FOTOgraphia 204 settembre 2014

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ANNO XXI - NUMERO 204 - SETTEMBRE 2014

Viva la fotografia italiana AD ARLES 2014 Grande formato QUESTA VOLTA, TORNA

GRANDE GUERRA A COLORI... DA TUTTI I FRONTI


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O T N E M A N O B B A N I O L SO

Viva la fotografia italiana AD ARLES 2014 Grande formato QUESTA VOLTA, TORNA

ANNO XXI - NUMERO 203 - LUGLIO 2014

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ANNO XXI - NUMERO 204 - SETTEMBRE 2014

ANNO XXI - NUMERO 202 - GIUGNO 2014

Tipa Awards 2014 QUARANTA ECCELLENZE Swpa 2014 COMUNQUE, FOTOGRAFIA

(trentadue visioni più una)

LEICA RITORNO A WETZLAR

di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)

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prima di cominciare ALTRE VOLTE, TORNANO. Nella primavera 2006, abbiamo riferito che la copertina di GQ di aprile aveva presentato la modella Gisele Bündchen, in una raffigurazione comprensiva di una affascinante Deardorff in legno 8x10 pollici, uno degli elementi tecnici di forte personalità del nostro perseguito Ritorno al grande formato: dopo l’avvio sul numero dello scorso luglio, un rafforzativo in questa attuale edizione, da pagina 36, altri ancora ce ne saranno. Riprendiamo quelle note originarie, in aggiornamento: questa estate, i quotidiani italiani hanno riferito che, in base alle classifiche stilate dall’autorevole e accreditata rivista statunitense di economia e finanza Forbes, Gisele Bündchen, in fantastica carriera, risulta essere la modella più pagata al mondo. I quarantatré milioni che ha guadagnato nel 2013, conformano la posizione che -udite, udite- occupa da otto anni. Il marito Tom Brady è stato distaccato di sedici milioni! Denari fantascientifici a parte, a noi rimangono le considerazioni sulla Deardorff di accompagnamento, nella primavera 2006, su coerente treppiedi in legno. Per l’appunto, Deardorff: quanti sogni, quanti ricordi, che straordinaria evocazione di un tempo e un mondo che soltanto qualche anno fa faceva palpitare i cuori di chi -noi tra questi- considerano discriminante anche la forma degli utensili fotografici, fatta salva la loro relativa ottima funzionalità (e le due componenti sono sempre indivisibili tra loro). La Deardorff è stata un autentico mito per generazioni di fotografi e usata da tanti autori di ogni grandezza espressiva e creativa. Grande formato folding in legno -interpretazione tecnica che gli americani definiscono “View”-, è stata prodotta senza sostanziali modifiche dal 1924 al 1988, quando il marchio è stato ceduto a una cordata giapponese, capeggiata da Horseman, che lo tenne in vita per pochi anni ancora. La L.F. Deardorff & Sons, di Chicago, fu fondata dal capofamiglia Laben F. Deardorff, apprezzato riparatore di macchine fotografiche professionali, e condotta dal figlio Merle S. A parte costruzioni per pellicola di dimensioni ancora superiori, tre furono i formati standard: al consueto, 8x10, 5x7 e 4x5 pollici, rispettivamente equivalenti a 20,4x25,4cm, 12,7x17,8cm e 10,2x12,7cm (semplificati in 20x25, 13x18 e 10x12cm). Ma la Deardorff per eccellenza, quella dei sogni, delle speranze e del desiderio, è la otto-per-dieci, appunto richiamata sulla copertina di GQ, dell’aprile 2006.

L’uso di apparecchi grande formato rappresenta una forma di resistenza agli automatismi che caratterizzano la fotografia contemporanea: una tacita protesta contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite, contro il fracasso per la quiete. Reinhart Wolf (nel 1980); su questo numero, a pagina 47 Soprattutto quando arriva prematuramente... soprattutto quando arriva in modo tragico... soprattutto quando la fine arriva per mano propria... soprattutto... soprattutto... soprattutto... la commozione e partecipazione sono inevitabili. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 8 In conclusione, sono sempre più convinto che la Fotografia Italiana è Viva. E, quindi: Viva la Fotografia Italiana! Beppe Bolchi; su questo numero, a pagina 56 Paradossalmente, si tratta di introdurre l’ipotesi di un altro tipo di razionalità (detto meglio, di irrazionalità): le potenzialità del grande formato diventano addirittura espressive; cioè, vanno giudicate alla luce dell’influenza del mezzo sul proprio linguaggio. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 43

Copertina Soldati in osservazione da una trincea, durante la Prima guerra mondiale (Grande guerra, prima che fosse necessario contarle). Dalla monografia The First World War in Colour, a cura di Peter Walther, pubblicata dall’ormai inevitabile Taschen Verlag. Ne riferiamo da pagina 26

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, cartolina del Terzo Reggimento Genio Sezione Fotografica, realizzata in occasione della Festa dell’arma del genio, il 13 febbraio 1905. Doppio allineamento, con argomenti pubblicati: evocazione della Prima guerra mondiale (da pagina 26) e Ritorno del grande formato fotografico (da pagina 36)

7 Editoriale Anzitutto, la Parola: usata con consapevolezza e rispetto del suo valore. Tra tanto altro, va annotato che il workshop Ritorno al grande formato, del quale ci stiamo facendo paladini, è giusto questo: avvincente incontro di Parole, prima che di Fotografia

8 L’attimo è sfuggito Ricordo dell’attore Robin Williams, che se ne è andato per mano propria. Fu grande nel film One Hour Photo


SETTEMBRE 2014

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

Anno XXI - numero 204 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

14 Scenografia italiana (!)

IMPAGINAZIONE

La fiction televisiva Gino Bartali. L’intramontabile ne ha fatta una bella: biottica Rolleiflex ruotata, per inquadrature “orizzontali”... sul seisei quadrato Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

REDAZIONE

16 Zampe sulla città Campagna pubblicitaria Moncler che richiama un ritratto di Margaret Bourke-White celebre e celebrato

19 Senza parole Se anche L’Unità dovesse chiudere... ci sarà un motivo

21 Camera Solo Monografia che accompagna una mostra itinerante di polaroid di Patti Smith, tra musica e letteratura di Angelo Galantini

26 Grande, la guerra Fantastica, avvincente, convincente, appassionante: per la raccolta di Autochrome della Prima guerra mondiale, in monografia Taschen, a cura di Peter Walther, si potrebbe continuare con tanti altri aggettivi. In lode di Maurizio Rebuzzini

34 Horseman 450 • LX • LX-C Banco ottico con testimonianza di Ansel Adams a cura di New Old Camera

36 A volte, tornano ... anche i formati fotografici: in questo caso, grandi. Osservazioni, impressioni e considerazioni. Oggi di Antonio Bordoni

49 Viva la Fotografia Italiana! Da Les Rencontres d’Arles Photographie 2014, una presa di posizione sulla quale riflettere. Tutti noi di Beppe Bolchi

Maria Marasciuolo Antonio Bordoni Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Beppe Bolchi Gianluigi Colin Giancarlo D’Emilio mFranti Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Marco Saielli Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

58 Eros?! Non certo casalinghe disperate, né -tantomeno- annoiate. Senza sottintesi, né lievità, in fotografie di Marco Saielli

65 Percentuali (con amore) Da Morte di un fotografo, di Douglas Kennedy

www.tipa.com



editoriale L

iberi come mai l’Uomo è stato nella Storia (più precisamente, apparentemente liberi), sempre più frequentemente e diffusamente usiamo la Parola con disinvolta... Libertà. Facendolo, riveliamo di non aver capito nulla: come ha detto Enzo Jannacci -con e per altro riferimento, che qui calca bene, e per questo è preso a prestito, «Tu di barche non hai mai capito niente! Tu di barche non hai mai capito un c...!» (da Luna rossa, nell’album Come gli aeroplani, del 2001). E lo stesso, in ritorno a girotondo, è per tutti noi, per molti di noi, nei confronti di ciò che decliniamo e interpretiamo come libertà. Ancora, con Giorgio Gaber e Sandro Luporini (da La libertà, del 1972, in Dialogo tra un impegnato e un non so: « La libertà non è star sopra un albero, / non è neanche il volo di un moscone, / la libertà non è uno spazio libero, / libertà è partecipazione». A conseguenza, la Parola ha perso il proprio peso e valore: non è più quella pietra che è stata in epoche passate, e che meriterebbe ancora di essere. In contrasto, per noi la Parola è ancora importante (tanto che, nella sua sostanza, questa è una rivista di Parole, che esprimono idee, suggeriscono linee guida, sollecitano considerazioni). Così, la usiamo con lo scrupolo che merita e che meritano coloro i quali la ascoltano. Ritorno al grande formato, workshop che ho allestito e svolgo con Giancarlo D’Emilio, è giusto questo: un incontro di Parole, prima che di Fotografia, affinché -una volta ancora, una di più, mai una di troppo!- la stessa Fotografia non sia arido punto di arrivo (tanto meno autoreferenziale, come ormai è l’insieme di tanta/troppa fotografia italiana), ma sempre e comunque fantastico s-punto di partenza... per osservazioni e partecipazioni che ci avvicinino alla Vita, che diano alla Vita le virtù che merita. Ne abbiamo riferito lo scorso luglio, con lancio dalla copertina, ne scriviamo ancora oggi (da pagina trentasei), ne racconteremo ancora nei prossimi mesi. L’impegno è preso, oltre che assoluto e inderogabile. Giunti al punto, è proprio questo il senso della Fotografia: che rivela sempre qualcosa di noi, che l’abbiamo realizzata, prima ancora di raccontare del soggetto raffigurato, spesso preso solo a pretesto. Ancora con Daisetz Teitaro Suzuki, considerato il massimo divulgatore in occidente dell’antica disciplina orientale dello Zen: «Uno degli elementi decisivi nell’esercizio delle pratiche spirituali è il fatto che queste non perseguono alcun fine pratico, ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima». Ecco qui (ekko qui?) il significato fondamentale dell’esercizio della e con la Fotografia. Sia che si tratti di semplice fotoricordo domenicale (nobile e piena di valori), sia che si tratti di impegno individuale più sostanzioso (quel fotoamatorismo, anche organizzato, frequentato da molti), la fotografia è un hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è certo questione da poco. Maurizio Rebuzzini

Già! Ritorno al grande formato, e dintorni: in una ipotesi per la quale la Parola anticipa la Fotografia, offrendole straordinario accompagnamento. Comunque, posa di oltre trenta anni fa... perché il Tempo non passa mai invano. Sia chiaro, mai!

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O Capitano! Mio Capitano! di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

L’ATTIMO È SFUGGITO

A

Assolutamente, no. Non entro nella cronaca della morte, per mano propria, dell’attore Robin Williams, che ci ha colpiti con un pugno nello stomaco a metà agosto. Però, considerato il suo fascino interpretativo e lo spessore e l’emozione dei personaggi ai quali ha dato vita, il silenzio è fuori luogo. Tra l’altro, e magari in una qualche annotazione in cronaca (involontaria), soprattutto quando arriva prematuramente... soprattutto quando arriva in modo tragico... soprattutto quando la fine arriva per mano propria... soprattutto... soprattutto... soprattutto... la commozione e partecipazione sono inevitabili, forse scontate. In ripetizione d’obbligo: è quanto è accaduto lo scorso tredici agosto, alla notizia del suicidio dell’attore Robin Williams. Tra l’altro, siamo (stati) coetanei, entrambi del luglio 1951, lui il ventuno, io il quattordici. E questa casualità, questa coincidenza significa forse qualcosa. Anche perché, come spesso annotiamo, le coincidenze potrebbero profilarsi come i soli accadimenti che rivelano che la vita possa avere un qualsivoglia senso. Ma non è questo il punto, quanto lo è l’aspetto pubblico di Robin Williams che ha portato sullo schermo una quantità/qualità di personaggi (positivi), nei quali è stato facile identificarsi (magari!), e con i quali ci si è subito sintonizzati. È senza cuore, è senza speranze, chi non ha amato il robot Andrew Martin, che in L’uomo bicentenario (Bicentennial Man, di Chris Columbus, del 1999) riesce a diventare umano, per amare, anche se questo gli costa la vita, la trasposizione dal reale del dottor Patch Adams, che nell’omonimo film-biografia (di Tom Shadyac, del 1998) combina l’armonia dell’esistenza alla cura delle malattie, lo psicologo Sean Maguire, che richiama alla vita il tormentato Will Hunting (in Will Hunting - Genio ribelle / Good Will Hunting, di Gus Van Sant, del 1997), il redivivo Alan Parrish, che in Jumanji (di Joe Johnston, del 1995) torna da una decennale Odissea, il/la bivalente Daniel Hillard / Mrs Doubfi-

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Nel film L’attimo fuggente, evocando la poesia di Walt Whitman, il professor John Keating (Robin Williams) sollecita gli studenti a osservare la Vita anche da punti di vista inconsueti. Alla fine, «O Capitano! Mio Capitano!» sarà il loro saluto in solidarietà.

re (evocata nel titolo; di Chris Columbus, del 1993), che riesce ad essere padre fingendosi domestica tuttofare, l’indaffarato affarista Peter Banning, che nei panni di Peter Pan salva i propri figli dal perfido capitan Uncino (Hook - Capitan Uncino / Hook, di Steven Spielberg, del 1991), il senzatetto Parry, filosofo in La leggenda del re pescatore (The Fisher King, di Terry Gilliam, del 1991), il commovente dottor Malcom Sayer, che in Risvegli ridà speranze a malati di mente abbandonati a se stessi (Awakenings,

di Penny Marshall, del 1990), l’ammaliante professor John Keating, del film Cult L’attimo fuggente (Dead Poets Society, di Peter Weir, del 1989), che guida una generazione confusa verso la propria vita, porgendo loro fantastici passi dalla poesia di Walt Whitman («O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato [...] / O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane», da In memoria del Presidente Lincoln). Basta. Sono certo che ognuno ha il suo



O Capitano! Mio Capitano! Robin Williams di fiducia. Insospettabilmente, il mio è Parry, della Leggenda del re pescatore. Altri personaggi sono troppo facili (da amare e per immedesimarsi).

ONE HOUR PHOTO Tra tanto, c’è anche la fotografia: di One Hour Photo, di Mark Romanek (anche sceneggiatore), del 2002, la cui sceneggiatura trasmigra dalle lavorazioni di un minilab alla vita. Prendendo a pretesto il servizio di sviluppo e stampa delle fotoricordo, il film narra una vicenda dai molteplici risvolti e di svolgimento quantomeno intrecciato. Interpretato da un magistrale Robin Williams, al culmine delle proprie performance cinematografiche, Seymour “Sy” Parish è un addetto al servizio rapido di stampa colore presso un lindo centro commerciale (SavMart), alle porte di una anonima città statunitense; il protagonista (diciamolo, uno psicopatico) vive un’esistenza in qualche modo di riflesso: alla famiglia Yorkin, che conosce e ama attraverso le fotografie che la moglie Nina gli porta regolarmente a sviluppare. Oltre le copie che consegna, contravvenendo a tutte le logiche e regole del proprio mestiere (questo va detto, sottolineato e ribadito, a garanzia e tutela della privacy dei clienti), Sy stampa una propria serie aggiuntiva. Attraverso queste serene e allegre istantanee partecipa alla loro vita, ritagliandosi una sorta di ruolo di ipotetico e amato “zio” («Quando guardiamo i nostri album fotografici, vediamo soltanto momenti felici; nessuno scatta fotografie dei momenti che vuole dimenticare», riflette il protagonista, che osserva che attraverso l’insieme delle proprie istantanee ciascuno lascia anche una indelebile traccia di se stesso: «Io c’ero», può pensare). Il film può essere diviso in due parti, collegate tra loro dallo svolgimento della sceneggiatura, ma ideologicamente separate da un solco profondo. Anzitutto, va annotato che si tratta di una vicenda in flashback: il film inizia con la dichiarata incriminazione del protagonista, appunto fotografato antropologicamente di fronte e profilo, e interrogato da un poliziotto. La domanda d’esordio -nel

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Oltre l’impianto complessivo del film One Hour Photo, del 2002, di Mark Romanek, che si basa su un minilab presso un centro commerciale, alle porte di una anonima città statunitense, è doveroso segnalare una consistente qualità di avvincenti osservazioni sulla fotografia. Tra tanto altro, il protagonista Seymour “Sy” Parish (interpretato da un commovente Robin Williams) riflette sulle fotoricordo che trova in un mercatino: «Quanto sono straordinari i ritratti familiari. Rivelano molto della vita delle persone. Significano che c’è stato chi ti ha amato tanto... da fotografarti». Eccolo qui un valore assoluto e inviolabile e inderogabile della fotoricordo, che compone un tratto luminoso della storia quotidiana con la fotografia.

primo dei luoghi freddi e sterilizzati nei quali si muove il protagonista per tutto il film- sollecita il ricordo, cioè la narrazione della vicenda. Nella prima parte, Seymour “Sy” Parish svela e rivela immediatamente il proprio (morboso?!) attaccamento alla famiglia Yorkin, composta dalla giovane moglie Nina, dal marito Wil, sempre indaffarato, e dal figlio Jake di nove anni. Appunto, il racconto prende avvio dallo sviluppo e stampa delle fotografie della festa di compleanno. Nella seconda parte, quando, da una serie di copie stampate per un’altra cliente, Sy scopre che la famiglia alla quale si è “associato” non è limpida come appare nelle fotografie, ma il marito/padre ha una relazione extraconiugale, scatta un meccanismo di ribellione che lo porta a interferire in modo aggressivo nelle loro esistenze reali. Straordinaria metafora della Vita e della Solitudine individuale, con eccezionali momenti di richiamo tra l’istantanea fotografica e la realtà (per esempio, Seymour “Sy” Parish che all’impersonale tavola calda, dove cena immancabilmente da solo, mostra alla cameriera la fotografia del piccolo Jake, presentandolo come proprio nipote), One Hour Photo non esaurisce le proprie riflessioni nel solo riferimento fotografico, dal quale peraltro prende avvio. L’analisi è profonda, ed è stata ben sottolineata da un direttore della fotografia (che nel cinema non ha alcun punto di

contatto con ciò che noi intendiamo per “fotografia”), capace di alternare l’aridità degli spazi dello psicopatico Sy, sempre bianchi, sempre lindi, sempre anonimi, sempre asettici (quasi sopraesposti di uno o due stop), con l’energia, il calore, la saturazione e la vivacità dei luoghi della vita di tutti i giorni. Ancora, e poi basta, un altro passaggio del film, al quale Robin Williams ha offerto una interpretazione fuori dall’ordinario. Visitando un mercatino dell’usato, Seymour “Sy” Parish si imbatte in una scatola che contiene una consistente quantità di fotoricordo familiari, assolutamente eterogenee tra loro e di epoche diverse: oltre la postura, i volti e gli abiti indossati, lo rivelano anche le copie in bianconero e a colori e la finitura delle stesse stampe. Con lentezza, scorre le fotografie; ne trattiene tra le dita alcune, le guarda con attenzione, le soppesa... si commuove. E pensa. «Quanto sono straordinari i ritratti familiari», riflette tra sé e sé. «Rivelano molto della vita delle persone. Significano che c’è stato chi ti ha amato tanto... da fotografarti». Eccolo qui, un valore assoluto e inviolabile e inderogabile della fotoricordo, che compone uno dei tratti più luminosi della storia quotidiana con la fotografia (se non proprio “della fotografia”): la testimonianza degli affetti, delle comprensioni. Già... dell’amore. Qualsiasi cosa questo possa significare. ❖



Notizie a cura di Antonio Bordoni

TERZA GENERAZIONE. Subito annotato: tra le proprie prerogative incrementate, la nuova configurazione Fujifilm X30, che nell’ambito della proposta tecnico-commerciale di appartenenza sostituisce la precedente X20, è dotata di un innovativo mirino Real Time di recente progettazione e realizzazione: ampio, veloce e con la più elevata risoluzione nella sua classe. Quindi, si segnalano il sensore di acquisizione X-Trans Cmos II da due terzi di pollice (dodici Megapixel, senza filtro ottico passa-basso), l’elaborazione dell’immagine con processore EXR Processor II e la nuova modalità di simulazione pellicola “Classic Chrome”.

Le novità tecnico-operative includono una nuova ghiera di controllo, oltre a selettori e pulsanti di funzione (per una più agevole gestione) e un monitor LCD basculante da tre pollici di luminosità elevata (con 920.000 pixel di risoluzione). La durata della batteria di alimentazione della Fujifilm X30 è stata migliorata di circa 1,8 volte rispetto il modello precedente, per una autonomia estesa a circa quattrocentosettanta scatti con una sola carica. In livrea nera o argento. Con un ingrandimento pari a 0,65x e un ritardo della visualizzazione di soli 0,005 secondi, l’attuale Fujifilm X30 è dotata del più ampio e veloce mirino della sua classe. L’innovativo mirino elettronico Organic EL, da 2,36 Megapixel, offre una chiara visione Live View ad alta definizione. La stessa visione Live View può anche essere impostata con la funzione Preview Pic Effect, che rispecchia le condizioni di scatto e consente una visione naturale, simile a quella a occhio nudo. Mentre il sen-

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sore del mirino riconosce la collocazione verticale della macchina fotografica, con relativa modifica automatica della visualizzazione delle informazioni; anche questa funzionalità rappresenta un’innovazione rispetto al modello precedente. La nuova ghiera di controllo, collocata dietro lo zoom manuale, consente l’immediata regolazione delle impostazioni per l’apertura del diaframma e del tempo di otturazione, per perfezionare la composizione dell’immagine. Funzionalità efficaci -come la sensibilità Iso, la simulazione della pellicola, il bilanciamento del bianco e lo scatto continuo- possono essere assegnate premendo il pulsante della ghiera di controllo nella parte frontale. Due selettori, posti sulla parte superiore, e sei pulsanti di funzione, posti sul dorso, consentono un più rapido accesso alle funzionalità maggiormente utilizzate, garantendo una operatività più istintiva; mentre il monitor LCD da tre pollici e 920.000 pixel, di straordinaria chiarezza, può essere orientato per agevolare l’inquadratura da varie angolazioni. Le parti superiore e inferiore del corpo macchina sono realizzate in una leggera e resistente lega di magnesio. Le ghiere di metallo dell’obiettivo sono realizzate in alluminio e l’impugnatura tridimensionale in gomma si adatta perfettamente alla mano, assicurando una migliore operatività. (Fujifilm Italia, Strada Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it).

SIGMA PHOTO PRO 6.0.4. È disponibile la più recente release per le configurazioni Sigma ad acquisizione digitale di immagini. Il programma Sigma Photo Pro 6.0.4 è disponibile in versione Windows e Macintosh (la versione Mac-Apple è compatibile con i file grezzi Raw realizzati con Sigma dp2 Quattro). Nello specifico, Photo Pro 6.0.4 è compatibile solamente con file Raw delle serie Quattro e Merrill e della Sigma SD1. In alternativa, per le

altre configurazioni Sigma è adeguata la precedente release Sigma Photo Pro 5.5.3, fino a quando non sarà liberata la successiva versione Photo Pro 6.1.0. Nel dettaglio, l’attuale Sigma Photo Pro 6.0.4 offre innovazioni specifiche: per Windows e Mac, corregge il difetto a causa del quale il programma -talora- non apre i file realizzati con la SD1, SD1 Merrill e con la Serie DP Merrill e corregge il difetto a causa del quale il programma non salva i dati di ripresa quando si salvano i file in Jpeg e Tiff. Quindi, per Mac, si registra anche la correzione del difetto a causa del quale è visualizzato “Errore 14” e non si riescono a salvare le immagini in un Hard Disc esterno, la correzione del difetto a causa del quale la Finestra Principale va in crash dopo aver salvato le immagini e aggiornato i file visualizzati nella finestra. La release Sigma Photo Pro 6.0.4 per Windows e Mac è scaricabile da http://www.sigma-global.com/en/download/cameras/ sigma-photo-pro/. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).

CHE BELLA ESCURSIONE! Zoom tele con motore AF a ultrasuoni e stabilizzatore ottico di immagine, il Tokina ATX-Pro 70-200mm f/4 FX VCM-S è un efficace obiettivo dedicato al pieno formato. La sua escursione focale è particolarmente indirizzata, oltre che rivolta, al fotogiornalismo, alla fotografia naturalistica e a quella di viaggio. Il versatile e convincente Tokina ATX-Pro 70-200mm f/4 FX VCM-S è equipaggiato con il nuovo modulo VCM (Vibration Compensation Module), in grado di compensare le vibrazioni e il micro mosso: in termini di velocità, si guadagnano tre stop (parametro Cipa). Allo stesso tempo, il modulo di messa a fuoco “S”, a ultrasuoni, assicura anche una sostanziosa velocità operativa, che si abbina a una significativa riduzione di peso e ingombro, consentita

dalla particolare struttura anulare dello stesso modulo. Inoltre, grazie a questo motore, è possibile passare al controllo manuale della messa a fuoco, semplicemente girando la ghiera. La messa a fuoco è interna: quindi, non si registrano allungamenti fisici nell’accomodamento e nella escursione zoom. L’adozione di tre lenti in cristallo ottico a basso indice di dispersione (SD Glass FK-01) è garanzia per un’eccellente nitidezza e una resa cromatica estremamente brillante fino ai bordi estremi del fotogramma inquadrato e ripreso con l’ottimo zoom Tokina AT-X Pro 70200mm f/4 VCM-S. A fuoco da un metro, a tutte le escursioni focali; baionetta equipaggiata con una guarnizione in gomma, che previene l’infiltrazione di umidità e polvere; diaframma a nove lamelle, per un “bokeh” convenientemente piacevole; ghiera porta filtri (67mm) senza rotazione alla messa a fuoco, per l’impiego ottimale di filtri polarizzatori. In dotazione, il paraluce dedicato “a petalo” BH672; accessorio opzionale, il collare TM705 consente un ancoraggio bilanciato al treppiedi. In baionetta Canon e Nikon. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

SCENOGRAFIA ITALIANA (!)

G

Gino Bartali. L’intramontabile è una fiction televisiva italiana: lo si capisce subito, considerata la povertà scenografica e l’assoluta mancanza di “fotografia” (in senso cinematografico), che caratterizza l’attualità filmica nel e del nostro paese. Volendo approfondire, in qualcuna delle ripetute repliche Rai (per esempio, lo scorso luglio, in straordinaria occasione del centenario dalla nascita: 18 luglio 1914-2014), si può anche prendere in considerazione la piaggeria della sceneggiatura, che per celebrare il proprio soggetto fa scempio della personalità dell’antagonista storico Fausto Coppi, presentato come una figura meschina. Nessuno si disperi, soprattutto se ferito nelle proprie passioni: ci sarà modo di invertire i ruoli in una probabile (plausibilmente probabile) fiction per i cento anni dalla nascita del Campionissimo, il prossimo 15 settembre 2019. Certo, per quanto “coppiano” di lunga data e antica militanza, non ignoro i valori ciclistici di Gino Bartali, Intramontabile in quanto fu capace di vincere il prestigioso Tour de France a dieci anni di distanza, con una Seconda guerra mondiale tra le due date: 1938 e 1948. Ancora, Intramontabile perché non soffrì i sei anni di interruzione bellica, nel pieno del suo vigore atletico (una interruzione che lo ha certamente privato di quei primati e successi che avrebbe raggiunto, che sicuramente meritava). Sì, ho sempre preferito Coppi a Bartali, e non mi interessa la vicenda del passaggio della bottiglia d’acqua lungo il percorso della decima tappa del Tour de France, da Losanna all’Alpe d’Huez, il 4 luglio 1952, fotografato da Carlo Martini [FOTOgraphia, marzo 1999]. Del resto, tifo a parte, la sportività non ammette insolenze, né tollera ottusità di parte. Infatti, su basi certe, sappiamo bene come, nonostante la contrapposizione tra fazioni di tifosi l’un contro l’altra armate, in gara, Coppi e Bartali si sono spesso scambiati incoraggiamenti e cortesie. Nessuno dei due ha mai approfittato di

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La differenza tra l’attenzione scenografica dei film italiani e quella della cinematografia statunitense è evidente. Scartate a lato tante altre osservazioni sulle rispettive capacità professionali, queste differenze balzano subito all’occhio. Nel caso e specifico della nostra visione mirata (e viziata), la biottica Rolleiflex, ruotata per improbabili inquadrature orizzontali, della fiction Rai Gino Bartali. L’intramontabile, fa il paio con il volet del filmpack Graflex di The Notorious Bettie Page.

una disgrazia dell’altro per andare in fuga, magari avvantaggiandosi su una foratura; e, addirittura, Coppi lasciò a Bartali una tappa del Tour, nel giorno del suo compleanno. Per certi versi, in tempi più recenti di questi antichi -che ho vissuto, in cronaca temporalmente moderatamente differita, per e con i racconti di mio padre Natale-, per anni ho invidiato a Gino Bartali lo straordinario omaggio musicale che gli ha riservato Paolo Conte («Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / e i francesi ci rispettano / che le balle ancora gli girano»). Poi, finalmente, Gino Paoli ha equilibrato anche questo fronte, consacrando Fausto Coppi: «Un omino con le ruote / contro tutto il mondo / Un omino con le ruote / contro l’Izoard / e va su ancora / e va su». Pace fatta, anche nel mio cuore.

Ancora, e poi ci rituffiamo in fotografia, nostra intenzione statutaria, non possiamo ignorare, né vogliamo farlo, le recenti rivelazioni di quanto fatto da Bartali per gli ebrei perseguitati, negli anni della Seconda guerra mondiale: da cui, il suo nome è oggi scolpito nel Giardino dei Giusti tra le Nazioni, a Yad Vashem, il Mausoleo della Memoria, a Gerusalemme. E questo vale più di milioni di pedalate, di milioni di chilometri macinati, di fughe, allunghi, volate e via discorrendo: la vita è qui, ora. Fotografia nel cinema, allora e nel concreto, finalmente. Nello specifico, annotiamo e confermiamo che Gino Bartali. L’intramontabile è una fiction televisiva italiana: lo si capisce subito, considerata la colpevole ignoranza scenografica. Sentite questa: nelle scene nelle quali Gino Bartali, interpretato da un plausibile Pierfrancesco Favino, viene circondato da cronisti e fotogiornalisti, molti di questi, armati di Rolleiflex, con immancabile flash, ruotano la biottica per inquadrature verticali... sul formato inviolabilmente quadrato, sei-per-sei! Nessun costumista, nessun assistente alla scenografia ha avuto qualcosa da ridire: è il cinema italiano, bellezza, e tu non puoi farci niente. Neanche volendolo. Per contraltare, quando Paula Klaw, interpretata per l’occasione dall’attrice Lili Taylor, fotografa Betty Page (l’attrice Gretchen Mol), nella fiction La scandalosa vita di Bettie Page (The Notorious Bettie Page, di Mary Harron, del 2005, per la HBO [FOTOgraphia, aprile 2013]), usa filmpack Graflex nella sua Speed Graphic 4x5 pollici: lo si capisce dall’anello del volet, tanto caratteristico, ben visibile al piano focale. Qui i costumisti e gli scenografi rivelano di aver avuto attenzioni anche per i particolari minimi, ininfluenti sulla storia, ma significativi ai fini della ricostruzione temporale degli anni Cinquanta della fotografia professionale americana: è il cinema statunitense, bellezza, e tu non puoi farci niente. Neanche volendolo. ❖



In omaggio a di Angelo Galantini

La campagna autunno di Moncler ha preso avvio a metà agosto: conteggiando che il primo annuncio che abbiamo incontrato, venerdì ventidue, in doppia pagina sul Corriere della Sera, sia effettivamente tale, il primo. Ma non è questo che ci interessa, quantomeno non qui, per lo meno non ora; invece, fedeli alla nostra visione della fotografia, senza soluzione di continuità fino al suo costume e alle sue trasversalità (in uscita e entrata, come è questo il caso), ci ha attratto e incuriosito il richiamo a un celebre ritratto di Margaret Bourke-White, una delle più illustri, autorevoli ed eminenti figure del fotogiornalismo del Novecento, che tra tanto altro firmò la copertina del numero Uno di Life, datato 23 novembre 1936 [diversi i nostri richiami al proposito, soprattutto in FOTOgraphia, del maggio e giugno 2007, e ci torneremo ancora a novembre, nell’anniversario]. Ovviamente, il ritratto è quello scattato nel 1934 dal suo assistente Oscar Graubner, che la raffigura con un apparecchio grande formato tra le mani, sporta da uno dei caratteristici doccioni del Chrysler Building, di New York, dove aveva il suo studio, dall’alto del sessantunesimo piano. Dunque, il soggetto Moncler seduto sullo stesso zampone (uno degli otto dell’architettura Art Déco del grattacielo, alla base della poderosa guglia di trentotto metri, in acciaio inossidabile), che per molti non ha altri richiami, a noi rimanda alla Storia della fotografia. Quantomeno, consente di ricordare una personalità professionale capace di gestire la propria immagine pubblica con la stessa forza e caparbietà con le quali ha edificato una carriera a dir poco straordinaria. La cadenza delle sue immagini è nota. Però, probabilmente, molti ignorano i tratti della fantastica individualità di Margaret Bourke-White. Per incontrarli nella loro quantità e qualità è indispensabile leggere la persuasiva biografia compilata da Vicki Goldbeck, disponibile anche nella sua traduzione italiana (Margaret Bourke-White. Una biografia; Serra e Riva Editori, 1988: ma-

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Armata di macchina fotografica grande formato, tenuta a mano libera, Margaret Bourke-White si sporge da uno degli otto doccioni del Chrysler Building, di New York (1934).

(pagina accanto) Annie Leibovitz sul Chrysler Building con il suo assistente Robert Bean: «Non ti posso aiutare; sento lo spirito di Margaret Bourke-White su di noi. Ma è bello; è davvero, davvero bello» (Annie Leibovitz).

Altre due combinazioni di Margaret Bourke-White con il Chrysler Building: durante la costruzione (con Graflex) e in ripetizione della posa del 1934. Campagna Moncler autunno 2014: con uno dei doccioni del Chrysler Building.

OSCAR GRAUBNER

L

ZAMPE SULLA CITTÀ


JOHN LOENGARD (1991)

In omaggio a

CHRYSLER!

Progettato da William van Alen, il Chrysler Building è uno dei simboli più celebri di New York City. Completato nel 1930, è alto trecentodiciannove metri e si trova nell’East Side di Manhattan, nei pressi di Grand Central Station, in prossimità dell’incrocio tra la Quarantaduesima strada (della stazione: 82east 42nd street) e Lexington Avenue (per l’esattezza, 405 Lexington Avenue). Originariamente ordinato altrimenti, in corso d’opera venne destinato alla sede della società automobilistica Chrysler. Per un breve periodo, fino al 1931, fu il grattacielo più alto del mondo, prima di essere superato dall’Empire State Building, sempre di New York, a pochi isolati di distanza. Ovviamente, ci sarebbe tanto da scrivere, ma non ci compete, dal nostro punto di vista... limitato.

Il Chrysler Building svetta nell’architettura di New York del 1932.

Operai su uno degli otto doccioni del Chrysler Building.

gari non è facile reperirla), certamente meno accondiscendente rispetto l’autobiografia Margaret Bourke-White. Il mio ritratto (Contrasto, 2003; 320 pagine 15x20,5cm; 35,00 euro). Leggiamo dal testo di Vicki Goldbeck: «Poco dopo il rientro dalla Russia, nel Trenta, Margaret [...] affidò a John Vassos la ristrutturazione del suo studio nel grattacielo della Chrysler. Il risultato tendeva a dimostrare che la Bourke-White era pronta per il mondo di domani: si trattava, infatti, di un ambiente modernissimo, tutto curve studiate e angoli decorativi, con un acquario tropicale accanto a una parete, veneziane in alluminio alle finestre e luci a muro di metallo e vetro smerigliato. «Ma Margaret non si fermò lì. Per tener fede alla sua fama di donna spericolata, si fece fotografare con tanto di macchina [fotografica] appollaiata in cima a una delle grosse lamine sistemate al sessantunesimo piano del grattacielo [eccoci qui!, con il motivo conduttore odierno]. Nel 1932 acquistò un alligatore vivo da tenere in studio. Sistemò un avviso sull’acquario, che diceva: “Non spostate l’alligatore. Grazie!”. Poi, comprò un compagno alla povera bestia: ai due furono dati i nomi di Hypo e Pyro [elementi della chimica fotografica per il trattamento bianconero], e vennero entrambi sistemati sul terrazzo». Del resto, si sa anche come Margaret Bourke-White fosse una donna ricercata, tanto da essere considerata tra le dieci donne americane più eleganti della propria epoca. Nella stessa Biografia, leggiamo che la fotografa «era perfettamente consapevole di dover vendere anche se stessa insieme alle sue fotografie». Pertanto, «si preoccupava del suo aspetto esteriore come il curatore di una mostra itinerante. Gli abiti divennero un passaporto e un sostegno al contempo». Tanto che «Margaret si fece un abito viola e un panno in velluto dello stesso colore, per la macchina fotografica, di modo che quando cacciava la testa sotto il panno per scattare, la scenografia rispettava i canoni dell’abbinamento cromatico. Soddisfatta di tanta eleganza, preparò altri due panni: uno azzurro, da coordinare con guanti e cappello, e uno nero, per gli accessori rossi». Così è. ❖

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Lagnanza (?!) di Maurizio Rebuzzini

A

SENZA PAROLE

Anche se poi la vicenda nel proprio complesso si è evoluta altrimenti, approdando a ennesimi compromessi e patteggiamenti (così tipici e caratteristici di questo nostro bel paese!), mercoledì trenta luglio, il quotidiano L’Unità è uscito in edicola con una edizione particolare: fatte salve alcune precisazioni di fondo e oltre la cronaca della questione in essere, l’edizione si è presentata con fogli bianchi, senza testi né illustrazioni. Insomma, il messaggio è stato esplicito: ci hanno ucciso, non possiamo più svolgere il nostro lavoro. Da cui, e per cui, l’inequivocabile prima pagina: Hanno ucciso l’Unità, con accompagnamento di una vignetta a tema di Sergio Staino. Per quanto recentemente trasformatosi altrimenti, il giornale nacque come organo del Partito comunista, per l’appunto evocato dalla citazione immediatamente sotto la testata, che per voce (penna?) di Antonio Gramsci, uno dei fondatori del Partito, icona e martire inviolabile del comunismo italiano: (in assenza di punteggiatura) «Dovrà essere un giornale di sinistra. Io propongo come titolo l’Unità puro e semplice che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale». Ci sono stati tempi durante i quali L’Unità è stato effettivamente un gran bel quotidiano, e non richiamiamo soltanto gli anni delle ideologie ferree, ma anche momenti più vicini ai nostri giorni (per esempio, pensiamo alla direzione di Furio Colombo). Analogamente, ci sono stati persino tempi di autentica battaglia, di conflitto acceso, durante i quali L’Unità in tasca è stata un elemento che tracciava un solco invalicabile, identificando chi si dichiarava espressamente comunista. A conseguenza, L’Unità era un’arma affilata, che veniva usata con caparbietà. Ancora, i nostri ricordi personali evocano le domeniche mattina militanti, di “diffusione”, con il quotidiano affiancato dai periodici di Partito: sopra tutti, Vie nuove e Noi donne, in questo ordine. Poi, all’alba dei Novanta,

ma anche qualche settimana prima, tutto si è sciolto come neve al sole, e il quotidiano ha accantonato la propria matrice originaria, per confrontarsi con la stampa nazionale, senza segmentazioni nette e invalicabili. No! Non stiamo giudicando la trasformazione della vita politica nazionale, e internazionale. Rimaniamo nelle note di costume, e tanto ci basta e compete. Del resto, ricordiamo con chiarezza quanto ci disse un amico genovese (allora distributore di materiale fotografico, erede di una antica famiglia, soprattutto in termini generali e aristocratici, ma anche nel senso squisitamente fotografico): che bisognava essere senza cuore, per non essere comunisti a vent’anni; e, in prosecuzione, si era senza cervello se si era comunisti ancora a quarant’anni. In metafora, siamo stati comunisti... poi siamo guariti. In un certo senso, questa edizione muta dell’Unità ha fatto il paio con quella senza illustrazioni, che il francese Libération ha pubblicato lo scorso autunno [ FOTOgraphia, dicembre 2013], con motivazioni tutte sue, e non certo autoreferenziali. Al contrario. Comunque, le affinità sono solo apparenti e di superficie. Infatti, nella alterazione dei tempi, i pesi sociali

Mercoledì trenta luglio, il quotidiano L’Unità è uscito in edicola con una edizione particolare: fatte salve alcune precisazioni di fondo e oltre la cronaca della questione, l’edizione si è presentata con fogli bianchi, senza testi né illustrazioni. Così, si è sottolineata la minacciata chiusura del quotidiano. Consapevoli di non essere graditi, né popolari, diciamo la nostra: L’Unità non è stata boicottata politicamente (?), ma muore per la sua sostanziale inutilità.

e giornalistici delle due testate -nate in comunità di intenti, con i rispettivi partiti comunisti- sono oggigiorno tanto distanti da non consentire alcun paragone, alcun accostamento: L’Unità muore anche per la sua sostanziale inutilità; Libération è riferimento per la più ampia area francese di cultura, senza alcuna soluzione di continuità o pre-appartenenza. Bene... oppure male. Noi registriamo qui un aspetto, diciamola così, di costume giornalistico. La redazione dell’Unità accusa complotti e sotterfugi, evitando di interrogarsi sulla propria cronica mancanza di ruolo alcuno. Del resto, questa stessa estate, anche gli albergatori che hanno subìto flessioni commerciali hanno evocato lo stato di calamità, per risanare le proprie finanze (senza tenere in alcun conto i lauti guadagni del passato, anche recente). Quindi, di fronte alle leggi di mercato, che -per quanto terribili possano essere- fanno parte del gioco al quale ciascuno si è iscritto, stendiamo la mano, per raccogliere briciole di carità. Non la nostra, sia chiaro (né mano, né -tantomeno- carità). Punto... in bianco. Anche noi siamo rimasti senza parole. Ma non siamo afflitti. Siamo allibiti e costernati. ❖

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RITORNO

AL GRANDE FORMATO workshop

a cura di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini

27 e 28 settembre Bam - Bottega Antonio Manta (Laboratorio di stampa Fine Art) via Ammiraglio Burzagli 229 - 52025 Montevarchi AR www.bottegamanta.com


Riunite in un volume-catalogo che accompagna la mostra degli originali fotografici, e che vive anche una propria dimensione bibliografica autonoma, le polaroid della musicista e scrittrice statunitense Patti Smith rivelano quanto l’espressività individuale non sia mai confinata entro limiti prestabiliti. Le continue connessioni tra la sua fotografia e il suo dichiarato interesse per la poesia e la letteratura scandiscono tempi e modi di una creatività alimentata da un immaginario, spesso onirico, che arricchisce la sua esistenza almeno tanto quanto può migliorare quella di ciascuno di noi. E non è certo poco

DI

CAMERA SOLO AL DIA, CBC

N

ata Patricia Lee Smith, a Chicago, nell’Illinois, il 30 dicembre 1946, Patti Smith è una delle figure più emblematiche del rock degli anni Settanta. Le sono state attribuite numerose etichette: soprattutto, rivoluzionaria e grande protagonista del proto-punk e della New Wave. Probabilmente, sono tutte legittime: non siamo in grado di esprimerci, e neppure ci interessa farlo, né occuparcene, oltre la compilazione di note decifratorie. Quello che ci interessa è approdare presto alla sua combinazione fotografica, per la quale ci sentiamo più adatti e adeguati. Quindi, concludiamo in fretta il dovere: considerata dall’autorevole rivista Rolling Stone tra i cento migliori artisti contemporanei, nel cui elenco occupa il quarantasettesimo posto, Patti Smith è universalmente riconosciuta per un intenso carisma interpretativo e per la suggestiva potenza delle sue liriche. E qui smettiamo, per rientrare in confini statutari. Musica a parte, che comunque sottolinea una personalità di straordinaria grandezza, che abbiamo introdotto per identificare la sua personalità prestata anche alla fotografia, Patti Smith incrocia le nostre considerazioni con l’allestimento di una avvincente e suadente mostra fotografica, a cura di Susan Lubowsky Talbott, che ha preso avvio con le date del Wadsworth Atheneum Museum of Art, di Hartford, nel Connecticut, dal 21 ottobre 2011 al 19 febbraio 2012. A seguire, altre sedi, altre date, dal Canada alla Scozia, agli Stati Uniti, ancora. Filo conduttore di tutto questo, che non avremo certamente modo di avvicinare in Italia (si sa bene come viene gestita la fotografia creativa ed espres-

siva nel nostro paese, avaro di attenzioni a tutta la fotografia, nel proprio insieme e complesso), è l’agile volume-catalogo Patti Smith. Camera Solo, oggettivamente a disposizione di tutti: basta volerlo conoscere, ed è fatta. Dunque, musicista e scrittrice, esponente di quel movimento culturale che ha preso le mosse dalle visioni di Andy Warhol (?), Patti Smith è anche una fotografa creativa. La mostra Camera Solo e il volume-catalogo che l’accompagna, e che vive anche un’esistenza autonoma -peraltro arricchito di preziosi testi introduttivi e decifratori (tra i quali, un’ottima intervista con la curatrice Susan Lubowsky Talbott, amministratore delegato del Wadsworth Atheneum Museum of Art, di Hartford)-, comprende settanta fotografie, che nell’allestimento scenico si accompagnano con due installazioni multimediali. La maggior parte delle immagini raffigura cimeli e oggetti che sono appartenuti a scrittori e poeti. Per esempio, è significativa la riproduzione in scala della lettiera (costruita da un bozzetto originale) che è servita per soccorrere Arthur Rimbaud sulle montagne etiopi, in agonia per una cancrena alla gamba. Patti Smith ha concepito il poeta francese disteso sul giaciglio, sotto la pioggia battente, nel caldo soffocante, in preda al dolore e alle visioni; così, ha coperto tutto con sue lettere e poesie. Ancora, è stato fotografato il letto di Virginia Woolf, che il marito Leonard (al quale la scrittrice lasciò una intensa lettera d’addio, quando si suicidò, il 28 marzo 1941) aveva costruito in uno stanzone annesso alla casa, per preservare la solitudine e tutelare la depressione della scrittrice, che negli ultimi mesi di vita soffriva di terribili emicranie. (continua a pagina 24)

NIKLAS LARSSON (SCANPIX SWEDEN)

di Angelo Galantini

DETROIT

CAMERA SOLO

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Camera Solo, Castello Longhi de Paolis di Fumone ; 2006.

Walt Whitman’s Tomb, Camden, NJ; 2007.

Virginia Woolf’s Bed II, Monk’s House ; 2003.

Headstone for William Blake, Bunhill Fields, London ; 2006.


Victor Hugo’s Bed, Paris; 2006.

Robert’s Slippers; 2002.

Jackson & Jesse, NYC ; 2008.

Casa Mollino, Turin ; 2010.

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Patti Smith in un ritratto di Robert Mapplethorpe, del 1979.

(continua da pagina 21) servando il tutto con una intensa partecipazione personale, che traspare da ogni polaroid e Patti Smith fotografa in/con polaroid. Ha codall’insieme di tutte queste polaroid, accostate minciato a frequentare la fotografia a sviluppo le une alle altre. Chi ha modo di pronunciarsi in immediato dopo la morte del marito Fred e del questo senso, ha rilevato che la sua espressivifratello Tod. Il dolore, ovvero la difficoltà nell’età fotografica possiede la stessa qualità emotisprimere emozioni sulla carta, nel proseguire la va, mai filtrata, mai mediata, prevalente nelle propria vita, è stato mitigato da una Polaroid del sue poesie e nei suoi brani musicali: senza sopassato (per la cronaca, una Polaroid 250, ad luzione di continuità, tutto il fascino di queste esposizione automatica, per filmpack della serie visioni sta nell’immaginario, spesso onirico, che 600). La leggenda -una certa leggenda- narra Patti Smith. Camera Solo; che la prima inquadratura compose le pantofole a cura di Susan Lubowsky Talbott; le definisce. Quindi, da parte nostra, sostanzialmente lontani da questa musica, per quanto videl ballerino Rudolf Nureyev, che l’esortò a con- Yale University Press, 2011; 96 pagine 18,3x21,8cm; 22,27 dollari. cini ad altra musica, annotiamo che l’osservatinuare con la fotografia. Dunque, a conti fatti, Camera Solo mette in luce -sottoli- zione d’intorno di Patti Smith è delicata, lieve e intima... coneandole- le continue connessioni tra la fotografia di Patti me piace a noi (ma il nostro gradimento non conta). CoinvolSmith e il suo interesse per la poesia e la letteratura. Per più gente e amorevole, la visione è d’amore e con il cuore. E l’a❖ di quattro decenni, ha documentato situazioni e luoghi, os- more, sappiamo riconoscerlo, quando lo incontriamo.

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GRANDE LA GUERRA

HANS HILDENBRAND (TASCHEN / LVR - LANDESMUSEUM BONN)

0JULES GERVAIS-COURTELLEMONT (TASCHEN)

Prima che fosse necessario contarle, la guerra mondiale 1914-1918 (nella quale l’Italia entrò l’anno dopo, il 24 maggio 1915, quando «Muti passaron quella notte i fanti») è stata identificata come la Grande guerra. A tutti gli effetti, è da considerarsi madre di tutti i conflitti: quest’anno, è evocata, persino celebrata, in occasione del centenario. Puntuale e attento, l’audace ed eroico Taschen Verlag (per il quale decliniamo due aggettivi sintonizzati) partecipa alla ricorrenza con l’edizione di una straordinaria raccolta di immagini a colori: The First World War in Colour, a cura di Peter Walther. Bella monografia, che arricchisce il racconto della Storia della fotografia, quella che si compila, giorno dopo giorno, nel conforto di visioni niente affatto accademiche: che preferiamo

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di Maurizio Rebuzzini

(pagina accanto) La Mosa, dopo la disfatta di Verdun. Deposito di munizioni in Francia (1918). Fotografia ripresa in assignment per l’American Committee for Devastated France.

(doppia pagina precedente) Carro con armamenti antiaereo; Verdun, 1916. Trincea tedesca.

HANS HILDENBRAND (TASCHEN / LVR - LANDESMUSEUM BONN)

Soldati in osservazione da una trincea.

La leggenda del Piave, conosciuta anche come La canzone del Piave (di E.A. Mario, pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta); inno nazionale dal 1943 al 1946

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio; l’esercito marciava per raggiunger la frontiera per far contro il nemico una barriera! Muti passaron quella notte i fanti, tacere bisognava e andare avanti. S’udiva intanto dalle amate sponde sommesso e lieve il tripudiar de l’onde. Era un presagio dolce e lusinghiero il Piave mormorò: Non passa lo straniero! Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento e il Piave udiva l’ira e lo sgomento. Ahi quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto, poiché il nemico irruppe a Caporetto. Profughi ovunque dai lontani monti, venivan a gremir tutti i suoi ponti. S’udiva allor dalle violate sponde sommesso e triste il mormorio dell’onde. Come in un singhiozzo in quell’autunno nero il Piave mormorò: Ritorna lo straniero! E ritornò il nemico per l’orgoglio e per la fame volea sfogare tutte le sue brame, vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora! No, disse il Piave, no, dissero i fanti, mai più il nemico faccia un passo avanti! Si vide il Piave rigonfiar le sponde e come i fanti combattevan l’onde. Rosso del sangue del nemico altero, il Piave comandò: Indietro va, o straniero! Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento e la Vittoria sciolse l’ali al vento! Fu sacro il patto antico e tra le schiere furon visti risorgere Oberdan, Sauro e Battisti! Infranse alfin l’italico valore le forche e l’armi dell’Impiccatore. Sicure l’Alpi, libere le sponde, e tacque il Piave, si placaron l’onde. Sul patrio suolo vinti i torvi Imperi, la Pace non trovò né oppressi, né stranieri.

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S

ubito note che qualificano il talento e merito del curatore della avvincente e convincente raccolta The First World War in Colour, pubblicata da Taschen Verlag, di Colonia (immancabilmente lui!), in allineamento con le celebrazioni del centenario 19142014. L’attento e autorevole Peter Walther ha curato varie pubblicazioni letterarie e fotografiche su temi storici sostanzialmente contemporanei (non è un ossimoro), tra le quali studi su Johann Wolfgang von Goethe (del quale anche qui sottolineiamo l’alto valore del suo Viaggio in Italia, diario scritto tra il 1813 e il 1817, pubblicato in due volumi, nel 1816 e 1817), Heinrich Theodor Fontane, Thomas Mann e su scrittori nella Prima guerra mondiale. Ha curato diverse mostre, ed è particolarmente interessato all’esordio delle tecniche fotografiche di riproduzione a colori. Da cui e per cui, è stabilita la sua attendibilità e autorevolezza nella combinazione dei due elementi che qualificano questa coinvolgente e suggestiva monografia: la Grande guerra e la sua documentazione fotografica a colori. Facile a dirsi, oggi, quasi scontato farlo (ma facciamolo lo stesso): si tratta di una rassegna di colori della catastrofe. The First World War in Colour nasce da un singolare e fortunoso ritrovamento di Autochrome della Prima guerra mondiale. Con l’occasione, soprattutto dal nostro punto di vista mirato e indirizzato, dobbiamo ricordare, qui (e ora), che l’Autochrome (in italiano, a volte, autocromia: brutto!) è il procedimento originario di fotografia a colori, basato sulla sintesi additiva. Fu inventato dai fratelli Lumière (Auguste Marie Louis Nicolas, 18621954, e Louis Jean, 1864-1948), che già nel 1895 avevano inventato il cinema. Brevettato il 17 dicembre 1903, il processo fu accreditato alla Société Anonyme des Plaques et Papières photographiques A. Lumière et ses Fils (Società anonima di lastre e carte fotografiche A. Lumière e figli). Introdotta sul mercato nel 1907, l’Autochrome rivoluzionò il campo della fotografia a colori e diventò ben presto popolare, nonostante il costo e la complicazione di realizzazione e relativo trattamento.

GRANDE, GRANDE, GRANDE GUERRA Tornando in argomento (principale), l’incessante sequenza delle pagine di The First World War in Colour sottolinea come e quanto gli eventi devastanti della Prima guerra mondiale siano stati registrati e documentati in una miriade di fotografie, su tutti i lati del fronte. A conseguenza, sono le tante pubblicazioni a tema illustrate, sempre e soprattutto in bianconero, il cui insieme evidenzia come il conflitto abbia raggiunto i tratti di una autentica carneficina; per dirla meglio, si è trattato della più grande catastrofe del Ventesimo secolo, ai suoi albori. [A questo proposito, con visione trasversale, attraverso esistenze quotidiane, è fantastica la rievocazione di Ken Follett, in La caduta dei giganti, del 2010, primo titolo della sua Trilogia del Secolo; a seguire, L’inverno del


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SHELLS-LAFAUX (COLLEZIONE MARK JACOBS) JULES GERVAIS-COURTELLEMONT (TASCHEN)


ORIZZONTI DI GLORIA (PATHS OF GLORY ; STANLEY KUBRICK; 1957) (FRANCESCO ROSI; 1970) CONTRO

UOMINI

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ESPRESSIVITÀ E COMUNICAZIONE In ogni caso, sia chiara la consecuzione secondo la quale si fa di necessità, virtù; secondo la quale, per quanto gli strumenti condizionino il loro utilizzo, ne determinano anche il linguaggio espressivo [a proposito, sia evidente che questo non riguarda soltanto la fotografia, ma tutta la comunicazione visiva; per esempio, i connotati culturali ed espressivi dell’Impressionismo sono anche figli dei primi colori per pittura in tubetto e dell’uso di pennelli con peli di maiali, che trattenevano il vigore del gesto sulla tela]. Ancora: «I mezzi tecnici dei quali ci si avvale condizionano lo sguardo e i risultati stessi dell’azione fotografica» (dalla sessione di introduzione ideologica e filosofica del workshop Ritorno al grande formato, organizzato e svolto da Giancarlo D’Emilio

HANS HILDENBRAND (TASCHEN / LVR - LANDESMUSEUM BONN)

SUL GRANDE SCHERMO

Molto probabilmente, quasi certamente, il film più intenso sulla Prima guerra mondiale è Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick (Paths of Glory, del 1957) [«Kubrick. Il nome “Kubrick”, che suonava misterioso e kafkiano quasi come “Kafka”, è apparso dieci volte in quarant’anni nei titoli di testa di dieci film così innovatori, unici e diversi tra loro da far dubitare che indicasse una persona vera. I cinefili, ovviamente, sapevano, ma il grande pubblico poteva immaginare ci fossero autori diversi dietro Full Metal Jacket, Shining, Barry Lyndon, A Clockwork Orange, 2001: A Space Odyssey, Dr Strangelove, Lolita, Spartacus, Paths of Glory e The Killing» (Piero Raffaelli, in FOTOgraphia, aprile 2004 e aprile 2014)]. Poi, non bisogna ignorare lo straordinario La grande illusione, di Jean Renoir (La grande illusion, del 1937), e l’avvincente All’ovest niente di nuovo, di Lewis Milestone (All Quiet on the Western Front, del 1930), tratto dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque. Titoli italiani più che degni sono il crudo Uomini contro, di Francesco Rosi, del 1970, ispirato al romanzo Un anno sull’Altopiano, di Emilio Lussu (che ai tempi fu sequestrato e tolto dalla distribuzione; il regista fu denunciato), e il brillante (ma mica solo tale) La grande guerra, di Mario Monicelli, del 1959. Ancora, altre segnalazioni, molte delle quali premiate con diversi Oscar: Il sergente York, di Howard Hawks, (Sergeant York, del 1941); Gli anni spezzati, di Peter Weir (Gallipoli, del 1981); Capitan Conan, di Bertrand Tavernier (Capitaine Conan, del 1996), tratto dal romanzo omonimo, di Roger Vercel; Una lunga domenica di passioni, di Jean-Pierre Jeunet (Un long dimanche de fiançailles, del 2004), tratto dal romanzo omonimo, di Sébastien Japrisot; Il curioso caso di Benjamin Button, di David Fincher (The Curious Case of Benjamin Button, del 2008); War Horse, di Steven Spielberg, del 2011, tratto dal romanzo omonimo, di Michael Morpurgo, e dal relativo adattamento teatrale, di Nick Stafford. In ultimo, non dimentichiamoci di Charlot soldato, di Charles Chaplin (Shoulder Arms), proiettato in cronaca, il 20 ottobre 1918.

mondo, del 2012, elaborato attorno la Seconda guerra mondiale; in autunno, uscirà il terzo volume, Century, ambientato negli anni della Guerra fredda]. Comunque, sempre tornando al tema, sono meno familiari le fotografie a colori della Prima guerra mondiale, scattate da un’avanguardia di fotografi pionieri della nuova tecnica di raffigurazione. Come annotato, Taschen Verlag pubblica The First World War in Colour, a cura Peter Walther, in occasione del centenario dello scoppio della guerra. La monografia riunisce e censisce fotografie di notevole valore, completate dalle tinte della guerra... “per porre fine alla guerra”: ma noi, invece, sappiamo bene come e quanto poco l’Uomo impari dalla Storia! Assemblate da archivi europei, statunitensi e australiani, oltre trecentoventi fotografie a colori forniscono un accesso senza precedenti ai più considerevoli accadimenti del periodo: dalla mobilitazione del 1914 agli anni delle trincee, ai festeggiamenti per la vittoria, di Parigi, Londra e New York, nel 1919. La monografia offre una massiccia visione dell’impegno fotografico di fantastici pionieri dell’Autochrome, tra i quali si ricordano Paul Castelnau, Fernand Cuville, Jules Gervais-Courtellemont, Léon Gimpel, Hans Hildenbrand, Frank Hurley, Jean-Baptiste Tournassoud e Charles C. Zoller. In definitiva, e con ferma convinzione, si tratta di uno di quei libri che non dovrebbero mancare sugli scaffali delle librerie di coloro i quali vantano un dichiarato interesse fotografico: poi, a conti fatti, e come spesso annotiamo, a ciascuno il suo. E ognuno spenda i propri soldi come meglio crede. Ma! Ancora in ritorno al tema, rileviamo che gli obblighi imposti dal processo Autochrome hanno condizionato questa fotografia di guerra, così come e quanto ogni altro processo fotografico antecedente (dal collodio umido di Roger Fenton, in Crimea, e Mathew B. Brady, Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan, nella Guerra di secessione, negli Stati Uniti), il processo Autochrome richiedeva e imponeva tempo di esposizione (otturazione) relativamente lunghi. Quindi, al pari di ogni precedente fotografia di guerra, anche per la Grande a colori tutte le fotografie raffigurano scene accuratamente composte, dietro la rapida azione della prima linea e dei combattimenti.



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JULES GERVAIS-COURTELLEMONT (TASCHEN)

LÉON GIMPEL (TASCHEN)

QUEL REDUCE

Ho avuto la fortuna di vedere/sentire dal vivo il monologo di Renato, Il reduce (di Enzo Jannacci, Aurelio “Cochi” Ponzoni e Renato Pozzetto): almeno una mezza dozzina di volte, tra cabaret e teatro, tanto che quando lo risento in registrazione, la memoria mi riporta a quelle moine, a quei tempi. È un efficace testo teatrale, che -purtroppo- non può essere compreso nella sua semplificata trascrizione a testo (meglio di niente, comunque), al quale abbiamo dato sequenza continua. Ma la recitazione di Renato Pozzetto è ben altro. Purtroppo, non può più essere replicata, soprattutto per il ritorno periodico di “Quel pirla di un Silvio”, che oggi assumerebbe altre referenze, ma anche perché quei lontani tempi sono finiti. Punto, e a capo. C’eravamo attestati sull’avamposto picco delle tre croci, strappato al nemico con indicibili sacrifici umani, quando un giorno parto da detto picco per portare un messaggio al comandante di brigata di stanza al campo base, parto dal picco, vado giù per il vallone, scendo nel ghiaione, attraverso il canalone e mi metto al riparo di un masso, sono lì dietro al masso, faccio una roba dietro al masso, metto fuori la testa dal masso, paamm!, dall’altra parte mi sparavan giù le fucilate, il nemico maledetto. Quando si sente nel petto il disprezzo della vita e il coraggio di affrontare le... le... puttana eva. Mi riferisco alla guerra del Quindici al Diciotto. Un giorno incontro il Silvio e mi dice: «Io vado a salvare la patria!», puttana eva, vengo anch’io, sono corso a casa a prendere la valigia, il beauty eccetera e avanti! Alla stazione ad aspettare la tradotta, un treno carico di giovani che viaggia verso la morte, una bella gita! Siamo tutti alla stazione ad aspettare il treno, puttana eva, arriva il treno davvero e nel casino mi tirano su anche a me, quattro giorni di viaggio, fuori sette sotto zero e dentro una puzza della miseria, puttana eva, ma tira giù il finestrino, «sigillato!» ma cosa sigillato, che cosa, che a me quando mi si sigilla mi fan girare le balle... puttana eva. Dopo quattro giorni di viaggio, echeggia nell’aria: «Siamo arrivati!». Siamo arrivati dove? puttana... al centro di reclutamento, tutti giù dal treno. Erano le sette del mattino, nevicava, e... tutti questi ragazzi radunati sul marciapiede me lo ricorderò sempre, mi sono detto... puttana eva non mi ricordo più cosa ho detto quella volta lì, va beh, fa niente a monte. Ci portano in caserma ci mettono in fila indiana e il Colonnello passa in rassegna la forza. Eravamo tutti lì davanti al Colonnello, una bella persona alta, sprezzante con tutti i gradi, con tutto il suo incedere... un po’ culo è? Si ferma davanti a me, passa in rassegna la forza, mi guarda fisso negli occhi e mi dice: «Bravo!». Non avevo ancora fatto un’ostia, ma tira fuori il nemico che gli faccio un culo così. «Non prenda iniziative, nell’esercito calma, ordine subordinazione e lei per punizione porterà questo». Puttana eva... un cannone in spalla. «Lo porto io!» quel pirla di un Silvio... Puttana eva, ci caricano come bestie e avanti partenza verso il fronte sulle vette del Carso, «Avanti!» pim...pum...pam! Ci sparavano addosso da tutte le parti, mitragliamento, cannoneggiamento, saltavan per aria le mine, tutto sporco di sangue... Puttana eva, e il Piave mormora. Ma che cosa mormori a fare che io mi sto cagando addosso. «Avanti, avanti, siamo arrivati!», arrivati dove? puttana eva, tutti giù per terra. «Siamo arrivati... siamo arrivati in trincea», un buco nel fango dove sparano, muoiono, mangiano, pisciano, cagano, tutto dentro lì. Ma vai fuori te a pisciare col nemico a settanta metri... pam zac pam! via tutto. Il cecchino maledetto. Siamo in trincea, patapim patapum, non succede un ostia, e il malumore serpenteggia tra le file. Un giorno arriva il capo di stato maggiore... e dice «Abbiamo organizzato una sortita», sentiamo, «La cartina qui parla chiaro, il nemico è a settanta metri», lo stadio di San Siro alle spalle. «Prendiamo un gruppo di volontari, con un manipolo di volontari andiamo su dalla sinistra e andiamo su di là, con un altro manipolo di volontari andiamo sulla destra e andiamo su di là, li prendiamo alle spalle e li facciamo fuori». «Avanti Savoia! », non si muove nessuno, «Ci vado io!» quel pirla di un Silvio, salta su come un matto dalla trincea... prah ta ta ta ta una mitragliata l’ha spaccato in due, puttana eva... Silvio... Silvio... rispondi puttana eva, ma porca di una puttana, salto su come un matto dalla trincea, cosa avete sparato al mio amico che è venuto su per dimostrarvi... ma che cazzo spari che sto parlando, ah sì allora tò ciappa la baionetta, ciappa la bomba a mano avanti Savoia, indietro Savoia, Savoia indietro, puttana eva indietro Savoia, Savoia avanti indietro indietro puttana eva.


Celebrazioni della Vittoria, a Parigi, il 14 luglio 1919 (anniversario della Rivoluzione francese).

(pagina accanto) Ambulanza inglese (1914).

(pagina precedente) Pallone aerostatico francese abbattuto in Alsazia, nei pressi di Rethel, il 3 ottobre 1915.

e Maurizio Rebuzzini, ricordato anche nell’ambito delle considerazioni A volte, tornano, su questo stesso numero, da pagina 36). Così, per conseguenza, in raffigurazione per sottrazione, in fotografia di guerra in assenza di guerra (combattimenti), si avvicina una fotografia di grande efficacia e personalità, che probabilmente racconta la guerra -le sue conseguenze e ripercussioni- meglio di quanto possa farlo una sequele di morti ammazzati. In The First World War in Colour incontriamo struggenti ritratti di gruppo, soldati che si preparano per la battaglia, città devastate dai bom-

bardamenti: insomma, l’esistenza umana quotidiana e le conseguenze devastanti sul fronte. A un secolo dai fatti narrati, questa monografia senza precedenti rivela una realtà umana sorprendente, durante uno dei più sconvolgimenti momenti della Storia. In ripetizione d’obbligo: è di uno di quei libri che non dovrebbero mancare sugli scaffali delle librerie di coloro i quali vantano un dichiarato interesse fotografico; poi, a conti fatti, e come spesso annotiamo, a ciascuno il suo. E ognuno spenda i propri soldi come meglio crede. Ma! ❖

The First World War in Colour, a cura di Peter Walther; Taschen Verlag, 2014 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); in inglese (ed edizioni in francese e tedesco); 384 pagine 21x28,5cm, cartonato con sovraccoperta; 39,99 euro.

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dal 1976


Horseman 450•LX•LX-C Ansel Adams con Horseman 450 sulla copertina di Time Magazine, del 3 settembre 1979. Ansel Adams con Horseman 450 nel poster della campagna pubblicitaria “Apple Think different.”, del 1997.

www.newoldcamera.com


di Antonio Bordoni

A

llora! Lode al grande formato fotografico, indipendentemente dalle convenienze e -volendolo- dalle utilità del momento. Lode al grande formato, in un’epoca tecnologica altrimenti orientata, proiettata e praticata (nessun giudizio, sia chiaro, nessuna contrapposizione). Altrettanto volendolo, in una coincidente e coeva epoca tecnologica nella quale -frequentando imperterriti la pellicola fotosensibile e/o suoi convincenti succedanei- la qualità formale della trasformazione dell’immagine fotografica non dipende affatto dalle sole dimensioni dell’originale, negativo o diapositiva che sia. Infatti, comunque ognuno di noi possa/voglia intendere la propria frequentazione fotografica in forma analogica (pellicola e/o attraenti surrogati), al giorno d’oggi, la qualità finale di una stampa su carta fotografica (e in stampa digitale a getto di inchiostro e dintorni) o di una riproduzione grafica (stampa offset) è ottenibile anche a partire da negativi e diapositive e originali di dimensioni sostanzialmente contenute, ed è alla portata dei sistemi di acquisizione e gestione digitale delle immagini. Quindi, potendo lavorare con pellicole di dimensioni sistematicamente ridotte (e/o efficaci sostituti), oppure con sensori ad acquisizione di(continua a pagina 43)

A VOLTE TORNANO ... anche i formati fotografici. Testimonianza di uso (?), con osservazioni personali (!), su una applicazione fotografica che affonda le proprie radici indietro nei decenni... nei secoli, addirittura. Al giorno d’oggi, in momenti tecnologicamente proiettati in avanti e altrimenti definiti (nessun giudizio, sia chiaro, nessuna contrapposizione), l’uso di apparecchi grande formato, soprattutto a banco ottico, dà un identificato e volontario sapore proprio e autonomo all’esercizio fotografico, specialmente a quello svincolato da assillanti logiche di semplice convenienza. Rigore, disciplina, concentrazione (e tattilità della leggendaria Sinar Norma, prima e più di tutto e di altro). Metodi di pensiero e azione

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MAURIZIO REBUZZINI

La concentrazione compositiva sul vetro smerigliato non si contrappone tanto all’idea di istantanea -che ha propri motivi di fantastica intensità-, quanto propone un atteggiamento fotografico diverso, con valori espressivi autonomi. La prolissità delle regolazioni degli apparecchi grande formato introduce una forza lavoro che determina, condizionandolo anche, guidandolo perfino, un ricercato e voluto rigore formale della composizione fotografica. Ovvero, volumi, luminosità e piani

prospettici accostati e costruiti nel rigore dell’inquadratura su vetro smerigliato di generose dimensioni, con ricercato formalismo compositivo. Ovverosia, espressivo. Ne consegue una sostanziosa influenza del mezzo fotografico sul linguaggio: l’inquadratura su vetro smerigliato raccoglie già una “immagine”, ben delimitata dai propri confini e dalla plasticità della proiezione. Il rigore del vetro smerigliato aggiunge proprie concentrazioni formali, che danno valore alla fotografia posata.

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ANTONIO BORDONI

Da fotocolor 8x10 pollici ripreso con l’obiettivo per fotografia in grande formato Nikkor-AM ED 210mm f/5,6. Rapporto di riproduzione 1:1 (al naturale); retroilluminazione per dare risalto alla trama dei fili di lana, il cui raffinato dettaglio dà senso, valore e spessore alla qualità formale dell’obiettivo, specificamente indirizzato alla fotografia a distanza ravvicinata (in sistema con un’altra focale Nikkor-AM ED 120mm f/5,6).

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Per quanto il paesaggio sia uno degli indirizzi principali dell’ipotizzato e sostenuto Ritorno al grande formato, non siamo lontani dal giusto quando esprimiamo (oppure, rinnoviamo) un nostro personale invito verso lo still life. Il fish-eye Zodiak-B 30mm f/3,5, a copertura completa del medio formato 6x6cm, produce un cerchio immagine di 88mm di diametro al centro del 4x5 pollici.


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ANGELO GALANTINI

ANTONIO BORDONI


MAURIZIO REBUZZINI

Dalla casa di ringhiera di nascita (in via Bordoni 2, a Milano), evocazione (?) della Veduta dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce, del 1926-27, conteggiata come la prima fotografia della Storia, per l’incipit dell’affascinante e convincente saggio 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini [attenzione: «Non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi. La lievità, la sottintesa impertinenza sono brillanti mezzi da abile saggista per alleviare la tensione di un argomento fin troppo serio, e trattato con la più assoluta consapevolezza del sapere. E lievità, impertinenza e autentico sapere sono esaltati dalle immagini che illustrano il percorso di questa nuova storia della fotografia. Immagini così godibili, e la maggior parte inconsuete, frutto di una ricerca che ha impegnato e impegna Rebuzzini da una vita, da essere di per se stesse una rivelazione da meditare e che ci arricchisce, regalandoci un universo iconografico ignorato dai più», dalla prefazione di Giuliana Scimé]. Comunque, dal punto di vista formale, consapevolmente allineato all’incalzato Ritorno al grande formato, si segnala l’uso di carta fotosensibile al posto della pellicola. Originariamente destinata alla stampa in bianconero in camera oscura,

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la carta fotosensibile è di bassa sensibilità (circa 6 Iso), produce un originale meno dettagliato di quello proprio e caratteristico del negativo trasparente... ma è ammaliante e seducente. Operativamente, semplifica le procedure di trattamento, limitate alle bacinelle e ai chimici del processo positivo (in luce di sicurezza!); ideologicamente, riporta agli esperimenti originari dei pionieri, condotti soprattutto con supporto cartaceo. Quindi, una volta ottenuto il negativo su carta, oggigiorno è giocoforza gestirlo attraverso la trasformazione in file, a partire dall’acquisizione a scanner. Senza volere essere nulla di più di quanto abbiamo la consapevolezza di essere, esprimiamo qui la netta sensazione che questo allineamento passato-presente ( Ritorno al futuro?) e origini-attualità dell’esposizione in ripresa di carta sensibile bianconero, per la successiva acquisizione a scanner del negativo-matrice e gestione digitale, rappresenti qualcosa di meglio del solo giochino delle parti, che invece definisce tanti altri presunti richiami storici, suggeriti dall’ignoranza. È qualcosa che si proietta in avanti, facendo tesoro ideologico del passato: tutto osservato da un punto di vista obbligatoriamente viziato, quello di giornalista fotografico, con compiti anche tecnici.


ANTONIO BORDONI

Raffinata composizione sull’alternanza del bianco sul nero, o viceversa, che riporta alla memoria una personalità che ha dato lustro alla fotografia italiana contemporanea. Anche questo è uno dei valori del Ritorno... a compagnie da non scordare: Karim Sednaoui (semplicemente Karim, per tutti).

KARIM SEDNAOUI

Inquadratura 1:1 (al naturale) su fotocolor 4x5 pollici realizzata con obiettivo dedicato Schneider Makro-Symmar HM 120mm f/5,6 (in famiglia ottica con un’altra focale 180mm f/5,6), indicato per l’escursione tra quattro riduzioni e altrettanto quattro ingrandimenti del soggetto. Quello degli obiettivi speciali, a disegno ottico personalizzato, è uno dei capitoli più esaltanti del proposto (e raccomandato) Ritorno al grande formato: con accessibilità a una infinita serie di interpretazioni fotografiche di straordinaria personalità, tutte estranee alla presunta alta qualità asettica dei nostri giorni (tormentati giorni).

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EDOARDO MARI

Ancora un richiamo di emozione, di commozione. Fotocolor 8x10 pollici di Edoardo Mari, realizzato per visualizzare le possibilità formali del suo versatile studio fotografico, all’alba del Duemila. Dunque, composizione ben equilibrata, pur nella sovrabbondanza di elementi, e illuminazione in luce pennellata, distribuita con maestria. Questo, per quanto riguarda la forma, l’apparenza. Ma! Ma la fotografia deve essere anche altro. Perfino nel raccomandato

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Ritorno al grande formato, deve essere (non soltanto “dovrebbe essere”) fantastico s-punto di partenza, non arido punto di arrivo. Quindi, anche attraverso queste note chiarificatrici (che non sono soltanto tecniche), arriviamo ai sentimenti. Ricordiamo qui Edoardo Mari, che ci ha lasciati in punta di piedi, l’11 giugno 2009. Se n’è andato da solo, avvolto nelle tenebre di quella solitudine volontaria, per quanto indotta, che ne ha definito gli ultimi anni, caratterizzandoli addirittura.


(continua da pagina 36) gitale analogamente microscopici, dal punto di vista razionale, la discriminante del grande formato fotografico (a partire dalle pellicole piane 4x5 pollici e rimpiazzi/facenti funzione) non passa più attraverso l’elemento originariamente qualificante del “grande”, quanto dipende invece dall’aggiustamento dei piani... oltre che dalla disciplina e fascino del vetro smerigliato (stiamo per riflettere). Comunque, in senso oggettivo e pratico, il piano dell’obiettivo e quello immagine sono irrinunciabilmente finalizzati al controllo della prospettiva e della nitidezza (tanti gli approfondimenti, in FOTOgraphia, negli anni che dalla seconda metà dei Novanta si sono allungati fino al giro di decennio, secolo e millennio). A seguire, e in sovramercato -ekkoci qui!-, non ignoriamo (anzi sottolineiamo e esaltiamo!) il piacere personale di comporre l’immagine sul vetro smerigliato e il gusto di usare apparecchi rigorosamente meccanici, magari costruiti con materiali, diciamo così, tattili: per esempio, con la Sinar Norma originaria, nata alla fine dei Quaranta e approdata alla soglia dei Settanta [Memorabilia, in FOTOgraphia, del novembre 1996, e nella straordinaria visualizzazione retrospettiva di New Old Camera, in FOTOgraphia, del febbraio 2014].

RITORNO AL GRANDE FORMATO

Le nostre considerazioni odierne si basano su qualcosa che sta accadendo, nel nostro paese. L’identificato e definito Ritorno al grande formato è un workshop a cura di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini, realizzato nell’ambito del nascente contenitore FOTOgenia, che si specifica in Fotografia oggi, nel rispetto di ieri, ma soprattutto con Quintessenza della Fotografia (riferimento attuale, in attesa di www e altro, 366-4064664). In cronaca, il workshop Ritorno al grande formato si svolge con gruppi operativi di lavoro, ai quali viene fornita una dotazione quantitativa/qualitativa autonoma di attrezzature: in (eventuale) assenza di propri apparecchi, Sinar 4x5 pollici accessoriata e complementi strutturali e infrastrutturali. In approfondimento, in filosofia, in intenzioni, lo stesso workshop è uno dei momenti che FOTOgenia sta organizzando a favore di un ricercato e proposto risveglio di condizioni fotografiche del passato, anche remoto: a partire dal senso e valore individuale ed espressivo della fotografia in grande formato, declinata non più per le sue evidenti e oggettive utilità del passato prossimo, dallo still life alla fotografia di architettura e industriale, ma per componenti di lentezza, concentrazione e disciplina... addirittura di etica.

OLTRE L’ISTANTANEA Tralasciando la concretezza dei corpi mobili degli apparecchi grande formato (ribadiamo, finalizzati al controllo della prospettiva e della nitidezza... ed è altra questione, nobile questione, questione fondante... ma non qui, ma non ora), le considerazioni sulla disciplina della fotografia in grande formato di ripresa diventano più eteree. E per questo più affascinanti. Paradossalmente, si tratta di introdurre l’ipotesi di un altro tipo di razionalità (detto meglio, di irrazionalità). Oltre l’evidente esteriorità dei fatti, dobbiamo considerare la sostanza complessiva delle faccende. In questo senso, le potenzialità del grande formato diventano addirittura espressive; cioè, vanno giudicate alla luce dell’influenza del mezzo sul proprio linguaggio: «I mezzi tecnici dei quali ci si avvale condizionano lo sguardo e i risultati stessi dell’azione fotografica» (dalla sessione di introduzione ideologica e filosofica del workshop Ritorno al grande formato, organizzato e svolto da Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini). Come abbiamo espresso in altre occasioni e sottinteso altrettanto frequentemente, questo è un rapporto a un tempo pratico e astratto. Da una parte, è un vincolo di carattere “pratico”, perché le condizioni fisiche del lavoro influiscono sui propri risultati; ma è anche “astratto”, perché le relazioni individuali con gli strumenti implicano personalismi che sfiorano, addirittura, il feticismo degli oggetti (evviva!). Indipendentemente dalle questioni relative alla regolazione ragionata dei corpi mobili, che è altra questione (in ripetizione d’obbligo, non qui,

Ritorno al grande formato: workshop a cura di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini. Primo svolgimento (e altri a seguire) in combinazione con Bam - Bottega Antonio Manta, di Montevarchi, in provincia di Arezzo, il ventisette e ventotto settembre prossimi.

Nell’ambito del workshop Ritorno al grande formato, oltre le sessioni pratiche/operative, svolte in affascinanti location (Vivaio Piante Mati e centro storico di Pistoia, nel caso del primo svolgimento), sono preordinate presentazioni con supporto di proiezione in PowerPoint: una ideologica/filosofica, che accompagna le due giornate, un Abbecedario tecnico e un approfondimento delle prestazioni ottiche dell’obiettivo a fuoco morbido Rodenstock Imagon [ FOTOgraphia, dicembre 1996].

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CARL-HANS KOCH: SEMPLICITÀ DEL GENIALE

di Feuerthalen, sull’altro lato del Reno, al 1968, in tempi di Sinar-p, la prima espansione dell’edificio alla metà degli anni Settanta e il terzo ampliamento alla fine degli Ottanta. Sempre impresa a conduzione familiare, dalla seconda metà degli anni Settanta, Sinar è passata sotto la direzione di Hans-Carl Koch, figlio di Carl, successivamente affiancato da suo figlio Carl-Hans: un Koch della quinta generazione di una delle più antiche e nobili e accreditate stirpi fotografiche svizzere. Quindi, dopo traversie causate dalla rapida trasformazione tecnologica della fotografia professionale (a tutti nota), cessione del marchio e trasferimento societario a Zurigo. Oggi Sinar è di proprietà di Leica.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (9)

Fotografo di terza generazione, nel 1947, il trentunenne Carl-Hans Koch, nato nel 1916, subentrò al padre Hans-Carl, scomparso prematuramente, nell’attività professionale avviata dal nonno a Schaffhausen, all’estremo nord della Svizzera, sul confine con la Germania. Membro attivo del comitato centrale dell’Union Suisse des Photographes e membro della commissione di esperti per l’esame di diploma, a quei tempi, Carl Koch ha diviso il proprio tempo lavorativo tra la conduzione del negozio-studio, specializzato nel ritratto e nella fotografia di panorama, e la progettazione di un apparecchio grande formato che fosse più pratico e agevole di quelli allora in commercio.

Due ritratti di Carl Koch distanti mezzo secolo (quasi). In posa al vetro smerigliato della sua Sinar Norma originaria, in configurazione dei secondi anni Cinquanta, e nella posa ufficiale per la celebrazione del suo ottantesimo compleanno, festeggiato il 5 marzo 1996. Carl Koch è mancato il 23 dicembre 2009.

In questo senso, i primi brevetti depositati datano al 1947, e il sistema Sinar fu avviato nel successivo 1948; all’inizio, la sigla stava per “Studio INdustria ARchitettura”, oggi (dal 1984) identifica “Studio Industria Natura Architettura Riproduzione”. Per una decina di anni, Carl Koch continuò a scomporsi tra l’attività professionale vera e propria e la conduzione della neonata produzione fotografica. Soltanto nel 1958, le esigenze industriali ebbero il sopravvento, e Carl Koch cedette lo studio (rilevato dal suo assistente Rolf Wessendorf), per dedicarsi completamente alla commercializzazione degli apparecchi Sinar. Da qui, corriamo in fretta, e datiamo l’edificazione della fabbrica

Assistito da Rolf Wessendorf (in primo piano, con scatto flessibile), che poi ne rilevò l’attività fotografica, Carl Koch in una sessione professionale, per la quale sta agendo con tre apparecchi a banco ottico accostati.

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Mancato il 23 dicembre 2005, a ottantanove anni [FOTOgraphia, febbraio 2006], Carl Koch è stato una di quelle figure che incarnano in sé la genialità del semplice, o la semplicità del geniale (sicuramente, è lo stesso). Le sue realizzazioni tecniche hanno rappresentato la più clamorosa e autentica svolta nella fotografia professionale moderna, che è diventata tale -moderna- anche grazie alle sue intuizioni. Soprattutto, dobbiamo ricordare che l’impronta Koch-Sinar ha modificato ogni precedente concetto di apparecchio grande formato, che -grazie alla Norma originaria- soltanto dall’inizio degli anni Cinquanta può declinare i concetti di modularità e di efficienza a tutto campo.

Manuali di Carl Koch: Il libro del sistema Sinar - Manuale della fotografia su grande formato (1969?); Il sistema Sinar - Manuale dell’apparecchio fotografico professionale (1974 e 1977); Il grande formato - Manuale del sistema Sinar (con Jost J. e C. Marchesi; 1982 e 1986; 1990); Photo Know-How (con Jost J. Marchesi; 1984).


MAURIZIO REBUZZINI (2)

PIANO, PIANO... LENTAMENTE

Inverno 1982, cena a Schaffhausen, con Carl Koch, sua moglie Hill e Edoardo Mari (mancato cinque anni fa [ FOTOgraphia, luglio 2006]): «Tra altri discorsi, lo sollecitai a tornare alle idee originarie del banco ottico modulare: annotazioni e disegni per l’occasione. Bel ricordo, di quelli che stanno nel cuore, là dove niente o nessuno li può scalfire» (M.R.).

Il rito del grande formato, con tutta la sequenza dal vetro smerigliato all’uso dello châssis portapellicola piana, fino al gusto di una lastra/pellicola piana di dimensioni generose (o attualità suppletive: sopra tutto, carta sensibile -originariamente destinata alla stampa di copie bianconero in camera oscura- o carta autopositiva, autonomamente collocate nello châssis al posto della pellicola), è una emozione alla quale molti di noi non rinunciano. A parte subordinazioni pratiche inviolabili, se e quando l’esercizio della fotografia concede margini alla interpretazione tecnica personale, l’uso del grande formato, a partire dal vetro smerigliato 4x5

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Dopo la Norma è stata la volta della messa a punto di un apparecchio a corpi mobili con movimenti razionali di basculaggio. Invece delle rotazioni di basculaggio casuali, la Sinar-p e la semplificazione Sinar-f adottarono regolazioni geometriche ragionate, finalizzate al massimo e più proficuo controllo dell’estensione della nitidezza del soggetto inquadrato. Lasciando perdere altri infiniti dettagli -tanti e tanti ce ne sono-, basta questa sequenza di innovazioni per stabilire la dimensione di Carl Koch e la sua influenza sulla fotografia professionale dei nostri tempi.

non ora), bisogna prendere atto che nel rapporto inscindibile tra tecnica e creatività, gli apparecchi fotografici e il proprio impiego scandiscono tempi espressivi inevitabili. Riassumiamoli un’altra volta, ancora. Uno. Gli apparecchi reflex o non reflex, a mirino, portati all’altezza dell’occhio, determinano una fotografia agile e dinamica, diciamo istantanea; dunque, reportage e dintorni, piuttosto che espressività della fotografia a mano libera. Man mano che cambiano le condizioni fisiche della ripresa, si modificano anche i contenuti formali e di sostanza. Quindi. Due. L’inquadratura su vetro smerigliato -per esempio, medio formato- impone una diversa attenzione. Rispetto al mirino, sul vetro smerigliato si raccoglie già una “immagine” in quanto tale, ben delimitata sia dai propri confini esterni sia dalla plasticità della proiezione. Tre. Con il suo punto di vista rigoroso e fisso, l’uso del treppiedi aggiunge un altro elemento di attenzione convenzionale, che pure contribuisce ad allontanare l’esercizio dall’ipotesi originaria di “istantanea”, per avvicinarlo a quello della posa pensata e meditata. Tanto più se sul treppiedi è stata fissata una reflex medio formato con inquadratura e composizione su vetro smerigliato. Quattro. Al culmine del concetto di posa, diametralmente opposto all’agilità dell’istantanea (ma non contrapposto), l’apparecchio grande formato comporta due elementi già valutati: l’uso obbligato di un treppiedi, o di un supporto comunque sia stabile, e la composizione su vetro smerigliato (altri valori definirono e qualificarono il fotogiornalismo, soprattutto statunitense, con 4x5 pollici Speed Graphic a mano libera: con relativi richiami/riferimenti sia alla dimensione generosa del negativo, sia alla liberazione dal vincolo degli scatti multipli sulla pellicola a rullo). In più, la prolissità e ridondanza delle regolazioni dei corpi mobili (nel caso in cui siano necessarie) e, comunque sia, il laborioso rito della visione del vetro smerigliato, con diaframma aperto, della chiusura manuale dell’otturatore, della regolazione del valore di diaframma di lavoro, dell’inserimento dello châssis, dell’estrazione del volet e dello scatto... determina e condiziona l’ipotesi propria della autentica posa.

Guida del sistema Sinar degli anni Cinquanta, in formati fotografici 4x5 pollici, 13x18cm e 8x10 pollici, nelle configurazioni Norma (base) e Fach (in valigia e con accessori complementari): anche in questo caso, sarebbe da sottolineare l’efficacia grafica della sintesi e presentazione, avanzata rispetto ogni altra esperienza coeva. Quindi, annuncio pubblicitario Ippolito Cattaneo, del 1957.

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QUELLA FANTASTICA NORMA... DI SINAR

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (4)

La Sinar Norma nasce nel 1948. Ideata da Carl-Hans Koch, fotografo di terza generazione [FOTOgraphia, giugno 1996 e febbraio 2006], è stata la prima costruzione a banco ottico con sistema modulare per l’utilizzo di accessori e elementi complementari. Tra l’altro, va annotato che i costituenti principali (dalla piastra porta obiettivo alla sezione del banco ottico) sono rimasti immutati nei decenni, definendo anche le dotazioni successive, approdate fino all’attuale acquisizione digitale di immagini. Per intenderci, questa costanza, questa lealtà tecnico-commerciale, si riscontra anche nel sistema Hasselblad, nell’innesto F-Mount degli obiettivi intercambiabili delle reflex Nikon, e in quelli a vite 42x1 e 39x1 di (Asahi) Pentax e Leica, trasmigrati senza dolore ai rispettivi innesti a baionetta.

La Sinar Norma è stata il primo banco ottico con concezione modulare, per la collocazione degli accessori: intercambiabili dalle origini ai nostri giorni.

Il senso tattile dei morbidi materiali con i quali è costruita l’antica Sinar Norma, il cui uso attuale presuppone l’evocazione di sapori intensi e atmosfere classiche, si combina con la moderna efficacia di comandi micrometrici autobloccanti. Dunque, il piacere personale si accompagna con adeguate efficienze di uso.

Ovviamente, a parte ogni altro intendimento attuale, estraneo a qualsivoglia razionalità operativa, ma -oggigiorno- guidato da propositi e volontà individuali, la Sinar Norma offre e propone una versatile regolazione dei movimenti della costruzione fotografica a corpi mobili: di basculaggio e decentramento.

MAURIZIO REBUZZINI (2)

Sinar Norma in configurazione originaria, dal 1948. Dall’inizio degli anni Cinquanta, furono modificati dettagli costruttivi, a partire da un diverso disegno delle manopole.

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Fronte e retro di un elenco di possessori Sinar Norma (non tutti, è specificato), che il distributore Ippolito Cattaneo, di Genova, compilò nel 1966: in alfabetico, uno spaccato della storia della fotografia professionale italiana.

MAURIZIO REBUZZINI (2)

Oltre le proprie specifiche fotografiche, che sono tante, che sono notevoli, che sono fondamentali, il sistema Sinar ha vantato anche una cura formale della propria conduzione aziendale, nei confronti del pubblico. Tra tanto, segnaliamo l’attenzione grafica dei materiali informativi e promozionali: per la quale testimonia questo dépliant dei secondi anni Cinquanta, in tempi di distribuzione italiana Ippolito Cattaneo, di Genova. A seguire, tutta la grafica Sinar, sempre moderna, pulita e lineare (a partire dall’evoluzione del proprio logotipo aziendale: potenza della scuola svizzera del secondo dopoguerra), ha stabilito linee guida che sono state sottolineate anche da riconoscimenti pubblici e ufficiali. Fino alla fantastica stagione dei calendari della seconda metà degli anni Ottanta, efficacemente illustrati.

pollici, è impagabile. È piacevole nel proprio essere autenticamente “fotografia”, ed è essenziale nella propria influenza sul linguaggio fotografico, magari declinato con il banco ottico Sinar Norma, visualizzato in illustrazioni che accompagnano queste riflessioni [riquadro sulla pagina accanto]. Al proposito, ripetiamo un’opinione di Reinhart Wolf, autore tedesco scomparso il 10 novembre 1988, che era solito lavorare in 13x18cm e 8x10 pollici (altrettanto con Sinar Norma!). Secondo Reinhart Wolf, il vetro smerigliato, l’uso di apparecchi grande formato «rappresenta una forma di resistenza agli automatismi che caratterizzano sempre di più la fotografia contemporanea: una tacita protesta contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite, [...] contro il fracasso, per la quiete». E poi, Reinhart Wolf prosegue teorizzando che ogni fotografia contiene in sé la forza lavoro che l’ha generata, ivi compresa la fatica e disciplina di trasportare l’attrezzatura e di allestire l’apparato di ripresa: con l’apparecchio grande formato fissato su treppiedi e il vetro smerigliato osservato sotto l’immancabile panno nero. A questo proposito, un’altra perla di saggezza dal passato (questa volta remoto): «Se si vuol fare della fotografia sul serio e non limitarsi a guardare in un mirino e a uno scatto, occorre lavorare e saper lavorare con la lastra. [...] Infatti, solamente con il vetro smerigliato puoi farti idea precisa del soggetto fotografato», è la perentoria dichiarazione con la quale, nel 1931, la tedesca Voigtländer avviava un proprio opuscolo. Quindi, puntualizzando che «Il vero dilettante fotografo non lavora che con una macchina a lastre», Voigtländer sottolineava il princìpio del rapporto tra mezzo e linguaggio espressivo. Soprattutto nell’ambito della fotografia estetica, scattata per proprio gusto più che per dovere professionale, la disciplina ed etica del grande formato aggiungono alla ripresa quei valori e sapori di concentrazione che stanno alla base di un identificabile linguaggio fotografico. Questo si realizza indifferentemente quando l’immagine viene inquadrata e composta sul vetro smerigliato 4x5 pollici oppure 8x10 pollici (e scusate l’assenza di rimando al 13x18cm, che non ci ha mai incantato: considerazione individuale), le cui rispettive proiezioni sono spettacolari ed emozionanti allo stesso tempo (in trascrizione, 10x2x12,7cm e 20,4x25,4cm). I disagi operativi sono sempre tanti; probabilmente, mai troppi! Allo stesso momento, il piacere e gusto sono impagabili. In termini espressivi, in base a quell’idea di estetica della funzionalità che spesso fa capolino nelle nostre considerazioni redazionali (in proiezione pubblica da quelle individuali e intime), la delicata meccanica della antica Sinar Norma è addirittura unica. Trasmette un senso di equilibrio, riflessione e prudenza che distinguono la fotografia che è oggettivamente destinata a sopravvivere nel tempo da quella che invece si consuma in fretta. ❖

La raffinata costruzione della Sinar Norma, nata nel 1948, qui in versione dei secondi Cinquanta, compone i tratti di quella fisicità che si accompagna all’efficienza alla quale diamo senso e valore. Detto meglio, forse: estetica della funzionalità. Comunque, incredibilmente essenziale e moderna, la Sinar Norma è una proposta tecnica che ha resistito nei decenni e che ancora oggi continua a far valere la propria concreta validità. Per tanti versi, la dizione/definizione “Norma” è stata assegnata dal mercato, e oggi è acquisita universalmente. In origine, distingueva la dotazione standard di base, rispetto la configurazione “Fach”, completa di una identificata serie e quantità di accessori opzionali. Il banco ottico nasce “System C. Koch”, dal nome del suo ideatore Carl-Hans Koch, di Schaffhausen, all’estremo nord della Svizzera, fotografo di terza generazione [riquadro a pagina 44 e in FOTOgraphia, del giugno 1996 e febbraio 2006].

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FRANCESCA DEGLI ANGELI

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EMANUELE BENINI

Da Les Rencontres d’Arles Photographie 2014: La fotografia italiana è viva... Viva la fotografia italiana! Non è un controsenso: proprio l’assenza della Fotografia Italiana nel programma ufficiale di Arles ha stimolato un silenzioso grido di dolore e sensibilizzazione

V I V A

LA FOTOGRAFIA ITALIANA!

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BEPPE BOLCHI (3)

Rencontres d’Arles Photographie 2014: il cortile del Palais de l’Archeveche, dedicato alla lettura portfolio.

Avvincente attrazione: sfilata di libri fotografici. Peccato solo che la consultazione debba essere fatta obbligatoriamente in piedi; degli sgabelli non sarebbero stati sgraditi. Comunque, in tutti gli spazi espositivi è stata predisposta un’area di accompagnamento, riservata a libri e contorni, sia in approfondimento sia per piacere ricreativo.

(pagina precedente) Beppe Bolchi, uomo-sandwich in visita ad Arles: La Photographie italienne est vive. Vive la Photographie italienne.

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di Beppe Bolchi

A

rles, Francia: Fotografia Internazionale, internazionalmente riconosciuta. Parade, il tema dell’edizione 2014, dallo scorso luglio, la quarantacinquesima, una vita. Parata: un tema impegnativo, una specie di lascito da parte di François Hébel, direttore dei Rencontres per la quindicesima e -al momento- ultima volta. Parata amara per noi Fotografi Italiani, completamente assenti dal programma ufficiale. Questa la premessa al mio personale approccio al più importante Festival di Fotografia, e proprio per questo foriero di grandi aspettative -ancora una volta disattese!- nei confronti della nostra Fotografia. Allora scatta la scintilla. In mente già da anni, dopo varie partecipazioni a Paris Photo e ad altri eventi europei, mi propongo come paladino della Fotografia Italiana. La mia visione di queste manifestazioni, come ho sempre dichiarato, è quella del Fotografo, cioè di chi le fotografie le pensa, progetta, scatta, mostra, vende (o cerca di farlo) e valuta per i propri contenuti, per i messaggi che contengono (o che non contengono). Doppio binario di considerazioni, quindi: uno assoluto, per i contenuti; e uno relativo, al confronto con un vuoto di cui non capivo le ragioni. Ma ora le ho capite...

Attraverso la lettura della completa presentazione stampa messa a disposizione dall’organizzazione, la preparazione per la partenza ha previsto un esame approfondito di ciò che avrei potuto vedere. Come anticipato, l’aver riscontrato che nessun Fotografo Italiano era entrato nelle selezioni e nelle proposte ufficiali è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della mia pazienza. E allora -lancia in resta! poncho sulle spalle-, sono partito con l’idea di iniziare un’opera di sensibilizzazione pubblica nei nostri confronti, della Fotografia Italiana intendo; ovviamente, oltre la visita delle mostre. Giusto il tempo di arrivare, effettuare il rito della vestizione, con qualche ovvia apprensione (non ho esperienze precedenti da uomo-sandwich e per di più sono un timido)... ma il dado è tratto, e non posso certo tirarmi indietro al momento buono. Mi fermo in place de la Republique, area di partenza e luogo più ampio della città francese. Come sempre, c’è tanta gente; sono tutti, o quasi, fotografi o comunque interessati alla Fotografia. Mi vedono, mi guardano, leggono curiosi il mio messaggio (La Photographie italienne est vive. Vive la Photographie italienne): ovviamente mi puntano le loro macchine fotografiche, qualcuno si avvicina, sorride, mi chiede addirittura di posare. Qualcuno mi chiede perché. Questo volevo!


Corposo e completo, il catalogo dei Rencontres d’Arles Photographie 2014; in edizioni francese e inglese; Actes Sud Éditions, 2014; 564 pagine 18x21cm, cartonato; 46,00 euro.

Qu’est-ce-que la photographie aujourd’hui?, rapporto sullo stato dell’arte della fotografia; BeauxArts Éditions, 2009; 224 pagine 21,6x28,2cm; 24,75 euro. Precedente edizione 2002; 194 pagine; 20,00 euro.

La mia spiegazione relativa alla mancanza di Fotografi Italiani nel programma ufficiale convince gli stessi francesi, e gli italiani plaudono; inglesi e spagnoli lamentano anche loro la scarsa attenzione da parte degli organizzatori. Il ghiaccio è rotto. Avanzo con maggior non-chalance, entro nella prima mostra, nell’Église SainteAnne d’Arles, chiesa sconsacrata, da anni dedicata alle mostre, perfettamente attrezzata per ospitarle, illuminata in maniera corretta e uniforme. Già questo sollecita a un primo confronto con la quasi totalità degli allestimenti nostrani, nei quali la qualità e uniformità delle luci è puro optional, come se l’illuminazione per la visione delle fotografie esposte non avesse la stessa importanza di quella di ripresa. Come è possibile guardare e godere qualsiasi immagine, se non fruisce di una corretta illuminazione? Perché deprimere le immagini con allestimenti di scarsa qualità? Sarà forse che le immagini proposte non valgono la pena di essere ben esposte? Oppure che la vanità di chi espone è soddisfatta dal solo essere in mostra, comunque sia? Certo, una buona e corretta illuminazione costa, ma non è questo l’aspetto più importante, bensì il valore. Se non si hanno disponibilità, ambienti e allestimenti corretti, meglio non esporre, perché deprimere il risultato di sforzi e ricerche creative, di elaborazioni

e sistemazioni a volte onerose, di stampe curate (si spera), di discorsi profondi -ribadisco- affliggere tutto il lavoro per un allestimento scadente, non fa che far scadere, togliere valore, uccidere la qualità, forse anche squalificare le opere e il loro artefice. Immagini di “valore” devono essere “valide”: dalla progettazione alla loro esposizione. Se vogliamo che siano veramente apprezzate, devono essere trattate adeguatamente. La Cultura della Fotografia passa anche da queste considerazioni. Viva la Fotografia! In tema di allestimenti, c’è da rimarcare un altro aspetto. Molti più spazi espositivi dei Rencontres sono stati ricavati da chiese e cappelle sconsacrate. Spero non sia il segnale che qui, la Religione sia la Fotografia. Il Culto non si addice a una pratica che è Pagana per definizione. Tornando alle mostre, beh, non ne riferisco diffusamente; chi vuole saperne di più, può accedere a una documentazione veramente completa, sia sul web sia nei ben allestiti cataloghi (in francese e inglese). Troverete, ahimè, poca eco su giornali e riviste italiane: altro punto dolente della nostra mancanza di attenzione alla Fotografia. Viva la Fotografia! Qualche annotazione, però, è doverosa, quantomeno per segnalare le mostre che -sempre secondo me- hanno veramente meritato. Due sopra tutte. La prima, nell’Église des Dominicains d’Arles (Église

Edizione speciale di Le Point, autorevole settimanale francese, per i Rencontres d’Arles Photographie 2014; 16 pagine 21x27cm; distribuzione gratuita (ai Rencontres).

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des Frères-Prêcheurs), nel centenario della Grande guerra, con una campagna nazionale per il recupero delle immagini dei quarantamila monumenti dedicati ai caduti dal 1914 al 1918, in un conflitto mondiale che ha causato, solo in Francia, ben un milione e trecentocinquantamila morti (1.350.000). Campagna nazionale che ha coinvolto, oltre al personale interessamento del fotografo Raymond Depardon, trentaseimila Comuni francesi, invitati a inviare fotografie della testimonianza di quella grande tragedia. Immagini che, proiettate su grandi schermi all’interno della chiesa -ancora una volta con un allestimento fantastico-, hanno ampiamente restituito gli orrori e dolori della guerra, ben più efficacemente di immagini proprie della guerra stessa [fotografia per sottrazione; la guerra assente, in FOTOgraphia, dell’ottobre 2002, oltre che su questo stesso numero, da pagina 26]. Un tributo che solo la Fotografia ha potuto, documentare e presentare. Viva la Fotografia! L’altra mostra superlativa è stata quella di Chema Madoz, autore spagnolo, surrealista ben più di René Magritte, con un mondo di (vere) fotografie a rappresentare oggetti comuni in una efficace, quanto scarna, rappresentazione di concetti, anche profondi, benché di immediata decifrazione: sublimazione della Fotografia, per vedere al di là del visibile, con una creatività entusiasmante, senza mistificazioni o ma-

nipolazioni, mettendo a nudo la nostra capacità di percezione. Chiunque si occupi di Fotografia dovrà fare i conti con queste opere [riquadro qui sotto]. Una doverosa menzione va anche alle molteplici Collezioni che hanno riempito gli spazi espositivi, alcune ovviamente molto intriganti. Altro grande rammarico, però: perché non esporre la madre delle Collezioni italiane, quelle Stanze della Fotografia, di Fabio Castelli (ArtVerona, ottobre 2007), così ben curate e documentate, che illuminerebbero chiunque desideri capire di Fotografia? Nota a margine: perché le nostre istituzioni e i nostri critici preposti non l’hanno mai proposta in ambienti museali? Viva la Fotografia Italiana! Comunque, per i Rencontres, parata in tono minore, anche a detta di molti. Non facile ripetere il successo dello scorso anno, quando, in qualche modo, il tema del Bianco&Nero ha indirizzato e guidato scelte di qualità superiori alla media delle precedenti edizioni (e di quella attuale 2014). In ogni caso, onore al merito. Nell’interpretazione dalle cifre, i risultati sono stati ottimi. Nella sola prima settimana, sempre considerata la più importante, sono arrivati tredicimila visitatori (undici percento in più dello scorso anno), da ben quarantasette paesi; mentre alle serate presso il Teatro Antico sono intervenuti una media di millecinquecento spet-

BEPPE BOLCHI

AVVINCENTI METAFORE VISIVE

Nato a Madrid, nel 1958, Jose Maria Rodriguez Madoz, conosciuto come Chema Madoz, è un fotografo noto per la costruzione di still life surrealisti e creativi, soprattutto in bianconero. Ha studiato Storia dell’arte all’Universidad Complutense de Madrid, all’inizio degli anni Ottanta; ha abbandonato un lavoro in banca, sicuro quanto insoddisfacente, per dedicarsi a sue metafore artistiche. Influenzate dal surrealismo e dalla poesia visiva, le sue immagini riflettono un universo magico, nel quale gli oggetti non sono mai quello che sembrano essere. Chema Madoz osserva elementi della quotidianità, conferendo loro nuovi significati ed esplorando nuove interpretazioni visive. Le sue opere giocano con l’illusione ottica e il paradosso della comprensione. Ogni oggetto nasconde molteplici sfumature: da forme conosciute a nuova essenza. Gli oggetti/soggetti cambiano la propria realtà per crearne una nuova.

Volume-catalogo della eccellente mostra di Chema Madoz, allestita nell’ambito dei Rencontres d’Arles Photographie 2014 ; Actes Sud Éditions, 2014; 454 pagine 25x33cm, cartonato con sovraccoperta; 65,00 euro.

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È valsa il viaggio! Con le sue fantasie surrealiste, di grande impatto visivo e concettuale, la mostra di Chema Madoz conferma che la Fotografia non smette mai di sorprenderci. Già... Fotografia: straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Viva la Fotografia! L’allestimento è stato realizzato all’interno dei padiglioni industriali che verranno presto ricondizionati per far spazio a una grandiosa iniziativa della Fondazione Luma, con la costruzione di una torre alta cinquantasei metri, progettata da Frank Gehry, e di altri edifici che ospiteranno «Il favorire la formulazione di nuove forme di esposizione, di produzione artistica e di idee». E in Italia?


dessimo conto. Non dobbiamo considerare solo il fatturato di apparecchi fotografici e di incarichi professionali. Intorno alla Fotografia ruotano, vivono e fatturano agenzie fotografiche, archivi fotografici, art director, photo editor, assistenti, associazioni, centri culturali, critici, giornalisti, docenti, editori, festival, fiere merceologiche, fotoclub, gallerie, grafici, laboratori, librerie, modelle, musei, pubblicitari, redattori, restauratori, ricercatori, riparatori, rivenditori, scuole, stampatori, studi, stylist, tecnici, truccatrici, uffici stampa, venditori... e molti altri ancora. Qual è il volume totale? Che impatto può e potrebbe avere nell’economia e nell’esportazione? Perché nessun politico e opinion leader prende in considerazione la Fotografia? Perché la Cultura della Fotografia e l’Educazione all’Immagine non sono minimamente considerate? Qualche esempio? Eclatante? Nel 2008, il Corriere della Sera, in collaborazione con Federico Motta Editore (mica bruscolini!), ha editato la Storia della Civiltà Europea, curata nientepopodimeno che da Umberto Eco. Prestigiosa pubblicazione, diciotto volumi, oltre diecimila pagine, non so quante illustrazioni e fotografie. Ma, la Fotografia? Nei tre volumi dell’Ottocento non ha meritato neanche una menzione nella cronologia! Nei sei volumi del Novecento, tremilacinquecentoquaran-

CHEMA MADOZ (9)

tatori (paganti). Certo, simili risultati non si ottengono senza impegno; basti pensare al budget della manifestazione, che -quest’anno- è stato di sei milioni e quattrocentomila euro (6.400.000,00 euro), con contributi da fondi pubblici (quarantacinque percento; ve li immaginate i nostri Comuni, Province, Regioni, Ministeri?) e partner e sponsor (diciassette percento); e dall’autosostegno: trentotto percento dal fatturato del Festival (biglietti di accesso, gadget, pubblicazioni, stage e quant’altro). Ancora, non è trascurabile l’impatto sulla economia locale. Il sindaco di Arles ha dichiarato che i soli lavoratori direttamente coinvolti nell’organizzazione hanno ridotto la disoccupazione del cinque percento, senza considerare tutto l’indotto di alberghi e ristoranti. Per favore, qualcuno può segnalarlo ai vari assessori italiani? Magari, sia il ministro del Lavoro sia quello della Cultura potrebbero farci un pensierino [se non fossero occupati con se stessi e la propria permanenza al Governo]. A medio e lungo termine, l’onda lunga della manifestazione porta sicuramente vantaggi a tutta la filiera della Fotografia, che in Italia nessuno considera. E questo è uno degli aspetti che il mio Viva la Fotografia Italiana! vuole enfatizzare. La Fotografia non è solo Cultura. Per statuto, è anche business, e mi piacerebbe che tutti ce ne ren-

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La pregevole mostra sui monumenti ai caduti della Grande guerra, allestita con stampe di dimensioni generose, è stata presentata nell’Église des Dominicains d’Arles (Église des Frères-Prêcheurs); con accompagnamento di proiezione su grandi monitor.

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tasei pagine, al capitolo Fotografia, all’interno del contenitore Comunicazione, vengono dedicate ventisei pagine, neanche l’uno percento, che si dimezza nell’arco dei due secoli nei quali la Fotografia ha attraversato il mondo, la civiltà e la cultura, trasformando radicalmente il nostro modo di vedere, rappresentare e comunicare. Per i rappresentanti e detentori della cultura [kultura?], il peso della Fotografia supera di poco il mezzo punto percentuale all’interno del più vasto panorama. C’è da sorprenderci, se alla fine i Fotografi sono considerati solo proprietari di sofisticate attrezzature, che consentono di non sbagliare l’esposizione di una immagine? Basta scattare! Supportati dagli stessi importatori e distributori di materiale fotografico, per i quali contano solo le prestazioni teoriche dei rispettivi gioiellini tecnologici e non le motivazioni di impiego, la qualità dei contenuti, la capacità di gestire la luce e i soggetti, le infinite interpretazioni di rappresentazione e tutto quanto concorre alla realizzazione di immagini consapevoli, capaci di comunicare, magari anche di emozionare. Viva la Fotografia Italiana! Un esempio recente? Mi ha attirato la locandina, esposta nel cortile dell’Accademia di belle arti di Brera, a Milano, della manifestazione ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, La Milanesiana, quindicesimo an-

no, serie copiosa di interventi culturali che hanno coinvolto [?] la città dal ventitré giugno al dieci luglio, sotto l’alto patrocinio del presidente della Repubblica, della Provincia e del Comune di Milano, sponsorizzata e supportata da prestigiosi operatori. Tema: Fortuna e Destino, festival di letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia e teatro. Viva la Fotografia Italiana! Sono certo che meriti maggior attenzione e riconoscimento da parte di tutti, in primis proprio dal mondo della cultura, compreso quello che della fotografia si fa vanto, ma che non ne fa la propria bandiera, ma solo la propria fonte di sostentamento. Con grande miopia, anche: perché, relegandola a Cenerentola, isolandola nel ghetto dei propri orticelli, non ne permette la crescita che meriterebbe. Viva la Fotografia Italiana! È ora che tutti gli operatori, la base di chi vive di Fotografia, si sensibilizzino e si facciano promotori di una reale Cultura della Fotografia e dell’Immagine, senza pensare al proprio tornaconto personale (guarda quanto belle sono le mie fotografie, vieni alla mia mostra...), ma promuovano verso l’alto, affinché la Fotografia raggiunga il ruolo che effettivamente ha e che merita all’interno della nostra civiltà. A questo proposito, verrà presto pubblicato un Manifesto, che specifica gli intendimenti di questo Movimento: chi lo desi-


A ulteriore conferma, porto la testimonianza dell’autorevole analisi Qu’est-ce-que la photographie aujourd’hui?, pubblicata da BeauxArts Éditions, che periodicamente cura un approfondito rapporto sul mondo delle arti, compresa, appunto, la Fotografia. Ne ho due raccolte, una del 2002 e la più recente del 2009. Secondo loro, sulle trenta figure contemporanee riportate nel 2002 e sui sessantuno fotografi contemporanei del 2009 (di cui ben venticinque compaiono in entrambe le selezioni), nessun nessuno! Fotografo Italiano è stato ritenuto rappresentativo e all’altezza. Siamo messi così male? Poi, nella Guida pratica, in calce alla monografia, segnalano quali musei e luoghi di esposizione in Italia il Museo Ken Damy, di Brescia, la Fondazione Italiana per la Fotografia, di Milano (?), e il Castello di Rivoli (?). Punto. Proprio solo tre luoghi in tutta Italia deputati alla esposizione di Fotografie. Gallerie? La LipanjePuntin, di Trieste, e The Box Associati, di Torino. Fiere e Festival? La Biennale Internazionale di Torino (che non si svolge da almeno dieci anni) e la Biennale di Venezia (nell’ambito della quale, la Fotografia non c’entra quasi per niente). Questo è il livello di conoscenza e informazione che ci onorano di segnalare. Siamo proprio messi male. In Italia, la Fotografia non ha referenti! Viva la Fotografia Italiana!

(centropagina, in basso) Una delle mostre spontanee, allestita in un vecchio deposito in disuso (nel centro di Arles). Esempio di come riutilizzare gli spazi, senza tanti fronzoli, anzi valorizzando la struttura fatiscente e curando comunque perfettamente l’allestimento.

Nella Chapelle de la Charité d’Arles è stata allestita la mostra L’Arlésienne, di Christian Lacroix. In questo unico caso, la chiesa mantiene ancora gli addobbi originali, aggiungendo un’aura di misticità alle immagini presentate.

BEPPE BOLCHI (4)

dera, potrà sintonizzarsi sul gruppo in Facebook. Non mancheranno, comunque, altre occasioni per continuare una sensibilizzazione dal vivo, sia durante manifestazioni, eventi e mostre in Italia, sia -e soprattutto- durante il prossimo Paris Photo, di novembre. È tempo che il mondo della Fotografia si renda conto che la Fotografia Italiana è Viva. In esordio, ho fatto riferimento all’aver compreso i motivi della distanza che separa la Fotografia Italiana da quella internazionale, e ora richiamo le mie conclusioni personali. In ordine ai Rencontres di Arles c’è una grave, per me, incongruenza. Da quindici anni, la loro direzione è affidata a un esponente di spicco di Magnum Photos e poi di Corbis, che per definizione sono agenzie, che realizzano, comprano e vendono Fotografie, e il cui ovvio scopo è quello di assicurarsi la più ampia visibilità e il più ampio mercato. Quale migliore vetrina che quella di Arles? Non viene il sospetto che autori e immagini siano finalizzati? Certo, un conflitto di interessi pare evidente, e poiché i francesi non conoscono la Fotografia Italiana, tranne i grandi fotogiornalisti, che hanno spazio a Perpignan, nell’ambito di Visa pour l’Image, perché mai dovrebbero selezionare e proporre autori italiani? Opinione, questa, che mi è stata confermata anche da esponenti della stessa Magnum Photos.

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BEPPE BOLCHI (2)

Convincente performance fotografica dell’olandese Hans Eijkelboom, realizzata facendosi ritrarre in giro per il mondo con un abbigliamento acquistato in loco per soli dieci euro.

L’esaustiva mostra dedicata a Lucien Clergue, il fondatore dei Rencontres d’Arles Photographie, si conclude con la video-conversazione con François Hébel (curatore per quindici edizioni, compresa l’attuale 2014), la cui trascrizione è inserita nel relativo volume-catalogo (Marval Éditions, 2014; 144 pagine 18x24cm).

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Temo che abbiano proprio ragione loro. Se nessuno dei nostri addetti e delle nostre celebrate istituzioni è stato coinvolto, oppure non ha mai protestato... hanno ragione loro. Perché mai darsi la briga di venire in Italia a cercare Fotografia, se siamo così poveri di musei, luoghi, gallerie e festival? Quindi, l’assenza della Fotografia Italiana ai Rencontres è una naturale conseguenza di ciò che (non) conoscono e di ciò che facciamo di tutto per non far loro sapere. Viva la Fotografia Italiana! Per noi, dunque, solo piccolissime soddisfazioni, come la presenza di una bella mostra di Davide Monteleone, nel parallelo Festival Voies Off, e l’alternativa fotografica e spontanea di operatori e autori italiani, che finalmente affittano spazi per darsi visibilità, come hanno fatto il Fahrenheit FineArt, di Milano, l’Afi (Archivio Fotografico Italiano) e l’Accademia del Teatro alla Scala, di Milano. Segnalo anche un’ottima performance di un piccolo, ma intraprendente, Circolo Fotografico, il GF93, di Cesena, che -con i miei accompagnatori Francesca Degli Angeli e Emanuele Benini- ha portato, venduto e presto esaurito il libro-catalogo della loro bella mostra Percorsi nel paesaggio. Dimostrazione ulteriore che, se ti fai vedere, qualcuno rischia di apprezzarti. Ma il singolo Fotografo non ha potere, non ha la visibilità che può dare la consacrazione ufficiale. Può riuscire, come hanno già fatto in

diversi, che sono emigrati, sono stati conosciuti e riconosciuti all’Estero. Non credete? L’unica citazione di un fotografo italiano nel programma ufficiale dei Rencontres è quella di Serena De Sanctis, una delle vincitrici della selezione SFR Giovani Talenti. Di origine italiana, ha studiato in Spagna, vive e lavora in India. Prima di concludere, una annotazione tecnica. Molte mostre, anche di autori prestigiosi, sono state stampate ed esposte su carta da parati. Sì, tappezzeria, incollata alle pareti. Una nuova moda? Interessante, ma la qualità? Lo trovo un espediente pericoloso, per quanto accattivante. La qualità delle stampe ne viene sicuramente penalizzata, e si vede. Pericoloso, perché definisce una possibile tendenza a trascurare la qualità del risultato, in funzione della dimensione sempre più grande e del costo, ovviamente più basso, ma anche verso una volgarizzazione delle immagini. Non sono pro o contro, solo segnalo una inversione di tendenza rispetto alla qualità fine-art, così cara e indispensabile ai collezionisti. Ma forse il futuro è più nell’arredamento, e una bella parete fotografica, voglio dire con fotografie personalizzate e realizzate ad hoc, potrà fare la sua bella figura a costi contenuti. Vedremo. In conclusione, sono sempre più convinto che la Fotografia Italiana è Viva. E, quindi: Viva la Fotografia Italiana! ❖




EROS?! Le vivaci Desperate Housewives, del toscano Marco Saielli, sono tutt’altro che casalinghe disperate, annoiate. Sono giovani attraenti, consapevoli di esserlo e convinte di sollecitare la propria avvenenza con la proposizione esplicita: giù gli slip, a metà coscia, gambe divaricate, sguardi ammiccanti, anatomie espresse. Senza sottintesi, senza alcuna lievità, sono soggetti che mostrano quello che presumono di dover rivelare: nella dichiarata esposizione intima

di Antonio Bordoni

C

onsecuzione obbligatoria. Così come al critico cinematografico è richiesta l’interpretazione del film a partire dalla trama presa a pretesto della narrazione, quando si commenta la fotografia, la chiave esplicativa serve a sezionare la forma apparente per rivelare il contenuto espressivo. Il progetto delle Desperate Housewives, di Marco Saielli -che l’autore toscano realizza in paesi dell’Est europeo, meno formali di noi in certe esternazioni, tra le quali questa, in chiave esplicitamente erotica-, non nasconde certo la sua personalità dichiarata e lampante, a tutti chiara ed evidente. Proprio il sostanziale anonimato dei soggetti, che una volta fotografati si disperdono nei ritmi della proprie e rispettive vite quotidiane, a queste immagini estranei, è la chiave interpretativa sulla quale vale la pena soffermarsi. Infatti, al di fuori della fotografia professionale, scandita anche sui modi di contribuzioni altrettanto professionali, dalle modelle all’infrastruttura di staff, la fotografia non professionale viene svolta con e per contribuzioni amicali. Avendo intenzione di esprimersi con lampante trivialità, finalizzata a una interpretazione forte, che colpisce nello stomaco, per arrivare poi alla mente e al cuore con percorso proprio, Marco Saielli non può rivolgersi che lontano dalle proprie frequentazioni, per declinare fosche impersonalità e oscurità che non distolgano l’osservazione, che non consentano il riconoscimento del soggetto, abile pretesto per una comunicazione forte ed esplicita. In assoluto, le Desperate Housewives sono tutt’altro che casalinghe disperate, annoiate. Sono giovani attraenti, consapevoli di esserlo e convinte di sollecitare la propria avvenenza con la proposizione esplicita: giù gli slip, a metà coscia, gambe divaricate, sguardi ammiccanti, anatomie espresse. Senza sottintesi, senza alcuna lievità, sono soggetti che mostrano quello che presumono di dover rivelare: nella dichiarata esposizione intima.

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Questo è il progetto di Marco Saielli, che esclude dal proprio percorso decenni di raffinato erotismo visivo, che molti e molti interpreti hanno declinato nella delicatezza di richiami e invenzioni. No: al contrario, e all’opposto, lui va diretto, senza alcun sottinteso. Se questo deve essere l’approdo, la sua fotografia evita e scavalca l’avvicinamento, il fascino, il corteggiamento, il flirt, i passi di accostamento, la seduzione (da e con Enzo Jannacci, in T’ho compraa i calzett de seda, del 1964: «Te mostrett de sott banc la tua mercanzia» / «Mostri sotto banco la tua mercanzia»). La sua fotografia è erotica? pornografica? La distinzione, che discerne un valore positivo da uno negativo (rispettivamente, erotismo e pornografia), dipende da chi valuta e da altre latitudini individuali. Comunque, a noi non interessa stare qui a scomporre e definire e iscrivere. Indipendentemente dall’annoso e irrisolvibile dibattito sulla presunta artisticità della fotografia, in toto, bisogna prendere atto che esistono e si moltiplicano autori, come Marco Saielli, che usano il mezzo fotografico per ottenere forme espressive di grande ed efficace personalità. In tale senso, è curioso osservare come e quanto -spesso- queste opere siano a un tempo fotografiche e non fotografiche. Spieghiamolo. La loro natura squisitamente e oggettivamente fotografica dipende proprio dalla mediazione del mezzo e dei materiali che qualificano e definiscono, appunto, l’esercizio fotografico: apparecchi, obiettivi, pellicole (o card), supporti sensibili e prodotti chimici dedicati (o analogo processo ad acquisizione digitale di immagini).

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È questo l’insieme che trasforma, non per magia, ma per capacità creativa e interpretativa, la raffigurazione in rappresentazione. Dopo di che, a volte la fotografia d’autore non è tale perché si estranea da qualsivoglia percorso prestabilito, per scandire un tempo proprio: ed è il caso delle Desperate Housewives, che si propongono nel territorio della ricerca espressiva declinando (e reinterpretando e ripulendone la forma esplicita) la costruzione fotografica propria e caratteristica della pornografia di bassa lega. L’operazione è riuscita? Marco Saielli ha diritto di rivendicare la propria originalità espressiva e creativa come innovazione lessicale della fotografia? Nell’osservatore, ogni sua fotografia suscita percezioni e impressioni proprie. Forte anche di ripetizioni e sottolineature, la somma delle singole riflessioni produce quel confortevole salto in avanti nel processo della conoscenza, che fa nascere il concetto: che non riflette più l’aspetto singolo e i nessi esterni dei soggetti, delle Desperate Housewives, ma coglie l’essenza della realtà, il suo insieme e il suo nesso interno. La differenza non è soltanto quantitativa, ma anche qualitativa. Quando si dice comunemente “Lasciatemi riflettere”, ci si riferisce al momento in cui ciascuno di noi collega le proprie impressioni, servendosi dei concetti, per formare giudizi e trarre deduzioni. E davanti alle fotografie di Marco Saielli, alla loro volontaria provocazione, la riflessione è più che necessaria, obbligatoria addirittura. Oltre che confortevolmente benefica. A ciascuno, la propria. ❖

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Racconto

di Douglas Kennedy (da Morte di un fotografo; RCS Libri, Milano 1997)

PERCENTUALI (CON AMORE)

D

Due uomini in uniforme ci raggiunsero di corsa e ci fecero scendere dall’auto. «Tutto bene?» Mi sentivo i polmoni bruciacchiati, ma Anne sembrava boccheggiare. Uno dei pompieri le infilò immediatamente una maschera per ossigeno sul volto. Afferrai la macchina fotografica e la raggiunsi di corsa. «Stai bene?» domandai. Anne annuì e si sfilò la maschera. «Mettiti al lavoro.» «D’accordo.» «Voglio colore e bianco e nero.» La baciai. «Andremo all’ospedale non appena avrò...» «Niente ospedale», m’interruppe. «Non appena hai le foto, torneremo al giornale.» «Si rimetta la maschera, presto», le disse uno dei pompieri. Ma Anne si stava rovistando le tasche alla ricerca del telefono cellulare. «Lei ha bisogno di ossigeno. La maschera, subito.» «Non prima di aver chiamato il giornale. Gary, datti da fare.» Immortalai due vigili del fuoco che perdevano il controllo di una manichetta. «Chi diavolo è quello con la macchina fotografica?» gridò uno dei comandanti della squadra. «È un fotografo del Montanan», rispose Anne. «Lasciatelo lavorare.» «La maschera, la maschera...» Mi allontanai di corsa lungo la strada. Uno dei pompieri, il volto sconvolto e nero di fuliggine, era appoggiato con la schiena a una cisterna. Gli dedicai cinque scatti, quindi spostai la mia attenzione su quattro uomini le cui sagome si stagliavano sullo sfondo di due pini carbonizzati. Il cielo era solcato dagli idrovolanti che sorvolavano la foresta in fiamme, scaricavano l’acqua e facevano ritorno al lago per rifornirsi.

C’era qualcosa di irresistibile nello sfiorare la morte così da vicino. E in qualche modo ci si convinceva che guardare la scena attraverso un mirino significava essere al sicuro. La macchina fotografica diventava una sorta di scudo. Standole dietro, non poteva succederti nulla. Eri protetto, assolto da ogni rischio.

Usando un teleobiettivo, riuscii a sorprendere un pilota che guardava la scena dal suo abitacolo mentre il carico d’acqua dei suoi galleggianti si rovesciava sugli alberi. Sul suo volto era dipinta un’espressione noncurante, soddisfatta per la missione compiuta, quasi l’incendio di una foresta fosse qualcosa di assolutamente ordinario. Inserii un rullino di Fujicolor nell’apparecchio appena in tempo per inquadrare lo spegnimento di un muro di fiamme, e catturai il magnifico primo piano di un pompiere anziano dalla pelle crepata come l’asfalto che fissava l’incendio con occhi sgranati dallo sconcerto mentre il bagliore rosso delle fiamme gli illuminava il volto. In meno di mezz’ora impressionai nove rullini di pellicola. Tre idrovolanti solcavano il cielo, mentre a terra quattro cisterne pompavano una quantità impressionante d’acqua. Il caldo terribile mi copriva di sudore, ma non riusciva a farmi arretrare. La drammaticità della situazione, il fatto che io e Anne fossimo ri-

usciti a salvarci a malapena, erano cancellati dall’eccitazione del pericolo, dalla sensazione di far finalmente parte dell’azione. All’improvviso compresi perché i fotografi di guerra rincorressero sempre la battaglia. C’era qualcosa di irresistibile nello sfiorare la morte così da vicino. E in qualche modo ci si convinceva che guardare la scena attraverso un mirino significava essere al sicuro. La macchina fotografica diventava una sorta di scudo. Standole dietro, non poteva succederti nulla. Eri protetto, assolto da ogni rischio. Erano questi i miei pensieri mentre saettavo avanti e indietro scattando una foto dopo l’altra, dimentico delle fiamme che ci circondavano come un enorme, rabbioso cerchio circense. «Lei, fotografo!» Ruotai sui tacchi e vidi il capitano della squadra che mi indicava. «Basta così.» «Mi conceda altri dieci minuti e toglierò il disturbo.» «Voglio che se ne...» Non riuscì a terminare la fra-

se: una fiammata si allungò all’improvviso dagli alberi, avvolgendo un pompiere a tre metri da lui. Tre uomini si lanciarono verso il collega, e io puntai l’obiettivo su quella torcia umana. Continuai a scattare mentre il poveretto si dimenava agonizzante, gli abiti e i capelli in fiamme, circondato dai colleghi che cercavano disperatamente di aiutarlo. Quando le fiamme si spensero, l’uomo crollò a terra e non si mosse. Riuscii a fare quattro scatti mentre cadeva, e proseguii a fotografare mentre il capitano tentava un disperato massaggio cardiaco e gli tastava il polso. Il mio ultimo scatto immortalò il capitano inginocchiato accanto al corpo esanime, il volto fra le mani. «Mio Dio...» Era Anne. Mi si era accostata, e fissava la scena con espressione sconvolta. «È...?» domandò. Annuii. «L’hai fotografato?» mi chiese sottovoce. «Sì. Come vanno i polmoni?» «Funzionano ancora.» Un ufficiale ci si avvicinò. «Ora dovete andarvene», disse. «E subito.» Risalimmo in auto e partimmo a gran velocità. Nel giro di dieci minuti eravamo sulla Route 200, diretti a Mountain Falls. Accostai al bordo della strada, balzai fuori e consumai un altro rullino sull’impressionante vista panoramica dell’incendio. Le fiamme erano ancora così rabbiose che sembravano sfiorare gli idrovolanti, e un’enorme, minacciosa nube di fumo aleggiava sulla valle. Quando terminai il rullino, vidi che Anne mi si era affiancata. «Immagino che dovrò dire addio alla mia baita», mormorò. «Non è detto», risposi. «Le fiamme non si erano avvicinate al lago.»

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Racconto «Ma anche se non brucerà, chi avrà voglia di passare il tempo in una foresta carbonizzata?» Il telefono cellulare squillò. Anne rispose e si lanciò in un rapidissimo botta e risposta. «Sì... sì... colore e bianco e nero... finora una vittima. Sì, ce l’abbiamo... certo, saremo lì fra un’ora al massimo.» Chiuse la comunicazione e si voltò verso di me. «Era il direttore. È entusiasta del fatto che abbiamo rischiato di bruciare vivi... e soprattutto che tu fossi armato di macchina fotografica. Ci sta riservando la prima pagina, dobbiamo sbrigarci.» Si mise al volante, pigiando il piede sull’acceleratore fino a sfiorare i centocinquanta chilometri orari. «Quanti rullini hai scattato?» «Sette in bianco e nero, quattro a colori.» «Magnifico. Probabilmente faremo la prima pagina in bianco e nero e una doppia pagina a colori all’interno. E venderemo le altre foto a colori.» «A chi?» «Al Time, a Newsweek, a USA Today, forse persino al National Geographic. In poche parole, al miglior offerente.» «E chi sarà a venderle?» «Io, in qualità di art director del Montanan.» «Non sapevo di avervi ceduto i diritti ausiliari della mia opera.» Anne alzò gli occhi al cielo. «Il solito romantico.» «Senti chi parla, miss Marketing.» «D’accordo, facciamola finita», tagliò corto lei. «Quanto vuoi per la pubblicazione sul giornale?» «Duemila dollari.» «Va’ all’inferno.» «Ho rischiato la cremazione per offrirti lo scoop fotografico dell’anno. Ti puoi permettere un minimo di generosità.» «E tu un po’ di realismo. Siamo pur sempre un piccolo quotidiano di provincia. Mille dollari sono già troppi, per le nostre tasche.» «Vorrà dire che venderò le mie foto a qualcun altro.» «Millecinquecento. E il cinquanta per cento su quelle che

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piazzeremo sul mercato.» «Voglio il cinquantacinque.» «Ti odio», disse Anne. Mi piegai verso di lei e le baciai i capelli. «E io ti amo», risposi. Anne si voltò di scatto e mi fissò a bocca aperta. «Non distrarti», l’ammonii. Riportò gli occhi sul parabrezza. «È una tattica di negoziazione, vero?» «Miss Ames, lei è troppo brillante.» «Be’...» concluse Anne finalmente, «mi sa tanto che dovrò accettare le tue condizioni.» Quaranta minuti dopo eravamo al giornale. Jane, l’assistente di Anne, ci aspettava misurando l’atrio a grandi passi nervosi. Quando si rese conto di come eravamo ridotti, ebbe un moto di sorpresa. «Cazzo, dovreste vedervi!» esclamò. «Era proprio un bell’incendio, allora.» «Dieci e lode per la deduzione, tesoro», ribattè Anne. «Ma ora fa’ sviluppare le pellicole di Gary. Voglio i provini entro un’ora.» Un uomo di mezz’età ci si avvicinò a passo deciso. Indossava una giacca di tweed, una camicia azzurra button-down e una cravatta di maglia. «Buon Dio, Anne... non sei andata in ospedale?» «Stu, è soltanto un po’ di cenere.» «Lei dev’essere Gary Summers», disse l’uomo, tendendomi la mano. «Stuart Simmons.» «Il gran capo», precisò Anne. «Ve la siete cavata senza danni?» domandò il direttore. «Anne dovrebbe farsi visitare immediatamente», risposi. «Sto bene», protestò lei. «Respirare fumo non fa mai “bene”.» «Non andrò da nessuna parte se non dopo aver visto quelle foto», dichiarò Anne. Simmons si rivolse alla receptionist. «Ellie, chiami il dottor Braun a casa e gli dica di venire subito al giornale.» Anne diede un gemito esasperato.

«Non fare i capricci, Anne», la rimproverò lui. «Voglio che rimani finché le pagine non saranno impostate. Merrill e Atkinson della cronaca locale ti stanno aspettando. Scriveranno loro i pezzi di commento alle foto.» «Avete mandato qualcuno sul luogo dell’incendio?» domandò Anne. «Gene Platt.» «Quel vecchio scribacchino?» «Non è una decisione tua, Anne. E in ogni caso, farà solo un pezzo di colore. Ai servizi veri e propri penseranno i ragazzi della cronaca.» «Che ne dici di altre foto per domani?» propose Anne. «Dubito che riusciranno a domare le fiamme prima della chiusura del giornale.» «Gary, ha voglia di tornarci?» mi chiese Stu. «Magari per qualche scatto notturno?» «Speravo di vedere com’erano venute le foto.» «Lasci fare ad Anne», ribattè il direttore. «È la migliore.» «L’hai detto», confermò Anne guardandomi e inarcando maliziosamente le sopracciglia. Il direttore notò la scintilla nel suo sguardo, ma fece finta di niente - sebbene di sicuro, da buon cittadino di Mountain Falls, fosse perfettamente al corrente di ciò che c’era fra me e Anne. «Bene, è pronto per un’altra missione in prima linea?» mi domandò. Era difficile resistere all’analogia militaresca. Risposi di sì. «Magnifico!» esclamò Stu. «Mister Simmons», interloquì la receptionist, «ho in linea Gene Platt. Sembra che sia morto un altro vigile del fuoco.» Il direttore scosse il capo. «Sta diventando una faccenda molto seria», mormorò. Quindi si voltò verso di me e soggiunse: «Faccia attenzione, Gary. E mi chiami domani mattina. Le voglio offrire un impiego fisso al giornale. A proposito, i Volti del Montana mi sono davvero piaciuti.» Prima che potessi rispondere, mi voltò le spalle e si allontanò verso la redazione.

«Ma guarda, una proposta di lavoro», disse Anne. «Se significa essere ai tuoi ordini, te ne puoi scordare.» «Hai sempre la frase giusta, vero?» «Ti prego, Anne, fatti vedere dal dottore.» «E tu sta’ attento.» Fece per abbracciarmi ma si bloccò, rammentandosi della receptionist alle nostre spalle. «Vuoi ancora bianco e nero e colore?» domandai. «Sì. E tieni conto che la nuda cronaca può funzionare per noi, ma l’immagine patinata andrà a ruba ovunque.» Mi diede il suo telefono cellulare, nel caso avessimo bisogno di comunicare, e mi sfiorò il braccio. «Torna tutto d’un pezzo», mormorò. Meno di un’ora dopo ero di nuovo sul ciglio della Route 200 dal quale avevo scattato le panoramiche della valle in fiamme. Ebbi la fortuna di giungervi proprio mentre il Sole al tramonto diffondeva sul canyon invaso dal fumo un magnifico bagliore color whisky. Mi fermai per più di mezz’ora, quindi ripresi il cammino fino al centro dell’azione. L’incendio non era ancora stato domato, e il tratto di strada asfaltata si era trasformato in un vero e proprio circo: quattro troupe televisive, due o tre inviati radiofonici, una manciata di pennivendoli degli altri quotidiani del Montana. E Rudy Warren. «E tu che cazzo ci fai qui?» lo apostrofai non appena lo vidi. «Credi che mi sarei perso lo spettacolo? È l’incendio più grosso che sia scoppiato da anni a questa parte. Simmons mi ha chiamato appena dopo averti rispedito qui. Vuole un fondo entro le otto di stasera.» «Credevo che se ne occupassero un certo Gene Platt e i ragazzi della cronaca...» «Loro si occupano dei fatti. Ma Simmons voleva anche che fosse presente un vero scrittore...» «E quello saresti tu?» «Sei molto perspicace, per essere un fotografo.» ❖




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