FOTOgraphia 205 ottobre 2014

Page 1

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXI - NUMERO 205 - OTTOBRE 2014

Ancora grande formato BEN TORNATO!

Sei domande, anzi sette IN ATTESA DI RISPOSTA

WPOTY 2013 FANTASTICA NATURA


Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

O T N E M A N O B B A N I O L SO

Ancora grande formato BEN TORNATO!

Sei domande, anzi sette IN ATTESA DI RISPOSTA

WPOTY 2013 FANTASTICA NATURA Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

ANNO XXI - NUMERO 205 - OTTOBRE 2014

ANNO XXI - NUMERO 204 - SETTEMBRE 2014

Viva la fotografia italiana AD ARLES 2014 Grande formato QUESTA VOLTA, TORNA

Abbonamento 2014

(nuovo o rinnovo) in omaggio Betty Page

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

GRANDE GUERRA A COLORI... DA TUTTI I FRONTI ANNO XXI - NUMERO 203 - LUGLIO 2014

(trentadue visioni più una)

di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)

Abbonamento a 12 numeri (65,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome

cognome

indirizzo CAP

città

telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO

fax

❑ ❑ ❑

e-mail

Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 28219202, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito su carta di credito ❑ CartaSì ❑ Visa ❑ MasterCard

numero data

provincia

firma

scadenza

codice di sicurezza



prima di cominciare ANCHE (SOPRATTUTTO?)... LEALTÀ. Ormai, deve essere chiaro ed esplicito. Non giudichiamo nessuno, non stabiliamo alcuna scala di valori presunti, ma. Ma, FOTOgraphia rivendica un ruolo proprio e una personalità autonoma, che la distingue nel variegato (e autorevole e fantastico) panorama dell’editoria italiana di settore (e, magari, non soltanto in quella italiana). Ognuno risponde a propri intendimenti, a proprie intenzioni, a proprie promesse: e ognuno lo fa bene e con coscienza. Quindi, questa rivista intende la materia dichiarata, esplicita e statutaria, la Fotografia, nel proprio insieme e complesso, come fantastico e privilegiato s-punto di partenza, per osservazioni e riflessioni sulla Vita, verso la Vita. Quindi, «ormai, deve essere chiaro ed esplicito», FOTOgraphia è declinata e confezionata anche permettendo al cuore di rivelarsi e manifestarsi. Confidiamo che questo svolgimento non venga frainteso, non venga inteso per la sua sola apparenza (a tutti evidente), ma sia compreso per ciò che realmente è: parte fondante e centrale di un progetto narrativo e critico e teorico. Siano recepite e interpretate in questo senso sia le concentrazioni e gli svolgimenti, sia gli scavi nei collegamenti e contesti paralleli, ma anche nelle memorie individuali, in quelle letterarie (cinema compreso) e in quelle di costume: da cui le considerazioni possono essere scaturite, oppure a cui quelle stesse considerazioni offrono complemento. Ciò precisato, le sei domande che oggi poniamo, e ci poniamo, a partire da pagina otto, alle quali si può aggiungere quella espressa in Editoriale, a pagina sette, non sono soltanto coraggiosa apertura d’animo, ma -una volta ancora, una di più, mai una di tropposi offrono e propongono come accreditate, influenti e fantastiche riflessioni e osservazioni (e commenti) sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnicocommerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Domande in attesa di risposta, recitiamo e invitiamo; in ripetizione d’obbligo, invitiamo. ma, soprattutto, domande che implicano una benefica e confortevole onestà intellettuale (magari, la stessa che siamo consapevoli di esercitare e frequentare). Ma non è tutto: oltre etica e morale, che vorremmo accompagnate da educazione, eleganza e grazia, ci deve essere anche lealtà. Prima di tutto verso se stessi, quindi verso gli altri. Niente di più... sappiamo accontentarci. M.R. (Franti)

«[Ahimè, ahi vita! domande come queste mi perseguono, D’infiniti cortei d’infedeli, città gremite di stolti, [...] Che v’è di buono in tutto questo, o Vita, ahimè? Risposta] Che tu sei qui che esistono la vita e l’individuo, Che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un tuo verso». Walt Whitman; su questo numero, a pagina 10 Risposta: perché non accade nulla, se non lo vogliamo. Tutto può accadere se (solo) lo vogliamo. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 10 Il fotografo può diventare un essere umano, [...] per affermare il diritto di ognuno di creare il proprio destino. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66

Copertina Fotografia della statunitense Ellen Anon, encomio al BBC Wildlife Photographer of the Year 2013 [inquadratura verticale, ricavata dall’orizzontale originario, pubblicato a pagina 32]. Natura, da pagina 32

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio da un chiudibusta emesso a Torino, nella lontana primavera 1923

7 Editoriale Quando (e dove?) abbiamo avvicinato la fotografia?

8 Bella ragazza Domanda / 1: le origini. Con risposte laconiche

10 Come mai? Perché? Domanda / 2: l’incontro. Per Caso (?), sono con noi

12 A viso aperto Domanda / 3: amore e... Ryuichi Watanabe

14 Addirittura, oltre Domanda / 4: persino passione. Alessandro Mariconti

16 Al rovescio Domanda / 5: cadenza selettiva. Mario Carnicelli

18 Altri interrogativi Domanda / 6: siamo d’accordo. Susie Linfield


OTTOBRE 2014

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

20 Domande in attesa di risposta Sei interrogativi. Per i quali chiediamo risposte

Anno XXI - numero 205 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

22 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

24 Ore perfino scontate A parte la trama, decisamente di scarso livello, nel film Ore contate, di Dennis Hopper, viene evocato un soggetto conosciuto dalla Storia della Fotografia Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

28 Celebrazione svizzera Altrove ignorati, a partire dall’Italia (povera Italia!), i centosettantacinque anni della fotografia sono stati ricordati dal Musée suisse de l’appareil photographique

32 È natura! ... bellezza, e tu non puoi farci niente. In mostra, le immagini più meritevoli del prestigioso e autorevole BBC Wildlife Photographer of the Year 2013 di Lello Piazza

44 Gossen Lunasix Misurazione esposimetrica riflessa e incidente, dal 1961 a cura di New Old Camera

46 Fil di vento Raccolta di poesie di Maria Laura La Scala, con appassionante accompagnamento fotografico di Maurizio Rebuzzini

50 Ben tornato! Ben tornate attenzioni e applicazioni fotografiche che fanno tesoro della concentrazione sulla magica proiezione del vetro smerigliato di ampie dimensioni. Convincente workshop Ritorno al grande formato, in prima sessione, a Pistoia, lo scorso fine settembre di Antonio Bordoni

58 Pilastri della Terra

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Antonio Bordoni Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Beppe Bolchi Paolo Ciresola Giancarlo D’Emilio mFranti Maria Laura La Scala Chiara Lualdi Altin Manaf Ilario Piatti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giordano Suaria Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Allestita al Mast, di Bologna, The Factory Photographs rivela un altro aspetto dell’eclettica personalità di David Lynch, regista e sceneggiatore di spicco e fama di Angelo Galantini

64 Giuseppe “Gegè” Primoli Sguardo sul goffo conte-fotografo della “Belle Epoque” di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale Q

uando pensi alla Fotografia, cosa vedi? Questa domanda si aggiunge alle altre sei che (ci) poniamo dalla prossima pagina otto, e che compongono l’ossatura di questo numero; perfino, le anticipa, genera e motiva (attenzione, sia chiaro e trasparente che, nella propria palesata unicità e particolarità redazionale e giornalistica, che non possiamo ignorare, né non assecondare, FOTOgraphia rivendica anche un altro ruolo: nulla di quanto è pubblicato sulle sue pagine è casuale, sia nel proprio contenuto sia nell’inevitabile forma). Nello specifico, questa domanda è discriminante per tutto il resto; addirittura, condiziona -magari guidandola- ogni intenzione individuale. Un conto è apparire interessati/appassionati alla materia, un altro è esserlo veramente. Infatti, a partire dalla propria inutilità sostanziale (paradosso? metafora?), la fotografia è un esercizio volontario, consapevole e convinto. Per conseguenza diretta, è da rispettare e assecondare... e svolgere bene! Assecondare! E svolgere bene! Non è lecito frequentare la fotografia senza stimarla (riverirla, perfino). E questo vale sia per ogni impegno/intenzione individuale, sia per il suo commercio: al quale oggi rivolgiamo domande in attesa di risposta. Siamo consapevoli che la qualità e quantità di nozioni e competenze necessarie sia variabile, e dipenda direttamente dai rispettivi indirizzi (passionali e/o mercantili), ma siamo altrettanto coscienti che il nulla è troppo poco. Certo, in altre stagioni, caratterizzate da entusiasmi e passioni travolgenti, anche il nulla è bastato, e sul nulla sono state edificate consistenti fortune individuali. Ma oggi, a bocce ferme e in un mondo variegato e consapevole, il nulla è troppo arido. Da cui, e per cui, dalla prossima pagina otto incontriamo interrogativi sostanziosamente tali. Ci aspettiamo risposte, consapevoli del fatto che non ne riceveremo alcuna: è già troppo sperare che qualcuno (tra quanti dovrebbero farlo) legga, che qualcuno abbia voglia e intenzione di considerare il contributo del pensiero altrui... è pura follia augurarsi nota in proposito. In ogni caso, la nostra coscienza è in pace, sia con se stessa sia con il proprio dovere. Le domande poste ci paiono sostanziali, non soltanto sostanziose; potrebbero essere utili e proficue sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva. Altrettanto, e con maggiore vigore, lo sarebbero le relative risposte. Siccome, al giorno d’oggi, l’autoreferenzialità regna sovrana e condiziona ogni atteggiamento, siamo consapevoli che nulla accadrà: però, poi, non ci vengano richieste ulteriori partecipazioni a sostegno di... Sia detto per inciso! Ovvero, ciascuno per sé, punto e basta. Da parte nostra, che intendiamo e interpretiamo un senso del dovere assoluto e perentorio, continuiamo sulla strada intrapresa, continuiamo il nostro tragitto. E ora, a nostra volta, ci domandiamo: quando abbiamo cominciato a pensare alla fotografia, a frequentarla? Lo ricordiamo: all’alba degli anni Settanta, per Caso e Inganno. A seguire, con coerenza e costanza e perizia. Punto. Maurizio Rebuzzini

Siamo entrati nel giornalismo della fotografia per una porta di servizio, nell’autunno 1972, con la compilazione di voci tecnico-merceologiche della Foto Cine Guida 1973, ideata e prodotta da Massimo Casolaro, allora direttore di Clic. Siamo entrati nel giornalismo della fotografia per Caso e Inganno. A distanza di quarant’anni abbondanti, siamo autorizzati a porci e porre domande: da pagina otto, in una sequenza di sei interrogativi, in attesa di risposta (senza speranza di riceverne). Ma!

7


Domanda / 1: le origini di Maurizio Rebuzzini (Franti)

Poi, sarebbe arrivata Vincenzina (con Beppe Viola, «Vincenzina davanti la fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più»). Poi, sarebbero arrivati gli aeroplani («che si parlano tra di loro e discutono e non si dicono mai niente»). Poi, sarebbe arrivata una lettera da lontano («per il tempo, che a vent’anni nessuno ti dice che vola via come un tipo particolare di vento» / «per mio figlio, che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio»). Ma il mio primo avvicinamento a Enzo Jannacci, il mio avvicinamento originario, è stato con la bella ragazza. Non mi vergogno, né mi imbarazzo, quando confesso pubblicamente che ancora oggi, quando risento la canzone, mi commuovo fino alle lacrime, come il primo giorno, tanti decenni fa, tante stagioni fa. Vi prego di ascoltarla, meglio se nella versione originaria, dall’album Sei minuti all’alba, del 1966, che contiene anche E io ho visto un uomo, altra lirica degna di grande attenzione (ovviamente, entrambe le esecuzioni, sono su YouTube). Cosa portavi bella ragazza dovrebbe essere una di quelle compagnie delle quali non fare a meno. Mai. Ha ragioni da vendere l’amico Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione della rivista con i suoi fulminanti, seducenti e intriganti Sguardi su, quando annota che «solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante» (riflessione/annotazione che ho fatto mia). Enzo Jannacci è stato un poeta che ha parlato con il cuore e al cuore. Gli debbo molto, e oggi il mio debito cresce: con questo incipit a una cadenza di domande, che si indirizzano nel nostro mondo, nel nostro specifico fotografico, ispirandosi alla sua bella ragazza, con relative risposte laconiche e distaccate, tanto quanto è stato ed è nella mia Vita: lo ammetto e ri-

8

Cosa portavi bella ragazza

«Cosa portavi, bella ragazza, cosa portavi al tuo primo amore?» «Portavo in dote quelle parole che lui non seppe mai dire a me!» «Cosa lasciavi, bella ragazza, cosa lasciavi fuor dal portone?» «Lasciavo fuori il mio disonore, che non sapesse mai niente di me!» «Cosa capivi, bella ragazza, cosa capivi, tu, dell’amore?» «Capivo niente, che il mio primo amore capiva tutto, tutto anche per me!» «Cosa provavi, bella ragazza, cosa provavi, fare all’amore?» «Provavo niente: nient’altro che il sole, e neanche tanto, qui dentro di me!» «Cosa moriva, bella ragazza, quando hai perduto il tuo primo amore?» «Moriva niente, che il mio dolce amore lo tengo in vita per sempre con me!» Enzo Jannacci

MAURIZIO REBUZZINI

P

BELLA RAGAZZA

31 marzo 1974: Enzo Jannacci al concerto per il sostegno dell’occupazione della Palazzina Liberty, in largo Marinai d’Italia a Milano (Parco Formantano), da parte del collettivo teatrale-politico di Dario Fo.

conosco, condotta con non comune imperturbabilità (apparente). Ma questo non interessa nessuno, a partire da me. Quello che invece oggi -da quiaffronto, è una consecuzione di domande, che attenderebbero risposta: ma probabilmente, molto probabilmente, «risposta mai non giunse» (ancora, da e con Enzo Jannacci, da Ho soffrito per te, scritta nel 1966 con Aurelio “Cochi” Ponzoni, Renato Pozzetto e Marcello Marchesi, ed eseguita da Cochi e Renato). Molte domande si impongono oggi, in questi tormentati tempi fotografici, che non si sono ancora riassestati dopo la travolgente ondata di trasformazioni radicali, suscitate e indotte dalla totale evoluzione tecnologica, che dalle modalità operative originarie si è proiettata sulla prassi, sia della professione, sia dell’impegno individuale, sia dell’espressività tutta, nel proprio insieme e complesso. Tra tanto altro, annotiamolo subito, la consecuzione di fatti e vicende che semplifichiamo nell’ipotesi di crisi (concreta e tangibile) ha portato alla luce debolezze e incongruenze, che una volta erano solo latenti, e occultate sottotraccia. Certo, i tempi sono problematici, ma il modo con il quale il mercato fotografico (soprattutto il mercato fotografico) affronta l’incertezza è quantomeno grottesco, oltre che inefficace. In questo momento servono idee, capacità e visioni. Sappiamo che qualcuno possiede questo autentico bene, ma sappiamo anche che -in definitivail mondo fotografico preferisce ancora e sempre il piagnisteo all’azione, alla reazione (in richiamo a La cultura del piagnisteo - La saga del politicamente corretto, di Hughes Robe, in edizione Adelphi, dal 1995). Da qui, domande a seguire.❖


I AM BELLA RAGAZZA


Domanda / 2: l’incontro di Maurizio Rebuzzini

COME MAI? PERCHÉ?

L

La serie di domande che ci poniamo oggi, che compongono l’ossatura portante di questo numero di FOTOgraphia, è stata indotta e provocata da una combinazione apparentemente casuale. Ma tutti sappiamo bene come il Caso, che guida e governa le nostre esistenze, sia -a propria volta- diretto e gestito dall’insieme delle nostre azioni. Lo abbiamo già annotato in altre occasioni, e la ripetizione si impone; agli opposti: se visitiamo un mercatino antiquario, per Caso incontriamo libri e oggetti utili alla nostra Esistenza; se frequentiamo una discoteca, con tutti gli annessi e connessi, e senza le opportune prudenze, per altrettanto Caso contraiamo l’Aids. Comunque, nella propria virilità, il Caso dipende anche, ma non certo soprattutto, dalle nostre azioni precedenti e anticipatorie, oltre che dalla nostra capacità di individuarne i cenni, di coglierne i segnali, oltre che dalla nostra predisposizione. Ne siamo convinti. Al sodo, per Caso, lo scorso quattordici luglio (non per Caso, giorno del mio compleanno), da una vetrina interna di New Old Camera, di Milano, fantastico indirizzo dell’usato fotografico, che spesso sconfina nell’antiquariato e/o collezionismo conseguente, mi ha sorriso una confezione di cinque obiettivi Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8. I sorrisi degli oggetti bisogna saperli cogliere, a partire dal princìpio (mia convinzione) che gli oggetti “ci sorridono”, si autoinvitano nella nostra Vita. Allora, domanda originaria: come mai, questa confezione, presumibilmente, plausibilmente e ragionevolmente indirizzata ai servizi di assistenza tecnica Kodak, è rimasta integra per circa sessanta anni, nella propria raffinata scatola di cartone a bordi rinforzati? In dotazione con le configurazioni Kodak Junior 6x9cm

10

Gli oggetti ci raggiungono sempre al momento opportuno. Sono destinati a noi: tutto è già scritto, e si devono aspettare e assecondare le proprie maturazioni. Però, attenzione e attenzione: bisogna sapere riconoscere e cogliere i loro sorrisi!

(su pellicola a rullo 620) dell’immediato dopoguerra, costruite dalle filiali inglese e francese, il Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8 sostituì l’originario parifocale f/7,7, in dotazione con i modelli primigeni, assemblati a Rochester, dal-

la casa madre. Dunque, la sua datazione è certa. E la domanda si conferma, con una ulteriore aggiunta... inevitabile: come mai questa confezione è rimasta integra per sei decenni?; come mai nessuno, prima di me, l’ha individuata e apprezzata all’interno dell’offerta commerciale di New Old Camera?; come mai, quella sera sono andato in via Dante, a Milano?; come mai, la stessa confezione ha sorriso a me, e non ad altri? Insomma, come mai è finita per attraccare alla mia sponda? Risposta (per me facile, considerate le tante volte che la stessa domanda si è affacciata nella mia Vita, intrecciata con la Fotografia): da e con Walt Whitman, «Che tu sei qui, - che esistono la vita e l’individuo, / Che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un tuo verso». Quindi, in proseguo, non sto a farla ulteriormente lunga con una combinazione temporale, che si è verificata soltanto una mezza dozzina di giorni dopo, quando, spostandomi tra due indirizzi del centro di Milano, mi sono ferma-

to presso una bancarella di libri usati, una delle poche rimaste in città, una delle più affascinanti. Qui, ho individuato una quantità di volumi che decenni fa composero la collana Biblioteca dei ragazzi, della Casa Editrice Bietti. Giocoforza, concentrarsi subito sul titolo Il libro delle scoperte, sul cui indice ho presto individuata la presenza della fotografia, favoleggiata per i ragazzi: I prodigi della luce, con protagonista Giacomino, che si destreggia tra alambicchi, sostanze chimiche magiche e apparecchi che registrano ciò che vedono. Allora: il libro è intatto e ben conservato; addirittura, le sue pagine non sono mai state tagliate (rilegatura antica, con pagine da tagliare individualmente); una annotazione iniziale, in bella calligrafia, data 22 febbraio 1931. Le stesse domande: come mai... anche questo libro è attraccato alla mia sponda, attraversando decenni, traslochi, proprietà? Risposta: perché non accade nulla, se non lo vogliamo. Tutto può accadere se (solo) lo vogliamo. ❖


I AM BELLA RAGAZZA I AM COME MAI? PERCHÉ? I AM A VISO APERTO I AM ADDIRITTURA, OLTRE


Domanda / 3: amore e... di Maurizio Rebuzzini (ancora)

12

a via Dante e via Rovello. Ai non milanesi, che sono di più dei milanesi, va chiarito che si tratta di una locazione in pieno centro città, a una manciata di passi da piazza del Duomo: dove escludo che gli affitti possano essere definiti “popolari”. In una realtà commerciale sempre più avversa, sul cui andamento si è edificato uno sconsolante piagnisteo (ma, comunque, nel mercato fotografico, ho sempre e solo sentito piagnistei: anche in passato, anche in quel passato che tutti oggi rimpiangono ed evocano come incoraggiante), New Old Camera impegna una nutrita quantità di addetti: dalla vendita alla gestione infrastrutturale. Propone e vende sia at-

trezzature d’occasione, con le quali ha esordito, sia attrezzature nuove, di profilo medio-alto (ufficialmente, dal 4 aprile 2013). Se ancora mi ponessi la domanda (antica) del come mai Ryuichi Watanabe agisce con determinazione e compiacimento aziendale, approderei alla stessa risposta già annotata: nella domanda è implicita la risposta. Perché si chiama Ryuichi Watanabe, è giapponese, e ha ben chiaro il proprio dovere istituzionale, sul quale ha edificato la sua personalità commerciale. A differenza di coloro i quali occupano uno spazio mercantile senza alcuna competenza, né predisposizione specifica alla materia del proprio commercio (e so-

Ryuichi Watanabe è titolare di New Old Camera, di Milano, nella centrale via Dante 12 (cortile interno, accessibile anche da via Rovello 5; www.newoldcamera.it). Differentemente dal piagnisteo generale e generalizzato, in questi locali regna un clima di competenza e amore per la fotografia: attrezzature e immagini. In attesa di risposta: questa è una condizione discriminante anche del commercio?

PAOLO CIRESOLA

Prima di approdare al soggetto di questa nota, Ryuichi Watanabe, titolare di New Old Camera, di Milano (via Dante 12 / via Rovello 5; www.newoldcamera.it, info@newoldcamera.it), è doveroso prenderla larga, tornando con la memoria a stagioni lontane. Il parallelo è doveroso. Dovendo/volendo riflettere nel senso verso il quale mi sono avviato, sto per avviarmi, ancora oggi potrei domandarmi come mai -quando insegnavo la fotografia in sala di posa all’Istituto Europeo di Design, tanti anni fa, in una stagione nella quale non avevo capito di essere complice di un tranello (presto rimediato, con l’abbandono, l’anno scolastico successivo)- come mai, riprendo, le regole comportamentali dello studio venissero seguite soltanto da uno studente, da un allievo. Domanda esplicita, come mai soltanto Peter Obenaus, nativo di Colonia, in Germania, seguiva le regole? Nella domanda è implicita la risposta: perché si chiama Peter Obenaus, perché è stato educato in Germania, perché è consapevole dei propri doveri, perché è chiara nella sua formazione che ognuno deve prima di tutto svolgere il proprio dovere, ahinoi, qualsiasi questo sia. Da cui: come mai, in un tempo nel quale il piagnisteo attraversa l’intero comparto commerciale della fotografia, senza alcuna soluzione di continuità dalla distribuzione alla vendita al minuto, a Milano, in pieno centro città, è fiorita una esperienza che assolve il proprio dovere/diritto con efficacia e buoni risultati? New Old Camera, creato e condotto da Ryuichi Watanabe, giapponese, originario di Hiroshima, inizialmente approdato in Italia per la musica sinfonica (amata e praticata e studiata), si distende in due entità che si affacciano in un cortile interno comune

GIORDANO SUARIA

P

A VISO APERTO

no tanti, forse tutti, sicuramente troppi), Ryuichi Watanabe ama la fotografia. Che la ami potrebbe essere questione personale e individuale (tanta dedizione non è necessariamente richiesta), ma che la rispetti è faccenda pubblica, che -tra l’altro- identifica e definisce ogni altro comparto commerciale, dall’abbigliamento alle attrezzature sportive, dalle biciclette all’utensileria dei ferramenta (ma la fotografia, no). Però, in sovramercato, Ryuichi Watanabe ama sinceramente la fotografia, estendendo la sua partecipazione dagli apparecchi fotografici in quanto tali alla fotografia come risultato ed espressività. Conduce la propria attività, arricchendo quotidianamente la sua anima di incontri e conoscenze e avvicinamenti. Nei suoi locali, dove ci si può soffermare anche senza intenzioni specifiche d’acquisto, si respira fotografia, si parla di fotografia, ci si incontra con la fotografia: i suoi locali sono un salotto nel quale la parola detta è sempre opportuna, prima di essere anche intelligente. Sono un salotto nel quale la Fotografia regna sovrana. La conoscenza personale e la cultura individuale ne escono sempre arricchite. E a conseguenza (forse?!), anche il relativo commercio poggia su basi solide, su fondamenta stabili, che non dipendono mai, né soltanto, dall’eventuale prezzo d’acquisto favorevole (che pure è sempre tale, favorevole), ma su un incontro di anime. Siccome, paradossalmente parlando, la Fotografia, come spesso annotiamo, è una delle attività meno necessarie al sostentamento quotidiano, è giocoforza che venga frequentata per amore e con amore. Altrimenti, per cosa altro dovremmo impegnarci? Altra domanda in attesa di risposta. ❖


I AM BELLA RAGAZZA I AM COME MAI? PERCHÉ? I AM A VISO APERTO I AM ADDIRITTURA, OLTRE I AM AL ROVESCIO


Domanda / 4: persino passione di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora)

ADDIRITTURA, OLTRE

14

ALESSANDRO MARICONTI (3)

S

State attenti, state accorti, state prudenti, se e quando vi capitasse di entrare da Photo40, indirizzo milanese di attrezzature fotografiche d’occasione (soprattutto, ma non soltanto): via Foppa 40; www.photo40.it, alessandro@photo40.it. Siate controllati, perché non tutto quello che vedete, che è esposto in raffinate vetrine dense di proposte affascinanti, è in vendita. Purtroppo (?) per tutti noi clienti potenziali, acquirenti probabili, il titolare Alessandro Mariconti è appassionato alla materia almeno tanto quanto possono esserlo coloro i quali ne frequentano l’indirizzo. In conseguenza diretta (?), alcune delle “proposte” a tutti visibili non sono affatto tali, proposte, ma soltanto “esposizione” (con tanto di certificazione, sia chiaro). A propria volta appassionato cultore dell’antiquariato fotografico, esteso dalle configurazioni piccolo formato alle imponenti costruzioni grande formato, sia a banco ottico sia folding, Alessandro Mariconti si circonda di quanto alimenta il suo sentimento. Tanto che la competenza e l’amore che possono stabilire la differenza anche nel commercio, qui vanno addirittura oltre. Comunque, tranquilli, l’offerta commerciale “a disposizione” è adeguatamente ampia e differenziata; con una caratteristica sostanziale, che la definisce e qualifica: profilo medio-alto, con integrazioni di garbo (per esempio, al momento, si registra una consistente quantità di apparecchi Polaroid per filmpack integrali autosviluppanti). Ancora, Photo40 è una autentica miniera per coloro i quali (noi tra questi!) frequentano con coerenza il grande formato fotografico, per il quale sono godibili sia apparecchi fotografici in quantità e qualità, sia obiettivi di tante stagioni, dai disegni ottici recenti a quelli più antichi,

Photo40, in via Foppa 40, a Milano (www.photo40.it, alessandro@photo40.it), è un indirizzo privilegiato per le attrezzature fotografiche d’occasione. Oltre l’insieme di una autorevole offerta medio-alta, si segnala una consistente offerta di apparecchi grande formato, con relativi obiettivi e accessori d’uso. Ma non è soltanto questo: ora e qui, sottolineiamo la passione del titolare Alessandro Mariconti.

perfino in costruzione Barrel, senza otturatore centrale. Comunque, la passione fotografica di Alessandro Mariconti si manifesta nel suo locale anche con apprezzate sfumature, identificabili dagli sguardi più attenti e competenti (aguzzare la vista!). Per esempio, in una vetrina, fanno bella mostra di sé un espositore da banco e una confezione sovramarcati “CB”, a lettere classiche sovrapposte: provengono dall’attività tessile della famiglia/dinastia francese Cartier-Bresson, della quale conosciamo tutti l’Henri fotografo. Per esempio, ancora, non manca una confezione “Brandazzi Romualdo & Figlio, Milano”: non importa tanto cosa contenga, ma basta l’evocazione di una fantastica stagione fotografica italiana, costellata di una miriade di marchi semi artigianali di spicco (per approfondimento, due sono stati i cavalli di battaglia di Brandazzi: l’anello stringiobiettivo universale, per configurazioni da studio, e l’otturatore a lamelle Silens, altrettanto universale). Ancora per esempio, si registra un’altra confezione “Butti”: filtro in vetro proveniente dall’offerta tecnico-commerciale di una delle storiche esperienze di vendita all’ingrosso del paese. Chi lo desidera, può anche trovare libri di pregio: una citazione, sopra tutte, per la prima edizione originaria, del 1947, della biografia di Bob Capa, Slightly Out of Focus. E poi, ancora e fine (per ora), c’è di che scatenarsi con i disegni ottici del passato remoto, per i quali suonano riferimenti quali Dallmeyer, Cooke, Voigtländer, Goerz, Meyer, Roussel, Wray, Kodak. Oltre, ovviamente, Schneider e Rodenstock. Domanda d’obbligo: anche la passione, dopo la competenza e l’amore, sono discriminanti che possono selezionare e guidare il commercio fotografico? ❖


I AM BELLA RAGAZZA I AM COME MAI? PERCHÉ? I AM A VISO APERTO I AM ADDIRITTURA, OLTRE I AM AL ROVESCIO I AM ALTRI INTERROGATIVI


Domanda / 5: cadenza selettiva di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora, ancora)

16

Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano (25 agosto 1964), peraltro presentata in una autorevole mostra al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, di Roma, fino all’undici novembre (www.idea.mat.beni culturali.it; ne riparleremo), e una avvincente visione di New York, all’alba degli anni Sessanta. Dietro la superficie delle immagini, a tutti evidente, ci stanno riflessioni fuori dal comune!

A parte il fatto che ognuna di queste due serie è meritevole di approfondimenti e considerazioni -e lo stesso dicasi per altre presenti nel capace archivio approntato-, qui e ora, sottolineo come Mario Carnicelli allunghi le proprie valutazioni e analisi al contenuto implicito delle stesse immagini. Per esempio, per la serie dei ritratti dal funerale di Togliatti (il cui succo si allinea a quello dell’RFK Funeral Train, di Paul

MAURIZIO REBUZZINI (3)

L

La vita scorre, inesorabilmente, partendo dalla nascita: asilo, scuole dell’obbligo, proseguo individuale, lavoro… pensione. Personalmente, considero perversa questa sequenza, che impedisce alla Vita di manifestarsi al proprio meglio: la sequenza dovrebbe essere inversa, in modo da consentire alla propria maturazione individuale di esprimersi al meglio... non al peggio. Recentemente, per uno di quei Casi fortuiti, quanto fantastici, che scandiscono l’Esistenza, ho rincontrato un amico che avevo perso di vista, inavvertitamente e colpevolmente. L’amico ritrovato, Mario Carnicelli, per decenni fotonegoziante a Firenze, addirittura in piazza del Duomo (ed è in questa veste che l’ho sempre conosciuto e inteso), mi ha confortato, presentandomi la sua attualità... rovescia. Come lui stesso ha rilevato, con sagace visione e interpretazione esistenziale, dopo quarant’anni di pensione, di letargo imposto (per l’appunto, nella gestione di un luminoso negozio fotografico), ha cominciato a vivere una sua fantastica stagione. Cessata l’attività commerciale (ceduta?, non importa, non mi importa), ha ripreso ad occuparsi delle fotografie che scattò in gioventù, alle quali sta restituendo nuova vita. Evviva, per lui. Ma, con non celato egoismo, evviva soprattutto per noi, che possiamo godere delle sue avvincenti e convincenti interpretazioni. Oggi vive a Pistoia, città di partenza, in una rigogliosa e esuberante villa (diciamola così). Ha trasformato i saloni del piano terra, di ingresso, in galleria fotografica dove, con garbo e competenza, ha allestito una esposizione di suoi lavori; soprattutto due sono i temi (ancora, diciamola così): una fantastica serie di ritratti giornalistici ripresa durante i funerali di

AL ROVESCIO

Mario Carnicelli accanto a una riproduzione dal celebre quadro di Renato Guttuso, Funerali di Togliatti, nel quale, tra i personaggi evocati, c’è anche la sua presenza di fotografo. Quindi, visioni della straordinaria e avvincente galleria fotografica allestita nella sua residenza di Pistoia, con archivio annesso. Significa qualcosa?

Fusco, relativo all’estremo saluto a Robert F. Kennedy, commentato in FOTOgraphia, del luglio 2008), l’autore prolunga verso considerazioni relative alla “psicologia della folla”! E, comunque, parlare di Fotografia con lui significa incontrare una mente brillante, intelligente e straordinariamente riflessiva. Da cui, e per cui, domanda si impone, e arricchisce, incrementa e valorizza la nostra attuale sequenza “in attesa di risposta”. Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, nella sua vita rovescia, oggi vitale e palpitante dopo gli anni della “pensione” dietro il banco del suo fotonegozio, ha approntato un archivio aperto e proposto alla consultazione e allo studio... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, sempre nella sua vita rovescia, rivela di sapere bene di cosa sta parlando, e perché lo sta facendo (per esempio, nell’esposizione privata aperta al pubblico, le fotografie americane si accompagnano con una raffinata e competente selezione bibliografica)... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, ancora nella sua vita rovescia, palesa un entusiasmo contagioso... ci si può chiedere se tutto questo -e altro ancora- possa essere considerato andatura confortevole anche alla personalità commerciale. Come la penso, l’ho già detto: oltre che agevole e accogliente, questo approccio è addirittura discriminante e selettivo. Infatti, anteponendo il dovere al diritto (cadenza discriminatoria), si raggiungono mete altrimenti impensabili. Curioso: ci si arricchisce sempre e comunque di qualcosa che non è in vendita, non è acquistabile altrove e in altro modo. Si è se stessi e si trova se stessi. Magari, magari, magari, in una esistenza rovescia. ❖


I AM COME MAI? PERCHÉ? I AM A VISO APERTO I AM ADDIRITTURA, OLTRE I AM AL ROVESCIO I AM ALTRI INTERROGATIVI


Domanda / 6: siamo d’accordo di Maurizio Rebuzzini (ancora... e fine)

ALTRI INTERROGATIVI

C

Completamente estranei a qualsivoglia cultura di branco, di confraternita, di amici di merende, di complicità, di connivenza, di mutuo soccorso, di nepotismo... ovverosia, e detta meglio, completamente estranei a ogni banda/congregazione della fotografia italiana -senza alcuna soluzione di continuità, dal suo commercio alla sua riflessione critica-, da e con queste pagine redazionali e giornalistiche rivendichiamo un ruolo intangibile e dovuto (a noi, prima che ad altri): quello dell’onestà intellettuale. Scelta di vita e straordinaria compagna di esistenza, questa onestà intellettuale è premonitrice di belle esperienze e altrettanto soddisfacenti conoscenze. Infatti, potendoci schierare secondo coscienza, senza altri pre-legami d’obbligo, riusciamo ad evitare le benevolenze in/per “amicizia”. A sguardo libero e cuore aperto e mente disponibile, riceviamo dalla Vita molto di più di quanto le diamo e concediamo. Sappiamo di non essere soli, in questo cammino in libertà; sappiamo che molti altri (ma, purtroppo, pochi ne conosciamo) agiscono in fotografia con altrettanta chiarezza e trasparenza. Tra tanti, spicca limpida e lucente la personalità della statunitense Susie Linfield (già editor del Village Voice e del Washington Post), che prima di oggi abbiamo soltanto sfiorato, registrando le sue partecipazioni a giurie internazionali. Ora, grazie a una ammirevole, gradita e apprezzata traduzione Contrasto, abbiamo potuto arricchirci di un pensiero sulla fotografia che non ha eguali, per vigore, consistenza e autorevolezza. La luce crudele, che sottotitola Fotografia e violenza politica, non viene meno alla propria promessa, occupandosi con decisione e competenza dell’argo-

18

mento proposto. Qui e ora, per un attimo, scartiamo a lato il soggetto esplicito e principale, per sottolineare il complemento oggetto, trasversale al testo. Immediatamente dopo la Premessa, con la quale l’autrice Susie Linfield precisa le linee conduttrici della sua analisi e introspezione, si incontra subito la prima delle tre parti nelle quali è stato scomposto il totale: un invitante e appetitoso Polemiche.

Quindi, dopo una Premessa già adeguatamente stuzzicante e corroborante, sono distese sul tavolo da gioco tutte le carte della partita. A carte scoperte, l’autorevole autrice sottolinea subito, non soltanto presto, la matrice che inquina la critica fotografica nel proprio insieme e complesso, esercitata da critici che odiano la fotografia. Qui, Susie Linfield si pone la domanda esplicita: perché la odia-

La luce crudele, di Susie Linfield (Contrasto, 2014; 328 pagine 15x21cm; 21,90 euro), è un libro straordinario, di quelli assolutamente/assolutamente indispensabili a coloro i quali si occupano di fotografia con coerenza e partecipazione. Qui e oggi, lo consideriamo in maniera trasversale, utilitaristicamente allineato con le nostre attuali domande per risposta. Però, attenzione, il suo valore è di qualità ben superiore a questo: dunque, se ne dovrà assolutamente riparlare.

no? La risposta è immediata: perché sono carichi di sospetto, diffidenza, rabbia e paura. Ancora (e siamo noi ad affermarlo): perché non sanno riconoscere l’Amore, neppure quando si presenta loro con gli archetipi che lo definiscono; perché non sanno capire la passione; perché nella loro tignosità sono più interessati alla demolizione fine a se stessa che alla frequentazione conoscitiva; perché antepongono la propria autoreferenzialità alla comprensione delle ragioni degli altri. Nel proprio insieme, La luce crudele è un testo che dà tante e tante risposte, sia a domande latenti, presenti nell’animo di ciascuno di noi, sia a domande inedite, accese dall’intuizione e acume di Susie Linfield. Allo stesso tempo, e a complemento (e paradossalmente?), è un libro che sollecita altrettanti interrogativi. Insomma: è un libro intelligente, che arricchisce il pensiero fotografico come pochi altri incontri siano mai riusciti a fare. A questo punto, e in ordine/rispetto dell’attuale cadenza di “domande in attesa di risposta”, si affaccia un quesito finale, che con Susie Linfield chiude il cerchio aperto dalla Bella ragazza, di Enzo Jannacci. Avere dubbi, invece di certezze assolute, osservare e vedere, piuttosto di accontentarsi di guardare soltanto, essere disponibili al dialogo e incontro, esigere da se stessi più di quanto si richiede agli altri, agire con coerenza e competenza, aggiungervi anche un pizzico di amore e passione è malattia grave? Riusciremo mai a guarire da questa infezione, che antepone la conoscenza alla superficialità, l’arricchimento di pensiero (con relativa redditività di impresa, se e quando richiesta e perseguita) all’accumulo incoerente di denari? Finale: in attesa di risposta. ❖


I AM A VISO APERTO I AM ADDIRITTURA, OLTRE I AM AL ROVESCIO I AM ALTRI INTERROGATIVI


Domanda / 1: le origini di Maurizio Rebuzzini (Franti)

Cosa portavi bella ragazza

«Cosa portavi, bella ragazza, cosa portavi al tuo primo amore?» «Portavo in dote quelle parole che lui non seppe mai dire a me!» «Cosa lasciavi, bella ragazza, cosa lasciavi fuor dal portone?» «Lasciavo fuori il mio disonore, che non sapesse mai niente di me!» «Cosa capivi, bella ragazza, cosa capivi, tu, dell’amore?» «Capivo niente, che il mio primo amore capiva tutto, tutto anche per me!» «Cosa provavi, bella ragazza, cosa provavi, fare all’amore?» «Provavo niente: nient’altro che il sole, e neanche tanto, qui dentro di me!» «Cosa moriva, bella ragazza, quando hai perduto il tuo primo amore?» «Moriva niente, che il mio dolce amore lo tengo in vita per sempre con me!» Enzo Jannacci

MAURIZIO REBUZZINI

P

BELLA RAGAZZA

Poi, sarebbe arrivata Vincenzina (con Beppe Viola, «Vincenzina davanti la fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più»). Poi, sarebbero arrivati gli aeroplani («che si parlano tra di loro e discutono e non si dicono mai niente»). Poi, sarebbe arrivata una lettera da lontano («per il tempo, che a vent’anni nessuno ti dice che vola via come un tipo particolare di vento» / «per mio figlio, che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio»). Ma il mio primo avvicinamento a Enzo Jannacci, il mio avvicinamento originario, è stato con la bella ragazza. Non mi vergogno, né mi imbarazzo, quando confesso pubblicamente che ancora oggi, quando risento la canzone, mi commuovo fino alle lacrime, come il primo giorno, tanti decenni fa, tante stagioni fa. Vi prego di ascoltarla, meglio se nella versione originaria, dall’album Sei minuti all’alba, del 1966, che contiene anche E io ho visto un uomo, altra lirica degna di grande attenzione (ovviamente, entrambe le esecuzioni, sono su YouTube). Cosa portavi bella ragazza dovrebbe essere una di quelle compagnie delle quali non fare a meno. Mai. Ha ragioni da vendere l’amico Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione della rivista con i suoi fulminanti, seducenti e intriganti Sguardi su, quando annota che «solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante» (riflessione/annotazione che ho fatto mia). Enzo Jannacci è stato un poeta che ha parlato con il cuore e al cuore. Gli debbo molto, e oggi il mio debito cresce: con questo incipit a una cadenza di domande, che si indirizzano nel nostro mondo, nel nostro specifico fotografico, ispirandosi alla sua bella ragazza, con relative risposte laconiche e distaccate, tanto quanto è stato ed è nella mia Vita: lo ammetto e ri-

31 marzo 1974: Enzo Jannacci al concerto per il sostegno dell’occupazione della Palazzina Liberty, in largo Marinai d’Italia a Milano (Parco Formantano), da parte del collettivo teatrale-politico di Dario Fo.

conosco, condotta con non comune imperturbabilità (apparente). Ma questo non interessa nessuno, a partire da me. Quello che invece oggi -da quiaffronto, è una consecuzione di domande, che attenderebbero risposta: ma probabilmente, molto probabilmente, «risposta mai non giunse» (ancora, da e con Enzo Jannacci, da Ho soffrito per te, scritta nel 1966 con Aurelio “Cochi” Ponzoni, Renato Pozzetto e Marcello Marchesi, ed eseguita da Cochi e Renato). Molte domande si impongono oggi, in questi tormentati tempi fotografici, che non si sono ancora riassestati dopo la travolgente ondata di trasformazioni radicali, suscitate e indotte dalla totale evoluzione tecnologica, che dalle modalità operative originarie si è proiettata sulla prassi, sia della professione, sia dell’impegno individuale, sia dell’espressività tutta, nel proprio insieme e complesso. Tra tanto altro, annotiamolo subito, la consecuzione di fatti e vicende che semplifichiamo nell’ipotesi di crisi (concreta e tangibile) ha portato alla luce debolezze e incongruenze, che una volta erano solo latenti, e occultate sottotraccia. Certo, i tempi sono problematici, ma il modo con il quale il mercato fotografico (soprattutto il mercato fotografico) affronta l’incertezza è quantomeno grottesco, oltre che inefficace. In questo momento servono idee, capacità e visioni. Sappiamo che qualcuno possiede questo autentico bene, ma sappiamo anche che -in definitivail mondo fotografico preferisce ancora e sempre il piagnisteo all’azione, alla reazione (in richiamo a La cultura del piagnisteo - La saga del politicamente corretto, di Hughes Robe, in edizione Adelphi, dal 1995). Da qui, domande a seguire.O

Bella ragazza In questo momento servono idee, capacità e visioni. Magari, a partire da risposte laconiche e distaccate.

Come mai? Perché? Come mai due oggetti sono arrivati qui? Come mai? Gli oggetti ci sorridono, ci raggiungono al momento giusto, sono destinati a noi. Tutto è già scritto.

Domanda / 2: l’incontro di Maurizio Rebuzzini

COME MAI? PERCHÉ?

L

La serie di domande che ci poniamo oggi, che compongono l’ossatura portante di questo numero di FOTOgraphia, è stata indotta e provocata da una combinazione apparentemente casuale. Ma tutti sappiamo bene come il Caso, che guida e governa le nostre esistenze, sia -a propria volta- diretto e gestito dall’insieme delle nostre azioni. Lo abbiamo già annotato in altre occasioni, e la ripetizione si impone; agli opposti: se visitiamo un mercatino antiquario, per Caso incontriamo libri e oggetti utili alla nostra Esistenza; se frequentiamo una discoteca, con tutti gli annessi e connessi, e senza le opportune prudenze, per altrettanto Caso contraiamo l’Aids. Comunque, nella propria virilità, il Caso dipende anche, ma non certo soprattutto, dalle nostre azioni precedenti e anticipatorie, oltre che dalla nostra capacità di individuarne i cenni, di coglierne i segnali, oltre che dalla nostra predisposizione. Ne siamo convinti. Al sodo, per Caso, lo scorso quattordici luglio (non per Caso, giorno del mio compleanno), da una vetrina interna di New Old Camera, di Milano, fantastico indirizzo dell’usato fotografico, che spesso sconfina nell’antiquariato e/o collezionismo conseguente, mi ha sorriso una confezione di cinque obiettivi Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8. I sorrisi degli oggetti bisogna saperli cogliere, a partire dal princìpio (mia convinzione) che gli oggetti “ci sorridono”, si autoinvitano nella nostra Vita. Allora, domanda originaria: come mai, questa confezione, presumibilmente, plausibilmente e ragionevolmente indirizzata ai servizi di assistenza tecnica Kodak, è rimasta integra per circa sessanta anni, nella propria raffinata scatola di cartone a bordi rinforzati? In dotazione con le configurazioni Kodak Junior 6x9cm

Gli oggetti ci raggiungono sempre al momento opportuno. Sono destinati a noi: tutto è già scritto, e si devono aspettare e assecondare le proprie maturazioni. Però, attenzione e attenzione: bisogna sapere riconoscere e cogliere i loro sorrisi!

(su pellicola a rullo 620) dell’immediato dopoguerra, costruite dalle filiali inglese e francese, il Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8 sostituì l’originario parifocale f/7,7, in dotazione con i modelli primigeni, assemblati a Rochester, dal-

la casa madre. Dunque, la sua datazione è certa. E la domanda si conferma, con una ulteriore aggiunta... inevitabile: come mai questa confezione è rimasta integra per sei decenni?; come mai nessuno, prima di me, l’ha individuata e apprezzata all’interno dell’offerta commerciale di New Old Camera?; come mai, quella sera sono andato in via Dante, a Milano?; come mai, la stessa confezione ha sorriso a me, e non ad altri? Insomma, come mai è finita per attraccare alla mia sponda? Risposta (per me facile, considerate le tante volte che la stessa domanda si è affacciata nella mia Vita, intrecciata con la Fotografia): da e con Walt Whitman, «Che tu sei qui, - che esistono la vita e l’individuo, / Che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un tuo verso». Quindi, in proseguo, non sto a farla ulteriormente lunga con una combinazione temporale, che si è verificata soltanto una mezza dozzina di giorni dopo, quando, spostandomi tra due indirizzi del centro di Milano, mi sono ferma-

to presso una bancarella di libri usati, una delle poche rimaste in città, una delle più affascinanti. Qui, ho individuato una quantità di volumi che decenni fa composero la collana Biblioteca dei ragazzi, della Casa Editrice Bietti. Giocoforza, concentrarsi subito sul titolo Il libro delle scoperte, sul cui indice ho presto individuata la presenza della fotografia, favoleggiata per i ragazzi: I prodigi della luce, con protagonista Giacomino, che si destreggia tra alambicchi, sostanze chimiche magiche e apparecchi che registrano ciò che vedono. Allora: il libro è intatto e ben conservato; addirittura, le sue pagine non sono mai state tagliate (rilegatura antica, con pagine da tagliare individualmente); una annotazione iniziale, in bella calligrafia, data 22 febbraio 1931. Le stesse domande: come mai... anche questo libro è attraccato alla mia sponda, attraversando decenni, traslochi, proprietà? Risposta: perché non accade nulla, se non lo vogliamo. Tutto può accadere se (solo) lo vogliamo. O

DOMA Domanda / 5: cadenza selettiva di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora, ancora)

AL ROVESCIO Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano (25 agosto 1964), peraltro presentata in una autorevole mostra al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, di Roma, fino all’undici novembre (www.idea.mat.beni culturali.it; ne riparleremo), e una avvincente visione di New York, all’alba degli anni Sessanta. Dietro la superficie delle immagini, a tutti evidente, ci stanno riflessioni fuori dal comune!

A parte il fatto che ognuna di queste due serie è meritevole di approfondimenti e considerazioni -e lo stesso dicasi per altre presenti nel capace archivio approntato-, qui e ora, sottolineo come Mario Carnicelli allunghi le proprie valutazioni e analisi al contenuto implicito delle stesse immagini. Per esempio, per la serie dei ritratti dal funerale di Togliatti (il cui succo si allinea a quello dell’RFK Funeral Train, di Paul

MAURIZIO REBUZZINI (3)

L

La vita scorre, inesorabilmente, partendo dalla nascita: asilo, scuole dell’obbligo, proseguo individuale, lavoro… pensione. Personalmente, considero perversa questa sequenza, che impedisce alla Vita di manifestarsi al proprio meglio: la sequenza dovrebbe essere inversa, in modo da consentire alla propria maturazione individuale di esprimersi al meglio... non al peggio. Recentemente, per uno di quei Casi fortuiti, quanto fantastici, che scandiscono l’Esistenza, ho rincontrato un amico che avevo perso di vista, inavvertitamente e colpevolmente. L’amico ritrovato, Mario Carnicelli, per decenni fotonegoziante a Firenze, addirittura in piazza del Duomo (ed è in questa veste che l’ho sempre conosciuto e inteso), mi ha confortato, presentandomi la sua attualità... rovescia. Come lui stesso ha rilevato, con sagace visione e interpretazione esistenziale, dopo quarant’anni di pensione, di letargo imposto (per l’appunto, nella gestione di un luminoso negozio fotografico), ha cominciato a vivere una sua fantastica stagione. Cessata l’attività commerciale (ceduta?, non importa, non mi importa), ha ripreso ad occuparsi delle fotografie che scattò in gioventù, alle quali sta restituendo nuova vita. Evviva, per lui. Ma, con non celato egoismo, evviva soprattutto per noi, che possiamo godere delle sue avvincenti e convincenti interpretazioni. Oggi vive a Pistoia, città di partenza, in una rigogliosa e esuberante villa (diciamola così). Ha trasformato i saloni del piano terra, di ingresso, in galleria fotografica dove, con garbo e competenza, ha allestito una esposizione di suoi lavori; soprattutto due sono i temi (ancora, diciamola così): una fantastica serie di ritratti giornalistici ripresa durante i funerali di

Mario Carnicelli accanto a una riproduzione dal celebre quadro di Renato Guttuso, Funerali di Togliatti, nel quale, tra i personaggi evocati, c’è anche la sua presenza di fotografo. Quindi, visioni della straordinaria e avvincente galleria fotografica allestita nella sua residenza di Pistoia, con archivio annesso. Significa qualcosa?

Fusco, relativo all’estremo saluto a Robert F. Kennedy, commentato in FOTOgraphia, del luglio 2008), l’autore prolunga verso considerazioni relative alla “psicologia della folla”! E, comunque, parlare di Fotografia con lui significa incontrare una mente brillante, intelligente e straordinariamente riflessiva. Da cui, e per cui, domanda si impone, e arricchisce, incrementa e valorizza la nostra attuale sequenza “in attesa di risposta”. Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, nella sua vita rovescia, oggi vitale e palpitante dopo gli anni della “pensione” dietro il banco del suo fotonegozio, ha approntato un archivio aperto e proposto alla consultazione e allo studio... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, sempre nella sua vita rovescia, rivela di sapere bene di cosa sta parlando, e perché lo sta facendo (per esempio, nell’esposizione privata aperta al pubblico, le fotografie americane si accompagnano con una raffinata e competente selezione bibliografica)... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, ancora nella sua vita rovescia, palesa un entusiasmo contagioso... ci si può chiedere se tutto questo -e altro ancora- possa essere considerato andatura confortevole anche alla personalità commerciale. Come la penso, l’ho già detto: oltre che agevole e accogliente, questo approccio è addirittura discriminante e selettivo. Infatti, anteponendo il dovere al diritto (cadenza discriminatoria), si raggiungono mete altrimenti impensabili. Curioso: ci si arricchisce sempre e comunque di qualcosa che non è in vendita, non è acquistabile altrove e in altro modo. Si è se stessi e si trova se stessi. Magari, magari, magari, in una esistenza rovescia. O

Al rovescio Nella sua vita rovescia, Mario Carnicelli esprime una esistenza vitale e palpitante. L’atteggiamento è discriminante e selettivo anche per il commercio della fotografia?

Altri interrogativi La luce crudele, di Susie Linfield, è un libro intelligente, che arrichisce il pensiero fotografico. Dà risposte e porge domande.

Domanda / 6: siamo d’accordo di Maurizio Rebuzzini (ancora... e fine)

ALTRI INTERROGATIVI

C

Completamente estranei a qualsivoglia cultura di branco, di confraternita, di amici di merende, di complicità, di connivenza, di mutuo soccorso, di nepotismo... ovverosia, e detta meglio, completamente estranei a ogni banda/congregazione della fotografia italiana -senza alcuna soluzione di continuità, dal suo commercio alla sua riflessione critica-, da e con queste pagine redazionali e giornalistiche rivendichiamo un ruolo intangibile e dovuto (a noi, prima che ad altri): quello dell’onestà intellettuale. Scelta di vita e straordinaria compagna di esistenza, questa onestà intellettuale è premonitrice di belle esperienze e altrettanto soddisfacenti conoscenze. Infatti, potendoci schierare secondo coscienza, senza altri pre-legami d’obbligo, riusciamo ad evitare le benevolenze in/per “amicizia”. A sguardo libero e cuore aperto e mente disponibile, riceviamo dalla Vita molto di più di quanto le diamo e concediamo. Sappiamo di non essere soli, in questo cammino in libertà; sappiamo che molti altri (ma, purtroppo, pochi ne conosciamo) agiscono in fotografia con altrettanta chiarezza e trasparenza. Tra tanti, spicca limpida e lucente la personalità della statunitense Susie Linfield (già editor del Village Voice e del Washington Post), che prima di oggi abbiamo soltanto sfiorato, registrando le sue partecipazioni a giurie internazionali. Ora, grazie a una ammirevole, gradita e apprezzata traduzione Contrasto, abbiamo potuto arricchirci di un pensiero sulla fotografia che non ha eguali, per vigore, consistenza e autorevolezza. La luce crudele, che sottotitola Fotografia e violenza politica, non viene meno alla propria promessa, occupandosi con decisione e competenza dell’argo-

mento proposto. Qui e ora, per un attimo, scartiamo a lato il soggetto esplicito e principale, per sottolineare il complemento oggetto, trasversale al testo. Immediatamente dopo la Premessa, con la quale l’autrice Susie Linfield precisa le linee conduttrici della sua analisi e introspezione, si incontra subito la prima delle tre parti nelle quali è stato scomposto il totale: un invitante e appetitoso Polemiche.

Quindi, dopo una Premessa già adeguatamente stuzzicante e corroborante, sono distese sul tavolo da gioco tutte le carte della partita. A carte scoperte, l’autorevole autrice sottolinea subito, non soltanto presto, la matrice che inquina la critica fotografica nel proprio insieme e complesso, esercitata da critici che odiano la fotografia. Qui, Susie Linfield si pone la domanda esplicita: perché la odia-

La luce crudele, di Susie Linfield (Contrasto, 2014; 328 pagine 15x21cm; 21,90 euro), è un libro straordinario, di quelli assolutamente/assolutamente indispensabili a coloro i quali si occupano di fotografia con coerenza e partecipazione. Qui e oggi, lo consideriamo in maniera trasversale, utilitaristicamente allineato con le nostre attuali domande per risposta. Però, attenzione, il suo valore è di qualità ben superiore a questo: dunque, se ne dovrà assolutamente riparlare.

no? La risposta è immediata: perché sono carichi di sospetto, diffidenza, rabbia e paura. Ancora (e siamo noi ad affermarlo): perché non sanno riconoscere l’Amore, neppure quando si presenta loro con gli archetipi che lo definiscono; perché non sanno capire la passione; perché nella loro tignosità sono più interessati alla demolizione fine a se stessa che alla frequentazione conoscitiva; perché antepongono la propria autoreferenzialità alla comprensione delle ragioni degli altri. Nel proprio insieme, La luce crudele è un testo che dà tante e tante risposte, sia a domande latenti, presenti nell’animo di ciascuno di noi, sia a domande inedite, accese dall’intuizione e acume di Susie Linfield. Allo stesso tempo, e a complemento (e paradossalmente?), è un libro che sollecita altrettanti interrogativi. Insomma: è un libro intelligente, che arricchisce il pensiero fotografico come pochi altri incontri siano mai riusciti a fare. A questo punto, e in ordine/rispetto dell’attuale cadenza di “domande in attesa di risposta”, si affaccia un quesito finale, che con Susie Linfield chiude il cerchio aperto dalla Bella ragazza, di Enzo Jannacci. Avere dubbi, invece di certezze assolute, osservare e vedere, piuttosto di accontentarsi di guardare soltanto, essere disponibili al dialogo e incontro, esigere da se stessi più di quanto si richiede agli altri, agire con coerenza e competenza, aggiungervi anche un pizzico di amore e passione è malattia grave? Riusciremo mai a guarire da questa infezione, che antepone la conoscenza alla superficialità, l’arricchimento di pensiero (con relativa redditività di impresa, se e quando richiesta e perseguita) all’accumulo incoerente di denari? Finale: in attesa di risposta. O


di Maurizio Rebuzzini (ancora)

a via Dante e via Rovello. Ai non milanesi, che sono di più dei milanesi, va chiarito che si tratta di una locazione in pieno centro città, a una manciata di passi da piazza del Duomo: dove escludo che gli affitti possano essere definiti “popolari”. In una realtà commerciale sempre più avversa, sul cui andamento si è edificato uno sconsolante piagnisteo (ma, comunque, nel mercato fotografico, ho sempre e solo sentito piagnistei: anche in passato, anche in quel passato che tutti oggi rimpiangono ed evocano come incoraggiante), New Old Camera impegna una nutrita quantità di addetti: dalla vendita alla gestione infrastrutturale. Propone e vende sia at-

trezzature d’occasione, con le quali ha esordito, sia attrezzature nuove, di profilo medio-alto (ufficialmente, dal 4 aprile 2013). Se ancora mi ponessi la domanda (antica) del come mai Ryuichi Watanabe agisce con determinazione e compiacimento aziendale, approderei alla stessa risposta già annotata: nella domanda è implicita la risposta. Perché si chiama Ryuichi Watanabe, è giapponese, e ha ben chiaro il proprio dovere istituzionale, sul quale ha edificato la sua personalità commerciale. A differenza di coloro i quali occupano uno spazio mercantile senza alcuna competenza, né predisposizione specifica alla materia del proprio commercio (e so-

PAOLO CIRESOLA

Ryuichi Watanabe è titolare di New Old Camera, di Milano, nella centrale via Dante 12 (cortile interno, accessibile anche da via Rovello 5; www.newoldcamera.it). Differentemente dal piagnisteo generale e generalizzato, in questi locali regna un clima di competenza e amore per la fotografia: attrezzature e immagini. In attesa di risposta: questa è una condizione discriminante anche del commercio?

GIORDANO SUARIA

P

A VISO APERTO

Prima di approdare al soggetto di questa nota, Ryuichi Watanabe, titolare di New Old Camera, di Milano (via Dante 12 / via Rovello 5; www.newoldcamera.it, info@newoldcamera.it), è doveroso prenderla larga, tornando con la memoria a stagioni lontane. Il parallelo è doveroso. Dovendo/volendo riflettere nel senso verso il quale mi sono avviato, sto per avviarmi, ancora oggi potrei domandarmi come mai -quando insegnavo la fotografia in sala di posa all’Istituto Europeo di Design, tanti anni fa, in una stagione nella quale non avevo capito di essere complice di un tranello (presto rimediato, con l’abbandono, l’anno scolastico successivo)- come mai, riprendo, le regole comportamentali dello studio venissero seguite soltanto da uno studente, da un allievo. Domanda esplicita, come mai soltanto Peter Obenaus, nativo di Colonia, in Germania, seguiva le regole? Nella domanda è implicita la risposta: perché si chiama Peter Obenaus, perché è stato educato in Germania, perché è consapevole dei propri doveri, perché è chiara nella sua formazione che ognuno deve prima di tutto svolgere il proprio dovere, ahinoi, qualsiasi questo sia. Da cui: come mai, in un tempo nel quale il piagnisteo attraversa l’intero comparto commerciale della fotografia, senza alcuna soluzione di continuità dalla distribuzione alla vendita al minuto, a Milano, in pieno centro città, è fiorita una esperienza che assolve il proprio dovere/diritto con efficacia e buoni risultati? New Old Camera, creato e condotto da Ryuichi Watanabe, giapponese, originario di Hiroshima, inizialmente approdato in Italia per la musica sinfonica (amata e praticata e studiata), si distende in due entità che si affacciano in un cortile interno comune

no tanti, forse tutti, sicuramente troppi), Ryuichi Watanabe ama la fotografia. Che la ami potrebbe essere questione personale e individuale (tanta dedizione non è necessariamente richiesta), ma che la rispetti è faccenda pubblica, che -tra l’altro- identifica e definisce ogni altro comparto commerciale, dall’abbigliamento alle attrezzature sportive, dalle biciclette all’utensileria dei ferramenta (ma la fotografia, no). Però, in sovramercato, Ryuichi Watanabe ama sinceramente la fotografia, estendendo la sua partecipazione dagli apparecchi fotografici in quanto tali alla fotografia come risultato ed espressività. Conduce la propria attività, arricchendo quotidianamente la sua anima di incontri e conoscenze e avvicinamenti. Nei suoi locali, dove ci si può soffermare anche senza intenzioni specifiche d’acquisto, si respira fotografia, si parla di fotografia, ci si incontra con la fotografia: i suoi locali sono un salotto nel quale la parola detta è sempre opportuna, prima di essere anche intelligente. Sono un salotto nel quale la Fotografia regna sovrana. La conoscenza personale e la cultura individuale ne escono sempre arricchite. E a conseguenza (forse?!), anche il relativo commercio poggia su basi solide, su fondamenta stabili, che non dipendono mai, né soltanto, dall’eventuale prezzo d’acquisto favorevole (che pure è sempre tale, favorevole), ma su un incontro di anime. Siccome, paradossalmente parlando, la Fotografia, come spesso annotiamo, è una delle attività meno necessarie al sostentamento quotidiano, è giocoforza che venga frequentata per amore e con amore. Altrimenti, per cosa altro dovremmo impegnarci? Altra domanda in attesa di risposta. O

Addirittura, oltre La passione di Alessandro Mariconti guida e governa il suo approccio commerciale in fotografia. Può fare qualche differenza?

Domanda / 4: persino passione di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora)

ADDIRITTURA, OLTRE

S

State attenti, state accorti, state prudenti, se e quando vi capitasse di entrare da Photo40, indirizzo milanese di attrezzature fotografiche d’occasione (soprattutto, ma non soltanto): via Foppa 40; www.photo40.it, alessandro@photo40.it. Siate controllati, perché non tutto quello che vedete, che è esposto in raffinate vetrine dense di proposte affascinanti, è in vendita. Purtroppo (?) per tutti noi clienti potenziali, acquirenti probabili, il titolare Alessandro Mariconti è appassionato alla materia almeno tanto quanto possono esserlo coloro i quali ne frequentano l’indirizzo. In conseguenza diretta (?), alcune delle “proposte” a tutti visibili non sono affatto tali, proposte, ma soltanto “esposizione” (con tanto di certificazione, sia chiaro). A propria volta appassionato cultore dell’antiquariato fotografico, esteso dalle configurazioni piccolo formato alle imponenti costruzioni grande formato, sia a banco ottico sia folding, Alessandro Mariconti si circonda di quanto alimenta il suo sentimento. Tanto che la competenza e l’amore che possono stabilire la differenza anche nel commercio, qui vanno addirittura oltre. Comunque, tranquilli, l’offerta commerciale “a disposizione” è adeguatamente ampia e differenziata; con una caratteristica sostanziale, che la definisce e qualifica: profilo medio-alto, con integrazioni di garbo (per esempio, al momento, si registra una consistente quantità di apparecchi Polaroid per filmpack integrali autosviluppanti). Ancora, Photo40 è una autentica miniera per coloro i quali (noi tra questi!) frequentano con coerenza il grande formato fotografico, per il quale sono godibili sia apparecchi fotografici in quantità e qualità, sia obiettivi di tante stagioni, dai disegni ottici recenti a quelli più antichi,

ALESSANDRO MARICONTI (3)

Domanda / 3: amore e...

A viso aperto Ryuichi Watanabe ama la fotografia. È una condizione opportuna (necessaria?) per il commercio della fotografia?

Photo40, in via Foppa 40, a Milano (www.photo40.it, alessandro@photo40.it), è un indirizzo privilegiato per le attrezzature fotografiche d’occasione. Oltre l’insieme di una autorevole offerta medio-alta, si segnala una consistente offerta di apparecchi grande formato, con relativi obiettivi e accessori d’uso. Ma non è soltanto questo: ora e qui, sottolineiamo la passione del titolare Alessandro Mariconti.

perfino in costruzione Barrel, senza otturatore centrale. Comunque, la passione fotografica di Alessandro Mariconti si manifesta nel suo locale anche con apprezzate sfumature, identificabili dagli sguardi più attenti e competenti (aguzzare la vista!). Per esempio, in una vetrina, fanno bella mostra di sé un espositore da banco e una confezione sovramarcati “CB”, a lettere classiche sovrapposte: provengono dall’attività tessile della famiglia/dinastia francese Cartier-Bresson, della quale conosciamo tutti l’Henri fotografo. Per esempio, ancora, non manca una confezione “Brandazzi Romualdo & Figlio, Milano”: non importa tanto cosa contenga, ma basta l’evocazione di una fantastica stagione fotografica italiana, costellata di una miriade di marchi semi artigianali di spicco (per approfondimento, due sono stati i cavalli di battaglia di Brandazzi: l’anello stringiobiettivo universale, per configurazioni da studio, e l’otturatore a lamelle Silens, altrettanto universale). Ancora per esempio, si registra un’altra confezione “Butti”: filtro in vetro proveniente dall’offerta tecnico-commerciale di una delle storiche esperienze di vendita all’ingrosso del paese. Chi lo desidera, può anche trovare libri di pregio: una citazione, sopra tutte, per la prima edizione originaria, del 1947, della biografia di Bob Capa, Slightly Out of Focus. E poi, ancora e fine (per ora), c’è di che scatenarsi con i disegni ottici del passato remoto, per i quali suonano riferimenti quali Dallmeyer, Cooke, Voigtländer, Goerz, Meyer, Roussel, Wray, Kodak. Oltre, ovviamente, Schneider e Rodenstock. Domanda d’obbligo: anche la passione, dopo la competenza e l’amore, sono discriminanti che possono selezionare e guidare il commercio fotografico? O

ANDE IN ATTESA DI RISPOSTA A partire dal Caso di due oggetti che ci hanno raggiunti, facendoci riflettere sul loro perché (e per come), altrettanti perché vengono riferiti soprattutto al mercato della fotografia. La consecuzione è curiosa, prima che inattesa; ma, del resto, rivendichiamo un ruolo al quale siamo fedeli. Qualsiasi cosa questo significhi. Le precedenti sei pagine (da pagina otto) sono state declinate con e per domande emblematiche del mondo fotografico italiano. Detta meglio: perché -contrariam-ente al clima generalizzatosi esprimono personalità che manifestano competenza, amore e passione, proiettandosi in rispettive e conseguenti reddittività di impresa? Significa forse che questi atteggiamenti non sono solo intimi, ma diventano pubblici?


Notizie a cura di Antonio Bordoni

QUATTRO VOLTE. Esordire alla focale 150mm, già per se stessa consistente, in termini di visione/inquadratura tele, e approdare alla consistenza del 600mm è stato uno dei sogni generazionali, che hanno accompagnato chi (ahimè, noi tra questi) hanno frequentato la fotografia in decenni trascorsi. Oggi, a distanza di tempo, in momenti di esuberante tecnologia ottica -allora impensabile, allora improbabile-, sono state abbattute e superate tante barriere del passato. Eccolo qui, il convincente Sigma 150-600mm f/5-6,3 DG OS HSM, iper telezoom di fascia alta, che consente di raggiungere risultati fotografici entusiasmanti.

Nella sua costruzione ottica, lo zoom tuttotele promette risultati sorprendenti, frutto del concetto costruttivo che contraddistingue la linea Sports, che nel codice Sigma sottintende applicazioni versatili, quanto congeniali alla ripresa fotografica più dinamica e polivalente. Interpretazione ottica top di gamma, il Sigma 150-600mm f/5-6,3 DG OS HSM consente personalizzazioni per regolazioni particolari, in vista e adempimento di condizioni specifiche. Ancora, e non certo in solo sovramercato, accetta i nuovi moltiplicatori di focale del proprio efficace sistema fotografico: Teleconverter 1,4x e 2x (210840mm e 300-1200mm). Nuova configurazione SGV (Sigma Global Vision), nella propria proposizione tecnico-operativa, lo zoom tuttotele rappresenta un nuovo traguardo di qualità formale, assicurata altresì da una raffinata correzione di ogni aberrazione propria e caratteristica della costruzione “teleobiettivo”. In una livrea meccanica a prova di polvere e acqua, dispone del blocco dell’escursione zoom a ogni distanza di messa a fuoco, offre

22

un rinnovato dispositivo OS, dotato di accelerometro, ed è completo di cursore per passare con facilità dall’accomodamento manuale a quello automatico. Nel dettaglio, oltre l’apparenza a tutti visibile, l’impiego di vetri ottici di eccellenza riduce al minimo l’aberrazione cromatica e raggiunge il primo posto per qualità di immagine. Due lenti in vetro ottico FLD (“F” Low Dispersion) forniscono prestazioni pari agli elementi alla fluorite; quindi, tre lenti in vetro ottico SLD (Special Low Dispersion, a bassissimo indice di dispersione) compensano le aberrazioni complessive, con particolare attenzione per quella cromatica, che potrebbe compromettere le riprese fotografiche alla massima lunghezza focale e alla apertura relativa (altrettanto massima). Una nuova staffa per treppiedi ne consente la collocazione ottimale in tutte le posizioni: staffa larga e stabile, ruotabile per inquadrature orizzontali e verticali. Collegato alla cinghia a spalla, il Sigma 150600mm f/5-6,3 DG OS HSM può essere trasportato facilmente, senza che il suo peso e il suo ingombro gravino sull’innesto della reflex: in montatura fissa per Canon, Nikon e Sigma. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).

TTL NIKON E CANON. Come già annotato, l’efficace flash monotorcia Profoto B1, accreditato come migliore illuminazione professionale ai TIPA Awards 2014 [ FOTOgraphia, giugno 2014], assolve indifferentemente mansioni in sala di posa, come anche in lo-

cation esterne, dove e quando non si può avere a disposizione l’alimentazione elettrica a rete. In definitiva, la sua alimentazione a batteria e senza cavi, prontamente sottolineata dalla motivazione del prestigioso premio, configura la massima libertà di impiego e la più confortevole facilità di utilizzo. Ora, incrementando la propria gamma di Air Remote TTL, che si collegano sul contatto caldo della macchina fotografica e diventano centro di comando per il flash, il Profoto B1 si afferma come efficace sistema di illuminazione lampo che funziona con le reflex Nikon e Canon. Infatti, si è reso disponibile l’Air Remote TTL-N, per reflex Nikon, sempre da collocare alla slitta portaccessori (l’Air Remote TTL-C, per Canon è disponibile da un anno). Al solito, si scatta in modalità TTL, senza cavi, utilizzando pienamente potenza, velocità e tutte le opzioni di Light Shaping. In breve, si sperimenta un nuovo modo di fotografare! Per celebrare l’uscita del TTL Nikon, una dotazione Profoto B1 con Air Remote TTL-N e diversi Light Shaping Tools è stata fornita fotografo statunitense di matrimoni Brian Marcus, che ha fotografato per le strade di New York City: i risultati, in video, all’indirizzo web http://profoto.com/it/b1?utm_ source=apsis-anp-3&utm_medium =email&utm_content=unspecified &utm_campaign=unspecified. (Grange, via Cimabue 9, 20032 Cormano MI; www.grangesrl.it).

CHE SENSORE! Leader mondiale per la produzione di semiconduttori, Samsung ha realiz-

zato il primo sensore di immagini APS-C Cmos da ventotto Megapixel per reflex digitali, sia in configurazione tradizionale (si fa per dire), sia in configurazione CSC (Compact System Camera, già Mirrorless). Grazie a pixel retroilluminati (BSI) e al processore da sessantacinque nanometri in rame, si segnalano e registrano una elevata qualità di immagine e una efficienza energetica senza precedenti. Prodotto in serie, il convincente sensore S5KVB2 è presente all’interno del sistema della nuova Samsung NX1, la efficace e versatile interpretazione fotografica professionale presentata in occasione della Photokina 2014, lo scorso settembre, sul cui svolgimento rifletteremo e approfondiremo il prossimo novembre. Utilizzando l’avanzata tecnologia dei pixel BSI (Back Side Illumination), il sensore S5KVB2 è in grado di assorbire un’elevata quantità di luce e di garantire, quindi, immagini di alta qualità formale. Sfruttando il processore da sessantacinque nanometri (nm) in rame, a bassa potenza, è possibile ottimizzare il consumo energetico senza compromettere la resa delle immagini. Ufficiale: «Per soddisfare la crescente domanda del mercato della fotografia digitale, Samsung ha progettato questo nuovo sensore per offrire un’eccellente risoluzione, una qualità di immagini superiore e una velocità di scatto più rapida, consumando pochissima energia», ha dichiarato Kyushik Hong, vice presidente System LSI marketing, di Samsung Electronics. «È nostra intenzione garantire soluzioni sempre più performanti, e aprire nuovi scenari nel settore della fotografia: il sensore APS-C Cmos BSI va esattamente in questa direzione». (Samsung Electronics Italia, via Donat Cattin 5, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www. samsung.com/it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

ORE PERFINO SCONTATE

N

No, non è proprio un gran film, tutt’altro. La sua trama è scontata, almeno tanto quanto le sue ore sono contate (titolo italiano). Se proprio è il caso, ci sono da sottolineare interpretazioni ben svolte, sia dai protagonisti Jodie Foster e Dennis Hopper, sia dei personaggi complementari, nel cui cast “mafioso” si segnalano numerosi americani di origine italiana (John Turturro, Tony Sirico, John Apicella). Ore contate, titolo italiano dall’originario Catchfire (nel senso di prendere fuoco, incendiare), diretto da Dennis Hopper (anche protagonista, come appena annotato), nel 1990, si guadagna comunque la nostra attenzione per un paio di allineamenti fotografici che si aggiungono a tutti quelli, e sono tanti, già ospitati in questo spazio redazionale. Però, prima di arrivare a questo, ci soffermiamo su altre sottolineature complementari, al solito di stampo cinematografico (statunitense). In questo senso, vanno sottolineati tre camei, che impreziosiscono l’impianto del film: con ruoli minori, diciamo di complemento, diciamo in presenza d’“amicizia”, Charlie Sheen e Vincent Price fanno capolino tra le pieghe della vicenda. Niente di particolare, niente a livello dei rispettivi curriculum, ma due passaggi volanti, di traverso (e non serve ricordare qui la consistenza dei due attori). Quindi, rileviamo anche il passaggio rapido di Bob Dylan, il celebre cantante e autore, uno dei più significativi del secondo Novecento, in veste di artista (comunque, nello specifico della sce-

24

Nel film Ore contate, di e con Dennis Hopper, del 1990, si intravede la St. Francis Church, di Taos, nel New Mexico, che appartiene alla Storia della Fotografia attraverso due interpretazioni, di Ansel Adams e Paul Strand (a destra, in basso).

Nel film Ore contate, l’evocazione della St. Francis Church, di Taos, New Mexico, si richiama al quadro Ranchos Church, New Mexico, di Georgia O’Keeffe, riprodotto su una monografia consultata dalla protagonista Anne Benton (Jodie Foster). (in basso) Ansel Adams: St. Francis Church, Ranchos de Taos, New Mexico; 1929 circa. Paul Strand: Church, Ranchos de Taos, New Mexico; 1931. Cinematograficamente, la stessa St. Francis Church è evocata anche nel film I gemelli, di Ivan Reitman, del 1988.


Cinema FOTOGRAFIA IN DOPPIO (ANNOTAZIONI A COMPLEMENTO)

Spesso, la fotografia è tornata su se stessa, nel senso dei propri soggetti storici. Il caso più articolato è quello della appassionante rivisitazione dichiarata con la quale, a fine Novecento, Douglas Levere ha riproposto i luoghi che negli anni Trenta composero il progetto Changing New York, di Berenice Abbott, documentativo dei cambiamenti della megalopoli tra le due guerre mondiali. A settant’anni di distanza dall’originaria rilevazione fotografica, Douglas Levere ha ripetuto inquadrature e visioni con un rigore formale che ha dato spessore e valore a un programma fotografico dai tanti meriti, a propria volta riunito in una monografia, il cui titolo ha volontariamente invertito i termini: New York Changing, che abbiamo presentato e commentato nel luglio 2005. A seguire, con il suo svolgimento, così rigoroso e rispettoso del riferimento alle visioni originarie di Berenice Abbott, New York Changing, di Douglas Levere, richiama alla memoria altri tanti esempi di comparazioni fotografiche. Medesimi soggetti visti da fotografi diversi, in tempo congiunto o in separazione di anni, composizioni fotografiche analoghe (casuali o volontarie) e richiami espliciti arricchiscono la storia della fotografia. I casi sono così tanti, e spesso eclatanti, da poter essere anche raccolti in uno studio a tema. Ci limitiamo a segnalarne qualcuno, tra quanti ne ricordiamo a memoria (ai quali aggiungere Ansel Adams e Paul Strand richiamati nel corpo centrale di questo stesso articolo).

Berenice Abbott: Changing New York (l’edizione originaria è del 1939). Douglas Levere: New York Changing - Revisiting Berenice Abbott’s New York (Princeton Architectural Press, 2004).

Imogen Cunningham: Mills College Amphitheater; anni Venti. Tina Modotti: Stadium, Mexico City; 1926.

Timothy H. O’Sullivan: Canyon de Chelly; 1873. Ansel Adams: White House Ruin, Canyon de Chelly; 1942.

Eugène Atget: Maison d’André Chénier en 1793, 97 rue de Cléry, Paris; 1907.

André Kertész: Paris; 1928.

25


Cinema neggiatura, il protagonista Dennis Hopper, nei panni del killer Milo, lo apostrofa come «Artista di merda»).

DENNIS HOPPER... Ancora prima dello specifico odierno, è necessario e doveroso ricordare che lo stesso Dennis Hopper, regista e protagonista dell’attuale Ore contate, è stato anche fotografo di valore. Ne abbiamo riferito in FOTO graphia, del dicembre 2009, con lancio dalla copertina (e rimando in quarta di copertina), e ora ribadiamo. Personalità dai talenti multipli, oltre che celebrato attore e regista di Hollywood, Dennis Hopper è stato prima fotografo che cineasta. Dal 1961 al 1967, ha documentato il turbolento esordio di una nuova era, con immagini spettacolari del movimento americano per i diritti civili e con tanti sorprendenti ritratti delle giovani popstar della sua generazione, la definita Beat Generation. Così che, come rilevato anche nel compendioso (e indispensabile?) Alla Photokina e ritorno, pubblicato dalla nostra casa editrice, alla Visual Gallery 2008, di contorno culturale alla fiera merceologica, le sue immagini hanno fatto rivivere gli anni Sessanta, registrati sia sotto il sole platinato di Hollywood, sia tra le pieghe del Greenwich Village, a New York, sia sulle assolate strade percorse da motociclisti e alternativi di ogni specie (quasi in anticipo ideologico del suo cult Easy Rider, del 1969, del quale fu regista e attore, accanto a Peter Fonda). Certamente è ormai improbabile rintracciare e recuperare copie della sua fantastica monografia Dennis Hopper. Fotografien von 1961 bis 1967, che Hatje Cantz Verlag pubblicò nel 1988, in accompagnamento a una personale itinerata per l’Europa (che nella nostra libreria occupa un posto particolare e speciale: oltre il suo valore esplicito, conteggiamo anche quello aggiunto del ricordo emozionante di Giovanni Cozzi, fotografo mancato prematuramente la scorsa primavera, che ce lo ha regalato). Altrettanto certamente, la preziosa raccolta Dennis Hopper: Photographs 1961-1967, allestita da Taschen Verlag, nel 2009, è alla portata di ciascuno. Come specifica l’intervallo temporale certificato, nel proprio insieme, la monografia ripropone termini

26

Locandine del film Ore contate, di Dennis Hopper (anche protagonista), del 1990. La locandina italiana riprende e ripropone l’originale statunitense ( Catchfire), con richiamo forte ed esplicito alla protagonista femminile Jodie Foster.

e tempi durante i quali l’autore, futuro cineasta, ha applicato i canoni di una fotografia attenta e partecipe. Dove sta, soprattutto, il valore di queste fotografie? Sicuramente, molto dipende dal loro autore. Forse, tutto è legato a questo. Infatti, Dennis Hopper è stato una personalità assolutamente particolare del panorama cinematografico statunitense, elevata da molti a icona recalcitrante e contraria all’establishment hollywoodiano: sia nelle proprie scelte professionali sia per stile di vita. Dunque, a diretta conseguenza, l’identificazione e lettura di queste fotografie non può prescindere dall’autore e dalla sua partecipazione alla trasformazione culturale di una generazione, della quale è stato -a un tempo- protagonista e osservatore. Una testimonianza, nella propria sostanza allineata a quella appena richiamata: «Ho agito in un modo che pensavo potesse avere un qualche impatto, un giorno. In un certo senso, è anche vero che queste fotografie hanno mantenuto viva e palpitante la mia stessa creatività». Come dire, causa ed effetto in rapporto consequenziale e reciproco.

CITAZIONE COLTA Sorvolando su una sottile presenza polaroid nella scenografia di Ore contate (polaroid intime della protagonista Jodie Foster, nei panni dell’artista concettuale Anne Benton) -che non visualizziamo, ma citiamo soltanto per mettere a tacere coloro i quali potrebbero imputarci una svista-, la nostra usuale e statutaria attenzione fotografica si indirizza su una citazione colta. Niente di travolgente, e neppure nulla di discriminante nella vicenda complessiva del film. Ma! Ma, al nostro solito, anche le pieghe e le plissettature hanno un proprio senso, soprattutto se e quando raggiungono, oppure soltanto sfiorano (come è in questo caso), momenti significativi della Storia della Fotografia, così come noi la conteggiamo,

consideriamo e (anche!) amiamo. Allora: testimone involontaria di un delitto di mafia, l’artista Anne Benton (ribadiamo, interpretata da Jodie Foster) scappa da New York City, per rifugiarsi nella grande provincia statunitense. Sulle sue tracce viene lanciato lo spietato killer Milo (Dennis Hopper, appunto), calmo e pacato nella sua apparenza, ma abile ed efficiente nelle sue ricerche e nella sua perseveranza. Facciamola breve, e saltiamo ogni dettaglio, per arrivare alla nostra meta. Anne Benton si rifugia nel New Mexico, per l’esattezza nella cittadina di Taos, che conteggia seimila abitanti scarsi. Ovviamente, non può che assecondare la propria conoscenza, competenza e predisposizione. Dunque, in una scena di Ore contate, la incontriamo mentre osserva una chiesa in pietra. Non una sconosciuta (alla Fotografia!), ma la St. Francis Church, al 60 di St. Francis Plaza, che dovrebbe essere nota a coloro i quali hanno competenza della Storia della Fotografia: in tempi successivi, è stata fotografata da Ansel Adams, nel 1929 circa, e da Paul Strand, nel 1931. Ufficialmente, le due fotografie si intitolano St. Francis Church, Ranchos de Taos, New Mexico e Church, Ranchos de Taos, New Mexico. Scenograficamente, la visualizzazione nel film Ore contate è affascinante: l’inquadratura si sofferma su un libro aperto su una doppia pagina sulla quale è presentata una pittura della chiesa; il campo visivo si allarga, fino alla combinazione di quadro in primo piano e soggetto reale sul fondo. Anne Benton sta comparando la vista reale con l’opera pittorica di Georgia O’Keeffe (straordinaria artista americana, moglie del fotografo Alfred Stieglitz), per l’esattezza Ranchos Church, New Mexico, olio su tela, del 1930-31, attualmente conservato ed esposto all’Amon Carter Museum, di Fort Worth, in Texas. Ancora, e poi basta, la chiesa è richiamata anche nel film I gemelli (Twins), di Ivan Reitman, del 1988, con Danny DeVito e Arnold Schwarzenegger (gemelli improbabili), in una altrettanto contorta vicenda di viaggio attraverso gli Stati Uniti, che approda nella stessa pittoresca Taos, in New Mexico. ❖



Centosettantacinque anni di Antonio Bordoni

CELEBRAZIONE SVIZZERA

I

In moderato e giustificato scarto di date, il Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, sul lago di Losanna, ha celebrato i centosettantacinque anni della fotografia, il fine settimana sabato trenta e domenica trentuno agosto: l’anniversario esatto si è conteggiato il precedente diciannove, della presentazione pubblica del processo dagherrotipico, a Parigi. Allo stesso tempo, il museo svizzero della macchina fotografica ha ricordato anche trentacinque anni dalla propria costituzione, i più recenti venticinque nella affascinante sede (attuale), in Grande Place 99 [la nostra più recente segnalazione, colpevolmente lontana nel tempo, in FOTOgraphia, del settembre 2008, in occasione del sessantenario Sinar]. Come è stato sottolineato nei due giorni di celebrazioni -durante i quali sono state organizzate e svolte sessioni fotografiche con processi chimici originari, potendosi avvalere di una replica della dotazione con la quale Joseph Nicéphore Niépce realizzò la primigenia Veduta dalla finestra di Gras, nel 1926 o 1927-, la fotografia come noi l’abbiamo sempre intesa, e ancora oggi la intendiamo, seppure su basi tecnologiche svincolate dalla pellicola fotosensibile, non dipende dal dagherrotipo, la cui lavorazione autopositiva si è esaurita in sé, ma dal disegno fotogenico di William Henry Fox Talbot (brevettato come calotipo). Ancora, nella stessa occasione, è stato sottolineato come Niépce, Daguerre e Fox Talbot non siano stati unici nel loro sogno, per quanto siano i padri ufficiali e riconosciuti della fotografia. Così, è stata ricordata la figura di Hippolyte Bayard, sfortunato pioniere, ai tempi privato dei riconoscimenti che i suoi processi avrebbero meritato: due, uno positivo (come Daguerre) e l’altro negativo (come Fox Talbot), entrambi su carta (come Fox Talbot e tanti altri sperimentatori che agirono a cavallo dell’Ottocento). Con ovvio orgoglio nazionale, si è, quindi, evocato Andreas-Friedrich Gerber (1797-1972), precursore svizzero. Professore di Chirurgia Veteri-

28

In litografia d’epoca, in cronaca dei fatti. 7 gennaio 1839: François Jean Dominique Arago (matematico, fisico, astronomo e uomo politico francese) annuncia la scoperta di Louis Jacques Mandé Daguerre. Dopo questo annuncio, all’Accademia delle Scienze, di Parigi, il successivo diciannove agosto ci fu la presentazione pubblica del procedimento “fotografico”, alle Accademie francesi di Scienze e Arte in riunione congiunta.

naria presso l’Università di Berna, Andreas-Friedrich Gerber svolse consistenti ricerche ed esperimenti finalizzati nella stessa direzione della natura che si fa di sé medesima pittrice. Secondo fonti accreditate, che si basano su documenti certificati, tra i quali la prefazione al suo manuale di anatomia generale Handbuch der allgemeinen Anatomie des Menschen und der Haussäugetiere, pubblicato nel 1840, già nel 1836, avrebbe ottenuto risultati soddisfacenti al microscopio solare, usando carta sensibilizzata con cloruro di argento. Ovviamente, questa ulteriore primogenitura (presunta e pretesa) fu resa pubblica all’indomani dell’annuncio, del 7 gennaio 1839, con una dichiarazione pubblicata dalla Schweizerische Beobachter, del diciannove gennaio.

Quindi, non si è scordato il pittore francese Hércules Florence (Antoine Hércules Romuald Florence; 1804-1879), emigrato in Brasile, al quale si attribuiscono risultati ottimali, dal 1832, in anticipo temporale sulle date ufficiali del 1839 [in approfondimento in Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, di imminente pubblicazione]: anche per lui, processo negativo-positivo con carta sensibilizzata con nitrato d’argento. Anche per lui, ancora, una rivendicazione tardiva, nell’ottobre 1840, su un giornale di São Paulo. Comunque, estraneo a qualsivoglia equilibrio socio-politico, Hércules Florence è rimasto ignorato per un secolo e mezzo, fino al 1976, quando il fotografo brasiliano e storico Boris Kossoy (nato nel 1941) ritrovò i suoi


Centosettantacinque anni

Autoritratto dagherrotipico dello svizzero Andreas-Friedrich Gerber, conteggiato dal Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, tra i pionieri (non riconosciuti, non accreditati) della fotografia. Apparecchio per dagherrotipia, dall’esposizione permanente del Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey.

diari e le sue note tecniche, compresa una definizione di “fotografia” (?), datata 1834. Tra i pionieri della fotografia, il Musée suisse de l’appareil photographique ha considerato anche i tedeschi Franz von Kobell e Carl August von Steinheil (noto ottico), che nella vivace primavera 1839 presentarono i risultati di un proprio processo ai sali d’argento; mentre in Scozia, Mungo Ponton rivelava i propri esperimenti con sali di cromo. Quindi, sarebbe contestabile l’accredito di fugaci immagini “fotografiche” ottenute, addirittura nel 1822, dal pittore Samuel Morse (Samuel Finley Breese Morse; 1791-1872), per il quale si richiama sempre l’invenzione del telegrafo elettrico (insieme a Alfred Vail; 1837), con coincidente Codice Morse di trasmissione. Invece, è storicamente certo e accertato che Samuel Morse avvicinò il dagherrotipo, a Parigi, nei tumultuosi giorni del 1839, e introdusse per primo la dagherrotipia negli Stati Uniti. Sullo stesso fronte geografico, il Musée suisse de l’appareil photographique ha dato credito a John William Draper (nato in Inghilterra; 1811-1882), astronomo presso la New York University, che registrò spettri del Sole su carta sensibilizzata al cloruro d’argento negli anni Trenta dell’Ottocento. Ancora, fu il primo a realizzare un’astrofotografia e fece importanti ricerche nell’ambito della fotochimica; pubblicò diversi libri riguardanti la chimica, la filosofia naturale e la fisiologia, e gli si deve la legge di Grotthuss-Draper, secondo la quale solo le radiazioni luminose assorbite possono provocare cambiamenti nella struttura chimica. Schermaglie a parte (nostre, solo nostre, sia chiaro), i due giorni delle celebrazioni del centosettantacinquesimo anniversario della fotografia hanno ampiamente sottolineato come e quanto, fin dalla sua invenzione e dal suo avvento, la stessa fotografia ha cambiato completamente il modo di vedere e comunicare, e ha consentito l’affermazione di una società nella quale la comunicazione visiva gioca ruoli sempre più fondanti. In definitiva, si torna sempre al sogno originario della natura che si fa di sé medesima pittrice. (Da qui, annotazioni nostre, indipendenti dai due giorni del Musée suisse de l’appareil pho-

29


Centosettantacinque anni

tographique, per quanto a questi collegate e da questi allungate). Infatti, l’Uomo ha sempre avuto bisogno di essere circondato da immagini, riflessi della sua realtà e dei frutti della sua immaginazione. La combinazione di nozioni note da secoli, ma culturalmente mature all’indomani dell’Illuminismo -ovverosia l’unione tra le proprietà fotosensibili dei sali d’argento (chimica) e il princìpio della camera obscura, nel senso della proiezione di immagini virtuali (fisica)- è stata essenziale per la nascita della fotografia. Fu la maturazione di antichi sogni e altrettanto datate “visioni”, ben sottolineate dal pensiero del filosofo inglese Francis Bacon, che nel 1610 prefigurò, simboleggiandola, la buona reputazione dell’immagine che non sa mentire, ipotizzandola in anticipo sulla sua invenzione: «La contemplazione delle cose come sono, senza sostituzione

30

Dagherrotipo della cattedrale di Notre Dame, a Parigi (dalla Collezione del Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey). Doppio dagherrotipo in custodia unica; 1845 circa (dalla Collezione del Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey). Dal catalogo Charles Chevalier, di metà Ottocento, la presentazione di apparati per dagherrotipia.

o impostura, senza errore o confusione, è in sé la cosa più nobile di un’intera messe di invenzioni». La macchina-che-contempla-eregistra-le-cose-come-sono non era stata ancora inventata, ma l’espressione di sir Francis Bacon fa capire che ci si aspettava l’avvento proprio di un affidabile strumento scientifico. Quando poi la fotografia arrivò, la considerazione del filosofo inglese ne divenne lo slogan promozionale, certificato di autenticità, garanzia di impegno, atto di fede, presunzione ontologica, primo comandamento, e altro ancora. Dorothea Lange, la valida e celebre fotografa degli anni Trenta, che fece parte della Farm Security Administration (FSA), di documentazione fotografica della Depressione americana, all’indomani del crollo della Borsa, la affisse sulla porta della pro-

pria camera oscura, quasi fosse un credo nella pura verità oggettiva, non contaminata da ignobili invenzioni e perverse immaginazioni. Francis Bacon era divenuto il patrono della fotografia documentaria [in richiamo, nell’inverno 2005, il World Press Photo ha intitolato Things As They Are, appunto le cose così come sono, la monografia su cinquant’anni di fotogiornalismo, riprendendo proprio l’osservazione di Francis Bacon; FOTOgraphia, aprile 2006]. Chiusa d’obbligo: e l’Italia? E le istituzioni, anche museali, italiane? Un centosettantacinquesimo anniversario che sta ribadendo, confermandola, l’assenza italiana dalle precedenti celebrazioni del centocinquanta anni, che in molte manifestazioni furono persino solenni, che comunque furono sostanziosamente planetarie (e l’Italia sta a guardare). ❖



Ogni volta che FOTOgraphia pubblica fotografie di natura (e/o fiori e dintorni), riceviamo note divertite e canzonatorie, perfino: si prospetta una sorta di “conversione”. Infatti, e questa va detta, chi mi conosce sa che il peggiore oltraggio che mi si possa fare è quello di invitarmi a un’escursione in Natura. Per mia risolutezza (determinazione? volontà? proposito? tenacia?), la mia concezione esistenziale non sconfina dai limiti delle città, addirittura dal quadrilatero di strade entro le quali vivo (e lavoro?). In Natura, sono a disagio: penso ai prati come nascondigli di creature orrifiche e ricoveri di sconvenienti cacche; quando mi si invita ad apprezzare un tramonto, non so da che parte rivolgermi; sono in imbarazzo, quando mi indicano una pianta, certificandola per nome (non ne distinguo una specie da un’altra!). Però! Però, so apprezzare la Fotografia e riconoscere la sua missione di «spiegare l’Uomo all’Uomo» (da e con Edward Steichen, nel 1969, in occasione del suo novantesimo compleanno). Quindi, so individuare il bello (qualsiasi cosa ciò possa significare e identificare). Ignorata dalla Storia della Fotografia, indirizzata verso altre visioni, soprattutto giornalistiche (e va bene, ma!), la fotografia naturalistica è più che straordinaria: per quanto mi riguarda, indipendentemente dal mio rapporto personale con il soggetto. Grazie all’impegno e capacità di autori eccezionali, la fotografia naturalistica rivela quanto nessuno -non solo io!è in grado di osservare dal vivo. Ancora: fedele al proprio mandato “menzognero” (ed è un valore positivo, sia chiaro), questa fotografia interpreta il vero come nessun occhio fisiologico può mai percepire. Ancora, e poi basta, i fotografi naturalistici sono singolari anche nello svolgimento dei propri progetti, perseguiti con amore e dedizione che non hanno eguali in alcuna altra manifestazione espressiva, creativa o -semplicemente?- documentativa. Insomma, quando fotografano un orso che si congela nel ghiaccio, loro stessi sono nelle stesse condizioni, mettendo spesso a repentaglio la propria stessa vita; quando registrano una carica di mammiferi, sono sul posto; quando visualizzano la vita sottomarina, si sono calati in mare, spesso sotto il ghiaccio, condividendo le condizioni degli animali verso i quali dirigono il proprio obiettivo. Onore e merito a loro. Indipendente dalle rispettive redditività professionali, che sono altro, che qui contano come il due di picche (con briscola fiori), sia chiaro che, indipendentemente dal soggetto, con la fotografia tutta, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. M.R. Sappiamo riconoscere l’amore... quando lo incontriamo.

Ellen Anon (Usa): The Pull of the Sea (La forza del mare). Encomio nella categoria Wildscapes (Paesaggi selvaggi). «Quella mattina, sulla spiaggia, il vento ululava, ma anche il fragore della risacca era fortissimo», racconta Ellen Anon. Per catturare l’energia che la scena sprigionava, ha optato per un tempo di otturazione lungo, in modo da registrare l’effetto delle onde che si ritiravano sulla sabbia nera e che lasciavano una schiuma

È NATURA! ... bellezza, e tu non puoi farci niente (in adattamento, da e con Humphrey Bogart, senza ulteriori specifiche). È Natura, bellezza, e noi potremmo fare molto! Una volta ancora, la Fotografia rivela il senso saliente della propria missione: «Rivelare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso» (Edward Steichen). In mostra, le immagini più meritevoli del prestigioso, autorevole e competente BBC Wildlife Photographer of the Year 2013

32


bianca intorno a minuscoli iceberg [la copertina di questo numero di FOTOgraphia presenta questa stessa immagine, delimitata in composizione verticale, di dettaglio]. Il luogo dove è stata scattata la fotografia è meta di pellegrinaggio per i fotografi che amano la natura. Il fronte del ghiacciaio Breiamerkurjökull, laterale del più famoso Vatnajökull, il più grande d’Europa, si spezza in blocchi per la spinta verso l’alto che subisce, scivolando molto lentamente,

di Lello Piazza

C

ento immagini selezionate dalla giuria al concorso BBC Wildlife Photographer of the Year, edizione 2013 (quarantatremila partecipanti, da novantasei paesi), sono esposte in mostra a Milano: la passerella è diventata un prezioso appuntamento annuale [FOTOgraphia, dicembre 2013]. L’esposizione, che permette al pubblico di scoprire il meglio della fotografia naturalistica a livello mondiale, si intitola Wildlife Photographer of the Year, ed è allestita a Milano, al Museo Minguzzi, nella centrale via Palermo, fino al sedici ottobre (02-36565440; www.wpymilano.it). In accompagnamento, un affascinante volume-catalogo, edito da The Natural History Museum, con introduzione del grande fotografo naturalista Jim Brandenburg: Wildlife Photographer of the Year - Portfolio 23.

in un laghetto retrodunale. Il laghetto è collegato al mare aperto da un canale. Di lì passano questi blocchi, che poi vengono ributtati dalle onde sulla spiaggia di sabbia nera, di origine vulcanica. La fotografia sottolinea questo contrasto. Jökulsárlón, Islanda. Canon Eos 5D Mark III, Canon 24-70mm f/2,8L II USM, filtro grigio neutro Singh-Ray ND (cinque stop, per ottenere una esposizione prolungata a un secondo, a f/22); 125 Iso equivalenti.

Prima di accendere i riflettori sulle immagini, con relativi commenti, un paio di osservazioni. La prima, di sapore culturale. Come già in precedenza, pubblichiamo le fotografie che consideriamo più significative tra le cento esposte. Perciò, tra le undici presentate in queste pagine, solo cinque sono vincitrici di categoria. Non smettiamo mai di ricordarlo: in un concorso, in un qualsivoglia concorso fotografico (comunque indirizzato e rivolto), le immagini vincitrici sono le più meritevoli per la giuria che ha presieduto il concorso stesso. Non esiste il bello assoluto. [In ripetizione d’obbligo, da FOTOgraphia, dello scorso giugno, a proposito delle sorprendenti, sconcertanti e inattese sentenze della giuria del Sony World Photography Award 2014, in una scala di valori condivisa da pochi (nessuno?): «È sempre e comunque un problema di composizione di giuria e relativi intendimenti. [...] Inesorabilmente, all’interno di qualsivoglia

33


Greg du Toit (Sudafrica): Essence of Elephants (L’essenza degli elefanti). Wildlife Photographer of the Year 2013 e vincitore nella categoria Animal Portraits (Ritratti di animali). «Il mio scopo è stato quello di sottolineare l’energia speciale degli elefanti», rivela Greg du Toit. Nascosto in una buca nei pressi di una pozza d’acqua, luogo ideale per fotografare molte specie di animali che vengono ad abbeverarsi, ha scattato quando un piccolo di elefante è passato di corsa davanti a lui.

insieme fotografico, per forza di cose di profilo sempre alto, la differenza la crea e stabilisce la giuria. Nell’esprimere giudizi, nel separare dal totale, per approdare all’affermazione e attestazione, ciascun giurato manifesta inevitabili individualismi culturali. In origine, ci sta la geografia di vita, che impone a ciascuno di noi modelli, valori e richiami; quindi, si affacciano le visioni maturate nel corso della propria vita, a somma di esperienze e gusti e pre-intenzioni»]. La seconda osservazione è di contenuto tecnico. In ordine crescente, indipendentemente dalla sequenza in pagina, ecco qui la distinta degli Iso utilizzati/applicati per l’acquisizione digitale delle immagini che pubblichiamo (va rilevato!, e

34

Per trasmettere nell’immagine l’energia dell’elefante, Greg du Toit ha impostato un tempo di otturazione lungo, per ottenere un efficace effetto di mosso. Ma chi sono gli elefanti africani? Animali diurni e notturni, passano la maggior parte del tempo a cercare cibo, dormendo solo dalle tre alle cinque ore. Non posso guardare questa fotografia senza ricordare altre immagini di elefanti, inquadrati sempre dal basso e riprese da un fotografo nascosto dentro una buca nei pressi di una pozza d’acqua. Il fotografo è Frans Lanting, il grande, al quale

piantiamola qui con ogni dietrologia e sterile diatriba): 100, 125, 200, 400, 400, 400, 640, 640, 720, 800, 1600. Il settantacinque percento è superiore ai 200 Iso (equivalenti). Così, ci tengo a ricordare che, in tempi di pellicola, ai concorsi, come questo BBC Wildlife Photographer of the Year, venivano scartate immagini riprese con una sensibilità superiore ai 200 Iso, limite che si concedeva soltanto a due invertibili (diapositive, per chi è estraneo ai codici/sinonimi del passato): Kodachrome 200, utilizzato soprattutto per la fotografia subacquea, per merito delle sue dominanti calde, e Fujifilm Velvia 100, spinta in sviluppo a 200 Iso. (continua a pagina 43)


Mike Veitch (Canada): The Fish Trap (Esca per pesci). Vincitore nella categoria The World in Our Hands Award (Il mondo nelle nostre mani). In certe zone dell’Indonesia, i pescatori gettano le reti per catturare pesci di piccola taglia, con i quali attirare gli squali balena, per i turisti. «È in corso un accanito dibattito circa l’ipotesi che questo modo innaturale di nutrire gli squali balena possa alterare in modo permanente le loro abitudini alimentari», annota Mike Veitch. Infatti, aringhe e altri piccoli pesci presi nella rete non fanno parte del regime alimentare tradizionale dello squalo balena, perché sono troppo veloci per lui. Lo squalo balena è il pesce più grande del mondo; può raggiungere la lunghezza di quattordici metri. Si nutre di plankton e di piccoli pesci, che filtra dall’acqua marina che aspira. Cenderawasih Bay, Papua, Indonesia. Nikon D90, Tokina 10-17mm f/3,5-4,5 DX Fish-eye; 200 Iso equivalenti; custodia scafandro Aquatica.

va attribuito questo stile espressivo. Va aggiunto che fotografare elefanti nascosti dentro una buca rappresenta un discreto rischio di vita. Va altresì aggiunto che la discussione per attribuire all’autore di questo scatto il titolo di fotografo naturalista dell’anno è stata vivace. Northern Tuli Game Reserve, Botswana. Nikon D3s, AF-S Nikkor 16-35mm f/4G ED VR, filtro polarizzatore, flash Nikon SB-900, 800 Iso equivalenti; su mini treppiedi, comando remoto Nikon SC-28. Wildlife Photographer of the Year Portfolio 23; catalogo delle fotografie premiate e segnalate al BBC Wildlife Photographer of the Year 2013; Frances Lincoln, 2013 (HF Distribuzione; www.hfnet.it); 160 pagine 25x25cm; 38,00 euro.

Stanislao Basileo (Italia): Dam Difficult (La difficoltà di stare su una diga). Secondo classificato nella categoria Urban Wildlife (Natura selvaggia in città). Stanislao Basileo è l’esempio delle straordinarie possibilità che la fotografia apre a chiunque. Ho avuto l’occasione di premiarlo nell’edizione di due anni fa del concorso Fotografare il Parco, che si tiene ogni anno a Bormio, in provincia di Sondrio, nell’alta Valtellina, presso la sede del Parco Nazionale dello Stelvio. Straordinariamente poetica, una sua fotografia di fiori si classificò seconda assoluta in quella competizione, e poi è stata pubblicata come Fotografia del mese, su Gardenia, prestigioso e autorevole mensile. Stanislao Basileo è netturbino ad Aosta, ed è appassionato di fotografia e di montagna da una decina di anni. L’immagine premiata al BBC Wildlife Photographer of the Year 2013 rappresenta uno stambecco che si arrampica su una diga, un’impresa apparentemente impossibile. Infatti, la diga è costruita con grossi blocchi e, nonostante la parete che la costituisce appaia liscia, presenta moltissime irregolarità, dove un animale agile come lo stambecco può arrampicarsi. Probabilmente, ciò che ha attirato lì l’ungulato dovrebbe essere il sale minerale che incrosta le pietre con le quali la diga è stata costruita. Parco Nazionale del Gran Paradiso, Italia. Nikon D300, AF-S Nikkor 70-200mm f/2,8G ED VR II; 400 Iso equivalenti.

35


36

Jasper Doest (Olanda): Snow Moment (Momento della neve). Vincitore nella categoria Creative Visions (Immagini creative). Il Jigokudani Monkey Park, a Yamanouchi, nel distretto di Shimotakai, prefettura di Nagano (Giappone), è uno dei luoghi sacri della fotografia naturalistica, che a preso avvio con il servizio di Co Rentmeester, pubblicato da Life, il 30 gennaio 1970, con lancio dalla copertina. Ci vivono i macachi giapponesi, una specie di scimmie fotogeniche ( Macaca fuscata), che d’inverno stanno a lungo immersi nelle pozze di acqua termale calda di origini vulcaniche, presenti in luogo. Attratto dalla fama Parco, Jasper Doest ci si è recato per imprigionare quell’atmosfera surreale nella quale, attraverso i vapori caldi, le scimmie appaiono come fantasmi. «Ogni tanto, il vento gioca con i vapori e sembra dar loro vita»,

commenta Jasper Doest. Nel suo caso, all’improvviso, un macaco è saltato sulla roccia in mezzo alla sorgente e si è scrollata di dosso la neve: ecco una inquadratura bellissima, grazie anche al fatto che, per le particolari condizioni di luce, si ha l’impressione che il macaco stia librando attraverso una tormenta di neve, sopra una specie di piccolo magico tappeto volante bianco. Anche questa fotografia è stata a lungo in corsa per designare il Wildlife Photographer of the Year 2013. Tornando ai macachi giapponesi, queste scimmie hanno un buon rapporto con l’acqua. Quelle di loro che vivono più a nord, in inverno, scendono dalle foreste sulle montagne per bagnarsi nelle acque termali. Jigokudani, Giappone. Nikon D4, AF-S Nikkor 24-70mm f/2,8G ED, filtro polarizzatore; 1600 Iso equivalenti; flash Nikon SB-800.

Valter Bernardeschi (Italia): Sockeye Catch (Caccia al salmone rosso). Encomio nella categoria Behaviour Mammals (Comportamento dei mammiferi). Ogni anno, tra luglio e settembre, milioni di salmoni rossi migrano, risalendo il fiume fino al lago Kuril, in Kamchatka, per deporre le uova. Gli orsi bruni li attendono, in agguato. Altri luoghi dove -con prudenza- si possono fotografare gli orsi (si tratta di varie sottospecie dell’ Ursus arctos, tra le quali il grizzly) sono il Katmai National Park, negli Stati Uniti, e l’Anan Wildlife Observatory, in Alaska. Le fotografie degli orsi che acchiappano i salmoni al volo sono ormai uno stereotipo. Uno dei primi a scattare questo genere di fotografia è stato

Thomas Mangelsen, che, nel corso degli anni, ha fatturato quasi due milioni di dollari con la vendita della sua immagine che mostra un salmone in volo verso le fauci spalancate del plantigrado. Ciò che rende particolare questa fotografia di Valter Bernardeschi, uno dei tanti italiani che eccellono nella fotografia naturalistica, è la nuvola di uova, piccole sferette rosse, che schizzano in giro dalla pancia della mamma salmone. Anche questa è la Vita: uno spettacolo crudele, del quale i protagonisti non hanno consapevolezza. Southern Kamchatka Reserve, Russia. Nikon D4, AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II; 720 Iso equivalenti.


Julian Cohen (Inghilterra / Australia): Confusing Beauty (La bellezza del caos). Secondo classificato nella categoria Behaviour: Cold blooded Animals (Comportamento degli animali a sangue freddo). Julian Cohen è rimasto così tanto affascinato dalle forme create dai movimenti di queste sardine, che ha passato giornate a seguirle. Era anche preoccupato che le bolle d’aria del respiratore potessero disturbare i piccoli pesci che nuotavano sopra e intorno a lui: «Ho cercato di lasciarle tranquille, e le ho fotografate mentre formavano questo splendido quadro astratto sopra la mia testa». Durante la migrazione, i branchi di sardine praticano lo schooling (come altre specie, in particolare gli uccelli), un comportamento che procura al branco, e anche al singolo pesce, maggiori probabilità di sopravvivenza.

Infatti, muoversi raccolti in un grande gruppo protegge dagli attacchi dei predatori gli individui che riescono a guadagnare un posto al centro del raggruppamento. E sono debolmente protetti anche quelli che viaggiano ai bordi del gruppo, perché hanno una minore probabilità di essere catturati, rispetto alla migrazione in solitudine. Infatti, l’elevata quantità di prede potenziali confonde i cacciatori, come i delfini, che entrano nel branco puntando a caso. È d’obbligo ricordare che non sono le sardine a decidere di migrare in questo modo. È stata l’Evoluzione che ha premiato con la sopravvivenza le specie -come le sardine- che migrano in questo modo. Samurai, Milne Bay, Papua Nuova Guinea. Nikon D7000, Tokina 10-17mm f/3,5-4,5 DX Fish-eye; 100 Iso equivalenti; custodia scafandro Seacam Prelude, due flash Inon per fotografia subacquea.

Douglas Seifert (Usa): Traveling Companions (Compagni di viaggio). Encomio nella categoria Animal Portraits (Ritratti di animali). Douglas Seifert ha seguìto il dugongo, rimanendo quasi immobile grazie al suo giubbotto ad assetto variabile, uno degli strumenti più utili per la fotografia subacquea. «Stavo attento a non spaventare l’animale con le bolle emesse dal respiratore. Avevo già immaginato questa scena -commenta Douglas Seifert-, e nel momento in cui ho scattato la fotografia mi sono reso conto di avere realizzato quello che stavo cercando». I due pesciolini della famiglia dei carangidi, che nuotano davanti al dugongo, traggono molti vantaggi dal fatto di vivergli accanto.

Per esempio, cavalcano la lieve onda provocata dall’avanzare dell’animale nell’acqua, e possono banchettare con i minuscoli crostacei che si staccano dalle piante acquatiche delle quali si nutre. Per l’abbondanza di carne che si può ricavare dal dugongo (un mammifero marino che può superare i tre metri di lunghezza e i quattrocento chili di peso), questo animale è stato molto cacciato, tanto da essere in pericolo di estinzione. Marsa Alam, Mar Rosso, Egitto. Canon Eos 5D Mark II, Canon EF 16-35mm f/2,8L II USM; 640 Iso equivalenti; custodia scafandro Seacam, due flash Inon Z-220 per fotografia subacquea.

37


PENSIERI A MARGINE

Scrivo queste righe, seduto appena fuori dalla nursery del Little Company of Mary Hospital, di Torrance, nella contea di Los Angeles. Si è appena verificato uno di quei frequenti eventi che capitano migliaia di volte ogni giorno sul nostro pianeta, e sono capitati miliardi di volte nell’ultimo milione di anni: la nascita di un essere umano. L’evento mi riguarda, perché l’essere umano appena nato è il mio nipotino. Davanti alle fotografie di cui ho riferito, questo evento, oltre alla scontata e infinita gioia del nonno, suscita in me emozioni in un certo senso inquietanti. Gli esseri viventi, di qualunque tipo, forma, complessità o vita sociale, nascono e muoiono sul pianeta da circa tre miliardi e mezzo di anni. I soggetti che appaiono nelle fotografie sono i discendenti di quegli esseri. In questi miliardi di anni, molte specie sono nate e scomparse. Altre specie sono apparse, e la Vita ha continuato a riprodursi. Tutto ciò è avvenuto seguendo ritmi lentissimi. C’è stato tempo perché vecchie specie, non più adatte alle mutate condizioni ambientali e climatiche, scomparissero e altre nuove le sostituissero. I dinosauri ci hanno messo qualche milione di anni a estinguersi e, nel frattempo, i mammiferi hanno preso il loro posto di esseri dominanti. Nell’ultimo milione di anni, è apparsa la specie “più dominante” di tutte: l’homo sapiens. Questa specie è la prima che può mettere in pericolo la presenza della Vita, come noi la conosciamo. Fuori dall’ambiente fresco e pulito della nursery, c’è la siccità e l’inquinamento di Los Angeles. A Long Beach, altra località della contea di Los Angeles, ci sono centrali di desalinizzazione che estraggono acqua dolce dal mare. Per questo, gli abitanti di Long Beach possono irrigare i propri giardini e i campi da golf, che qui sono ancora verdi. Ma a nord di Los Angeles, ho visto -per la prima volta nella mia vita- un campo da golf marrone, in terra polverosa. Che effetto agghiacciante! Ciononostante, i negozi traboccano di merce che ingolosisce. Nei negozi alimentari, c’è tanto di quel cibo da far paura. Qual è il costo di tutto questo? Fra quanti anni, a causa di questo spreco (da cui il nostro paese non è esente), non riusciremo più a scattare fotografie come quelle che hanno partecipato al BBC Wildlife Photographer of the Year 2013? Su The Observer, il domenicale del quotidiano inglese The Guardian, il 6 luglio 2002, dodici anni fa, veniva presentato il rapporto The Living Planet, elaborato a cura del WWF (World Wildlife Fund, la più autorevole organizzazione internazionale che si occupa della salvaguardia della natura sulla Terra). Il titolo dell’articolo era Earth will expire by 2050 (La Terra morirà nel 2050). In base a dati del rapporto, nell’articolo si sosteneva che, per sopravvivere al tasso di crescita attuale, l’umanità dovrebbe colonizzare altri due pianeti simili alla Terra entro il 2050. Le altre “buone” notizie affermavano che, negli ultimi trent’anni, l’Uomo ha consumato il trenta percento delle risorse del pianeta. Uno degli esempi riportati riguardava la stima della presenza del merluzzo in Atlantico: duecentosessantaquattromila tonnellate, nel 1970 (264.000), sessantamila nel 1995 (60.000). Un altro esempio riguardava la riduzione del dodici percento del manto arboreo che copre il pianeta, tra il 1970 e il 2002. Altro esempio? Indicando con “cento” il valore di un riferimento riassuntivo della qualità degli ecosistemi terrestri (foreste, acque dolci e mari, savane...), sempre nel 1970, in meno di una generazione, tale indice è sceso a sessantacinque. Non basta? Gli scienziati che hanno redatto il rapporto affermano che, dal 1970 al 2002, ben trecentocinquanta specie di mammiferi, uccelli, rettili e pesci hanno più che dimezzato la propria consistenza. La domanda amara è perciò questa: quando cominceremo a mangiare le tigri, invece di fotografarle? E per quanto riusciremo a sopravvivere di questo?

38

Richard Packwood (Inghilterra): The Greeting (Il saluto). Vincitore nella categoria Nature in Black and White (Natura in bianconero). Attratto dalla vista di questi spettrali alberi semisommersi, Richard Packwood ha notato un elefante solitario, che sguazzava nell’acqua. Quando si accorse che se ne stava avvicinando un altro, capì che avrebbe avuto l’opportunità di realizzare una fotografia magica.


Il fatto di riuscire a cogliere il momento giusto, senza che la presenza degli alberi coprisse gli animali, è stata una questione di fortuna (che serve sempre, anche se non basta mai). «Questa fotografia è un regalo della natura», ammette Richard Packwood. Gli alberi semisommersi nel lago Kariba sono testimoni spettrali di un ecosistema allagato tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, per costruire

la gigantesca diga Kariba, sul fiume Zambesi. Quando si formò il lago, circa seimila grandi animali, tra i quali gli elefanti, vennero spostati, allestendo un’operazione denominata Noè. Molti di questi animali dimorano oggi nel Matusadona National Park. Matusadona National Park, Zimbabwe. Nikon D3s, AF-S Nikkor 500mm f/4G ED VR e Teleconverter 1,4x; 400 Iso equivalenti.

39


Paul Souders (Usa): The Water Bear (L’orso marino). Vincitore nella categoria Animals in their Environment (Animali nel proprio ambiente). Durante i lavori della giuria, si è dibattuto a lungo se potesse essere questa l’immagine adatta a designare il vincitore assoluto della competizione. Il colore del cielo, gli occhi luciferini dell’orso che si nasconde sotto il pelo dell’acqua, il sole appena sopra l’orizzonte. Mamma mia, che scatto!

40

Oltretutto, l’orso bianco, o polare, o marino ( Ursus maritimus), è molto aggressivo e pericoloso, quasi e forse di più del leone. Oltre al forte impatto estetico, l’immagine sottolinea anche una condizione ambientale: «Il cambiamento climatico costituisce una vera minaccia per la popolazione degli orsi polari che abitano la parte occidentale della Baia di Hudson», rileva Paul Souders, che -come tutti i fotografi naturalisti- è competente


anche dei soggetti verso i quali indirizza i propri progetti visivi. La fotografia è stata scattata a luglio, durante un’ondata di caldo, quando la temperatura aveva raggiunto i trenta gradi, favorendo il propagarsi di incendi nelle foreste dell’entroterra. Il riscaldamento globale fa sì che zone sempre più ampie del pack si sciolgano, riducendo l’habitat naturale degli orsi polari, che sono costretti ad avventurarsi sulla terraferma, in cerca

di cibo, che spesso non trovano; il che li costringe a lunghi digiuni. Gli orsi polari sono ottimi nuotatori e, grazie al loro spesso strato di grasso e alle narici che si chiudono in immersione, possono cacciare per ore le foche nel mare ghiacciato (la natura è anche crudele... selezione naturale). Baia di Hudson, Canada. Canon Eos 7D, Canon EF-S 10-22mm f/3,5-4,5 USM; 400 Iso equivalenti.

41


Yossi Eshbol (Israele): Feeding of the Five Thousand (Il pasto dei Cinquemila). Encomio nella categoria Behaviour: Birds (Comportamento degli uccelli). Ogni autunno, migliaia di pellicani bianchi piombano sui laghetti artificiali, dove si allevano pesci nel Nord di Israele. Banchettano con i pesci destinati alla vendita, e per cacciarli via ci sono guardie apposite, preposte allo scopo.

42

«Quel giorno, il sole stava calando rapidamente, e vedevo già le guardie che si avvicinavano», ricorda Yossi Eshbol, che ha scattato nel momento nel quale tutti gli uccelli stavano aprendo il becco e -guardando nella stessa direzione- si preparavano al decollo. I pellicani bianchi possono nidificare in colonie con più di quarantamila coppie.


Si riproducono in primavera, in Europa, e poi migrano in stormi da cinquanta a cinquecento esemplari verso l’Africa e l’India, dove possono trovare cibo in inverno. Le soste permettono loro di fare un prezioso rifornimento di cibo. Ma’ayan Zvi, Israele. Nikon D3, AF-S Nikkor 600mm f/4G ED VR; 640 Iso equivalenti.

(continua da pagina 34) Alla fine degli anni Novanta, per la cui collocazione temporale potremmo evocare l’espressione più clamorosa -nel proprio fonema- “Verso la fine del secolo”, i fotografi naturalisti cominciarono a usare anche la diapositiva Fujifilm Provia 100. Ma, all’inizio di quel decennio, si usava quasi solamente il Kodachrome 64 (64 Iso). Per il paesaggio, qualcuno “scendeva” addirittura al Kodachrome 25 (25 Iso). Quindi, in termini di qualità e facilità di scatto, potete immaginare cosa abbia rappresentato la tecnologia ad acquisizione digitale di immagini -il “digitale”- per questo tipo di fotografia. In ogni caso, e avvicinandomi a conclusione, ribadisco quanto ho avuto già modo di affermare [in FOTOgraphia, del febbraio 2009]: per me, la fotografia naturalistica è il genere di fotografia più bello che ci sia. Chi la pratica insegue le forme di vita più emozionanti, per aspetto e comportamento, nei luoghi più straordinari della Terra. Chi la pratica va forse alla ricerca della radici della vita, dei progenitori, dell’Eden scomparso. Ho esercitato per anni questo genere di fotografia. Io e il mio complice, un caro amico, e maestro di natura, Oliviero Dolci, abbiamo passato notti nascosti in un capanno accanto a un nido di allocco, per fotografarne l’andirivieni al nido; sudati, intere giornate in palude, divorati dai tafani, per riprendere avocette e cavalieri d’Italia; indugiato pomeriggi invernali, pronti a scattare davanti a un acquario dove si era creato un ambiente adatto a notonette, scorpioni d’acqua e portasassi. Si cominciò negli anni Settanta. A un Sicof (Salone Internazionale Cine Foto Ottica e Audiovisivi; 1973, tempi gloriosi per la fotografia), Egidio Gavazzi fondava la Società Italiana di Caccia Fotografica, proponendo di sostituire il fucile con il teleobiettivo. Oliviero Dolci ed io aderimmo subito. Eravamo fotografi della natura principianti, impacciati e incompetenti. In Italia, non c’erano libri sui quali imparare. Quelli di noi fortunati, che passavano da Londra, facevano bottino da Foyles dei libri di Eric Hosking (il mago delle riprese al nido con il flash) o dei coffee table book della Audubon Society, pieni di immagini straordinarie sulle quali si sognava. In quei tempi, in Italia imperversava il neorealismo fotografico, la fotografia sociale, la Magnum Photos, la Galleria Il Diaframma di Lanfranco Colombo: andavi lì con una fotografia naturalistica e ti guardavano come un minus habens. Il National Geographic Magazine, che pubblicava anche reportage naturalistici, era considerato dall’intellighènzia fotografica del nostro paese una sciocca rivista che guardava il mondo attraverso lenti rosa. Nei suoi bollettini, il WWF proponeva soltanto fotografie di disastri, e mostrava non quanto era bello il mondo naturale che si voleva difendere, ma quanto era brutto il risultato della distruzione. Sì, certo la distruzione era orribile (è ancora orribile). Ma che aspetto aveva l’ambiente prima di essere distrutto? A maggio 1981, arriva Airone, altra geniale intuizione di Egidio Gavazzi. Il mensile è pieno di bellissime fotografie del mondo naturale: finalmente, si impara a conoscere quello che bisogna proteggere. Gli iscritti al WWF crescono esponenzialmente: il bello della natura conquista gli italiani. Anche i fotografi naturalisti crescono, sia in numero sia in bravura, ma bisogna aspettare fino alla fine degli anni Novanta prima che qualche italiano sia segnalato o nominato vincitore di categoria al BBC Wildlife Photographer of the Year, il più prestigioso concorso di fotografia naturalistica a livello mondiale, diciamo il “World Press Photo della natura”. Storia di oggi. Storia raccontata. ❖

43


dal 1961


Gossen Lunasix

www.newoldcamera.com


Souk dei fabbri ; Marrakeck, 2007.

di Maurizio Rebuzzini

C

oraggio. Ci vuole coraggio a esprimere i propri sentimenti, a manifestare le proprie emozioni: soprattutto oggi, in un Tempo nel quale impera il cinismo e si impone la maleducazione (a proposito, il Galateo overo De’ costumi, di monsignor Giovanni Della Casa, del 1558, è disponibile in formato Pdf, scaricabile gratuitamente dalla Rete: ci basterebbe il rispetto di questi antichi dettami, per essere soddisfatti dei rapporti in-

Lunghe ombre ; campagna di Enna, 2011.

terpersonali odierni). Comunque, tornando al sodo, ci vuole coraggio per aprirsi e rivelarsi. Maria Laura La Scala ha avuto l’ardimento e la temerarietà di... esagerare: palesandosi in duplice forma. Con il suo avvincente libretto Come un giorno di vento -“libretto” per dimensioni, non certo per contenuto: da libro di valore e prestigio- si esprime in combinazione ricercata di poesia e fotografia. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, siamo in presenza di poesia. Non tanto in relazione alla sua apparenza autenticamente tale, poetica nella forma, quanto in dipen-

FIL DI VENTO Estranea a qualsivoglia opportunità utilitaristica, Maria Laura La Scala fotografa facendosi guidare dal cuore: le sue immagini non seguono altra direttiva che quella dell’osservazione intima. Una selezione di queste sue ispezioni e esplorazioni si accompagna con una cadenzata sequenza di poesia: Come un giorno di vento è una raccolta di parole e immagini dalla quale ciascuno di noi può ricavare conforto individuale ed esistenziale. A patto di essere disposti a dischiudersi con lo stesso amore, lo stesso coraggio e la stessa vitalità che caratterizza la combinazione delle pagine. È tutto qui. È già molto

46


Il ritorno ; Essaouira, 2006.

CarmĂŹni riflessi ; Tokyo, 2008.

Proiezioni ; Nakashibetsu, isola di Okkaido, 2009.

Come un canto, il vento ; Milano, 2011.

47


Terra generosa; campagna di Montalbano Elicona, 2012.

Nel silenzio, immerso ; Nevsehir, Cappadocia, 2010.

denza dei suoi contenuti: poesia sendella narrazione, del resoconto esiza confini di identificazione formastenziale, che compone i tratti di una le. Maria Laura La Scala è un poeautentica compiutezza. ta, indipendentemente dal suo espriTanto autentica, sia chiaro, da far mersi in versi. Infatti, solo i poeti sanarrossire, da emozionare, da metno veramente parlare della libertà, tere in imbarazzo. È come leggere dolcissima e inebriante (da e con Piun epistolario, come intromettersi (?) no Bertelli). E noi, da parte nostra, in una intimità: indipendentemente sappiamo riconoscere la Poesia deldalla presentazione di parole e/o imla Vita, quando la incontriamo, così magini fotografiche, il susseguirsi come -su binario analogo- sappiadelle pagine di Come un giorno di mo riconoscere l’Amore. E di quevento si offre e propone come sofsto siamo ricchi, e per questo siafice confessione, della quale ciascumo altrettanto ricchi. no di noi diventa testimone attivo e partecipe. Nessuno di noi è destiScandito per capitoli consequennatario originario di questo amore ziali, Come un giorno di vento riuniper la vita, ma -alla fine- ciascuno sce e raccoglie intimità esistenziali di noi se ne è alimentato. che l’autrice Maria Laura La Scala Da e con Enzo Jannacci, peraltro esprime e condivide con una saevocato su questo stesso numero, piente alternanza di parole e immain apertura di fogliazione, in funziogini, le une richiamate alle altre, le ne introduttiva a una serie di riflesdue in felice comunione di intenziosioni a tema (presto rivelate), a cerni. Considerato lo spessore di quetificazione che le coincidenze sono sta consegna, non conta nulla isoi soli accadimenti che rivelano quanlare qualche verso, rispetto la totato e come la vita possa avere anche lità, così come è inadeguato appuntare una fotografia piuttosto di un’al- Come un giorno di vento, di Maria Laura La Scala; Montedit, 2014 (un qualche) senso: «Cosa portavi, bella ragazza, cosa portavi al tuo pritra (e la selezione visiva che accom- (www.montedit.it); 90 pagine 13,5x20,5cm; 10,00 euro. pagna questa nota si intenda soltanto in relazione all’adem- mo amore?» / «Portavo in dote quelle parole che lui non seppimento del proprio dovere di messa in pagina redazionale). pe mai dire a me!». Cosa portavi, Maria Laura? Grazie, Maria Laura, per quanto ci hai portato/donato. ❖ Quello che effettivamente conta è avvicinare la completezza

48


Il Galateo overo De’ costumi, di Giovanni Battista Della Casa, è disponibile in formato Pdf, scaricabile da diversi indirizzi web


BEPPE BOLCHI ALTIN MANAF

La prima edizione del workshop Ritorno al grande formato si è svolta a Pistoia, il ventisette e ventotto settembre, all’interno dei Vivai Piante Mati 1909. Rituale foto di gruppo dei partecipanti. Assieme ai docenti Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini, e ai testimonial Gianni Berengo Gardin, Samuele Piccoli (StenopeiKa) e Beppe Bolchi: Romeo Di Loreto, Ernest Malaguarnera, Marco Saielli, Franco Della Scala, Altin Manaf, Ilario Piatti, Maria Chiara Goti e Beatrice Mati.

50

di Antonio Bordoni

C

omplici due straordinarie giornate estive, ad autunno avviato, sabato ventisette e domenica ventotto settembre, a Pistoia, la prima edizione dell’avvincente e convincente workshop Ritorno al grande formato ha potuto svolgersi completamente en plein air (all’aria aperta), senza dover ricorrere a protezioni atmosferiche (come i gazebo pronti per ogni evenienza), senza doversi necessariamente limitare ai set in luce artificiale, preventivamente allestiti a margine... perché non si sa mai. Curiosa coincidenza -del genere che le interpreta, le coincidenze, come i soli accadimenti che rivelano come e quanto la vita possa avere anche (un qualche) senso-, En plein air è stata, e lo sarà ancora, in altre occasioni, una identificazione con la quale Giancarlo D’Emilio, che ha organizzato e svolto il pro-

gramma Ritorno al grande formato assieme a Maurizio Rebuzzini, ha composto la sua attenzione per la fotografia sul campo, attorno la quale ha persino costituito una associazione culturale a tema. Convergenze e fatalità a parte, e altre ce ne sono state, il workshop ha palesato e divulgato fantastiche vivacità, energie e intelligenze attuali di una applicazione fotografica ereditata da esperienze del passato, persino remoto, rivitalizzata in chiave adeguatamente contemporanea. In effetti, le dichiarazioni di intenti che hanno guidato i due ideatori e conduttori -Giancarlo D’Emilio, che ha giocato in casa, nella sua città, e Maurizio Rebuzzini, in gradita trasferta temporanea, da Milano- sono trasparenti ed esplicite, oltre che apprezzabili e apprezzate: e sono state prontamente trasmesse ai partecipanti. Ne abbiamo già riferito, in anticipo temporale, in lancio, lo scorso luglio, e qui è giocoforza ripetere. In efficace sintesi, a chiare lettere: la storia, anche


FEDERICO MADONNA / VORONOI (PIAZZETTA DELL’ORTAGGIO 14/17, PISTOIA)

BEN TORNATO! Ben tornato, grande formato. Ben tornate attenzioni e applicazioni fotografiche che fanno tesoro della concentrazione sulla magica proiezione sul vetro smerigliato di ampie dimensioni (con slittamento volontario e consapevole verso l’attualità di una convincente CSC-Mirrorless, opportunamente adattata allo scopo). Ben ritrovate emozioni che si discostano dalla inutile frenesia superficiale dei nostri giorni -non soltanto in fotografia- e dalla inefficace casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite

51


NON UNA SINAR NORMA QUALSIASI! PROPRIO QUESTA!

ILARIO PIATTI

Quindi, in sequenza serrata, Maurizio Rebuzzini ha certificato una conseguenza. Siamo ancora qui. Maurizio Rebuzzini Dichiaro che la Sinar Norma (numero di matricola 4507566) mi appartiene, avendola rilevata, nel 1984, da Gianni Berengo Gardin (trenta anni fa). Da allora, la uso con compiacimento e soddisfazione, sia nell’ambito dello still life, sia in esterno e in location. Da tempo, ho smesso di scattare, per dedicarmi al giornalismo. Però, per il mio recente ritorno (eccoci) a una certa fotografia (intima), il primo pensiero tecnico è stato rivolto a questa Sinar Norma. Dichiaro altresì che questa stessa Sinar Norma (numero di matricola 4507566) è stata da me fotografata per illustrazione redazionale; è quella che compare nelle mie ripetute considerazioni sulla fotografia. Tutto questo, per gioco. Ma neppure poi tanto per solo gioco.

ALTIN MANAF

Nell’ambito della prima edizione dell’autorevole workshop Ritorno al grande formato, organizzato e svolto da Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini, si è tenuta una gustosa e saporita cerimonia. Ospite annunciato dei due giorni di incontro, a Pistoia, facendo base all’Accademia Italiana del Giardino, presso i Vivai Piante Mati 1909, Gianni Berengo Gardin (che non richiede altra specifica, altra presentazione) è stato coinvolto in una dichiarazione ufficiale, nel trentesimo anniversario dei fatti in questione. Dopo averla asserita in tante occasioni private, ora la vicenda è certificata: alla presenza di due testimoni (date le circostanze, il padrone di casa Francesco Mati e il docente Giancarlo D’Emilio), Gianni Berengo Gardin ha notificato una successione di eventi. Gianni Berengo Gardin Dichiaro che la Sinar Norma (numero di matricola 4507566) mi è appartenuta, avendola acquistata, grossomodo nel 1960 (1962?), da Schiffer, a Lugano. L’ho usata solo in un paio di occasioni, entrambe per Olivetti. La prima volta, per tre giorni, per fotografare lo stabilimento di Pozzuoli. La seconda volta, per riprodurre manifesti e litografie dalla Collezione. Dichiaro altresì che questa stessa Sinar Norma (numero di matricola 4507566) è stata da me ceduta a Maurizio Rebuzzini, nel 1984, trent’anni fa; so per certo che ha sostituito la sua precedente, che aveva acquistato -sempre usata, di seconda manoda Karim Sednaoui (semplicemente Karim, per tutti), il 14 maggio 1981.

52


ALTIN MANAF (4)

soltanto quella fotografica, va avanti con o senza di noi. Per conseguenza e con buona pace di tutti, la fotografia attuale è quella che tutti conosciamo, ed è legittimo che così sia. In conformità di intenti, la fotografia (che non rappresenta alcuna avanguardia, ma rispetta i propri tempi, via via i propri tempi) è sostanziosamente adeguata alla tecnologia odierna. Senza angeli, né demoni [da FOTOgraphia, novembre 2013], è regolare che l’acquisizione e gestione digitale di immagini sia allineata al Gps (in vece delle carte topografiche), allo smartphone (che assolve infinite funzioni, tutte a portata di mano, ovunque ci si trovi), alla televisione, a..., a..., a... e ancora a... Senza alcuna animosità, lontani da qualsivoglia nostalgia (fine a se stessa), estranei a inutili controversie e contrapposizioni, questa registrazione è dovuta: che poi, la stessa tecnologia faciliti a certi imbecilli di manifestare la propria deficienza (non soltanto in fotografia, sia chiaro) è un altro paio di maniche. Quindi, con altrettanta pacata e lieve serenità, con il loro efficiente e utile Ritorno al grande formato, Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini hanno dato, danno e daranno ancora spazio e tempo e modo a coloro i quali garba attardarsi con compagnie fotograficamente storiche: del passato, sia prossimo, sia remoto, che da questo stesso passato avvolgono il presente con un’aura che arricchisce e impreziosisce le nostre esistenze. Ancora, e sia chiaro una volta per tutte: non applicano, né frequentano, né propongono, né sollecitano alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -molto più concretamente- invitano in un mondo magico e incanta-

to, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen). Fino a qualche stagione fa utensile indispensabile e irrinunciabile del professionismo fotografico, oggigiorno, la configurazione grande formato a corpi mobili (dotati di movimenti controllati di decentramento e basculaggio dei piani principali) si offre e presenta con altri connotati, si ri-propone per altra personalità. In questo senso, il Ritorno al grande formato, prospettato da Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini, è da interpretare sia per se stesso (l’attardarsi sul passato può anche limitarsi a questo), sia come autentica e privilegiata e autorevole fonte di pacata riflessione fotografica, con raffinata composizione su vetro smerigliato di dimensioni generose: dal 4x5 pollici all’8x10 pollici, tradotti in 10,2x12,7cm e 20,4x25,4cm. In avvio di workshop, in uno spazio opportunamente definito Abbecedario, i due “docenti” hanno sottolineato come la conoscenza dei princìpi operativi dell’applicazione dei corpi mobili sia ancora utile, forse addirittura necessaria, per l’interpretazione attuale della fotografia in grande formato e con il grande formato... qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi. Senza allarmismi, hanno ricondotto il discorso alla sua effettiva semplicità di condizioni geometriche elementari, la maggior parte delle quali perfino intuitive, che dirigono e governano la raffigurazione del soggetto, anzitutto composto e inquadrato con efficace restituzione prospettica, in altre situazioni e condizioni inteso con opportuna e consapevole nitidezza (oppure, all’op-

Sessione operativa del workshop Ritorno al grande formato, presso il Giardino informale con sistema di controllo remoto Garantes, dei Vivai Piante Mati 1909, di Pistoia. Con registrazione sia delle azioni fotografiche in gruppi di lavoro, sia della fantastica e affascinante proiezione sul vetro smerigliato di dimensioni generose: 8x10 pollici, da folding StenopeiKa 810S, e 4x5 pollici, da Sinar-f.

(pagina accanto) Gianni Berengo Gardin, ospite autorevole al workshop Ritorno al grande formato, a cura di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini, è stato giocosamente coinvolto in una “cerimonia” di certificazione, a partire da una antica vicenda Sinar Norma 4x5 pollici, svoltasi nel 1984.

53


DAL MONITOR FUJIFILM X-M1

Riproponendo condizioni già frequentate in passato (prossimo? remoto?, dipende dai punti di vista e dalle anagrafi), nell’ambito del workshop Ritorno al grande formato è stato declinato un affascinante presupposto tecnico. Se un tempo la combinazione di apparecchi medio e piccolo formato al dorso grande formato sostituiva una dimensione di fotogramma a un’altra (originaria), mantenendo l’impiego di pellicola fotosensibile, lo stesso accostamento con un apparecchio ad acquisizione digitale di immagini declina oggi una fantastica e avvincente e convincente mescolanza passato-presente-futuribile. Su una piastra porta ottica (Sinar... con Sinar Norma degli anni Cinquanta), è stato fissato un anello adattatore Quenox con “maschio” Fujifilm X (distribuzione RaMa, via Aldo Moro, 35027 Noventa Padovana PD; www.ramaidea.it). Quindi, una efficace Fujifilm X-M1 [FOTOgraphia, settembre 2013] è stata collocata al piano immagine: in manuale, con l’ampio monitor LCD basculante ad alta definizione da tre pollici (32x62mm!) e 920.000 pixel pulito di ogni indicazione aggiuntiva, e quadrettatura (che riprende e ripete quella

54

del vetro smerigliato grande formato). Questa compatta e leggera X-M1, che pesa solo trecentotrenta grammi, ed è adeguatamente idonea alle intenzioni latenti dell’annunciato e perseguito Ritorno, è dotata dello stesso sensore APS-C X-Trans Cmos da 16,3 Megapixel presente nella versatile X-Pro1 di vertice e nella intrigante X-E1. Nonostante le sue ridotte dimensioni, la configurazione promette e offre prestazioni molto elevate per la sua categoria, consentendo di apprezzare la qualità delle immagini, l’avvincente design e le caratteristiche di uso che contraddistinguono i modelli della serie Fujifilm X. Tradotte in soldoni, le sue prerogative di impiego, qui interpretate nel rigore formale e compositivo e riflessivo della fotografia in grande formato, con banco ottico di antica costruzione, hanno prodotto file di alta qualità, in dimensioni sostanziose: 27,94x41,45cm a 300dpi... e sottomultipli conseguenti. Da cui, Sinar Norma (anni Cinquanta) e Fujifilm X-M1 di stretta attualità tecnologica e temporale: «La storia è ineluttabile, o per meglio dire, la storia diventa destino e viceversa» (da e con David Knowles, in I segreti della camera o[b]scura).


ILARIO PIATTI (2) ALTIN MANAF (2) MAURIZIO REBUZZINI

posto, con distribuzione personalizzata di piani di sfocatura volontaria, collaudata e indirizzata). Lo hanno ribadito con competenza. Queste fasi/procedure operative sono state indispensabili alla fotografia professionale in tempi chimici, di pellicola fotosensibile: soprattutto in indirizzi specifici, quali lo still life, in sala di posa, e la fotografia di architettura, d’arredamento e industriale, in location. Con medesima intenzione, ma diversa impellenza -questo va riconosciuto-, la stessa base operativa si applica agli intendimenti attuali della fotografia grande formato, nella sua ipotizzata frequentazione arbitraria dei nostri giorni, dove e quando non è più necessaria, né tantomeno richiesta, ma frequentata in altro senso: per attardarsi con modalità di esecuzione fotografica estranee all’incessante ritmo delle lancette che scorrono rapide sul quadrante dell’orologio. Quindi, Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini hanno risposto da par loro a domande latenti e possibili: perché usare apparecchi grande formato, dal 4x5 pollici (10,2x12,7cm) al 13x18cm, all’8x10 pollici (20,4x25,4cm), in un’epoca di automatismi fotografici esuberanti, di acquisizione digitale di immagini e di istantanee da social network? Quali sono le motivazioni che spingono a fotografare con ingombranti e impegnativi apparecchi a banco ottico oppure folding? Da cosa dipendono il piacere e il gusto di regolazioni completamente manuali, dall’esposizione all’accurata messa a fuoco? A detta loro, e noi siamo completamente d’accordo, per tutto questo risponde il senso e la consapevolezza di attardarsi su e con qualcosa di fisi-

Per le riprese fotografiche in 4x5 pollici, nella sua prima edizione, a Pistoia, presso i Vivai Piante Mati 1909, il coinvolgente workshop Ritorno al grande formato ha potuto avvalersi di pellicole piane Polaroid a sviluppo immediato (messe a disposizione di Beppe Bolchi), ultime eredi di una storia ormai finita. Alternativamente, riprese a colori e in bianconero, anche con emulsione polaroid 55, con negativo recuperabile per la stampa all’ingranditore.

(pagina accanto) Sinar Norma 4x5 pollici con Fujifilm X-M1 adattata al piano immagine. La combinazione ha rivelato una doppia efficacia, sia operativa sia qualitativa (sul fronte dei risultati): visione e inquadratura e composizione dal monitor LCD basculante ad alta definizione da tre pollici (32x62mm); file da 16,3 Megapixel, dal sensore APS-C X-Trans Cmos (27,94x41,45cm a 300dpi). Oltre la misurazione esposimetrica TTL, attraverso l’obiettivo di ripresa Schneider Makro-Symmar HM 180mm f/5,6, si è usato un esposimetro Pentax Digital Spotmeter: di buona memoria.

55


BEPPE BOLCHI

Beppe Bolchi, presente al workshop Ritorno al grande formato come autorevole testimone sul campo, ha impreziosito lo svolgimento della sessione teorica con una qualità e quantità di materiali complementari, tra i quali una serie di stampe fine-art di Ansel Adams.

56

ALTIN MANAF

Giancarlo D’Emilio, a sinistra, e Maurizio Rebuzzini, al centro, con Gianni Berengo Gardin, ospite di prestigio e valore (assoluto, ma anche relativo) alla prima edizione del workshop Ritorno al grande formato, svoltasi a Pistoia, gli scorsi ventisette e ventotto settembre.

co ed emozionante. Al proposito, hanno ricordato e richiamato l’esperienza di un autore significativo, prematuramente scomparso nel 1988, a cinquantotto anni, che accompagnava le proprie immagini con riflessioni teoriche sugli strumenti e il significato del gesto fotografico: «L’uso degli apparecchi grande formato rappresenta una forma di resistenza agli automatismi che caratterizzano sempre di più la fotografia contemporanea: una tacita protesta contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite» (Reinhart Wolf). Infatti, quando si fotografa in grande formato, i tempi si dilatano e i ritmi si distendono: si raggiunge quello stato d’animo contemplativo tanto adatto alla fotografia meditata. Le stesse condizioni fisiche del lavoro, per tanti versi addirittura imposte dal mezzo che si usa, influiscono in modo determinante sui risultati. A questo proposito, i due “conduttori” sono stati perentori: al contrario delle reflex e delle macchine fotografiche a mirino che, soprattutto se usate a mano libera, senza treppiedi, inducono a uno sguardo veloce e dinamico, pronto a cogliere l’insieme piuttosto che il particolare, gli apparecchi grande formato impongono tutt’altra attenzione. L’immagine che si forma sul vetro smerigliato -plastica e ricca di sfumatureobbliga lo sguardo a una composizione ragionata e attenta a ogni particolare, anche minimo. Il momento dello scatto è il gesto finale di un laborioso processo, che comincia quando si immagina interiormente ciò che si vuole esprimere. Una volta ipotizzata e preventivata una certa ripresa, si prepara

l’attrezzatura e si parte: tra apparecchio, obiettivi, châssis e treppiedi si viaggia carichi di pesanti valige. In definitiva, lode al grande formato fotografico, indipendentemente dalle convenienze e -volendolodalle utilità del momento. Lode al grande formato, in un’epoca tecnologica altrimenti orientata, proiettata e praticata (nessun giudizio, sia chiaro, nessuna contrapposizione). Altrettanto volendolo, in una coincidente e coeva epoca tecnologica nella quale -frequentando imperterriti la pellicola fotosensibile e/o suoi convincenti succedanei- la qualità della trasformazione dell’immagine fotografica non dipende affatto dalle sole dimensioni dell’originale, negativo o diapositiva che sia. Infatti, potendo lavorare con pellicole di dimensioni sistematicamente ridotte (e/o efficaci sostituti), oppure con sensori ad acquisizione digitale analogamente microscopici, dal punto di vista razionale, la discriminante del grande formato fotografico (a partire dalle pellicole piane 4x5 pollici e rimpiazzi/facenti funzione) non passa più attraverso l’elemento originariamente qualificante del “grande”, quanto dipende invece dall’aggiustamento dei piani... oltre che dalla disciplina e fascino e seduzione del vetro smerigliato. A seguire, e in sovramercato, il workshop Ritorno al grande formato non ignora (anzi sottolinea e esalta!) il piacere personale di comporre l’immagine sul vetro smerigliato e il gusto di usare apparecchi rigorosamente meccanici, magari costruiti con materiali, diciamo così, tattili: per esempio, con la Sinar Norma originaria, nata alla fine dei Quaranta e approdata alla soglia dei Settanta, per tanti versi protagonista delle due giornate di Pistoia [riquadro a pagina 52]. Tralasciando la concretezza della finalizzazione originaria dei corpi mobili, per intento di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini le considerazioni sulla disciplina della fotografia in grande formato di ripresa sono diventate più eteree. E per questo più affascinanti: figlie di un altro tipo di razionalità (detto meglio, di irrazionalità). «I mezzi tecnici dei quali ci si avvale condizionano lo sguardo e i risultati stessi dell’azione fotografica» (dalla sessione di introduzione ideologica e filosofica del workshop Ritorno al grande formato). Da una parte, è un vincolo di carattere “pratico”, perché le condizioni fisiche del lavoro influiscono sui propri risultati, come appena annotato; ma è anche “astratto”, perché le relazioni individuali con gli strumenti implicano personalismi che sfiorano, addirittura, il feticismo degli oggetti (evviva! e perché no?). Indipendentemente dalle questioni relative alla regolazione ragionata dei corpi mobili, che è altra questione (non qui, non ora), bisogna prendere atto che nel rapporto inscindibile tra tecnica e creatività, gli apparecchi fotografici e il proprio impiego scandiscono tempi espressivi inevitabili, ai quali consegue un dolce e appagante “attardarsi su”. E indugiare, fermarsi, temporeggiare, prendere tempo è alimentazione indispensabile all’anima, ovverosia a quel gesto d’amore che -inevitabilmente- guida ogni qualsivoglia intenzione fotografica individuale. Hai detto poco! ❖



MARK BERRY

Personalità di spicco del cinema statunitense, David Keith Lynch è nato il 20 gennaio 1946, a Missoula, nel Montana, e vive a Los Angeles: è sceneggiatore, produttore cinematografico, pittore, designer, musicista, compositore, attore, montatore, scenografo e scrittore. La sua formazione accademica è maturata nel campo della pittura; ha studiato alla prestigiosa Pennsylvania Academy of Fine Arts, di Philadelphia, dove ha realizzato il suo primo “corto”, nel 1966. Trasferitosi a Los Angeles, ha presto rivelato la sua predisposizione alla regia cinematografica, tanto che il suo film d’esordio Eraserhead, del 1977, si è subito imposto come “cult”, apprezzato sia dal pubblico sia dalla critica, rivelando immediatamente una vena surrealista e oscura. Per la regia di The Elephant Man (1980), Velluto blu ( Blue Velvet; 1986), e Mulholland Drive (2001), ha ricevuto nomination all’Oscar. Dune, del 1984, Cuore selvaggio ( Wild at Heart), del 1990, Strade perdute ( Lost Highway), del 1997, Una storia vera ( The Straight Story), del 1999, Inland Empire - L’impero della mente ( Inland Empire), del 2006, e la serie televisiva Twin Peaks, del 1990-1991, hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il francese César du meilleur film étranger, la Palme d’Or du Festival de Cannes e il Leone d’Oro alla carriera, alla sessantatreesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nel 2006.

La selezione The Factory Photographs rivela al pubblico italiano un’altra tessera dell’affascinante mosaico espressivo dello statunitense David Lynch, generalmente riconosciuto come fantastico regista: in allestimento scenico al Mast, di Bologna. L’eclettico artista ha fotografato monumenti decadenti dell’industrializzazione, edifici in laterizio decorati con volte, cornicioni, cupole e torri, finestre e portali imponenti, impressionanti nella propria somiglianza con le antiche cattedrali dell’Uomo

PILASTRI 58

DELLA TERRA


di Angelo Galantini

N

oto e conosciuto soprattutto per le sue regie cinematografiche e televisive, tra le quali spiccano titoli di primo piano (da The Elephant Man, del 1980, a Velluto blu, del 1986, alla serie cult Twin Peaks, del 19901991; e noi, di nostro, aggiungiamo anche Lost Highway, del 1997, con la relativa rievocazione di Betty Page, amica di tutte le stagioni, ricordata spesso su queste stesse pagine), David Lynch esprime una personalità creativa particolarmente estroversa: è anche sceneggiatore, produttore cinematografico, pittore, designer, musicista, compositore, attore, montatore, scenografo e scrittore. Ovviamente, per quanto condividiamo assieme, è anche fotografo. Nell’ambito del suo programma istituzionale ri-

volto alla fotografia industriale, la Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, di Bologna -Mast, in acronimo [FOTOgraphia, dicembre 2013]- ha allestito la personale The Factory Photographs, che riunisce e presenta centoventiquattro opere di David Lynch, che si accompagnano con i filmati Industrial Soundscape, Bug Crawls e Intervalometer: Steps (a ciclo continuo, nell’Auditorium del Mast). Nel proprio insieme e complesso, le fotografie industriali di David Lynch, per certa cronaca (richiesta?) in bianconero, testimoniano una particolare attrazione dell’autore per le fabbriche, la passione quasi ossessiva per comignoli, ciminiere e macchinari, per l’oscurità e il mistero. Nell’arco di tre decadi, peraltro caratterizzate da altre molteplici invenzioni creative, l’eclettico artista ha fotografato monumenti decadenti dell’industrializzazione, edifi-

Untitled (Łódź), 2000 [Archival gelatin-silver print 11x14 pollici, in edizione di 11].

59


Untitled (England), fine anni Ottanta, inizio Novanta [Archival gelatin-silver print 11x14 pollici, in edizione di 11].

Untitled (Ĺ ĂłdĹş), 2000 [Archival gelatin-silver print 11x14 pollici, in edizione di 11].

60


ci in laterizio decorati con volte, cornicioni, cupole e torri, finestre e portali imponenti, impressionanti nella propria somiglianza con le antiche cattedrali dell’Uomo (Pilastri della Terra?, da e con Ken Follett). Rovine di un mondo che va scomparendo, nel quale le fabbriche sono identificabili e configurabili come pietre miliari di un orgoglioso progresso, scenografie per storie cariche di quell’aura emozionale caratteristica del cinema dello stesso David Lynch. Tre decenni, abbiamo appena annotato. Ecco qui: le fotografie sono state scattate tra il 1980 e il 2000, a Berlino e nelle sue aree limitrofe, in Polonia, in Inghilterra, a New York City, nel New Jersey e a Los Angeles. È come se la fuliggine, i vapori e le polveri sottili che avvolgono quei luoghi si siano posate sulla superficie della carta sensibile, supporto inviolabile e irrinunciabile della Fotografia d’autore: ne conseguono

immagini di efficace potenza sensoriale, prossime ai disegni a carboncino, nelle quali il nero carico di linee nitide, grafiche, taglia il grigio scuro dei campi. L’inconfondibile cifra stilistica di David Lynch si svela/rivela in modo suggestivo nei soggetti inquadrati e composti in rigorose visioni, nelle atmosfere, nelle gradazioni di tono di mondi arcani e surreali, nelle sequenze oniriche... che evocano la visionarietà labirintica ed enigmatica che si incontra nei suoi film. ❖ David Lynch: The Factory Photographs, a cura di Petra Giloy-Hirtz, in collaborazione con la Photographers’ Gallery, di Londra. Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 40-42, 40133 Bologna; www.mast.org. Fino al 31 dicembre; martedì-domenica, 10,00-19,00. ❯ Volume-catalogo, in edizione Prestel Verlag, 2014. ❯ Selezione di ventiquattro fotografie in edizione Mast, con testi di Petra Giloy-Hirtz e Urs Stahel.

Untitled (England), fine anni Ottanta, inizio Novanta [Archival gelatin-silver print 11x14 pollici, in edizione di 11].

Untitled (Łódź), 2000 [Archival gelatin-silver print 11x14 pollici, in edizione di 11].

61


ANTONIO BORDONI


La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

novembre 2014

CONSIDERAZIONI RIFLESSIONI ANNOTAZIONI DEVIAZIONI DALLA PHOTOKINA 2014 a tre voci


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 2 volte settembre 2014)

GIUSEPPE “GEGÈ” PRIMOLI

S

Sotto ogni corona (anche quella di spine) -lo dice la storia scritta da quanti la Storia non ha ammazzato- giacciono cumuli di cadaveri e ribelli che volevano farla finita con l’arroganza tipica di re, regine, principi, generali, politici, prelati, banchieri (proletari sindacalizzati, anche), responsabili di miserie secolari, con le quali queste abiette figure hanno tenuto a catena interi popoli. C’è da dire che -qualche voltai popoli sono insorti, e hanno dato loro la sorte che meritavano. Tuttavia, è sempre stato poca cosa. La tabula rasa della nobiltà divinizzata, delle chiese monoteiste, delle cosche della politica, della finanza e dei loro servi sciocchi è stata solo rimandata a tempi migliori. I miserabili restano miserabili, anche da blasonati, primi ministri o sul pulpito dell’uomo di bianco vestito, che ride di tutto come uno scemo. Non ci sono eroi né miti per i propri camerieri (Goethe, diceva)... solo piccoli uomini che non sanno nemmeno accendere un fornello del gas... ma bene sanno ingannare le folle che li osannano, e confondono il culto della carogna con lo stile fanatico dei profeti. L’ideologia storica della rassegnazione è tutta qui. Porca puttana ladra! Come non sapere che al vertice dello stupore non ci sono che due constatazioni per raggiungere un mondo nuovo: la pedagogia della disobbedienza e la filosofia della rivolta. Cioè, fare della propria esistenza un’arte di vivere e respingere dappertutto l’infelicità. La fotografia come “arte di vivere” è sempre stata dispensata ai rampolli della nobiltà, della borghesia, della pretaglia e agli stupidi di tutte le fazioni culturali, politiche e amatoriali della società consumerista. Tutti insieme spudoratamente, per l’avvento di una fotografia utilitari-

64

«Un Uomo ha diritto di guardare un altro Uomo dall’alto, soltanto per aiutarlo ad alzarsi... la fotografia viene dopo... e questo vale anche per quei fotografi che fanno morire un bambino d’inedia, lo lasciano in pasto a un avvoltoio e incassano il premio Pulitzer»

Dal Taccuino di un fotografo di strada (P.B.) stica che possa accedere al più alto dei cieli, quello della merce. Tutti artisti e tutti in attesa spasmodica di entrare in società, danzando nella scatola televisiva. Che bello! A ciascuno, la propria incoronazione, e per tutti si aprono gli scaffali della cultura da centri commerciali. Peccato che questi dissennati del mezzo fotografico (più o meno sdoganati dal mercato) non si accorgono, né sanno, che il bene supremo risiede nella maggiore felicità per il maggior numero, e che la felicità degli altri costituisce la propria. La sola morale che ogni arte (autentica) sottende è quella di fare ciò che un artista ritiene giusto; e quello che fa, va fatto in amore per l’umanità dolente.

SUL CONTE-FOTOGRAFO DELLA “BELLE EPOQUE” La fotografia dilettantesca del conte Giuseppe Primoli, detto “Gegè” per gli amici, si dispiega tra la fine dell’Ottocento e i primi anni Venti. Le immagini del distinto protagonista della vita mondana del “bel tempo” (che pratica fino

alla morte) figurano una cartografia estetizzante di ricchi, intellettuali e poveri di passaggio. “Gegè” inventaria dame a cavallo, signori con bastone e cappello, atleti, scrittori, attrici, dandy, lustrascarpe, gite in barca, spiagge, pubblicità, palazzi... perfino Buffalo Bill, che cavalca in una piazza di Roma. Il colonnello più sopravvalutato del selvaggio West non mancò di fare visita a papa Leone XIII, fece un ingresso trionfale in Vaticano, alla testa di un variegato corteo composto da duecento attori. Indiani Sioux e cowboy domestici del Wild West Show fecero la loro bella figura; e per tutto il tempo che il circo restò a Roma, i salotti-bene si contesero Buffalo Bill. Quando partì alla volta di Firenze, lasciò un vuoto profondo, tanto nelle tavole delle gentildonne, quanto nelle mense aziendali. Il mito è sempre inferiore al dolore che disprezza e banalizza la tragica verità del reale. Nelle tante sitografie che riguardano Giuseppe Primoli, si legge: «Il conte Giuseppe Napoleone Primoli (Roma, 2 maggio 1851

- 13 giugno 1927) si sentiva egualmente romano e francese, ma soprattutto un napoleonide. Sua madre Carlotta (1832-1901), che aveva sposato, il 4 ottobre 1848, Pietro Primoli, conte di Foglia (1820-1883), era figlia di Carlo Luciano Bonaparte (figlio di Luciano, principe di Canino) e di Zenaide Bonaparte (figlia di Giuseppe, re di Napoli e poi di Spagna). Seguì gli studi a Parigi (dove la sua famiglia si era trasferita, dal 1853, e dove rimase fino al 1870), nel Collegio Rollin; fin da ragazzo, frequentò assiduamente la corte di Napoleone III, legandosi specialmente all’’imperatrice Eugenia e al principe imperiale Napoleone Eugenio. «La sua educazione francese si rafforzò e si affinò durante i frequenti e lunghi soggiorni che, anche dopo il suo ritorno a Roma, fece a Parigi, fino ai suoi ultimi anni di vita. A Parigi, aveva un suo appartamento, in Avenue du Trocadéro, ma frequentava molto spesso il salotto della zia, principessa Mathilde Bonaparte, in rue de Berry, o, d’estate, nella tenuta di Saint-Gratien. Lì ebbe modo di incontrare tutti o quasi gli scrittori e i poeti più celebri del tempo (Ernest Renan, Théophile Gautier, i Goncourt, François Coppée), e stringere amicizia con molti di loro. D’altra parte, a Roma, oltre all’alta società, di cui fu personaggio di spicco per le sue doti di conversatore colto e spiritoso, frequentò anche gli ambienti letterari che gravitavano intorno alla rivista La cronaca bizantina e al giornale Il capitan Fracassa: divenne amico di Enrico Nencioni, Cesare Pascarella, Arrigo Boito e Giacosa; fu amico, confidente e consigliere ascoltato di Gabriele D’Annunzio. «Questa sua intensa vita mondana, insieme con la sua grande abilità di fotografo, di bibliofilo, di collezionista, di stendhaliano, ne fecero un raffinato di-


Sguardi su lettante, più che un letterato. Egli ebbe certamente più gusto di lettore che talento di scrittore, anche se le poche cose da lui pubblicate risultano tutt’altro che mediocri. Ma, soprattutto, ne fecero un eccellente “intermediario” fra la cultura francese e quella italiana, un punto di riferimento in Francia per gli scrittori e artisti italiani, con cui fu legato (Verga, Serao, D’Annunzio, Eleonora Duse, fra gli altri), e a Roma per gli scrittori e artisti francesi, che spesso ospitava nel suo Palazzo (Guy de Maupassant, Paul Bourget, Alexandre Dumas figlio, Sarah Bernhardt). Divenne, nella Parigi della “Belle Epoque”, e nella Roma “bizantina”, il notissimo “Gegè” per i tanti amici più o meno interessati, perché egli fu anche, a suo modo, un “mecenate”, pronto a soccorrere giovani talenti e vecchie celebrità. «Inoltre, il suo gusto e le sue possibilità finanziarie, gli permisero di collezionare, nel suo Palazzo romano di via Zanardelli (da lui fatto restaurare e ampliare, nel 1904-1911, dall’architetto Raffaello Ojetti), una quantità enorme di libri rari, di quadri, di statue, di suppellettili, di reperti archeologici, privilegiando anche qui tutto ciò che riguardasse la sua ramificatissima famiglia materna, dal Primo al Secondo Impero. Ed è dunque per tutte queste ragioni, genealogiche e affettive, che egli, con il suo testamento, dispose che nel suo Palazzo venisse costituita una Fondazione, con la sua Biblioteca. Al tempo stesso, dispose che in una parte del piano terreno venisse costituito, con tutti i suoi quadri, mobili, arredi, documenti, un Museo Napoleonico, ceduto, dopo la sua morte, al Comune di Roma, che tuttora lo amministra. «Il conte Primoli collaborò, con alcuni articoli di carattere storico-letterario, e con suoi ricordi su personaggi della sua famiglia, a vari giornali e riviste, francesi e italiani: La Revue Hebdomadaire, Revue des Deux Mondes, Revue de Paris, Napoléon - Revue

des Études Napoléoniennes, Conférencia, Carità e Lavoro, Il Fanfulla della Domenica. Pubblicò un breve libro soltanto: Une promenade dans Rome sur le traces de Stendhal (Parigi; Champion, 1922). E scrisse la prefazione alle Lettres inédites de Flaubert à la princesse Mathilde (Parigi; Conard, 1927). Notevole è la pubblicazione postuma: Joseph-Napoléon Primoli, Pages inédites. Recueillies, présentées et annotées (Roma; Marcello Spaziani, Edizioni di Storia e Letteratura, 1959), che contiene molti ed ampi estratti del suo Journal» [n Rete, sono tante le biografie del conte Giuseppe Primoli, seguite da attestazioni di stima intellettuale, citazioni colte (?), affermazioni sacrali sul suo farefotografia... inconsistente]. Ci rendiamo conto che la nostra lettura di questo monumento della storiografia fotografica, non solo italiana, molto diverge dall’inclinazione dominante all’instaurazione del santo: noi, nelle immagini del buon “Gegè”, vediamo -invece- l’elogio della patria, di Dio, della famiglia (borghese), della ricchezza, del dominio dell’Uomo sull’Uomo. I poveri sono solo una tappezzeria necessaria e un passatempo domenicale, che bene vengono in fotografia, specie per i loro vestiti stracciati. L’immaginario fotografico del conte Primoli è una lavanderia dei soprusi di una classe (quella “nobile”) sugli Ultimi, gli Indifesi, gli Svantaggiati. La superficialità, come la stupidità, ha sempre una propria giustificazione nell’economia della vita violentata, assoggettata e rapinata. Quando uno è troppo ricco, mio padre, diceva, vuol dire che ciò che ha l’ha rubato a un altro. Comunque, di fronte a tanta storia nobiliare, si resta atterriti. Dittatori, re, regine, generali e scrittori di fama mondiale attraversano l’esistenza di questo dilettante in tutto; e la fotografia, che è uno strumento per iloti e geni incompresi, non poteva non entrare nelle lunghe giornate annoiate di questo dandy, senza il tragico di Baudelaire, la

genialità di Wilde o la follia di Artaud: chi non sa dire grazie, e non si toglie il cappello davanti a chi non ha voce né volto, non merita favori. Là dove l’umanità è in cammino, il diritto alla felicità non può essere di una sola classe, ma del maggior numero; e solo chi ha veramente vissuto il sangue dei giorni, una volta, rivivrà e conoscerà l’innocenza del divenire.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA NOBILTÀ IN NAFTALINA L’uso mercantile della fotografia presuppone l’infeudamento del sapere, e aderisce al negativo che la abita. Come ogni arte, la fotografia che ha cessato di resistere deve essere sconfitta, sostituita da un’altra che resisterà. Il fotografo libertario mostra un atteggiamento, un comportamento, un modo di essere, un temperamento. Fotografare il Vero, l’Autentico, il Bello vuol dire conoscere il dispendio dell’uguaglianza (dalla fraternità, dall’accoglienza), e compiere il percorso creativo che porta alla libertà e al godimento di sé; ovvero, passare da una fotografia di resistenza a una fotografia d’insubordinazione. «L’angelo della rivoluzione, più che mai necessario, è dimentico di costoro, dei dannati, dei reprobi e degli schiavi per i quali, ancora e sempre, occorre ricordare la necessità di una mistica di sinistra che ispiri afflati, desti energie, rafforzi refoli per farne tempeste» (Michel Onfray: La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione; Fazi Editore, 2008). La religione della Borsa va respinta, insieme ai moralismi di ogni epoca: siate decisi e non servite più... e sarete liberi. A studiare con la necessaria attenzione la fotografia di “Gegè” Primoli non è difficile scorgere le “virtù” di una dinastia di serpi annidiate nelle “teste coronate” della vecchia Europa, e denudare la sua visione consolatoria della “Belle Epoque”, franata sotto i milioni di morti della Prima guerra mondiale, e la restaurazione del potere con la me-

desima ferocia di sempre, compresa la rivoluzione d’Ottobre del Diciassette, quando Lenin e Trockij inviarono l’Armata Rossa (guidata da Michail N. Tuchačevskij, fucilato poi dagli sgherri di Stalin, nel 1937) a massacrare gli insorti di Kronštadt, colpevoli di aver proclamato la nascita della Repubblica di Kronštadt su basi federative o anarco-comuniste. Correva l’anno 1921. Il buon “Gegè” fotografa l’attorialità del privilegio, e qua e là s’accosta al quadretto popolare: così, per diletto e curiosità verso quanti non avevano nemmeno un pezzo di pane da buttare sulla tavola. Mette sotto naftalina (nello zuccherificio della ragione) i ricchi, e lascia i poveri nell’immondezzaio della storia, senza sapere mai che l’arte o racconta il dolore della vita quotidiana e la ricerca della felicità del maggior numero o non è niente. A volte, anche in fotografia, occorre passare l’arma a sinistra, che qui non significa “tirare le cuoia” (come dicono i francesi), ma intraprendere un’autentica azione sovversiva. A entrare nelle pieghe visuali del rizomario fotografico del “Gegè”, bene si vede l’esibizione estetica e il fascino del provvisorio che guidano il fotografo nella sua ricerca (si fa per dire). Nobildonne di bianco vestite e uomini in nero, con cappelli e pagliette, sono ripresi in gradevoli passeggiate, mentre leggono un libro, vanno in gondola a Venezia e alle corse dei cavalli a Roma; le bambine sono carine, pulite, attaccate al loro cane, mentre le mamme gioiose fanno l’altalena; gli intellettuali, come è di rigore, posano pensosi (forse riflettono sulla cifra dell’assegno ricevuto in cambio delle loro servitù); gli ombrellini da sole coprono le signore da sguardi indiscreti; re, regine, nobili e servi sembrano interpretare una commedia in costume, e non la rappresentazione del crimine che la loro casta incarna. Il caro “Gegè” nemmeno sa che la vera bellezza artistica fuoriesce da ciò che stimola la vita, e non da

65


Sguardi su BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero

GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA

049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it

BUON OCCHIO!

HOODLOUPE 3.0 Professional

Utile strumento per osservare il proprio schermo LCD in modo ottimale, in qualsiasi condizione di luce. Può essere portato agevolmente al collo, oppure in vita, legato alla cintura. www.ramaidea.it

quanto la riduce a un’operetta. Le immagini dei poveri sono scure, spesso in ombra. I mendicanti, inchiodati davanti al portone di un palazzo regale; le donne fanno la calza, sull’uscio della loro misera casa; le famiglie vendono il pane agli angoli della strada. Processioni, bande musicali, parate militari, castelli, ville, giardini... “bella gente” dappertutto. Il conte-fotografo raggiunge qui la beatitudine, senza mai avere piena coscienza della vita stessa. Dolci controluci, bambini allegri, residenze magnificenti; qua e là, infila qualche frammento di miseria ordinaria, ma tutto è filtrato da uno sguardo che non conosce l’etica visiva della compassione (o pietà laica), che arriva fino alle stelle. Una classe sociale (quella “nobile”) che non ha prodotto un solo genio autentico (solo guerrafondai, rapinatori, bancarottieri, tuttalpiù qualche fotografo dilettante) non può essere in alcun modo difesa, ma va aiutata a crollare. L’apologia del personaggio attraversa l’intero inventario di Giuseppe Primoli: Charles Gounod, Mathilde Bonaparte, Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao, Eleonora Duse, il conte Napoleone, Umberto I, la principessa Maria Letizia Bonaparte Aosta, la marchesa di Ljaten, il principe Emanuele Filiberto, monsignor Duchesne, Edgar Degas. Scenette amorose costruite per il giubilo dell’erotismo all’acqua di rose... sono il prontuario estetico apprezzato da molti storici, critici, galleristi, fotografi. Dio, lavoro, patria, famiglia, gloria, onore -di una “classe”, s’intende- sono apostrofati con la leggerezza del coglione che si abbandona alla gioia della fotografia, senza mai chiedersi la morfolologia della fame e le interazioni tra fotografo e vita quotidiana. La visione narcisistica di “Gegè” Primoli è propedeutica al gazebo gentilizio nel quale è stato allevato. L’allegoria, il simbolismo, l’evocazione, il sottinteso, l’allusione, la maschera, la scenografia, la moltiplicazione dei ruoli... tut-

ta la galleria fotografica del conte Primoli è un canto sepolcrale, un viatico entusiastico che vede il mondo come estetizzazione di una civiltà che odora di vecchio: l’ultimo rantolo di un’élite aristocratica, che di aristocratico aveva solo medaglie e pennacchi e non conosceva nemmeno il bidet. L’inquadratura larga, la distanza eccessiva, la modestia del pensiero affabulativo fuoriescono in ogni immagine del blasonato “Gegè”. Non c’è contatto tra fotografo e soggetti, nel suo monumentale archivio. La realtà che cade nelle sue fotografie è organizzata come totalità chiusa, artificiale, simulata; non c’è condivisione del desiderio, né amore verso il diverso da sé, ma tutta una casistica di dominazioni e sottomissioni degli esclusi a favore di benevolenze istituzionali, moralistici, religiosi, che per secoli hanno poggiato il loro delirio di potere sulla frusta e l’aspersorio. C’è un dio e uno stato al principio e alla fine di ogni genocidio. Il fotografo può diventare un essere umano, e diventare un essere umano significa negarsi come servo del lavoro, dell’arte e del potere, per affermare il diritto di ognuno di creare il proprio destino. Il commercio delle idee determina il commercio degli uomini. Ogni volta che è stata incensata, la fotografia mercantile ha riprodotto il peggio. Il trionfo del brutto, anche se conclamato dall’ufficialità come “artistico”, finisce sempre in un’amara disfatta del bello. Il potere non è solo sulla canna del fucile, ma in tutte le forme di comunicazione prone alla sua continuazione. La fotografia della consolazione è un omaggio al divieto (del vero), e offre una via d’uscita all’oppressione. La fotografia infernale non è l’immagine del dolore: è l’immagine che esprime la sofferenza e denuncia l’ipocrisia. Là dove la forza autoritaria devasta tutto al suo passaggio, occorre ostentare una forza libertaria che spezza l’impero dell’identico e nasce proprio là dove il diverso è proibito. La fotografia autentica rende liberi. ❖




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.