FOTOgraphia 209 marzo 2015

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ANNO XXII - NUMERO 209 - MARZO 2015

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prima di cominciare CRONISTA PER CASO. A fine gennaio, è circolata l’ipotesi di una copertina di Topolino commemorativa dell’attentato terrorista alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, del sette gennaio, che ha impressionato e coinvolto tutto il mondo. Realizzata dal disegnatore Stefano Turconi, è stata annunciata dalla pagina Facebook ufficiale del settimanale italiano: Topolino e Paperino, i due personaggi simbolo e di riferimento della testata, sono ben visibili in primo piano e circondati da paperi, topi e cani di ogni etnia e cultura, che sorridono e innalzano una matita, che -a furor di popolo- è stata eretta a simbolo della solidarietà con la rivista francese. In corso d’opera, l’editore Panini Comics ha rinunciato. Evitando di riferirsi alla cronaca, il numero 3089 di Topolino, del quattro febbraio, ha confermato la personalità dell’edizione, che scorre parallelamente alla vita. In un ambito nel quale molti hanno accusato di codardia l’editore, noi la pensiamo diversamente. Pensiamo che il contributo che ciascuno di noi intende offrire all’educazione e crescita individuale dipenda soprattutto dallo svolgimento garbato, competente e concentrato del proprio compito istituzionale: se e quando ciascuno fa bene il proprio dovere, si compongono i tasselli di un puzzle complessivo che edifica l’esistenza collettiva. Comunque, nel caso di Topolino, va rilevato che sul precedente numero 3087 la direttrice Valentina De Poli lasciò una pagina bianca, quella del suo tradizionale editoriale. Questo silenzio va inteso come commossa testimonianza e solidarietà a una vicenda evocata con lievità, ma consistenza ed efficacia.

Nei confronti delle fotografie di fiori di Gian Paolo Barbieri (al quale riconosciamo amore per la Storia dell’Uomo e incanto per luoghi e riti che affondano le proprie radici indietro nel Tempo) la riflessione è più che necessaria, obbligatoria addirittura... oltre che benefica. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 36 e 43

Copertina Da una energica serie fotografica di Gian Paolo Barbieri, sostanzialmente inedita, che stabilisce straordinari connotati della ricerca visuale e espressiva individuale. Ne riferiamo da pagina 34: Semplicemente fiori

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio da un francobollo emesso dal Canada, il 21 maggio 2008, in celebrazione del centenario dalla nascita di Yousuf Karsh (1908-2002). In serie di tre valori, riuniti anche in foglio Souvenir: autoritratto con negativo 8x10 pollici tra le mani, ancora nel proprio telaio di trattamento, del 1952; ritratto del primo ministro inglese Winston Churchill, del 1941 (anche copertina di Life, del 21 maggio 1945); ritratto dell’attrice Audrey Hepburn, del 1956

7 Editoriale Aneddoto con effetto deprimente sulla morale del lavoro (dai racconti di Il nano e la bambola), di Heinrich Böll

8 Apprezzato ritorno Rinasce Film Ferrania, che intende riprendere la produzione di pellicola per fotografia e cinematografia: invertibile da 100 Iso (35mm, 120, Super8 e 16mm)

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Un grande giorno In ogni caso, rientrando nel nostro territorio specifico, registriamo che la copertina del numero 3089 di Topolino ha rilanciato un personaggio che in precedenza è stato sostanzialmente saltuario: Il ritorno di Pippo Reporter! è sottolineato da una raffigurazione legittimamente stereotipata della personalità. Ancora, e in conferma, all’interno del settimanale è annunciata la collana specifica Pippo Reporter, nella New York degli anni Trenta (non in quella cruda di Weegee), in edicola dal quindici febbraio.

Nel film The Terminal si evoca una celebre fotografia di Art Kane: A Great Day in Harlem, icona del Jazz Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

14 Kenko Fish-eye Dal 1966, aggiuntivo che ha segnato splendide stagioni a cura di New Old Camera

16 La più alta classe In passerella, l’interpretazione grande formato delle affascinanti Gibellini’s Folding Cameras


MARZO 2015

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

19 Cinquanta volte!

Anno XXII - numero 209 - 6,50 euro

L’appuntamento del dodici aprile con la mostra mercato di Castel San Giovanni stabilisce una meta lusinghiera

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

22 Rapidità di intenti

Maria Marasciuolo

L’attuale evoluzione tecnologica Canon Eos 7D Mark II compone i tratti di una personalità fotografica... senza compromessi. Le prestazioni sono incrementate in termini di velocità di utilizzo e applicazione di Antonio Bordoni

Beppe Bolchi Filippo Rebuzzini

26 Robert Capa in Italia Sì, è vero. Sì, lo riconosciamo. Si parla troppo di esperienze fotografiche tra-passate, e meno -molto meno- di vicende contemporanee. Ma! Ma, queste lezioni vadano intese in proiezione attuale. Nello specifico, una ennesima selezione di fotografie del fotogiornalista più celebre della Storia di Angelo Galantini

34 Semplicemente fiori Molti autori si sono cimentati nella fotografia di fiori. Perché Gian Paolo Barbieri, il più grande autore dei nostri tempi, aggiunge un’altra interpretazione? Per la stessa sensatezza che spinge ciascuno di noi ad esprimere se stesso nel tempo/spazio nel quale intende comunicare emozioni e sensazioni di Maurizio Rebuzzini

45 Rivoluzione industriale Al Mast, di Bologna, un appassionante e convincente allestimento in mostra: Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato - Fotografie industriali 1912-1937

50 Tre volte dieci Per il decennale dell’autorevole Premio Ponchielli, una mostra e una monografia stabiliscono la cadenza di 10 Fotografi 10 Storie 10 Anni che ci consentono di «vedere in tempo reale quello che succede nel mondo»

56 Verso l’Apocalisse Non è fotografia, ma: The Book of Miracles rivela un mondo fantastico... s-punto di riflessione

REDAZIONE

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Gian Paolo Barbieri Pino Bertelli Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Alessando Gibellini Chiara Lualdi Emanuel Randazzo Franco Sergio Rebosio Dante Tassi Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

60 Epopea Zeiss Che bella Storia! Che fantastico svolgimento!

64 Mimmo Jodice Sguardi su un sognatore della fotografia incantata di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale I

n un porto della costa occidentale europea un uomo vestito poveramente se ne sta sdraiato nella sua barca da pesca e sonnecchia. Un turista vestito con eleganza sta appunto mettendo una nuova pellicola a colori nella sua macchina fotografica per fotografare quella scena idillica: cielo azzurro, mare verde con pacifiche, candide creste di spuma, barca nera, berretto da pescatore rosso. Clic. Ancora una volta: clic, e siccome non c’è due senza tre, ed è sempre meglio essere sicuri, una terza volta: clic. Quel rumore secco, quasi ostile sveglia il pescatore mezzo addormentato, che si drizza pieno di sonno, cerca -pieno di sonno- il suo pacchetto di sigarette, ma prima di averlo trovato lo zelante turista gliene mette già un altro sotto il naso, gli ha infilato una sigaretta non proprio in bocca ma tra le dita, e un quarto clic, quello dell’accendino, conchiude quella sollecita cortesia. [...] - Oggi lei farà una buona pesca. Il pescatore scuote la testa. - Perché? Non uscirà al largo? Il pescatore scuote la testa; crescente nervosismo del turista. Deve stargli proprio a cuore il bene di quell’uomo poveramente vestito, e certo lo tormenta il pensiero di quell’occasione perduta. - Oh, lei non si sente bene? [...] - Mi sento benone, - dice. - Non mi sono mai sentito meglio -. [...] - Ma allora perché non esce al largo? La risposta arriva subito, asciutta. - Perché l’ho già fatto stamattina. - È stata una buona pesca? - Talmente buona che non ho bisogno di uscire un’altra volta, ho preso quattro aragoste, quasi due dozzine di maccarelli... [...] - Ne ho persino abbastanza per domani e dopodomani, - dice per sollevare l’animo dello straniero. [...] - Io non voglio immischiarmi nei suoi affari privati, - dice, - ma immagini di uscire al largo, oggi, una seconda, una terza, magari una quarta volta e di pescare tre, quattro, cinque, forse addirittura dieci dozzine di maccarelli... se lo immagini un po’. Il pescatore annuisce. - Faccia conto, - continua il turista, - che non solo oggi, ma domani, dopodomani, in ogni giorno favorevole lei esca al largo due, tre, magari quattro volte... lo sa che cosa succederebbe? Il pescatore scuote la testa. - In un anno al massimo lei potrebbe comprarsi un motore, entro due anni una seconda barca, fra tre o quattro anni lei potrebbe forse avere un piccolo cutter, con le due barche o il cutter lei naturalmente pescherebbe molto di più. Un bel giorno lei avrebbe due cutter, e allora... - L’entusiasmo gli strozza la voce per qualche istante. - Allora lei si costruirebbe una piccola cella frigorifera, magari un affumicatoio, più tardi una fabbrica di pesce in salamoia, andrebbe in giro nel suo elicottero personale, scoprirebbe dall’alto le schiere di pesci e lo comunicherebbe via radio ai suoi cutter. Potrebbe acquistare il diritto alla pesca del salmone, aprire un ristorante specializzato in pesce, esportare direttamente a Parigi, senza intermediari, le aragoste; e poi... [...] - E poi, - dice, ma ancora una volta l’eccitazione lo rende muto. Il pescatore gli batte sulla schiena come a un bambino a cui sia andato un boccone di traverso. - Che cosa? - gli chiede sottovoce. - E poi, - dice lo straniero con un entusiasmo estatico, - e poi lei potrebbe starsene in santa pace qui nel porto, sonnecchiare al sole... e contemplare questo mare stupendo. - Ma questo lo faccio già, - dice il pescatore, - me ne sto in santa pace qui nel porto e sonnecchio, è solo il suo clic che mi ha disturbato. Il turista così ammaestrato se ne andò via pensoso, perché un tempo anche lui aveva creduto di lavorare per non dover più lavorare un giorno, e in lui non restava traccia di compassione per quel pescatore poveramente vestito, solo un poco d’invidia. Heinrich Böll Aneddoto con effetto deprimente sulla morale del lavoro (in Il nano e la bambola. Racconti 1950-70 ; Einaudi, 1975)

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Cinema Eccellenza! di Maurizio Rebuzzini (Franti)

APPREZZATO RITORNO

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Digitando “Ferrania” nel più diffuso motore di ricerca in Rete, le prime tre voci che si incontrano sono curiosamente emblematiche del presente e del passato: le prime due opzioni sono istituzionali (rispettivamente, www.filmferrania.it/italian/ e www.filmferrania.it, da cui si accede alla home page in inglese); quindi, subentra Wikipedia, con le sue statutarie note storiche. Da una parte, si sottolinea la rinascita del nobile marchio italiano, produttore di pellicole fotografiche dall’inizio del Novecento (con cronologia che, dopo precedenti esperienze, data al 1923 la localizzazione ligure, nella provincia di Savona); dall’altra, si sollecita a sostenere la nuova identità: Ancora 100 anni di pellicola analogica, recita l’home page italiana; Show us your skills! (Mostraci la tua abilità!), attrae quella in lingua inglese. Proprio l’identificazione aziendale, certifica la rinascita con richiamo alla propria lunga e blasonata storia: Film Ferrania attesta la sostanza. In assoluto e per tutti, “Film” nel senso di pellicola;

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Negli anni del suo splendore industriale, Ferrania ha animato i mondi della fotografia e cinematografia con presenze pubbliche di straordinaria sostanza e avvincenti contenuti. Il periodico Ferrania è sempre stato attento e concentrato sul dibattito fotografico e su pertinenti considerazioni sul cinema italiano, ai tempi “girato” con pellicole Ferrania. Qui, annotiamo due soggetti da una serie di cartoline illustrate promozionali della pellicola fotografica: una con raffigurazione di Luxardo, celebre e celebrato fotografo di ritratto e figura, l’altra da una sequenza di soggetti geografici.

quindi, per chi dispone di pre-conoscenze, anche richiamo alle origini, degli anni Venti del Novecento (Fabbrica Italiana Lamine Milano). E poi, ovviamente, “Ferrania” di riconoscimento assoluto, certo e inequivocabile. Note ufficiali della rinascita, con invito: «Siamo Film Ferrania e qui in Italia stiamo cercando di costruire un nuovo tipo di fabbrica di pellicola per la fotografia e il cinema. Condizione necessaria per essere sostenibile nel lungo termine è che questa fabbrica sia autosufficiente, ossia riesca a produrre pellicola a colori esclusivamente a partire dalle materie prime. Naturalmente, abbiamo un piano affinché questo possa avvenire, ma ci serve il vostro aiuto per superare un ostacolo abbastanza serio. «Abbiamo scelto come nostra sede operativa l’edificio che fu il Centro Ricerca e Sviluppo di Ferrania e che contiene una versione in miniatura della linea di produzione della pellicola. Il nostro team ha lavorato per ripristinare e reingegnerizzare questo edificio, per renderlo di nuovo produttivo. Il problema è che con l’apparecchiatura in questa configurazione è possibile produrre pellicola solamente in piccole quantità e a un costo piuttosto alto. «Per questo motivo abbiamo concepito un progetto ambizioso per una nuova fabbrica che ci consentirà di produrre pellicola a costi più ragionevoli in linea con le richieste che ci stanno arrivando da tutto il mondo. Siamo davvero a buon punto nel recupero delle attrezzature dai vecchi edifici Ferrania, ma ce ne servono ancora di strategiche e il tempo sta davvero stringendo perché la demolizione degli edifici che le contengono è stata anticipata alla fine di quest’anno. «Per essere autosufficienti e pronti per i prossimi 100 anni, dobbiamo salvare Trixie (l’impianto industriale per la produzione del triacetato, dove si realizza il supporto trasparente per l’emulsione sensibile), Walter (il laboratorio industriale di sintesi chimica, nel quale si realizzano le sostanze chimiche fotosensibili) e Big Boy (l’impianto di stesa industriale, nel quale l’emulsione si applica sul supporto triacetato)».

Da cui, una iniziativa a sostegno, con premi e avvio della produzione nelle prime settimane di quest’anno. Tra le note stampa più pertinenti, riprendiamo qui quanto riportato da Michele Smargiassi, uno dei più attenti osservatori delle fenomenologie fotografiche, senza alcuna soluzione di continuità, in Il Venerdì di Repubblica dello scorso ventitré gennaio. In Uccisa dal digitale, Ferrania risorge, Michele Smargiassi annota che «Si ricomincia. L’ultimo lotto di pellicole uscì da queste macchine nel 2011 [...]. Tornare ai rullini sembra una scommessa da matti, ora che tutti hanno in tasca un fotocellulare. O forse no: è il momento giusto. “Ora o mai più”, è quel che si sono detti due anni fa Nicola Baldini e Marco Pagni, fiorentini entrambi, ingegnere informatico e videomaker il primo, imprenditore e restauratore cinematografico il secondo, i nuovi manager della rinata Ferrania. Come capita spesso, all’inizio era uno sfizio, un side business. “Pensavamo a un piccolo sito di e-commerce, per vendere rullini confezionati da noi con pellicola comprata altrove”. «Girarono cercando una macchina perforatrice e capitarono qui, nel borgo di Ferrania, sulle rive del Bormida, entroterra di Savona, dove il nobile stabilimento, parzialmente riconvertito a fabbrica di pannelli solari, stava per vendere i macchinari a peso. Macchine splendide, raffinate, che nessuno oggi potrebbe più costruire di nuovo. “E ci dicemmo: perché no? Perché non facciamo tutto da noi, dai sali d’argento e dai fiocchi di cotone fino al pacchetto confezionato?”». Nicola Baldini e Marco Pagni rilevarono parte dello stabilimento originario, che negli anni d’oro prefigurava un paese-fabbrica, con quattromilacinquecento dipendenti: un’area discriminante e decisiva, il Centro Ricerca della Ferrania. Ancora con Michele Smargiassi: «Una miniatura perfetta della fabbrica maggiore. Stessi macchinari, ma in piccolo. Era l’ideale per l’operazione spericolata che avevano in mente: “Rifare la fabbrica in versione ridotta, ma perfetta. Rifare le pellicole che ci hanno reso famosi nel mondo”.


Eccellenza! «Si scommette su un mercato di nicchia, certo, ma che, incredibilmente, si allarga. Fotoamatori refrattari alla tecnologia? Delusi dai pixel? “Noi puntiamo a un altro pubblico. Agli immigrati analogici. Ai ragazzi dei fotocellulari, che non hanno mai scattato in pellicola e la scoprono adesso con curiosità ed entusiasmo. Magari anche al creativo che vuole quello speciale ‘look analogico’. Non investiamo su un mercato nostalgico, tutto il contrario”. «E c’è la prova. Anziché chiedere soldi alle banche, Marco e Nicola hanno scommesso sul crowd-funding. Hanno aperto una pagina su Kickstarter, sito specializzato nella raccolta fondi, e hanno detto al mondo “credete in questo progetto”. Un po’ di “marketing emozionale” con le suggestioni del grande cinema italiano ha aiutato. Be’, sono arrivati oltre trecentomila dollari in un mese. I primi centomila in sole venti ore. Seimila persone (in gran parte sotto i trenta anni) hanno donato ai due startupper dell’analogico una me-

dia di cinquantasette dollari a testa. «In cambio di cosa? Un po’ di gloria e qualche gadget. Sì, i primi sottoscrittori avranno il loro nome scritto sul “muro dei fondatori” e riceveranno un pacchetto con le prime pellicole della nuova Film Ferrania, in tiratura esclusiva e personalizzata. Poi, alla fine dell’anno, tutti potranno acquistarle su internet, al costo di setteotto euro a rullino». Film Ferrania riparte nella fotografia chimica con un campionario basilare: due diapositive a colori (nelle confezioni 35mm e rullo 120) e due formati cinematografici (Super8 e 16mm), da 100 Iso. Si prevede una produzione di due milioni e mezzo di pellicole l’anno, spalmate nelle quattro opzioni. Ancora Michele Smargiassi ha ribadito dal suo autorevole Blog Fotocrazia (da seguire con attenzione... è più di un consiglio), il ventisei gennaio; esplicito e di buon auspicio: «Bentornata Ferrania, gloria dell’Italia d’argento». Ci associamo. ❖


Notizie

a cura di Antonio Bordoni

TOUCH SCREEN. Nella continua evoluzione della tecnologia fotografica, che prosegue a ritmi serrati, la reflex Nikon D5500 è la prima DX della gamma con monitor touch screen ad angolazione variabile. Potente, come da capitolato inevitabile, leggera e maneggevole, consente di acquisire immagini di elevata qualità formale. Dalle azioni in rapido movimento alle situazioni più difficili e scarsamente illuminate, una reflex indirizzata a coloro i quali intendono esprimere liberamente la propria creatività, anche attraverso filmati di qualità. L’ampio sensore di immagine in dimensione DX e l’intervallo di sensibilità da 100 a 25.600 Iso equivalenti consentono di acquisire immagini nitide e dettagliate. In combinazione, l’abbinamento con la qualità degli obiettivi Nikkor garantisce risultati fotografici ottimali.

Notevolmente più leggera e compatta rispetto al modello precedente (in equità di indirizzo tecnico-commerciale), la Nikon D5500 vanta una nuova struttura monoscocca e una confortevole impugnatura ergonomica. Il monitor touch screen ad angolazione variabile, adeguatamente sensibile, consente di controllare la reflex alla stregua di uno smartphone; mentre il WiFi incorporato semplifica la condivisione in Rete delle immagini, attraverso uno smart device. Progettato senza filtro ottico passa-basso (OLPF), il sensore di acquisizione offre una risoluzione da 24,2 Megapixel, per fotografia e video. Il sistema autofocus Nikon a trentanove punti, con nove sensori centrali a croce, non perde mai di vista il soggetto, indi-

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pendentemente dall’area occupata all’interno dell’inquadratura. La velocità di scatto, in sequenza fino a cinque fotogrammi al secondo, permette di registrare movimenti imprevisti o particolari espressioni del soggetto, anche quando l’azione si svolge rapidamente. Il processore di elaborazione delle immagini Nikon Expeed 4 assicura funzionamento rapido, riduzione del disturbo avanzata e registrazione fluida dei filmati, per acquisire in completa tranquillità situazioni e momenti fotograficamente significativi. La funzione D-Movie consente di registrare video Full HD fluidi e ricchi di dettagli, con una frequenza di fotogramma pari a 50p/60p. La Nikon D5500 inizia a registrare con la semplice pressione del pulsante video dedicato, mettendo a fuoco il soggetto con precisione. Si può controllare la composizione in tempo reale, traguardando attraverso il mirino ottico, senza ritardi, né distrazioni. Dopo ogni scatto, la reflex visualizza sul monitor LCD l’immagine appena acquisita. Se durante la ripresa di immagini e video, si desidera personalizzare l’aspetto del soggetto, il sistema Nikon Picture Control di seconda generazione consente di controllarne nitidezza, contrasto, luminosità, colore, chiarezza e saturazione. Quindi, è possibile, scegliere tra sette modalità, inclusa la nuova impostazione Uniforme “Flat”, che conserva fedelmente i dettagli e preserva le informazioni relative al tono, sia nelle alte luci sia nelle ombre. (Nital, via Vittime di Piazza Fontana 52, 10024 Moncalieri TO; www.nital.it).

MIRINO SUPPLEMENTARE. Inserito sopra il monitor LCD delle convincenti Sigma dp Quattro (Best Design ai TIPA Award 2014; FOTOgraphia, giugno 2014), il mirino supplementare LVF-01 scherma la luce ambiente e ingrandisce l’immagine di 2,5 volte, così da rendere più agevole la messa a fuoco. L’efficace mirino LVF-01 (81,5x 70,9x132,6mm; 260 grammi di peso) è dotato di lenti di qualità elevata, con trattamento antiri-

flesso, che garantiscono una visione chiara e nitida. Si usa come il normale mirino degli apparecchi reflex, che -portato all’occhio- assicura anche una presa più stabile, riduce il tremolio accidentale e permette una migliore visione dei dettagli dell’immagine; con regolazione diottrica da +1 a -2 diottrie. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).

PER FOTOGRAFIA... PER CINE. Il nuovo teleobiettivo a focale fissa Samyang 135mm è configurato in due versioni: 135mm f/2 ED UMC, per fotografia; 135mm T2,2 VDSLR ED UMC, per cinematografia. In entrambe le condizioni/situazioni, si segnala prima di tutto l’elevata luminosità relativa, che riprende e richiama condizioni fotografiche radicata nel tempo. In assoluto, il teleobiettivo si colloca in una gamma ottica dedicata a ogni apparecchio reflex e alla registrazione video, che esordisce con la spettacolare inquadratura e visione fish-eye a tutto tondo. L’attuale Samyang 135mm f/2 ED UMC è stato progettato per i sensori di acquisizione digitale full frame, con i quali assicura immagini chiare e nitide, formalmente efficaci, soprattutto di soggetti distanti dal punto di ripresa. La generosa luminosità relativa f/2 ne consente l’utilizzo anche in condizioni luminose avare, senza alterare le doti originarie di contrasto cromatico ottimale e sfocatura morbida e ben distribuita (bokeh), particolarmente indirizzate alla fotografia di ritratto e natura e al fotogiornalismo nel proprio insieme e complesso. Allo stesso momento, e in altra direzione, il Samyang 135mm

T2,2 VDSLR ED UMC esprime analoghe prerogative di impiego nell’ambito della ripresa video. Per sistemi follow focus professionali, sono presenti ghiere disaccoppiate per messa a fuoco e regolazione del diaframma, che garantiscono regolazioni delicate e silenziose. Per una maggiore praticità di uso nelle diverse configurazioni, la scala delle distanze e i valori T sono riportati su ambedue i lati dell’obiettivo. Inoltre, questo 135mm T2,2 rientra nella gamma Samyang Optics VDSLR II Cine, rispetto alla quale mantiene una resa cromatica identica e replica la collocazione delle ghiere di comando, assicurando così la massima comodità in ripresa. Basati sulla efficace tecnologia ottica Samyang Optics, i due 135mm impiegano undici elementi ottici in sette gruppi, compresa una lente ED a basso indice di dispersione, che mantiene una alta risoluzione sull’intero campo immagine. Il trattamento antiriflessione Ultra Multi Coating (UMC) assicura una trasmissione luminosa ottimale e riduce a livelli minimi i fenomeni di flare e immagini fantasma. Per fotografia: a fuoco da 80cm, in baionetta Canon EF, Canon M, Fujifilm X, Nikon F, Pentax, Samsung NX, Sony Alpha, Sony E, QuattroTerzi e Micro QuattroTerzi. (Fowa, via Vittime di Piazza Fontana 52bis, 10024 Moncalieri TO; www.fowa.it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

I

UN GRANDE GIORNO

Ispirato a una storia vera, il film The Terminal, di Steven Spielberg, del 2004, rientra nella categoria delle vicende che si svolgono in ambiente unico (o quasi). In questo senso, e dal nostro osservatorio viziato, è inevitabile ricordare un luminoso esempio: La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock, del 1954, il cui andamento è circoscritto al soggiorno dell’appartamento del fotogiornalista L.B. Jefferies, interpretato da James Stewart, costretto all’immobilità a causa di un incidente sul lavoro. Lo ricordiamo: scrutando la vita del proprio isolato con il teleobiettivo, intuisce un omicidio... da cui la sceneggiatura [FOTOgraphia, marzo 2007]. Ancora in prologo, per l’attore protagonista Tom Hanks possiamo tranquillamente azzardare un parallelo con un’altra sua interpretazione. In Cast Away, di Robert Zemeckis, del 2000, è Chuck Noland, lo scrupoloso addetto FedEx che naufraga su un’isola deserta. Salvo qualche siparietto, nel

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A Great Day in Harlem è una celebre e celebrata fotografia di Art Kane, realizzata il 12 agosto 1958. Considerata una delle immagini più emblematiche della musica contemporanea, riunisce cinquantotto leggendari interpreti del jazz. Il nostro attuale richiamo è riferito alla presenza di questa fotografia nella sceneggiatura e scenografia del film The Terminal, di Steven Spielberg, del 2004.

film è completamente solo nella propria recitazione. Altrettanto, per quanto attorniato da un mondo variegato, ma incorporeo, nel film The Terminal, è Viktor Navorski, proveniente da un ipotetico paese dell’Est europeo, la Krakozhia, bloccato dentro l’aeroporto di New York: ancora, in forma di sostanzioso monologo recitativo. Nella sceneggiatura di The Terminal, la fotografia è presente in misura sostanziosamente accessoria, quanto sorprendentemente nodale. Per arrivarci, è opportuno completare la presentazione del film, quantomeno della vicenda narrata.

VICOLO CIECO Confermiamo che il film The Terminal è ispirato a una storia vera. Nel 1988, il rifugiato iraniano Mehran Karimi Nasseri rimase bloccato nell’aeroporto parigino Charles de Gaulle. Privo di passaporto, che gli sarebbe stato rubato, non aveva ottenuto il visto di ingresso in Inghilterra. Dirottato sulla Francia, gli

furono proposte due opzioni: rimpatrio in Iran, da cui era fuggito per motivi di persecuzione politica (con quello che questo significa), o sopravvivenza in area extraterritoriale... il terminal dell’aeroporto, per l’appunto. Ovviamente, Mehran Karimi Nasseri scelse la seconda possibilità, con le conseguenze relative. In attesa di un visto di ingresso nel paese, in quanto esule e profugo, si è adattato a vivere all’interno del Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle, identificato anche come Parigi-Roissy, dove è rimasto, per otto anni, fino al 2006! L’Odissea cinematografica di Viktor Navorski (Tom Hanks), protagonista del film The Terminal, è analoga nei contenuti (il visto di ingresso negli Stati Uniti viene negato a causa di un feroce colpo di stato che -durante il volo- ha cambiato il governo dell’ipotetico/immaginato paese dell’Est europeo -la Krakozhia-, che non viene riconosciuto dagli Usa), identica nella sostanza (permanenza forzata nelle aree del terminal dell’aeroporto, senza possibilità di varcare la frontiera), abbreviata nei tempi (a misura di una sceneggiatura plausibile). Durante la sua permanenza forzata all’interno dell’aeroporto, dove si ritaglia una esistenza accettabile (si fa per dire), Viktor Navorski scopre il mondo del terminal, popolato di personaggi originali e ingentilito da inaspettate manifestazioni di generosità. Il paradosso è stridente: il suo spazio vitale, entro il quale trascorre giornate che cerca di rendere il più normale possibili, è soltanto un’area di passaggio per coloro i quali vanno e vengono da e verso tutto il pianeta. Il suo bulgaro nativo (nell’edizione originaria del film) diventa un inglese approssimativo, ma comprensibile. Stringe relazioni con gli addetti dell’aeroporto ed edifica attorno a sé un mondo in qualche misura tollerabile. Ma una domanda rimane latente per tutto il film: per quale motivo, Viktor Navorski è arrivato a New York? La ragione è racchiusa in un misterioso barattolo di metallo, che lui chiama “Jazz”. In effetti, questo si tratta:


Cinema

di una raccolta di autografi dei jazzisti raffigurati in una celebre fotografia di Ark Kane, del 1958, appartenuta al padre, appena scomparso. Il viaggio a New York ha uno scopo pertinente: procurarsi l’ultimo autografo che manca alla serie, quello del sassofo-

nista Benny Golson, che appare in cameo nel film, per pochi istanti, interpretando se stesso.

ICONA DEL JAZZ Pubblicata per la prima volta sul numero del gennaio 1959 di Esquire,

Locandina del film The Terminal, di Steven Spielberg, con Tom Hanks nei panni di Viktor Navorski.

I cinquantotto musicisti jazz dell’epocale fotografia A Great Day in Harlem, di Art Kane, sono: Red Allen, Buster Bailey, Count Basie, Emmett Berry, Art Blakey, Lawrence Brown, Scoville Browne, Buck Clayton, Bill Crump, Vic Dickenson, Roy Eldridge, Art Farmer, Bud Freeman, Dizzy Gillespie, Tyree Glenn, Benny Golson, Sonny Greer, Johnny Griffin, Gigi Gryce, Coleman Hawkins, J.C. Heard, Jay C. Higginbotham, Milt Hinton, Chubby Jackson, Hilton Jefferson, Osie Johnson, Hank Jones, Jo Jones, Jimmy Jones, Taft Jordan, Max Kaminsky, Gene Krupa, Eddie Locke, Marian McPartland, Charles Mingus, Miff Mole, Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Oscar Pettiford, Rudy Powell, Luckey Roberts, Sonny Rollins, Jimmy Rushing, Pee Wee Russell, Sahib Shihab, Horace Silver, Zutty Singleton, Stuff Smith, Rex Stewart, Maxine Sullivan, Joe Thomas, Wilbur Ware, Dickie Wells, George Wettling, Ernie Wilkins, Mary Lou Williams e Lester Young. Dei cinquantotto, solo due sono ancora in vita: Benny Golson (1929; esplicitamente evocato nel film The Terminal) e Sonny Rollins (1930).

con la certificazione perentoria di “più grande fotografia a tema musicale mai realizzata”, A Great Day in Harlem, di Art Kane, è considerata una delle immagini più emblematiche della storia della musica contemporanea. La fotografia è stata scattata alle dieci del mattino del 12 agosto 1958. Art Kane convocò cinquantotto leggendari interpreti del jazz davanti al civico 17 East della 128th Street di New York City, per l’appunto ad Harlem, tra la Fifth Avenue e la Madison Avenue. Il fotografo, ora. Lo statunitense Art Kane (1925-1995) ha attivamente partecipato alle trasformazioni culturali degli anni Sessanta. Le sue sono state immagini di un fotografo visionario. Personalità influente sulla cultura dei propri tempi, ha frequentato la fotografia di moda ed editoriale, interpretando il ritratto con un piglio che è stato definito “implacabile e innovativo”: bianconero deciso e diretto; colore forte e contrastato; composizioni anche surreali. In un decennio di grandi sommovimenti, gli anni Sessanta, Art Kane ha affrontato la fotografia esprimendo la sua personalità di giovane selvaggio: inflessibile, senza compromessi e sentimentale. Pioniere di numerosi concetti di fotografia moderna, si è indirizzato verso quello che avrebbe potuto succedere, evolvere, cambiare e... interpretare in modo sempre brillante e dinamico. In una realtà sociale che fa tesoro delle formazioni scolastiche, dopo la laurea con lode alla Cooper Union, nel 1950, Art Kane ha frequentato i corsi del leggendario art director Alexey Brodovitch (che ha guidato il mensile Harper’s Bazaar dal 1934 al 1958), la cui New School fu frequentata anche da Richard Avedon, Irving Penn e Diane Arbus. Come discepolo di Brodovitch, ha imparato ad amare l’ignoto. Trent’anni prima delle semplificazioni operative del digital imaging, disponendo solo di un tavolo luminoso e una lente di ingrandimento, Art Kane ha inventato l’immagine “sandwich”: due, tre, quattro e più diapositive accuratamente allineate e fuse in una unica immagine conclusiva e definitiva. Art Kane è stato uno dei più apprezzati interpreti della musica pop degli anni Sessanta: tra gli altri, ha fotografato i Rolling Stones, gli Who, Janis Joplin, i Doors, Aretha Franklin e Bob Dylan. ❖

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dal 1966


Kenko Fish-eye

www.newoldcamera.com


Grande formato di Antonio Bordoni

LA PIÙ ALTA CLASSE

A

Alessandro Gibellini, di Sassuolo, in provincia di Modena, si è avvicinato alla fotografia nel 2012, a ventidue anni, quando ha ricevuto in dono una Pentax K1000, che molti ricordano come una delle più diffuse reflex degli anni Novanta. In piena epoca fotografica altrimenti indirizzata (all’acquisizione digitale di immagini), si è trattato di un imprinting che lo ha orientato verso le tipicità e specificità della fotografia con pellicola fotosensibile, che si è soliti specificare in “analogica”, proprio per stabilirne la personalità propria... e diversa. Nella ricerca di ulteriore qualità formale delle riprese, il passaggio dal piccolo formato 24x36mm al medio formato 6x6cm e 6x7cm è stato immediato, quanto inevitabile. Questo prologo va inteso come sostanziosa chiave di interpretazione della attuale personalità pubblica di Alessandro Gibellini, che offre e propone una avvincente e convincente produzione di apparecchi grande formato, in costruzione folding (a base ribaltabile): sul palcoscenico internazionale, Gibellini’s Folding Cameras. Ovvero, dal medio formato fotografico, l’ulteriore passo tecnico è stato quello verso il grande formato, dal 4x5 pollici all’8x10 pollici, tradotti in 10,2x12,7cm e 20,4x25,4cm. Originariamente, la produzione in proprio, che oggi raggiunge livelli di straordinaria efficienza ed efficacia, oltre che esteriorità superlativa, è stata sollecitata dai costi di vendita/acquisto degli apparecchi a banco ottico e folding disponibili sul mercato (ormai dell’usato e dell’antiquariato), eccessivi per l’economia di un principiante. Causa... effetto! L’attuale gamma di Gibellini’s Folding Cameras è a dir poco eccezionale (http://largeformatcamera.jimdo.com/). Mediante la combinazione di materiali raffinati, quanto funzionali allo scopo, la linea è scandita da singolari configurazioni che sillabano i passi tecnici di folding dallo standard 4x5 pollici (10,2x12,7cm) al fuori quota 16x20 pollici (40,6x50,8 centimetri!): in alluminio ricavato dal materiale pieno o carbonio, abbinati a legni pregiati (iroko, rovere, noce, ebano e mogano),

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Prima dei consistenti valori tecnici, definiti da caratteristiche di uso di alto valore fotografico, gli apparecchi grande formato della gamma Gibellini’s Folding Cameras si impongono per la raffinatezza ed eleganza delle proprie finiture. Costruiti in legno pregiato (iroko, rovere, noce, ebano e mogano), si abbinano a alluminio o carbonio. Con soffietti realizzati a mano, in colore e estensione di allungamento a scelta del cliente.

con movimenti fluidi su cuscinetti Teflon. In traduzione: configurazioni inviolabilmente moderne e attuali, in livrea che ricorda e richiama esteriorità classiche, con eleganti soffietti in seducente combinazione cromatica. Da cui, annotazione d’obbligo: in una produzione definita e contraddistinta da gradita e


Grande formato

ammirevole cura, questi soffietti sono realizzati interamente a mano; il loro colore e l’estensione in allungamento è a scelta del cliente. A questo punto: attenzione! Questo che stiamo esprimendo, in onore e merito di una produzione fotografica superlativa, per l’appunto Gi-

Per mille motivi, tutti legittimi, possiamo considerare standard la Gibellini’s Folding Cameras 8x10 pollici: grande formato fotografico di assoluto prestigio e richiamo. I movimenti fluidi su cuscinetti Teflon garantiscono i più pratici ed efficaci accomodamenti lineari dei piani; quindi, rotazioni libere per i movimenti di basculaggio attorno gli assi orizzontale e verticale; altrettanto, per i movimenti lineari di decentramento. Nella gamma, l’8x10 pollici (20,4x25,4cm) si accompagna con configurazioni dal 4x5 pollici (10,2x12,7cm) al 16x20 pollici (40,6x50,8cm).

bellini’s Folding Cameras, è un discorso sostanzialmente relativo e coscientemente intimo. Non si riferisce a nulla che appartiene al commercio/mercato fotografico codificato e accreditato come tale. Dunque, non possiamo fare finta che sia il contrario. Non possiamo ignorare che la realtà fotografica dei nostri giorni è altra e si esprime altrimenti; semplifichiamola così: in acquisizione digitale di immagini e dotazioni tecniche conseguenti. In effetti, senza alcuna animosità, lontani da qualsivoglia nostalgia (fine a se stessa), estranei a inutili controversie e contrapposizioni, registriamo che la storia (fosse anche solo quella tecnologica) va comunque avanti, con o senza di noi. Però! Però, con altrettanta pacata e lieve serenità, affermiamo anche come e quanto a qualcuno possa piacere attardarsi con compagnie fotograficamente storiche: del passato, sia prossimo, sia remoto, che da questo stesso passato avvolgono il presente con un’aura che arricchisce e impreziosisce le nostre esistenze. Da cui abbiamo avviato il nostro incoraggiato e raccomandato Ritorno al grande formato (promosso da FOTOgenia, di Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini [FOTOgraphia, luglio, settembre e ottobre 2014]). Ancora, e sia chiaro una volta per tutte: non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -molto più concretamente- invitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen). Fino a qualche stagione fa utensile indispensabile e irrinunciabile del professionismo fotografico, oggigiorno, la configurazione grande formato a corpi mobili (dotati di movimenti controllati di decentramento e basculaggio dei piani principali) si offre e presenta con altri connotati, si ri-propone per altra personalità, all’interno della quale un certo culto dell’utensile non è assolutamente secondario. Estetica della funzionalità: un apparecchio fotografico è bello quando funziona bene, ma funziona bene anche quando è bello. E il cerchio attorno le Gibellini’s Folding Cameras si completa. ❖

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Antiquariato e contorni di Antonio Bordoni

CINQUANTA VOLTE!

A

Al ritmo di due appuntamenti annuali, uno in primavera e l’altro in autunno, la mostra mercato di collezionismo e antiquariato fotografico di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, approda alla sua cinquantesima edizione: domenica dodici aprile, presso l’Area Indoor Sporting Club, in via Boselli, dalle 9,00. Al solito, si registrano sostanziose iniziative collaterali, di introduzione e accompagnamento: sabato undici aprile, alle 20,00, inaugurazione della mostra fotografica Un occhio sul Jazz, di Roberto Cifarelli, al Teatro Verdi, di piazza Cardinal Casaroli, con intrattenimento musicale della Big Harp Blues Band; quindi, nell’ambito della mostra mercato, domenica dodici, presentazione del libro Summicron, di Pierpaolo Ghisetti e Marco Cavina (due autorità in materia di storia degli utensili della fotografia), e mostra fotografica del gruppo Reflexandcompany. Tutt’intorno, si fa per dire, le proposte commerciali della consueta qualificata schiera di espositori specializzati nella fotografia antiquaria e da collezionismo. Onore e merito, quindi, all’eroico organizzatore Dante Tassi, che agisce con l’identificazione Photo ’90 Val Tidone, coadiuvato dalla competente e ferrata moglie Anna Dallanoce, autentica eminenza grigia dell’intera vicenda. Cinquanta edizioni quantificano un tragitto che si allunga su venticinque anni di svolgimenti: un tempo abbastanza lungo, da aver scandito i termini della nascita e crescita dell’antiquariato fotografico nel nostro paese, che, proprio a partire da Castel San Giovanni (in provincia di Piacenza), ha dato vita a numerosi altri appuntamenti merceologici del tipo, proliferati su tutta la penisola. Come spesso accade, anche questa avventura è nata quasi per caso. Tutto inizia per passione e voglia di mettersi in gioco; così che, in una domenica del novembre 1990 (da cui l’identificazione, di Photo ’90), sotto il porticato delle scuole elementari di piazza XX settembre, a Castel San Giovanni, vengono allestiti banchi di antiquariato fotografico (che in pre-

La mostra mercato di materiale fotografico usato e d’epoca di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, si svolge domenica dodici aprile, presso l’Area Indoor Sporting Club, di via Boselli, dalle nove del mattino.

cedenza si erano visti in poche occasioni: corre l’obbligo ricordare la preistoria di AntiCamera, di Gallarate, in provincia di Varese). Dopo una serie di telefonate e contatti concitati, in tempi nei quali non c’erano ancora gli attuali mezzi/sistemi di comunicazione in tempo reale, soprattutto con richiamo dalla Rete e dai relativi social network, quattro coraggiosi espositori-collezionisti si sono

presentati alla mattina, di buon’ora, arrivando da Genova, Pavia, Roma e Gubbio. Complice una luminosa domenica di sole, le loro proposte tecnico-commerciali furono confortate da circa trecento visitatori. Da cui, si è generato lo stimolo che ha spinto Dante Tassi e Anna Dallanoce a organizzare un’edizione “autentica”, in grande stile, la seconda domenica di aprile 1991: tanti espositori e pubblico in quantità.

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Antiquariato e contorni Da qui, la cadenza che si è confermata -anno dopo anno- delle due date annuali, la seconda domenica di aprile e la seconda domenica di settembre, in sedi che via via sono state modificate in relazione a vicende logistiche ed esigenze espositive. Quindi, per completezza di manifestazione e accoglimento di pubblico, il mercato antiquario e collezionistico della domenica si è sistematicamente arricchito di incontri e appuntamenti che lo hanno accompagnato o preceduto, per il solito dal pomeriggio del sabato. Tra appuntamenti consueti, tipo la sala di posa con modelle, e originali, da conferenze a tema a presentazioni di libri, da mostre di spicco all’ormai tradizionale concerto musicale del sabato sera, il richiamo di Castel San Giovanni ha assunto una consistente dimensione, che da nazionale si è addirittura proiettata oltre: fino a richiamare, lo ricordiamo bene, accreditati storici della tecnologia fotografica per un incontro al vertice: Gianni Rogliatti, Ghester Sar-

torius, James L. Lager, Paul-Henry van Hasbroeck, leicisti (leichisti?) di prim’ordine, attorno lo stesso tavolo! (E il nostro commosso ricordo va a Gianni Rogliatti e Ghester Sartorius, che sono venuti a mancare). Numeri? Cifre? Nel clou degli anni Novanta, la manifestazione ha toccato seimila visitatori in una sola giornata! E si sono registrate presenze internazionali, di compratori inglesi, tedeschi e giapponesi. Il mercato fotografico di Castel San Giovanni ha un contorno geografico che lo favorisce, così come, siamo sinceri, asseconda anche altri appuntamenti analoghi. Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, è ben posizionata e facilmente raggiungibile dal nordovest: cinquanta chilometri da Milano, poco più di cento da Genova, centoquaranta da Torino, trenta da Pavia, settanta da Alessandria, cento da Brescia, cinquanta da Cremona. Ha un casello autostradale sulla A21 (TorinoPiacenza-Brescia), una stazione ferro-

Con orgoglio, l’attuale edizione di primavera della mostra mercato di antiquariato fotografico di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza (domenica dodici aprile), certifica il consistente valore di cinquanta svolgimenti.

viaria ed è attraversato dalla via Emilia Pavese. Quindi, le colline circostanti offrono piacevoli mete di gita, escursione e, perché no, soste gastronomiche. Per non parlare, ancora, delle opportunità fotografiche, per chi ama la natura e le immagini che la raccontano. Altra differenza, che fa del contorno del mercato di Castel San Giovanni qualcosa di unico, è stata la pubblicazione del periodico di fotografia storica Scatti nel tempo, che purtroppo ha dovuto interrompersi (speriamo momentaneamente) nell’aprile 2006. Compilata con testimonianze e contributi eterogenei, questa è stata anche una palestra di opinioni e confronti di assoluto alto livello. ❖ Mostra mercato di materiale fotografico usato e d’epoca. Area Indoor Sporting Club, via Boselli. Domenica 12 aprile, 9,00-16,00. Circolo Fotografico Photo ’90 Val Tidone, via don Conti 6/10, 29015 Castel San Giovanni PC; www.photo90.it; Dante Tassi, 335-330508; Anna Dellanoce, 335-6077836.



La consistenza di prerogative tecniche finalizzate consente alla Canon Eos 7D Mark II di eccellere in situazioni ad alta velocità: fino all’acquisizione di immagini alla galvanizzante rapidità di dieci fotogrammi al secondo. L’avanzato sistema autofocus propone sessantacinque punti AF cross-1, a croce centrale, con lettura f/2,8 e individuazione fino a -3EV. Il sensore di acquisizione digitale di immagini Cmos in dimensione APS-C (22,4x15mm) ha una risoluzione di 20,2 Megapixel, con una sensibilità nativa da 100 a 16.000 Iso equivalenti, espandibili fino a 51.200 Iso equivalenti.

di Antonio Bordoni

U

fficiale e attestato. Completamente ricostruita e riprogettata rispetto configurazioni precedenti (con identificazione coincidente), la nuova Canon 7D Mark II si rinnova in misura sostanziale, nel momento stesso nel quale conferma la consistenza delle più spesse prestazioni fotografiche già assolte e risolte dalle reflex che l’hanno temporalmente preceduta. In una realtà che si svolge a ritmi sempre più serrati e rapidi, e richiede un professionismo fotografico altrettanto allineato, prima di altro (che stiamo per incontrare), la Eos 7D Mark II offre e propone l’acquisizione di immagini alla galvanizzante velocità di dieci fotogrammi al secondo (grazie anche a un otturatore di nuova concezione e specchio a ritorno iperapido), con una incredibile quantità di duecentomila cicli di scatto-durata, senza interventi sulla risoluzione dei file e in combinazione a un opportuno sensore a sessantacinque aree a croce, con processore Dual Digic 6. In conseguenza: convincente nuovo punto di riferimento per la velocità e potenza della fotografia dei nostri giorni. Progettata per la maggiore versatilità di impiego, la Canon Eos 7D Mark II dispone di un sensore di

acquisizione digitale di immagini Cmos in dimensione APS-C (22,4x15mm) da 20,2 Megapixel, con una sensibilità nativa da 100 a 16.000 Iso equivalenti, espandibile fino a 51.200 Iso equivalenti. Da cui, la combinazione con un ulteriore sensore di misurazione RGB più IR avanzato assicura immagini pertinentemente esposte. Nell’operatività quotidiana, si registrano anche controlli personalizzabili e un innovativo mirino, che fornisce una copertura di circa il cento percento del campo effettivamente inquadrato dall’obiettivo in uso. In base alle proprie premesse tecniche, la Eos 7D Mark II eccelle in situazioni ad alta velocità. Adottando uno dei sistemi autofocus più avanzati nella categoria, ogni punto AF è un cross-1, a croce centrale, con lettura f/2,8 e individuazione fino a -3EV, propri dell’identificazione ambientale di scarsa illuminazione; in conseguenza diretta, viene offerta una resa formalmente ottimale, in ogni condizioni di luce e per tutti soggetti.


RAPIDITÀ DI INTENTI

Senza ombra di dubbio, l’attuale evoluzione tecnologica Canon Eos 7D Mark II compone i tratti di una personalità fotografica... senza compromessi. Nell’evoluzione preordinata, sono state incrementate le prestazioni in termini di velocità di utilizzo e applicazione. In una classe tecnico-commerciale di vertice, e mettendo a frutto anche sinergie riprese dall’ammiraglia Eos-1Dx, la fotografia professionale si arricchisce nella concretezza di potenza e velocità, a tutti gli effetti esigenze e necessità inderogabili e irrinunciabili dei nostri giorni, del fotogiornalismo attuale e di tante altre inclinazioni del mestiere quotidiano 23


In termini di personalizzazione, la Canon Eos 7D Mark II consente di governare il sistema AF, con un menu configurabile sull’esempio della Eos-1Dx di vertice, per il controllo della sensibilità e inseguimento del soggetto. Allo stesso momento, un nuova guida dedicata di selezione delle modalità autofocus consente di passare istantaneamente tra le aree AF senza distogliere l’attenzione dal mirino reflex. Ovviamente, non manca la registrazione video Full HD, con una scelta di frame rate da 24p a 60p.

PASSO A PASSO

Nell’operatività quotidiana, la Canon Eos 7D Mark II propone anche controlli personalizzabili e un innovativo mirino, che fornisce una copertura di circa il cento percento del campo effettivamente inquadrato dall’obiettivo in uso.

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Rispetto le configurazioni precedenti, di medesima categoria e analoga collocazione tecnico-commerciale, la nuova reflex Canon Eos 7D Mark II, a vocazione e indirizzo professionale, offre e propone una sostanziale e sostanziosa qualità e quantità di caratteristiche e prestazioni. Con ordine, a completamento di una relazione giornalistica cadenzata e declinata. La consistente rapidità di scatto continuo -fino a dieci acquisizioni al secondo, in formato compresso Jpeg o grezzo RAW (e in combinazione contemporanea)- si combina alla capacità di archiviare fino a trentuno file RAW e infiniti file Jpeg in un singolo buffer, senza perdita di prestazioni e regolazioni. Come già annotato, la rapidità di scatto trae anche origine da un innovativo scatto e da un attivo sistema di azionamento dello specchio reflex di nuova concezione. L’otturatore della Canon Eos 7D Mark II è testato per impiego continuo fino a duecentomila scatti; lo specchio a ritorno istantaneo è dotato di due motori: uno dedicato all’unità specchio vera e propria e un secondo è riservato alla sua combinazione con il meccanismo di scatto. La struttura utilizza anche cuscinetti con un alto tasso di trasmissione di energia, progettata per ridurre il tempo di inerzia dell’otturatore finalizzato allo scatto rapido e serrato. In pratica, quindi, gli specchi principale e secondario sono guidati da un motore dedicato che consente loro di rimanere saldi durante lo scatto continuo, garantendo al contempo un’alta precisione AI Servo AF e un’immagine stabile nella osservazione attraverso il mirino. I sessantacinque punti AF della Canon Eos 7D Mark II, tutti in distribuzione a croce, garantiscono

la corretta messa a fuoco di ogni tipo di soggetto. Ogni punto di messa a fuoco è “trasversale”, per adattarsi agevolmente con gli obiettivi EF compatibili, in modo da assicurare l’identificazione ottimale sia dei dettagli orizzontali, sia di quelli verticali. Un sistema proprietario di abilitazione ad alta precisione, in doppia linea di messa a fuoco, agevola la ripresa fotografica in condizioni di scarsa luminosità, con un punto sensibile fino a -3EV, che equivale a un soggetto inquadrato... al chiaro di luna. Ancora dal punto di vista dell’accomodamento della messa a fuoco, va ribadito il passaggio rapido e semplice tra le possibili e previste modalità AF.

MISURAZIONI RAFFINATE Per garantire una coerente e accurata valutazione dell’esposizione, la Canon Eos 7D Mark II utilizza un innovativo sensore di misurazione RGB più IR, con rilevamento iTR, da 153.600 pixel effettivi, suddiviso in duecentocinquantadue aree, ognuna delle quali è analizzata individualmente. Come precisa la sua identificazione, lo stesso sensore dispone anche di pixel IR per rilevare la luce infrarossa, che dirige l’efficace Eos Scene Detection System che analizza la scena inquadrata e perfeziona l’accuratezza AF. Questi stessi pixel agiscono assieme ai pixel RGB per rilevare luminosità, colore e toni, al fine di assicurare una esposizione fotografica costante e fedele in ogni condizione luminosa. Dal punto di vista esposimetrico, la nuova Eos 7D Mark II è la prima reflex Canon ad adottare la rilevazione Flicker. In luce artificiale, come per esempio in ambienti illuminati da lampade fluorescenti, l’emissione oscillante (impercepibile dall’occhio fisiologico) può causare una luminosità fotografica incoerente e falsare il colore. A correzione ed emendamento, la modalità di rilevazione dello sfarfallio armonizza tra loro le frequenze variate, accordandosi sulla luminosità massima della sorgente luminosa instabile, per ottenere risultati fotografici costanti e ottimali. Infine, ma altro c’è (a ciascuno, i propri approfondimenti), la Eos 7D Mark II dispone di funzioni video avanzate, a partire dalla registrazione Full HD (1080p), con frame rate variabile fino a 50p e 60p, ideali per le azioni in rapido movimento e slow-motion. ❖




HUNGARIAN NATIONAL MUSEUM (2) OF THE

PHOTOGRAPHY / MAGNUM - COLLECTION OF

ROBERT CAPA. © INTERNATIONAL CENTER BY

PHOTOGRAPH

di Angelo Galantini

P

ossiamo interessarci di musica pop contemporanea, ignorando il passato (Beatles, Rolling Stones, Who, Doors, Yardbirds, Led Zeppelin, Bob Dylan, David Bowie, B.B. King, Chuck Berry, Elvis, Jerry Lee Lewis...)? Possiamo seguire i cantautori contemporanei, anche solo italiani, evitando di conoscere il passato (Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Umberto Bindi, Gino Paoli, Luigi Tenco...)? Possiamo frequentare il cinema contemporaneo, escludendo quello del passato (e i relativi registi e attori)? Possiamo apprezzare la letteratura contemporanea, rimanendo all’oscuro di quella precedente? Possiamo? Ciò osservato e rilevato... possiamo seguire la fotografia contemporanea, in ogni propria manifestazione, mostrando insofferenza per le lezioni storiche? Certo, siamo consapevoli che spesso (forse, troppo spesso) il passato si presenta al presente con impetuosa invadenza: anche su queste pagine, probabilmente soprattutto su queste pagine, il passato fotografico partecipa in misura perfino imbarazzante, sia in forma espressiva, sia in misura tecnica. Ma non bisogna penalizzare una inclinazione e attitudine, che è sempre circostanza di riflessione. In effetti, siamo sinceri, nessuna occasione fotografica viene liquidata per se stessa, ma è sempre interpretata per quanto possa offrire e mettere a disposizione della frequentazione fotografica in attualità di intenti. È stato il caso, recente, della concomitanza di parole tecniche a partire dal disegno ottico Petzval (del 1840!) e della retrovisione su Life, simultaneamente presenti sul nostro numero dello scorso dicembre 2014. Dunque, nello specifico, e per quanto di oggi, siamo perfettamente al corrente della fantastica personalità del fotogiornalismo dei nostri giorni, interpretato da autori di straordinaria perizia, esperienza e attitudine (molti dei quali italiani di anagrafe). Allo stesso tempo e momento, sottolineiamo il senso e valore della Storia, qualsiasi cosa questo possa significare. Per quanto non ripetibili oggigiorno, saggezze fotografiche del passato offrono e propongono comunque opportuni e incoraggianti s-punti di riflessione. Da e con Anne Perry, in I peccati di Callander Square (Mondadori, 1983): «La storia non può insegnarci niente se scegliamo di dimenticarla».

Dopo gli allestimenti di Roma, Firenze e Genova, le settantotto fotografie di Robert Capa in Italia 19431944 approdano a Milano. Intenso racconto fotografico, che prende avvio dallo sbarco degli Alleati in Sicilia, per arrivare ad Anzio. Settanta anni dopo, queste fotografie colpiscono ancora oggi per la propria immediatezza e per l’empatia che accendono nell’osservatore: lezione della Storia, che ci impone di proseguire con tali retrovisioni utili alla contemporaneità

ROBERT CAPA IN ITALIA

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HUNGARIAN NATIONAL MUSEUM OF THE

PHOTOGRAPHY / MAGNUM - COLLECTION

Dopo precedenti allestimenti a Roma, Firenze e Genova, l’imponente mostra Robert Capa in Italia 19431944 approda a Milano. Dato l’argomento, esplicito nel titolo, inaugurata a fine gennaio, la mostra è programmata fino a una data percettibilmente simbolica: ventisei aprile, con non sottinteso richiamo alla fine della Seconda guerra mondiale (in ufficialità italiana), argomento dichiarato della selezione di immagini. Curata da Beatrix Lengyel e promossa dal Ministero delle Risorse Umane d’Ungheria e dal Consolato Generale di Ungheria di Milano, la mostra è allestita e veicolata da Fratelli Alinari - Fondazione per la Storia della Fotografia e dal Museo Nazionale Ungherese di Budapest; per questo appuntamento, si segnalano anche i patrocini del Comune e della Provincia di Milano. Comunque, settantotto fotografie a tema (affermato e manifestato) di Robert Capa. Universalmente annoverato tra i più significativi esponenti del fotogiornalismo del Novecento, fino ad essere persino valutato con termini assoluti (“padre del fotogiornalismo”, è la temeraria opinione di qualcuno), Robert Capa (nato Endre Ernö Friedmann; 1913-1954) ha vissuto la maggior parte della propria vita sui campi di battaglia: ovviamente, non come combattente, ma in veste di fotografo intenzionato a documentare e raccontare, in base a uno spirito fotogiornalistico che dagli anni Trenta ha potuto esprimersi, sia per l’adeguato sostegno di utensili fotografici adeguati (a farlo), sia per l’esistenza e partecipazione di una stampa periodica illustrata. Per quanto diffidenti, soprattutto nei confronti degli assoluti, non minimizziamo affatto l’apporto che Robert Capa ha dato al fotogiornalismo, che non ha mai potuto ignorare la sua personalità. Per questo, ci allineiamo al solerte Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione della rivista con suoi illuminanti Sguardi su, quando avviò le proprie considerazioni su Robert Capa con autorità: «Robert “Bob” Capa è stato uno zingaro della fotografia di guerra. Il fotografo più straordinario (insieme a Henri Cartier-Bresson) del fotogiornalismo internazionale» [in FOTOgraphia, del luglio 2003]. Ancora con Pino Bertelli, in allineamento all’attuale occasione: «Tra il 1941 e il 1945, Robert Capa va a rubare immagini della Seconda guerra mondiale, in Africa e in Europa, per Life. Di notevole bellezza autoriale sono le fotografie riprese in Sicilia e a Napoli, al seguito dei soldati americani che a forza di bombe “liberavano” l’Italia. Il 6 giugno 1944 è tra i primi a conoscere il fuoco delle batterie tedesche sulla spiaggia di Omaha, in Normandia. Era il D-Day e l’inizio della disfatta di Hitler. Scatta quattro rulli 35mm e qualche rullo 120. A Lon-

OF

ROBERT CAPA IN ITALIA 1943-1944

ROBERT CAPA. © INTERNATIONAL CENTER

Anziana tra le rovine di Agrigento; 17-18 luglio 1943.

BY

Soldati americani a Troina, in provincia di Enna, nei pressi della cattedrale di Maria Santissima Assunta, dopo il 6 agosto 1943.

Quindi, una volta ancora, incontriamo il fotogiornalismo di Robert Capa, la cui lezione è fondamentale e fondante nel lungo tragitto dell’evoluzione lessicale del linguaggio fotografico. Lo incontriamo in occasione di una particolare selezione di immagini, esposta a Milano, fino al prossimo ventisei aprile. Detto ciò, ed è una ulteriore premessa da farsi, gradiremmo che le istituzioni e chi di dovere alternassero le retrovisioni fotografiche (come questa) a segnalazioni in attualità: di autori, movimenti, spostamenti creativi e altro tanto ancora. Ma!

PHOTOGRAPH

(doppia pagina precedente)

dra, nella fretta di sviluppare il lavoro di Robert Capa, il tecnico di camera oscura di Life fece squagliare l’emulsione e cancellò le immagini di tre rulli. Nel quarto, restarono undici fotogrammi da stampare; due furono scartati e i restanti nove sono le fotografie sullo sbarco in Normandia che il mondo conosce. Sono sfocate, mosse, accidentate... ma emozionanti».

PENSIERI (E DINTORNI) Tradotto in italiano e pubblicato da Contrasto, nel 2002, Leggermente fuori fuoco (dall’originario Slightly Out of Focus) è il diario-romanzo di Robert Capa sulla sua partecipazione, come fotogiornalista, alla Seconda guerra mondiale. «Un diario particolare, scritto come


una sceneggiatura, ricco di colpi di scena, di storie d’amore, di personaggi intensi e a volte esilaranti, di esperienze forti e drammatiche» (da note ufficiali di presentazione). Il titolo avvalora, confermandola, una delle caratteristiche esplicite e implicite della sua stessa fotografia. Finalizziamo ancora dal testo di Pino Bertelli, appena richiamato: «Va detto subito che Robert Capa non è un fotografo tutto tecnica e ragionamento: il suo è uno sguardo trasversale, sovente emotivo, sull’accadere. Molte delle fotografie che lo renderanno grande in tutto il mondo sono spesso mosse o lievemente sfuocate». Da qui, è partita una lunga serie di annotazioni che hanno ingrossato le fila delle raccolte di aforismi d’au-

tore: alcune sono certe, altre probabili, altre ancora credibili. In assoluto, indipendentemente da qualsivoglia aderenza al vero (a quale vero?), tutte accettabili, nella propria sostanziale ammissibilità. La più nota delle riflessioni fotografiche di Robert Capa è citata in tante e tante varianti, tra le quali citiamo una versione ragionevole: «Se le vostre fotografie non sono abbastanza buone, non siete stati abbastanza vicino». Esplicitamente, entra in campo il rapporto con il soggetto, la partecipazione fisica dell’autore fotografo, che non deve mai stare a “distanza di sicurezza” (ma deve prendere parte all’azione e condividere il momento), l’emotività trasmessa dagli accadimenti. E tanto altro ancora.

Benvenuto alle truppe americane a Monreale, in provincia di Palermo; 23 luglio 1943.

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Soldato americano in perlustrazione nei dintorni di Troina, in provincia di Enna; 4-5 agosto 1943.

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Quindi, gli adagi si sprecano, spaziando dal cinismo (?) alla dedizione a una vita (anche) di eccessi individuali. In Rete, se ne trovano in grande quantità; anche se nessuno è riferito a fonti certe, tutti sono armoniosamente assestati. In estratto. «Per un corrispondente di guerra, perdere un’invasione è come rifiutare un appuntamento con Lana Turner». «Come fotografo di guerra, spero di rimanere disoccupato per il resto della mia vita» (citata anche in Life - I grandi fotografi; Contrasto, 2004). «Il corrispondente di guerra beve di più, ha più ragazze, è meglio pagato e ha una maggiore libertà rispetto al soldato; ma in questa fase del gioco, avere la libertà di scegliere il proprio posto e di poter essere

un codardo senza essere giustiziato, è la sua tortura». «In una guerra, si deve odiare qualcuno, oppure amare qualcuno; è necessario avere una posizione, oppure non si può capire ciò che succede». «Non è sempre facile stare in disparte e non essere in grado di fare nulla, se non registrare le sofferenze che stanno intorno». «Le immagini sono lì, basta catturarle». «Il corrispondente di guerra ha il suo gioco -la sua vita- nelle proprie mani, e può metterla su questo o quel cavallo, oppure può metterla in tasca all’ultimo minuto». «Non basta aver talento. Devi anche essere ungherese» (citata anche in Lo scatto umano, di Mario Dondero; Editori Laterza, 2014).


Nel concreto e tangibile dell’attuale allestimento di Robert Capa in Italia 1943-1944, il racconto fotografico prende avvio dallo sbarco degli Alleati in Sicilia, con una selezione di fotografie provenienti dalla serie Robert Capa Master Selection III, conservata a Budapest e acquisita dal Museo Nazionale Ungherese tra il 2008 e il 2009. Composta da novecentotrentasette fotografie scattate da Robert Capa in ventitré paesi di quattro continenti, è una delle tre Master Selection allestite dal fratello Cornell -a propria volta fotografo- e Richard Whelan -biografo di Robert Capa-, all’inizio degli anni Novanta, e oggi conservate a New York, Tokyo e Budapest. Identiche tra loro e scandite nel conteggio di I, II e III, le serie provengono dalla collezione dell’International Center of Photography, di New York, dove è custodita l’eredità di Robert Capa. Quando arriva in Italia come corrispondente di guerra, Robert Capa ritrae la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio: un viaggio fotografico, che si estende dal luglio 1943 al febbraio 1944, che, con un’umanità priva di retorica, rivela le tante facce/sfaccettature della guerra, spingendosi fin dentro il cuore del conflitto. Settanta anni dopo i fatti, queste fotografie colpiscono ancora oggi per la propria immediatezza e per l’empatia che accendono nell’osservatore. Ancora con John Steinbeck «Robert Capa sapeva cosa cercare e cosa farne, dopo averlo trovato. Sapeva, per esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione, conoscendola da vicino». Ed è così che Robert Capa racconta la resa di Palermo, la posta centrale di Napoli distrutta da una bomba a orologeria e il funerale delle giovani vittime delle leggendarie Quattro Giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne, dove infuriano i combattimenti; e ancora, ancora i soldati alleati accolti a Monreale dalla popolazione e in perlustrazione in campi opachi di fumo: fermo immagine di una guerra, dove cercano -nelle brevi pausedi recuperare brandelli individuali di umanità. Queste settantotto fotografie palesano una guerra fatta di gente comune, di piccoli paesi uguali in tutto il mondo, ridotti in macerie, di soldati e civili, vittime di una stessa strage. La partecipazione di Robert Capa tratta tutti con la stessa solidarietà, la stessa dignità, fermando la paura, l’attesa, l’attimo prima dello sparo, il riposo, la speranza. ❖

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

HUNGARIAN NATIONAL MUSEUM OF THE

PHOTOGRAPHY / MAGNUM - COLLECTION OF

ROBERT CAPA. © INTERNATIONAL CENTER BY

PHOTOGRAPH

«L’unica cosa a cui sono legato è la mia macchina fotografica, poca cosa, ma mi basta per non essere completamente infelice». «La guerra è come un’attrice che sta invecchiando. È sempre meno fotogenica e sempre più pericolosa» (citata anche in Lo scatto umano, di Mario Dondero; Editori Laterza, 2014). Dopo tanto gusto per la battuta, torniamo in un certo seminato, con lo scrittore John Steinbeck, che ha osservato che «Le fotografie di Capa esistevano nella sua testa: la macchina fotografica non faceva che completarle. Poteva mostrare l’orrore in cui viveva tutto un popolo nel viso di un solo bambino, e la sua macchina fotografica catturava e trasmetteva l’emozione».

PER L’APPUNTO, IN ITALIA

Robert Capa (1913-1954), nato Endre Ernö Friedmann, a Budapest, il 22 ottobre 1913, è stato ricordato da una emissione filatelica ungherese, del 2 ottobre 2013, celebrativa del centenario dalla nascita: magari si può discutere sul soggetto scelto, meno significativo di altri della sua fotografia.

Robert Capa in Italia 1943-1944, a cura di Beatrix Lengyel; mostra promossa dal Ministero delle Risorse Umane d’Ungheria e dal Consolato Generale di Ungheria di Milano, allestita e veicolata da Fratelli Alinari - Fondazione per la Storia della Fotografia e dal Museo Nazionale Ungherese di Budapest; patrocinio del Comune e della Provincia di Milano. Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2, 20124 Milano; 02-77406300; www.cittametropolitana.mi.it/cultura. Fino al 26 aprile; martedì-domenica 10,00-19,30. ❯ Volume-catalogo con testi di Beatrix Lengyel, Ilona Stemlerné Balog, Éva Fisli e Luigi Tomassini; coedizione Museo Nazionale Ungherese di Budapest e Fratelli Alinari - Fondazione per la Storia della Fotografia, 2014; bilingue italiano e inglese; 192 pagine 23x25cm; 35,00 euro.

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Nel 2006, il versatile banco ottico Silvestri S5 Micron è stato incluso nel selettivo novero degli oggetti di design insigniti del prestigioso e autorevole Premio Compasso d’Oro ADI. Onore a Vincenzo Silvestri e al designer Gabriele Gargiani. Il Premio Compasso d’Oro si offre e propone come il maggior riconoscimento alla progettualità e alla produzione italiana, e mantiene nel mondo un’elevata considerazione, dimostrata anche dal continuo successo delle mostre della Collezione storica.

*Ovviamente, non è vero: si tratta di stare insieme... con intelligenza


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SEMPLICEM Molti autori si sono cimentati nella fotografia di fiori. PerchÊ Gian Paolo Barbieri -che ha compilato capitoli fondanti nella moda e nella ricerca etnica- aggiunge un’altra interpretazione? Per la stessa sensatezza che spinge ciascuno di noi ad esprimere se stesso nel

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MENTE FIORI tempo/spazio nel quale intende comunicare emozioni e sensazioni. La materia rappresentata raggiunge l’osservatore in modo che possa comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietĂ e le leggi della natura, come pure i relativi rapporti con la natura e la realtĂ

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di Maurizio Rebuzzini onvinto come sono che la vita di ciascuno di noi sia un continuo intreccio di esperienze e influenze, e che ogni attività sia determinante non soltanto per se stessa, ma per i propri condizionamenti, non posso ignorare che la fotografia di Gian Paolo Barbieri sia anche guidata e governata da disposizioni e attitudini individuali, sia quando assolve incarichi professionali (a partire dalla sua fantastica fotografia di moda), sia quando percorre territori visuali personali. Con analoga eccellenza, Gian Paolo Barbieri è fotografo di moda per vocazione familiare, così come è fotografo etnico per il suo amore per la Storia dell’Uomo e incanto per luoghi e riti che affondano le proprie radici indietro nel Tempo. Ancora, recentemente, Gian Paolo Barbieri ha raccolto in mostra, e in volume di accompagnamento, un’altra ricerca fotografica che ha condotto per anni e anni. Le Dark Memories, che abbiamo presentato e commentato in due occasioni immediatamente successive (nel giugno e novembre 2013), hanno svelato e rivelato una personalità fotografica di straordinario fascino. Oltre gli aspetti già conosciuti della sua fotografia -quali sono quelli per la moda e quelli etnici-, si è dischiuso il sipario su una ulteriore intenzione espressiva svolta con adeguato garbo ed eccezionale ampiezza.

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Dalla superficie apparente dei soggetti ai contenuti di una investigazione di rara trasparenza e avvincente onestà. Proprio le Dark Memories sono esemplari e significative di una intenzione fotografica espressa con vigore e superiorità. Senza alcuna soluzione di continuità, con tutta la sua fotografia, Gian Paolo Barbieri affascina, sconcerta, tocca il cuore e la mente di chi guarda. Ed è anche questa la funzione della fotografia e, più in esteso, dell’arte. Usa la luce con maestria (la fotografia è luce), alternando il vigore alla pienezza soggettiva e drammatica, compone i soggetti con gusto e garbo, esibendo la loro profondità e intensità. Le fotografie di Gian Paolo Barbieri vibrano come l’animo umano. Offrono e propongono una terribile limpidezza, esprimono forza. E questi, andando qui a osservare e presentare altri inediti di Gian Paolo Barbieri, sono giusto i valori espliciti e impliciti delle fotografie di fiori. Le sue conoscenze ed esperienze emergono in fotografie che consentono anche a noi osservatori di avvicinare la materia rappresentata -i fiori, in questo caso-, in modo che anche noi possiamo presto comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i nostri rapporti con la natura e la realtà: così come Gian Paolo Barbieri li ha già intuiti e sintetizzati. (continua a pagina 43)








(continua da pagina 36) Per una inesplorabile serie di ragioni e stimoli visivi, i fiori sono uno dei soggetti ricorrenti della fotografia. Non necessariamente i fiori di casa, che fanno bella mostra di sé al centro del tavolo, oppure in vaso sul balcone, ma più frequentemente i fiori che si trovano in natura e quelli che, amorevolmente recisi, vengono ben composti su un set dalla suadente illuminazione. Due sono le strade della fotografia di fiori: quelli che vengono scovati nei prati, e vengono inquadrati da vicino, in modo da isolarli dal proprio insieme, appartengono al canonico esercizio della fotografia per diletto (senza alcun intento “professionale”), che ha piacere di mostrare -allo stesso tempo- il fiore stesso e la passeggiata per raggiungerlo; quando invece il fiore viene tolto dal proprio habitat, per essere composto in sala di posa, si è di fronte a un esercizio fotografico consapevole e cosciente. Molti autori si sono cimentati in questo tipo di fotografia di fiori. A conseguenza, una domanda è obbligatoria: perché Gian Paolo Barbieri ha aggiunto un’altra interpretazione a un tema tanto frequentato? Per la stessa sensatezza che spinge ciascuno di noi ad esprimere se stesso nel tempo/spazio nel quale intende comunicare emozioni e sensazioni. Nelle implicite e mute dichiarazioni che ognuno può individuare e leggere in questa serie e quantità/qualità di straordinarie inter-

pretazioni traspare un dato significativo, che colloca ogni singolo fiore e il loro stesso insieme a un livello espressivo di grande spessore: composizioni articolate, inquadrature con sapiente combinazione luminosa, visioni apparentemente semplici insieme a accostamenti volontariamente scanditi, approcci e svolgimenti cinetici (riprendendo una definizione di Umberto Eco, per una mostra organizzata da Bruno Munari, nel negozio Olivetti, nel 1962). In questa eterogenea serie di interpretazioni formalmente diverse tra loro, con esplorazione di differenti stilemi visivi (tutti dominati con destrezza, tutti declinati a misura), ogni fotografia suscita percezioni e impressioni proprie. Forte anche di ripetizioni e sottolineature, la somma delle singole riflessioni produce quel confortevole salto in avanti nel processo della conoscenza che fa nascere il concetto: che non riflette più l’aspetto singolo e i nessi esterni dei soggetti, dei fiori, ma coglie l’essenza della realtà, il suo insieme e il suo nesso interno. La differenza non è soltanto quantitativa ma anche qualitativa. Quando si dice comunemente “Lasciatemi riflettere”, ci si riferisce al momento nel quale ciascuno di noi collega le proprie impressioni, servendosi dei concetti, per formare giudizi e trarre deduzioni. Nei confronti delle fotografie di fiori di Gian Paolo Barbieri la riflessione è più che necessaria, obbligatoria addirittura. Oltre che confortevolmente benefica. ❖

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© E.O. HOPPÉ ESTATE COLLECTION / CURATORIAL ASSISTANCE

RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Attivo nella prima metà del Novecento, il tedesco Emil Otto Hoppé è un autore fotografo che ha anticipato successive stagioni della creatività visuale maturate in Germania e proiettatesi sull’intero pianeta: in valutazione contemporanea, magari fino alle più recenti consapevolezze derivate dalla definita Scuola di Düsseldorf, cresciuta attorno i coniugi Bernd e Hilla Becher. In un clima nel quale la realtà industriale ha fatto nascere la socialità del rapporto uomo-macchina, evocato anche dalla letteratura e dal cinema, la sua specifica esperienza professionale ha scandito tempi e contegni di un’epoca. Una personale allestita nella Photo Gallery del Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), di Bologna, che istituzionalmente si propone come osservatorio autorevole e privilegiato della cultura sociale dell’Industria, rivela la sostanza di questo fantastico pensiero: straordinaria lezione visuale. Per l’appunto, Il Segreto svelato

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(pagina precedente) Forno rotativo in costruzione nel locale caldaie, Fonderia Vickers-Armstrongs; Tyneside, Inghilterra, 1928 (Stampa digitale).

Operaio, Cunard-White Star Lines, Cantieri navali John Brown; Clydeside, Scozia, 1934 (Stampa originale, gelatina ai Sali d’argento).

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di Angelo Galantini

S

econdo capitolato, il Mast, di Bologna, continua il proprio cammino istituzionale. In quanto Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, contempla la documentazione e rilevazione fotografica come porzione essenziale della cultura sociale dell’Industria. Da cui, e per cui, il derivato programma espositivo sta scandendo tempi e modi conseguenti. Ne abbiamo già riferito, in occasione di precedenti appuntamenti: in successione temporale, gli allestimenti di I mondi industriali 014, la collettiva Capitale umano, la personale David Lynch: The Factory Photographs [rispettivamente, in FOTOgraphia, del marzo, maggio e ottobre 2014]. Ora, in attualità, si segnala l’esemplare personale Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato, che si specifica subito in Fotografie industriali 1912-1937, a cura di Urs Stahel, responsabile della Collezione Mast su Industria e Lavoro: fino al prossimo tre maggio. Anche se poco conosciuto dal grande pubblico (generico e fotograficamente specializzato) -che solitamente è indirizzato soltanto versi altre tematiche della fotografia (soprattutto concentrata sui macroaspetti del reportage e della moda)-, Emil Otto Hoppé (1878-1972) è stato uno dei più signi-

ficativi fotografi del primo Novecento. Come identifica il richiamo all’attuale selezione Il Segreto svelato, ha agito nell’arco di venticinque anni, soprattutto tra le due guerre mondiali. Il richiamo temporale non è secondario, né marginale. Dal punto di vista settoriale (del richiamo squisitamente fotografico), la sua esperienza ha anticipato successive stagioni della creatività visuale maturate in Germania, decennio dopo decennio, e proiettatesi sull’intero pianeta. Più in generale, in un clima nel quale la realtà industriale ha fatto nascere la socialità del rapporto uomo-macchina, evocato anche dalla letteratura e dal cinema, la sua specifica esperienza professionale ha scandito tempi e contegni di un’epoca. Alla Photo Gallery del Mast, di Bologna, sono allestite duecento immagini, organicamente presentate in prima mondiale. Nel proprio insieme, e una accanto le altre, sono fotografie che raffigurano realtà industriali di diversi paesi del mondo, all’alba del Novecento. In annotazione parallela, riferendoci a un tempo nel quale la specializzazione fotografica non era ancora vincolata da rigorosi confini pre-stabiliti, è doveroso rilevare che Emil Otto Hoppé fu sostanziosamente eclettico e non soltanto monotematico. Per quanto l’allestimento espositivo dell’attuale Il


© E.O. HOPPÉ ESTATE COLLECTION / CURATORIAL ASSISTANCE (3)

Operai nell’officina, fabbrica di locomotive Borsig; Berlino, Germania, 1928 (Stampa originale, gelatina ai Sali d’argento).

Banchieri, Borsa di Londra; Inghilterra, 1937 (Stampa originale, gelatina ai Sali d’argento).

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© E.O. HOPPÉ ESTATE COLLECTION / CURATORIAL ASSISTANCE

Il Sydney Harbour Bridge in costruzione, veduta dalla zona nord di Sidney; Australia, 1930 (Stampa digitale).

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Segreto svelato sia indirizzato a ciò che l’istituzione ospitante intende sottolineare (nello specifico, Fotografie industriali 1912-1937 ), si registra anche la sua abilità ritrattistica, per la quale ricordiamo la personale approntata alla prestigiosa e autorevole National Portrait Gallery, di Londra, nel 2011. Ancora, Emil Otto Hoppé è stato valido fotografo di paesaggio e viaggio: comunque, non qui e non ora. Però, attenzione, per quanto significativa del contenitore identificato (industria e lavoro), una consistente porzione della selezione fotografica esposta al Mast, di Bologna, dipende proprio dal viaggio, ovverosia dalla capacità di descrivere il fascino della grandiosità di siti industriali in tutto il mondo. Nel corso delle proprie esplorazioni fotografiche -in Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, India, Australia, Nuova Zelanda-, Emil Otto Hoppé ha fotografato il paesaggio avveniristico dell’industria (allora), sapendo cogliere il rapporto sociale e culturale che nasce dalla tecnologia, che ai tempi si manifestava nelle poderose dimensioni di macchine smisurate. Fotografo cosciente del ruolo della sua azione (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di Walter Benjamin, è del 1936), Emil Otto Hoppé è stato profondamente consapevole di come, nel primo Novecento, la tecnologia industriale stesse segnando l’arrivo nel mondo di una nuova era, nella quale la natura stessa del lavoro e della produ-

zione sarebbe profondamente cambiata. E avrebbe vivamente trasformato (stravolto) ogni equilibrio socio-economico precedente. In questa lettura e interpretazione, Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato presenta emblematiche fotografie della seconda rivoluzione industriale. Allo stesso momento, in identificazione specifica (all’approfondimento sulla Fotografia), riporta all’attenzione del pubblico l’opera di un fotografo che per lungo tempo è rimasta celata in un archivio fotografico londinese al quale lo stesso Hoppé aveva ceduto il proprio materiale, al termine della sua lunga e prestigiosa carriera. Insieme alle fotografie industriali esposte alla Photo Gallery, nell’area che il Mast riserva a “Side Event”, è sottolineata la ricca varietà tematica dell’ intera opera dell’autore tedesco. Una serie di proiezioni sottolinea la sua eclettica personalità: dai ritratti di celebri personaggi (George Bernard Shaw, Ezra Pound, T.S. Eliot, Rudyard Kipling, Giorgio V, Vita Sackwille-West, Filippo Tommaso Marinetti, Albert Einstein) ai nudi, alle tipologie umane, ai paesaggi. ❖ Emil Otto Hoppé: Il Segreto svelato - Fotografie industriali 1912-1937, a cura di Urs Stahel; organizzazione Fondazione Mast, in collaborazione con E.O. Hoppé Estate Collection / Curatorial Assistance, California. Mast, via Speranza 42, 40133 Bologna; www.mast.org. Fino al 3 maggio; martedì-domenica, 10,00-19,00.



Premio Ponchielli 2004: Alessandro Scotti ( De Narcoticis. Atlante del narcotraffico). Afghanistan, Badakhshan; coltivatore di oppio prega per la bontà del raccolto.

di Maurizio Rebuzzini

T Premio Ponchielli 2005: Giorgia Fiorio ( Il Dono). Deserto del Mali, 1998.

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appa significativa: dieci anni di Premio Ponchielli, dedicato alla figura di Amilcare G. Ponchielli, photo editor prematuramente scomparso. Istituito dal Grin (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale), riconosce il miglior progetto fotografico inerente la realtà dei nostri giorni, pensato per la pubblicazione. I fotogiornalisti candidati presentano le immagini realizzate, che -anno dopo anno- sono state giudicate da qualificate giurie. Comprensivo di un riconoscimento monetario, il Premio è stato finalizzato dai singoli vincitori per completare un progetto giornalistico, per coprire i costi di un progetto espositivo di un lavoro già realizzato o per contribuire ai costi di un’eventuale pubblicazione. Nell’anno successivo al conferimento del Premio, un’apposita commissione del Grin è stata a disposizione del vincitore per agevolare la realizzazione del progetto. Nel decennale del Premio Ponchielli è stata allestita una mostra scandita dai dieci vincitori, dal 2004 di

origine, e realizzata una monografia che ne riprende il ritmo, con abbinamento a testi di prezioso approfondimento: 10 Fotografi 10 Storie 10 Anni. Riprendiamo l’introduzione del Grin, che esprime Ringraziamenti anticipati e doverosi, peraltro esplicativi e interpretativi dell’intero iter. «È con nostro estremo orgoglio che questo libro viene pubblicato. Raccoglie e fa conoscere oltre dieci anni di impegno dei photo editor del Grin (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale) che hanno voluto, nel 2002, creare un’associazione professionale per migliorare e crescere insieme. E che, in ricordo del primo grande photo editor italiano, Amilcare G. Ponchielli, hanno voluto creare un premio per un progetto fotografico adatto alla pubblicazione su un periodico oppure online. «A partire dalla seconda edizione del premio, nel 2005, il presidente della giuria è sempre stato un direttore di un giornale italiano e a Carlo Verdelli, Valeria Corbetta, Fiorenza Vallino, Andrea Monti, Paolo Pietroni, Giovanni De Mauro, Michele Lupi, Giuseppe Di Piazza, Mario Calabresi (in ordine cronologico) vanno i nostri

TRE VOLTE DIECI


Istituito nel 2004, fino a oggi, il Premio Ponchielli ha segnalato dieci progetti fotografici inerenti la realtà dei nostri giorni. Da cui e per cui: dieci fotografi, dieci storie e dieci anni. Allestite in una collettiva a dir poco emozionante, queste immagini scandiscono nobili svolgimenti del fotogiornalismo contemporaneo, che raccontano la vita nel proprio svolgersi e consentono a tutti noi di «vedere in tempo reale quello che succede nel mondo». A cura dell’autorevole Grin (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale), che ha indetto e svolge il prestigioso Premio, la mostra si accompagna con una coinvolgente monografia, arricchita di testi a commento e di presentazione: esplicito e dichiarato, 10 Fotografi 10 Storie 10 Anni 51


Premio Ponchielli 2006: Massimo Siragusa ( Tempo libero). Ravenna, parco divertimenti di Mirabilandia, 2005.

(pagina accanto, dall’alto) Premio Ponchielli 2007: Lorenzo Cicconi Massi ( Fedeli alla tribù). Premio Ponchielli 2008: Paolo Woods ( Far West cinese). Premio Ponchielli 2009: Martina Bacigalupo ( Umumalayika).

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ringraziamenti per aver voluto condividere con noi una straordinaria esperienza di visione e di giudizio. Della giuria, oltre a tre membri del Grin, nel tempo hanno fatto parte anche i fotografi Robi Schirer, Gianni Berengo Gardin, Moreno Gentili, Paolo Verzone, Toni Thorimbert, Gabriele Basilico, Leonardo Brogioni, Giovanni Gastel. «Nelle dieci edizioni, i cui progetti vincenti sono qui raccolti, sono stati al nostro fianco e hanno economicamente sostenuto la nostra iniziativa Epson, Pirelli, UniCredit, Seat PG, Fnac Italia, la Galleria Bel Vedere, Faggiolati Pumps e infine Lottomatica. «Ogni anno, inoltre, la giuria ha segnalato un libro ritenuto il più interessante del biennio precedente ed è doveroso ricordarli qui di seguito: Ghetto (di Adam Broomberg & Oliver Chanarin, Trolley Books), Why, Mister, Why. Iraq 2003-2004 (di Geert van Kesteren, Artimo), Things As They Are. Photojournalism in Context since 1955 (Aperture/World Press Photo), De l’Europe. Photographies, Essais, Histoire (Filigranes Editions), The Roma Journeys (di Joakim Eskildsen, Steidl), Sent a Letter (di Dayanita Singh, Steidl), Tichý (di Miroslav Tichý, Walther König), Open See (di Jim Goldberg,

Steidl), Guantanamo, if the light goes out (di Edmund Clark, Dewi Lewis Publishing), Leggere le fotografie. In 12 lezioni (di Gabriele Basilico, Rizzoli/Abitare). «I ringraziamenti vanno quindi a tutti quanti ci sono stati vicini in questi anni, ai fotografi che hanno vinto e a quelli che hanno partecipato e che ci hanno comunque consentito di vedere in tempo reale quello che succede nel mondo». Già, per l’appunto: «vedere in tempo reale quello che succede nel mondo», come autentica missione della fotografia (una volta ancora, una di più, mai una di troppo, da e con Edward Steichen: «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso»; 1969, in occasione del suo novantesimo compleanno). Da cui e per cui, chi meglio dei photo editor, che non vivono la fotografia in modo saltuario, ma in misura quotidiana e concentrata, possono decifrare tra le mille e mille sfaccettature della fotografia contemporanea? Da cui e per cui, in rinforzo, l’osservatorio dei photo editor non è teorico, né immaginario, ma si basa sulla consapevolezza di un dovere preminente: quello di raccontare la vita nel proprio


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AMILCARE G. PONCHIELLI

Gianni Amilcare Ponchielli è nato a Milano nel 1946. Ha iniziato a lavorare in pubblicità, a Buenos Aires, nel 1965; poi, dal 1966 al 1968, è a Parigi, presso la rivista Jardin des Modes. Nel 1968, torna a Milano, dove lavora come grafico pubblicitario alla Rusconi, e quindi, fino al 1970, alla Rinascente Upim. Dal 1971, collabora come free lance con varie aziende editoriali e diventa quindi grafico della rivista Cento Cose. Nel 1979, entra nel Gruppo Editoriale Corriere della Sera, prima ad Amica, dove diventa il primo photo editor in Italia, quindi a Max e infine a Sette, sempre come photo editor e titolare della rubrica Photofinish. È prematuramente mancato nel 2001. In tutta la sua carriera, la fotografia ha sempre avuto un ruolo dominante. All’interno delle redazioni nelle quali ha lavorato, Amilcare G. Ponchielli si è sempre battuto perché l’immagine fotografica avesse la dignità che le spetta e le venisse riconosciuto il proprio potere informativo. Negli anni, ha costituito un’importante biblioteca dedicata alla fotografia, di oltre milleduecento volumi, oggi conservata presso il Museo di Fotografia Contemporanea, a Villa Ghirlanda, Cinisello Balsamo (Milano).

Premio Ponchielli 2010: Andrea Di Martino ( La messa è finita). Ex chiesa di San Donato, Barbaresco (Cuneo), Enoteca, 2008.

Premio Ponchielli 2011: Gulia Besana ( Baby Blues).

(passante tra le pagine) Premio Ponchielli 2012: Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco ( Corpi di reato). Circolo Arci “Falcone e Borsellino”, Paderno Dugnano (Milano), 2012.

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svolgersi, attraverso le pagine dei rispettivi media. In questa chiave di lettura, i dieci anni del Premio Ponchielli stabiliscono anche la cadenza di un fotogiornalismo che si afferma nei tempi e modi dell’esistenza quotidiana, di un fotogiornalismo capace sia di raccontare l’atteso e previsto, sia -e soprattutto- di individuare quelle storie nascoste sotto la superficie a tutti evidente, che nel proprio insieme sono autentici quadri del mondo, di un fotogiornalismo... che è capace di farci «vedere in tempo reale quello che succede nel mondo». In sequenza cronologica, dal 2004, i dieci vincitori del Premio Ponchielli sono stati Alessandro Scotti (De Narcoticis. Atlante del narcotraffico), Giorgia Fiorio (Il Dono), Massimo Siragusa (Tempo libero), Lorenzo Cicconi Massi (Fedeli alla tribù ), Paolo Woods (Far West cinese ), Martina Bacigalupo (Umumalayika), Andrea Di Martino (La messa è finita), Guia Besana (Baby Blues), Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco

(Corpi di reato), Fabio Bucciarelli (Battle to Death). Come già annotato, ma ripetizione si impone, nella monografia 10 Fotografi 10 Storie 10 Anni, pubblicata da ContrastoBooks, la sequenza dei dieci portfolio è accompagnata da testi di prezioso approfondimento. Nello specifico dei dieci portfolio, introdotti da note di presentazione dei presidenti di giuria dell’anno di affermazione (per lo più), si segnalano anche commenti degli stessi autori, che declinano in pertinente equilibrio tra esperienze esistenziali individuali e progettualità fotografica. Dall’introduzione di Michele Smargiassi, tra i più attenti osservatori delle fenomenologie fotografiche, che specifica quanto e come il fotogiornalismo sia Né tremebondo né visagista, semplicemente utile: «È un tentato omicidio, siamo chiari fin dall’inizio. Il fotoreportage non rischia di morire per senescenza, per indebolimento organico, per malattia degenerativa. C’è chi lo vorrebbe morto.


10 Fotografi 10 Storie 10 Anni, monografia sui e per i primi dieci anni del Premio Ponchielli (2004-2014), a cura del Grin (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale); Testi di Mariateresa Cerretelli, Mariuccia Stiffoni Ponchielli, Michele Smargiassi, Giovanna Calvenzi, Carlo Verdelli, Valeria Corbetta, Renata Ferri, Andrea Monti, Paolo Pietroni, Giovanni De Mauro, Michele Lupi, Giuseppe Di Piazza, Mario Calabresi, Ferruccio de Bortoli; ContrastoBooks, 2014; 136 fotografie; 224 pagine 21x19cm, cartonato; 24,90 euro.

«Se non avesse dei nemici, del resto, non sarebbe buon fotogiornalismo. L’informazione è un campo di conflitti, ogni atto di libertà di stampa tocca interessi costituiti, segreti custoditi, poteri infastiditi. Non se ne stanno con le mani in mano. «Omicidio volontario, premeditato, ma anche colposo. L’ecologia dell’informazione è minacciata da un quadro ambientale saturo di veleni. Il campo di gioco stesso è mobile, pieno di tranelli, di fosse nascoste. Mutano le piattaforme di elaborazione condivisione e consumo delle immagini, mutano i tempi e i modi del rapporto fra informatore e informato, la scena si affolla di altri attori meno definibili: non c’illuderemo, spero, che sia solo “un cambiamento tecnico”». Con conclusione indirizzata agli stessi fotogiornalisti: «A un mito dovrete rinunciare di sicuro: non siete più cavalieri di ventura, magnifici e solitari, che percorrono il mondo a cavallo di un nerissimo 35 millimetri liberando

donzelle e uccidendo draghi in singolar tenzone. «La scena dell’informazione è sempre stata un’opera collettiva come un set cinematografico. Ma ora è anche condivisa e interattiva come una performance del Living Theater. Il lector è in fabula, ma anche lui può sbagliare misura, rischio è che si illuda di poter restare solo in campo, dominus assoluto dell’informazione: per il suo bene, il fotografo deve restarci e impedirglielo. «Ma deve rinunciare a qualche scudo istoriato, a qualche galoppata eroica, e reinterpretarsi come il funzionario intelligente, attrezzato, modesto e capace di una collettività informata». Proprio per consentire a tutti noi di «vedere in tempo reale quello che succede nel mondo». ❖

(in alto) Premio Ponchielli 2013: Fabio Bucciarelli ( Battle to Death).

10 Fotografi 10 Storie 10 Anni, collettiva dei dieci vincitori del Premio Ponchielli, dal 2004; a cura del Grin (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale). Galleria San Fedele, via Hoepli 3a-b, 20121 Milano. Dal’11 al 28 marzo; martedì-sabato 16,00-19,00.

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Fantastico di Angelo Galantini

VERSO L’APOCALISSE

C

Compilato sulla base di una recente scoperta, che ha portato alla luce illustrazioni rinascimentali raffiguranti fenomeni miracolosi, l’avvincente The Book of Miracles, per l’appunto, si offre e propone per diverse decifrazioni attuali. La principale delle quali riguarda l’attenzione mistica del passato (remoto), che possiamo benissimo allineare con una coincidenza attuale: quantomeno, con la quantità e qualità di film altrettanto fantastici che visualizzano una fantascienza consolante. È per questo che ce ne occupiamo, considerato che il principale proponimento di questa eccellente monografia ha nulla da spartire con la materia statutaria della quale dovremmo occuparci (e della quale ci occupiamo sostanziosamente, seppure con personali scarti di punti di osservazione e riflessione e mete di ragionamento altrettanto individuali). Però, una volta accettata la raffigurazione fantastica, che anche in Fotografia è coltivata da una identificata corrente autoriale, non possiamo ignorare questa straordinaria lezione storica, che orienta la nostra visione, arricchendola di interpretazioni culturali di alto valore e profondo significato. La genesi dell’edizione, proposta dal sempre intraprendente Taschen Verlag, di Colonia, che sta guadagnandosi ampi meriti nell’editoria illustrata (anche fotografica), è avvincente, almeno tanto quanto è fantastico l’argomento. Ritrovato anni fa, e ora conservato in una autorevole collezione privata statunitense, l’originario Book of Miracles compone i tratti di una delle più spettacolari scoperte nel campo dell’arte rinascimentale. Il manoscritto illustrato originario, recuperato nella sua quasi totalità e datato al 1550, fu compilato nella città libera di Augsburg (a volte italianizzata in Augusta), situata nella parte sud-occidentale della Baviera. Attuale capoluogo del distretto governativo della Svevia, nei secoli scorsi, è stata uno dei fiori all’occhiello dell’Impero svevo. Brillante centro culturale, nel quale fiorirono idee e pensieri, Augsburg ha

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Fantastico

The Book of Miracles, a cura di Till-Holger Borchert e Joshua P. Waterman; Taschen Verlag, 2014 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); con booklet di testi e analisi delle singole illustrazioni; multilingue inglese, francese e tedesco; 560 pagine 32x21,5cm, cartonato, in box; 99,99 euro.

dato i natali anche a questa fantastica raffigurazione che -nel suo recente ritrovamento (e relativa edizione moderna/attuale)- si compone di centosessantanove pagine di generose dimensioni, con affascinanti illustrazioni di grande formato in gouache e acquerello, raffiguranti fenomeni celesti meravigliosi e spesso inquietanti: costellazioni, conflagrazioni, alluvioni e altre catastrofi e infiniti eventi (impaginati in una edizione di cinquecentosessanta pagine 32x21,5cm). Si tratta di accadimenti e momenti che spaziano dalla creazione del mondo a passaggi ricavati dal Vecchio Testamento, antiche tradizioni e cronache medievali, che si spingono fino alla visualizzazione (?) dell’Apocalisse, che dà avvio alla fine del pianeta.

1533: dragoni sulla Boemia. (in alto) 1531: balena e terremoto a Lisbona.

(pagina accanto, in alto) 1531: spadaccino del cielo, castello e esercito sopra Strasburgo. (pagina accanto, in basso) 1506: cometa.

Se introduciamo un’altra lettura, tra le tante possibili (e impossibili), possiamo interpretare le allucinanti illustrazioni di The Book of Micacles come pertinenti e dettagliate descrizioni delle preoccupazioni e ansie del Sedicesimo secolo, durante il quale nacque e proliferò un pensiero apocalittico di attesa della Fine. Oppure, e nulla cambia, nulla si sottrae alle nostre attuali apprensioni (forse), come appena anticipato, possiamo anche riferirci all’attualità di altri accadimenti funesti verso i quali ci porta tanto cinema catastrofico contemporaneo... per nostra fortuna confinato in finalità di botteghino e non invadente nella vita quotidiana. Come dire, in ripetizione d’obbligo da precedenti evocazioni analoghe, se non già identiche: tutto cambia, per

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Fantastico

restare tutto sempre uguale. Ieri l’altro, come pure oggigiorno. Pubblicato in facsimile, o anastatica (a ciascuno, il proprio riferimento logistico), l’attuale edizione di The Book of Miracles è -comunque- fedele all’edizione originaria. Per cui, con altro passo, l’insieme delle sue sorprendenti illustrazioni accende le luci della ribalta su una affascinante passerella che rivela aspetti meno noti e conosciuti del Rinascimento tedesco. Ovviamente, oltre la proposizione del consistente corpus di illustrazioni d’epoca, sono qui fondamentali i testi di introduzione e decodificazione (ahinoi, in sola edizione multilingue inglese, francese e tedesco), che collocano

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La bestia dal pozzo senza fondo.

(in alto, da sinistra) 1496: il mostro Tiber. 1009: torcia in fiamme. 73 Avanti Cristo: sfere dorate.

l’opera all’interno del proprio contesto culturale e storico e che includono anche dettagliate descrizioni del manoscritto e delle sue miniature. In questo ambito, è fondamentale l’autorevolezza dei curatori. Till-Holger Borchert ha studiato storia dell’arte, musicologia e letteratura tedesca alle università di Bonn e Bloomington (Indiana, Stati Uniti). Esperto riconosciuto in primi dipinti olandesi, è stato chief curator al Groeningemuseum, a Bruges (Belgio), dal 2002. Ha curato numerose mostre nella sfera dell’arte e della storia culturale; insegna storia dell’arte presso le università di Aachen (Germania) e Memphis (Stati Uniti), e dirige il Flemish Re-

search Centre, in Burgundian Netherlands (Paesi Bassi borgognoni). Joshua P. Waterman ha studiato storia dell’arte alla Oregon State University e ha ricevuto un dottorato di ricerca presso la Princeton University, con una tesi su interrelazioni della letteratura e dell’arte visiva del barocco slesiano. Esperto di arte tedesca del periodo tardo medievale e moderna, ha lavorato presso il Metropolitan Museum of Art, di New York, ed è stato Andrew W. Mellon Postdoctoral Curatorial Fellow presso il Philadelphia Museum of Art. Attualmente, è ricercatore associato presso il Germanisches Nationalmuseum, di Norimberga. ❖ Hai detto poco!



Che storia! di Maurizio Rebuzzini

E

EPOPEA ZEISS

Esaurita l’edizione originaria dell’avvincente Fotocamere ed obiettivi Zeiss [FOTOgraphia, marzo 1998], la riedizione della fantastica storia produttiva Zeiss non si è limitata a una revisione di superficie, ma ha imboccato una strada completamente differente. Per raccontare le gesta del più significativo marchio dell’ottica fotografica (ma non soltanto fotografica), Giulio Forti ha affrontato e svolto un progetto a dir poco superlativo: ha ri-studiato la storia aziendale, ha ritrovato documenti originari, ha indagato sotto l’apparenza a tutti evidente. Insomma, ha composto ciò che nessuno, prima di lui, ha avuto la forza e costanza e coerenza di realizzare. Siccome viviamo tempi di approssimazione e superficialità, potremmo pensarla diversamente (“Ha fatto il suo dovere”). Invece, siamo qui ad ammirare tanta dedizione e applicazione, che rincuora coloro i quali (noi, tra questi?) sanno distinguere l’apparenza dalla consistenza. Comunque (!) -tempi di approssimazione o tempi di precisione a parte-, ha fatto molto di più del proprio dovere. Così, alla conclusione di una applicazione colossale e monumentale, abbiamo a disposizione una storiografia Zeiss, convenientemente intitolata Zeiss. Epopea di un gigante dell’ottica, che non si esaurisce nel casellario di una nutrita quantità e qualità di apparecchi fotografici e obiettivi, censiti in bell’ordine (sia cronologico, sia tecnico). In misura molto e molto più appagante, disponiamo di un saggio tra i più pertinenti e attinenti che il racconto storico dell’evoluzione della fotografia abbia mai offerto. Editore e direttore del mensile Fotografia Reflex, uno dei vertici dell’editoria specializzata italiana, Giulio Forti ha affrontato la materia che si è preposto con il contegno del bravo giornalista, capace di vedere ciò che guarda e sapendolo anche raccontare. Quindi, prima di entrare nello specifico dello schedario di apparecchi e obiettivi, otto appassionanti capitoli consequenziali (per tempo e considerazioni) raccontano una Storia autenticamente tale, una

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Zeiss. Epopea di un gigante dell’ottica, di Giulio Forti e Pierpaolo Ghisetti; Editrice Reflex, 2014; 290 pagine 19,5x24,5cm; 58,00 euro.

Storia che ha tracciato indelebili linee tecnologiche della fotografia. Questo va riconosciuto e sottolineato. La fotografia è ciò che conosciamo, ed è stata ciò che ha espresso, anche (soprattutto?) a partire dalle intuizioni e capacità e folgorazioni di due personalità straordinariamente acute: Carl Friedrich Zeiss (1816-1888) e Ernst Karl Abbe (1840-1905). È da loro che parte il racconto di Giulio Forti, che ha osservato la concretezza industriale e produttiva che è via via avanzata, sapendola inquadrare “sullo sfondo degli eventi che hanno sconvolto l’Europa in un periodo a cavallo di tre secoli”, come specifica e certifica il sottotitolo dell’attuale edizione di Zeiss. Epopea di un gigante dell’ottica. Nell’approfondito e autorevole resoconto di Giulio Forti non ci sono

omissioni, non ci sono deviazioni di convenienza o cortesia: tutto è esaminato e considerato con occhio clinico e mente aperta. Ne consegue una cronaca concentrata e incalzante, che può essere letta come un emozionante romanzo, nel quale -nella propria specificità esistenziale- i protagonisti hanno svolto azioni attraverso le quali è maturata una storia esclusiva; una storia che ci sta particolarmente a cuore: quella dell’evoluzione tecnica/tecnologica della fotografia. E di questi resoconti storici abbiamo più bisogno di quanto possiamo credere. Non parole che durano soltanto il tempo della loro espressione fonetica, ma indagini, considerazioni e approfondimenti che ci arricchiscono. Qualsiasi cosa questo possa significare per ciascuno di noi. ❖


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WORLD PRESS PHOTO

OF THE

YEAR 2014: MADS NISSEN, DANIMARCA, SCANPIX/PANOS PICTURES


La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

aprile 2015

WORLD PRESS PHOTO 2015: I VINCITORI DI CATEGORIA DEL PRESTIGIOSO PREMIO. Con considerazioni


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 30 gennaio 2015)

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MIMMO JODICE

Non a torto, i filosofi dionisiaci, che sovente sono di cattivo umore per i dolori millenari che il canagliume dei privilegiati infligge agli Ultimi della Terra (non solo nel mare di mezzo), considerano il mestiere del fotografo pari a quello del cortigiano... vile, vigliacco e infame! I fotografi del mondano riciclato (e tutta la razza di artisti serventi), come i cortigiani, praticano la condiscendenza, l’adulazione, la benevolenza in cambio di trenta denari. Basta una passata televisiva o una mezza pagina sui giornali a grande tiratura (anche online); poi, il portfolio impresso sulle pagine delle riviste specializzate, commentato dallo storico o dal critico che lavora per banche, fondazioni, assessorati, università o beni culturali, è il naturale battesimo d’ingresso del fotografo a corte. Il fotografo che aspira alla conquista di un posto in società (quello dello spettacolare integrato nei dispositivi dell’impero) si dedica fin dal principio allo studio dell’arte di strisciare... si umilia alla presenza di qualsiasi insegnante, padrone, politico, prete e mercante, e fa della devozione la propria filosofia. Per raggiungere un premio internazionale riesce persino a favorire imposture, persecuzioni, crimini che il potere giudica necessari al benessere del governo (quale che sia).

SULL’ARTE DI STRISCIARE AD USO DEI FOTOGRAFI

La nobile arte del fotografo strisciante sta nella pratica costante della dissimulazione. Questa razza di serpi (volevo dire, di fotografi) è affettuosa, educata, servizievole con tutti coloro che possono aiutarli a disprezzarli... sono arroganti e cinici solo con gli indifesi o con chi non può sostenere il prezzo dovuto per l’ascesa al ponte di comando. Il buon fotografo servente è talmente assorbito dalla voglia di successo,

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«Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del ministro, e deve saperla anticipare facendo ricorso alla sagacia; ciò presuppone un’esperienza consumata, una profonda conoscenza del cuore degli uomini. Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun modo autorizzato ad essere più brillante del suo padrone o di colui che gli dispensa benevolenze, deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto».

Paul Heinrich Dietrich, barone d’Holbach (1723-1789) consenso, celebrità, che nemmeno lo sfiora l’idea che la vera arte è incompatibile con le gabbie delle istituzioni, e tutte le forme di potere sono solo strumenti di oppressione. Da qui la necessità, secondo alcuni filosofi libertari e libertini, di rovesciare le istituzioni esistenti per fondare una nuova società tra liberi e uguali e promuovere la pubblica felicità. Il Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani (di ogni tempo), scritto da Paul Heinrich Dietrich, barone d’Holbach, pubblicato postumo nel 1813, subito censurato dalla chiesa, è un insostituibile manuale per appren-

dere quest’arte della genuflessione, che ha le proprie radici con la nascita delle religioni, dei governi, delle banche, delle guerre, dei musei e perfino dei mercati delle pulci dei Sud della Terra (si attanaglia bene alla cortigianeria fotografica della nostra epoca). Qui il barone dell’ateismo scrive: «Un perfetto cortigiano è senza ombra di dubbio il più sorprendente degli uomini. Smettiamo di parlare di abnegazione dei devoti verso la Divinità [...]: la vera abnegazione è quella del cortigiano verso il proprio padrone; guardate come si umilia in sua presenza! Diventa pura macchi-

na, o, meglio, si riduce a un niente; attende di ricevere da quello la propria essenza, cerca di individuare nei suoi tratti caratteri che lui stesso deve assumere; è come una cera malleabile pronta a riceve qualsiasi calco le si voglia imprimere» (Paul Heinrich Dietrich d’Holbach: Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani; Il Nuovo Melangolo, 2009). Tutto vero. I governi sembrano fatti apposta per accogliere tali deficienti... uomini necessari, indispensabili, dei quali ogni Stato non può fare a meno: a loro spetta escogitare ingegnose trovate per tormentare, tassare, violentare il popolo. Il contagio del potere è legato indissolubilmente con l’arte di strisciare, e costituisce il fondamento di ogni forma di assolutismo. L’arte di strisciare ad uso dei cortigiani-fotografi si attiene a una regola non scritta: conoscere a memoria il prezzo di tutti quelli che incontra! Un fotografo suscettibile o di cattivo carattere non riuscirà mai ad entrare a corte e subire le peggiori mortificazioni. Però, sui sentieri ininterrotti di ogni forma espressiva ci sono stati (e ci sono) artisti che hanno praticato l’arte della diserzione e dell’opposizione, e i loro percorsi affabulativi hanno respinto l’autorità, la dipendenza, la sottomissione e fatto della propria vivenza un ponte, un gesto che ha respinto il trionfo della barbarie (estetica ed etica) sulla quale si poggia l’assenso generalizzato dell’arte al potere. Solo al fotografo-cortigiano è dato di trionfare sulle proprie immagini e fare di se stesso il calco dell’umiliazione. Il fotografocortigiano esperto è oggetto d’invidia dei suoi simili e della pubblica ammirazione. Incarna come nessuno mai l’arte di strisciare, una disciplina difficile da praticare e, forse, questa disciplina è la più grande conquista dello spirito umano (certo la più frequentata).


Sguardi su Per quanto concerne la maestria fotografica senza collari né guinzagli, Sebastião Salgado è un fulgido esempio di fotoscritture della bellezza in rapporto all’ingiustizia che ne consegue. Un fotografo non si definisce tanto per la sua libera coscienza, quanto per la sua capacità libertaria che si svincola da ogni obbedienza; questo implica lavorare al ribaltamento delle prospettive istituzionali, sottomettere l’economico al politico e porre il bello, il giusto e il buono al servizio dell’etica, far primeggiare la compassione, la condivisione, l’amore per gli esclusi e ridurre le strutture del dominio al solo ruolo di etichette al servizio dei potenti e schierarsi a fianco dei diritti dell’Uomo. In Il sale della terra, film-documentario di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado sulla vita spericolata di Sebastião Salgado, del 2014, possiamo vedere non solo la grandezza creativa di un fotografo: più di ogni cosa, ciò che emerge dallo schermo è lo scoramento di un testimone del nostro tempo per la tirannia, il cannibalismo, la violenza che la civiltà dello spettacolo continua a produrre contro l’intera umanità.

SULLA FOTOGRAFIA INCANTATA Su altri versanti architetturali, un fotografo italiano, forse è meglio dire napoletano, Mimmo Jodice, ha mostrato di avere sensibilità insolite per ciò che corre nella fotografia insegnata o celebrata, che è la medesima cosa. Nel tempo, a partire dalla gente dei vicoli di Napoli, ha elaborato una sorta di iconologia fotografica che ha molto a che fare con la filosofia meridiana cantata da Nietzsche, Camus, Pasolini, Cassano (per fare qualche nome), e cercato d’interpretare il reincanto del mondo attraverso le vestigia del passato. Le sue icone austere aderiscono alla bellezza che le abita e si oppongono alla cultura dell’ostaggio e dell’obbrobrio... seminano nella vita quotidiana elementi di politica edonistica, libertaria e critica della miseria come destino: l’uguaglianza dei godimenti è il pri-

mo passo verso la contestazione di ogni principio di autorità. La fotografia incantata (o del disincanto?) di Mimmo Jodice che ci interessa studiare è quella d’impronta artistica, connaturata cioè in linee, forme, metafore della visione, e trascuriamo del tutto le immagini di segno documentale, antropologico o sociale (nudi, ritratti, lotte proletarie, trattate fino al 1980), che contengono certo una propria compiutezza formale, ma è nel disinganno dell’arte materica che crediamo di vedere compiuta la sua ricerca poetica. Forse non è così, ma poco c’importa di quanti pensano che un artista, per quanto riconosciuto, sia portatore di immensi splendori. A noi basta entrare a cuore aperto nelle opere che ci hanno emozionato e che si portano dietro quel profumo d’eternità proprio agli spiriti indocili di ogni fucina del comunicare. La fotografia incantata di Mimmo Jodice è quella del dispendio... della perdita di sé di fronte alla Bellezza (sovente sfigurata) del mondo... una metafisica della vita e dichiarazione d’amore verso tutto quanto è traccia indelebile di una memoria, una cultura, una politica della bellezza ancora “intatta”, che combatte la bruttura imposta dalla volgarità delle idee dominanti di ogni tempo. Non c’è nostalgia nelle immagini di Mimmo Jodice, né commiserazione di ciò che è andato perduto... c’è la malinconia della lontananza, il fallimento delle tentazioni messianiche, le ragioni approssimative degli Uomini che hanno cercato di distruggere o sradicare lacrime secolari per sostituirle con la disperazione e povertà conclamate in morali, codici e valori da macellai dell’umanità. Le immagini in un bianconero ieratico di isole, edifici, mari, scogli, città, statue, rocce, campagne, alberi, auto coperte con lenzuola bianche, chiese, monumenti, nuvole, il Vesuvio che soffia contro il cielo... esprimono lo stile, il piacere dell’intelligenza, la gradevolezza di piccole perfezioni elaborate nella raffinatezza dello sguardo, e mostrano che la vita

-quando non è sofferenza- è abbandonarsi al gioco, alla gioia, al desiderio di un universo disingannato dagli interessi della merce. La fioritura del gusto è bellezza soppesata, elevata ad emozioni che contrastano la mostruosità del banale, specie se è d’autore. I fotografi della prostrazione purtroppo esistono e si assomigliano tutti, e tutti dimorano in un fare-fotografia da merlettai sterilizzanti nell’ornamento, che è l’entusiasmo degli ignoranti (basta guardare i calendari Lavazza e Pirelli, più ancora la pubblicistica degli stilisti, chef e puttanelle televisive ignudate sulle spiagge dei tropici). Tutti vedono la forma prima dell’idea... e come i piccoli uomini che si sentono importanti nel confessionale elettorale, coltivano illusioni di cattiva qualità. La scrittura visuale di Mimmo Jodice s’accorda alla lucidità dei limiti profanati e riporta a nuova vita gli incanti aurorali destinati all’oblio o violati dalla storia. Nell’iconografia di statue martoriate dall’uomo, mari e cieli che si trascolorano in specchi rinascimentali, frammenti di edifici inghiottiti dall’incuria delle istituzioni, luci, ombre, riflessi, nebbie... figura un’effervescenza surreale disseminata contro l’intolleranza del divenire, credo: diventano passaggi obbligati sulla riflessione dell’esistente come pagliacciata di paradisi inventati... sono un florilegio di sentimenti struccati che emergono dalla grandezza delle imprese del passato e dalla ferita mortale inflitta dalla “civilizzazione” al pianeta blu. Queste immagini di Mimmo Jodice, di radicale amorevolezza verso il bello, il giusto, il buono, sembrano dire, forse, che i barbari sono fra noi e gli ideali crollano insieme alle mitologie della partitocrazia che li ha sorretti. Nelle fotoscritture incantate di Mimmo Jodice ogni angolo di mondo è una culla, un cammino, una dimora dove incontrarsi, e ciascuno diventa guardiano di luce e di bellezza della comunità che viene. La fotografia fatta per i lebbrosari della merce è senza profumo d’esistenza, è di una tri-

stezza astratta, è un’impresa volgare. Fare una fotografia di sintesi (come quella di Mimmo Jodice) significa contrapporsi alla mediocrità dell’evidente e mostrare che ogni cultura addomesticata è un sommario d’inutilità, complicità con il fanatismo e la noia profonda che ne consegue, sottostare al fascino della dissoluzione e aiutare ad erigere l’ordine provvisorio dell’incomprensibile. Né estetizzazione della politica, né politicizzazione dell’arte, ma aspirazione alla nascita di un’estetica generalizzata, che diffida di ogni capolavoro sacralizzato dall’industria, per principio. «Per vivere vibratamente il vuoto traboccante della sera spirituale, occorre non solo educare il nostro senso storico, ma anche prendere le distanze dal mondo, coltivare una certa sensibilità neroniana senza follia, una predisposizione per i grandi spettacoli, per le emozioni rare e pericolose, per le aspirazioni audaci» (Emil M. Cioran: Sulla Francia; Edizioni Voland, 2014). La burrasca dei sensi -che è incline alle dissociazioni- non si esaurisce nella coltivazione delle disobbedienze civili, interroga l’irrazionalismo dell’ordine costituito: poiché tutto ciò si mantiene nei limiti del permesso all’interno della pura apparenza, occorre farsi un futuro contro la sorte che i costruttori di ideologie approntano sulla genuflessione del genere umano. La fotografia imperante esprime un’estetica della desolazione priva d’avvenire... fluttua nel corpo delle culture/politiche del falso e dell’oppressione prolungata... è la calligrafia visuale del potere al tempo della falsità e dell’impostura, dove ogni illusione è santa e ogni consenso ottenebrato dalla rapacità del neoliberismo. La fotografia dello spettacolo, o della modernità liquida, esprime il culto della carogna e alimenta o avvelena la paura e il servaggio delle masse piegate al potere assoluto dell’economia politica contemporanea (Zygmunt Bauman: Modernità liquida, Laterza, 2003). La fotografia consumerista è parte del processo di liquefazione

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Sguardi su tra individui, disgregazione dei rapporti sociali che tendono a dissiparsi e diventare sempre più effimeri... è uno strumento della società globalizzata che agisce sul comportamento delle persone... è un pretesto per assoggettare i cadaveri del declino alla gogna dei mercati che li strozza. Va detto. La banca, il fucile e l’aspersorio sono sempre andati d’accordo; i loro alleati sono il fatalismo, il pessimismo e il nichilismo. L’uguaglianza delle tirannie è in atto: democrazie della violenza, regimi totalitari, terrorismi religiosi, mercato delle armi e della droga, saccheggio di oro, argento, acqua dei paesi impoveriti dall’innalzamento dei dividendi delle banche multinazionali lavorano per il mantenimento delle disuguaglianze utili a tenere in piedi l’edificio sociale in mano a una minoranza di saprofiti. I governi stanno al giogo; i popoli

restano sfigurati sui marciapiedi della storia come puttane sfiorite. Tuttavia, ai quattro venti della Terra debuttano uomini in rivolta che cercano di mettere fine a questa mattanza degli Esclusi. L’angelo della rivoluzione è più che mai necessario per passare dalla resistenza all’insubordinazione e permettere ai dannati, i reprobi, gli schiavi della mistica della merce di riprendere nelle mani il proprio destino e mettere fine a millenni di vessazioni. Si tratta di non costruire, ma demolire, non annunciare affatto nuove favole, ma sopprimere le vecchie menzogne (Aleksandr Herzen diceva: Dall’altra sponda, Adelphi, 1993): vi è un diritto che prevale su tutti gli altri, è il diritto alla rivolta, la più antica e vitale delle risposte dell’Uomo ai despoti che lo tengono a catena. È la gioia per la vita che rende liberi. Sempre. ❖

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3,141592653: è FOTOgraphia...ONLINE

Dopo un paio di anni di assenza dal web, stiamo per riprendere il percorso. Siamo consapevoli dell’impossibilità di ignorare una realtà così importante nel mondo della comunicazione, diventata globale grazie all’avvento dei Social Network. Dopo un impegno, dall’inizio dell’anno, sul maggior Social Network (Facebook), e il positivo riscontro, abbiamo rivitalizzato FOTOgraphiaONLINE, che passa dall’estensione “.it” all’estensione “.com”. Annunciamo che il 14 marzo 2015, alle 9:26:53, si accende

www.FOTOgraphiaONLINE.com Nuove collaborazioni, soprattutto giovani, si aggiungono allo staff redazionale storico: una squadra che quotidianamente osserva e rivela il mondo della Fotografia. Cultura, tecnica, interviste, ricorrenze, mostre e curiosità a 360 gradi, con un occhio doveroso verso le nuove generazioni di fotografi.



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