momento: punta evidente e clamorosa di un iceberg che definisce una rinnovata e innovativa strategia commerciale di Leica, presente sul mercato fotografico internazionale con una personalità a dir poco indubitabile e rigogliosa. Ora, in allungo e completamento (ma tanto altro ci sarebbe da dire), bisogna ancora annotare come la solennità del momento abbia previsto e svolto anche numerose altre iniziative
Primo lotto dell’asta 100 Years of Leica, svoltasi a Wetzlar, nella nuova sede, a cura di WestLicht Photographica Auction, di Vienna. Telescopio dell’Istituto Ottico Kellner, del 1852, che sta all’origine della vicenda tecnico-commerciale che poi sarebbe stata interpretata e condotta da Ernst Leitz: aggiudicato a 70.000,00 euro.
Ernst Leitz New York Leica Gun Rifle, del 1937: 300.000,00 euro.
(centro pagina) Leica 250GG con Leica-Motor Mooev, del 1941, aggiudicata a 480.000,00 euro, la cifra più alta dell’intera sessione d’asta.
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collaterali, la maggior parte delle quali declinata sul tema, fortemente sottolineato, del centenario 1914-2014, conteggiato dal “prototipo” originario URLeica, di Oskar Barnack: che sta all’origine stessa del brand e di una sostanziosa e fantastica interpretazione della fotografia, che ha definito l’intero Novecento, e che ancora oggi identifica una certa Fotografia... Leica. In particolare, il pomeriggio di venerdì ventitré maggio, si sono svolte sessioni d’asta organizzate dall’autorevole WestLicht Photographica Aution, di Vienna, in trasferimento temporaneo a Wetzlar. 100 Years of Leica -ecco qui un altro momento del centenario- ha proposto cento lotti di apparecchi, obiettivi e accessori Leica, accompagnati da qualche documento storico, e altrettanti cento lotti di fotografie, la maggior parte delle quali ufficialmente realizzate con Leica, e tutte -nel proprio insieme e complesso- riconducibili alla sua particolare interpretazione espressiva. Data la concretezza e certezza assoluta dell’asta, è doveroso cominciare con annotazioni di ordine economico, previo riservarci un nostro immediato commento chiarificatore, sia della nostra opinione, sia del concetto globale di vendita all’incanto.
Collezionismo (?)
Leica IIIc W.H. Rundbildkamera E2, del 1944: 200.000,00 euro. Leica M3 appartenuta a Henri Cartier-Bresson, del 1960: 44.000,00 euro. (a destra, in alto) Leica II Mod D Luxus, del 1932: 260.000,00 euro. (a destra, al centro) Dépliant Leitz “Barnack”-Kamera, del 1924, antecedente la definizione Leica: 1600,00 euro.
Allora: i cento lotti di attrezzature Leica hanno raggiunto la ragguardevole cifra totale di oltre quatto milioni di euro (4.167.700,00 euro), che superano i cinque se e quando si considera anche il venti percento di diritto d’asta (5.001.240,00 euro). Mentre, delle cento fotografie proposte in partenza, tre sono andate invendute; e il totale ha sfiorato il mezzo milione di euro (491.800,00 euro, al netto; 590.160,00 euro, al lordo), interamente devoluto in beneficenza. Da cui, annotazione doverosa. Personalmente, ci discostiamo da coloro i quali elevano a valore assoluto e inderogabile le aggiudicazioni fotografiche d’asta (ma, più in generale, le aggiudicazioni d’asta tout court). Infatti, in ogni vendita all’incanto entrano in gioco fattori incontrollabili, fattori personali, fattori emotivi. Basta un ca-
priccio, oppure una frivolezza individuale, per creare i presupposti di una impennata. In questo senso, l’emozione dell’inaugurazione della nuova sede Leica, l’essere invitato a Wetzlar, il partecipare alle celebrazioni del centenario è stata -addirittura- una ulteriore “aggravante” passionale in più, che si è aggiunta a quelle solite e accreditate. Quindi, molti valori si sono innalzati oltre le quotazioni effettivamente correnti, superando i relativi valori canonici del collezionismo/antiquariato accreditato come tale (e da questa considerazione esulano soltanto le autentiche unicità). A conseguenza, la registrazione delle aggiudicazioni non può che avere un senso solo statistico: non definisce, né certifica lo stato dell’arte. Diciamo che l’asta è un momento fuori quota, durante il quale si manifesta-
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Collezionismo (?) Leica M3 Prototype, del 1953, numero di serie 0025: 240.000,00 euro.
Ritratto di Oskar Barnack, attribuito a Julius Huisgen, realizzato nel 1934, in stampa vintage 17x12,4cm: 6000,00 euro.
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no ipersensibilità e impressionabilità estranee al commercio quotidiano, sia pure anche solo di quello di antiquariato fotografico, o di collezionismo fotografico. A conti fatti, e senza temere smentite, le aggiudicazioni nell’ambito dell’asta 100 Years of Leica vanno interpretate giusto alla luce di questo evidente e clamoroso valore aggiunto: per l’appunto, l’occasione di 100 Years Leica. A nessun collezionista-acquirente può interessare di riprendere i soldi spesi (che, nell’economia di ciascuno di loro, equivalgono probabilmente alla mezza dozzina di euro di un pacchetto di Toscani, da fumare in un paio di giorni). Per tutti, però, è motivo di orgoglio aver avuto accesso a un lotto di una sessione d’asta storica, durante la quale hanno acquisito un oggetto arricchito di significati particolari: tanto più che gli acquirenti sono stati soprattutto orientali, cinesi in testa (i nuovi ricchi? quelli che hanno raggiunto il vertice in fretta? quelli che non hanno fatto alcuna fatica per...?: non giudichiamo nessuno, ma constatiamo che...). [Attenzione, sia chiaro: stiamo parlando di sogni ed eccezioni; la vita vera si svolge altrove, su altri palcoscenici e con altra scala di valori]. Come il confronto tra i due totali rivela con l’impertinenza delle cifre, tra apparecchi fotografici Leica della sua storia e fotografie scorre un rapporto di dieci-a-uno. Soltanto undici fotografie hanno superato i diecimila euro di aggiudicazione (al netto della commissione d’asta): il più alto valore, di diciassettemila euro (17.000,00 euro), è stato registrato da una coppia di leoni fotografati nello zoo di Francoforte dal tedesco Wilhelm Schack, nel 1932, in stampa vintage 60x80cm, in propria cornice di legno. Analogamente, nove lotti Leica hanno superato abbondantemente i centomila euro. In ordine, a partire dall’aggiudicazione più alta: preziosa Leica 250GG con Leica-Motor Mooev, del 1941, quattrocentottantamila euro (480.000,00 euro); Leica MP nera, del 1957, trecentoquarantamila euro (340.000,00 euro); Ernst Leitz New York Leica Gun Rifle, del 1937, trecentomila euro (300.000,00 euro); Leica M6 (Electronic), del 1979, duecentottantamila euro (280.000,00 euro); Leica II Mod. D Luxus, del 1932, duecentosessantamila euro (260.000,00
Collezionismo (?) euro); rara Leica M3 Prototype, del 1953, duecentoquarantamila euro (240.000,00 euro); Leica IIIc W.H. Rundbildkamera E2, del 1944, duecentomila euro (200.000,00 euro); Elcan 90mm f/1, del 1970, centodiecimila euro (110.000,00 euro). A parte e in aggiunta, dopo l’unico obiettivo ad aver superato i centomila euro, annotiamo l’aggiudicazione del lotto conclusivo dei cento offerti per i cento anni Leica: la confezione Leica Edition “100 Years of Leica”, annunciata proprio la mattina dello stesso ventitré maggio, che viene realizzata in cento esemplari numerati e commercializzata al prezzo ufficiale di ventiduemila euro, è stata aggiudicata a centoventimila euro (120.000,00 euro). Attenzione: si tratta della confezione celebrativa numerata 1/100! Prima di concludere con le fotografie, va ancora annotato che nel-
Autoritratto con Leica, di Ilse Bing, del 1931, in stampa 26,2x29,6cm, e ripetizione della posa, nel 1989, per il fotografo Abe Frajndlich, in stampa vintage 22,6x30,5cm: 8000,00 euro.
Ritratto di Henri Cartier-Bresson con Leica M3, di Ara Güler, del 1964, in stampa 55x44cm: 8500,00 euro.
l’ambito dei cento lotti Leica sono state comprese proposte -per così dire- trasversali al percorso lineare degli strumenti fotografici veri e propri e in quanto tali, e alle configurazioni speciali, spesso uniche, registrate nel corso dei decenni. Ne riferiamo, subito, procedendo in ordine di asta. Un dépliant di tre facciate, del 1924, in anticipo sulla presentazione ufficiale della Leica I, alla Fiera di Lipsia, della primavera 1925, è stato aggiudicato a milleseicento euro (1600,00 euro), in virtù del fatto che non viene presentata la Leica, della quale non era ancora stata coniata l’identificazione, ma la Leitz “Barnack”-Kamera. Analogamente, una pubblicità del 1925, presumibilmente il primo soggetto realizzato, è stata aggiudicata a novemilacinquecento euro (9500,00 euro). E a ottomilacinquecento euro (8500,00 euro) è stato aggiudicato il poster Leica Das Kleine Photo-Wunder, del 1928. Una Leica I traforata, del 1930 (Cutaway), originariamente destinata all’allestimento di vetrine, ha raggiunto i quindicimila euro (15.000,00 euro). Ancora un allestimento scenico: un espositore in legno, realizzato dalla filiale Ernst Leitz New York, nel 1935, ha toccato i quattromilaottocento euro (4800,00 euro). Sempre in tema di scenografia, un mock up Leica M3 gigante, ancora per promozione (e sappiamo bene di cosa si tratta, ma non qui e non ora), del 1954, è stato venduto a seimila euro (6000,00 euro).
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Collezionismo (?) Infine, prototipi, obiettivi speciali, accessori rari a parte, otto lotti di Leica appartenute a fotografi noti e riconosciuti. Anche qui, in ordine progressivo d’asta: una Leica M3 e tre Leica M4, tutte nere, usatissime, fino a rivelare l’ottone sotto la verniciatura, appartenute al noto Abbas (Magnum Photos), datate tra il 1962 e 1969, hanno raggiunto i settantacinquemila euro (75.000,00 euro); la Leica M2 nera di Bruno Barbey, del 1962, altrettanto “vissuta”, è andata a ventiquattromila euro (24.000,00 euro); due Leica M2 e una Leica M3, sempre nere, sempre usatissime fino all’ottone, di Ian Berry, rispettivamente del 1962 e 1963, sono state aggiudicate a settantamila euro (70.000,00 euro); la Leica M3 nera di Henri Cartier-Bresson, del 1960, ha raggiunto i quarantaquattromila euro (44.000,00 euro); una Leica M3 cromata e una Leica M2 nera, del 1958 e 1965, di René Burri, sono state quotate quattordicimila euro (14.000,00 euro); la Leica MP nera di Elliott Erwitt, con firma incisa sul retro, del 1953, completa di Press Pass del noto fotogiornalista, ha raggiunto ventiseimila euro (26.000,00 euro); sette Leica M varie di Paul Fusco, dal 1958 fino a una M4-2 del 1987, sono state aggiudicate a ventimila euro (20.000,00 euro); in ultimo, la Leica M2 nera di Herbert List, del 1960, è stata venduta a diecimila euro (10.000,00 euro). Le fotografie ora, in ordine decrescente di valore, da quella aggiudicata a maggior prezzo. Dei leoni del tedesco Wilhelm Schack, aggiudicazione più alta, abbiamo già riferito; comunque, in conferma: diciassettemila euro (17.000,00 euro). Altre dieci fotografie hanno superato i diecimila euro; per dovere di cronaca (che altre relazioni che abbiamo letto hanno declinato più sul sensazionalismo che altro), a queste dieci ci limitiamo. Sei stampe vintage 23,8x18,1cm di Tazio Secchiaroli, relative alla dolce vita romana della fine degli anni Cinquanta, raffiguranti la turbolenta coppia Anita Ekberg e Anthony Steel, hanno raggiunto sedicimila euro (16.000 euro); ancora, altrettanti sedicimila euro (16.000,00 euro) per una ampia visione dei soci del Nikon Camera Club, ripresa a Tokyo, nel 1980, da David Douglas Duncan, in stampa vintage 27x40,1cm; tre aggiudicazioni a quindicimila euro (15.000,00 euro) per tre
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stampe vintage di Elliott Erwitt 17x 25cm, del 1959, relative all’incontro a Mosca di Nikita Khrushchev e Richard Nixon, per una copia vintage 15,4x23,2cm del ritratto di Ernesto Che Guevara, di René Burri, del 1963, e per il ritratto di Muhammad Ali, di Thomas Hoepker, del 1966, in copia vintage 27,5x20,8cm; una aggiudicazione a tredicimila euro (13.000,00 euro), per il ritratto Picasso que un masque d’Horreur, scattato a Cannes, da David Douglas Duncan, nel 1957, in copia vintage 34,2x23,7cm; a dodicimila euro (12.000,00 euro), incontriamo Cabaret “Le Sphinx”, dalla serie Strip-Tease, di Frank Horvat, degli anni Cinquanta, in tre stampe vintage 24,5x17,4cm, 25x19,3cm e 14,3x 39,7cm. Infine, tre vendite a diecimila
Pachinko Doorman, di William Klein, Tokyo, 1961, in stampa vintage 15,2x23cm: 9500,00 euro.
(al centro) Tae Soe Dong, di René Burri, Corea del Sud, 1961, in stampa vintage 16,9x25,2cm: 10.000,00 euro. (in alto) Feast of San Gennaro, Little Italy, New York, 1986, di Bruce Gilden, in stampa vintage 32,8x48,2cm: 5500,00 euro.
euro (10.000,00 euro): soldati statunitensi in libera uscita, in Corea del Sud, nel 1961, in una stampa vintage di René Burri, del 1961; l’esplosione di una bomba in una strada di Belfast, in Irlanda del Nord, fotografata da Abbas, in stampa vintage 49,5x59,5cm; una bandiera confederata, fotografata da William Eggleston, nel Tennessee, nel 1973, in stampa colore Dye transfer 32,4x45cm, del 1996. In linea di massima, limitate ai valori più eclatanti e clamorosi, queste sono le cifre che hanno quantificato lo svolgimento dell’asta 100 Years of Leica, con cento lotti di attrezzatura e altrettanti cento di immagini, svolta da WestLicht Photographica Auction, di Vienna, presso la nuova sede Leica, in Leitz Park, a Wetzlar, nell’ambito della cerimonia inaugurale. Ma, per quanto le cifre possano anche apparire oggettive, non sono questi i valori che certificano del clima e senso della stessa asta, parte consistente delle iniziative allestite con l’occasione del centenario Leica. Quello che conta è altro. Nell’ambito Leica, ciò che sta facendo la differenza, che rivela una personalità niente affatto passiva (ma è vero l’esatto contrario), è la sensazione che taluni aspetti tattici facciano parte di un consistente disegno: di una strategia che affronta il commercio fotografico con un piglio che dà anche valore e opportunità alla fotografia come elaborato creativo. In questo senso, è doveroso riprendere la dichiarazione (di intenti?) espressa da Karin Rehn-Kaufmann, Direttore Artistico Leica Galerie, nel suo discorso alla cerimonia inaugurale della nuova sede (già riferito lo scorso giugno): «Leica produce apparecchi fotografici, per suo mandato esplicito e statutario. Ma non bisogna dimenticare, né trascurare, che -a propria volta- le macchine fotografiche creano immagini». Potrà apparire paradossale, ma è la prima volta che un produttore di attrezzature fotografiche richiama l’immagine (e non contano le parole vuote, stereotipate e di maniera che ci è capitato di percepire in qualche curioso momento italiano). In conclusione, ribadiamo una nostra convinzione. Leica agisce anche nel senso di un convincimento sacrosanto: Io sono fotografia. ❖
Accidenti!
di Karl Taro Greenfeld ( The New York Times, 24 maggio 2014) - traduzione di Lello Piazza
MALEDETTA CULTURA
L
Los Angeles - I can’t help it [non posso farne a meno: incipit che forse prende spunto da una canzone di Michael Jackson]. Quasi una volta al mese, al club al quale è iscritta mia moglie, cambiano libro in lettura. Quando ciò accade, mi viene sempre chiesto un parere e I can’t help it..., lo do. Ma basandomi su che cosa esattamente? Spesso, si tratta di libri che non solo non ho letto, e non ne ho letto neppure una recensione. Ciononostante, mi permetto di parlare dello stile maestoso di Cheryl Strayed [quarantacinque anni, scrittrice statunitense, nota soprattutto per aver scritto Wild: from lost to found on the Pacific Crest Trail, traduzione italiana Wild. Una storia selvaggia di avventura e rinascita], o del sobrio sentimentalismo di Edwidge Danticat [quarantacinque anni, scrittrice haitiano-americana]. Mi baso su pareri che mi arrivano dall’etere, o -più precisamente- da uno dei tanti social media che trovo sul web. Per esempio: cosa è successo sull’ascensore tra Solange Knowles [ventotto anni, cantante, cantautrice e modella] e JayZ [quarantaquattro anni, rapper americano]? Non mi sono nemmeno sognato di andare a guardare il filmato della videocamera di sicurezza su Tmz [www.tmz. com, un gettonatissimo sito di gossip sulle celebrities], anche se non mi avrebbe portato via più di qualche minuto, ma mi è bastato dare una sbirciatina a due o tre siti di chat, per scoprire che Solange ha eliminato dalla sua pagina Instagram le fotografie di sua sorella Beyoncé [trentatré anni, cantante e attrice]. Mi dispiace, ma non ho nessuna intenzione di approfondire questo gossip per voi, andando anch’io a curiosare su qualche sito di chat. E cosa dire del serial televisivo Game of Thrones, e di quel rapporto sessuale non consensua-
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le avvenuto nella cripta? Non mi sono mai sognato di guardare il serial, ma ho scaricato i riassunti delle puntate da Volture.com, e sono pronto a sostenere che quel rapporto è stato disgustoso. Altro esempio: papa Francesco è un papa postmoderno? Non ho mai né letto né ascoltato uno dei suoi discorsi, né ho seguito la sua intervista a 60 Minutes [magazine televisivo Cbs]. Ma ho letto un’infinità di tweet a @Pontifex, e sono pronto ad affermare che le sue posizioni su disuguaglianze e giustizia sociale sono molto progressive. Non è mai stato così facile far credere (o credere) di sapere tutto, senza conoscere nulla. Prendiamo un po’ d’informazione da Facebook, Twitter o da email che ci segnalano questo o quello e, senza neppure controllarla, la ripetiamo a pappagallo. Invece di guardare Mad Men [serial televisivo americano], o una partita del Super Bowl, o la cerimonia degli Oscar, o ascoltare un discorso del presidente, ci limitiamo a leggiucchiare i tweet di qualcuno, o i riassunti sul web, il giorno dopo. Sembra che la nostra cultura si nutra principalmente di ciò che è più cliccato sul web. In un libro uscito nel 1987, Cultural Literacy: What Every American Needs to Know, il suo au-
tore Erick Donald Hirsch Jr ha elencato i cinquemila concetti essenziali -per esempio, 1066, Babbitt, Pickwickian [1066, anno fondamentale per la storia inglese; Babbitt, famoso romanzo americano di Sinclair Lewis, pubblicato nel 1922; Pickwickian ammette vari riferimenti, il principale dei quali è Il Circolo Pickwick, di Charles Dickens]-, che un americano di cultura media dovrebbe conoscere (questo almeno, è quello che credo che Hirsch abbia scritto, non avendo mai neppure preso in mano quel libro). Il libro di Hirsch, con un altro libro, uscito nello stesso periodo, The Closing of the American Mind, di Allan Bloom, fa il punto sul grado di alfabetizzazione dell’americano medio e -soprattutto il secondo- stabilisce quali siano i valori fondamentali sui quali tutti siamo d’accordo. Ma quello che noi oggi sentiamo è la costante pressione che ci costringe a non apparire mai impreparati, su qualunque argomento e in ogni momento. Che ci capiti in ascensore, o a un meeting di lavoro, a un cocktail party, a una pausa pranzo in ufficio. Dobbiamo sentirci in grado di postare, tweettare, chattare, commentare qualunque cosa, come se avessimo visto, letto, ascoltato, vissuto qualunque cosa. Ma
Sì, ha ragione Karl Taro Greenfeld: addirittura, ha ragioni da vendere (chi vuole comprarle?). In effetti, complici molte superficialità dei nostri giorni, l’apparenza di informazione globale, l’apparenza di facilità di informazione globale, va di pari passo con l’approssimazione. Ovverosia, si crede di sapere molto di tutto, senza conoscere veramente niente di niente. Ancora, c’è un altro aspetto della vita odierna, legata e condizionata da monitor (smarphone, tablet...), che va considerato: quello dell’educazione, che poi si proietta -a propria volta- negli strumenti di conoscenza, senza paradosso né in metafora. È proprio così. Se ci pensate, capita sempre più spesso di essere in compagnie dove, invece dello scambio di parole, qualcuno si isola con il proprio monitor. Personalmente, non gradisco: la prima volta, avverto che sarebbe bene rimanere in compagnia di chi sta con noi, in quel momento, fisicamente; se qualcuno continua, lascio la cena, la convivialità, e me ne vado via. Quindi, la connessione frenetica e compulsiva a distanza si riflette sulla conoscenza individuale, perché ci porta a ignorare il presente. M.R.
quello che conta, per noi annegati sotto petabyte di informazione, non è aver vissuto, visto, letto qualcosa in prima persona, ma semplicemente sapere che quel qualcosa esiste, ed essere in grado di discuterne e avere una posizione sull’argomento. In questo modo ci siamo pericolosamente avvicinati a interpretare la parte di chi conosce senza conoscere proprio nulla. Why Doesn’t America Read Anymore?, un Pesce d’Aprile lanciato da Npr [National Public Radio] si è diffuso come un virus su Facebook. È successo che l’intervento di alcuni burloni rendesse più credibile lo scherzo, provocando in questo modo l’intervento di molti altri che protestavano indignati, affermando che loro leggevano, eccome. Incitando tutti ad andare a cliccare sulla storia, senza però farlo loro stessi. Se lo avessero fatto, avrebbero facilmente scoperto che non si trattava altro che di uno scherzo. Sul sito di Npr, infatti, stava scritto: «In redazione, abbiamo spesso la sensazione che il pubblico commenti quello che pubblichiamo senza leggerlo con attenzione. Per favore, se avete letto e capito che la notizia della non lettura è solo uno scherzo, per favore non commentatela. Così, potremo contare quanti sono coloro che la commentano senza averla letta attentamente». Mi domando come non possa succedere tutti i giorni quello che successe il 30 ottobre 1938, quando la Cbs mandò in onda La guerra dei Mondi, interpretato da Orson Welles e tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza di Herbert George Wells. Alle venti in punto, la voce dell’annunciatore interruppe un programma musicale: «Signore e signori, vogliate scusarci per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è
Accidenti! appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle 7,40, ora centrale, il professor Farrell, dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Le indagini spettroscopiche hanno stabilito che il gas in questione è idrogeno e si sta muovendo verso la Terra a enorme velocità». Nonostante i messaggi esplicativi che avevano preceduto la trasmissione, l’andata in onda del programma scatenò una preoccupante ondata di panico. Moltissimi radioascoltatori credettero davvero che si trattasse di un’invasione marziana. Secondo un recente studio dell’American Press Institute (www. americanpressinstitute.org/publications/reports/survey-researchpersonal-news-cycle/), sei americani su dieci ammettono che leggono solo titolo e sommario delle notizie: lo so, perché ho letto solo titolo e sommario dell’articolo a riguardo, apparso sul Washington Post. Purtroppo, succede che, dopo aver saltato il resto dell’articolo, noi postiamo i nostri commenti sul web. Questi commenti iniziano spesso con TL e DR -abbreviazioni per Too Long e Didn’t Read [troppo lungo e non l’ho letto]-, e proseguono con il nostro parere riguardo un argomento che conosciamo molto superficialmente, perché... TL e DR. Questa è anche l’opinione di Tony Haile, amministratore delegato della società Chartbeat, che si occupa di analizzare il traffico sul web: «Abbiamo scoperto che non c’è correlazione tra quello che la gente posta e quello che la gente veramente legge». Paradossalmente, so quello che dice Haile, perché leggo i suoi tweet. Per assolverci un pochino, devo dire che non stiamo veramente mentendo quando -durante un cocktail party, o semplicemente al bar- rispondiamo, come saputelli, a un amico che cita un libro che non conosciamo, o un film che non abbiamo
visto, dei quali non abbiamo neppure letto una critica. Probabilmente, anche il nostro amico non conosce il libro o il film che cita, ma sta semplicemente ripetendo i fattoidi di cui è venuto a conoscenza durante il giorno, grazie a qualche app sul suo iPhone. Chi ha il coraggio di essere così luddista [termine qui usato impropriamente, secondo me] da ammettere che non ha mai letto un libro di Malcolm Gladwell [cinquantuno anni, giornalista americano, autore di bestseller], né di conoscere cosa significa il termine Gladwellian, che lui stesso ogni tanto usa? Quando dovunque e in qualunque occasione, qualcuno cita qualcosa, noi ci sentiamo subito obbligati a mostrare di conoscere l’argomento. La conoscenza sembra essere diventata la nostra moneta di scambio. (E, a proposito di monete, Bitcoin rappresenta il classico esempio di qualcosa che non conosciamo, di cui però tutti parliamo). Chi, come me, lavora nel mondo dell’informazione, raccogliendola, organizzandola, diffondendola, rappresenta il peggior responsabile di questo casino. Per quanto mi riguarda, anch’io sono colpevole. Stavo recentemente parlando al telefono con un redattore di una casa editrice, e citavo un articolo di un autore famoso. Fu però presto chiaro che, nonostante avessi affermato che l’avevo letto, l’articolo non era neppure stato pubblicato, e io mi stavo riferendo solo ai pettegolezzi circolati. E, subito dopo, entrambi abbiamo cominciato a discutere di uno scandalo che aveva coinvolto un politico californiano. Ma nessuno di noi si ricordava il suo nome. Ciò ci ha forse impedito di continuare a discutere pro e contro quello scandalo non ancora accertato? Assolutamente, no! È comprensibile che una o entrambe le persone che stanno discutendo di un argomento, possano avere solo una scarsa competenza riguardo a quello di cui parlano. Siamo tutti molto occupati. Soprattutto da quando cen-
tinaia di email entrano ogni giorno nella mia casella postale, e centinaia, che io stesso invio, ne escono. A causa del tempo che passiamo stralunati davanti al monitor, scrivendo email e tweettando messaggi o postando fotografie, non abbiamo più tempo di occuparci di materiale di prima mano. Ci affidiamo invece a pareri superficiali dei nostri amici o di altri tipi che noi “seguiamo” sui social. O di chi altro, in verità? Chi decide quello che impariamo, che vediamo su Internet, da dove vengono le idee che stiamo facendo circolare come se fossero nostre e originali? C’è il rischio che si tratti di algoritmi matematici messi a punto da Google, Facebook, Twitter e da altri social media a decidere cosa vediamo, leggiamo, compriamo. Le nostre opinioni vengono verosimilmente proprio da questo vizioso circolo di informazioni. E anche se noi due, durante una cena, stiamo discutendo con apparente competenza del film The Grand Budapest Hotel, nessuno di noi l’ha probabilmente mai visto. Non siamo noi due che ci stiamo confrontando, ma i nostri social media di riferimento. È mai possibile che nessuno abbia il coraggio di ammettere che non sa niente di qualche cosa? No, tutti diciamo “ho sentito quel nome”, “questa cosa mi suona familiare”, il che quasi sempre significa “non ne so assolutamente nulla”! Ci fu un tempo nel quale sapevamo da dove veniva quello che sapevamo. Ancora mi ricordo che -quando a scuola studiavo Letteratura Inglese- ci venne chiesto di scrivere una relazione sul romanzo A Tale of Two Cities, di Charles Dickens [Il racconto delle due città, dedicato alla Rivoluzione Francese, vissuta a Londra e Parigi]. Per paura che ci limitassimo a capirne la trama, fummo richiesti di sottolineare i simbolismi contenuti nel testo. Un giorno, mentre me ne stavo in biblioteca a studiare e cercare di scoprire quei simbolismi, vidi che alcuni miei compagni avevano in mano un libretto giallo e nero che titolava Cliff Notes, e,
appena sotto, il titolo del romanzo di Dickens a caratteri cubitali. Quanto c’era scritto in quella guida fu per me una rivelazione. Ci trovai la trama, i personaggi, persino i significati simbolici: tutto organizzato in paragrafi evidenziati da un bollino. In una notte, riuscii a leggere le Cliffs Notes e a scrivere la mia relazione, senza leggere il resto del romanzo. Da quell’esperienza, trassi un insegnamento: non è necessario immergersi e perdersi nel documento vero e proprio, basta esplorarlo in qualche modo per ricavarne materiale grezzo -dati, notizie, quello che serve conoscere-, per poi trasferire le informazioni acquisite agli altri. Quando arriva sul mercato una nuova tecnologia -movable type [un sistema per pubblicare un blog sul web], la radio, la televisione, Internet-, ci sono pianti funebri sulla prossima scomparsa di saggi intelligenti, di libri, riviste, quotidiani. Quello che rende diverso l’oggi dai tempi passati è il fatto che la tecnologia sta sostituendosi ovunque a ogni medium tradizionale. E, grazie alla tecnologia, l’informazione ci arriva in un flusso costante attraverso strumenti che stanno agevolmente nelle nostre mani, in tasca, sul desktop, in automobile. E adesso, attraverso il cloud. Questo flusso non può essere interrotto e fa montare nella nostra vita quotidiana una marea fatta di parole, avvenimenti, giochi, immagini, gossip, radio e telecronache che rischiano di farci affogare. Forse, è proprio la paura di affogare che ci porta ostinatamente a dire, lo so, l’ho visto, lo letto. È la debole convinzione che siamo ancora a galla. Così, eccoci qui, a remare disperatamente, discutendo di ogni Meme di cultura social popolare, perché ammettere che siamo rimasti indietro, che non conosciamo quello di cui tutti stanno parlando, che non abbiamo nulla da dire su ogni effimera notizia che appare sullo schermo del nostro computer, iPhone, iPad, equivale a dichiarare di essere morti. ❖
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COLLEZIONE MARC WALTER / COURTESY TASCHEN VERLAG
Con processi di fotolitografia Photochrom e Photostint, che consentirono tirature in alta quantità, cartoline illustrate hanno offerto le prime raffigurazioni fotografiche a colori degli Stati Uniti (a colori, nel senso di colorate). Le immagini raccolte nella monografia An America Odyssey, dalla collezione di Marc Walter, a cura Sabine Arqué, scandiscono il tempo e ritmo di un viaggio attraverso luoghi, popoli e istanti, dalle praterie alle comunità urbane, dalla vita agreste ai primordi delle metropoli. Ci accompagnano nel vasto e variegato paesaggio del Nord America, dove incontriamo le sue molte comunità, e -soprattutto- ci trasportano indietro nel Nuovo Mondo di oltre cento anni
AMERICA
DELLE ORIGINI
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Anonimo: Un lunedì di bucato; New York (Photochrom). (in alto) William Henry Jackson: Tribù Zuni Pueblo, la danza della pioggia; New Mexico (Photocrom).
(pagina precedente) William Henry Jackson: Homestake Mine; South Dakota (Photochrom).
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di Maurizio Rebuzzini
S
coperta dopo scoperta, tassello dopo tassello, fuori dai confini prestabiliti (i resoconti della Storia della Fotografia, per se stessa, in forma autonoma, ma anche sterilizzata), si compone il fantastico racconto della Storia Sociale della Fotografia, quella che -come ci piace dirla- ha influito e influisce sullo svolgimento della vita, nel proprio insieme e complesso. In effetti, da una parte, ci sono le Storie in quanto tali, molte delle quali (non tutte!) sono perfino autorevoli e accreditate; da un’altra parte, ci sono le esposizioni che, concentrate sul proprio punto di vista, narrano meglio e con maggiore contegno e cipiglio le vicende della Storia della Fotogra-
fia: scoperta dopo scoperta, tassello dopo tassello. In questo senso, la monografia (in multilingue inglese, francese e tedesco... ahinoi) An American Odyssey, a cura di Sabine Arqué, è addirittura esemplare. Non si presenta tanto al mondo fotografico, che può però farlo suo, come stiamo per vedere, ma si rivolge a una sostanziosa genericità di utenti, ai quali -tramite la Fotografia- offre l’avvicinamento di un mondo, al Nuovo Mondo, ai propri albori, ovvero primordi di uno sviluppo sociale, che in poco più di cento anni è passato dall’edificazione di una nazione all’affermazione politica (e non solo questa) planetaria.
FOTOGRAFIA SOCIALE Terza ripetizione, d’obbligo: scoperta dopo scoperta, tassello dopo tassello. Il corpus di illustrazioni che
COLLEZIONE MARC WALTER / COURTESY TASCHEN VERLAG (3)
compongono l’ossatura della avvincente e convincente selezione An American Odyssey non è composto da fotografie estranee a qualsivoglia percorso concreto, ma da cartoline (per lo più) ricavate da fotografie e distribuite/diffuse in maniera e misura capillare. Salvo qualche esempio, rimasto in un bianconero originario (o monocromo vicino al bianconero), si tratta di fotografie colorate, per visualizzare, nella propria cronaca sociale, il Nuovo Mondo: quello che oggi identifichiamo come Stati Uniti d’America. Tutte queste cartoline, realizzate con i processi in tiratura Photochrom e Photostint (delle origini), provengono dalla collezione privata di Marc Walter, graphic designer e fotografo, ma -soprattutto- raccoglitore di fotografie d’epoca di viaggio, in particolare Photochrom (eccoci!), delle quali vanta una delle
più intense selezioni esistenti al mondo. Ed eccolo qui, il valore sociale di queste immagini: realizzate per essere diffuse in migliaia, centinaia di migliaia di copie, non per restare nel cassetto. Comunque la si consideri -e personalmente la consideriamo bene-, la cartolina illustrata ha questo straordinario valore: quello di aver raggiunto folle di persone, di utenti. E qui, subito, corre l’obbligo di una precisazione, magari di due. Anzitutto, non si faccia soltanto gloria e grandezza della cartolina, la cui storia statunitense è minata da un capitolo a dir poco terrificante: quello delle cartoline-ricordo dei linciaggi di afroamericani, prodotte all’indomani degli eventi (terribile, quanto straordinario casellario: Without Sanctuary. Linching Photography in America, a cura di James Allen, Hilton
William Henry Jackson: Mount Lowe Railway, sul ponte circolare; California (Photochrom).
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Anonimo: Panorama di San Francisco (Photochrom).
Anonimo: Tre Grazie, Mariposa Grove; Yosemite National Park, California.
William Henry Jackson: Grand Canyon, da O’Neill Point; Arizona (Photochrom).
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Als, Leon F. Litwack, con il contributo del congressista statunitense John Lewis, pubblicato nel 2000). Quindi, e ancora, non si faccia altrettanto gloria e grandezza della cartolina turistica moderna, solitamente allineata ai documentari televisivi turistici e alle ambientazioni di film e telefilm, che ripropongono le stesse icone per ogni destinazione e hanno creato una memoria collettiva uguale per tutti sulle città del mondo. Sembra quasi che, visitando una città, i turisti debbano avere una conferma di quello che hanno già visto sulle riviste e sentano la necessità di vedere tutto come un investimento per la spesa fatta per il viaggio. Turisti che vogliono rimanere al di fuori della città e non entrare in contatto con l’essenza stessa della città (a differenza, la fotografia d’autore ha agito e agisce ancora in modo diverso).
LA FRONTIERA (CIRCA)
Comunque, è affascinante (ri)scoprire le prime fotografie a colori (colorate) del Nuovo Mondo, ordinatamente censite e pubblicate nell’ottima raccolta An American Odyssey, con la quale l’immancabile e intrepido Taschen Verlag (sempre più lui!) aggiunge un affascinante tassello anche al racconto della Storia della Fotografia. Attribuite a fotografi noti e conosciuti, molti dei quali considerati in qualsivoglia percorso critico (a partire da William Henry Jackson, ricordato e celebrato da tutti), o non assegnate (dunque di autori anonimi, con tutto il carico relativo: Visioni anonime, in FOTOgraphia, del febbraio 2008), le immagini in forma di Photochrom e Photostint di An American Odyssey compongono i tratti di un racconto
COLLEZIONE MARC WALTER / COURTESY TASCHEN VERLAG (3)
limpido e brillante, oltre che lieve. In generale, si tratta di produzioni attribuite alla Detroit Photographic Company, che le realizzò tra il 1888 e il 1924. Da originali bianconero, o comunque monocromo (seppia o intonazioni proprie e caratteristiche dei materiali da stampa di fine Ottocento - inizio Novecento), la colorazione a mano ha preceduto di almeno due decenni il primo processo fotografico a colori effettivamente utilizzabile, giorno per giorno: l’Autochrome in sintesi additiva, del 1903, dei fratelli Auguste Marie Louis Nicolas e Louis Jean Lumière (che nel 1895 avevano già inventato il cinema: hai detto poco!). Comunque sia, utilizzando un processo di fotolitografia che consentì tirature in alta quantità, questi Photochrom e Photostint (delle origini) hanno offerto le prime raffigurazioni fotografiche a colori degli
Tra le cartoline della collezione di Marc Walter, raccolte nella monografia An American Odyssey, a cura Sabine Arqué, oltre tanti soggetti di autori sconosciuti, che rimangono anonimi, un sostanzioso corpus di soggetti è attribuito a William Henry Jackson (1843-1942), uno dei pionieri della fotografia di frontiera. La sua figura è tanto impressa nella cultura statunitense (non solo fotografica), che il foglio filatelico dei venti soggetti Masters of American Photography, emesso il 13 giugno 2002 [compreso nel casellario ragionato e commentato Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, di imminente pubblicazione], è introdotto da una sua posa (si presume che sia lui; oppure, comunque, la fotografia è sua), dietro il vetro smerigliato della sua macchina fotografica, a Glacer Point, nel 1888 o 1889. Con il proprio apparecchio di grandi dimensioni, il fotografo è precariamente in equilibrio su un picco dell’Overhanging Rock, tremiladuecento piedi sopra la Yosemite Valley. Dotato di un’acuta capacità di apprezzare le viste naturali, William Henry Jackson fece della fotografia sul campo un proprio stile di vita e si impose con affascinanti paesaggi dell’Ovest americano. Questa immagine sensazionale simboleggia efficacemente alcune delle sfide che i fotografi della frontiera hanno affrontato, ricercando i propri soggetti e i relativi punti di vista più adeguati. Nella messa in pagina di An America Odyssey viene presentato un altro gruppo di fotografi anonimi, nella stessa situazione, che fu adottata anche per un ritratto ambientato dell’attrice inglese Lily Langtry, attribuito a Taber Photo. In questo ordine.
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Anonimo: Attracco sul Mississippi; Vicksburg (negativo su vetro, 1900-1906).
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Anonimo: Mulberry street; New York (Photochrom).
An American Odyssey; dalla collezione di Marc Walter; a cura di Sabine Arqué; Taschen Verlag, 2014 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); edizione multilingue (inglese, francese, tedesco); 612 pagine 29x39,5cm, cartonato; 150,00 euro.
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Stati Uniti (a colori, nel senso di colorate): gli intensi ocra e marrone del Grand Canyon, il bagliore di Atlantic City, la tenue luce dei grandi spazi composero un piacere visivo che -per la prima volta- superava tempo e spazio. Viste e quadri naturali non solo per i testimoni oculari, ma per tutti: come e quanto la fotografia ha influenzato e influenza la vita. Oggi, a distanza di cento anni abbondanti (più o meno), un altro balzo nel tempo: reiterata scoperta di una fantastica avventura. Ed è questa la chiave interpretativa che riporta al mondo fotografico questa monografia, altrimenti orientata: le immagini raccolte in An American Odyssey scandiscono il tempo e ritmo di un viaggio attraverso luoghi, popoli e istanti, dalle praterie alle comunità urbane, dalla vita agreste ai primordi delle metropoli. Ci accompagnano
nel vasto e variegato paesaggio del Nord America, dove incontriamo le sue molte comunità, e -soprattutto- ci trasportano indietro nel Nuovo Mondo di oltre cento anni fa, ai suoi albori. Più di seicento pagine di generose dimensioni (29x39,5cm) raccolgono una straordinaria quantità e qualità di materiale iconografico, offerto con impagabile attenzione editoriale, arricchita da diverse facciate fold-out, che si aprono su se stesse per dare risalto e ragione anche alle raffigurazioni panoramiche. Insomma, e a giro tondo: scoperta dopo scoperta, tassello dopo tassello, fuori dai confini prestabiliti, si compone il fantastico racconto della Storia Sociale della Fotografia, quella che ha influito e influisce sullo svolgimento della vita, nel proprio insieme e complesso. ❖
RITORNO AL GRANDE FORMATO
Ritorno al grande formato, workshop a cura di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini. Bam - Bottega Antonio Manta (Laboratorio di stampa Fine Art), via Ammiraglio Burzagli 229, 52025 Montevarchi AR; www.bottegamanta.com. 27 e 28 settembre.
Solstizio d’estate. Lo scorso ventuno giugno, presso la Bottega Antonio Manta, di Montevarchi, in provincia di Arezzo, si è svolto un incontro introduttivo di un programma di risveglio di condizioni fotografiche del passato, anche remoto: senso e valore individuale ed espressivo della fotografia in grande formato, declinata non più per le sue evidenti e oggettive utilità del passato prossimo, dallo still life alla fotografia di architettura e industriale, ma per le sue componenti di lentezza, concentrazione e disciplina. Forse, addirittura di etica di Maurizio Rebuzzini
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ertamente, non è il caso di fare finta che. Non è il caso di fare finta di niente. A partire da un punto di vista tecnico-commerciale, che presto si proietta verso e sull’espressività del linguaggio applicato e svolto, è inutile -non soltanto superfluo- ignorare la realtà fotografica dei nostri giorni (in pieno Duemilaquattordici). Annunciata da Akio Morita, presidente della Sony Corporation (da lui fondata, nel 1946, con Masaru Ibuka), il 24 agosto 1981, e arrivata a maturazione/compimento nei decenni a seguire, oggigiorno, la tecnologia di acquisizione (e gestione) diPer quanto, in casa Sinar, nobile produzione da Shaffhausen, all’estremo nord della Svizzera, la genìa Sinar-p e Sinar p2 abbia interpretato e applicato tecnologie geometriche dell’accomodamento ragionato e controllato dei corpi mobili, fino ad affermarsi come l’interpretazione più efficace a banco ottico, la lievità della costruzione Sinar Norma, qui in configurazione primi anni Cinquanta, è sicuramente più congeniale al fatidico e volontario e arbitrario Ritorno al grande formato, proposto e sollecitato dalla Bottega Antonio Manta, di Montevarchi, in provincia di Arezzo.
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Richard Avedon, in copertina di Newsweek, del 16 ottobre 1978: con Sinar Norma.
Sinar p2 8x10 pollici (in alto, a sinistra), dettagli Sinar Norma (in alto, a destra), Horseman 450 LX (qui accanto): per un avvincente Ritorno... arbitrario.
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gitale di immagini è inviolabilmente sostitutiva della lunga storia chimica (materiali sensibili alla luce e contorni e dintorni), evolutasi a partire dal 1839, di nascita ufficiale della fotografia, in forma originaria di dagherrotipo. Questa registrazione, che datiamo oggi, in curiosa ricorrenza del centosettantacinquesimo anniversario (per l’appunto, 1839-2014), è dovuta, oltre che doverosa. Senza alcuna animosità, lontani da qualsivoglia nostalgia (fine a se stessa), estranei a inutili controversie e contrapposizioni, siamo qui a registrare che la storia (fosse anche solo quella tecnologica) va comunque avanti, con o senza di noi. Però! Però, con altrettanta pacata e lieve serenità, siamo qui anche ad affermare come e quanto a qualcuno piaccia attardarsi con compagnie fotograficamente storiche: del passato, sia prossimo, sia remoto, che da questo stesso passato avvolgono il presente con un’aura che arricchisce e impreziosisce le nostre esistenze. Ancora, e sia chiaro una volta per tutte, una volta ancora, una di più, mai una di troppo: non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, al-
cun conflitto (ieri contro oggi) ma -molto più concretamente- invitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen; Adelphi, 2014). Fino a qualche stagione fa utensile indispensabile e irrinunciabile del professionismo fotografico, oggigiorno, la configurazione grande formato a corpi mobili (dotati di movimenti controllati di decentramento e basculaggio dei piani principali) si offre e presenta con altri connotati, si ripropone per altra personalità. In questo senso, il Ritorno al grande formato, che qui e ora la Bottega Antonio Manta, di Montevarchi (Laboratorio di stampa Fine Art), suggerisce e richiede, è da interpretare sia per se stesso (l’attardarsi sul passato può anche limitarsi a questo), sia come autentica e privilegiata e autorevole base strumentale per eventuali e successive proiezioni in allungo, verso la chimica, fino a quei processi fotografici che la Storia conserva tra le proprie fronde, che il lessico fotografico ha declinato e definito con ammirevole creatività. In questo senso, la conoscenza di princìpi ope-
Nell’ambito della costruzione grande formato folding, si segnalano anche configurazioni da usare a mano libera (ma non è questo il Ritorno): Linhof Technika Studio 70, dal 1964, per riprese in 6x9cm (su pellicola a rullo 120/220), qui con mirino sportivo e Voigtländer Apo-Lanthar 100mm f/4,5.
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rativi è ancora utile, forse addirittura necessaria, per l’interpretazione attuale della fotografia in grande formato e con il grande formato... qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi. Si tratta di semplici condizioni geometriche, la maggior parte delle quali perfino intuitive, che dirigono e governano la raffigurazione e rappresentazione del soggetto, anzitutto composto e inquadrato con efficace restituzione prospettica, in altre situazioni e condizioni inteso con opportuna e consapevole nitidezza (oppure, all’opposto, con distribuzione personalizzata di piani di sfocatura volontaria, collaudata e indirizzata).
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PER L’APPUNTO, RITORNO Ripetiamolo ancora. Queste fasi/procedure operative sono state indispensabili alla fotografia professionale in tempi chimici, di pellicola fotosensibile: soprattutto in indirizzi specifici, quali lo still life, in sala di posa, e la fotografia di architettura, d’arredamento e industriale, in location. Con medesima intenzione, ma diversa impellenza -questo va riconosciuto-, la stessa base operativa si applica agli intendimenti attuali della fotografia grande formato, nella sua ipotizzata frequenta-
zione arbitraria dei nostri giorni, dove e quando non è più necessaria, né tantomeno richiesta, ma frequentata in altro senso: per attardarsi con modalità di esecuzione fotografica estranee all’incessante ritmo delle lancette che scorrono rapide sul quadrante dell’orologio. Perché usare apparecchi grande formato, dal 4x5 all’8x10 pollici (in trascrizione, dal 10,2x12,7cm al 20,4x25,4cm), in un’epoca di automatismi fotografici esuberanti, di acquisizione digitale di immagini e di istantanee da social network? Quali sono le motivazioni che spingono a fotografare con ingombranti e impegnativi apparecchi a banco ottico, oppure folding? Da cosa dipendono il piacere e gusto di regolazioni completamente manuali, dall’esposizione all’accurata messa a fuoco? Per tutto questo risponde il senso e la consapevolezza di attardarsi su e con qualcosa di fisico ed emozionante. Al proposito, ricordiamo e richiamiamo l’esperienza di un autore significativo, prematuramente scomparso nel 1988, a cinquantotto anni, che accompagnava le proprie immagini con riflessioni teoriche sugli strumenti e il significato del gesto fotografico: «L’uso degli apparecchi grande formato rappresenta una forma
La Deardorff 8x10 pollici in legno (20,4x25,4cm) è una delle leggende della fotografia grande formato, celebrata anche nel francobollo statunitense dedicato alla Fotografia, emesso il 26 giugno 1978 (su questa colonna, in alto). Quindi, citazione leggera, sulla copertina di GQ, dell’aprile 2006, e sostanziose testimonianze d’uso: Joel Meyerowitz, a Ground Zero [ FOTOgraphia, novembre 2006 e settembre 2011], e Richard Avedon, sulle copertine di United (mensile delle linee aeree United Airlines), del luglio 1986, e The Magazine (allegato domenicale del Sunday Times), del 26 settembre 1993.
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Reinhart Wolf sul tetto di un edificio newyorkese. Dall’alto, in asse rispetto i soggetti, ha fotografato le cime dei palazzi della città, sulle quali gli architetti hanno potuto sbizzarrirsi, per esprimere efficacemente sontuose ricchezze. Il fotografo tedesco è al vetro smerigliato di un banco ottico Sinar Norma 13x18cm, che ha alternato all’8x10 pollici (20,4x25,4cm), inquadrando sempre con obiettivi di lunga focale, da 360 a 1000mm. Qui siamo nell’ordine di almeno
800mm, con doppia struttura di sostegno del pesante obiettivo. Questo progetto fotografico è stato riunito e pubblicato nella avvincente monografia New York, con prefazione di Edward Albee, testi di Sabina Lietzmann e una intervista di Andy Warhol. È rintracciabile in riedizione Taschen, del 2002 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; www.libri.it); 80 pagine 20x42cm; 14,99 euro.
8X10 POLLICI FOLDING: L’ULTIMA!
Fortemente voluta dal pistoiese Giancarlo D’Emilio, che da lungo tempo frequenta la fotografia grande formato, sia in senso professionale, sia in quello didattico (avendo svolto e svolgendo autorevoli workshop di uso e logiche), la StenopeiKa 810S, che abbiamo anticipato lo scorso aprile, non è soltanto la più recente configurazione per fotografia grande formato: molto probabilmente, è anche l’ultima di una luminosa genìa, che affonda le proprie radici indietro nei decenni, fino a richiamarsi alle stesse origini della Fotografia. Come la sua identificazione certifica, la StenopeiKa 810S nasce in un contenitore e all’interno di una personalità produttiva che si richiama alla fotografia senza obiettivo; per l’appunto, con foro stenopeico (www.stenopeika.com). E questa 8x10 pollici (20,4x25,4cm) propone -a propria voltauna versatile dotazione di fori stenopeici a scelta e per necessità, con diametro allineato a diversi tiraggi al piano focale: in finalizzazione alla massima qualità formale possibile. Va annotato che la gamma di fori stenopeici è stata preordinata da Silvestri Fotocamere, di Montespertoli, in provincia di Firenze, realtà italiana capace di frequentare la fotografia contemporanea senza alcuna soluzione di continuità, dalle applicazioni utilitaristiche con dorsi digitali, e fantastiche configurazioni a corpi mobili, fino alla fotografia senza obiettivo, in interpretazione arbitraria e trasgressiva. Comunque, l’attuale e efficace e avvincente e convincente StenopeiKa 810S, che si aggiunge all’offerta differenziata, che già propone una affascinante quantità e qualità di configurazioni [FOTOgraphia, maggio 2012], promette e concede una struttura modulare, ereditata dalla lunga e nobile storia degli apparecchi fotografici grande formato, con costruzione folding (a base ribaltabile, per trasporto confortevole e pratico). A parte la piastra porta obiettivi con fori stenopeici in torretta (o foro stenopeico fisso), opportunamente in diametro adatto a diversi tiraggi al piano focale, la StenopeiKa 810S può utilizzare anche obiettivi tradizionali, su piastra porta ottica di antica memoria: di ogni produzione tra quante hanno definito il passato prossimo e remoto della fotografia grande formato. La sua costruzione folding prevede che l’apparato si ripieghi a valigetta, con maniglia di trasporto ricavata nello stesso corpo macchina: dimensioni chiuse 37x34x20cm, peso 4,5kg. Indirizzata sia alla fotografia arbitraria (foro stenopeico / pinhole), sia alla fotografia antica (con processi ripresi da operatività ottocentesche: dal collodio umido, per il quale è disponibile
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un efficace châssis finalizzato e dedicato), sia alla fotografia tradizionale, la StenopeiKa 810S -costruita in Mdf o multistrato di betulla- è realizzata due versioni: Basic, con accoppiamento dorso-châssis ad elastici; Top, con accoppiamento dorso-châssis a pressione e vetro smerigliato 8x10 pollici (20,4x25,4cm) di visualizzazione. Estensione al piano focale da 10cm a 53cm, con sostanziosi movimenti dei corpi mobili, anteriore (porta obiettivo) e posteriore (focale): il corpo anteriore è dotato di rotazioni di basculaggio di venti e trenta gradi nelle due direzioni orizzontali e di trenta e trenta gradi nelle due direzioni verticali; sempre il corpo anteriore decentra di nove più nove centimetri in orizzontale e sette più sette centimetri in verticale. Il corpo posteriore è privo di decentramento, e offre un basculaggio di dodici più trenta gradi attorno l’asse orizzontale. Insomma... sostanzioso Ritorno al grande formato. Ne riparleremo.
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di resistenza agli automatismi che caratterizzano sempre di più la fotografia contemporanea: una tacita protesta contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite». Infatti, quando si fotografa in grande formato, i tempi si dilatano e i ritmi si distendono: si raggiunge quello stato d’animo contemplativo, tanto adatto alla fotografia di paesaggio e -comunque- alla fotografia meditata. Le stesse condizioni fisiche del lavoro, per tanti versi addirittura imposte dal mezzo che si usa, influiscono in modo determinante sui risultati. A questo proposito, siamo perentori: al contrario delle reflex o delle macchine fotografiche a mirino che, soprattutto se usate a mano libera, senza treppiedi, inducono a uno sguardo veloce e dinamico, pronto a cogliere l’insieme piuttosto che il particolare, gli apparecchi grande formato impongono tutt’altra attenzione. L’immagine che si forma sul vetro smerigliato -plastica e ricca di sfumatureobbliga lo sguardo a una composizione ragionata e attenta a ogni particolare, anche minimo. Il momento dello scatto è il gesto finale di un la-
borioso processo, che comincia quando si immagina interiormente ciò che si vuole esprimere. Una volta ipotizzata e preventivata una certa ripresa, si prepara l’attrezzatura e si parte: tra apparecchio, obiettivi, châssis, accessori e treppiedi si viaggia carichi di pesanti valige. Raggiunta la meta, si scarica il tutto e si monta la macchina fotografica sul treppiedi. Si individua il punto di osservazione e si studia l’inquadratura. Comincia allora la fase più entusiasmante dell’intero processo: l’osservazione della proiezione sul vetro smerigliato: la contemplazione dell’immagine aerea sul vetro smerigliato è una delle esperienze compositive più appaganti. È la quintessenza stessa della fotografia. Scelta l’inquadratura, ci si dedica alle minuziose regolazioni micrometriche (anche decentramento e basculaggio, se servono) e si mette a fuoco sul vetro smerigliato. Quindi, si procede alla misurazione della luce: un’operazione di fondamentale importanza, che va compiuta con il massimo scrupolo. Quando è possibile, a diffe-
Oggigiorno, per il proposto e consigliato Ritorno al grande formato, oltre una sostanziosa quantità e qualità di apparecchi fotografici del passato (anche remoto), si ha a disposizione una considerevole quantità e qualità di obiettivi, tra i quali si possono addirittura individuare quelli del passato soprattutto remoto, in tempi di affascinanti interpretazioni ottiche: diciamo, almeno prima metà del Novecento.
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Uno dei set volanti del progetto fotografico In the American West, di Richard Avedon (Yukon, Oklahoma, 16 giugno 1980: nei pressi di un distributore di benzina, per il ritratto di Bill Curry, operaio incontrato lungo la Interstate 40): «Ho fotografato i miei soggetti davanti a un fondale bianco, momentaneamente assicurato a una parete, a un edificio, a volte sul fianco di un camion. Ho lavorato in luce diffusa, perché la luce diretta del sole avrebbe creato alte luci, ombre e intonazioni che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dell’osservatore. Ho scattato con una Deardorff 8x10 pollici in legno, fissata su treppiedi: folding moderna per pellicole piane, niente affatto diversa dagli apparecchi antichi usati da Edward Sheriff Curtis, Mathew B. Brady e August Sander». Su design di Marvin Israel, la monografia In the American West,
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di Richard Avedon (copertina e retro), è stata pubblicata nel 1985. Un intenso backstage delle sessioni fotografiche allestite da Richard Avedon nell’Ovest degli Stati Uniti, dal 1979 al 1984, dove e quando ha realizzato uno straordinario capitolo della fotografia contemporanea, è stato realizzato da Laura Wilson: relativa monografia Avedon at Work in the American West, con prefazione di Larry McMurtry (Harry Ransom Humanities Research Center Imprint Series / University of Texas Press, 2003 [ FOTOgraphia, dicembre 2012]). Infine, da Celebrating the Negative, di John Loengard (straordinaria monografia della quale ci siamo occupati nell’ottobre 2012), il negativo 8x10 pollici del ritratto dell’apicoltore Ronald Fischer, tenuto dalle mani dell’autore Richard Avedon (New York City, 3 maggio 1994).
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renza di coloro i quali si basano soltanto sulla luce riflessa, è preferibile misurare soprattutto la luce incidente; invece, quando si è costretti a misurare la luce riflessa, allora si utilizzi un esposimetro spot, a lettura selettiva. Non si deve dimenticare, inoltre, di posizionare correttamente l’indispensabile paraluce (spesso del tipo compendium a soffietto, che si adatta alle diverse focali). Impostati il tempo di otturazione e l’apertura del diaframma, si chiude manualmente l’otturatore centrale e lo si mette in carica meccanica, si inserisce lo châssis nel dorso di formato e si estrae il volet. Soltanto a questo punto si è pronti per scattare. È un rito. L’esecuzione di questi lunghi preliminari, il compimento di questi gesti, che i cultori del grande formato ripetono ogni volta, per ogni scatto, dispone a quella cura meticolosa alla quale abbiamo già accennato: induce alla ricerca della perfezione. Proprio in virtù dell’oggettiva laboriosità dei preparativi (che presto diventano naturali), l’apparecchio grande formato genera uno stato d’animo posato e riflessivo. Infatti, come abbiamo appena annotato, i mezzi tecnici dei quali ci si avvale condizionano lo sguardo e i risultati stessi del lavoro fotografico.
Di fatto, ogni fotografia contiene in sé tutti i pensieri, i gesti, le emozioni che ne hanno preceduto e accompagnato la realizzazione: anche la fatica di trasportare l’attrezzatura e la disciplina con la quale si è allestito l’apparato di ripresa... tutto, proprio tutto, finisce nell’immagine. Il lavorio paziente di questo modo di fotografare costituisce un rito che richiama alla mente la spiritualità Zen. Daisetz Teitaro Suzuki (1869-1966), considerato il massimo divulgatore in occidente dell’antica disciplina orientale, afferma che «Uno degli elementi decisivi nell’esercizio delle pratiche spirituali è il fatto che queste non perseguono alcun fine pratico, ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima». È proprio questo lo spirito che anima il Ritorno al grande formato : non una semplice scelta tecnica, ma -piuttosto- uno stile di vita, un modo di essere che pone al centro della propria attenzione la ricerca dell’accuratezza formale: una delle doti che Italo Calvino, straordinario narratore e osservatore della vita, considerava costitutive dell’intelligenza. Insieme all’immaginazione e all’ironia. Da cui... il Ritorno ! ❖
Tra gli obiettivi particolari del passato, la fotografia grande formato propone e offre anche il fantastico Rodenstock Imagon, qui raffigurato sia nella sua configurazione più recente, su otturatore Copal 3, sia in una serie di configurazioni remote. Evoluzione dell’originario Imagonal, disegnato da Franz Coblitz, nel 1906, il progetto ottico del Rodenstock Imagon è attribuito al fotografo tedesco Heinrich Kuehn (nato Carl Christian Kühn; 1866-1944), esponente del pittorialismo di inizio Novecento, membro dell’aristocratico Vienna Kamera-Club e della autorevole confraternita inglese The Linked Ring (The Brotherhood of the Linked Ring). Firmato dall’ingegner Franz Staeble, il disegno ottico del Rodenstock Imagon (due lenti accoppiate in un unico gruppo) è datato al 1928. Sempre completo di diaframmi selettori (H, da Helligkeit, ovverosia luminosità), per immagini a sfocatura periferica differenziata, sovrapposta a una immagine centrale nitida, è stato realizzato in diverse lunghezze focali, dal 120mm al 300mm, per la copertura di formati fotografici fino all’8x10 pollici.
Annotazione: annunci La forma per il contenuto, realizzati da Fujifilm, New Old Camera e FOTOgraphia in declinazioni volontarie e consapevoli tra oggi (domani) e ieri, sempre con Rodenstock Imagon 300mm H=5,8 degli anni Quaranta.
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CHRISTOPHER MAKOS
dal 1971 Andy Warhol fotografa con Polaroid Big Shot Bobby Houston per la serie Sex Parts (1977)
Polaroid Big Shot
www.newoldcamera.com
di Lello Piazza
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on sono molti che possono cominciare un’intervista con «Da quarant’anni». Ne ricordo una, rilasciata dal poeta e sceneggiatore Tonino Guerra al settimanale Sette: «Da quarant’anni, cerco risposte; voglio sbarcare da qualche parte, per vivere in modo diverso. Ho pensato a Tbilisi e anche a New York. E invece, in questi giorni, ho attraversato un ponticello sul Presale, che è un’affluente del Marecchia, e sono arrivato a calpestare le foglie di un orto disordinato e accogliente. Magari era destino che finissi lì. Mi sono trovato con gli occhi tra i cardi e le mele ammalate, che il vecchio Eliseo posava sui mucchi di foglie secche per vedere se la parte verde riusciva a maturare o sarebbe stata invasa dal marcio. A molti farebbe bene arrivare in un orto di campagna».
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Cosa c’entra questo con Edoardo Romagnoli, il nostro personaggio? Intanto, c’entra perché l’intervista, che mi ha rilasciato in occasione della mostra Grafico foto grafico, inizia con «Da quarant’anni, raccolgo i miei doodles»: e, quarant’anni ostinatamente dedicati a un proposito vanno osservati e valutati con rispetto. Poi, nelle parole di Tonino Guerra, c’è un senso panico del mondo che ci circonda, che è altrettanto prepotentemente presente in Edoardo Romagnoli. Lo si legge nei suoi lavori sulla luna [FOTOgraphia, settembre 2011], per i quali è soprattutto noto, ma anche per le sue immagini di fiori e alberi, e per gli scatti straordinari eseguiti durante le Performance, in particolare quelli dove si immerge nella terra, tra i sassi, diventando un elemento del paesaggio naturale. Però, queste divagazioni mi stanno portando lontano dal soggetto dell’intervista, cioè la mostra Grafico foto grafico, allestita
In occasione della mostra Grafico foto grafico, allestita a Torino, incontro con l’autore Edoardo Romagnoli, che da quarant’anni raccoglie i suoi doodles (per l’appunto, scarabocchi): quarant’anni ostinatamente dedicati a un proposito vanno osservati e valutati con rispetto. Godiamoceli, alternando la visione tra loro e le immagini della luna
SCARABOCCHI
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a Torino fino al venti settembre, presso la galleria Riccardo Costantini Contemporary, in via della Rocca 6/b, come elemento di una più ricca personale intitolata L’una Luna. Tornando, dunque, a Grafico foto grafico, «È la prima volta che espongo insieme le fotografie della luna e i doodles... ci vuole un bel coraggio», mi dice Edoardo Romagnoli, come se avesse combinato una marachella. Curata da Marina Mojana, la mostra ha avviato il proprio itinerario espositivo sulla Wall della Galleria Campari, in via Sacchetti 20, a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, della quale è direttore Paolo Cavallo. Doodle, letteralmente scarabocchio, è il sostantivo che viene usato per indicare i disegni che si tracciano, quando la mente è apparentemente occupata in qualcosa d’altro. Esempi classici di doodles si trovano sui pezzetti di carta, che si scarabocchiano durante una lunga telefonata. Edoardo Romagnoli conserva i suoi, da quarant’anni, e il suo studio è pieno di scatole, a propria volta zeppe di foglietti, post-it, ritagli di cartoncino, pezzi di plastica, sui quali appaiono strani segni, dall’aspetto intrigante. Non si tratta solo di disegnini, ma -a volte- di piccole sculture simili agli origami, realizzate piegando in modo articolato e ragionato un foglietto di carta; altre volte, di collage ottenuti strap-
pando la carta in strisce dalle forme svariate, ricomposte poi seguendo un inconscio senso dell’astrazione. Né le fidanzate, né i figli sono riusciti a buttarglieli via. Li ha raccolti -uno per uno- in un cassetto della scrivania. Poi, quando il cassetto era stracolmo, li ha trasferiti in una nuova scatola. Questo è accaduto senza una ragione, circa vent’anni prima che, nel 1993, gli venisse in mente di esporne una piccola collezione, presso la galleria Arte e Altro, di Bruno Gossetti, a Milano, dove fu notata da Rossana Bossaglia, uno dei grandi esperti italiani di arte moderna e contemporanea. Ridotta (a dodici esemplari) è anche la quantità di doodles originariamente presentati alla Galleria Campari. «Dimmi qual è la tua idea», mi chiede Edoardo Romagnoli, a proposito della curiosità che ho espresso vedendo l’accostamento con le fotografie della luna. Gli rispondo che non ho idee; ho visto una cosa che mi piaceva, e volevo solo saperne di più: aborrisco le elucubrazioni interpretative da anteporre al pensiero dell’autore. Un passo indietro mio, un passo avanti suo. «Innanzitutto -comincia Edoardo Romagnoli-, mi sembra che nella mostra regni il rigore, un rigore essenziale, senza sbavature». Ribatto che, pur essendomi piaciuto l’accostamento, trovo le
IN COMPLETAMENTO
Accanto all’articolo, propongo questo riquadro, con il testo ridotto al minimo, limitato alle didascalie di alcune immagini. Lo faccio, per dare rilevanza visiva a quanto citato nell’articolo stesso. Per esempio, inserisco un campione di Composizione, di Kandinsky. Poi, aggiungo una fotografia da una Performance, nella quale Edoardo Romagnoli si immerge nella terra, tra i sassi. Ricordo che doodle indica un soggetto importante che ha valenze storiche e che si è meritato una voce sulla straordinaria enciclopedia online Wikipedia. A questo proposito, propongo anche il disegno scelto dallo staff di Wikipedia per illustrare il concetto di doodle. Infine, concludo con uno scatto dei fiori, di Edoardo Romagnoli.
Dalla voce Doodle, di Wikipedia: Doodle di Luise von Mecklenburg-Strelitz, regina di Prussia, 1795 circa (particolare, dal soggetto originario).
Wassily Kandinsky: Studio per un quadro dal bordo bianco; Mosca, 1913 (particolare, dalla composizione originaria).
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Edoardo Romagnoli: Self Stone Terapy; Corsica, spiaggia di Nonza, 2005.
Edoardo Romagnoli: Iris; Orticola, Milano, 2013.
lune un po’ ortogonali ai doodles, come si trattasse di due esposizioni distinte e non di una sola mostra. «Perché li hai messi insieme? Le forme inspiegabili dei doodles mi ricordano le Composizioni dell’ultimo Kandinsky [in altre grafie, Kandinskij]. Nonostante la loro apparente casualità, l’origine dei doodles mi fa venire in mente quello che l’artista russo diceva: “La vera opera d’arte nasce dall’artista in modo misterioso, enigmatico, mistico”. Aggiungendo subito che: “[L’opera d’arte] non è un fenomeno casuale, ma ha -come ogni essere- energie creative, attive”. Un’energia che viene dal tuo dentro. Mentre, nelle fotografie della luna ho l’impressione che l’energia venga da fuori, dal pianeta notturno, e che sia la luna a tirarti per la giacca, a invitarti a danzare». Ecco che ancora prevarico l’autore. Parlami Edoardo, io mi zittisco. «Il motivo per cui li ho messi insieme sono due, o tre», afferma, pronunciando una specie di calembour sgrammaticato. «Intanto, mi sento rappresentato sia dalle lune sia dai doodles, che ho provato a esporre insieme a pochi originali, per esempio, l’anno scorso, a The Others. Si è trattato di una manifestazione collaterale di Artissima, che prevedeva quarantasette mostre distribuite nelle celle, nei seminterrati, nei cortili interni dell’ex carcere sabaudo Le Nuove, di Torino, un luogo da incubo...
e meraviglioso. Io avevo a disposizione una cella intera, dove ho esposto una loro rielaborazione. «Il processo attraverso il quale arrivo a queste rielaborazioni funziona così. Spesso, riguardo i doodles come si riguardavano i provini a contatto delle vecchie fotografie analogiche, in bianconero. Poi, ne scelgo uno, per lavorarci sopra. Tu li vedi, sono foglietti nove-per-nove [centimetri], dove disegno mentre faccio altre cose, soprattutto quando sono al telefono. Sono anche broker di assicurazione, e -nello svolgimento del lavoro- non smetto mai di disegnare doodles, che -mi dicono collaboratori e clienti- riempiono appunti, lettere e documenti. Dunque, dicevo, i doodles sono piccoli, ma a Torino li ho riprodotti grandi, anche 120x140cm. «Questo, per esempio, l’ho ingrandito con la fotocopiatrice, poi ho ritagliato a pezzi l’ingrandimento, rimettendo insieme il tutto secondo un’idea. I lavori presentati a Torino sono simili, ma sono ottenuti passando un originale allo scanner, elaborandolo e poi ricomponendolo a computer. Il doodle senza pensiero diventa matrice di un’opera pensata. Sono passato dai doodles ai DIM, Doodles In Mutation. Con i Doodles In Mutation mi è stato incredibilmente chiesto di arredare una stanza di albergo, a Torino!». Non capita spesso che qualcuno tenga i propri scarabocchi,
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gli dico. «Fin dall’inizio, non sono riuscito a separarmi dai doodles, perché li sento come una parte di me. È una cosa che mi viene spontanea, un disegno: un po’ come il disegno che faccio con la macchina fotografica quando fotografo la luna. Per questo, c’è un’affinità grafica tra le fotografie della luna e i miei doodles, come ha intuito anche Marina Mojana, che ha curato la mostra alla Galleria Campari. Ma c’è solo un’affinità: nessun doodle è il progetto grafico della fotografia della luna che gli è stata associata. Sono totalmente scollegati. Gli abbinamenti li abbiamo scelti per simpatia, estetica, affinità. Alla fine, l’unica ragione per metterli insieme è che entrambi mi rappresentano. Come mi rappresentano le fotografie dei fiori che realizzo». E qui ricorda un suo incontro con Gabriele Basilico. «Un giorno, parlando con il grande maestro, osavo spiegargli che non mi volevo sentire ingabbiato in uno stile unico, non volevo essere un artista a una dimensione. Mi sentivo attratto da diverse forme espressive, volevo essere cronista del mio mondo interiore, che è fatto di diversi spiriti. Non me la sentivo di fare solo lune nella vita! Se qualcuno vede le mie fotografie di fiori e le apprezza... sono felice». Ma tu non hai portato lune e fiori in mostra, obbietto. «Hai ragione -risponde-. Se dovessi abbinare i fiori a qualcosa, li abbi-
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nerei alle mie Performance. Per esempio, il mio Primo uomo nudo sulla luna o la Self Stone Terapy starebbero bene con una fotografia di fiori che ho scattato all’Orticola, un anno fa. In entrambi questi generi di fotografie, c’è natura, armonia, sentimento, passione, fatica, profumi; mentre le lune e i doodles sono astratti, scarni, segni al tratto in bianco e nero. Non so perché, ma sento forti questi abbinamenti». Bene, mi sembra che abbiamo interpretato abbastanza. Ribadisco che diffido delle interpretazioni e preferisco un approccio più diretto, emotivo alle opere d’arte. Anche perché mi sembra che le interpretazioni possano cambiare nel tempo, mentre l’opera rimane quella, immutabile. Edoardo Romagnoli concorda con me. «Infatti, i doodles sono i doodles. Non hanno un significato. Non c’è nessun motivo per cui qui c’è questa cosa e lì ce n’è un’altra. Sì, c’è qualche disegno che ritorna, in ogni doodle c’è quasi sempre una parte più fitta e un’altra più vuota, cambiano nel tempo, possono essere, a seconda dell’umore, quadrati o tondi». Lo interrompo. Mi rifiuto di psicoanalizzare i doodles. Qui non c’è nessuno che va curato. Godiamoceli questi doodles, alternando la visione tra loro e le immagini della luna. ❖
GLI CHEF SONO LORO
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di Angelo Galantini
proprio mestiere soprattutto in sala di posa, per l’appunto con indirizzo privilegiato alla moda, ma non si limita a questo: consistenti sono le sue eccellenze, che si sono concretizzate in progetti di ampio respiro, per quanto tutte convogliate nella fotografia di figura, nel ritratto. In stretti termini temporali, il suo disegno più recente è stato raccolto in una intensa monografia. Pubblicata da Skira, Beyond the Chef è esattamente ciò che il titolo suggerisce (in inglese di moda): oltre gli chef, nel senso di Grandi cuochi lontano dai fornelli, come recita il necessario sottotitolo esplicativo. Di questo si tratta: di una raccolta di energici ritratti di chef, soggetto espresso e dichiarato, fotografati in ambientazioni che escludono il loro impegno professionale per il quale sono noti, conosciuti e riconosciuti, ma che sottolineano aspetti individuali e privati delle rispettive e relati-
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iciamolo con franchezza, oltre che disinvoltura (magari, la nostra di sempre): la fotografia professionale non richiede, né ha bisogno di etichette che stabiliscano frontiere invalicabili. Si è fotografi, punto e basta. Oppure, al contrario, ma non è un problema, non lo si è. Però, se si è fotografi... lo si è senza che sia necessaria alcuna specifica del caso, nessun indirizzo assoluto. Quindi, sono inclinazioni personali e individuali che possono indirizzare un fotografo, piuttosto di un altro, verso orientamenti preferiti, entro i quali esprimere la propria creatività, la propria capacità di sintesi e racconto, la propria indole. Identificato come “fotografo di moda”, Gianni Rizzotti è, invece, soltanto un fotografo. Certo, svolge il
GUALTIERO MARCHESI (RISTORANTE TEATRO ALLA SCALA - IL MARCHESINO, MILANO)
Beyond the Chef, di Gianni Rizzotti, è un progetto fotografico, in forma di monografia, che presenta una galleria di Grandi cuochi lontano dai fornelli (in sottotitolo esplicativo): raccolta di energici ritratti di chef fotografati in ambientazioni private (spesso intime) che escludono il loro impegno professionale. La combinazione con ricette suggerite da ciascuno di loro sollecita una riflessione -in forma di parallelocon la fotografia di cuore, mente e anima. Con valutazioni conseguenti e allineate
Beyond the Chef, di Gianni Rizzotti; Skira, 2014; 264 pagine 28x30cm, cartonato con sovraccoperta; 70,00 euro.
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54 DAVIDE SCABIN (DUE STELLE
MICHELIN; COMBAL.ZERO, RIVOLI TO)
ROBERTO OKABE (FINGER’S, MILANO) GOLFI NA) DUE
MICHELIN; DON ALFONSO 1890, SANT’AGATA SUI STELLE
ERNESTO IACCARINO (DUE ED
ALFONSO
ve personalità. E questa è la componente fotografica, fortemente fotografica, della affascinante e persuasiva galleria, che nella messa in pagina si completa, quindi, con lievi testi di presentazione di ogni cuoco (immancabilmente declinati in prima persona singolare) e con una ricetta di ciascuno (che può essere messa in pratica da ognuno di noi, ammesso -e non concesso- il piacere di stare tra i fornelli). Curiosamente, proprio la combinazione tra le ricette dei cuochi e i ritratti di Gianni Rizzotti sollecita una riflessione, in forma di parallelo. Le ricette sono chiare, lampanti, esaustive; però, il risultato che si può ottenere dalla loro applicazione è mille e mille anni lontano da quello che ottengono i singoli cuochi: perché il solo enunciato ufficiale non è sufficiente; in cucina, tra le pieghe di tante certezze -ingredienti, quantità, amalgama-, ci sta soprattutto l’anima, l’amore e la maestria di esecuzione. C’è chi è tanto dotato... e chi può ripetere una formula, ottenendo solo l’apparenza del risultato (a proposito, qui e ora, il nostro ricordo va al sardo Luigi Piccolillo, chef con l’identificazione di “Il barone”, prematuramente mancato un paio di stagioni fa, che in una lontana occasione ci preparò il più buon risotto alla milanese che abbiamo mai mangiato: dalla ricetta ufficiale all’amore individuale!). In parallelo, ma non in metafora, e neppure in paradosso, le ricette fotografiche di Gianni Rizzotti sono altrettanto chiare, lampanti, esaustive: chi ha occhi per vedere, mente per elaborare, esperienze sulle quali ragionare, le identifica e riconosce, una volta osservati i singoli ritratti, e tutti i ritratti nel proprio insieme e complesso. Ecco qui: luce, inquadratura, composizione, postura e grammatica esplicita di un linguaggio applicato -quello fotografico- che si può sintetizzare in semplicità, ma che si deve applicare e declinare con capacità. Giusto la capacità che l’autore Gianni Rizzotti rivela di possedere e saper accostare a ogni singola costruzione scenica (tutti i ritratti di cuochi di Beyond the Chef sono posati), ciascuna delle quali realizzata con passi diversi, in relazione alla personalità esplicita, ma anche implicita, dei singoli protagonisti.
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56 ALFIO GHEZZI (UNA STELLA MICHELIN; LOCANDA MARGON, TRENTO)
MICHELIN; LA PERGOLA, ROMA) STELLE
HEINZ BECK (TRE MN) SULL’OGLIO
MICHELIN; DAL PESCATORE, CANNETO STELLE
GIOVANNI SANTINI (TRE
In questo senso, Gianni Rizzotti ha applicato una lezione tanto antica, da risultare persino endemica nel dna del fotografo, sempre che il suo cuore sia guidato da quell’amore del gesto, passione del risultato, sentimento della sintesi narrativa che fanno la differenza tra la formula a tutti evidente e l’interpretazione per ciascuno differente. Autore di statura, con i suoi ritratti, Gianni Rizzotti lascia intravedere lo spessore e il valore di una qualità esistenziale sognante. Le sue fotografie appaiono quasi una distorsione del tempo e riportano indietro, ma anche avanti (!), così che il Tempo possa essere rivissuto ancora e ancora. Oltre l’evidente apparenza a tutti palese, questo suo progetto Beyond the Chef non si limita a quanto promesso ufficialmente. Il suo non è un istante passeggero, ma autentica e autorevole affermazione di princìpio, di comunicazione visiva, di Fotografia. In un’epoca -quale è la nostra odierna- nella quale produrre “belle” fotografie inutili è più che facile, scontato addirittura, la differenza la fanno soprattutto “buone” fotografie, capaci di andare oltre se stesse, fino a occuparsi della sostanza dell’immagine: il suo Tempo, Spazio, Anima e ancora altro. Certi percorsi fotografici d’autore -sia in assolvimento professionale, sia in ricerca visiva individuale- valgono e sono fondanti per quanto riescono a offrire a quel complesso collettivo e globale di nozioni al quale ciascuno di noi può attingere, in un viaggio di continua andata-e-ritorno. Viviamo e pensiamo per quanto le esperienze nostre si integrano a quelle altrui, per quanto le esperienze altrui arricchiscono le nostre. Del resto, come siamo soliti pensare, qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Con la sua galleria di ritratti Beyond the Chef, Gianni Rizzotti sottolinea qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che l’anima e l’emozione possono spesso trasformare in realtà antichi sogni. La fonte dell’arte è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’esistenza. Così facendo, alimenta anche la nostra immaginazione e i sogni di tutti noi. ❖
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In mostra di Antonio Bordoni
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CASA MORANDI
Per la prima volta nella propria interezza, è stata sistematicamente fotografata la casa nella quale ha vissuto e operato Giorgio Morandi, pittore di prima grandezza del Novecento italiano (e non soltanto). Le intense immagini di Luciano Leonotti sono allestite nella convincente mostra Casa Morandi, appuntamento di spicco dell’intenso programma Grizzana ricorda Morandi, in cartellone dall’undici luglio al trenta ottobre, nel cinquantesimo anniversario della scomparsa del celebre personaggio (nato e morto a Bologna, il 20 luglio 1890 e il 18 giugno 1964): mostre d’arte, incontri, dialoghi e festa nel paese che ha aggiunto, al proprio, il nome del grande artista. Una grande storia, quella di Grizzana (oggi, Grizzana Morandi, in provincia di Bologna), che è stato per Giorgio Morandi ciò Arles che fu Arles per Vincent van Gogh e l’Estaque, sul golfo di Marsiglia, per Paul Cézanne: «Il paesaggio più bello del mondo», annotò Giorgio Morandi. Forse per questo, quasi tutti i suoi paesaggi, incisioni, oli su tela, acquerelli sono supposti dal territorio di Grizzana. Una grande storia di paesaggio e anima, di strade bianche, di case di sasso, di campi e fienili, che diventano arte, per sempre. In questo contesto, Casa Morandi, di Luciano Leonotti, descrive e interpreta le stanze rigorose e sobrie, gli oggetti e i mobili quotidiani, l’armonia, la luce che rivela i pigmenti conservati e rappresi nelle piccole scatole di fiammiferi, i colori da macinare avvolti nella carta di giornale, i cassetti dai piccoli segreti. Oltre l’esposizione degli originali fotografici, in mostra, è stata realizzata una monografia -con un testo del celebrato critico Renato Barilli-, la cui messa in pagina trasmette a propria volta l’essenza delle piccole cose, quel clima rarefatto e sospeso, quella nitidezza del vivere che è nella Casa Morandi (Danilo Montanari Editore; www.danilomontanari.com). È appunto il testo di Renato Barilli, Un Voyage autour de sa chambre
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Da Casa Morandi, di Luciano Leonotti, allestita ai Fienili del Campiaro, in Località Campiaro, a Grizzana Morandi, in provincia di Bologna, dall’undici luglio al trenta ottobre: scala e secondo piano (anche copertina della monografia, pubblicata da Danilo Montanari Editore), studio e sala da pranzo.
In mostra
Da Casa Morandi, di Luciano Leonotti, tre visioni dello studio di Giorgio Morandi.
dedicato a Morandi, che sottolinea, rivelandole, le doti della registrazione fotografica, capace di approdare alla rappresentazione intensa, a partire dalla ovvia e indispensabile raffigurazione oggettivamente necessaria. Leggiamo: «L’occhio fotografico vede meglio di quello fisiologico, che ciascuno di noi si porta dietro dalla nascita: ce lo ha fatto scoprire Michelangelo Antonioni, in uno dei suoi capolavori, Blow up, in cui -grazie a un ingrandimento progressivo- il protagonista del film arriva a scoprire la presenza di un cadavere, sfuggito al suo sguardo normale. Del resto, il rito della “morte dell’arte”, celebratosi attorno al Sessantotto, ha avuto il proprio epicentro nella surrogazione del pennello con l’obiettivo fotografico, meglio se questo viene applicato secondo la modalità detta dello sharp focus, assumendo cioè la capacità di frugare nel reale con una nitidezza esasperata: ce lo insegnano gli operatori tedeschi sul tipo di Candida Höfer e Thomas Struth [della definita Scuola di Düsseldorf; FOTOgraphia, maggio 2010]. «E anche Luciano Leonotti si è mosso su questa strada, nell’atto di affrontare l’abitazione di Giorgio Morandi e sorelle, nel mitico ritiro di Grizzana. Volendo, ognuno di noi può compiere il rito, recarsi a visitare quelle stanze in cui tutto respira modestia, lindore, serenità d’animo, attaccamento alle buone tradizioni, magari anche, per dirla con Gozzano, alle “buone cose di cattivo gusto”. Ma in una visita in tempo reale si insinuano le male ragioni della fretta, della compresenza fastidiosa di altri visitatori, e -dunque- la percezione rischia di essere inevitabilmente distratta, frettolosa, negligente. Se invece scorriamo la sequenza fotografica, possiamo fermarci a piacere, indagare, vedere più in profondità». E qui, anche qui, soprattutto qui, sta la chiave di Volta dell’intero esercizio della Fotografia: in quell’interpretazione del reale che impone all’autore un’etica di visione tutta rivolta all’osservatore. Tra la realtà e la sua fotografia scorre un profondo abisso: le due visioni non hanno alcun rapporto in comune. Erroneamente, qualcuno confonde una con l’altra, accomunandole assieme. Invece, è sostanziale rendersi conto
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In mostra
STEFANO GRAMITTO (PANORAMIO.COM)
GRIZZANA RICORDA MORANDI
È stata Maria Teresa Morandi, ultima delle tre sorelle che condussero con l’artista una vita totalmente implicata negli andamenti della sua creatività, a donare la Casa al Comune di Grizzana, in provincia di Bologna. Era stata costruita appena fuori dal paese, e qui -per la prima voltaGiorgio Morandi ebbe un vero “studio”: ampio, luminoso, con tre finestre che danno sui Fienili del Campiaro, sulle Case della Fame e della Sete, sui cieli mobili e immensi dell’Appennino. L’attuale programma Grizzana ricorda Morandi, allestito nel cinquantenario dalla scomparsa (18 giugno 1964), è parte del progetto di valorizzazione e salvaguardia del territorio attraverso l’arte, voluto dal Comune di Grizzana Morandi (Unione dei Comuni dell’Appennino Bolognese), con la direzione artistica di Eleonora Frattarolo. In particolare, si segnalano i precedenti allestimenti di Il Paesaggio Necessario, nel 2012, e Un’Etica per la Natura, lo scorso 2013, con la partecipazione di autori accomunati da una poetica in rapporto con il senso della Natura e del Paesaggio. Per quanto riguarda il cartellone di quest’anno, oltre la mostra fotografica Casa Morandi, di Luciano Leonotti, più di altro vicina al nostro punto di vista viziato (alla fotografia), con la personale Omar Galliani incontra Giorgio Morandi, allestita nella Casa-Studio Giorgio Morandi, si apre una nuova modalità espositiva. Omar Galliani, che ha fatto conoscere il grande disegno italiano nei più significativi musei del mondo, è il primo artista ad esporre nelle stanze della Casa-Studio: grandi tavole create appositamente per questa occasione. Con la sua avvincente sapienza espressiva, l’attento Omar Galliani espone un visionario e struggente paesaggio, persino oscuro e luminescente. Ancora: incontri, seminari, videoproiezioni e alto fino al trenta ottobre (www.comune.grizzanamorandi.bo.it; biblioteca@comune.grizzanamorandi.bo.it).
Casa Morandi, di Luciano Leonotti; con un testo di Renato Barilli. Fienili del Campiaro, Località Campiaro, 40030 Grizzana Morandi BO; nell’ambito di Grizzana ricorda Morandi, a cura di Eleonora Frattarolo; dall’11 luglio al 30 ottobre (www.comune.grizzanamorandi.bo.it; biblioteca@comune.grizzanamorandi.bo.it).
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In mostra
che tanto la fotografia espressiva (detta anche creativa) quanto quella di documentazione non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. L’autore-fotografo, senza percepire determinati valori del soggetto, cerca di duplicarla sulla stampa. Se lo desidera, può simulare l’apparenza in termini di valori di densità riflessa, oppure può restituirlo ricorrendo ad altri valori, basati sull’impatto emotivo. Comunque, come Luciano Leonotti rivela aver compreso, i connotati stessi della fotografia rappresentano una interpretazione della realtà, la fotografia per se stessa rappresenta qualcosa di autonomo e proprio, dovendo necessariamente raffigurare qualcosa (d’altro?), che -comunque sia- è stato osservato e visualizzato attraverso l’obiettivo. Molti ritengono che certe immagini rientrino nella categoria delle “fotografie realistiche” (ed è il caso di questa serie Casa Morandi, di Luciano Leonotti), mentre -di fatto- quanto offrono di reale risiede solo nella precisione dell’immagine ottica; i loro valori sono invece decisamente “distaccati dalla realtà”. L’osservatore può accettarlo come realistico, in quanto l’effetto visivo può essere plausibile,
Da Casa Morandi, di Luciano Leonotti: particolari dello studio di Giorgio Morandi: una visione del suo cassetto di “attrezzi” da disegno e pittura e l’auto dell’artista (particolare, dall’inquadratura originaria).
ma -se fosse possibile metterli direttamente a confronto con i soggetti reali- le differenze risulterebbero assolutamente sorprendenti. Al pari di altri autori, con Casa Morandi, Luciano Leonotti ha il merito di comprendere come e per quanto l’esercizio della fotografia dipenda dai propri connotati tecnici fondamentali. A questo proposito, vorremmo osservare come la sintesi tra tecnica e creatività sia -di fatto- uno degli elementi portanti di tanta storia espressiva della fotografia. Alla base di tutto, c’è la consapevolezza che l’azione combinata dell’obiettivo e della pellicola (dell’obiettivo e dell’acquisizione digitale di immagini) debba necessariamente simulare al possibile la reazione occhio-cervello. Come già abbiamo accennato, quello fotografico è un esercizio di rappresentazione, pur dovendo per propria natura raffigurare concretamente qualcosa. In sintesi: una grande fotografia è la piena espressione di ciò che l’autore sente del soggetto che sta fotografando, nel senso più profondo; per questo, è la vera espressione di ciò che lo stesso fotografo sente sulla vita nella propria complessità. Questo è! ❖
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di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte giugno 2014)
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Prologo. L’invenzione della fotografia -come quella del cinema e del gelato- si perde nella storia antica... nelle figure parietali che ci hanno trasmesso usi e costumi di un tempo quando anche le ciliegie sapevano di ciliegie. Poi, qualcuno (un impostore di genio o uno squilibrato affetto da narcisismo cronico) ha lasciato su un lenzuolo di lino la propria immagine, e il “miracolo” della fotografia (senza nemmeno la “scatola magica”) è finito sui santini e nei tribunali della santa inquisizione... il resto è storia recente. È con la costruzione delle cattedrali che è nato lo sterminio di massa; l’ottimismo degli stupidi non ha mai fine... sfruttamento, oppressione e utilitarismo vanno insieme, e il vangelo dei creatori si realizza sulle fosse comuni dell’intelligenza. Il cinema è già tutto nelle ombre che si muovono sulle pareti della caverna di Platone; fuori, i ricchi saccheggiano il popolo e lo riducono in catene: tuttavia, riservano agli schiavi il buio, la meraviglia e la frusta dei bravacci riflessi nell’impudenza della rêverie (processo di onirizzazione della realtà), nella quale sussiste un bagliore di coscienza. La storia della macchina/cinema e dell’immaginario assoggettato (Pino Bertelli: La macchina/cinema e l’immaginario assoggettato. Trattato di liberazione degli sguardi; Nautilus, 1987) è un casellario estetico/etico di polizia, con il quale la “fabbrica delle illusioni” ha istupidito schiere di generazioni, producendo schifezze indecenti, incensate con Oscar e star: spesso piccoli uomini e donne, semianalfabeti, che fuori dallo schermo passano da un letto all’altro, da una droga all’altra, da un suicidio all’altro, così, tanto per non perdere un po’ di popolarità, sono al fondo di una metafisica della sterilità, nella quale dominio e sottomissione passano
Sguardi su
DISDÉRI
Dedicatoria ai perduti amanti del gelato artigianale, quando i gusti erano pochi, ma buoni, i coni sapevano di biscotto e i colori dei gelati s’ingoiavano la speranza negli occhi e la bellezza nel cuore di un mondo dove ogni bambino non doveva più piangere, né rubare, per avere il suo gelato. dallo schermo alla vita quotidiana. «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979) e, compreso nella propria totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del sistema di produzione esistente.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA STUPIDITÀ E LA STORIA DEL GELATO ARTIGIANALE
Anche la storia apocrifa del gelato è alle radici dell’umanità. Nella Bibbia, si menziona Isacco, che -per placare l’arsura- porge al padre Abramo una ciotola di latte di capra misto a neve (o viceversa). Poi, secoli di gelati consumati solo da re, regine, papi, baldracche con il vizio della politica, condottieri, criminali: Alessandro Magno, re Salomone, Giulio Cesare, Cleopatra, i Borgia papi, Mussolini, Hitler, Stalin si sono
mangiati il loro gelato fatto all’istante... intanto facevano trucidare così tante persone, che mettevano in pericolo la manodopera... mai il cammino del gelato artigianale ad uso dei palati fini. Quando anche gli operai hanno avuto il loro cono di millecoloranti, l’industria del gelato (che compartecipa -attraverso la Borsa- alla fabbricazione di autostrade, vestiti, auto, telefonini, giocattoli, cannoni...) ha portato il gelato nelle famiglie e su tutte le tavole. Il gelato è diventato come le schede elettorali... finto: fa male, ma tutti dicono che è buono! Mi sembra di essere nel Paese degli stupidi, dove oltre il quaranta percento degli elettori votano il buffone di corte, credendo abbia il carisma del re, e invece è solo una mezza calzetta di attore, così stupido che solo un pubblico di stupidi può credere ai suoi lazzi e sberleffi da commedia dello sghignazzo. Il
Paese degli stupidi non è finito troppo bene: chi alzava troppo la voce, o tossiva di traverso, è stato messo in moderne caverne a guardare la propria ombra. I gelati hanno continuato ad essere leccati da tutti, e i partiti si sono ingoiati intere torte di gelato. Solo un pugno di poeti, di ragazzini, di inadatti alla filosofia del gelato contraffatto, con chi sa quali polveri, si sono accorti della cattività di questo Paese pieno di stupidi e di strane bandiere di rosso sbiadite... e non ne vollero mangiare di quel gelato, si portarono sulle alture delle città, sulle spiagge più bianche e sui monti che bucano il cielo, e lì -tra danze discinte e baci al profumo di tigliopresero a ridere su quel popolo di stupidi e non la smisero più, fin quando nuovi partigiani del gelato (senza conservanti, coloranti o frutta fuori stagione) fecero dell’arte del gelato anche l’arte di vivere tra liberi e uguali. La nascita della fotografia -dicevamo- è confortata da una messe di pionieri, malfattori, profittatori, intrecciati con il malcostume del tempo, che l’hanno resa una delle forme di comunicazione tra le più decisive nella cultura dominante, sin dal suo debutto. Lasciamo ai curiosi e agli allibratori dell’infanzia di questa straordinaria scoperta della rappresentazione visibile della realtà (o del suo contrario) raccogliere i filamenti storici che sono serviti all’affinamento di questo strumento espressivo (o giocattolo di cretinizzazione dell’industria culturale), fino alla falsa “rivoluzione digitale” della nostra epoca. Va detto. Sono pochi gli studiosi della linguistica fotografica (come Claudio Marra), che hanno visto nell’avanzare della tecnologia niente più che la contiguità tra fotografia argentica e fotografia numerica (analogica e digitale, se volete). Senza scomodare troppo Marshall McLu-
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Sguardi su han (che non ci è mai piaciuto per le sue consulenze sulla manipolazione mediale dello Stato Vaticano), il “significato” o il “messaggio” derivano direttamente dal valore d’uso del mezzo stesso. Claudio Marra vede più in là di molti studiosi dell’immagine fotografica, perfino di Walter Benjamin, e scrive che la filosofia della fotografia (anche di quella chiamata postfotografia) non è affatto cambiata, e la responsabilità di un autore/fotografo di fronte al vero, al giusto, al bello, continua a caratterizzare l’identità della fotografia (Claudio Marra: L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale; Bruno Mondadori, 2006). Uno stupido che scattava fotografie in analogico è il medesimo stupido che fa fotografie in digitale. Certo, con il digitale la moltiplicazione della stupidità è stata esponenziale alla vendita di dispositivi (macchine fotografiche, telefonini, tablet) con i quali l’industria dello spettacolo ha allargato i mercati di domesticazione sociale. Altrettanto vero è che -senza la democrazia digitale della Rete- le rivolte arabe, i movimenti di resistenza di Occupy e degli Indignados non avrebbero potuto avere luogo, né eco... tuttavia la stupidità rimane (e non importa sia tecnologica). [Integrazione d’obbligo. Questa è anche la posizione ideologica, culturalmente onesta, delle pagine e parole di FOTOgraphia, che spesso annota l’inutilità di contrapposizioni passato-presente e la scortesia dell’apoteosi tecnologica fine a se stessa; né angeli, né demoni, osserviamo frequentemente, ma identità e cuore: non importa il supporto sul quale ciascuno raccoglie la propria imbecillità o le proprie capacità, quanto l’intensità e amore del gesto e delle intenzioni. Il resto è mancia]. La stupidità della fotografia è plateale... dentro ci stanno tutti... storici, critici, mecenati, fotografi, giullari senza talento sempre in cerca di una corte nella quale suonare il piffero. E a nessuno è mai venuto in mente che
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«Bomba anarchica. Fate una crema con due litri di latte freschissimo, bucce sottili di limone e di arancio, trecento grammi di zucchero e dodici rossi d’uovo. Crema ben tirata, appena ritirata dal fuoco, versatela in un recipiente dove avrete messo un quinto di zucchero bruciato nerissimo, dovendo l’esterno di questo gelato riuscire molto scuro, colore preferito dal partito. Fatto ciò, passatelo allo staccio numero tre, e quando è freddo gelate come al solito. Con questa pasta nerissima, dovete foderare la bomba in abbondanza. All’interno, lo riempirete a strisce con pasta rossa, bianca, bleu come volete, e quindi mettete al forno per parecchio tempo. Questa bomba, una volta fuori dallo stampo, va guernita con un pugnale di lama bianca con un manico rosso fatti antecedentemente con gelato. Se saprete attenervi alle mie istruzioni, vi deve riescire un gelato bellissimo e di grande effetto» Enrico Giuseppe Grifoni ( Trattato di gelateria. Manuale pratico per la fabbricazione dei gelati e conserve; Bietti, 1911; ristampa anastatica, Lazarus Edizioni, 2012) se ci sbarazziamo del miracoli della fotografia, il suo cadavere cadrà ai piedi della poesia. La fotografia non è stata mai grande, se non quando ha saputo affabulare l’iconografia dei vinti, né è mai stata del tutto spregevole, se non quando ha continuato a ridurre l’iconografia del mercimonio a superstizione tecnologica: ogni fotografo autentico è eretico; quindi, un uomo in rivolta. In un amorevole libretto per bambini affetti da curiosità belligerante, l’emerito professor Car-
lo M. Cipolla ricorda che «La Prima legge Fondamentale della stupidità umana asserisce senza ambiguità di sorte che: Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione» (Carlo M. Cipolla: Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi determinanti dello sviluppo economico nell’età di mezzo - Le leggi fondamentali della stupidità umana; Il Mulino, 1988). Altrimenti, uomini e donne come potrebbero accettare
di essere governati in questo modo e a questo prezzo? Una messe di farabutti, ciarlatani, criminali arroccati agli scranni dei parlamenti si sono arrogati il diritto (anche attraverso la delega irrevocabile) d’impoverire interi pezzi di popolo a favore di una casta di privilegiati che andrebbero destinati a un letamaio. La stupidità è necessaria a ogni potere, e per questo la promuove nelle scuole, nelle chiese, nelle fabbriche, nei partiti, nelle arti, nelle merci: come si sa, ogni gover-
Sguardi su no è ladro e porta la pioggia acida; invece, la rivoluzione sociale porta il bel tempo e il ritorno delle lucciole a maggio.
SULLA FOTOGRAFIA, DALLE ORIGINI Gli studi sulla luce (e sull’immagine) di Aristotele, Alhazen (Abū Alī al-Hasan ibn al-Hasan ibn alHaytham), Leonardo da Vinci, Rainer Gemma Frisius, Gerolamo Cardano, Daniele Barbaro, Johann Heinrich Schulze, Thomas Wedgwood, Joseph Nicéphore Niépce, Louis Jacques Mandé Daguerre, Enrico Federico Jest, Antonio Rasetti, Zou Boqi, William Henry Fox Talbot, John Frederick William Herschel, Hippolyte Bayard, Hercules Florence, Hans Thøger Winther (ci sembra bastino, per iniziare una ricerca sulle origini della fotografia) sono davvero utili per comprendere i racconti, i diari, le meditazioni filosofiche, gli aforismi, le riflessioni mercantili e politiche che sono al fondo di questo attrezzo tanto artistico, quanto di domesticazione dell’immaginario. L’economia industriale ha fatto il resto. Ha fatto credere che il mondo poteva essere migliorato con la fotografia, e intanto foraggiava i cannoni... poi vendeva i massacri ai propri giornali, televisioni, cinema: onore, giustizia, religione, diritto, dovere -e perfino decenza- sono le richieste pressanti della deontologia fotografica, e intanto i bambini più poveri saltano in aria su grappoli di mine. L’illusione del progresso è tutto qui. Non si tratta di ritornare alle barricate, al dinamitardo o all’assassinio, per mettere fine a questa masnada di saprofiti... occorre lavorare alle fondamenta di questo dis/ordine burocratico e (con ogni mezzo necessario) dare inizio allo smantellamento dei palazzi del potere nell’ora del tè. La civiltà dell’immagine nasce con la fotografia, e -sotto un certo taglio- ciò che ne consegue contiene anche la sua decomposizione. Detto meglio. Di là dalla celebrazione della fotografia come strumento di persuasione di massa o arte contemporanea -fa lo stesso-, la fotografia è sem-
pre stata al servizio della borghesia o della mediocrazia politica al potere (le accezioni di poeti maledetti e insorti del desiderio di vivere all’altezza dei propri sogni sono un’altra cosa). «L’immagine fotografica, infatti, può essere un alleato prezioso o un nemico mortale» (Bernardo Pinto de Almeida: Immagine della fotografia; Jouvence, 2006). Nel mondo realmente rovesciato, la fotografia è un momento del vero o del falso, che per eccesso di informazione si pone tra l’euforia e il disincanto. Perfino un poeta immortale (Arthur Rimbaud) aveva compreso che con la fotografia si poteva avere un immeritato successo e occasione di privilegi più che con il commercio di armi ai ribelli. La fotografia rivela ciò che non sa, e quando lo sa vuol dire che partecipa alla dominazione del mondo. L’industria fotografica è totalizzante, poiché la fotografia si sottrae alla storia dell’Uomo, derubandolo delle sue speranze egualitarie; dato che le immagini, come i baci di seta o la lama alla gola di un tiranno, sono sempre rubati... la bellezza e la violenza dell’immagine o è poesia ereticale o si riduce a un’immagine della violenza come spettacolo. L’indisciplina della fotografia autentica è frutto di tecnica, conoscenza, cultura, che poi dissipa nella soggettività di colui che guarda, o -meglio- vede l’espressione profonda di ciò che fotografa, fuori da “marchi” che definiscono comportamenti e soggezioni... modificano la percezione dell’esistenza... e confermano che nel dolore degli altri è la forma che conta: i contenuti sono atti agganciati al suo servizio. Ammesso che l’inferno della fotografia sia lastricato di buone intenzioni, preferiamo affrancarci alla bellezza screditata dei popoli e continuare a credere che la Fotografia che vale è ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA “BELLA” BORGHESIA Di André Adolphe Eugène Disdéri (28 marzo 1819 - 4 ottobre
1889), ovvero il fotografo della “bella borghesia” del secondo Ottocento. È un giovane intuitivo; la famiglia ha origini genovesi, ma lui nasce a Parigi (non proprio dalla parte buona). Un po’ avventuriero, un po’ pittore, si trova nel mezzo della fotografia assunta dai parigini dabbene come una nuova moda di metà Ottocento e, nel 1854, apre uno studio di pittura all’otto di Boulevard des Italiens. Di lì a poco, chiede il brevetto per l’“invenzione fotografica” che lo renderà celebre e ricco, la carte de visite (una sorta di biglietto da visita fotografico). L’idea non era proprio tutta sua. Altri fotografi avevano già personalizzato con immagini i biglietti da visita, ma gli affari sono affari, e chi detiene il brevetto ha anche diritto all’incasso. Commercianti, vescovi, imperatori, principi, conti, letterati, militari, puttane d’alto bordo, cani della nobiltà... figurano l’estetica del “pollo fritto” di Disdéri: cioè ciarpame ben confezionato, che in quattro o otto pose restituisce davvero il ritratto di un’epoca, nella quale il benessere di pochi è stato possibile solo con lo sfruttamento dell’Uomo sull’Uomo (proprio come oggi). Lasciamo a quanti amano davvero la Fotografia come utensile di escavazione del reale (o del falso) di addentrasi in un volume di non poca bellezza tecnica/filosofica, scritto dal Franti della storiografia fotografica, per meglio comprendere che il numero degli sprovveduti cresce con il successo spettacolare del dispositivo fotografico (Maurizio Rebuzzini: 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita - Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni; FOTOgraphiaLIBRI, 2009). Quando, in ogni campo degli affari (della politica, della religione, della guerra, dei saperi e perfino nella criminalità organizzata), gli stupidi si mettono all’opera, l’intelligenza generale declina verso la stupidità e ne consegue che la società intera impoverisce.
Lo studio di Disdéri diventa il “palazzo della fotografia”: ci arrivano a lavorare cento persone. Le piccole copie (circa 6x9cm), montate su cartoncino rigido, che riporta il marchio dello studio fotografico, costano meno dei ritratti realizzati sulla lastra intera. Tutti (o quasi) possono accedere alla propria immagine, e fissarla in camera da letto, accanto al Cristo, papa o capo di Stato, in bella posa per l’eternità... degli stupidi, s’intende. I ritratti di Napoleone III e l’imperatrice Eugenia lo lanciano verso guadagni favolosi... e il “fotografo dell’imperatore” apre anche uno studio a Londra; oltre sessantamila celebrità passano nei suoi atelier... il mercato tira... lo spettacolo di sé, anche... poi la fotografia cambia di pelle... diviene popolare o un’altra cosa. André Adolphe Eugène Disdéri perde tutto il suo denaro, è costretto a vendere le proprietà, si trasferisce sulla Costa Azzurra, a Nizza, e per altri dieci anni vive facendo il fotografo per turisti sulla Promenade des Anglais. Sordo, quasi cieco, torna a Parigi, e muore in un ospizio. Nessuno lo piange, e nemmeno noi, soprattutto per essersi prestato a fotografare (senza un filo di grazia) i corpi dei comunardi ammazzati dagli sbirri di Adolphe Thiers, per un pugno di franchi e un posto in società. È veramente sorprendente che persone intelligenti, artisti, finanzieri, politici, prelati, sarti quotati in Borsa, operai sindacalizzati... spesso non riescano a riconoscere il potere devastante e distruttore della stupidità.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA “BELLA” BORGHESIA
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L’estetica fotografica della “bella” borghesia, di Disdéri, anticipa di molto il gusto generalizzato dell’iconografia industriale o artistica del nostro tempo. La seduzione spettacolarizzata è la medesima, e uguale la bruttezza storica che finisce in fotografia, per non finire in galera, in qualche campo di lavoro o al confino con gli indesiderabili. Dis-
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Sguardi su déri si abbevera alle medesime fonti populiste... i suoi modelli (come i manifesti elettorali) sono ampollosi, austeri, gradevoli, rigidi, forti... tutti sembrano davvero intelligenti, anche Napoleone III (figurati!), che non sapeva nemmeno allacciarsi le scarpe, né vuotare un vaso da notte, senza l’aiuto della servitù. Del resto, anche i politici del nostro tempo, fuori dal ruolo di Potere che si sono presi, o è stato conferito loro con la delega elettorale, non saprebbero accendere un fornello del gas, né prendere il biglietto di un pullman. Senza leccaculi, morirebbero di fame in tre giorni (e non sarebbe nemmeno male). Il potere economico, politico, religioso accresce il potenziale di stupidità negli individui che lo sostengono. Una qualche forma di franca intelligenza mette in guardia dai disonesti, dai ladri, dai mafiosi: rifiuta il consenso a partiti, banche, fondazioni, chiese, caserme, mercati globali e lavora alla loro decostruzione. Un simile sistema di corruzione non va sostenuto, ma aiutato a crollare, per dare vita a una democrazia (davvero) partecipata dei cittadini. La ritrattistica di Disdéri non è particolarmente studiata, spesso è a figura intera, fondali piuttosto banali, elogiativi del personaggio fotografato... proprio l’opposto di un maestro della fotografia, Nadar. Basta osservare (a gatto selvaggio) le immagini di Victor Hugo, George Sand, Alexandre Dumas padre, Jules Verne, Charles Baudelaire, Joseph Proudhon, Mikhail Bakunin per comprendere la bellezza di un farefotografia (quella di Nadar), che va oltre la committenza, e colloca la bellezza dell’umano al di là del proprio tempo. L’arte è sempre stata al servizio del sacro, del potente, del denaro, ma -in ogni stagione della Storia- c’è sempre stato qualcuno che sapeva come comportarsi (non solo) in fatto di arte, perché «Ciò che non uccide il potere, il potere lo uccide» (ha detto un poeta surrealista, sulle barricate della Rivoluzione di
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Spagna, del Trentasei). Gli imbonitori dell’arte, come gli dèi, amano le immagini, gli inginocchiatoi e i giocattoli... hanno un debole per gli specchi, le processioni e i carnevali... non abitano il cuore del mondo, né quello degli uomini: sono interessati soltanto alla propria vertigine artistica e al consenso mercantile che promuove. Al principio o alla fine di un grande artista, c’è sempre un cretino o un genio. Il cretino sa di essere sempre compreso... il genio ha sempre inizio col dolore. Il senso estetico di Disdéri è ingombrante, quanto mediocre. Il barocchismo degli abiti, la banalità delle scenografie, le pose falsamente statuarie attribuiscono ai soggetti valori infondati. Le sue immagini non figurano nemmeno un catalogo della borghesia; semmai, affrescano un almanacco. Sotto ogni taglio estetico/etico, le sue fotografie esprimono in piena luce il romanzo della merce che l’accompagna. I volti, i corpi, le posture confondono realtà e finzione, esibizionismo e voyeurismo, performance e ruolo del ritrattato. La composizione fotografica s’innesta in quella corrente di raffigurazioni pubblicitarie, fotogrammi cinematografici e simulazioni artistiche, che faranno della fotografia contemporanea veicolo di sciocchezze memorabili e insolenti trasfigurazioni di opere in arte. In un epoca nella quale riceviamo, prendiamo, diffondiamo immagini cine/video/fotografiche con una qualche inclinazione alla sovversione non sospetta dei mezzi di comunicazione è difficile trovare un artista del dissidio, quanto un uomo onesto in parlamento. Tuttavia, di là di certe celebrazioni piuttosto euforiche, alla Charlotte Cotton (La fotografia come arte contemporanea; Einaudi, 2010), i palafrenieri dell’iconologia artistica sono quelli che hanno appreso la lezione di Disdéri: cioè, in fotografia, come nella vita, quello che vale è avere un posto riconosciuto in un museo, un lebbro-
sario o un sepolcro. Il consenso secerne singolari sudari: ciò che importa è costruire acquasantiere di sé e per il potere in carica... essere artisti con la mentalità da bottegai e sapere che ogni credenza è una questione di gerarchia... lo stile non c’entra... il solo stile che ogni artista conosce bene è quello della firma sugli assegni del suo padrone (l’inchino è di rigore). L’arte è una stanza vuota, dalla quale si è traslocato da molto tempo. Solo la filosofia del martello, di Nietzsche, può riportare l’arte dove non c’è mai stata e annusare di nuovo i frammenti d’eternità che contiene. Una modesta proposta: solo quando con il corpo degli artisti (dei politici o dei preti) sarà fatto un buon ragù, allora e solo allora, gli angeli del non-dove non sapranno che farsene delle ali e andranno controvento a bere dalle coppe di latte e miele dell’Arte di vivere. L’arte della fotografia nutre l’opera che a propria volta morde la vita, o non è niente. Perfino un figlio di puttana come il “barone” Wilhelm von Gloeden, fotografo altamente celebrato da galleristi, storici, critici, autore di immagini di ragazzi siciliani denudati, ripresi in pose mitologiche (d’immensa superficialità), è riuscito a far passare nei salotti della borghesia di fine Ottocento l’estetica della banalità come un’opera d’arte. La propria sessualità, quale che sia, non va mascherata con deflorazioni visuali o atteggiamenti di squallida pornografia, ma sostenuta nella compiutezza e dignità di artista, se poi uno è omosessuale, bandito o dissennato... chi se ne frega. L’atteggiamento di von Gloeden non è quello del fotografo che affronta la sessualità con franchezza, anzi la cela e rivela in altri anfratti estetici troppo goduti o compromessi. Che ne dica Franco Battiato (Mario Bolognari e Franco Battiato: I ragazzi di von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento; Città del Sole Edizioni, 2013), i ragazzi di von
Gloeden sono persone violate, sottomesse, umiliate (anche se consenzienti, non solo al ritratto fotografico), perché abbacinate dallo sfarzo, la marchetta, la considerazione (prezzolata di von Gloeden). L’erotismo è altra cosa. La cura dei piaceri dei libertini esprimeva una costruzione erotica senza sorta di limiti, ma rigettava la miseria sessuale generalizzata, nella quale ogni atto sessuale doveva contenere anche la sua giustificazione. Ciascuno deve cercare in sé il modo di essere felice, e mai fare dell’altro/a oggetto delle proprie paure o fobie, ma accogliere con grazia e tenerezza il soggetto del proprio desiderio d’amore (non importa a quale sesso appartenga). Questo è il piacere del desiderio e della sessualità liberata. La sciatteria architetturale (il sovraccarico di segni), che accomuna Disdéri e von Gloeden, mostra che l’uno e l’altro sono prodotti di venti secoli di ideologia cristiana. La morale insegnata dai preti bene si riflette nei corpi pietrificati di Disdéri, quanto nelle nudità adolescenziali di von Gloeden. Il monopolio dell’educazione borghese è il medesimo, e la finzione è che la verità intima -o ultima- giace in un sudario senza spine. La fotografia è l’occhio della conoscenza, unisce l’inconscio (ciò che non sappiamo di noi) con il conscio (ciò che presumiamo di sapere), abolisce limiti, frontiere, ragioni... fa nascere opposizioni, contraddizioni, indignazioni... più di ogni cosa è l’epifania dove l’io e il mondo diventano immagini di un sogno. La Fotografia si ubriaca del sangue del vero e si bagna senza pudore nelle acque della bellezza e della giustizia, e anche se si smarrisce un poco, respinge le favole crudeli che l’adornano di simulacri fatali. Sotto l’unghia della Fotografia, c’è l’innocenza del divenire. Anche i bambini che tirano i sassi alla Luna sanno bene che il profumo del gelsomino influisce sul corso/mutamento delle costellazioni. Proprio come la Fotografia. ❖