FOTOgraphia 207 dicembre 2014

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ANNO XXI - NUMERO 207 - DICEMBRE 2014

23 novembre 1936 LA LEZIONE DI LIFE Fujifilm X100T TERZA GENERAZIONE


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NOI NON CI SAREMO. Avremmo tanto voluto che le istituzioni italiane della fotografia (ma dove sono? cosa fanno? con chi stanno?) si fossero occupate del centosettantacinquesimo anniversario: 1839-2014. Abbiamo sperato che la ricorrenza, per quanto avrebbe potuto farlo, venisse finalizzata a una promozione della materia, così tanto ignorata nel nostro paese. Allo stesso momento, abbiamo assistito a altre rievocazioni, a altre memorie internazionali: nel solo ambito della Photokina 2014 -sul cui svolgimento abbiamo riflettuto lo scorso novembre-, c’è stato qualcosa da parte di qualcuno. Da noi, silenzio: come, del resto, fu silenzio per la più sostanziosa meta dei centocinquanta anni, nel 1989, che sono stati celebrati universalmente.

STAND

TETENAL (FOTOGRAFIA DI ANTONIO BORDONI)

prima di cominciare La fotografia a viso aperto è forse lo strumento espressivo più adatto per scompaginare quest’universo dell’inganno prolungato. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Gli utensili della fotografia sono belli se e quando e per quanto funzionano anche bene, e viceversa. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 26 Così che, anche per il fotogiornalismo moderno, databile dalla fine degli anni Venti, si devono considerare e conteggiare condizioni tecniche di base. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 45

PHOTOKINA 2014:

Sessantotto! Curiosa coincidenza. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 54

Copertina Se ancora servissero conferme, che -ahinoi- sono superflue, anche questa ennesima amnesia (?) e trascuratezza potrebbe aggiungersi al consistente capitolato delle prove che rivelano quanto nel nostro paese contino più le apparenze e le parole a vanvera dei contenuti (e non soltanto in riferimento al microcosmo fotografico, dal quale osserviamo e entro il quale agiamo). Da cui, rimanendo circoscritti entro i confini statutari che ci competono (?), riscontriamo come e quanto il fingere di occuparsi di fotografia sia spesso (sempre?), un modo per stabilire l’appartenenza a una comunità confortevole e complice, all’interno della quale trovare consolazione individuale. Un esempio esaltante di questa considerazione sono i circoli fotografici dei nostri giorni, che compongono i tratti di un sostanzioso soccorso individuale, estraneo a qualsivoglia approfondimento e a ogni possibile comprensione del diverso (in libero adattamento, da e con il filosofo Gianni Vattimo, che ha concluso il suo convincente Addio alla verità, pubblicato nel 2009, annotando che «Si dà verità solo come manifestazione di una comunità»). Ovvero, in ogni propria forma, da quelle su base commerciale a quelle indirizzate all’immagine, l’associazionismo fotografico italiano interpreta soltanto la filosofia ai tempi del relativismo, nei quali «È vero ciò che funziona [...], ciò che va bene per la nostra comunità, piccola o grande che sia: la comunità locale, la comunità degli scienziati, la nostra parte politica, la classe» (Gianni Vattimo). Comunque, per anagrafe, non avremo modo di occuparci del bicentenario della fotografia, 1839-2039. Noi non ci saremo. mF

1839-2014: Centosettantacinque anni di Fotografia, conteggiati dalle date ufficiali del processo originario del francese Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale tutto ha avuto inizio (anche se -va dettola fotografia dipende dal processo negativo-positivo di William Henry Fox Talbot). Da un francobollo austriaco con l’obiettivo Petzval, del 1840 (a pagina 38, il francobollo intero), oggi rivitalizzato dalla interpretazione Lomography Petzval 85mm f/2,2 per reflex Canon e Nikon, della quale riferiamo da pagina 34. In ogni caso, e in rilancio dovuto (forse)!: 1840-2015... altri Centosettantacinque anni

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio da una foglio Souvenir emesso dalle Poste statunitensi, il 10 settembre 1998, in una serie filatelica di dieci soggetti che ha scandito le decadi del Novecento: puntualizzate da accadimenti significativi... ovviamente, dal punto di vista statunitense. Per gli anni Trenta, e per quanto ci riguarda, nascita di Life e Migrant Mother, di Dorothea Lange

7 Editoriale Basta! Basta! Non ne possiamo più!... di analisi (?) e parole espresse soltanto a tutela di privilegi liturgici

8 FOTOgenia L’attento Giancarlo D’Emilio ha attivato un affascinante contenitore di formazione, eventi e attrezzature

10 Così è: Samsung NX1 Da una parte, le sue caratteristiche di profilo alto; dall’altra, nostre considerazioni complementari


DICEMBRE 2014

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

12 Life di contorno

Anno XXI - numero 207 - 6,50 euro

Copertine false nel film I sogni segreti di Walter Mitty Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

16 Sondaggio TIPA 2015

Maria Marasciuolo

Tra i lettori delle riviste associate a TIPA. Con premi

Antonio Bordoni Angelo Galantini

REDAZIONE

20 Che la pellicola viva!

FOTOGRAFIE

Lettera aperta del regista Martin Scorsese a favore del cinema con pellicola. Va detto: rilevazioni di passione

SEGRETERIA

Rouge

Maddalena Fasoli

HANNO

22 Sputnik (спутник) Dal 1960, per fotogrammi 6x6cm stereo accoppiati a cura di New Old Camera

24 Terza generazione Evoluzione consequenziale della X100S (lo scorso novembre... questa/quella!), l’attuale Fujifilm X100T conferma -ribadendoli- i valori di una interpretazione fotografica nella propria sostanza entusiasmante

28 Alla fin fine Con la pubblicazione del quarto volume/monografia L’età contemporanea 1981-2013 si completa il ciclo La Fotografia: avvincente e convincente Storia raccontata dall’autorevole Walter Guadagnini

34 Dal passato, con amore Per tanti versi, annotazione in cronaca dell’obiettivo Petzval 85mm f/2,2 per reflex Canon e Nikon. Per il vero, opportunità per una competente retrovisione verso un progetto ottico delle origini: dal 1840 di Antonio Bordoni

42 La lezione di Life Settantotto anni fa: il 23 novembre 1936 viene pubblicato il primo numero del settimanale illustrato che ha influito sul fotoreportage del Novecento... e oltre. Annotazioni di Maurizio Rebuzzini

54 Fu con magia

COLLABORATO

Pino Bertelli mFranti Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Una monografia straordinaria ripercorre il senso di 2001: Odissea nell spazio, il film di Stanley Kubrick che ha cambiato la percezione universale del cinema di Angelo Galantini

65 A domande... risponde Risposte ereticali a domande in attesa di risposta di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale B

isogna intendersi. Bisogna capirsi. Sì, prima di tutto, bisogna proprio conoscersi. Su queste pagine, cerchiamo di non esprimere mai opinioni e concetti “al negativo”, contro qualsivoglia circostanza. Poi, in effetti, siamo inflessibili con i comportamenti, comunque mai con gli oggetti, qualsiasi questi siano. Così, con frequenza (purtroppo) allarmante, registriamo la negatività di talune condotte, che disattendono i propri accordi: a partire da molte istituzioni della fotografia che non assolvono i propri compiti. Allo stesso momento, non ci scagliamo contro nulla (magari verso qualcuno), perché nessun manufatto è mai inadempiente. Allora, la questione è presto chiarita, intesa, conosciuta: non ne possiamo più delle parole che si pronunciano “contro”, nel senso di tutela e protezione di situazioni pre-concette. Non ne possiamo più di quanto è articolato a proposito di presunte nefandezze del presente, alla luce di luminosità (?) precedenti. Così, con la pacatezza della quale andiamo fieri e orgogliosi, in questo stesso numero della rivista, relazioniamo di situazioni e condizioni apparentemente differenti, ma sostanzialmente coerenti. Anche solo in termini tecnici, da una parte, conteggiamo note entusiastiche riguardo due novità commerciali (Samsung NX1, a pagina dieci, e Fujifilm X100T, da pagina ventiquattro); quindi, con identica intenzione, registriamo note in qualche misura retrospettive (difesa della pellicola fotosensibile, a pagina venti, storicità, premesse e attualità mercantile del disegno ottico Petzval, da pagina trentaquattro). Se anche così volessimo vederla, potremmo conteggiare una sorta di par condicio tra passato e presente. Ma non è affatto così! Molto più tangibilmente, si tratta di criterio con il quale affrontiamo e presentiamo la materia che avremmo promesso di svolgere: la Fotografia. Infatti, niente ha bisogno di essere difeso, e tantomeno da noi, ma tutti dobbiamo avere voglia di riflessioni e osservazioni utili al nostro percorso nella e con la fotografia. Addirittura, ne siamo affamati. Tutti attenti! Siamo perfettamente consapevoli di due condizioni coabitanti: anzitutto, qualsiasi tecnologia è per propria definizione “angelo”; quindi, qualsiasi tecnologia si aggiunge alle precedenti, assommando a queste le proprie prerogative. Se anche così vogliamo vederla, consideriamo insieme quanto tanto è stato offerto alla fotografia e al video dalle applicazioni intelligenti dell’acquisizione e gestione digitale di immagini, oltre che dalla moltiplicazione esponenziale delle prestazioni dei relativi utensili: un antico sogno che si è realizzato! Se poi questo si accompagna con malaugurate nefandezze di impiego, consideriamo che si tratta di un prezzo legittimo da pagare. A conclusione: nessuno è obbligato ad agire in un senso, piuttosto che in un altro. Ma tutti siamo invitati a quell’onestà intellettuale che ci impone di non difendere privilegi liturgici. Infatti, mezzi a parte, o mezzi coinvolti, non importa: (da e con Pino Bertelli) «Da nessuna parte è l’arte, se al centro della propria espressione non mette la verità e la felicità dell’intera umanità». Maurizio Rebuzzini

Da pagina ventiquattro e da pagina trentaquattro, su questo stesso numero. Contraddizione nei termini? Parità di trattamento, per stare con tutti (a propria convenienza)? No, niente affatto! Molto più prosaicamente, osservare piuttosto che giudicare: saper contestualizzare tutto entro propri confini statutari. Né pro, né contro nulla: ogni tecnologia offre qualcosa... basta saper cogliere. Nessuna tecnologia è “diavolo” (e, casomai, “diavoli” possono esserlo coloro i quali le utilizzano in malo modo); tutte le tecnologie sono “angeli”, che si offrono per quanto promettono di essere. Nulla di più, né diverso. In ogni caso, l’unico dibattito sulla fotografia che merita la nostra attenzione è quello su se stessa e i propri contenuti. Da e con Pino Bertelli: «Da nessuna parte è l’arte, se al centro della propria espressione non mette la verità e la felicità dell’intera umanità».

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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)

Anche coinvolti, forse addirittura complici, raccontiamo qui di FOTOgenia, senza lasciarci compromettere da alcun personalismo, da alcuna partecipazione ideologica diretta. Al solito, e come sempre, interpretazione giornalistica indipendente, casomai favorita (ma non già guidata) dalla conoscenza diretta dei fatti, dalla padronanza dell’argomento. Del resto, se così non fosse, sarebbe umiliante per entrambe le parti in causa: anzitutto, per la visione di Giancarlo D’Emilio, che stiamo per presentare e commentare; quindi, per il nostro affrontare la fotografia e le sue molteplici personalità vitali. Ancora, sarebbe avvilente, oltre che non legittimo, per chi legge e ascolta. FOTOgenia, che ci ha onorati di un omaggio grafico e di compilazione che riprende la sequenza con la quale identifichiamo la nostra testata, è un convincente contenitore fotografico entro il quale l’ideatore Giancarlo D’Emilio, di Pistoia, include almeno tre momenti coincidenti e coabitanti: formazione, eventi e attrezzature. Di fatto, racchiude quanto già sta facendo in fotografia, quando ha già maturato con esperienze consistenti e convincenti. La caratteristica fondante, che distingue la sua presenza nel mondo della fotografia da ogni altra a noi nota, è che la redditività di impresa non condiziona nessuna delle sue azioni. Questa stessa redditività è in essere, senza peraltro influenzare, né suggestionare, alcun suo momento, sia chiaro! Facciamo un esempio, che sia chiarificatore. Tra le sue molteplici personalità in fotografia, Giancarlo D’Emilio partecipa a mercatini antiquari, allestendo una offerta a dir poco particolare, che non punta tanto sulla quantità di proposte, quanto sull’intelligente selezione di strumenti fotografici. Senza scontrarsi su terreni sovrani dell’antiquariato fotografico, Giancarlo D’Emilio è orientato verso la camera oscura, le attrezzature per il medio e grande formato fotografico e la fotografia creativa a sviluppo immediato. Senza darlo a vedere (forse), abbiamo seguìto con attenzione le sue consultazioni con clienti potenziali.

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ALTIN MANAF

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FOTOGENIA

Da una parte, rivela sempre una sostanziosa competenza, che approda alla completa soddisfazione dell’utente, qualsiasi questo sia; da un’altra, è capace di indirizzare le scelte senza lasciarsi condizionare da proprie potenziali convenienze. Tanto è vero che, di fronte alla latitanza di talune attrezzature, Giancarlo D’Emilio produce in proprio e a affronta discorsi anche individuali: restauro di antichi apparecchi in legno, riconvertiti all’applicazione odierna di antichi processi chimici della fotografia, progettazione di vasche di lavaggio per copie bianconero, realizzazione di efficaci bromografi a luce Led, per la stampa a contatto di negativi bianconero di dimensioni generose (magari con indirizzo a processi raffinati: per esempio, al Platino/Palladio e dintorni). Quindi, in prosecuzione di intenti e capacità, Giancarlo D’Emilio svolge incontri formativi per i quali esprime doti didattiche fuori dal comune. Lo affer-

Giancarlo D’Emilio, che ha dato avvio all’entusiasmante programma FOTOgenia, per certi versi esordito con il convincente workshop Ritorno al grande formato, del quale abbiamo riferito in tre occasioni conseguenti (in FOTOgraphia, degli scorsi luglio, settembre e ottobre), ha la capacità di conciliare sue personalità coabitanti nella fotografia: formazione, eventi e attrezzature.

miamo con consapevolezza e competenza: a differenza di molti (noi, tra questi: sia detto per inciso), la sua scienza di insegnamento non esprime perizie teoriche che creano distacco, ma rivela una concreta autorità di esperienze immediatamente percepite e acquisite dall’interlocutore. Detta meglio: usciti da altri incontri del tipo, per esempio usciti da quelli che svolgo io (ne ho coscienza), i partecipanti sono più carichi di dubbi e incomunicabilità del dovuto. Al contrario, usciti dai suoi incontri, i partecipanti sono arricchiti di certezze e sicurezze che possono essere tradotte immediatamente nei rispettivi percorsi fotografici individuali. Nel concreto, quindi, quello giusto è il suo approccio, quella legittima è la sua didattica di formazione, che si fa carico del fedele svolgimento dell’incarico preordinato. Di questo debbono essergli grati gli interlocutori, almeno tanto quanto noi desideriamo avvicinarci a tanta superiorità didattica. Ciò detto, e inclusi anche gli eventi che Giancarlo D’Emilio ha organizzato e svolto (per esempio, è fuori dall’ordinario, il ciclo di incontri Alla fotografia chiediamo solo sessanta minuti, alla Biblioteca San Giorgio, di Pistoia, lo scorso ottobre), il suo attuale allungo verso il contenitore FOTOgenia, che abbraccia tutto questo senza alcuna soluzione di continuità, è encomiabile. Infatti, le trasversalità e i rimandi che questa personalità possono esprimere sono decisamente meritori, perché frutto di una visione che allaccia tra loro le più concrete e tangibili contemporaneità del vivere la fotografia. Da notare, ancora, ma non infine (perché tanto e tanto ci sarebbe ancora da registrare), che Giancarlo D’Emilio / FOTOgenia è l’autentico e indiscusso regista e interprete di quell’ipotesi di Ritorno al grande formato, della quale, da queste pagine e su queste pagine, ci siamo occupati in tre tempi successivi: due in anticipo sullo svolgimento della prima edizione del workshop (gli scorsi luglio e settembre), una in relazione delle prime due giornate, a Pistoia, a fine settembre (FOTOgraphia, ottobre 2014). ❖



Sentite questa di Antonio Bordoni

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Riguardo le caratteristiche tecniche della nuova configurazione Samsung NX1 c’è poco da aggiungere. Si esprimono da sole e stabiliscono i termini della sua presentazione ufficiale. Proclamando La nuova era della fotografia, Samsung sottintende una personalità tecnicocommerciale capace di distinguersi sul mercato fotografico, al quale offre una interpretazione della quale fare prezioso tesoro: sia per se stessa, sia in una economia di scala che dà lustro e merito all’intero comparto. In questo senso, che anticipa un’altra nostra declinazione, che stiamo per manifestare, i termini ufficiali sono più che sostanziosi. Se soprattutto questo stabilisce la cadenza degli utensili della fotografia, registriamo un sensore di acquisizione digitale di immagini in dimensione APS-C della categoria BSI Cmos, da 28,2 Megapixel effettivi di risoluzione. Il mirino di visione reflex EVF (Oled) si allinea a un display posteriore di tre pollici (76,8mm) Super Amoled Touch, inclinabile, da 1,036 Megapixel. Per acquisizioni in file Jpeg o grezzi Raw, la Samsung NX1 offre una gamma di sensibilità estesa fino a 25.600 Iso equivalenti, più una integrazione in aumento,

ALTIN MANAF

COSÌ È: SAMSUNG NX1

Venerdì diciannove settembre, in avvicinamento alla Photokina 2014: dal lunotto dell’automobile, affissione Samsung NX1 di grandi dimensioni, con still life di straordinaria qualità... come da tempo non ne vedevamo.

Samsung NX1: nuova configurazione fotografica di profilo alto, che si propone e offre come Nuova era della fotografia. A parte l’autoconsacrazione, da parte nostra registriamo un’altra consistenza che ci ha colpiti ed emozionati. Hai detto poco!

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a 51.200 Iso equivalenti. Ovviamente, non manca la possibilità di registrazione video, nelle estensioni UHD e Full HD. Attenzione, però... poco di tutto questo fa una qualsivoglia differenza da registrare. Per quanto accettiamo di buon grado l’autoconsacrazione (legittima!) di nuova era della fotografia, ci permettiamo una osservazione trasversale. Al pari di altre personalità di origine elettronica, fresca entrata nel comparto fotografico, per la presentazione e il lancio di questa sua novità NX1, Samsung sta declinando consistenze e sostanze fotografiche da tempo abbandonate da ogni altra produzione fotografica, anche da quelle che siamo soliti identificare come tradizionali, classiche, storiche, radicate. Nulla di che, forse (ma non è proprio vero). Richiamiamo le illustrazioni con le quali la Samsung NX1 è proposta al pubblico: sia negli annunci pubblicitari (e queste note sono assolutamente indipendenti, sia chiarito e detto per inciso), sia nelle affissioni di grandi dimensioni che hanno accompagnato lo svolgimento della Photokina 2014. Le richiamiamo perché è da tempo che non incontriamo raffigurazioni tanto accurate nella propria armonia visuale. Precisato che l’utensile per la fotografia può essere promosso sia per se stesso sia per quanto crea (a ciascuno, le proprie linee di comunicazione), i richiami Samsung NX1 declinano still life dell’oggetto con una correttezza fotografica di grande discendenza, che riconcilia con quel rigoroso lessico della

fotografia che ha contribuito a scrivere capitoli fondanti della storia del design, a propria volta capitolo sostanzioso della storia della vita. Oltre la promessa delle sue consistenti caratteristiche tecniche, che assicurano prestazioni di alta qualità formale, la colta raffigurazione della Samsung NX1 arricchisce il nostro comparto di illuminazioni confortevoli. Diciamola anche così: personalmente, ci sono tornate alla mente le lezioni fotografiche con le quali lo studio Ballo + Ballo (di Aldo Ballo e Marirosa Toscani Ballo) ha scandito i tempi del design e dell’architettura e dell’arte del secondo Novecento! Se ce lo consentite, questa personalità va annotata, apprezzata e stimata. Almeno in questo modo, noi interpretiamo il nostro ruolo, che peraltro rivendichiamo con convinzione. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, da e con Pino Bertelli, da FOTOgraphia dello scorso novembre: «Il rondò di FOTOgraphia è quasi una partitura musicale [...]. A scorrere le pagine di FOTO graphia si può vedere l’importanza conoscitiva dei prodotti/strumenti fotografici che consiglia, studia, argomenta. La trattazione non è mai superficiale, dovuta e circostanziale; si parla di fotografia e di linguaggio fotografico anche quando si analizza un obiettivo, una macchina fotografica, un utensile per fare immagini. Non è questione di competenza e basta, si tratta di amore per la fotografia... e, quindi, di intrattenere e prolungare il rapporto con il lettore, quale che sia». ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

LIFE DI CONTORNO Commovente: l’ultima copertina di Life, nell’invenzione scenica del film I sogni segreti di Walter Mitty.

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Del recente film I sogni segreti di Walter Mitty -nelle sale italiane dallo scorso dicembre 2013 e subito disponibile in Dvd, per una comoda e confortevole visione domestica-, abbiamo già riferito in due occasioni: gli scorsi maggio e giugno, con scomposizione guidata e indirizzata da rispettive considerazioni. Dunque, non è il caso di approfondire ancora i suoi termini identificatori, né di ribadire il suo alto tasso fotografico, in relazione al quale arriva il nostro intervento, che -ancora qui e anche qui- si accompagna con una sostanziosa raccomandazione: fosse anche soltanto per il suo passo “fotografico”, basato su vicende evocate (e inventate di sana pianta) attorno l’edizione di Life, è uno di quei film che debbono essere conosciuti da coloro i quali vantano una propria frequentazione della materia... ovviamente, fotografica. Oggi, torniamo a occuparcene, in appoggio alle considerazioni che esprimiamo per il settantottesimo anniversario dal primo numero di Life, del 23 novembre 1936 (da pagina 42).

Sceneggiato sulla base di un racconto di James Thurber, del 1939 (La vita segreta di Walter Mitty, in edizione italiana Rcs Libri), l’attuale recente adattamento cinematografico, diretto e interpretato da Ben Stiller, è sostanziosamente diverso dalla prima trasposizione, del 1947, con Danny Kaye (in Italia, Sogni proibiti ). Si confermano i voli pindarici in mondi di fantasia, particolarmente vividi nei momenti di stress; ma è completamente rivista l’ambientazione. In ripetizione, Walter Mitty (Ben Stiller) è editor fotografico di Life, in una situazione trasportata quattro decenni dopo la realtà dei fatti ipotizzati; magia del cinema, la prospettata chiusura di Life, per la quale si deve provvedere all’ultimo numero, vola dal 1972 reale al 20122013 di ambientazione sceneggiata. Una sostanziosa parte del film è collocata negli uffici meticolosamente ricreati del settimanale, alle cui pareti fanno bella mostra di sé una serie di copertine, che coprono decenni successivi di edizione. Ed è questo il soggetto esplicito, oltre che implicito, di

24 novembre 1952. Dal reportage realizzato da Peter Stackpole, in Nuova Scozia, nel 1952. Primo dicembre 1952. Una delle più celebri raffigurazioni del cinema 3-D, realizzata da J. R. Eyerman, a Hollywood, il 26 novembre 1952. 16 marzo 1953. Nella realtà, la prima copertina che Life riservò a Marilyn Monroe data 7 aprile 1952 (di Philippe Halsman). In questa rievocazione filmica, un ritratto di Alfred Eisenstaedt, del maggio 1953.

25 marzo 1946. Un classico del fotogiornalismo di Life, una delle icone del Novecento. Il ritratto del Mahatma Gandhi realizzato da Margaret Bourke-White, nel 1946. 26 novembre 1951. Ritratto del fotografo Dennis Stock, generalmente presentato come The Photojournalist (con Leica IIIf, Summitar 50mm f/2 e mirino aggiunto), di Andreas Feininger.

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Cinema questo attuale nostro terzo ritorno sul film I sogni segreti di Walter Mitty. Infatti, assolutamente raffinate, perfino colte (sia in senso assoluto, sia in riferimento fotografico), nel proprio insieme alcune delle copertine visualizzate sono per lo più false. Ovvero, sono copertine che avrebbero potuto essere state pubblicate nei rispettivi tempi, ma non lo furono. Delle due, probabilmente, entrambe: scenografi e costumisti hanno liberato proprie opinioni sulla cronaca dei tempi passati, e hanno anche reso giustizia (oltre che omaggio) a fotografie meritevoli, colpevolmente (?) tenute da parte. Quindi, subito una nostra annotazione d’obbligo: non ci interessa per quale motivo siano state confezionate queste copertine false, perché ci basta sottolineare il gusto e garbo, la competenza e conoscenza (fosse anche solo della fotografia, della sua storia, e della storia del fotogiornalismo di Life) con cui sono state realizzate. A questo si accodano anche esigenze scenografiche di rispetto e sottolineatura della sceneggiatura. Quindi, questa particolare galleria, che cadenziamo in queste pagine, sillabandola, arriva a sottolineare il senso stesso della storia raccontata, con moderato e volontario scarto a lato rispetto la realtà (della parabola esistenziale fotogiornalistica di Life). Di fatto, a proprio modo e con il fascino visivo del complemento visivo, che accompagna la vicenda principale, questa stessa galleria compone i tratti di un intenso racconto sociale e di costume del secondo Novecento. Ancora: accreditate fonti cinematografiche riferiscono che il co-produttore Jeff Mann, con mandato di controllo sulla scenografia, ha agito in comunione di idee e opinioni con lo stesso regista Ben Stiller, stimato appassionato di fotografia. Dai milioni di fotografie conservate nel consistente archivio di Life, ma -più prosaicamente- dalle centinaia che hanno contribuito a scriverne la storia (e la storia del Novecento), hanno ripreso quelle che «trasmettono l’autorevolezza e autorità fotogiornalistica della rivista, nello stesso momento nel quale rivelano lo svolgimento della Vita nei decenni in riferimento» (da una intervista rilasciata da Jeff Mann al sito Internet di Life). Confortati da verifiche in Rete, com-

29 giugno 1953. La Route 66, a Seligman, in Arizona, fotografata da Andreas Feininger, nel 1953 (altre fonti, datano 1947).

18 ottobre 1954. In relazione a fatti successivi, a noi noti (trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, dal gennaio 1961), celebrazione del senatore del Massachusetts John F. Kennedy con un ritratto attualmente creditato Getty Images, riconducibile a una serie realizzata da Fabian Bachrach.

23 giugno 1958. Nella lunga contesa con Marilyn Monroe, Jayne Mansfield è sempre rimasta indietro: nulla di oggettivo, ma sono prevalse considerazioni soggettive (a ciascuno, le proprie). Comunque, copertina dalla serie fotografica in piscina, con borracce in sagoma, del 1958.

14 luglio 1958. Ancora una fotografia di J. R. Eyerman, autore dell’icona della proiezione cinematografica 3-D (pagina accanto), in dettaglio verticale da inquadratura orizzontale 4x5 pollici [in FOTOgraphia, del dicembre 2009]. Comunque, fotografia scattata a Salt Lake City, nel 1958; sullo schermo, I dieci comandamenti, di Cecil B. De Mille.

Il capitolo delle copertine di Life è affascinante e avvincente: ovviamente, intendiamo quelle vere, oltre queste false per la scenografia del film I sogni segreti di Walter Mitty, del 2013. Argomento per mille e mille e mille motivi complementare a quello -certamente più consistente, ma non è mai dettodei suoi fotoreportage, attraverso i quali è stata scritta la storia del Novecento, nel momento nel quale sono stati compilati passaggi fondamentali e fondanti della stessa Storia della Fotografia. Da una parte, ci sono le copertine della prima edizione settimanale, quella “vera”, alla quale fanno capo tutte le considerazioni e celebrazioni (e beatificazioni) del suo fotogiornalismo; dall’altra, ci sono quelle successive, dell’edizione mensile, che ha composto i tratti della seconda delle tre fasi giornalistiche della testata. Il fascino delle copertine settimanali si basa anche sulla cronaca che hanno via via raccontato. In contraltare, le copertine mensili hanno stabilito il passo e lo spessore di un altro giornalismo: diverso e lontano da quello di riferimento storico, ma -a propria voltaintenso e degno di grande attenzione e considerazione. Lo ripetiamo anche e ancora qui: da pagina 42, le nostre odierne riflessioni spaziano sui tempi e modi di Life, senza alcuna soluzione di continuità, oltre che nella consapevolezza di molteplici sfaccettature. Con ordine, torniamo ora al discorso delle copertine. Per questo, ribadiamo una segnalazione che sovrasta tutte le possibili, e che approfondiamo proprio nell’ambito delle considerazioni redazionali appena richiamate. Anche qui, ricordiamo una edizione speciale di Life, pubblicata alla fatidica scadenza del proprio sessantesimo compleanno. In forma di rivista, nell’autunno 1996, Life/60anni fu una fantastica retrospettiva nella quale vennero riprodotte le duemilacentoventotto copertine storiche (2128) aggiornate a quella data.

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Cinema IL PRIMO ASTRONAUTA: CON ANSCO E... LEICA (!?)

Ovviamente, tra i propri sogni segreti, Walter Mitty ha anche quello di immaginarsi parte del progetto spaziale statunitense. In questa veste, il protagonista Ben Stiller è raffigurato in una copertina di Life falsa, datata 2 gennaio 1962: omaggio alla prima copertina che il settimanale riservò a un astronauta: John Herschel Glenn, il 2 febbraio 1962, in immediato anticipo rispetto la prima missione della Nasa (ente spaziale statunitense) attorno alla Terra (20 febbraio 1962, Mercury 6 / Friendship 7, tre orbite). È opportuno richiamare qualche condizione del tempo. In pieno programma Mercury, relativo alla messa in orbita di capsule con un astronauta a bordo, il presidente John F. Kennedy consolidò la propria posizione politica rispetto al Congresso degli Stati Uniti con un ispirato discorso teso a rinnovare lo spirito, tutto americano, della frontiera. Il 25 maggio 1961, sull’onda della sensazione creata sull’opinione pubblica dall’impresa di Jurij Gagarin, il primo uomo lanciato nello Spazio (Vostok 1, 12 aprile 1961), espresse dichiarazioni lapidarie [FOTOgraphia, luglio 2009, nel quarantesimo di Apollo 11]. A quel punto, il progetto Mercury fu spinto al massimo. Eccoci qui: dopo un volo sperimentale con lo scimpanzé Enos (meno celebre della cagnetta sovietica Laika) e due voli suborbitali (Alan Bartlett Shepard Jr, Mercury 3 / Freedom 7, del 5 maggio 1961, e Virgil Ivan “Gus” Grissom, Mercury 4 / Liberty Bell 7, del 21 luglio 1961), il 20 febbraio 1962, John Herschel Glenn (Mercury 6 / Friendship 7) divenne il primo astronauta statunitense. A questo punto, e rispettosi (?) del nostro contenitore fotografico, ripetiamo ancora una nota richiamata ogniqualvolta si commenta il programma spaziale statunitense. La sistematica documentazione fotografica non era ancora stata presa in seria considerazione. John H. Glenn scattò alcune fotografie con una sua Ansco Autoset 35 personale, comperata a Cocoa Beach (Minolta Hi-Matic, rinominata dalla Ansco Company, di New York City): i risultati furono scadenti. Migliori furono le fotografie riprese con una Robot Recorder 35 dal secondo astronauta, Malcom Scott Carpenter, in orbita il ventiquattro maggio dello stesso 1962 (Mercury-Atlas 7). La leggenda è uno dei più affascinanti abiti della Storia: in genere non è verificabile, e dunque si consolida in fretta. Si dice che, nonostante gli insuccessi dei primi risultati fotografici, la Nasa avesse preso in seria considerazione l’idea di fissare le fantastiche impressioni visive raccontate dagli astronauti. Si stava preparando il volo di Walter Marty Schirra Jr (Mercury 8 /

Copertina falsa di Life per la scenografia di I sogni segreti di Walter Mitty, con il protagonista (Ben Stiller) che si immagina astronauta. Datata 2 gennaio 1962, questa messa in pagina riprende e ripete quella di una copertina vera, del due febbraio dello stesso anno: John H. Glenn, il primo astronauta statunitense (20 febbraio 1962, Mercury 6 / Friendship 7, tre orbite attorno alla Terra, in un volo durato cinque ore circa).

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Si è sempre saputo che, durante la sua prima missione spaziale, John H. Glenn usò una sua personale Ansco Autoset 35 (Minolta Hi-Matic, rinominata dalla Ansco Company, di New York City): supporto capovolto con impugnatura con comandi di controllo e avanzamento della pellicola dopo lo scatto; oculare abbassato per facilitare l’inquadratura verso la costellazione di Orione, per le fotografie ultraviolette spettrografiche previste dal capitolato. Ora, si aggiunge anche una inedita Leica Ig, con ampio mirino (fonte: The National Air and Space Museum, di Washington).

Sigma 7, 3 ottobre 1962: sei orbite attorno la Terra), e dunque, dopo le prime improvvisazioni, si imponeva una scelta di qualità. Leggenda-storia: Schirra era fotografo per passione, che già conosceva e utilizzava il sistema Hasselblad. Raccomandò agli scienziati della Nasa la 500C, che fu acquistata presso un negozio di Houston. Poche modifiche resero il suo impiego più comodo nel ristretto spazio della cabina di pilotaggio. Con quell’Hasselblad a bordo della capsula Mercury 8 / Sigma 7 iniziò il capitolo spaziale della storia Hasselblad, che alla fine degli anni Sessanta sarebbe sbarcata sulla Luna (20 luglio 1969). Ora, si aggiunge un nuovo capitolo, che proviene da una fonte autorevole e accreditata, The National Air and Space Museum, di Washington, che ne sa molto, al proposito. È stato rivelato che oltre alla Ansco Autoset 35 personale, John H. Glenn avesse con se anche una Leica fornita dalla Nasa. A questo punto, il discorso si fa intrigante. Infatti, la Ansco Autoset 35 è una compatta ad esposizione automatica, con priorità all’apertura di diaframma; dunque, non richiede particolari attenzioni, soprattutto da chi (astronauta) è impegnato altrimenti. Soltanto, per renderla utilizzabile con gli ingombranti guanti della tuta, gli ingegneri realizzarono un supporto capovolto, in modo da poter collegare una impugnatura con comandi di controllo e avanzamento della pellicola dopo lo scatto. Anche l’oculare fu abbassato, in modo che John H. Glenn potesse indirizzare l’inquadratura verso la costellazione di Orione, per le fotografie ultraviolette spettrografiche previste dal capitolato (per le quali, fu anche adattato un prisma dedicato davanti all’obiettivo). Invece, poco si sa riguardo la Leica Ig con ampio mirino, a regolazione completamente manuale, con la quale John H. Glenn avrebbe scattato con pellicola tradizionale bianconero, senza alcun impegno scientifico e/o documentativo. Rispetto ogni dotazione standard, qui si annota un mirino vistoso e particolare, estraneo al catalogo Leica (sia del tempo, sia successivi), adatto al traguardo con l’incombente visiera spaziale.


Cinema 28 agosto 1964. I Beatles in piscina, a Miami, nel 1964; fotografia di John Loengard. 20 settembre 1963. Si celebra la conquista dell’Himalaya, datandola dieci anni dopo la spedizione di John Hunt. 3 settembre 1971. La partenza del California’s Mojave Desert Motorcycle Racing come simbolo di tante libertà individuali. 25 luglio 1969. Con scarto temporale rispetto l’allunaggio, del venti luglio, il decollo di Apollo 11, con destinazione Luna, in una fotografia di Ralph Morse, del sedici luglio.

preso lo stesso sito di Life, abbiamo censito tredici copertine false, distribuite nella scenografia del film I sogni segreti di Walter Mitty. Su questa quantità e sui relativi soggetti concordano tutti coloro che se ne sono occupati: dunque, siamo in buona e rassicurante compagnia. In più, c’è una quattordicesima copertina, che fa idealmente parte dei sogni segreti del protagonista, ovverosia dei suoi sogni verso mondi di fantasia: e di questa ne riferiamo a parte, in un apposito riquadro (pagina accanto). Per tutto il resto, il nostro casellario, presentato in cadenza cronologica (di data di presunta/immaginata copertina) si completa al solito (nostro) modo: specifiche del caso. Comunque, per non slittare nel “saputello” fine a se stesso, non ci occupiamo delle copertine vere di Life, nelle date inventate per quelle false di scenografia. Soltanto, sottolineiamo che le date di copertina finta/falsa ribadiscono l’anno di esecuzione della fotografia impaginata. ❖


tipa.com La Technical Image Press Association (TIPA) è un’associazione non-profit registrata in Spagna.

SESTO SONDAGGIO TIPA 2015 Sondaggio tra i lettori delle riviste internazionali associate alla Technical Image Press Association

LA VOSTRA OPINIONE VALE

Ogni due anni, TIPA rileva e valuta le opinioni e tendenze dei lettori delle riviste associate, in tema di fotografia. Partecipare al sondaggio significa fornire all’Associazione utili spunti e importanti informazioni, che -analizzate dall’istituto WIP, di Colonia, Germania- saranno presentate alle maggiori industrie del settore, per sottoporre alla loro attenzione l’orientamento dei clienti finali. Tra tutti i lettori delle riviste TIPA partecipanti al Sondaggio 2015 saranno estratte a sorte, presso uno studio notarile di Madrid, sei macchine fotografiche* insignite dei TIPA Awards 2014. * le cinque reflex Nikon D4s, Canon Eos 70D, Nikon D3300, Sony Alpha 7R e Fujifilm X-T1 in palio sono solo corpo: quindi, senza obiettivo, che appare nelle illustrazioni per motivi estetici. Eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore; regolamento completo sul sito www.tipa.com.

TRA TUTTI I PARTECIPANTI AL SONDAGGIO TIPA 2015 IN PALIO SEI MACCHINE FOTOGRAFICHE PREMIATE CON I TIPA AWARDS 2014

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Best Digital SRL Advanced Canon Eos 70D

Best Digital SRL Professional Nikon D4s

(solo corpo)

(solo corpo)

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Best Digital SRL Entry Level Nikon D3300 (solo corpo)

Best CSC Entry Level Olympus OM-D E-M10 (con M Zuiko Digital ED 14-42mm f/3,5-5,6 EZ)

Best CSC Lens Entry Level

4 Best CSC Professional Sony Alpha 7R

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(solo corpo)

6

Best CSC Expert Fujifilm X-T1 (solo corpo)

Le reflex sono visualizzate complete di obiettivo per motivi puramente estetici

Estratto dal regolamento. Al Sondaggio TIPA 2015 partecipano i lettori della riviste associate alla TIPA, compilando il presente questionario (anche in fotocopia) o rispondendo ai quesiti online direttamente su http://presseforschung.de/fotographia, entro il 31 gennaio 2015 (per posta o online). Tra i partecipanti verrano estratti i sei premi sopra indicati. Non è ammesso l’invio per email. TIPA garantisce la privacy e si riserva il diritto di sostituire il premio con prodotto di analogo valore e prestazioni, in caso di in-

disponibilità di quello proposto, e di sospendere limitare, modificare o cancellare l’iniziativa in qualunque momento. TIPA e FOTOgraphia (Graphia srl) non sono responsabili per qualsivoglia disguido, perdita o danno riconducibile al sondaggio o a qualunque altra circostanza o inconveniente. L’elenco dei vincitori sarà disponibile sul sito tipa.com e pubblicato su questa rivista (e su Fotografia Reflex ). Eventuali tasse o imposte relative ai premi vinti, a seconda della legislazione del paese di residenza, sono a carico del vincitore.


SESTO SONDAGGIO TIPA 2015 COMPILA IL QUESTIONARIO (ANCHE IN FOTOCOPIA) E INVIALO PER POSTA. PARTECIPI ALL’ESTRAZIONE DI UNA DELLE SEI MACCHINE FOTOGRAFICHE* PREMIATE CON I TIPA AWARDS 2014.

* le cinque reflex Nikon D4s, Canon Eos 70D, Nikon D3300, Sony Alpha 7R e Fujifilm X-T1 in palio sono solo corpo: quindi, senza obiettivo, che appare nelle illustrazioni per motivi estetici. Eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore; regolamento completo sul sito www.tipa.com.

È POSSIBILE PARTECIPARE ANCHE ONLINE SU http://presseforschung.de/fotographia 06 Uso le seguenti funzioni della fotocamera

01 Scatto fotografie ❏ Tutti i giorni ❏ Più volte la settimana ❏ Una volta la settimana ❏ Più volte al mese ❏ Meno frequentemente ❏ In caso di viaggi ed escursioni

spesso

Modo Manuale (M-mode) Modo Priorità tempi (Tv-mode) Modo Priorità diaframmi (Av-mode) Modo Program (P-mode) Modo Video WiFi/WLAN

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mai

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02 Mi riconosco nelle seguenti definizioni 07 Mi informo regolarmente sui prodotti fotografici su

(Sono possibili più risposte)

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

Fotografo un po’ tutto Fotografo amici, famiglia.... Amo temi precisi, natura, moda... La fotografia è l’attività preferita Sono un fotografo esperto È la mia professione primaria Fotografo per mia professione (grafico, media, architetto...)

(Sono possibili più risposte)

1. Riviste di fotografia 2. Riviste di computer 3. Riviste di tecnica varia (foto digitale/video/audio) 4. Presso il mio negoziante 5. Alle fiere specializzate 6. Sui dépliant delle case 7. Su internet Tra tutte, mi fido di più della fonte numero ....................

03 La mia attrezzatura fotografica Per le riprese uso N. .................... fotocamera/e (Inserire il numero) da completamente vero

Non esco mai senza fotocamera Tengo l’attrezzatura aggiornata Spendo in accessori quanto per la fotocamera/e Acquisto prodotti di una certa marca Do consigli di acquisto ad altri

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04 Scatto le mie fotografie con

08 FOTOgraphia pubblica dieci numeri all’anno Leggo .................... numeri all’anno Questa è la prima volta che la leggo

09 Ottengo FOTOgraphia Sono abbonato Come saggio promozionale La leggo quando altri l’hanno già letta

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10 Sfoglio o leggo ogni numero di FOTOgraphia circa .................... volte spesso

Fotocamere Micro QuattroTerzi Fotocamere con sensore APS-C Fotocamere reflex “full frame” Fotocamere con sensore medio formato ... in particolare Con fotocamera a pellicola In formato RAW In formato JPEG

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

05 Stampo N. .................... fotobook all’anno (inserire la quantità)

11 Di ciascun numero di FOTOgraphia leggo Tutte / quasi tutte le pagine Circa tre quarti Circa la metà Circa un quarto Solo poche pagine

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

12 Leggo una copia di FOTOgraphia per un totale di .................... minuti 13 Oltre a me, altre .................... persone leggono ogni numero di FOTOgraphia

PER LA PRIVACY, L’AREA TRATTEGGIATA CON I DATI PERSONALI VERRÀ SEPARATA AL RICEVIMENTO SE NON VOLETE RITAGLIARE QUESTE PAGINE, FOTOCOPIATE LE DUE FACCIATE IL QUESTIONARIO (FRONTE E RETRO) DEVE PERVENIRE ENTRO IL 31 GENNAIO 2015 OPPURE, PARTECIPATE ONLINE SU: http://presseforschung.de/fotographia (entro le 24,00 del 31 gennaio 2015) È POSSIBILE INVIARE IL QUESTIONARIO IN FORMA ANONIMA, RINUNCIANDO ALL’ESTRAZIONE Elaborati dall’istituto WIP, di Colonia, i risultati saranno pubblicati Potete evitare di fornire i vostri dati (che comunque non sarebbero riferiti a terzi). Però, in questo modo, rinunciate alla possibilità di sul sito tipa.com, su FOTOgraphia e su Fotografia Reflex. L’estrazione delle sei macchine fotografiche avverrà presso uno partecipare all’estrazione di una delle sei macchine fotografiche in palio. L’anonimato è garantito, perché questa parte del questio- studio notarile a Madrid, in Spagna. Eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore). nario verrà separata dalle risposte. Regolamento sul sito www.tipa.com


14 Considero FOTOgraphia Rivista importante ❏ Fonte di ispirazione ❏ Competente ❏ ❏ Di grande utilità Chiara ❏ Indipendente ❏ Attuale ❏ D’intrattenimento ❏ Gradevole ❏ Varia ❏

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Non importante Non ispira Incompetente Poco utile Confusionaria Dipendente Non attuale Noiosa Sgradevole Monotona

15 Se FOTOgraphia non fosse più pubblicata moltissimo

molto

poco

no

Mi mancherebbe...

19 Leggo la pubblicità che appare su FOTOgraphia sempre ❏ spesso ❏ di rado

mai

20 La pubblicità che appare su FOTOgraphia da completamente vero

Per me ha valore informativo Mi ha già spinto a chiedere più informazioni Mi ha già spinto a fare un acquisto

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21 Visito il sito “FOTOgraphiaONLINE.it” di FOTOgraphia Più volte la settimana ❏ Ogni 2-3 mesi Più volte al mese ❏ Meno spesso Una volta al mese ❏ Mai

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22 Nei prossimi 2 o 3 anni, dedicherò alla fotografia Più tempo ❏ Meno tempo ❏ Tanto quanto oggi

16 Argomenti che desidero leggere su FOTOgraphia molto importante

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Dettagliati test di fotocamere Test comparativi di fotocamere Consigli per gli accessori Test di accessori Informazioni di mercato Consigli di tecnica Fotografi / Arte Mostre Concorsi

no

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17 L’edizione digitale di FOTOgraphia (se ci fosse) da completamente vero

La leggerei regolarmente In generale, potrebbe soddisfarmi L’acquisterei al posto di quella cartacea L’acquisterei con un supplemento, se avesse servizi o altre caratteristiche

23 Informazioni personali Sono maschio ❏

femmina

24 La disponibilità mensile netta della mia famiglia è (facoltativo) Inferiore a 1500,00 euro Tra 1500,00 e 1999,00 euro Tra 2000,00 e 2499,00 euro Tra 2500,00 e 2999,00 euro Tra 3000,00 e 3499,00 euro Tra 3500,00 e 3999,00 euro Tra 4000,00 e 4499,00 euro Superiore

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Grazie per aver partecipato al SONDAGGIO TIPA 2015

PER LA PRIVACY, L’AREA SOTTOSTANTE VERRÀ SEPARATA AL RICEVIMENTO DEL QUESTIONARIO COMPILAZIONE FACOLTATIVA (rinunciando all’estrazione dei premi) cognome

indirizzo CAP telefono

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a non vero

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18 Nei prossimi 24 mesi, intendo acquistare Digitale reflex Digitale medio formato Compact System Camera Compatta digitale Software gestione colore Obiettivi intercambiabili Software foto/grafica Luci Scanner Stampante Treppiedi Proiettore Accessori

nome

Ho .................... anni

città

provincia fax

e-mail

INVIATE LE DUE PAGINE DEL QUESTIONARIO A

FOTOgraphia - Sondaggio TIPA via Zuretti 2a - 20125 MILANO MI



Passione (e dintorni) di Angelo Galantini

CHE LA PELLICOLA VIVA!

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ANTONIO BORDONI

L

Lo scorso agosto, in Rete, è rimbalzato un appello del regista Martin Scorsese a sostegno della pellicola fotosensibile. In stretti termini temporali, la sua autorevole (e ascoltata) lettera aperta si aggiunge e accoda a analoghi richiami, precedentemente espressi dai registi hollywoodiani Quentin Tarantino, Christopher Nolan e Judd Apatow e dal produttore Jeffrey Jacob Abrams: tutti preoccupati delle sorti della pellicola, alla luce delle controverse vicende aziendali di Eastman Kodak Company, da decenni leader incontrastata del settore. Ovviamente, dato il loro punto di vista -commentato con puntualità dagli organi di informazione internazionali, certamente sensibili delle rispettive celebrità acquisite-, il riferimento principale è per la pellicola cinematografica. Noi, decliniamo in senso più ampio, senza confini di utilizzo. Del resto, come è ben noto a tutti noi, soprattutto a noi che ci occupiamo di fotografia, nei suoi molteplici aspetti, il presente e futuro della pellicola è in sostanzioso pericolo. Ormai, la tecnologia di acquisizione e gestione digitale delle immagini ha introdotto nuovi equilibri, facendo tabula rasa di esperienze tecnico-commerciali precedenti. Se qualcuno volesse ipotizzare ancora un conflitto, una contrapposizione mercantile, sarebbe doveroso, oltre che inevitabile, registrare termini di uno scontro impari, a tutto favore e grazia del presente che si proietta al futuro, a scapito del presente (?) che si riferisce al passato. Ma questa non è la chiave di lettura proposta e annotata dal mondo di Hollywood, quantomeno da una sua avanguardia culturale e sentimentale. A differenza, viene declinata un’altra ipotesi, altrettanto persuasiva, forse; comunque sia, viene supposta una tesi suggestiva e allettante e invitante: la passione! Questo è il senso unico, non ul-

timo, sia chiaro, della lettera aperta redatta da Martin Scorsese, in aggiunta ai ricorsi -già richiamati- di Quentin Tarantino, Christopher Nolan, Judd Apatow e Jeffrey Jacob Abrams: pressione risoluta sugli Studios californiani per garantire agli autori del cinema di poter contare ancora a lungo sulla pellicola. A questo punto, e allontanando (per il momento, almeno) altre preoccupazioni, registriamo che la sollecitazione non è andata persa; a seguito di una opportuna negoziazione, Kodak si è resa disponibile a continuare a fornire pellicola cinematografica... sulla scorta di una garanzia di acquisto e consumo che giustifichi il mantenimento delle linee produttive. Cronaca dei fatti a parte, che secondo noi hanno solo allungato i tempi e termini di una agonia dalla conclusione scontata (e lo riconosciamo con immancabile dolore personale), le annotazioni di Martin Scorsese sono degne di attenzione. Di più, addirittura: meritano grande attenzione. In un’epoca di parole a vuoto, parole pronunciate senza competenza ad esprimersi, parole articolate per il piacere di se stessi e della propria misera e disgra-

ziata autoreferenzialità, il celebre regista ha richiamato altri valori, altri sentimenti, invitando a una mobilitazione che non sia di sola facciata, ma affondi le proprie ramificazioni nell’immenso. Le sue sono considerazioni pacate e lucide, oltre che realistiche e concrete (per quanto possa anche servire). Insomma, le sue sono parole intelligenti. E di queste, richiami specifici a parte, abbiamo sempre più bisogno. Con o senza pellicola, è un discorso... ma senza intelligenza e saggezza è un altro. Peggiore! Pericoloso! Spaventoso! «Ci sono molte definizioni che spiegano quello che facciamo: cinema, cinematografo, lungometraggi. E... film, pellicole. Ci riconoscono registi, ma -più spessosiamo chiamati film maker, autori di pellicole. Non sto suggerendo di ignorare l’ovvio: l’HD non sta arrivano, è già qui. I vantaggi sono numerosi: le videocamere sono più leggere, è molto più facile girare di notte, abbiamo molti (altri) mezzi a nostra disposizione per alterare e perfezionare le nostre immagini. E le videocamere sono molto più economiche: oggi, i film possono essere girati con davve-

ro pochi soldi. Perfino quelli di noi che continuano a girare in pellicola finiscono il film in HD, e i nostri film sono proiettati in HD. Quindi, potremmo tranquillamente affermare che il futuro è qui, che la pellicola è scomoda e imperfetta e difficile da trasportare e facile a rovinarsi e deperibile, e che è tempo di dimenticare il passato e dire addio: potremmo davvero farlo, facilmente. Troppo facilmente. «Sembra che, di contino, ci vogliano ricordare che il cinema è -dopo tutto- un business. Ma il cinema è anche una forma d’arte, una espressione artistica, e i giovani che vogliono realizzare film dovrebbero avere accesso agli strumenti e ai materiali che sono stati le pietre miliari di questa creatività. Qualcuno si sognerebbe mai di dire ai giovani artisti di gettare via pitture e tele, perché i tablet sono molto più comodi da portarsi appresso? Ovviamente, no. «Nella storia del cinema, solo una minuscola percentuale di opere che hanno definito la nostra forma d’arte non sono state girate in pellicola. Tutto quello che facciamo con l’HD è uno sforzo per ricreare l’aspetto di un film in pellicola. Ancora oggi, la pellicola offre una tavolozza visuale più ricca di quella dell’HD. E dobbiamo ricordarci che la pellicola è ancora la migliore maniera di conservare i film, l’unica a prova di tempo. Non abbiamo alcuna garanzia che l’informazione digitale durerà nel tempo, ma sappiamo che la pellicola lo farà, se adeguatamente conservata e curata. «La nostra industria e i nostri registi si sono stretti attorno a Kodak, perché sappiamo che non possiamo permetterci di perderla, allo stesso modo in cui abbiamo perso molti altri produttori di pellicola. Questa notizia è un positivo passo avanti verso la conservazione dei film, della forma d’arte che amiamo». ❖



dal 1960 Apparecchio fotografico stereo per coppie di fotogrammi 6x6cm, su pellicola a rullo 120 (interasse 64mm); su base biottica Lubitel-2, obiettivi 75mm f/4,5 accoppiati. Prodotta a Leningrado, nella fabbrica Gomz (in cirillico)... successivamente Lomo (!).


Sputnik

(спутник)

www.newoldcamera.com


T E R Z A

GENERAZIONE Configurazione di stretta attualità, la convincente Fujifilm X100T scandisce i termini di una interpretazione fotografica di profilo alto, che declina valori straordinari, sia di contenuto sia di forma. Cronologicamente, succede alla sequenza avviata con l’originaria e primigenia X100, della primavera 2011, e continuata con la conferma X100S, dell’inizio 2012 (per la quale ci siamo espressi da poco, giusto lo scorso novembre... questa/quella!)

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di Antonio Bordoni

M

eriti e qualità sotto i nostri occhi, nel marzo 2011, la primigenia Fujifilm X100 ha dato avvio a un comparto tecnico-commerciale di eccezionale consistenza, capace di interpretare in chiave attuale e futuribile talenti che appartengono all’inviolabile lunga storia evolutiva della tecnologia fotografica applicata... fosse anche solo in dipendenza della propria affascinante forma. Infatti, contenuti a parte, che non sono in discussione, con la X100 sono state riprese livree e sembianze di straordinario valore e grazia, peraltro subito confermate e ribadite dal sistema a obiettivi intercambiabili Fujifilm X-Pro1 ed trasformazioni consequenziali. Immediatamente dopo, nel febbraio 2012, l’evoluzione X100S si è arricchita di sensore e processore di nuova generazione ed è stata valorizzata con l’evoluto mirino Hybrid Viewfinder (e di una Fujifilm X100S in particolare, ovverosia questa/quella!, abbiamo riferito lo scorso numero di novembre, a introduzione della lunga analisi sullo svolgimento della Photokina 2014).

Ora, con cadenza temporale necessaria, arriva sul mercato la terza generazione Fujifilm X100T, totalmente aggiornata sulle e alle richieste ed esigenze fotografiche dei nostri giorni, soprattutto in relazione alla qualità delle immagini, al mirino e all’operatività. Eccoci qui. Subito da annotare: l’attuale Fujifilm X100T è la prima configurazione fotografica a disporre dell’efficace Electronic Rangefinder (telemetro elettronico). Quindi, è dotata di sensore X-Trans Cmos II in dimensione APS-C, da 16,3 Megapixel, del processore di immagine ad alta velocità EXR Processor II e dell’esclusiva modalità di simulazione pellicola Classic Chrome, che propone una elevata e cospicua qualità formale di interpretazione e riproduzione colore. Ovviamente, per la gioia di utenti educati a questa visione (noi, tra tanti), è confermata la dotazione ottica del grandangolare fisso Fujinon 23mm f/2, con inquadratura equivalente a quella della focale 35mm sul formato 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo. Confermiamo che si tratta di un progetto ottico che offre elevati livelli di nitidezza dal centro ai bordi dell’immagine. In uno schema ottico di otto elementi in vetro racchiusi in sei gruppi, sono comprese una lente con doppia superficie asferica ad alta prestazione e una lente convessa ad alta rifrazione. Per il controllo dei riflessi e delle immagini fantasma, tutte le lenti sono trattate con l’esclusivo rivestimento Fujinon HT-EBC. Il diaframma a nove lamelle consente un morbido effetto “bokeh”, mentre le riprese macro sono possibili alla distanza minima di dieci centimetri. Inoltre, un filtro ND incorporato offre una compensazione dell’esposizione equivalente a tre stop. Ancora, si registra il confortevole miglioramento nell’operabilità, grazie alla rinnovata ergonomia dei pulsanti e delle ghiere di comando e guida, assieme al monitor LCD posteriore, esteso a tre pollici di dimensioni e 1,04 Megapixel di risoluzione. Al solito, in livrea nera e cromata (che personalmente preferiamo: comunque, a ciascuno le proprie propensioni). In approfondimento tecnico, annotiamo che l’Advanced Hybrid Viewfinder con Electronic Rangefinder facilita la messa a fuoco manuale; mentre si utilizza il mirino ottico, l’area di messa a fuoco è ingrandita e visualizzata in basso a destra dello stesso mirino: una

Personalmente, tra la livrea nera e quella cromata, preferiamo la combinazione cromata, che richiama stagioni fotografiche alle quali siamo particolarmente legati. Ma non è questo il problema, ammesso e non concesso che tale “problema” abbia un qualsivoglia diritto di ospitalità. In assoluto, la terza generazione Fujifilm X100T offre e propone sostanziose revisioni all’insieme di prestazioni fotografiche di alto livello. Nella conferma dei valori fondanti (sensore X-Trans Cmos II in dimensione APS-C, da 16,3 Megapixel, e obiettivo fisso Fujinon 23mm f/2, equivalente al grandangolare 35mm sul formato 24x36mm), si registrano incrementi sostanziosi, a partire dall’efficace Electronic Rangefinder (telemetro elettronico).

Nella conferma di una configurazione fotografica di profilo alto, con prestazioni sostanziose che si accompagnano con una forma affascinante, la Fujifilm X100T ribadisce l’essenza e concretezza di un sistema ricco e arricchito di accessori che ne versatilizzano l’uso (per esempio, aggiuntivi ottici) e complementi che ne impreziosiscono la personalità.

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Su una sostanza che definisce una configurazione fotografica di prestigio e valore, la terza generazione Fujifilm X100T registra anche miglioramenti nell’operabilità, soprattutto grazie alla rinnovata ergonomia dei pulsanti e delle ghiere di comando e guida. In registrazione tecnica doverosa e dovuta, oltre i termini fotografici di eccellente qualità, va sottolineata la possibilità di registrazione video HD, con “frame rate” selezionabile in dipendenza di ogni formato video. Ultimo, ma non certo ultimo, si protocollano funzioni aggiuntive in regola e armonia con l’attualità tecnologica e sociale dei nostri tempi, dal Wi-Fi incorporato a molteplici connnessioni supplementari da e verso smartphone e tablet.

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porzione dell’immagine ottica è oscurata, per permettere la visualizzazione digitale dell’area di messa a fuoco nello spazio risultante. Questa opzione di messa a fuoco manuale, frequentata da molti, per quanto non da tutti, è semplificata ed è stata equiparata a quella che si può eseguire con il telemetro meccanico (di buona memoria e altrettanto pertinente frequentazione). Quindi, a conseguenza, le opzioni Focus Peak Highlight e Digital Split Image possono essere selezionate nell’area ingrandita, e l’ingrandimento dell’area di messa a fuoco può essere modificato. Rispetto l’immediatamente precedente X100S, in riferimento debitore, va annotato che la copertura della cornice luminosa è aumentata da novanta a novantadue percento. È stata aggiunta anche la correzione del parallasse in tempo reale, per una più accurata inquadratura mediante l’opzione Real-time Parallax Correction, senza che sia ulteriormente necessario riprendere la stessa inquadratura. Nella propria evoluzione, il mirino elettronico (Electronic Viewfinder), con visualizzazione migliorata in ogni condizione di impiego, offre anche un valido Live View, impostabile attraverso l’opzione Preview Pic Effect, che ricrea gli effetti selezionati (per esempio, la modalità di simulazione pellicola). Allo stesso tempo -disattivando l’opzione-, può essere selezionato un Live View più naturale, allineato con la percezione dell’occhio fisiologico. Mentre sulle configurazioni precedenti, X100 e X100S, l’impostazione dell’apertura del diaframma per terzi di stop poteva essere effettuata esclusivamente con l’apposito selettore, ora la Fujifilm X100T dispone di una regolazione che si imposta direttamente dalla ghiera (meccanica) del diaframma. Quindi, in abbinamento, il relativo selettore per la compensazione dell’esposizione è stato esteso a più/meno tre stop. Inoltre, la leva di co-

mando è diventata ghiera: insieme al controllo a quattro vie, migliora notevolmente l’operatività globale. La forma, ora... in dipendenza a quella condizione inviolabile e non negoziabile che porta a considerare come indispensabile l’estetica della funzionalità (detta altrimenti: gli utensili, in generale, e quelli della fotografia, per quanto ci riguarda e interessa, sono belli se e quando e per quanto funzionano anche bene, e viceversa). Le parti superiore e inferiore della Fujifilm X100T sono realizzate in magnesio pressofuso, per garantire un corpo resistente e leggero. Uno speciale rivestimento è utilizzato per la finitura delle superfici, fino a creare una sorprendente sensazione di qualità. La parte esterna è rifinita con pelle sintetica antiscivolo, resistente e duratura. L’applicazione della zigrinatura alla ghiera del diaframma, al selettore dei tempi di otturazione e a quello della compensazione dell’esposizione ne migliora l’aspetto e l’utilizzo. Ovviamente, non manca la registrazione video Full HD, con “frame rate” selezionabile a sessanta, cinquanta, trenta, venticinque e ventiquattro fotogrammi al secondo, in dipendenza di ogni possibile formato video. Le riprese possono essere controllate anche attraverso il mirino ottico, come avviene con le videocamere. Nelle stesse riprese video, per aggiungere effetti colore creativi, possono essere utilizzate le modalità di simulazione pellicola; mentre l’effetto “bokeh” può essere realizzato impostando il diaframma alla massima apertura f/2. L’esposizione manuale è ora possibile anche durante le riprese video. Infine, ma tanto altro c’è ancora e ancora, si protocollano funzioni aggiuntive in regola e armonia con l’attualità tecnologica e sociale dei nostri tempi, a partire –magari- dal Wi-Fi incorporato, per scattare da smartphone o tablet. Oltre che per “condividere”, qualsiasi cosa questo possa significare per ciascuno di noi. ❖



ALLA FIN FINE Con la pubblicazione del quarto volume previsto e preordinato, cronologicamente e ideologicamente relativo a L’età contemporanea 1981-2013, si conclude il cammino e percorso dell’entusiasmante collana La Fotografia, pubblicata da Skira Editore. In quattro tempi, ognuno con puntuale accompagnamento di accreditati saggi complementari, l’autorevole curatore Walter Guadagnini ha raccontato in modo mirabile la Storia. Questo attuale quarto titolo completa i tre precedenti, presentati e cadenzati a partire dal 2011: Le origini 1839-1890, Una nuova visione del mondo 1891-1940 e Dalla Stampa al Museo 1941-1980. Fine

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di Angelo Galantini

Q

uattro... e fine, almeno per ora. Il quarto volume dei quattro di Storia della Fotografia previsti dal lodevole piano editoriale Skira approda alla distribuzione libraria, come da programma prestabilito. Ne abbiamo sempre puntualmente riferito in cronaca, e qui completiamo il percorso. Prima, però, è doveroso richiamare le puntate precedenti, che si sono già occupate dell’autorevole progetto La Fotografia : in rigorosa successione cronologica, la prima monografia Le origini 1839-1890 è stata analizzata e commentata in FOTOgraphia, dell’ottobre 2011; a seguire, Una nuova visione del mondo 1891-1940 è stata affrontata il successivo dicembre 2012; quindi, alla consueta cadenza annuale, abbiamo presentato Dalla Stampa al Museo 1941-1980 nel settembre 2013. Ora, completiamo il percorso con la quarta (e ultima) puntata: L’età contemporanea 1981-2013, che approda ai nostri giorni, concludendo il lungo

iter: opere di chiusura dalla serie Holy Bible, di Adam Broomberg & Oliver Chanarin, da Mack Books / Archive of Modern Conflict, London 2013. Ancora in anticipo su considerazioni che stiamo per esprimere, tra tanto altro, riprendendo e ribadendo note originarie, è doverosa una precisazione, che specifica un nostro orientamento e intendimento individuale. Nella convinzione secondo la quale ogni racconto di Storia della Fotografia è in sostanziosa misura personale, ovverosia guidato e governato da propri legittimi pre-concetti e pre-considerazioni, puntualizziamo che anche le nostre relazioni sono analogamente indirizzate... ci mancherebbe altro. Per cui, riveliamo e palesiamo subito la nostra scarsa considerazione storica per la contemporaneità, rispetto la quale attendiamo la fatale e indispensabile e necessaria sentenza del Tempo. Trascorso il quale, dalla cronaca si può transitare alla Storia. Quindi, per quanto possiamo partecipare a qualsivoglia dibattito retrospettivo, arricchito da intuizioni e illuminazioni individuali, rimaniamo distanti e distaccati dalle discussioni sulla fotografia espressiva contemporanea. Casomai, potremmo intervenire soltanto nel momento nel quale non si affronti soltanto la cosiddetta e presunta fotografia “autoriale”, ma si intenda la Fotografia nel proprio insieme e complesso. In particolare, quella professionale (soprattutto) e non professionale (in allungo), che può proiettarsi oltre e in avanti, una volta assolti e risolti i propri compiti istituzionali originari. In questo senso, confermiamo e ribadiamo la nostra posizione secondo la quale la Fotografia, sempre con maiuscola volontaria e consapevole, non vale necessariamente per se stessa e il proprio soggetto esplicito (oltre che implicito), ma per qualcosa -magari d’altro- che ciascuno trova prima di tutto in sé. Ancora in ennesima ripetizione, altrettanto d’obbligo, in effetti, siamo dell’idea che -nel fotografare- ciascuno di noi ha opinioni proprie e

Jeff Wall: The Thinker; 1986 (Light-box, 221x229cm; Courtesy l’artista).

Doug Rickard: #40.805716, Bronx, NY (2009), dalla serie A New American Picture; 2011 (Stampa a getto d’inchiostro; Courtesy Yossi Milo Gallery, New York).

La Fotografia. L’età contemporanea 1981-2013 (volume 4); a cura di Walter Guadagnini; testi di Charlotte Cotton, Okwui Enwezor, Walter Guadagnini, Thomas Weski e Francesco Zanot; Skira Editore, 2014; 304 pagine 21x28cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro.

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Christian Boltanski: Les Archives; 1987 (Installazione per documenta 8, Kassel 1987; Reti metalliche, 348x400cm circa ciascuna; Toronto, Collezione Ydessa Hendeles Art Foundation; Courtesy l’artista e Marian Goodman Gallery, Parigi / New York).

diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti abbiamo capito che se possiamo rubare un momento all’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. In ogni caso, per mille e mille motivi, invitiamo sempre e comunque a osservare, piuttosto che giudicare. Ascoltare le voci, chiarire la vita. Perché (da e con Pino Bertelli, intrigante e coinvolgente situazionista, che solitamente conclude la fogliazione di ogni numero di FOTOgraphia): ciascuno detiene il coraggio di ciò che veramente sa, ed è, o è solo poca cosa di fronte all’inavvertenza di tutta l’esistenza. Fosse anche solo fotografica.

DALLE ORIGINI... OLTRE Seydou Keïta: Senza titolo; 1956-1957 (Stampa ai sali d’argento; Courtesy Caac The Pigozzi Collection).

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Come già annotato, anche oggi, ancora oggi, ribadiamo e confermiamo che il lodevole progetto editoriale di Skira, La Fotografia, si è rivelato piano d’opera avvincente, oltre che convincente. Nel proprio insieme, la cadenza in quattro tempi di La Fotografia ha proposto un piano d’opera am-

bizioso, oltre che coinvolgente. A cura di Walter Guadagnini, quattro volumi successivi e consequenziali hanno classificato la Storia della Fotografia, scandendo tempi di individuate successioni temporali e culturali: 1839-1890, 1891-1940, 1941-1980 e 1981-2013, con tante parole a commento e altrettante immagini che hanno definito l’evoluzione del linguaggio e dell’espressività fotografica. Come anticipato, in ripetizione d’obbligo, una volta raggiunta la meta del quarto e conclusivo volume, torniamo a considerazioni espresse in avvio di edizione [da FOTOgraphia, dell’ottobre 2011]. Subito una osservazione discriminante: in una bibliografia eccessivamente americanocentrica, si ha tanto bisogno di storie della fotografia scritte da autori di altra geografia, addirittura italiani, quantomeno di storie scritte con la competenza a farlo. Per cui, abbiamo accolto con gioia e piacere, addirittura con esultanza, i quattro volumi consequenziali La Fotografia, che hanno scandito l’evoluzione di centosettantacinque anni di Storia con tempi opportunamente ritmati e conclusione nell’esatto centosettantacinquesimo (1839-2014). La progressione cronologica, oltre che ideologica (a conseguenza), del curatore Walter Guadagnini ha rivelato un punto di vista adeguatamente soggettivo: soprattutto oggi, in epoca di “politicamente corretto”, nella quale ancora pochi scelgono e indicano vie, in un mondo nel quale i più si limitano a seguire e accontentare il branco, ben vengano quelle voci che si elevano non per il tono, ma per i contenuti. Del resto, per quanto ciascuno cerchi di evitare ogni qualsivoglia forma di autorefenzialità (ma sarà vero?), ogni trattazione dipende dalla natura, educazione e formazione di chi racconta; oltre che dai contenitori di riferimento. Per esempio, nella sua docenza a incarico di Storia della Fotografia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia), volente o nolente,


il nostro direttore Maurizio Rebuzzini risponde sia dalla sua natura (di docente), formata in parti uguali da cultura (?) e istinto, sia dal contenitore di riferimento: Lettere e Filosofia. Da cui, i tempi individuati da Walter Guadagnini stabiliscono un identificato modo di osservare l’evoluzione della fotografia, del proprio linguaggio e della propria espressività, da avvicinare e assimilare, per accrescere il proprio bagaglio di conoscenze. Arricchendosi del (magari) diverso, ciascuno ha modo e tempo di incrementare, migliorare e valorizzare le proprie competenze. A questo proposito, e con garbo e delicatezza, ricordiamo che la stessa cronologia avviata nel 1839 è stata diversamente scandita e scomposta dall’esposizione permanente del Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di Firenze [FOTOgraphia, dicembre 2006 e ottobre 2008]. A cura di Monica Maffioli, che è anche direttrice del Museo, Le origini della fotografia (18391860) richiama subito la contrapposizione primigenia della storia. Da una parte, l’ufficialità dell’invenzione della fotografia, abbinata al processo dagherrotipico di Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), incoronato dall’accademico Dominique François Jean Arago nella nota sequenza di date successive (7 gennaio 1839, annuncio all’Académie des sciences, di Parigi, e diciannove agosto presentazione del procedimento); dall’altra, le prime coeve stampe fotografiche da negativo di carta, ottenute con il processo calotipico dell’inglese William Henry Fox Talbot (1800-1877). Con L’età d’oro della fotografia (1860-1920), il curatore Italo Zannier accompagna l’osservatore lungo un tragitto fantastico per creazioni e prolifico per idee. Sono i serrati decenni nei quali la tecnica si evolve, e a conseguenza l’espressione fotografica acquista sicurezza formale, che subito proietta nei propri contenuti culturali. Attraverso l’opera e l’impegno di straordinari autori, la fotografia afferma la propria au-

La Fotografia. Le origini 1839-1890 (volume 1); a cura di Walter Guadagnini; Skira Editore, 2011; 304 pagine 21x28cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro [ FOTOgraphia, ottobre 2011].

Anders Petersen: Lilly e Rose, Café Lehmitz, Amburgo; 1967-1970 (Stampa ai sali d’argento).

La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891-1940 (volume 2); a cura di Walter Guadagnini; Skira Editore, 2012; 336 pagine 21x28cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro [ FOTOgraphia, dicembre 2012].

La Fotografia. Dalla Stampa al Museo 1941-1980 (volume 3); a cura di Walter Guadagnini; Skira Editore, 2013; 304 pagine 21x28cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro [ FOTOgraphia, settembre 2013]

Wolfgang Tillmans: Isa che danza; 1995 (Stampa a colori, 61x51cm; UniCredit Art Collection HypoVereinsbank; Courtesy Galerie Daniel Buchholz, Köln / Berlin).

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Rineke Dijkstra: Autoritratto, Marnixbad, Amsterdam, 19 giugno; 1991 (Stampa a colori; Courtesy Marian Goodman Gallery, New York / Parigi).

Martin Parr: Bandiere britanniche a una fiera, Sedlescombe; 1995-1999.

tonomia artistica. Dall’Europa all’America rimbalzano idee, correnti, scuole di pensiero (e azione). Ormai, la fotografia non limita le proprie potenzialità a una individuata schiera di facoltosi appassionati. È alla portata di tutti, e si allarga a macchia d’olio. La fotografia, ormai emancipata, non chiede più soccorso alla pittura, ma impone il valore del proprio linguaggio espressivo, proponendosi sia nel mondo dell’arte sia nella vita quotidiana. È questo il senso della sezione L’avvento delle avanguardie (1920-2000), con la quale Charles-Henri Favrod conclude il percorso storico. Selezione di opere dei maggiori protagonisti del Novecento, che hanno arricchito la cultura visiva del mondo con vere e proprie icone del nostro tempo.

QUATTRO PER QUATTRO Come è giusto e doveroso che sia, la scomposizione sillabata da Walter Guadagnini è diversa, perché propria: chi non ne ha ancora decifrata la scuola di pensiero e riferimento consideri l’intestazione del terzo capitolo, Dalla Stampa al Museo 19411980, che definisce il punto di vista e osservazione. Ribadiamo, legittimo e prezioso. Allo stesso tempo, di necessità virtù, è anche la forma che indirizza il racconto, che si esprime in pertinente equilibrio tra immagini (tante) e parole (di più) e che ha fatto i propri conti con un piano editoriale che si è proposto in forma monografica e autorevolmente didattica, completa di consistenti saggi che approfondiscono alcune delle tematiche principali del periodo storico preso in esame. Da cui, eccoci!, i quattro volumi propongono anche consistenti apparati a completamento: ottimi e di pregio. Ancora: più che straordinarie le bibliografie conclusive di ogni volume, con espliciti capitoli di riferimento. Si tratta di un approfondito e dettagliato casellario che può fare gola a molti appassionati (qualcuno ne conosciamo personalmente). Tra titoli

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introvabili e volumi ancora reperibili è una guida indispensabile per coloro i quali volessero indagare, oppure ascoltare altre voci. In cronaca, come anticipato, non abbiamo nulla da aggiungere all’attualità del quarto e ultimo capitolo La Fotografia. L’età contemporanea 1981-2013. Senza alcun imbarazzo, palesiamo e riveliamo la nostra completa distanza (lontananza?) dalla fotografia espressiva/autoriale dei nostri giorni, oltre che dalla sua necessaria dipendenza da valori mercantili quotidiani. Come annotato, attendiamo risposte dal Tempo, che siano ripulite da quelle ingerenze (appunto, mercantili) che condizionano le osservazioni e valutazioni e quotazioni dei nostri giorni. Oltre tante altre considerazioni -tutte individuali, sia chiaro-, in questa andatura siamo confortati anche da una certa esperienza maturata in quaranta anni abbondanti di nostra vita in e con la Fotografia. Per esempio, personalmente anche coinvolti, ricordiamo una iniziativa enciclopedica di Fratelli Fabbri Editori, della fine degli anni Settanta. I fascicoli settimanali che scandirono la scomposizione dei lemmi si accompagnarono con presentazioni di autori italiani allora contemporanei. Ebbene, di quel lungo elenco, si sono perse le tracce di almeno l’ottanta percento delle indicazioni: segno che il Tempo ha espresso inderogabili e inevitabili sentenze. Tra meteore e fuochi di paglia, il quotidiano non resiste sempre allo scorrere dei giorni. Con ciò, nulla da eccepire alla competenza e perizia del curatore Walter Guadagnini, la cui autorevolezza è garanzia assoluta e incondizionata: e questo capitolo finale La Fotografia. L’età contemporanea 19812013 è indispensabile sia per se stesso (argomento) sia per completare la collana di quattro titoli storici consequenziali. Soltanto, da parte nostra evitiamo di entrare nel merito. Ancora e soprattutto, magari anche alla sola luce del nostro imperativo totale e originario: osservare, piuttosto che giudicare. ❖



DAL PASSATO, E anche: dalla Russia, con amore. Proposta da Lomography, sulla cui personalità non ci soffermiamo (altro discorso: non qui, non ora), una attuale configurazione ottica Petzval 85mm f/2,2, in baionetta Canon EF e Nikon F, riprende un disegno ottico del passato remoto, addirittura delle origini. Per utilizzi attuali, sia con pellicola 35mm, sia in acquisizione digitale di immagini, uno schema finalizzato al ritratto stabilisce anche i termini di un approccio espressivo che non si limita all’apparenza e alla esteriorità (attive e passive che siano), ma propone una applicazione consapevolmente attuale... con inviolabile amore (magari, anche solo per la fotografia)

di Antonio Bordoni

S

iamo sinceri: oggigiorno è sempre meno opportuno “fare finta che”, piuttosto che “fare finta di niente”. Anche riferendoci e richiamandoci al solo mondo della Fotografia, entro il quale agiamo e che compone i tratti del nostro statutario stare insieme, è oltremodo colpevole affrontare la materia in modo approssimativo, generico e superficiale... con relativa inevitabile trasmigrazione verso l’inesattezza e -addirittura- l’imprecisione. Sia che si esamini e studi l’applicazione espressiva e creativa e lessicale della Fotografia, verso la quale tutto deve

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, CON AMORE Disegno ottico ereditato dal passato remoto, addirittura dalla Storia, l’attuale proposta Lomography Petzval 85mm f/2,2, in baionetta per reflex Canon e Nikon (pellicola e acquisizione digitale), ripropone le qualità e prestazioni del primo obiettivo fotografico autenticamente tale: primo calcolo matematico, con relativo progetto elaborato dall’autunno 1839 e storicizzato al 1840, di datazione ufficiale (all’alba della fotografia), da Joseph Max Petzval. In finitura ottone o nera, in confezione con i propri diaframmi in lamierino inox e complementi dedicati [a pagina 37].


ANTONIO BORDONI

di riflessione ad ampio raggio, l’analisi -anche soltanto tecnica- pretende e reclama idoneità specifiche, che sono in nostro possesso, che appartengono al nostro bagaglio culturale, fosse anche soltanto in richiamo/riferimento tecnico (ma non è solo questo e non è limitato solo a questo, pur partendo da questo). Decenni dopo aver concluso il nostro iter scolastico, che all’inizio degli anni Settanta approdò a preparazioni ottiche, oggi possiamo affermare di aver perfetta padronanza del soggetto, del quale conosciamo i valori storici che ne hanno definito la fantastica personalità tecnica; e siamo consapevoli del contenuto dell’ottimo e autorevole A History of the Photographic Lens, di Rudolf Kingslake, pubblicato da Academic Press, nel 1989. Da cui, prima di approdare all’attualità tecnico-commerciale di inevitabile riferimento (peraltro risolta in un paio di annotazioni, niente di più), stiamo per allungarci sull’intera vicenda dell’obiettivo che oggi è identificato come “Petzval”, del quale possediamo altresì un esemplare di inizio Novecento, in esecuzione Rodenstock (Portrait Objektiv 1:3,7 N°4), in focale 220mm, come testimonia una documentazione fotografica pubblicata qui a sinistra. In questo senso, è esemplare l’analisi della nostra rivista redatta da Pino Bertelli, pubblicata sullo scorso numero di novembre, dal quale riprendiamo un passaggio significativo: «Il rondò di FOTOgraphia è quasi una partitura musicale [...]. A scorrere le pagine di FOTOgraphia si può vedere l’importanza conoscitiva dei prodotti/strumenti fotografici che consiglia, studia, argomenta. La trattazione non è mai superficiale, dovuta e circostanziale; si parla di fotografia e di linguaggio fotografico anche quando si analizza un obiettivo, una macchina fotografica, un utensile per fare immagini. Non è questione di competenza e basta, si tratta di amore per la fotografia... e, quindi, di intrattenere e prolungare il rapporto con il lettore, quale che sia».

PETZVAL... NEL SENSO DI

Il disegno ottico originario dell’obiettivo per ritratto disegnato da Joseph Petzval (1807-1891; in un ritratto pittorico dell’epoca) è stato interpretato in numerose configurazioni che hanno scandito il Tempo fotografico. A partire dalla dotazione originaria Voigtländer per dagherrotipia, tanti altri obiettivi -tra i quali il nostro Rodenstock Objektiv 1:3,7 N°4fino all’attuale Petzval 85mm f/2,2.

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essere orientato, sia che si considerino e valutino gli apporti tecnici, occorre sempre e comunque comportarsi con competenza e preparazione. In rispetto proprio e in rispetto degli interlocutori verso i quali ci si rivolge (lettori, nello specifico), idoneità, perizia, capacità e bravura non sono doti/caratteristiche accidentali, ma requisiti obbligatori. Tra tanto quanto è presente sul mercato della fotografia, con relativi annessi e connessi, oggi e qui, ci occupiamo del disegno ottico Petzval, che l’ardimentoso cartello commerciale Lomography propone in doppia livrea, ottone e nera, per reflex dei nostri giorni: Canon e Nikon, sia a pellicola sia ad acquisizione digitale di immagini. Al nostro solito in forma

La rielaborazione attuale presentata come “Petzval” si richiama a un disegno ottico delle origini della fotografia, finalizzato al ritratto (in un’epoca nella quale, allungatasi fino ai primi anni del secondo dopoguerra, i disegni ottici non erano genericamente indirizzati a una qualità formale asettica, come è oggi, ma si rivolgevano a specifiche di utilizzo, in relazione al soggetto affrontato e da risolvere). Si tratta di un disegno ottico per mille e mille motivi fondante della Storia della Fotografia, e ne stiamo per riferire. Composto da due gruppi ottici in doppietto (o quasi), con diaframma interno, l’obiettivo fu disegnato dal matematico ungherese Joseph Max Petzval (1807-1891), nel 1840 (!), all’alba della Fotografia. Oltre valori formali specifici, tutti di alta quota, si deve annotare che -di fatto- questo è stato il primo autentico progetto ottico per fotografia. Come ben sappiamo (o dovremmo sapere), la fotografia che nasce in forma di dagherrotipo -nelle due date storicizzate di annuncio e presentazione, a Parigi, nel 1839 (il sette gennaio e il diciannove agosto)- cominciò il proprio cammino con l’apparato di


Louis Jacques Mandé Daguerre, prodotto dal parente François Simon Alphonse Giroux, in vendita a Parigi dal dieci agosto: lungo 26,7cm, in posizione di riposo, si estende fino a 50,8cm, al massimo allungamento; all’altezza di 31,1cm, corrisponde una larghezza di 36,8cm; per lastre full plate 16,4x21,6cm; obiettivo costituito da un doppietto a menisco, o piano-convesso, di 380mm di lunghezza focale e 81mm di diametro; il diaframma fisso di 27mm riduce l’apertura di lavoro all’equivalente del diaframma f/11-19 (accredito storico di Corrado D’Agostini, di Firenze). Realizzato dall’optometrista Charles Louis Chevalier (1804-1859), questo obiettivo è un acromatico per paesaggio, inadatto al ritratto: sia per propria luminosità relativa particolarmente avara, sia in relazione alla limitata sensibilità alla luce della lastra dagherrotipica, che richiedeva tempi di esposizione particolarmente prolungati, nell’ordine di circa venti minuti. Comunque, subito all’indomani del 1839 di origine, la progettazione fotografica si è mossa in due direzioni coincidenti: emulsioni più sensibili e aperture di diaframma più confortevoli. Quindi, in una situazione costellata da improvvisatori e faciloni, dall’autunno 1839, il matematico Joseph Max Petzval introdusse una variante capace di costituire l’autentica differenza: invece di combinare empiricamente lenti di vario tipo -come facevano in molti (addirittura, tutti)-, sulla base di pertinenti calcoli matematici, disegnò su carta un progetto coraggioso e temerario, finalizzato a una generosa apertura di diaframma: f/3,4! Come appena annotato, il suo obiettivo -che oggi viene riproposto in focale 85mm f/2,2 per il piccolo formato 24x36mm (Canon e Nikon: pellicola o digitale)- ha uno schema asimmetrico semplice, quanto efficace. Due gruppi ottici: doppietto acromatico anteriore (formato da una lente biconvessa in vetro Crown cementata con una lente pianoconcava in vetro Flint) e due lenti separate posteriori (menisco divergente in vetro Flint, con la convessità rivolta verso la luce, e lente biconvessa in vetro Crown, con la minor curvatura rivolta all’esterno, verso il piano di proiezione, piano focale). Il gruppo ottico anteriore, frontale, è ben corretto per le aberrazioni sferiche, ma introduce coma. Il secondo doppietto, posteriore, corregge il coma; quindi, la combinazione con l’apertura del diaframma corregge adeguatamente l’astigmatismo residuo. Ancora da reminescenze scolastiche: tuttavia, la combinazione ottica determina una curvatura di campo aggiunta e inserisce una considerevole vignettatura. Per cui, l’angolo di campo è forzatamente limitato a trenta gradi circa, con iscrizione conseguente nell’ambito della costruzione fotografica medio tele (per intenderci, focale 85mm sul formato di ripresa 24x36mm). In ogni caso, ampia apertura relativa f/3,4, addirittura unica al proprio tempo. Quindi, in conclusione (?), la finalizzazione alla fotografia di ritratto dell’obiettivo di Petzval è risolta sia dalla lunghezza focale adeguatamente lunga, sia dalla agevole e incoraggiante apertura relativa, con conseguenti comodi tempi di otturazione/esposizio-

Il Petzval 85mm f/2,2 commercializzato da Lomography, su produzione russa, dispone di diaframmi in lamierino inox a inserimento, fino a f/16. In baionetta Canon EF e Nikon F e in livrea ottone e nera, l’obiettivo è confezionato con una monografia che raccoglie un casellario di ritratti, ulteriori quattro diaframmi sagomati (e altri ce ne sono e se ne possono realizzare, in proprio), un tessuto per pulizia, un astuccio in pelle e tappo anteriore e paraluce in ottone.

ne. Ancora nella sua attuale configurazione Lomography per Canon e Nikon, l’odierno obiettivo Petzval 85mm f/2,2 produce immagini affascinanti, definite da una adeguata nitidezza, combinata con una limitata profondità di campo (in dipendenza dell’apertura di diaframma, nello specifico non a iride, ma in lamierini inox a inserimento, ereditati dal passato remoto della costruzione ottica per fotografia).

Perché no? Con reflex Nikon in livrea fantasia: non solo cromata, non solo nera, ma anche...

PETZVAL OGGI (CON RICHIAMO) Ancora note retrospettive, prima di concludere con l’attualità del Petzval 85mm f/2,2 in baionetta Canon EF e Nikon F, realizzato a Krasnogorsk, in Russia, nei pressi di Mosca,

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Doppietto acromatico anteriore, con lenti cementate Lente biconvessa in vetro Crown Lente pianoconcava in vetro Flint

Diaframma Doppietto posteriore Menisco divergente in vetro Flint Lente biconvessa in vetro Crown Come annotato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, l’obiettivo per ritratto disegnato dal matematico Joseph Max Petzval, nel 1840, è il primo autentico progetto ottico per fotografia. Invece di combinazioni empiriche, ai tempi frequentate da tutti, questo schema asimmetrico fu semplice quanto efficace: doppietto acromatico anteriore con due lenti cementate e due lenti posteriori separate. È lo stesso schema dell’attuale Petzval 85mm f/2,2.

Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, due emissioni filateliche che richiamano sia l’obiettivo per ritratto disegnato da Joseph Max Petzval (1807-1891), nel 1840, oggi rivitalizzato nella configurazione Lomography Petzval 85mm f/2,2 per reflex Canon e Nikon, sia la figura dell’eminente matematico ungherese. In richiamo al Congresso Europhot, a Vienna, l’8 ottobre 1973, l’Austria ha emesso un francobollo illustrato con un obiettivo Petzval [in dettaglio, sulla copertina di questo stesso numero]. Quindi, il matematico ungherese è ricordato in un francobollo cecoslovacco emesso il 6 luglio 1987 (in una serie di tre valori).

nella fabbrica delle reflex Zenit di buona memoria. Richiamiamo qui il Rodenstock Portrait Objektiv 1:3,7 N°4 in nostro possesso, nella focale 220mm (168x86mm, 107mm alla sporgenza superiore; 1,772kg). Risale al primo decennio del Novecento, e qualcuno si azzarda a datare 1908 (ma non importa), ed è finalizzato alla copertura del formato fotografico 10x15cm, nelle sue interpretazioni standardizzate: nel nostro caso, al 4x5 pollici (10,2x 12,7cm) delle nostre dotazioni individuali a banco ottico, a partire dall’emozionante Sinar Norma [FOTOgraphia, luglio e settembre 2014]. In effetti, richiamiamo questa nostra combinazione per allungarci sul fatto del giorno (o quasi), al quale

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riferiamo questo nostro approfondimento. Infatti, l’uso di obiettivi d’epoca e antichi su e con apparecchi fotografici odierni (circa, magari), siano a pellicola o ad acquisizione digitale di immagini, è una pratica frequentata da un segmento crescente della comunità fotografica mondiale, per quanto di nicchia sia e possa essere. In questo senso, e in attesa di riprendere l’argomento -magari riferendolo più specificamente alla fotografia grande formato, a banco ottico o folding-, evocazioni come Petzval, Dallmeyer, Wide Ektar, Cooke, Goerz, Apo-Lanthar, Heliar, Hypergon, Voigtländer, Wollensak, Carl Zeiss, Schneider, Rodenstock, Hugo Meyer, Thornton Pickard, Bausch & Lomb, Apo-Skopar, Imagon e tante altre risalenti all’inizio del Novecento ricongiungono il sapore della prima tecnologia dell’immagine fotografica (e artistica), coniugandolo nell’esuberanza (e confusione) del Ventunesimo secolo. Procedendo in avanti senza tralasciare di imparare dal passato, verso il quale si rivolge il nostro sguardo, si dà voce e fiato a intenzioni creative estremamente convogliate. Senza cadere in inutili nostalgie e accettando che -volente o nolente- il tempo va avanti, con o senza di noi, si tratta di attardarsi consapevolmente con compagnie fotograficamente storiche: del passato, sia prossimo, sia remoto, che da questo stesso passato avvolgono il presente con un’aura che arricchisce e impreziosisce le nostre esistenze. Ancora, e sia chiaro una volta per tutte: non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -molto più concretamente- invitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen ; Adelphi, 2014): tra tanto altro, filosofia e contenuti dell’entusiasmante progetto/workshop Ritorno al grande formato [FOTOgraphia, luglio, settembre e ottobre 2014], prospettato e suggerito da FOTOgenia, contenitore e riferimento di assoluto prestigio [su questo stesso numero, a pagina otto]. Nello specifico, sia nella sua antica configurazione Rodenstock Portrait Objektiv 1:3,7 N° 4 (e coeve, precedenti e successive), sia in questa attuale Petzval 85mm f/2,2 per Canon e Nikon, si tratta di un sapore di immagine che riprende e rivitalizza valori senza tempo. La messa a fuoco manuale avviene tramite una manopola di comando a cremagliera e pignone, che replica le montature antiche e originarie. In ogni caso, un capitolo fondante di Storia della Fotografia... in chiave tecnologica presente e futuribile. Ma, soprattutto, in adattamento da Pino Bertelli [FOTOgraphia, novembre 2014], non abbiamo compilato una trattazione superficiale, dovuta e circostanziale; intenzionalmente, parliamo di fotografia e di linguaggio fotografico anche quando analizziamo un obiettivo. Già! In ripetizione e conferma (!): «Non è questione di competenza e basta, si tratta di amore per la fotografia... e, quindi, di intrattenere e prolungare il rapporto con il lettore, quale che sia». ❖



Nel 2006, il versatile banco ottico Silvestri S5 Micron è stato incluso nel selettivo novero degli oggetti di design insigniti del prestigioso e autorevole Premio Compasso d’Oro ADI. Onore a Vincenzo Silvestri e al designer Gabriele Gargiani. Il Premio Compasso d’Oro si offre e propone come il maggior riconoscimento alla progettualità e alla produzione italiana, e mantiene nel mondo un’elevata considerazione, dimostrata anche dal continuo successo delle mostre della Collezione storica.

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29 dicembre 1972: ultimo numero di Life settimanale, in edizione doppia con le fotografie dell’anno. Fino al 1978, furono pubblicati soltanto fascicoli speciali, e poi la testata riprese con cadenza mensile, fino al 2000. La sua terza versione, in allegato a quotidiani statunitensi, è stata pubblicata dal 2004 al marzo 2007.

di Maurizio Rebuzzini

A

nche se non condividiamo un’opinione diffusa, che assegna a Life la primogenitura di settimanale illustrato, nel quale la fotografia svolge un ruolo primario, non possiamo ignorare l’essenza e consistenza degli equilibri che la Storia ha stabilito con il proprio indispensabile e sacrosanto passo. Per cui, nello stesso momento nel quale consacriamo l’origine europea del fotogiornalismo periodico, ovverosia del fotogiornalismo moderno, che si è sistematicamente evoluto ed emancipato fino alla sua più attuale personalità, non possiamo ignorare che -a tutti gli effettiLife è stata una testata fotogiornalistica unica nel proprio genere, addirittura si è rivelata esempio per tanti, sia dal punto di vista strettamente formale (della sua messa in pagina) sia da quello dei contenuti (impostazione e indirizzo dei propri racconti fotogiornalistici). Comunque, prima di avvicinare l’ennesima riflessione sulla sua personalità, che ha già riempito tante e tante pagine di commenti e rievocazioni (oggi, una ancora e una in più; speriamo, mai una di troppo), è giocoforza contestualizzare quantomeno il clima fotografico degli anni Venti e Trenta del Novecento, che diedero i natali a ciò che si è sempre inteso come fotogiornalismo (e si dovrebbe circostanziare anche il clima politico e sociale: discorso complesso, non alla portata di queste pagine). Lo facciamo, coniugando ancora una volta quella nostra particolare considerazione fotografica che -a differenza di altre visioni, tutte nobili... ma- considera costituente e fondamentale la consecuzione tra opportunità tecniche e tecnologiche ed espressione fotografica. Il princìpio è di semplicità disarmante: l’applicazione fotografica dipende in misura consistente anche dalla sostanza dei suoi strumenti. Certo, siamo allineati a Pino Bertelli, intrigante situazionista, che solitamente conclude la fogliazione di questa rivista con suoi illuminanti Sguardi su, quanto ribadisce che «La macchina fotografica è di per sé un limite che va abbattuto, per arrivare là dove il soggetto diventa protagonista della propria storia» [in FOTOgraphia, dello scorso novembre, con relativa prosecuzione: «La fotografia inganna, quanto la politica e la religione, se non ha l’audacia di cogliere l’inatteso e anticipare l’eternità in un attimo di verità»]. Però, allo stesso momento, non ignoriamo, né sottovalutiamo, la consecuzione che va

La rievocazione di Life, nel settantottesimo anniversario dal primo numero, del 23 novembre 1936, è dovuta e doverosa. Sia chiarito subito che non siamo così ingenui da limitarci all’apparenza e alla beatificazione che per il solito definiscono tutte le celebrazioni. Compresa la lezione che l’attento Uliano Lucas è solito impartire ogni qualvolta affronta il tema del fotogiornalismo, siamo perfettamente consapevoli che lo stesso fotogiornalismo non sia estraneo al giornalismo, al quale fornisce declinazioni visive in sintonia di intenti: in relazione e dipendenza delle esigenze della committenza. Non immagini a sé, quindi, ma soprattutto immagini in relazione ai relativi utilizzi e alle vicende politiche, economiche e sociali di riferimento 42

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Il primo numero di Life data 23 novembre 1936. In copertina, una fotografia di Margaret Bourke-White: la diga nei pressi di Fort Peck, nel Montana, le cui dimensioni sono esaltate dalle sagome in basso. All’interno, il servizio apre, quindi, con i lavoratori vestiti della festa, che danzano in un saloon [a pagina 44].


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Nell’autunno 1996, alla fatidica scadenza del sessantesimo compleanno, Life ha confezionato un numero autocelebrativo, compilato con grande rispetto al valore dei fotografi autori delle immagini presentate. In copertina, un fotomosaico di Robert Silvers, che ricostruisce un ritratto di Marilyn Monroe attraverso una preordinata sequenza di copertine storiche della rivista.

LA LEZIONE

DI LIFE

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LIFE, NUMERO UNO: 23 NOVEMBRE 1936

Nello svolgersi del Tempo, con maiuscola volontaria oltre che consapevole, alcune fotostorie pubblicate da Life hanno finito per rivelarsi più grandi di altre. Sono tutti fotoreportage che hanno palesato la propria portata con intento e audacia, spesso fuori dal comune. Quindi, ci sono perfino storie che si sono imposte per altri meriti, comunque sia in retrospettiva: che hanno guadagnato in statura e influenza in stretta dipendenza con i termini formali della loro pubblicazione originaria. In questo senso, oltre le proprie doti incontestabili, va assolutamente ricordata la prima storia dalla copertina, per l’appunto per il primo numero di Life, del 23 novembre 1936: reportage di Margaret Bourke-White sulla costruzione della diga di Fort Peck, in Montana, incalcolabile impegno dell’amministrazione pubblica nazionale, per l’edificazione della più grande diga del pianeta... nel pieno della Depressione, innescata dal crollo della Borsa, del 1929. Esemplare è l’annotazione con la quale, nel maggio 2007, a commento della terza chiusura di Life (quella definitiva!), Lello Piazza appuntò: «Fotografia di una diga dalle sagome inquietanti, che evocano le forme degli edifici alieni dei quadri di Sironi». Mirabile rappresentazione fotografica, che si allinea idealmente all’immagine di apertura dello stesso servizio: lavoratori vestiti della festa, che danzano in un saloon. In definitiva, quella copertina e quel fotoreportage sottolinearono adeguatamente e con piglio la dichiarazione di intenti del nuovo settimanale illustrato, che nelle intenzioni del suo fondatore e creatore Henry R. Luce avrebbe fatto «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi...». Dunque, a parte ogni distinguo di carattere ideologico, non soltanto filosofico, che sottolineiamo nel corpo centrale di questo stesso intervento redazionale, con quella fotostoria, il fotogiornalismo moderno stabilisce il proprio passo, la propria cadenza, il proprio lessico. Insomma, fino a che punto si è disposti a portare il mondo, in tutta la propria complessità emozionante, nelle case di tutti gli Stati Uniti! Ciò detto, la fotostoria di Margaret Bourke-White non avrebbe potuto essere migliore... forse. In qualche modo grandiose e intime, al tempo stesso, le sue fotografie -e il rilievo con il quale la messa in pagina le ha visualizzate- hanno reso chiaro che si era di fronte a un settimanale illustrato capace di affrontare veramente grandi storie in modi nuovi e brillanti. Attenzione, però: un conto sono le opinioni da addetti (magari, noi tra questi), altra è la percezione del pubblico, soprattutto di quello coinvolto emotivamente. Infatti, si racconta che gli abitanti di Fort Peck rimasero costernati nello scoprire che delle diciassette fotografie messe in pagina da Life, otto -che compongono l’ossatura dell’intero fotoreportageerano state scattate all’interno di locali pubblici fatiscenti.

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LIFE, NEL SESSANTESIMO In avvicinamento agli ottanta anni dal primo numero, del 23 novembre 1936 (dunque, 1936-2016), non im-

maginiamo come Life celebrerà la sostanziosa ricorrenza... certi che, comunque sia, la celebrerà, così come ha sottolineato ogni proprio sostanzioso anniversario. Tra tanto altro, e oltre innumerevoli raccolte librarie a tema (la più recente delle quali, quantomeno in nostra relazione, annotata in FOTOgraphia, del dicembre 2009), ricordiamo che alla fatidica scadenza del proprio sessantesimo compleanno, nell’autunno 1996, Life confezionò una affascinante monografia autocelebrativa, in forma di rivista [FOTOgraphia, dicembre 1996]. Al pari di ogni altro precedente, questo ennesimo “speciale” mise in scena un giornalismo e fotogiornalismo al quale noi italiani siamo ormai disabituati. Lo abbiamo già scritto in altre occasioni, e ora lo ribadiamo, ora corre l’obbligo della ripetizione: la strada dell’abbinamento con Dvd e regalie varie ha portato i nostri giornali ad abbandonare ogni personalità giornalistica, che possiamo ormai trovare soltanto nell’editoria internazionale. Ancora oggi, è opportuno riprendere quella edizione [a pagina 43]. Una fascia esterna annuncia che all’interno del fascicolo di Life/60anni sono riprodotte le duemilacentoventotto copertine storiche (2128), peraltro anticipate nella combinazione visiva e fotografica che sovrasta l’ennesimo ritratto di Marilyn, questa volta composto da un fotomosaico di Robert Silvers [FOTOgraphia, marzo 1999]. La sequenza redazionale comincia, quindi, con un avvincente e convincente Almanacco retrospettivo. Proseguendo, il secondo capitolo di Life/60anni, monografia costruita sulla sequenza di fotografie che hanno caratterizzato i decenni dal 1936, mette direttamente a confronto diverse realtà del mondo di allora e del mondo di oggi. Per esempio, nel 1936, l’esercito americano impegnava circa trecentomila persone (291.356) e a fine millennio ne occupava quasi un milione e mezzo (1.490.436). Il terzo consistente capitolo dello speciale Life, a sessant’anni dal primo numero, raccolse e commentò anche le definite Sessanta fotografie che ci hanno cambiato per sempre. Si va dai reportage più classici

Evitando altri clamori, come l’epopea delle missioni lunari, leggera passerella di numeri significativi della prima edizione settimanale di Life, quella alla quale si riferisce il particolare contributo dei suoi fotogiornalisti alla storia evolutiva del linguaggio fotografico. Il 10 ottobre 1955, la rivista ripropone il servizio originario di Edward Steichen su Greta Garbo, commissionato da Vanity Fair nel 1928. Uno dei celebri balzi di Philippe Halsman, che ha fatto saltare personaggi di spicco dell’arte, della politica e dello spettacolo: Marilyn Monroe, 9 novembre 1959. Numero speciale dedicato a John F. Kennedy, il presidente assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963.

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dallo strumento al suo utilizzo; e poi, l’uso si riversa sulla società. Addirittura, con tragitto inverso: la società definisce e determina originariamente le proprie esigenze e necessità, via via soddisfatte. L’abbiamo già riferito, e qui ripetiamo. In metafora, e con visione utilitaristica (al nostro ragionamento), anche uno straordinario momento culturale quale è stato l’Impressionismo pittorico -forte di contenuti di sostanza, sia detto- ha debiti di riconoscenza tecnicamente originari. Ovvero, finalizzati all’ipotesi che stiamo affrontando, tecnicamente parlando, l’Impressionismo è stato reso possibile da due apporti fondamentali (che oggi sarebbero classificati come hardware e software), invenzioni del tempo: pennelli con setole di maiale, da cui le caratteristiche pennellate dense e pastose, e tubetti per i colori a olio, che consentirono di uscire dallo studio, per andare en plein air (per le cui escursioni, si annota anche l’invenzione del cavalletto da campagna, facile da trasportare). Così che, anche per il fotogiornalismo moderno, databile dalla fine degli anni Venti del Novecento, si devono considerare e conteggiare condizioni tecniche di base, a partire dalla portatile Leica 35mm, presto configurata con obiettivi intercambiabili (e si potrebbe aggiungere persino l’Ermanox, dotata di obiettivo luminoso f/2: per la quale si è soliti richiamare la personalità del fotogiornalista tedesco Erich Salomon [1886-1944]). In ogni caso, le testate europee che vanno ricordate passano dalle fondamentali e primigenie Berliner Illustrirte Zeitung e Münchner Illustrierte Presse, in Germania, Picture Post, in Inghilterra (dal 1938... con copertina/testata sulla falsariga di Life!), e Vu, in Francia (che pubblicò per primo la storica fotografia del miliziano spagnolo colpito a morte, di Robert Capa, sul suo numero del 23 settembre 1936, solitamente ed erroneamente attribuita, in prima pubblicazione, a Life, che sarebbe nato di lì a due mesi esatti).

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NEGATIVI ROVINATI (PER INCURIA)

La scorsa estate, sul sito Internet di Life, là dove vengono raccontati dietro-le-quinte della storia della celebre rivista, è stata pubblicata una notizia che rattrista. Per colpevole incuria -lo ammettono a chiare lettere-, molti dei negativi originari del fotoreportage di Margaret Bourke-White da Fort Peck, a contorno della costruzione di una imponente diga (storia di copertina del numero Uno del settimanale, 23 novembre 1936), sono irrimediabilmente rovinati. Nel comunicarlo, la redazione non cerca attenuanti, né giustificazioni (imparate, italiani, imparate dalla cultura di stampo protestante: credo religioso a parte, basata sull’idea che il dovere sia da anteporre a qualsivoglia diritto presunto). Addirittura, la stessa redazione si fa carico del fatto... e chiede scusa al pubblico, verso il quale indirizza il proprio senso del dovere. Il commento declina termini di assoluto sconforto e avvilimento.

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I negativi bianconero 4x5 pollici (10,2x12,7cm), dimensioni standard del fotogiornalismo statunitense dell’epoca, sono tanto gravemente danneggiati, da non consentire la stampa di copie positive. I dettagli chiave sono tanto degradati, da essere andati persi per sempre. In breve: i negativi sono irrimediabilmente rovinati. A parziale compensazione (soltanto morale) si sottolinea come il fatto sia sostanziosamente inspiegabile, perché altri negativi dello stesso fotoreportage sono invece in condizioni salutari, dopo quasi ottant’anni di conservazione in archivio. Per quanto inutile (ai fini pratici) e ininfluente sulla perdita irrimediabile, una indagine ha ipotizzato una sorta di colpevole disattenzione di qualcuno, nel corso del tempo: alcuni negativi, per l’appunto quelli danneggiati, sono stati spostati vicino a una fonte di calore, per esempio un radiatore, e dimenticati; oppure, sono stati danneggiati da fuoriuscite di sostanze chimiche.


e noti a visioni magari meno conosciute; ma, in ogni caso, si tratta di immagini che hanno indelebilmente storicizzato la cronaca della nostra epoca. La retrospettiva di Life non ha potuto fare a meno di soffermarsi su una delle più significative immagini della storia americana. Una volta ancora e una di più, venne ricordata la vicenda fotografica del bacio in Times Square, il 14 agosto 1945, V-J Day, di Alfred Eisenstaedt, il celeberrimo reporter venuto a mancare un anno prima di questo ennesimo ricordo. È Storia. Georgia O’Keeffe, Phan Thi Kim Phuc (la bambina vietnamita ritratta in una delle più crude immagini di guerra), i bambini fotografati da W. Eugene Smith, la contrapposizione tra guerre lontane nel tempo ma tanto uguali a se stesse, la balda sicurezza del generale MacArthur. Quindi, questa straordinaria e imperdibile monografia Life/60anni (trovatela! procuratevela!), che comprende anche la sequenza di copertine che stiamo per commentare, si conclude con un rilassante capitolo finale, nel quale sono riunite altre sessanta immagini curiose. Rispetto l’acuta osservazione del mondo, qui si pensa soprattutto a puntualizzarne alcuni momenti di serena esistenza, magari anche solo fotografica. Un altro degli avvenimenti epocali della storia degli Stati Uniti, che viene periodicamente riproposto all’attenzione pubblica. Con tutti i suoi lati oscuri, a trentasei anni dall’attentato di Dallas (allora, trentasei anni... altri ne sono trascorsi ancora, nel frattempo), l’assassinio del presidente John F. Kennedy pesa ancora nelle coscienze degli americani, che hanno lì davanti ai propri occhi i fotogrammi del filmino Otto millimetri girato da Abraham Zapruder [FOTOgraphia, novembre 2013]. Duemilacentoventotto copertine dal novembre 1936 (all’autunno 1996). Compresi i tempi bui della sua crisi editoriale, i sessant’anni di Life, rappresentano un autentico spaccato della nostra epoca: una storia originariamente americana, che ha presto proiettato la propria influenza su tutto il mondo. In ogni caso, la monografia autocelebrativa di Life fu compilata con grande rispetto al valore dei fotografi

autori delle immagini presentate. Una volta ancora, e una di più, dobbiamo e vogliamo puntualizzare come fuori d’Italia la figura del fotografo sia tenuta in cortese e civile considerazione.

LIFE : STORIA ALTERNATA Lanciando il settimanale Life, il 23 novembre 1936, il suo creatore e fondatore Henry R. Luce (1898-1967) pronunciò una promessa solenne: «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi; vedere cose strane, macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla e sulla luna; vedere l’opera dell’uomo: dipinti, torri, scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose da avvicinare; le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e gioire nel vedere; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così, vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano». Da allora, per ogni settimana dei trentasei anni successivi, Life mantenne la promessa (peraltro, evocata anche nella sceneggiatura e scenografia del film I sogni segreti di Walter Mitty [FOTOgraphia, maggio e giugno 2014, e, in ulteriore richiamo “dedicato”, su questo numero, da pagina 12]). E dal 1978, come mensile, continuò a mantenerla per altri ventidue anni, fino al 2000. Quindi, si registra ancora una terza chiusura, nel marzo 2007 [FOTOgraphia, maggio 2007], dopo una breve stagione settimanale, abbinata a una identificata serie di quotidiani. L’annuncio fu laconico: «Benché presso il pubblico l’idea della rivista Life come supplemento settimanale di molti quotidiani sia stata un grande successo, la crisi di questi media e le prospettive nel mercato pubblicitario ci inducono a rinunciare a ulteriori investimenti nell’iniziativa». Evidentemente, non bastò che questa edizione di Life venisse distribuita in tredici milioni di copie da centotré quotidiani e occupasse il terzo posto nella classifica degli inserti di questo tipo, alle spalle di Parade, con trentadue milioni di copie circolate da quattrocento giornali, e USA Weekend, ventitré

Da una guerra all’altra, poco cambia. Un esempio degli anni della Seconda guerra mondiale (9 aprile 1945, fotografia di W. Eugene Smith) e due della guerra in Vietnam: 16 aprile 1965 (fotografia di Larry Burrows, richiamato in copertina) e 11 febbraio 1966 (fotografia di Henri Huet/AP).

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MARGARET IN FORMA DI BAMBOLA

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Autentica testimone del Novecento, con l’onore della copertina del numero Uno di Life, Margaret Bourke-White è stata una fotoreporter di spicco di una luminosa stagione del fotogiornalismo internazionale. E su questo siamo tutti d’accordo: tanto che ogni ulteriore osservazione al proposito sarebbe soltanto ridondante ripetizione. Agganciandoci idealmente alla rievocazione dell’epopea di Life, ci soffermiamo su Margaret Bourke-White per allungare la nostra serie di brillanti considerazioni parallele sulla fotografia (e siamo la sola rivista capace di farlo: sia detto, per inciso!). Ancora una volta, con taglio giornalistico originale, segnaliamo una vicenda di avvincente curiosità: una sua sagoma ripresa da Notable American Women, albo della collana delle Paper Dolls dell’editore statunitense Dover. È esplicito: bambole di carta da ritagliare, proposte in duplice abbigliamento. La bambola di carta di Margaret Bourke-White scandisce due tempi significativi della sua personalità, che pertanto deve essere nota anche al grande pubblico statunitense. Da una parte, abbiamo una distinta signora al passeggio, con macchina fotografica tra le mani; dall’altra, una professionista bardata per una missione fotografica a bordo di un aereo militare (fatto reale, ripreso da un suo ritratto fotografico, del 1943). In entrambi i casi, sottolineiamo proprio l’eleganza dei due abbigliamenti. Del resto, sappiamo bene come Margaret Bourke-White fosse una donna ricercata, tanto da essere considerata tra le dieci donne americane più eleganti della propria epoca (ed è per questo che sta sulle pagine del fascicolo sul quale l’abbiamo individuata). Nella Biografia compilata da Vicki Goldberg, pubblicata in Italia da Serra e Riva Editori (1988), leggiamo che la fotografa «era perfettamente consapevole di dover vendere anche se stessa insieme alle sue fotografie». Pertanto, «si preoccupava del suo aspetto esteriore come il curatore di una mostra itinerante. Gli abiti divennero un passaporto e un sostegno al contempo». Tanto che «Margaret si fece un abito viola e un panno in velluto dello stesso colore per la macchina fotografica, di modo che quando cacciava la testa sotto il panno per scattare, la scenografia rispettava i canoni dell’abbinamento cromatico. Soddisfatta di tanta eleganza, preparò altri due panni: uno azzurro, da cooordinare con guanti e cappello, e uno nero, per gli accessori rossi».

milioni di copie circolate da seicentododici giornali. Come ricordato, questa chiusura fu la terza della storia di Life. Nata nel 1936 come settimanale, la rivista interrompe una prima volta le pubblicazioni il 29 dicembre 1972. Nonostante cinque milioni e mezzo di copie vendute, il newsmagazine arriva a perdere circa dieci milioni di dollari l’anno a causa della pubblicità che abbandona la carta stampata per la televisione. Rilanciata nel 1978 come mensile, Life sopravvive fino al 2000, quando viene chiusa per la seconda volta: 1.364.800 copie vendute nel 1980; nel 1994, 1.614.700; nel 1998, 1.558.800 (dati Audit Bureau of Circulations). Risorge nel 2004, come supplemento di quotidiano, ma dopo il 20 aprile 2007, Life si trova solo sul web, non più come giornale, ma come collezione di oltre dieci milioni di immagini. Tutte queste immagini, che coprono gli eventi e i temi più importanti del Ventesimo secolo, possono essere scaricate for free, a patto che non se ne faccia uso commerciale. Più del novantasette percento di questa immensa collezione non è mai stata pubblicata. Comunque, occorre infine ricordare che il 1936 non rappresentò per Life una vera e propria nascita, ma una metamorfosi. Infatti, Henry R. Luce, fondatore nel 1923 di Time e nel 1930 di Fortune, acquistò la testata da Clair Maxwell, che ne era stato l’editore dal 1921 al 1936. La rivista, più di humour che di informazione, fu fondata nel 1883 da John Ames Mitchell, bizzarra figura di intellettuale, laureato in architettura a Harvard. Henry R. Luce la cambiò completamente, trasformando Life in un giornale nel quale «le immagini avrebbero avuto la stessa importanza delle parole».

IN OGNI CASO, LIFE PER NOI Per quanto la cronologia delle edizioni di Life riguardi una vicenda interna al giornalismo statunitense, e soprattutto alle sue logiche di distribuzione e diffusione commerciale, è giocoforza tornare con il pensiero a quella lezione di fotogiornalismo definita e tracciata dalla prima edizione settimanale di Life, quella originaria, che dalla fine del 1936 si allungò nei decenni Pubblicata da Contrasto nel 2004, Life - I grandi fotografi è una raccolta fotografica in forma enciclopedica: in ordine alfabetico vengono presentati i fotografi che hanno lavorato per la celeberrima testata (608 pagine 20,3x25,4cm, cartonato; 600 illustrazioni bianconero e colore; 29,00 euro). Come risaputo, sostenuti da un’edizione di grande influenza giornalistica internazionale, nei decenni, i servizi di Life hanno tracciato le linee portanti del fotoreportage, e dunque questa raccolta è uno dei titoli fondamentali del nostro tempo, perché mette in ordine un fenomeno fotografico tra i più significativi del processo evolutivo del linguaggio fotografico.


Però, attenzione, insieme a queste belle proposizioni, tutte teoriche e intrise di buonsenso, la fotografia di Life e degli illustrati statunitensi che ne hanno seguito l’orma è stata soprattutto ideologica. Braccio (involontario?) di quella distribuzione e diffusione di pensiero americano che è dilagato in tutto il pianeta dalla fine degli anni Trenta. Tanto che bisogna richiamare ancora la fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art di Washington DC, nel 1999, che visualizzò un parallelo che oggi è congeniale. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati. Da una parte, la curatrice Leah Bendavid-Val ha collocato la Propaganda di regime (sovietico); dall’altra, i Sogni di uno stile di vita (statunitense) da proporre al mondo intero. Volendolo, e con punto di vista opposto, i termini potrebbero anche essere invertiti: Propaganda statunitense e Sogno socialista [FOTOgraphia, luglio 2004]. Del resto, come sottolineato dal curatore Uliano Lucas trasversalmente alla selezione Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, promossa dalla Fondazione Italiana per la Fotografia [FOTOgraphia, ottobre 2006], il fotogiornalismo non è estraneo al giornalismo, al quale fornisce declinazioni visive in sintonia di intenti: in relazione e dipendenza delle esigenze e richieste della committenza. Per questo, parlando di fotogiornalismo, bisogna richiamare anche ogni sua componente, fino a indagare a fondo quelle linee di tendenza e quei percorsi che nel trascorrere dei decenni sono stati tracciati da professionisti della comunicazione visiva e testate sulle quali hanno pubblicato le proprie fotografie. Non immagini a sé, quindi, ma soprattutto immagini in relazione ai relativi utilizzi e alle vicende politiche, economiche e sociali di riferimento. Seconda precisazione: quando si esalta il fotogiornalismo di Life ci si riferisce esclusivamente all’edizione originaria settimanale. Soprattutto agli anni che dalla fine dei Trenta si sono estesi fino alla tragedia della guerra in Vietnam. La successiva edizione mensile di

La copertina dello speciale estate 1996 di Life fu messa in pagina con le fototessere semi-adolescenziali di ventiquattro dei cinquanta più influenti personaggi statunitensi nati nell’epoca del “baby boom” (boomers): dal 1946 al 1964.

Lezione di giornalismo, con la capacità (e coraggio) di mettere in pagina un “God” / “Dio” in caratteri cubitali, a pieno formato. Life del dicembre 1998 si chiede «When You Think of God, What do You See?» (Quando pensi a Dio, come lo vedi?).

Ottobre 1994. Con sulle spalle il cane Eddie, che l’accompagnava nella seguìta serie Frasier, l’attore televisivo Kelsey Grammer richiama l’argomento di una inchiesta di sostanza: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)» / «Perché amiamo i gatti più dei cani (e viceversa)». Quindi, il gioco degli opposti è sottolineato dalla copertina della rivista in consultazione.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)

fino al 1972. Per quanto diversa -meno fotogiornalismo d’azione e più giornalismo di scrivania-, anche la seconda edizione mensile, che dal 1978 pubblicò fino al 2000, è stata analogamente affascinante. Da cui, un dibattito è inevitabile: la nostra vita fotografica con (e senza) Life! In conseguenza, una domanda: fatti salvi tanti distinguo del caso (per i quali sarebbe opportuna l’opinione di Pino Bertelli, trasversale ai suoi incoraggianti Sguardi su, con i quali solitamente concludiamo la fogliazione della rivista: comunque, non qui e non ora), cosa sarebbe del fotogiornalismo, se Life non fosse esistita? Quindi, rivolgendoci a noi stessi, la domanda è altrimenti declinabile: come sarebbe stata la nostra vita in fotografia senza Life ? Probabilmente, la stessa, perché alla resa dei conti, la risposta a tutte le domande che ci possiamo porre, e che ci siamo appena posti, è sempre la stessa: inevitabilmente, ciò che è accaduto in fotografia, così come nel macrocosmo dell’esistenza, doveva per forza di cose accadere. Se non ci fosse stata Life, ci sarebbe stato comunque qualcosa di identico, non soltanto analogo: perché i tempi sociali erano maturi per questo tipo di giornalismo illustrato, che ha dato impulso e vigore all’intera concezione del fotogiornalismo moderno. Dunque, i riferimenti storici conseguenti si richiamano a Life, perché Life c’è stata; così come si sarebbero riferiti a ciò che avrebbe potuto succedere invece di Life, al posto di Life. Ciò detto, dobbiamo continuare a pensare e scrivere riferendoci a Life e non ad altre ipotetiche vicende. Quindi, sono sostanzialmente indispensabili almeno due precisazioni (che potrebbero anche essere quantitativamente più corpose). La prima riguarda quell’idea di fotogiornalismo moderno che la Storia riporta sempre all’esperienza giornalistica di Life. È vero, anche noi ne siamo perfettamente convinti: così come lo intendiamo ancora oggi, il fotoreportage ha sostanziosi debiti di riconoscenza con l’impostazione originaria che Henry R. Luce diede alla rivista, fin dalla propria nascita (e la promessa l’abbiamo già presentata, qualche riga fa).

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Per quanto il fotogiornalismo di Life abbia scandito tempi e modi di un linguaggio espressivo e di svolgimento che ha guidato (e condizionato) il Novecento, giornalisticamente parlando, fu eccezionale la “copertura” della missione spaziale Apollo 11, del luglio 1969 [nel quarantennale: FOTOgraphia, luglio 2009], illustrata con fotografie scattate dai primi astronauti sulla Luna. 25 novembre 1946: Life nel decennale del primo numero (23 novembre 1936), in garbata autocelebrazione. Richiamo fotografico, magari nel solo senso del nostro occuparci della materia (con inviolabile competenza e concentrazione): copertina del terzo numero di Life (17 dicembre 1936), illustrata con una fotografia di Paul Wolff, al quale si riferisce sempre il legame con Leica. Ricordiamo che la sua monografia Meine Erfahrengen mit der Leica (Le mie esperienze con la Leica), del 1934, stabilisce la prima combinazione di un autore fotografo con una specifica macchina fotografica.

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Life non c’entra nulla con questo fotogiornalismo d’azione, segnalandosi invece per arguzia giornalistica e capacità di affrontare e proporre punti di vista di affascinante originalità. Tutt’altro discorso, dunque.

GIORNALISMO, APPUNTO Riflettendo su cosa abbia rappresentato Life per successive generazioni di fotografi e frequentatori della fotografia (noi, tra questi) non pensiamo sia ancora il caso di sottolineare tutti quei sommi valori che la Storia ha già sancito e codificato, e che si trovano in ogni narrazione degna di questa definizione. Per cui, pensando a Life per noi, preferiamo annotare alcune particolarità dell’edizione mensile che è stata pubblicata dal 1978 al 2000 e che, per quanto estranea al mito del fotogiornalismo che ha definito i lunghi anni del settimanale originario, ha espresso affascinanti lezioni professionali: sapendo alternativamente guardare a se stessa e al mondo con un equilibrio del quale il giornalismo internazionale dovrebbe fare tesoro (e dovrebbe farlo soprattutto quello italiano, da troppo tempo latitante). Anzitutto, meritano lodi particolari alcune delle copertine di questa edizione mensile di Life, che ha spesso confezionato numeri monografici, affrontando argomenti anche insospettabili, oppure avvicinando in modo originale argomenti previsti. È il caso, tanto per esemplificare (argomento e copertina insieme), dello speciale estivo del 1996, già commentato in cronaca [FOTOgraphia, settembre 1996]. È stata un’apprezzata lezione di giornalismo, con contorno di immagine fotografica usata in modo superlativo. Sul filo dei ricordi, soprattutto statunitensi, con un salto temporale indietro, Life ha indagato sulla generazione nata negli anni del boom sociale immediatamente seguente la Seconda guerra mondiale. Il boom del dopoguerra statunitense portò con sé uno stile e una narrativa ufficiali. Lo stato d’animo era ottimista. Nacque la televisione. Le automobili, gli elettrodomestici per la cucina e persino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione e la guerra, la visione di una casa suburbana su quote diverse e un

felice nucleo familiare prese residenza permanente nella mente nazionale. Tutte le conclusioni erano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. Anche se i problemi sono arrivati poi, presentando il proprio conto. Di tutto questo si è occupato lo speciale di Life, che prese spunto dai cinquanta più influenti personaggi nati nell’era del “baby boom”, ventiquattro dei quali furono presentati in copertina con relativi ritratti adolescenziali (o quasi) delle rispettive tessere del Club di Mickey Mouse, l’originale del nostro Club di Topolino, o dagli annuali scolastici. Tra questi, John Belushi (nato nel 1949 e prematuramente scomparso nel 1982), Bill Clinton (1946), Madonna (1958), Bill Gates (1955), Michael Jordan (1963), Hillary Clinton (1947), Spike Lee (1957), Bruce Spingsteen (1949), Steven Spielberg (1947), Stephen King (1947) e Oliver Stone (1946) [a pagina 49]. Altra copertina degna di nota, a confezione di una retrospettiva autocelebrativa addirittura esaltante [FOTO graphia, dicembre 1996], è stata quella dei sessant’anni di Life, dell’inverno 1996, ampiamente rievocata in apertura di articolo. Un ritratto di Marilyn Monroe, autentica icona del Novecento, fu interpretato da Robert Silvers [FOTOgraphia, marzo 1999], che per l’occasione realizzò uno dei suoi fotomosaici utilizzando una ragionata serie di copertine storiche di Life [a pagina 43]. Annotiamo che, successivamente, altri due periodici europei fecero qualcosa di analogo, in modo sostanzialmente posticcio: papa Wojtyla, l’uomo del decennio, fu abbinato ai primi dieci anni di Sette, supplemento settimanale del Corriere della Sera (10 marzo 1998), e il tedesco Spiegel compose una scritta celebrativa del cinquantenario della Repubblica federale tedesca (settembre 1998). In entrambi i casi, non autentico fotomosaico, con ragionata alternanza di toni e chiaroscuri, indispensabile per la ricostruzione della raffigurazione finale, ma schiarimenti e oscuramenti artificiosi e finalizzati. Planando più bassi, ma neppure poi tanto, ancora due segnalazioni, rappresentative di un insieme quantitativamente assai consistente (degno di un capitolo della ipotetica e improbabile Storia del giornalismo internazionale). Sopra tutto, un esempio dal punto di vista


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2):

DA

FOTOGRAFIA NEI

FRANCOBOLLI

La nascita di Life, il 23 novembre 1936, è ricordata ed evocata nel foglio Souvenir emesso dalle Poste statunitensi, il 10 settembre 1998. A fine secolo, una serie filatelica di dieci soggetti ha scandito le decadi del Novecento, per ognuna delle quali sono stati puntualizzati accadimenti significativi e fondanti... ovviamente, dal punto di vista statunitense. In anticipo sull’edizione del saggio-casellario Fotografia nei francobolli, per gli anni Trenta, segnaliamo anche la presenza della celebre Migrant Mother, di Dorothea Lange, rappresentativa della Grande Depressione.

dell’impatto visivo sul lettore/cliente potenziale, che in Italia viene per lo più attirato con allegati di vario genere, se non già con raffigurazioni di nudi femminili ammiccanti (tanto che il settimanale Cuore, anni fa, compilava la classifica dei “culi” e delle “tette” ingannevolmente sulle copertine dei periodici nazionali). In inglese, la domanda è esplicita tanto quanto lo è in italiano: «When You Think of God, What do You See?». Cioè: «Quando pensi a Dio, cosa vedi? / come lo vedi?». Argomento esistenziale di quelli tosti! Copertina da lezione di giornalismo, con la capacità (e coraggio) di mettere in pagina un “God” / “Dio” in caratteri cubitali, quasi a pieno formato: Life del dicembre 1998 [a pagina 49]. Assolutamente più leggera era stata, in precedenza, l’inchiesta condotta interpellando una consistente serie di personaggi pubblici statunitensi, dalla politica allo sport, allo spettacolo: Life dell’ottobre 1994. Ognuno si è espresso circa la propria predilezione per i cani domestici o i gatti (terribile diatriba, paragonabile a tanti altri dualismi: Coppi-Bartali, Beatles-Rolling Stones, Moser-Saronni, Inter-Milan, Roma-Lazio, Juventus-Torino, Sampdoria-Genoa, Partito comunista-Democrazia cristiana, Windows-Mac..., a ciascuno il proprio). In copertina, con sulle spalle il cane Eddie, che l’accompagnava nella seguìta serie Frasier, l’attore televisivo Kelsey Grammer, vincitore di cinque Emmy, richiama una risposta inequivocabile a una domanda esplicita: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)» / «Perché amiamo i gatti più dei cani (e viceversa)». Quindi, il gioco degli opposti è sottolineato dalla copertina della rivista (sempre Life), che l’attore tiene tra le mani, che illustra un gatto e recita «Why We Love Dogs More Than Cats (and vice versa)» / «Perché amiamo i cani più dei gatti (e viceversa)» [ancora a pagina 49]. Attenzione: in copertina e nel servizio interno, ritratti di Harry Benson, uno dei più affermati fotografi del genere.

ALLORA! LIFE PER NOI Indipendentemente da fatti concreti e tangibili, come sanno esserlo quelli della Vita (con tutti i propri conti e rimorsi e affanni), per generazioni successive, Life

è stato un concetto. Non possiamo pensare che chi si occupa di fotografia abbia modo di seguire le cronache in diretta del fotogiornalismo -né dobbiamo pretenderlo, forse-, però ognuno di noi ha sempre saputo che, comunque andassero le storie, Life c’era. Per il passato meno prossimo, (per scaramanzia e amor proprio) non diciamo addirittura remoto, attingiamo dal patrimonio visivo dei fotografi di Life per conoscere lo svolgimento dei fatti e averne una visione chiara ed esplicita: dai fronti delle guerre, come anche dal quotidiano più minuto. Sfogliamo libri e raccolte, e quelle di Life sono veramente tante, oltre che belle, per incontrare e ri-percorrere tempi e luoghi che conosciamo proprio in virtù di queste immagini, che hanno raccontato il Novecento in maniera mirabile. A seguire, nel più recente passato, quello soltanto prossimo, abbiamo goduto della buona compagnia di un mensile attento e giornalisticamente ammirevole, dalle cui pagine abbiamo sicuramente imparato qualcosa. Forse, addirittura molto. Infine, se una risposta va data al quesito esistenziale oggi proposto, uno dei tanti che condiscono questa rievocazione soprattutto intima, dobbiamo pensare di essere ciò che siamo, e in alcuni casi siamo sostanzialmente belli (dentro, più di quanto non lo si possa essere fuori), anche grazie alla fotografia e al giornalismo di Life. Non ne avremmo certo potuto fare a meno; dunque, se non ci fosse stato Life, ci sarebbe stato comunque qualcosa di coincidente capace di guardare la Vita con analoga franchezza e chiarezza. Con uno sguardo che, comunque lo consideriamo (e ci consideriamo), ha arricchito il nostro personale bagaglio culturale. Ovviamente, fatti salvi sostanziosi distinguo ideologici, che abbiamo saputo identificare per ciò che sono stati: inevitabile supporto e sudditanza a vicende politiche, economiche e sociali del momento, dei momenti. Insomma: abbiamo raccolto ciò che ci è occorso, ci è stato utile, ci è tornato favorevole e produttivo, senza peraltro lasciarci coinvolgere in alcuna beatificazione senza contesto. ❖

La sceneggiatura del recente I sogni segreti di Walter Mitty, di e con Ben Stiller (remake di un precedente film, del 1947, con Danny Kaye, altrettanto derivato da un racconto originario di James Thurber, del 1939), ambienta la vicenda “editoriale” nella redazione di Life, trasponendo al 2013 quanto accaduto quaranta anni prima, nel 1972: chiusura della rivista, con preparazione obbligata dell’ultimo fatidico numero. Ne abbiamo relazionato in due precedenti occasioni, gli scorsi maggio e giugno, e torniamo sull’argomento in questo stesso numero, da pagina 12: a proposito di tredici (quattordici) copertine false, adeguate alla scenografia del film.

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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

febbraio 2015

BUNNY YEAGER DA MODELLA A FOTOGRAFA, NELL’AVVINCENTE EPOPEA DELLE PIN-UP: dai Cinquanta


© 2001: Space Odyssey e tutti i personaggi ed elementi correlati sono marchi Turner Entertainment Co.

di Angelo Galantini ertamente, si tratta di una pura e curiosa coincidenza, magari di quelle che rivelano che la vita possa avere anche senso: il memorabile film 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick (in originale, 2001: A Space Odyssey ) uscì nelle sale cinematografiche del mondo nel 1968 (in Italia, il dodici dicembre, in anticipo di un anno dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura, di piazza Fontana, a Milano). Come annota spesso il convinto situazionista Pino Bertelli, i cui folgoranti e illuminanti Sguardi su concludono solitamente la fogliazione della rivista, «Nel Sessantotto, la gioia di una gioventù libertaria si riversò nelle strade del mondo, per portare la fantasia al potere... non per possederlo, ma per meglio distruggerlo. Poi, le cose andarono diversamente; molto di quei giorni formidabili è stato recuperato, stravolto e devastato»; per poi annotare, ancora che «Tuttavia, vogliamo ricordare che in quell’anno anche i vini e le marmellate vennero più buoni». Sessantotto! Curiosa coincidenza, per un film che ha letteralmente rivoluzionato la fantascienza e l’arte del cinema: un film che -con i suoi effetti speciali, uno stile narrativo completamente nuovo, l’importanza filosofica trasversale e scelte musicali inusuali- ha trasformato il nostro modo di pensare e percepire i film. Ora, a distanza di quasi cinquanta anni dalla sua ideazione, il solerte e capace editore Taschen Verlag, di Colonia -immancabilmente lui!- ha realizzato e pubblicato la più esaustiva monografia mai dedicata all’epocale 2001: Odissea nello spazio.

Il giorno di Natale del 1965, il regista Stanley Kubrick dirige la scena del monolite lunare, a Shepperton, in Inghilterra (per dimensioni, il secondo set europeo del film).

2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, è un film epocale, che ha cambiato il cinema, oltre ad aver influito (positivamente) su molte esistenze, e oltre ad aver dato vita a un autentico cult, coltivato con citazioni, richiami e evocazioni individuali e collettive. A distanza di quasi cinquanta anni dalla sua ideazione, il solerte e capace editore Taschen Verlag, di Colonia, pubblica una mirabile ed entusiasmante retrospettiva. L’attuale preziosa monografia The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey” lo celebra con avvincente aristocrazia: in quattro tomi, riccamente illustrata, densa di documenti inediti e fotografie mai pubblicate prima di oggi. Quindi, ancora e anche, suggestive testimonianze dello stesso regista e del co-sceneggiatore Arthur C. Clarke. Così è 54

© STANLEY KUBRICK ARCHIVES / TASCHEN

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FU CON MAGIA


LIVREA BIBLIOGRAFICA In conferma: 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, è un film che ha cambiato il cinema, oltre ad aver influito (positivamente) su molte esistenze, la nostra tra le tante, e oltre ad aver dato vita a un autentico cult, coltivato con citazioni, richiami e evocazioni individuali e collettive.

© DMITRI KESSEL / GETTY IMAGES

In partenza, l’edizione è di quelle Limited, a tiratura numerata di millecinquecento copie, firmate da Christiane Kubrick, moglie del regista; ma, come sempre accaduto, siamo sicuri che a breve seguirà l’edizione standard a un costo più accessibile. Per ora, i cinquecento e mille euro dell’attuale box di quattro volumi, per milletrecentottantasei pagine totali 19,8x44cm (sì, proprio 1386!), si offrono e propongono in livrea da bibliografi e collezionisti: in ogni caso, autentico punto di riferimento editoriale, frutto della collaborazione con Kubrick Estate, che cura l’archivio e la memoria del celebre regista, e Warner Bros, la potente major hollywoodiana, che produsse il film.

L’attuale edizione di The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey” celebra quello che è conteggiato tra i più grandi film della storia ultracentenaria del cinema. È una monografia, in quattro tomi, riccamente illustrata, densa di documenti inediti e fotografie mai pubblicate prima di oggi, che si completa, quindi, con eccellenti testimonianze dello stesso regista, mancato nel 1999, a settantuno anni, e del co-sceneggiatore Arthur C. Clarke (1917-2008), scienziato e scrittore di fantascienza inglese, autore del racconto La sentinella, del 1948, sul quale si è basata la sceneggiatura di 2001: Odissea nello spazio (e il relativo romanzo coevo). [Nota aggiuntiva: in suo onore, l’orbita geostazionaria della Terra è stata definita “Fascia di Clarke”. Infatti, fu lui il primo a ipotizzare -in un articolo pubblicato nel 1945, sulla rivista Wireless World- l’utilizzo dell’orbita geostazionaria per i satelliti dedicati alle telecomunicazioni. Ancora: in una intervista per la rete televisiva statunitense Abc, nel 1974 (nel 1974!, quando usavamo la Olivetti Lettera 22), Arthur C. Clarke anticipò che secondo lui, nel 2001, in ogni casa ci sarebbe stato

Due momenti cinematografici con il dottor Dawe Bowman (interpretato dall’attore Keir Dullea): durante una riparazione nello spazio e mentre passa attraverso il corridoio di deposito delle attrezzature.

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© STANLEY KUBRICK ARCHIVES / TASCHEN

In sequenza, dall’alto. Con Rolleiflex tra le mani, Stanley Kubrick (inviato da Look Magazine) sul set di The Naked City, di Jules Dassin (1948), dove ha conosciuto e fotografato Weegee, la cui raccolta fotografica Naked City ha ispirato la sceneggiatura del film. Sedici anni dopo, Stanley Kubrick regista ingaggiò Weegee come fotografo di scena per Il dottor Stranamore (dietro-le-quinte, i due personaggi osservano una Rolleiflex insonorizzata).



© STANLEY KUBRICK ARCHIVES / TASCHEN

Il set della scena finale di 2001: Odissea nello spazio: nella camera da letto finto-lusso.

© OLIVER RENNERT / TASCHEN

Un’opera d’arte appositamente commissionata rivela come i vari set di interni per il Discovery si adatterebbero nella sfera di soggiorno degli astronauti.

AUTORI DI SPICCO: PER UNA MONOGRAFIA STRAORDINARIA

Piers Bizony, che ha curato l’edizione dell’attuale The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey”, ha scritto di scienza e storia della tecnologia per una vasta gamma di editori inglesi e statunitensi. Un progetto recente, Atom, un libro legato con una serie TV di spicco, della Bbc, ha raccontato la storia drammatica delle rivalità e delle passioni dietro la scoperta della fisica quantistica. The Man Who Ran the Moon (L’uomo che gestiva la Luna) ha raccolto recensioni entusiastiche per il suo racconto sull’epoca di Jim Webb, amministratore capo della Nasa; quindi, il saggio Starman, avvincente biografia di Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio (scritta con Jamie Doran), è stato opzionato per una sua sceneggiatura cinematografica. Il suo testo per The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey” è una versione estesa e aggiornata del suo best-seller 2001: Filming the Future, del 1994. Fondata a Parigi nel 1992, M / M (Paris), che ha curato la livrea di The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey”, è uno studio di progettazione artistica e di design composto da Mathias Augustyniak e Michael Amzalag,

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noti per la loro direzione artistica e collaborazioni con musicisti, stilisti e artisti contemporanei. Ancora, sono convincenti le loro collaborazioni con Vogue Paris, Interview e Purple Fashion.

The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey”, a cura di Piers Bizony; Taschen Verlag, 2014 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); quattro volumi in cofanetto di metallo, ispirato al famoso monolite del film; 1386 pagine 19,8x44cm; tiratura numerata di 1500 copie, firmate da Christiane Kubrick, moglie del regista. ❯ Collector’s Edition: 1000 copie, da 501 a 1500; 500,00 euro. ❯ Art Edition: 500 copie, da 1 a 250 e da 251 a 500; ogni copia comprende una stampa fotografica 58x58cm firmata da Brian Sanders, incorniciata in plexiglas ( Exploration team moving down moon pit ramp, del 1965; oppure, Revolving camera and control panel, del 1965); 1000,00 euro.


© STANLEY KUBRICK ARCHIVES / TASCHEN

un personal computer connesso in una rete globale!]. Tornando a The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey”, a cura di Piers Bizony, in Limited Edition Taschen Verlag, ribadiamo che si tratta di quattro volumi cartonati, disegnati da M / M (Paris) -dei leggendari art director Mathias Augustyniak e Michael Amzalag-, riuniti in un avvincente cofanetto di metallo, ispirato al famoso monolite del film, con un’esclusiva copertina di Wayne Haag. Con ordine. Volume 1: Fotografie di scena; Volume 2: Dietro le quinte; nuove interviste con gli attori principali, gli scenografi ed esperti di effetti speciali cinematografici; Volume 3: Facsimile della sceneggiatura originale; Volume 4: Facsimile di annotazioni originali e note di produzione datate dal 1965 (e un fumetto a concludere il tutto).

UN PASSO INDIETRO Per completare le considerazioni sulla statura cinematografica di Stanley Kubrick, che prima di fare cinema fu (modesto) fotogiornalista per il settimanale

Look, riprendiamo da un intervento di Piero Raffaelli, pubblicato da FOTOgraphia, nell’aprile 2004. In origine, con altre consistenti considerazioni, l’articolo commentò l’intrigante monografia illustrata Stanley Kubrick. Una vita per immagini, a cura della moglie Christiane, pubblicata in Italia da Rizzoli. Kubrick. Il nome “Kubrick”, che suonava misterioso e kafkiano quasi come “Kafka”, è apparso dieci volte in quarant’anni nei titoli di testa di dieci film così innovatori, unici e diversi tra loro da far dubitare che indicasse una persona vera. I cinefili, ovviamente, sapevano, ma il grande pubblico poteva immaginare ci fossero autori diversi dietro Full Metal Jacket, Shining, Barry Lyndon, A Clockwork Orange, 2001: A Space Odyssey, Dr Strangelove, Lolita, Spartacus, Paths of Glory e The Killing. In imminenza dell’uscita di Eyes Wide Shut, i giornali diffusero qualche pettegolezzo sul “più intellettuale di tutti i registi”, sul “perfezionista incontentabile” che ha strapazzato Nicole Kidman e Tom Cruise, sull’“eremita misantropo” che non concede in-

Valigetta antesignana contenente tutti i componenti di un moderno computer portatile (tastiera, macchina fotografica, stilo elettronico, modem, modulo digitale di archiviazione di file e monitor). Fu progettata da Honeywell per Heywood Floyd.

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© STANLEY KUBRICK ARCHIVES / TASCHEN (2)

terviste e non si fa fotografare. Pubblicavano tutti la sola fotografia rubata che circolava, l’espressione nascosta da molta barba. Poco dopo, scrissero che era morto all’improvviso, appena visionata la copia del suo ultimo film. La notizia occupava molto spazio sulle prime pagine dei quotidiani. Così, tutti appresero che Kubrick era una persona vera, che si chiamava Stanley, nato a New York, Manhattan, americano poco hollywoodiano; buona parte dei suoi film, infatti, erano stati girati in Inghilterra. Noi, che certo conosciamo bene Weegee, non ci stupiamo nello scoprire (su Stanley Kubrick. Una vita per immagini, a cura della moglie Christiane) che il regista conosceva bene e ammirava quel fotografo. Però è curioso vedere Stanley Kubrick, quand’era ancora fotografo (inviato da Look ), aggirarsi con una Rolleiflex sul set del film The Naked City (in Italia, La città nuda; 1948), diretto da Jules Dassin e liberamente ispirato alla vita del fotografo Weegee, o quantomeno alla sua monografia pubblicata nel 1945. Su quel set, il futuro regista foto-

grafa lo stesso Weegee in cima a una scala, mentre riprende le scene del “suo” film [a pagina 56]. Sedici anni dopo, Stanley Kubrick ingaggerà Weegee come fotografo di scena per Il dottor Stranamore, e su questo set l’accento anglotedesco di Arthur H. Fellig (questo il vero nome del vecchio oriundo austriaco, di Sloczew, oggi in Polonia) verrà copiato da Peter Sellers per caratterizzare il personaggio dello scienziato nazista pazzo che ama la bomba. Tra parentesi: Peter Sellers era fotografo dilettante, come pure l’attore Matthew Modine, che interpreta il fotografo militare in Full Metal Jacket e firma altre fotografie impaginate nello stesso Stanley Kubrick. Una vita per immagini. Che significa ciò? Forse niente. Vediamo poi, nello stesso libro, Stanley Kubrick sul set dei propri film, non solo nel ruolo di regista, ma spesso anche in quello di operatore, direttore delle luci, progettista delle scene e degli effetti speciali, montatore; e sempre in compagnia di qualche macchina fotografica, Nikon a telemetro, Minox, Widelux

Il dottor Frank Poole (interpretato dall’attore Gary Lockwood) sul ponte di comando principale della navicella spaziale.

Il regista Stanley Kubrick dà istruzioni agli attori Keir Dullea e Gary Lockwood attraverso uno sportello sul “fondo” della centrifuga.

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© STANLEY KUBRICK ARCHIVES / TASCHEN

Il regista Stanley Kubrick e il co-sceneggiatore Arthur C. Clarke in posa per una fotografia promozionale del film, sul ponte passeggeri del traghetto lunare Aries.

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e Polaroid, vestito sempre come il tenente Colombo. Da cineoperatore, si riservava le riprese a mano più dinamiche, quando non esisteva ancora la steadycam, che poi sarà il primo a impiegare, quando arriverà. Non c’era novità tecnica che Stanley Kubrick non abbia cercato di anticipare e imparare personalmente. Insomma, accanto allo Stanley-registaintellettuale è sempre rimasto lo Stanley-tecnicofotografo, proprio nello stile della classica tradizione artigianale che conserva il piacere di fare. Forse, questo Kubrick doppio e informale non è l’eccezione, ma quasi la norma, negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale, dove cinema e fotografia sono due mondi contigui, facili a scambi, incroci e reciproca ispirazione su un piano di parità culturale. E dove la fotografia non se ne sta emarginata e umiliata, come da noi, nel proprio ghetto. Tipicamente italiana è la classica divisione gerarchica tra mestieri e professioni, in alto i dirigenti-intellettuali, in basso i tecnici-manuali. In alto, sopra tutti, ricordiamo il regista-colonnello con la sciarpa

bianca lunga, segno di supremazia creativa, in basso l’umile truppa in tuta. Può anche darsi che tutti gli stereotipi siano ormai scomparsi nella società postmoderna (il gilet multitasche è per tutti), e che nessuno più indossi sciarpe bianche o altri segni di supremazia classista. Le differenze comunque rimangono, e tutti sanno, sui set e fuori, chi dev’essere chiamato “dottore” e chi no. Che significa ciò? Forse davvero poco. Tuttavia, resta l’impressione che la cultura anglosassone stia prevalendo in tutti gli ambiti, cinema, musica, internet e nuovi linguaggi, anche perché non è frenata da formalismi, nonché da cerimonie, steccati, gerarchie, osservanze, rispetti e galatei che impacciano soprattutto la cultura italiana. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo: la fotografia non sia mai arido punto di arrivo, ma fantastico s-punto di partenza. Anche trasversalmente alla presentazione di una monografia (nello specifico, The Making of Stanley Kubrick’s “2001: A Space Odyssey” ), alla sua consultazione e assimilazione. ❖



! Il rispetto per gli altri non è negoziabile, non si può comperare. Il rispetto agli altri, magari al diverso, lo si deve sempre, lo si deve... indipendentemente da tutto


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 4 volte dicembre, 2014)

A DOMANDE... RISPONDE

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Caro Franti, ancora una volta, l’ho fatta grossa... sono un inguaribile teppista della fotografia... ho scritto di getto le risposte alle tue intelligenti domande sulla fotografia e dintorni... non so nemmeno se sono andato fuori tema (certo che sì)... come è mio solito... tuttavia, ho tentato di dire qualcosa di non stupido sulla filosofia della fotografia... naturalmente, se lo ritieni opportuno, non pubblicare e cestina pure... tuttavia, se lo pubblichi, com’è mio costume, non risponderò a nessuna critica ostile o elogiativa... hai davvero molta pazienza con me, amico caro, e non è la tua disponibilità e la distanza che inficiano la stima che ho di te... mi abbevero alla tua salutare intelligenza attraverso i tuoi scritti... e sorrido molto della tua straordinaria ironia. Ti abbraccio fraternamente, Pinocchio

Risposta ereticale alle domande poste dal direttore di FOTOgraphia, Maurizio Rebuzzini, su alcuni perché della fotografia italiana, forse. Queste nostre risposte a quesiti e provocazioni non contemplano la pubblicazione delle domande [in FOTOgraphia, dello scorso ottobre; comunque, a pagina 66], così andiamo a “gatto selvaggio”, consumati dal fuoco per l’arte del dissidio insita nell’atto violento che anticipa i franamenti di tutte le forme di comunicazione asservite alla civiltà dello spettacolo.

STATI DI ILLUSIONE DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA RISPOSTA UNO La fotografia ha la capacità di trasformare un cretino in un genio e un genio in un cretino, diceva il mio amico e maestro, Ando Gilardi... tutto vero. Nella fotografia italiana -la più vigliacca del mondo (insieme alla “critica” che la sostiene)- circola la filosofia dell’inedia, del gemito, della genuflessione, e tutti (o qua-

«Chi conosce la forca non sa fotografare; e chi fotografa non conosce la forca, anche se spesso la meriterebbe!»

Pino Bertelli si) vogliono ascendere al più alto dei cieli mercantili (e del riconoscimento sociale), per entrare nei gazebi dell’arte dell’effimero, danzando in televisione o nei calendari Pirelli e Lavazza (che sono l’apogeo del brutto e dell’osceno più accreditato dalla storiografia fotografica internazionale, e nessuno ne denuncia le banalità, né riflette sull’inclinazione al mercimonio di “grandi” fotografi dello spettacolare integrato, che non riescono a rinunciare non tanto alla loro opera, quanto alla firma sugli assegni dei loro padroni). La bella fotografia è quella che contiene la prima e l’ultima parola della Giustizia; e per difendere la Bellezza, i greci presero le armi (Albert Camus diceva). Non c’è da stupirsi che l’ultimo dei fotografi di strada valga più di molti nomi accreditati dalla stampa specializzata all’Olimpo dell’immaginario fotografico. A partire dal primo, quello che lasciò la sua immagine imperitura su un lenzuolo (la sacra Sindone), il fascio dei fotografi italiani (le bertucce del fotoamatorismo ne sono un fulgido esempio caricaturale) è un casellario di incurabili, malati di successo, che ostentano tutte le convinzioni (dottrinarie, sociali, politiche) e aderiscono a tutte: sono le mosche cocchiere di una partitocrazia mafiosa e connivente con i buoni governi della cattività. Alla frequentazione della crema intellettuale di ogni ceto, preferiamo certamente la compagnia di illetterati, folli, “quasi adatti”... e il romanzo della loro vita che l’accompagna: anche la fotografia è da distruggere.

STATI DI ILLUSIONE DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA RISPOSTA DUE Tutto è già stato scritto, fotografato, filmato, tradito sulla pelle della storia. Si tratta di scrivere, filmare, fotografare e rovesciare un mondo rovesciato. Il fotografo che ignora il desiderio di “fare la festa” alla società dello spettacolo a suo piacimento, non sarà mai niente altro che un conformista, un complice e un servo... senza capire mai (povero imbecille) che «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto fra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord). I cristi del mondano fotografico predicano ai miserabili che li adorano, e a misura di assassinio non c’è mai stata una notte di San Bartolomeo della fotografia, anche se sarebbe auspicabile. La fotografia esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di indignazione; se dà segni di saggezza, vuol dire che è prossima alla domesticazione sociale. Apprezzare l’intrinseca bellezza della distruzione pura e semplice della fotografia mercantile, e mandare a fare in culo il fascio dei fotografi che la sostiene, significa infrangere il muro del pianto della millantazione e la sua universale volgarità. Le immagini hanno lo stesso destino degli imperi: franano quando il dozzinale, il melenso o la sclerosi diventano la ragione imposta.

STATI DI ILLUSIONE DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA RISPOSTA TRE La fotografia a viso aperto è forse lo strumento espressivo più adat-

to per scompaginare quest’universo dell’inganno prolungato, come hanno dimostrato le autoimmagini delle rivolte arabe (che non sono i selfing di un cretino che si è fatto primo ministro di un popolo di voltagabbana). La villanìa della fotografia diretta e di strada si erge contro i terrori di prima qualità, che i governi (come le chiese) hanno introdotto nell’assoluto della politica, con la complicità dei loro bravacci, che non mancano di dare il colpo di grazia agli Ultimi, agli Esclusi a ai Ribelli: il cimitero delle buone intenzioni è innaffiato con le lacrime secolari dei Popoli, e solo le ondate del dissenso generazionale a venire potranno dare a questi saprofiti dell’ordine costituito la sorte che meritano. «La distruzione degli idoli porta con sé quella dei pregiudizi» (Emil M. Cioran). I momenti di raffinatezza culturale nascono sulle barricate e nella disobbedienza civile, sempre... il resto è solo merda elettorale.

STATI DI ILLUSIONE DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA RISPOSTA QUATTRO La fotografia mercantile non è necessariamente stupida: ci sono maestri ovunque e in ogni campo del sapere, ma i maestri -come le regole- esistono per essere violati (Pier Paolo Pasolini diceva). La forza della merce è contagiosa, non è facile resisterle. È difficile essere insieme fotografi e poeti... meglio essere divi e coglioni... piccoli artisti impigliati nei merletti di qualunque potere. Il mercato di ogni cosa traduce desideri e costruisce bisogni per uomini e donne affetti da protagonismo o con la vocazione a servire. Non tutto è perduto... il meraviglioso della fotografia è tutto ancora da inventare... e ai quattro angoli della Terra, per fortuna, ci sono artisti che si chiamano fuori dalla mediocrità, dalla felicità illusoria e dal successo...

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Sguardi su

STATI DI ILLUSIONE DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA RISPOSTA SEI La sovversione non sospetta della fotografia è nell’interrogazione: sono le emorragie prosaiche della fotografia che uccidono il sublime che contiene. La ribalta dell’attualità è un lebbrosario nel quale si respira un’aria da profittatori del dolore degli altri, in cambio di un passaggio in televisione o in qualche rivista patinata. I fotografi dell’interrogazione appartengono a raffinate bandiglie, e, con la grazia ereticale che è loro propria, mettono fine a secoli di nevrastenie e imposture con le quali il monologo ininterrotto del Potere continua a regnare senza governare sugli Ultimi della Terra.

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BELLA RAGAZZA «Cosa portavi, bella ragazza, cosa portavi al tuo primo amore?» «Portavo in dote quelle parole che lui non seppe mai dire a me!» «Cosa lasciavi, bella ragazza, cosa lasciavi fuor dal portone?» «Lasciavo fuori il mio disonore, che non sapesse mai niente di me!» «Cosa capivi, bella ragazza, cosa capivi, tu, dell’amore?» «Capivo niente, che il mio primo amore capiva tutto, tutto anche per me!» «Cosa provavi, bella ragazza, cosa provavi, fare all’amore?» «Provavo niente: nient’altro che il sole, e neanche tanto, qui dentro di me!» «Cosa moriva, bella ragazza, quando hai perduto il tuo primo amore?» «Moriva niente, che il mio dolce amore lo tengo in vita per sempre con me!»

MAURIZIO REBUZZINI

Enzo Jannacci

31 marzo 1974: Enzo Jannacci al concerto per il sostegno dell’occupazione della Palazzina Liberty, in largo Marinai d’Italia a Milano (Parco Formantano), da parte del collettivo teatrale-politico di Dario Fo.

conosco, condotta con non comune imperturbabilità (apparente). Ma questo non interessa nessuno, a partire da me. Quello che invece oggi -da quiaffronto, è una consecuzione di domande, che attenderebbero risposta: ma probabilmente, molto probabilmente, «risposta mai non giunse» (ancora, da e con Enzo Jannacci, da Ho soffrito per te, scritta nel 1966 con Aurelio “Cochi” Ponzoni, Renato Pozzetto e Marcello Marchesi, ed eseguita da Cochi e Renato). Molte domande si impongono oggi, in questi tormentati tempi fotografici, che non si sono ancora riassestati dopo la travolgente ondata di trasformazioni radicali, suscitate e indotte dalla totale evoluzione tecnologica, che dalle modalità operative originarie si è proiettata sulla prassi, sia della professione, sia dell’impegno individuale, sia dell’espressività tutta, nel proprio insieme e complesso. Tra tanto altro, annotiamolo subito, la consecuzione di fatti e vicende che semplifichiamo nell’ipotesi di crisi (concreta e tangibile) ha portato alla luce debolezze e incongruenze, che una volta erano solo latenti, e occultate sottotraccia. Certo, i tempi sono problematici, ma il modo con il quale il mercato fotografico (soprattutto il mercato fotografico) affronta l’incertezza è quantomeno grottesco, oltre che inefficace. In questo momento servono idee, capacità e visioni. Sappiamo che qualcuno possiede questo autentico bene, ma sappiamo anche che -in definitivail mondo fotografico preferisce ancora e sempre il piagnisteo all’azione, alla reazione (in richiamo a La cultura del piagnisteo - La saga del politicamente corretto, di Hughes Robe, in edizione Adelphi, dal 1995). Da qui, domande a seguire.O

COME MAI? PERCHÉ?

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La serie di domande che ci poniamo oggi, che compongono l’ossatura portante di questo numero di FOTOgraphia, è stata indotta e provocata da una combinazione apparentemente casuale. Ma tutti sappiamo bene come il Caso, che guida e governa le nostre esistenze, sia -a propria volta- diretto e gestito dall’insieme delle nostre azioni. Lo abbiamo già annotato in altre occasioni, e la ripetizione si impone; agli opposti: se visitiamo un mercatino antiquario, per Caso incontriamo libri e oggetti utili alla nostra Esistenza; se frequentiamo una discoteca, con tutti gli annessi e connessi, e senza le opportune prudenze, per altrettanto Caso contraiamo l’Aids. Comunque, nella propria virilità, il Caso dipende anche, ma non certo soprattutto, dalle nostre azioni precedenti e anticipatorie, oltre che dalla nostra capacità di individuarne i cenni, di coglierne i segnali, oltre che dalla nostra predisposizione. Ne siamo convinti. Al sodo, per Caso, lo scorso quattordici luglio (non per Caso, giorno del mio compleanno), da una vetrina interna di New Old Camera, di Milano, fantastico indirizzo dell’usato fotografico, che spesso sconfina nell’antiquariato e/o collezionismo conseguente, mi ha sorriso una confezione di cinque obiettivi Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8. I sorrisi degli oggetti bisogna saperli cogliere, a partire dal princìpio (mia convinzione) che gli oggetti “ci sorridono”, si autoinvitano nella nostra Vita. Allora, domanda originaria: come mai, questa confezione, presumibilmente, plausibilmente e ragionevolmente indirizzata ai servizi di assistenza tecnica Kodak, è rimasta integra per circa sessanta anni, nella propria raffinata scatola di cartone a bordi rinforzati? In dotazione con le configurazioni Kodak Junior 6x9cm

Domanda / 3: amore e...

Ryuichi Watanabe è titolare di New Old Camera, di Milano, nella centrale via Dante 12 (cortile interno, accessibile anche da via Rovello 5; www.newoldcamera.it). Differentemente dal piagnisteo generale e generalizzato, in questi locali regna un clima di competenza e amore per la fotografia: attrezzature e immagini. In attesa di risposta: questa è una condizione discriminante anche del commercio?

PAOLO CIRESOLA

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trezzature d’occasione, con le quali ha esordito, sia attrezzature nuove, di profilo medio-alto (ufficialmente, dal 4 aprile 2013). Se ancora mi ponessi la domanda (antica) del come mai Ryuichi Watanabe agisce con determinazione e compiacimento aziendale, approderei alla stessa risposta già annotata: nella domanda è implicita la risposta. Perché si chiama Ryuichi Watanabe, è giapponese, e ha ben chiaro il proprio dovere istituzionale, sul quale ha edificato la sua personalità commerciale. A differenza di coloro i quali occupano uno spazio mercantile senza alcuna competenza, né predisposizione specifica alla materia del proprio commercio (e so-

no tanti, forse tutti, sicuramente troppi), Ryuichi Watanabe ama la fotografia. Che la ami potrebbe essere questione personale e individuale (tanta dedizione non è necessariamente richiesta), ma che la rispetti è faccenda pubblica, che -tra l’altro- identifica e definisce ogni altro comparto commerciale, dall’abbigliamento alle attrezzature sportive, dalle biciclette all’utensileria dei ferramenta (ma la fotografia, no). Però, in sovramercato, Ryuichi Watanabe ama sinceramente la fotografia, estendendo la sua partecipazione dagli apparecchi fotografici in quanto tali alla fotografia come risultato ed espressività. Conduce la propria attività, arricchendo quotidianamente la sua anima di incontri e conoscenze e avvicinamenti. Nei suoi locali, dove ci si può soffermare anche senza intenzioni specifiche d’acquisto, si respira fotografia, si parla di fotografia, ci si incontra con la fotografia: i suoi locali sono un salotto nel quale la parola detta è sempre opportuna, prima di essere anche intelligente. Sono un salotto nel quale la Fotografia regna sovrana. La conoscenza personale e la cultura individuale ne escono sempre arricchite. E a conseguenza (forse?!), anche il relativo commercio poggia su basi solide, su fondamenta stabili, che non dipendono mai, né soltanto, dall’eventuale prezzo d’acquisto favorevole (che pure è sempre tale, favorevole), ma su un incontro di anime. Siccome, paradossalmente parlando, la Fotografia, come spesso annotiamo, è una delle attività meno necessarie al sostentamento quotidiano, è giocoforza che venga frequentata per amore e con amore. Altrimenti, per cosa altro dovremmo impegnarci? Altra domanda in attesa di risposta. O

ADDIRITTURA, OLTRE

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State attenti, state accorti, state prudenti, se e quando vi capitasse di entrare da Photo40, indirizzo milanese di attrezzature fotografiche d’occasione (soprattutto, ma non soltanto): via Foppa 40; www.photo40.it, alessandro@photo40.it. Siate controllati, perché non tutto quello che vedete, che è esposto in raffinate vetrine dense di proposte affascinanti, è in vendita. Purtroppo (?) per tutti noi clienti potenziali, acquirenti probabili, il titolare Alessandro Mariconti è appassionato alla materia almeno tanto quanto possono esserlo coloro i quali ne frequentano l’indirizzo. In conseguenza diretta (?), alcune delle “proposte” a tutti visibili non sono affatto tali, proposte, ma soltanto “esposizione” (con tanto di certificazione, sia chiaro). A propria volta appassionato cultore dell’antiquariato fotografico, esteso dalle configurazioni piccolo formato alle imponenti costruzioni grande formato, sia a banco ottico sia folding, Alessandro Mariconti si circonda di quanto alimenta il suo sentimento. Tanto che la competenza e l’amore che possono stabilire la differenza anche nel commercio, qui vanno addirittura oltre. Comunque, tranquilli, l’offerta commerciale “a disposizione” è adeguatamente ampia e differenziata; con una caratteristica sostanziale, che la definisce e qualifica: profilo medio-alto, con integrazioni di garbo (per esempio, al momento, si registra una consistente quantità di apparecchi Polaroid per filmpack integrali autosviluppanti). Ancora, Photo40 è una autentica miniera per coloro i quali (noi tra questi!) frequentano con coerenza il grande formato fotografico, per il quale sono godibili sia apparecchi fotografici in quantità e qualità, sia obiettivi di tante stagioni, dai disegni ottici recenti a quelli più antichi,

Domanda / 5: cadenza selettiva

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AL ROVESCIO Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano (25 agosto 1964), peraltro presentata in una autorevole mostra al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, di Roma, fino all’undici novembre (www.idea.mat.beni culturali.it; ne riparleremo), e una avvincente visione di New York, all’alba degli anni Sessanta. Dietro la superficie delle immagini, a tutti evidente, ci stanno riflessioni fuori dal comune!

Mario Carnicelli accanto a una riproduzione dal celebre quadro di Renato Guttuso, Funerali di Togliatti, nel quale, tra i personaggi evocati, c’è anche la sua presenza di fotografo. Quindi, visioni della straordinaria e avvincente galleria fotografica allestita nella sua residenza di Pistoia, con archivio annesso. Significa qualcosa?

Domanda / 1: le origini

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di Maurizio Rebuzzini (ancora... e fine)

ALTRI INTERROGATIVI

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Fusco, relativo all’estremo saluto a Robert F. Kennedy, commentato in FOTOgraphia, del luglio 2008), l’autore prolunga verso considerazioni relative alla “psicologia della folla”! E, comunque, parlare di Fotografia con lui significa incontrare una mente brillante, intelligente e straordinariamente riflessiva. Da cui, e per cui, domanda si impone, e arricchisce, incrementa e valorizza la nostra attuale sequenza “in attesa di risposta”. Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, nella sua vita rovescia, oggi vitale e palpitante dopo gli anni della “pensione” dietro il banco del suo fotonegozio, ha approntato un archivio aperto e proposto alla consultazione e allo studio... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, sempre nella sua vita rovescia, rivela di sapere bene di cosa sta parlando, e perché lo sta facendo (per esempio, nell’esposizione privata aperta al pubblico, le fotografie americane si accompagnano con una raffinata e competente selezione bibliografica)... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, ancora nella sua vita rovescia, palesa un entusiasmo contagioso... ci si può chiedere se tutto questo -e altro ancora- possa essere considerato andatura confortevole anche alla personalità commerciale. Come la penso, l’ho già detto: oltre che agevole e accogliente, questo approccio è addirittura discriminante e selettivo. Infatti, anteponendo il dovere al diritto (cadenza discriminatoria), si raggiungono mete altrimenti impensabili. Curioso: ci si arricchisce sempre e comunque di qualcosa che non è in vendita, non è acquistabile altrove e in altro modo. Si è se stessi e si trova se stessi. Magari, magari, magari, in una esistenza rovescia. O

Completamente estranei a qualsivoglia cultura di branco, di confraternita, di amici di merende, di complicità, di connivenza, di mutuo soccorso, di nepotismo... ovverosia, e detta meglio, completamente estranei a ogni banda/congregazione della fotografia italiana -senza alcuna soluzione di continuità, dal suo commercio alla sua riflessione critica-, da e con queste pagine redazionali e giornalistiche rivendichiamo un ruolo intangibile e dovuto (a noi, prima che ad altri): quello dell’onestà intellettuale. Scelta di vita e straordinaria compagna di esistenza, questa onestà intellettuale è premonitrice di belle esperienze e altrettanto soddisfacenti conoscenze. Infatti, potendoci schierare secondo coscienza, senza altri pre-legami d’obbligo, riusciamo ad evitare le benevolenze in/per “amicizia”. A sguardo libero e cuore aperto e mente disponibile, riceviamo dalla Vita molto di più di quanto le diamo e concediamo. Sappiamo di non essere soli, in questo cammino in libertà; sappiamo che molti altri (ma, purtroppo, pochi ne conosciamo) agiscono in fotografia con altrettanta chiarezza e trasparenza. Tra tanti, spicca limpida e lucente la personalità della statunitense Susie Linfield (già editor del Village Voice e del Washington Post), che prima di oggi abbiamo soltanto sfiorato, registrando le sue partecipazioni a giurie internazionali. Ora, grazie a una ammirevole, gradita e apprezzata traduzione Contrasto, abbiamo potuto arricchirci di un pensiero sulla fotografia che non ha eguali, per vigore, consistenza e autorevolezza. La luce crudele, che sottotitola Fotografia e violenza politica, non viene meno alla propria promessa, occupandosi con decisione e competenza dell’argo-

mento proposto. Qui e ora, per un attimo, scartiamo a lato il soggetto esplicito e principale, per sottolineare il complemento oggetto, trasversale al testo. Immediatamente dopo la Premessa, con la quale l’autrice Susie Linfield precisa le linee conduttrici della sua analisi e introspezione, si incontra subito la prima delle tre parti nelle quali è stato scomposto il totale: un invitante e appetitoso Polemiche.

Quindi, dopo una Premessa già adeguatamente stuzzicante e corroborante, sono distese sul tavolo da gioco tutte le carte della partita. A carte scoperte, l’autorevole autrice sottolinea subito, non soltanto presto, la matrice che inquina la critica fotografica nel proprio insieme e complesso, esercitata da critici che odiano la fotografia. Qui, Susie Linfield si pone la domanda esplicita: perché la odia-

La luce crudele, di Susie Linfield (Contrasto, 2014; 328 pagine 15x21cm; 21,90 euro), è un libro straordinario, di quelli assolutamente/assolutamente indispensabili a coloro i quali si occupano di fotografia con coerenza e partecipazione. Qui e oggi, lo consideriamo in maniera trasversale, utilitaristicamente allineato con le nostre attuali domande per risposta. Però, attenzione, il suo valore è di qualità ben superiore a questo: dunque, se ne dovrà assolutamente riparlare.

no? La risposta è immediata: perché sono carichi di sospetto, diffidenza, rabbia e paura. Ancora (e siamo noi ad affermarlo): perché non sanno riconoscere l’Amore, neppure quando si presenta loro con gli archetipi che lo definiscono; perché non sanno capire la passione; perché nella loro tignosità sono più interessati alla demolizione fine a se stessa che alla frequentazione conoscitiva; perché antepongono la propria autoreferenzialità alla comprensione delle ragioni degli altri. Nel proprio insieme, La luce crudele è un testo che dà tante e tante risposte, sia a domande latenti, presenti nell’animo di ciascuno di noi, sia a domande inedite, accese dall’intuizione e acume di Susie Linfield. Allo stesso tempo, e a complemento (e paradossalmente?), è un libro che sollecita altrettanti interrogativi. Insomma: è un libro intelligente, che arricchisce il pensiero fotografico come pochi altri incontri siano mai riusciti a fare. A questo punto, e in ordine/rispetto dell’attuale cadenza di “domande in attesa di risposta”, si affaccia un quesito finale, che con Susie Linfield chiude il cerchio aperto dalla Bella ragazza, di Enzo Jannacci. Avere dubbi, invece di certezze assolute, osservare e vedere, piuttosto di accontentarsi di guardare soltanto, essere disponibili al dialogo e incontro, esigere da se stessi più di quanto si richiede agli altri, agire con coerenza e competenza, aggiungervi anche un pizzico di amore e passione è malattia grave? Riusciremo mai a guarire da questa infezione, che antepone la conoscenza alla superficialità, l’arricchimento di pensiero (con relativa redditività di impresa, se e quando richiesta e perseguita) all’accumulo incoerente di denari? Finale: in attesa di risposta. O

Domanda / 2: l’incontro

di Maurizio Rebuzzini (Franti)

di Maurizio Rebuzzini

BELLA RAGAZZA

Poi, sarebbe arrivata Vincenzina (con Beppe Viola, «Vincenzina davanti la fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più»). Poi, sarebbero arrivati gli aeroplani («che si parlano tra di loro e discutono e non si dicono mai niente»). Poi, sarebbe arrivata una lettera da lontano («per il tempo, che a vent’anni nessuno ti dice che vola via come un tipo particolare di vento» / «per mio figlio, che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio»). Ma il mio primo avvicinamento a Enzo Jannacci, il mio avvicinamento originario, è stato con la bella ragazza. Non mi vergogno, né mi imbarazzo, quando confesso pubblicamente che ancora oggi, quando risento la canzone, mi commuovo fino alle lacrime, come il primo giorno, tanti decenni fa, tante stagioni fa. Vi prego di ascoltarla, meglio se nella versione originaria, dall’album Sei minuti all’alba, del 1966, che contiene anche E io ho visto un uomo, altra lirica degna di grande attenzione (ovviamente, entrambe le esecuzioni, sono su YouTube). Cosa portavi bella ragazza dovrebbe essere una di quelle compagnie delle quali non fare a meno. Mai. Ha ragioni da vendere l’amico Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione della rivista con i suoi fulminanti, seducenti e intriganti Sguardi su, quando annota che «solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante» (riflessione/annotazione che ho fatto mia). Enzo Jannacci è stato un poeta che ha parlato con il cuore e al cuore. Gli debbo molto, e oggi il mio debito cresce: con questo incipit a una cadenza di domande, che si indirizzano nel nostro mondo, nel nostro specifico fotografico, ispirandosi alla sua bella ragazza, con relative risposte laconiche e distaccate, tanto quanto è stato ed è nella mia Vita: lo ammetto e ri-

A parte il fatto che ognuna di queste due serie è meritevole di approfondimenti e considerazioni -e lo stesso dicasi per altre presenti nel capace archivio approntato-, qui e ora, sottolineo come Mario Carnicelli allunghi le proprie valutazioni e analisi al contenuto implicito delle stesse immagini. Per esempio, per la serie dei ritratti dal funerale di Togliatti (il cui succo si allinea a quello dell’RFK Funeral Train, di Paul

Photo40, in via Foppa 40, a Milano (www.photo40.it, alessandro@photo40.it), è un indirizzo privilegiato per le attrezzature fotografiche d’occasione. Oltre l’insieme di una autorevole offerta medio-alta, si segnala una consistente offerta di apparecchi grande formato, con relativi obiettivi e accessori d’uso. Ma non è soltanto questo: ora e qui, sottolineiamo la passione del titolare Alessandro Mariconti.

perfino in costruzione Barrel, senza otturatore centrale. Comunque, la passione fotografica di Alessandro Mariconti si manifesta nel suo locale anche con apprezzate sfumature, identificabili dagli sguardi più attenti e competenti (aguzzare la vista!). Per esempio, in una vetrina, fanno bella mostra di sé un espositore da banco e una confezione sovramarcati “CB”, a lettere classiche sovrapposte: provengono dall’attività tessile della famiglia/dinastia francese Cartier-Bresson, della quale conosciamo tutti l’Henri fotografo. Per esempio, ancora, non manca una confezione “Brandazzi Romualdo & Figlio, Milano”: non importa tanto cosa contenga, ma basta l’evocazione di una fantastica stagione fotografica italiana, costellata di una miriade di marchi semi artigianali di spicco (per approfondimento, due sono stati i cavalli di battaglia di Brandazzi: l’anello stringiobiettivo universale, per configurazioni da studio, e l’otturatore a lamelle Silens, altrettanto universale). Ancora per esempio, si registra un’altra confezione “Butti”: filtro in vetro proveniente dall’offerta tecnico-commerciale di una delle storiche esperienze di vendita all’ingrosso del paese. Chi lo desidera, può anche trovare libri di pregio: una citazione, sopra tutte, per la prima edizione originaria, del 1947, della biografia di Bob Capa, Slightly Out of Focus. E poi, ancora e fine (per ora), c’è di che scatenarsi con i disegni ottici del passato remoto, per i quali suonano riferimenti quali Dallmeyer, Cooke, Voigtländer, Goerz, Meyer, Roussel, Wray, Kodak. Oltre, ovviamente, Schneider e Rodenstock. Domanda d’obbligo: anche la passione, dopo la competenza e l’amore, sono discriminanti che possono selezionare e guidare il commercio fotografico? O

Domanda / 6: siamo d’accordo

di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora, ancora)

La vita scorre, inesorabilmente, partendo dalla nascita: asilo, scuole dell’obbligo, proseguo individuale, lavoro… pensione. Personalmente, considero perversa questa sequenza, che impedisce alla Vita di manifestarsi al proprio meglio: la sequenza dovrebbe essere inversa, in modo da consentire alla propria maturazione individuale di esprimersi al meglio... non al peggio. Recentemente, per uno di quei Casi fortuiti, quanto fantastici, che scandiscono l’Esistenza, ho rincontrato un amico che avevo perso di vista, inavvertitamente e colpevolmente. L’amico ritrovato, Mario Carnicelli, per decenni fotonegoziante a Firenze, addirittura in piazza del Duomo (ed è in questa veste che l’ho sempre conosciuto e inteso), mi ha confortato, presentandomi la sua attualità... rovescia. Come lui stesso ha rilevato, con sagace visione e interpretazione esistenziale, dopo quarant’anni di pensione, di letargo imposto (per l’appunto, nella gestione di un luminoso negozio fotografico), ha cominciato a vivere una sua fantastica stagione. Cessata l’attività commerciale (ceduta?, non importa, non mi importa), ha ripreso ad occuparsi delle fotografie che scattò in gioventù, alle quali sta restituendo nuova vita. Evviva, per lui. Ma, con non celato egoismo, evviva soprattutto per noi, che possiamo godere delle sue avvincenti e convincenti interpretazioni. Oggi vive a Pistoia, città di partenza, in una rigogliosa e esuberante villa (diciamola così). Ha trasformato i saloni del piano terra, di ingresso, in galleria fotografica dove, con garbo e competenza, ha allestito una esposizione di suoi lavori; soprattutto due sono i temi (ancora, diciamola così): una fantastica serie di ritratti giornalistici ripresa durante i funerali di

to presso una bancarella di libri usati, una delle poche rimaste in città, una delle più affascinanti. Qui, ho individuato una quantità di volumi che decenni fa composero la collana Biblioteca dei ragazzi, della Casa Editrice Bietti. Giocoforza, concentrarsi subito sul titolo Il libro delle scoperte, sul cui indice ho presto individuata la presenza della fotografia, favoleggiata per i ragazzi: I prodigi della luce, con protagonista Giacomino, che si destreggia tra alambicchi, sostanze chimiche magiche e apparecchi che registrano ciò che vedono. Allora: il libro è intatto e ben conservato; addirittura, le sue pagine non sono mai state tagliate (rilegatura antica, con pagine da tagliare individualmente); una annotazione iniziale, in bella calligrafia, data 22 febbraio 1931. Le stesse domande: come mai... anche questo libro è attraccato alla mia sponda, attraversando decenni, traslochi, proprietà? Risposta: perché non accade nulla, se non lo vogliamo. Tutto può accadere se (solo) lo vogliamo. O

di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora)

A VISO APERTO a via Dante e via Rovello. Ai non milanesi, che sono di più dei milanesi, va chiarito che si tratta di una locazione in pieno centro città, a una manciata di passi da piazza del Duomo: dove escludo che gli affitti possano essere definiti “popolari”. In una realtà commerciale sempre più avversa, sul cui andamento si è edificato uno sconsolante piagnisteo (ma, comunque, nel mercato fotografico, ho sempre e solo sentito piagnistei: anche in passato, anche in quel passato che tutti oggi rimpiangono ed evocano come incoraggiante), New Old Camera impegna una nutrita quantità di addetti: dalla vendita alla gestione infrastrutturale. Propone e vende sia at-

(su pellicola a rullo 620) dell’immediato dopoguerra, costruite dalle filiali inglese e francese, il Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8 sostituì l’originario parifocale f/7,7, in dotazione con i modelli primigeni, assemblati a Rochester, dal-

la casa madre. Dunque, la sua datazione è certa. E la domanda si conferma, con una ulteriore aggiunta... inevitabile: come mai questa confezione è rimasta integra per sei decenni?; come mai nessuno, prima di me, l’ha individuata e apprezzata all’interno dell’offerta commerciale di New Old Camera?; come mai, quella sera sono andato in via Dante, a Milano?; come mai, la stessa confezione ha sorriso a me, e non ad altri? Insomma, come mai è finita per attraccare alla mia sponda? Risposta (per me facile, considerate le tante volte che la stessa domanda si è affacciata nella mia Vita, intrecciata con la Fotografia): da e con Walt Whitman, «Che tu sei qui, - che esistono la vita e l’individuo, / Che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un tuo verso». Quindi, in proseguo, non sto a farla ulteriormente lunga con una combinazione temporale, che si è verificata soltanto una mezza dozzina di giorni dopo, quando, spostandomi tra due indirizzi del centro di Milano, mi sono ferma-

Cosa portavi bella ragazza

«Cosa portavi, bella ragazza, cosa portavi al tuo primo amore?» «Portavo in dote quelle parole che lui non seppe mai dire a me!» «Cosa lasciavi, bella ragazza, cosa lasciavi fuor dal portone?» «Lasciavo fuori il mio disonore, che non sapesse mai niente di me!» «Cosa capivi, bella ragazza, cosa capivi, tu, dell’amore?» «Capivo niente, che il mio primo amore capiva tutto, tutto anche per me!» «Cosa provavi, bella ragazza, cosa provavi, fare all’amore?» «Provavo niente: nient’altro che il sole, e neanche tanto, qui dentro di me!» «Cosa moriva, bella ragazza, quando hai perduto il tuo primo amore?» «Moriva niente, che il mio dolce amore lo tengo in vita per sempre con me!» Enzo Jannacci

31 marzo 1974: Enzo Jannacci al concerto per il sostegno dell’occupazione della Palazzina Liberty, in largo Marinai d’Italia a Milano (Parco Formantano), da parte del collettivo teatrale-politico di Dario Fo.

conosco, condotta con non comune imperturbabilità (apparente). Ma questo non interessa nessuno, a partire da me. Quello che invece oggi -da quiaffronto, è una consecuzione di domande, che attenderebbero risposta: ma probabilmente, molto probabilmente, «risposta mai non giunse» (ancora, da e con Enzo Jannacci, da Ho soffrito per te, scritta nel 1966 con Aurelio “Cochi” Ponzoni, Renato Pozzetto e Marcello Marchesi, ed eseguita da Cochi e Renato). Molte domande si impongono oggi, in questi tormentati tempi fotografici, che non si sono ancora riassestati dopo la travolgente ondata di trasformazioni radicali, suscitate e indotte dalla totale evoluzione tecnologica, che dalle modalità operative originarie si è proiettata sulla prassi, sia della professione, sia dell’impegno individuale, sia dell’espressività tutta, nel proprio insieme e complesso. Tra tanto altro, annotiamolo subito, la consecuzione di fatti e vicende che semplifichiamo nell’ipotesi di crisi (concreta e tangibile) ha portato alla luce debolezze e incongruenze, che una volta erano solo latenti, e occultate sottotraccia. Certo, i tempi sono problematici, ma il modo con il quale il mercato fotografico (soprattutto il mercato fotografico) affronta l’incertezza è quantomeno grottesco, oltre che inefficace. In questo momento servono idee, capacità e visioni. Sappiamo che qualcuno possiede questo autentico bene, ma sappiamo anche che -in definitivail mondo fotografico preferisce ancora e sempre il piagnisteo all’azione, alla reazione (in richiamo a La cultura del piagnisteo - La saga del politicamente corretto, di Hughes Robe, in edizione Adelphi, dal 1995). Da qui, domande a seguire.O

COME MAI? PERCHÉ?

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La serie di domande che ci poniamo oggi, che compongono l’ossatura portante di questo numero di FOTOgraphia, è stata indotta e provocata da una combinazione apparentemente casuale. Ma tutti sappiamo bene come il Caso, che guida e governa le nostre esistenze, sia -a propria volta- diretto e gestito dall’insieme delle nostre azioni. Lo abbiamo già annotato in altre occasioni, e la ripetizione si impone; agli opposti: se visitiamo un mercatino antiquario, per Caso incontriamo libri e oggetti utili alla nostra Esistenza; se frequentiamo una discoteca, con tutti gli annessi e connessi, e senza le opportune prudenze, per altrettanto Caso contraiamo l’Aids. Comunque, nella propria virilità, il Caso dipende anche, ma non certo soprattutto, dalle nostre azioni precedenti e anticipatorie, oltre che dalla nostra capacità di individuarne i cenni, di coglierne i segnali, oltre che dalla nostra predisposizione. Ne siamo convinti. Al sodo, per Caso, lo scorso quattordici luglio (non per Caso, giorno del mio compleanno), da una vetrina interna di New Old Camera, di Milano, fantastico indirizzo dell’usato fotografico, che spesso sconfina nell’antiquariato e/o collezionismo conseguente, mi ha sorriso una confezione di cinque obiettivi Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8. I sorrisi degli oggetti bisogna saperli cogliere, a partire dal princìpio (mia convinzione) che gli oggetti “ci sorridono”, si autoinvitano nella nostra Vita. Allora, domanda originaria: come mai, questa confezione, presumibilmente, plausibilmente e ragionevolmente indirizzata ai servizi di assistenza tecnica Kodak, è rimasta integra per circa sessanta anni, nella propria raffinata scatola di cartone a bordi rinforzati? In dotazione con le configurazioni Kodak Junior 6x9cm

Gli oggetti ci raggiungono sempre al momento opportuno. Sono destinati a noi: tutto è già scritto, e si devono aspettare e assecondare le proprie maturazioni. Però, attenzione e attenzione: bisogna sapere riconoscere e cogliere i loro sorrisi!

(su pellicola a rullo 620) dell’immediato dopoguerra, costruite dalle filiali inglese e francese, il Kodak-Anastigmat 10,5cm f/8,8 sostituì l’originario parifocale f/7,7, in dotazione con i modelli primigeni, assemblati a Rochester, dal-

la casa madre. Dunque, la sua datazione è certa. E la domanda si conferma, con una ulteriore aggiunta... inevitabile: come mai questa confezione è rimasta integra per sei decenni?; come mai nessuno, prima di me, l’ha individuata e apprezzata all’interno dell’offerta commerciale di New Old Camera?; come mai, quella sera sono andato in via Dante, a Milano?; come mai, la stessa confezione ha sorriso a me, e non ad altri? Insomma, come mai è finita per attraccare alla mia sponda? Risposta (per me facile, considerate le tante volte che la stessa domanda si è affacciata nella mia Vita, intrecciata con la Fotografia): da e con Walt Whitman, «Che tu sei qui, - che esistono la vita e l’individuo, / Che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un tuo verso». Quindi, in proseguo, non sto a farla ulteriormente lunga con una combinazione temporale, che si è verificata soltanto una mezza dozzina di giorni dopo, quando, spostandomi tra due indirizzi del centro di Milano, mi sono ferma-

to presso una bancarella di libri usati, una delle poche rimaste in città, una delle più affascinanti. Qui, ho individuato una quantità di volumi che decenni fa composero la collana Biblioteca dei ragazzi, della Casa Editrice Bietti. Giocoforza, concentrarsi subito sul titolo Il libro delle scoperte, sul cui indice ho presto individuata la presenza della fotografia, favoleggiata per i ragazzi: I prodigi della luce, con protagonista Giacomino, che si destreggia tra alambicchi, sostanze chimiche magiche e apparecchi che registrano ciò che vedono. Allora: il libro è intatto e ben conservato; addirittura, le sue pagine non sono mai state tagliate (rilegatura antica, con pagine da tagliare individualmente); una annotazione iniziale, in bella calligrafia, data 22 febbraio 1931. Le stesse domande: come mai... anche questo libro è attraccato alla mia sponda, attraversando decenni, traslochi, proprietà? Risposta: perché non accade nulla, se non lo vogliamo. Tutto può accadere se (solo) O lo vogliamo.

P

Prima di approdare al soggetto di questa nota, Ryuichi Watanabe, titolare di New Old Camera, di Milano (via Dante 12 / via Rovello 5; www.newoldcamera.it, info@newoldcamera.it), è doveroso prenderla larga, tornando con la memoria a stagioni lontane. Il parallelo è doveroso. Dovendo/volendo riflettere nel senso verso il quale mi sono avviato, sto per avviarmi, ancora oggi potrei domandarmi come mai -quando insegnavo la fotografia in sala di posa all’Istituto Europeo di Design, tanti anni fa, in una stagione nella quale non avevo capito di essere complice di un tranello (presto rimediato, con l’abbandono, l’anno scolastico successivo)- come mai, riprendo, le regole comportamentali dello studio venissero seguite soltanto da uno studente, da un allievo. Domanda esplicita, come mai soltanto Peter Obenaus, nativo di Colonia, in Germania, seguiva le regole? Nella domanda è implicita la risposta: perché si chiama Peter Obenaus, perché è stato educato in Germania, perché è consapevole dei propri doveri, perché è chiara nella sua formazione che ognuno deve prima di tutto svolgere il proprio dovere, ahinoi, qualsiasi questo sia. Da cui: come mai, in un tempo nel quale il piagnisteo attraversa l’intero comparto commerciale della fotografia, senza alcuna soluzione di continuità dalla distribuzione alla vendita al minuto, a Milano, in pieno centro città, è fiorita una esperienza che assolve il proprio dovere/diritto con efficacia e buoni risultati? New Old Camera, creato e condotto da Ryuichi Watanabe, giapponese, originario di Hiroshima, inizialmente approdato in Italia per la musica sinfonica (amata e praticata e studiata), si distende in due entità che si affacciano in un cortile interno comune

a via Dante e via Rovello. Ai non milanesi, che sono di più dei milanesi, va chiarito che si tratta di una locazione in pieno centro città, a una manciata di passi da piazza del Duomo: dove escludo che gli affitti possano essere definiti “popolari”. In una realtà commerciale sempre più avversa, sul cui andamento si è edificato uno sconsolante piagnisteo (ma, comunque, nel mercato fotografico, ho sempre e solo sentito piagnistei: anche in passato, anche in quel passato che tutti oggi rimpiangono ed evocano come incoraggiante), New Old Camera impegna una nutrita quantità di addetti: dalla vendita alla gestione infrastrutturale. Propone e vende sia at-

trezzature d’occasione, con le quali ha esordito, sia attrezzature nuove, di profilo medio-alto (ufficialmente, dal 4 aprile 2013). Se ancora mi ponessi la domanda (antica) del come mai Ryuichi Watanabe agisce con determinazione e compiacimento aziendale, approderei alla stessa risposta già annotata: nella domanda è implicita la risposta. Perché si chiama Ryuichi Watanabe, è giapponese, e ha ben chiaro il proprio dovere istituzionale, sul quale ha edificato la sua personalità commerciale. A differenza di coloro i quali occupano uno spazio mercantile senza alcuna competenza, né predi

S

DOMANDE Domanda / 5: cadenza selettiva di Maurizio Rebuzzini (ancora, ancora, ancora)

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La vita scorre, inesorabilmente, partendo dalla nascita: asilo, scuole dell’obbligo, proseguo individuale, lavoro… pensione. Personalmente, considero perversa questa sequenza, che impedisce alla Vita di manifestarsi al proprio meglio: la sequenza dovrebbe essere inversa, in modo da consentire alla propria maturazione individuale di esprimersi al meglio... non al peggio. Recentemente, per uno di quei Casi fortuiti, quanto fantastici, che scandiscono l’Esistenza, ho rincontrato un amico che avevo perso di vista, inavvertitamente e colpevolmente. L’amico ritrovato, Mario Carnicelli, per decenni fotonegoziante a Firenze, addirittura in piazza del Duomo (ed è in questa veste che l’ho sempre conosciuto e inteso), mi ha confortato, presentandomi la sua attualità... rovescia. Come lui stesso ha rilevato, con sagace visione e interpretazione esistenziale, dopo quarant’anni di pensione, di letargo imposto (per l’appunto, nella gestione di un luminoso negozio fotografico), ha cominciato a vivere una sua fantastica stagione. Cessata l’attività commerciale (ceduta?, non importa, non mi importa), ha ripreso ad occuparsi delle fotografie che scattò in gioventù, alle quali sta restituendo nuova vita. Evviva, per lui. Ma, con non celato egoismo, evviva soprattutto per noi, che possiamo godere delle sue avvincenti e convincenti interpretazioni. Oggi vive a Pistoia, città di partenza, in una rigogliosa e esuberante villa (diciamola così). Ha trasformato i saloni del piano terra, di ingresso, in galleria fotografica dove, con garbo e competenza, ha allestito una esposizione di suoi lavori; soprattutto due sono i temi (ancora, diciamola così): una fantastica serie di ritratti giornalistici ripresa durante i funerali di

AL ROVESCIO Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano (25 agosto 1964), peraltro presentata in una autorevole mostra al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, di Roma, fino all’undici novembre (www.idea.mat.beni culturali.it; ne riparleremo), e una avvincente visione di New York, all’alba degli anni Sessanta. Dietro la superficie delle immagini, a tutti evidente, ci stanno riflessioni fuori dal comune!

A parte il fatto che ognuna di queste due serie è meritevole di approfondimenti e considerazioni -e lo stesso dicasi per altre presenti nel capace archivio approntato-, qui e ora, sottolineo come Mario Carnicelli allunghi le proprie valutazioni e analisi al contenuto implicito delle stesse immagini. Per esempio, per la serie dei ritratti dal funerale di Togliatti (il cui succo si allinea a quello dell’RFK Funeral Train, di Paul

Mario Carnicelli accanto a una riproduzione dal celebre quadro di Renato Guttuso, Funerali di Togliatti, nel quale, tra i personaggi evocati, c’è anche la sua presenza di fotografo. Quindi, visioni della straordinaria e avvincente galleria fotografica allestita nella sua residenza di Pistoia, con archivio annesso. Significa qualcosa?

Fusco, relativo all’estremo saluto a Robert F. Kennedy, commentato in FOTOgraphia, del luglio 2008), l’autore prolunga verso considerazioni relative alla “psicologia della folla”! E, comunque, parlare di Fotografia con lui significa incontrare una mente brillante, intelligente e straordinariamente riflessiva. Da cui, e per cui, domanda si impone, e arricchisce, incrementa e valorizza la nostra attuale sequenza “in attesa di risposta”. Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, nella sua vita rovescia, oggi vitale e palpitante dopo gli anni della “pensione” dietro il banco del suo fotonegozio, ha approntato un archivio aperto e proposto alla consultazione e allo studio... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, sempre nella sua vita rovescia, rivela di sapere bene di cosa sta parlando, e perché lo sta facendo (per esempio, nell’esposizione privata aperta al pubblico, le fotografie americane si accompagnano con una raffinata e competente selezione bibliografica)... Anche alla luce del fatto che Mario Carnicelli, ancora nella sua vita rovescia, palesa un entusiasmo contagioso... ci si può chiedere se tutto questo -e altro ancora- possa essere considerato andatura confortevole anche alla personalità commerciale. Come la penso, l’ho già detto: oltre che agevole e accogliente, questo approccio è addirittura discriminante e selettivo. Infatti, anteponendo il dovere al diritto (cadenza discriminatoria), si raggiungono mete altrimenti impensabili. Curioso: ci si arricchisce sempre e comunque di qualcosa che non è in vendita, non è acquistabile altrove e in altro modo. Si è se stessi e si trova se stessi. Magari, magari, magari, in una O esistenza rovescia.

Domanda / 6: siamo d’accordo di Maurizio Rebuzzini (ancora... e fine)

ALTRI INTERROGATIVI

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Completamente estranei a qualsivoglia cultura di branco, di confraternita, di amici di merende, di complicità, di connivenza, di mutuo soccorso, di nepotismo... ovverosia, e detta meglio, completamente estranei a ogni banda/congregazione della fotografia italiana -senza alcuna soluzione di continuità, dal suo commercio alla sua riflessione critica-, da e con queste pagine redazionali e giornalistiche rivendichiamo un ruolo intangibile e dovuto (a noi, prima che ad altri): quello dell’onestà intellettuale. Scelta di vita e straordinaria compagna di esistenza, questa onestà intellettuale è premonitrice di belle esperienze e altrettanto soddisfacenti conoscenze. Infatti, potendoci schierare secondo coscienza, senza altri pre-legami d’obbligo, riusciamo ad evitare le benevolenze in/per “amicizia”. A sguardo libero e cuore aperto e mente disponibile, riceviamo dalla Vita molto di più di quanto le diamo e concediamo. Sappiamo di non essere soli, in questo cammino in libertà; sappiamo che molti altri (ma, purtroppo, pochi ne conosciamo) agiscono in fotografia con altrettanta chiarezza e trasparenza. Tra tanti, spicca limpida e lucente la personalità della statunitense Susie Linfield (già editor del Village Voice e del Washington Post), che prima di oggi abbiamo soltanto sfiorato, registrando le sue partecipazioni a giurie internazionali. Ora, grazie a una ammirevole, gradita e apprezzata traduzione Contrasto, abbiamo potuto arricchirci di un pensiero sulla fotografia che non ha eguali, per vigore, consistenza e autorevolezza. La luce crudele, che sottotitola Fotografia e violenza politica, non viene meno alla propria promessa, occupandosi con decisione e competenza dell’argo-

mento proposto. Qui e ora, per un attimo, scartiamo a lato il soggetto esplicito e principale, per sottolineare il complemento oggetto, trasversale al testo. Immediatamente dopo la Premessa, con la quale l’autrice Susie Linfield precisa le linee conduttrici della sua analisi e introspezione, si incontra subito la prima delle tre parti nelle quali è stato scomposto il totale: un invitante e appetitoso Polemiche.

Anche la pietà dispensata dai centri nevralgici del potere è senza candore. Gli esponenti di questa casta di cimici che pullulano nella partitocrazia detengono il monopolio della bruttezza e dell’indegnità; cacciati dai loro scranni, non sono che piccoli uomini che nemmeno sanno accendere il fornello del gas, prendere un tram o farsi una sega. Fotografare è facile. Ma saper indirizzare la propria fotografia contro l’impudicizia istituzionale, è un arte... da qui derivano tutte le ribellioni.

Domanda / 4: persino passione

di Maurizio Rebuzzini (ancora)

Prima di approdare al soggetto di questa nota, Ryuichi Watanabe, titolare di New Old Camera, di Milano (via Dante 12 / via Rovello 5; www.newoldcamera.it, info@newoldcamera.it), è doveroso prenderla larga, tornando con la memoria a stagioni lontane. Il parallelo è doveroso. Dovendo/volendo riflettere nel senso verso il quale mi sono avviato, sto per avviarmi, ancora oggi potrei domandarmi come mai -quando insegnavo la fotografia in sala di posa all’Istituto Europeo di Design, tanti anni fa, in una stagione nella quale non avevo capito di essere complice di un tranello (presto rimediato, con l’abbandono, l’anno scolastico successivo)- come mai, riprendo, le regole comportamentali dello studio venissero seguite soltanto da uno studente, da un allievo. Domanda esplicita, come mai soltanto Peter Obenaus, nativo di Colonia, in Germania, seguiva le regole? Nella domanda è implicita la risposta: perché si chiama Peter Obenaus, perché è stato educato in Germania, perché è consapevole dei propri doveri, perché è chiara nella sua formazione che ognuno deve prima di tutto svolgere il proprio dovere, ahinoi, qualsiasi questo sia. Da cui: come mai, in un tempo nel quale il piagnisteo attraversa l’intero comparto commerciale della fotografia, senza alcuna soluzione di continuità dalla distribuzione alla vendita al minuto, a Milano, in pieno centro città, è fiorita una esperienza che assolve il proprio dovere/diritto con efficacia e buoni risultati? New Old Camera, creato e condotto da Ryuichi Watanabe, giapponese, originario di Hiroshima, inizialmente approdato in Italia per la musica sinfonica (amata e praticata e studiata), si distende in due entità che si affacciano in un cortile interno comune

Gli oggetti ci raggiungono sempre al momento opportuno. Sono destinati a noi: tutto è già scritto, e si devono aspettare e assecondare le proprie maturazioni. Però, attenzione e attenzione: bisogna sapere riconoscere e cogliere i loro sorrisi!

ALESSANDRO MARICONTI (3)

Cosa portavi bella ragazza

Poi, sarebbe arrivata Vincenzina (con Beppe Viola, «Vincenzina davanti la fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più»). Poi, sarebbero arrivati gli aeroplani («che si parlano tra di loro e discutono e non si dicono mai niente»). Poi, sarebbe arrivata una lettera da lontano («per il tempo, che a vent’anni nessuno ti dice che vola via come un tipo particolare di vento» / «per mio figlio, che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio»). Ma il mio primo avvicinamento a Enzo Jannacci, il mio avvicinamento originario, è stato con la bella ragazza. Non mi vergogno, né mi imbarazzo, quando confesso pubblicamente che ancora oggi, quando risento la canzone, mi commuovo fino alle lacrime, come il primo giorno, tanti decenni fa, tante stagioni fa. Vi prego di ascoltarla, meglio se nella versione originaria, dall’album Sei minuti all’alba, del 1966, che contiene anche E io ho visto un uomo, altra lirica degna di grande attenzione (ovviamente, entrambe le esecuzioni, sono su YouTube). Cosa portavi bella ragazza dovrebbe essere una di quelle compagnie delle quali non fare a meno. Mai. Ha ragioni da vendere l’amico Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione della rivista con i suoi fulminanti, seducenti e intriganti Sguardi su, quando annota che «solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante» (riflessione/annotazione che ho fatto mia). Enzo Jannacci è stato un poeta che ha parlato con il cuore e al cuore. Gli debbo molto, e oggi il mio debito cresce: con questo incipit a una cadenza di domande, che si indirizzano nel nostro mondo, nel nostro specifico fotografico, ispirandosi alla sua bella ragazza, con relative risposte laconiche e distaccate, tanto quanto è stato ed è nella mia Vita: lo ammetto e ri-

GIORDANO SUARIA

Il rovescio dell’immagine fotografica è sovente una forma d’indecenza creativa: si camuffano viltà e propensioni oracolari nell’inutilità creativa di naufraghi senza mari. Il dilettantismo planetario della fotografia è insegnata e glorificata da una casta di eruditi e suppliziati, per la conquista di vetrine deprimenti. Nel riconoscimento culturale, intravedono profitti e orgogli da parrocchia, e la fotografia del disgelo (e del dissenso), della quale -un tempo- gli irriducibili della verità andavano fieri (vinti decorosi o reprobi per bene), è ormai ricondotta fuori dalla poesia, e si è conformata al cinismo dei salotti. L’inaudito si mescola all’indecenza, il miracolo alla necessità di vedere le proprie opere sulle pareti delle banche. I disingannati di ogni arte rigettano la ribalta dell’attualità, si alzano in piedi contro il fascino dei simulacri e dicono la mia parola è no!

P

di Maurizio Rebuzzini

MAURIZIO REBUZZINI (3)

DELLA FOTOGRAFIA ITALIANA RISPOSTA CINQUE

Domanda / 2: l’incontro

di Maurizio Rebuzzini (Franti)

MAURIZIO REBUZZINI

STATI DI ILLUSIONE

Domanda / 1: le origini

MAURIZIO REBUZZINI (3)

associano il vangelo della fotografia della benevolenza all’assassinio; e come si conviene a ogni rivolta veramente ispirata, rendono la vergogna del potere ancora più vergognosa. Respingono dappertutto l’infelicità.

Quindi, dopo una Premessa già adeguatamente stuzzicante e corroborante, sono distese sul tavolo da gioco tutte le carte della partita. A carte scoperte, l’autorevole autrice sottolinea subito, non soltanto presto, la matrice che inquina la critica fotografica nel proprio insieme e complesso, esercitata da critici che odiano la fotografia. Qui, Susie Linfield si pone la domanda esplicita: perché la odia-

La luce crudele, di Susie Linfield (Contrasto, 2014; 328 pagine 15x21cm; 21,90 euro), è un libro straordinario, di quelli assolutamente/assolutamente indispensabili a coloro i quali si occupano di fotografia con coerenza e partecipazione. Qui e oggi, lo consideriamo in maniera trasversale, utilitaristicamente allineato con le nostre attuali domande per risposta. Però, attenzione, il suo valore è di qualità ben superiore a questo: dunque, se ne dovrà assolutamente riparlare.

no? La risposta è immediata: perché sono carichi di sospetto, diffidenza, rabbia e paura. Ancora (e siamo noi ad affermarlo): perché non sanno riconoscere l’Amore, neppure quando si presenta loro con gli archetipi che lo definiscono; perché non sanno capire la passione; perché nella loro tignosità sono più interessati alla demolizione fine a se stessa che alla frequentazione conoscitiva; perché antepongono la propria autoreferenzialità alla comprensione delle ragioni degli altri. Nel proprio insieme, La luce crudele è un testo che dà tante e tante risposte, sia a domande latenti, presenti nell’animo di ciascuno di noi, sia a domande inedite, accese dall’intuizione e acume di Susie Linfield. Allo stesso tempo, e a complemento (e paradossalmente?), è un libro che sollecita altrettanti interrogativi. Insomma: è un libro intelligente, che arricchisce il pensiero fotografico come pochi altri incontri siano mai riusciti a fare. A questo punto, e in ordine/rispetto dell’attuale cadenza di “domande in attesa di risposta”, si affaccia un quesito finale, che con Susie Linfield chiude il cerchio aperto dalla Bella ragazza, di Enzo Jannacci. Avere dubbi, invece di certezze assolute, osservare e vedere, piuttosto di accontentarsi di guardare soltanto, essere disponibili al dialogo e incontro, esigere da se stessi più di quanto si richiede agli altri, agire con coerenza e competenza, aggiungervi anche un pizzico di amore e passione è malattia grave? Riusciremo mai a guarire da questa infezione, che antepone la conoscenza alla superficialità, l’arricchimento di pensiero (con relativa redditività di impresa, se e quando richiesta e perseguita) all’accumulo incoerente di denari? Finale: in attesa di risposta. O

IN ATTESA DI RISPOSTA

PER CHIUDERE, MA ANCHE PER APRIRE... La fotografia -sotto ogni taglioha un qualche rapporto con il peccato originale, il fucile e la forca: di solito è un atto di aggressione... nemmeno ben fatto... una riedizione d’infanzie senza senso o esasperate dalle richieste familiari di ascendere nella scala sociale, fino ad arraffare quanto possibile e calpestare senza ritegno gli indifesi. Negli stati di illusione della fotografia italiana (ma non solo), fotografi, critici, storici -lo sappiamo bene- sono dei rimbambiti che nel saccheggio di concetti fratturati, sovente a loro invisi, si occupano soltanto di quelle quattro fotografie che hanno visto o venti pagine che hanno scritto (la sommatoria delle immagini e delle parole non definisce la qualità di un pensiero morto), e senza un minimo di decenza e onestà intellettuale si confrontano con conoscenze infondate e cancrene dell’intelletto. Scrivere di fotografia e fare-fotografia con la disinvoltura di un saltimbanco, di un santo, di un idiota e con l’ossessione del consenso e del successo è un’ebetudine diffusa. Produrre rotture profonde nella fotografia corrente (non solo con la macchina fotografica), rompere un sistema religioso, politico, filosofico -che non solo va abbattuto, ma scuoterlo per affrettarne la fine- è tutto ciò che chiedono, e si apprestano a fare!, i fotografi in utopia e del desiderio di vivere in un mondo di liberi e di uguali. ❖




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