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ANNO XXII - NUMERO 211 - MAGGIO 2015
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MAURIZIO GALIMBERTI MARRAKECH IN FUJI INSTAX
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prima di cominciare GÜNTER GRASS (1927-2015). Il controverso scrittore tedesco Günter Grass è mancato lunedì tredici aprile. Lo ricordiamo qui per una sua apprezzata trasversalità fotografica, che approfondimmo in cronaca, nel marzo 2010: nell’autunno 2009 è stata pubblicata la seconda parte della sua autobiografia, declinata con cadenza anche fotografica. Temporalmente successivo al primo capitolo, Sbucciando la cipolla, relativo agli anni della giovinezza (dalla guerra mondiale e l’arruolamento nelle Waffen-SS fino agli esordi come scrittore e all’affermazione planetaria: premio Nobel per la letteratura, nel 1999), il secondo tempo Camera oscura evoca -per l’appunto- un retrogusto fotografico, peraltro accentuato dall’affascinante illustrazione di copertina. Proprio l’Agfa-Box evocata e richiamata -in un disegno in punta di penna dello stesso romanziere tedesco, che ha realizzato anche le tante illustrazioni interne al libro, che danno avvio e concludono i singoli capitoli- è il filo conduttore dell’intero romanzo, che tale non è a tutti gli effetti.
La fotografia in forma di bellezza è quella che fa dell’inafferrabile un canto di gioia, un dolce fiorire della finitudine dell’Uomo e della Donna in cammino verso la conquista della civiltà felice. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66 [Basi tecniche a parte, nello specifico Lytro Illum] È l’intelligenza degli utenti a fare qualsivoglia differenza: speriamo verso interpretazioni gratificanti, che aggiungano qualcosa al lungo e nobile tragitto espressivo del linguaggio fotografico. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 59
Copertina Dal recente progetto fotografico su Marrakech, di Maurizio Galimberti, inviolabile Instant Artist. Nello specifico, progetto di ritorno che conferma lo spessore e la qualità di una visione d’arte, nello stesso momento nel quale sottolinea un nuovo passo visuale. Avvincente e convincente fotografia a sviluppo immediato Fujifilm Instax, originariamente indirizzata altrimenti. Ne riferiamo da pagina 34
3 Fotografia nei francobolli
Camera oscura, di Günter Grass, dall’originario Die Box. Dunkelkammergeschichten; Einaudi, 2009.
Con Camera oscura, Günter Grass ha completato la sua autobiografia, ripercorrendo le vicende della propria famiglia nell’ultimo mezzo secolo. Lo ha fatto dando la parola agli otto figli, di tre mogli diverse e successive. La fotografia unisce i loro racconti. Sono le fotografie realizzate da Maria Rama, detta “DàiscattaMariechen” (dall’originario “Knips-mal-Mariechen”), con una vetusta Agfa-Box, la cui magica visione mostra insieme passato, presente e futuro della famiglia, e i desideri di ognuno. Del resto, non è forse questo il senso della Fotografia, con consueta maiuscola consapevole e volontaria? Non pensiamo soltanto alla fotografia che scrive la Storia, ma anche -e qui soprattutto- a quella fantastica fotoricordo che racconta la Vita nel proprio svolgersi, giorno dopo giorno. La fotografia può farlo; forse, deve farlo. Fin dalle proprie origini, e nella sua lunga evoluzione espressiva, la fotografia offre Tempo, che arricchisce il cuore, la mente, i sentimenti. Eccolo qui il concetto della fotografia che supera l’usura degli anni e che si arricchisce di questi.
Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo di Dominica, emesso il 23 dicembre 1999. Rievocazione della bandiera sul Reichstag, della quale riferiamo da pagina 45, nel settantesimo anniversario 1945-2015, da un foglio Souvenir celebrativo del Novecento
7 Editoriale Siamo grati a coloro i quali vorranno e potranno contribuire ai ragionamenti attorno l’attuale personalità della fotografia (dell’immagine) nei nostri tempi
8 Lanfranco Colombo È mancata una delle figure di spicco della fotografia italiana, che ha animato una stagione viva e brillante
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
12 Fotografia d’arte Considerazioni dallo svolgimento del Mia Fair 2015, Fiera Internazionale d’Arte dedicata alla Fotografia
16 Sinar Twin 1990 (?): biottica 4,5x6cm a uso segnaletico a cura di New Old Camera
MAGGIO 2015
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
18 Speed Graphic
Anno XXII - numero 211 - 6,50 euro
Presenze scenografiche della folding 4x5 pollici del fotogiornalismo statunitense dei decenni (tra)scorsi Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
22 Quell’amore per Parigi
REDAZIONE
Al ritmo di duecentosessanta fotografie, la mostra Brassaï. Pour l’amour de Paris, allestita a Milano, celebra e racconta una storia eccezionale ed emozionante di Antonio Bordoni
FOTOGRAFIE
Filippo Rebuzzini Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
27 Polvere di stelle Pertinente retrospettiva d’autore, David Bailey. Stardust offre al pubblico uno sguardo su un autore iconico, simbolo di trasformazioni fotografiche significative di Angelo Galantini
34 Ritorno a Marrakech Dodici anni dopo un primo progetto declinato e svolto con la personalità che gli è propria, Maurizio Galimberti è tornato in Marocco, per una ulteriore esplorazione fotografica. Ancora e immancabilmente fotografia a sviluppo immediato, che ora si è espressa con l’emulsione Fujifilm Instax. Inviolabili gesti d’artista di Maurizio Rebuzzini
45 La bandiera sul Reichstag In occasione del settantesimo anniversario (1945-2015), riprendiamo considerazioni sull’immagine-simbolo della resa di Berlino, con conseguente fine della Seconda guerra mondiale (fronte occidentale). Approviamo la fotografia staged / allestita, teatralizzata
52 Geometrie seducenti La brava Martina Biccheri affronta la geometria dell’architettura moderna e contemporanea applicando un lessico del quale controlla e dirige le modalità. Fotografia competente, seducente e coinvolgente
59 A proposito di Lytro Con la Lytro Illum prende avvio un nuovo comparto tecnico-commerciale della fotografia: Light Field
COLLABORATO
Pino Bertelli Martina Biccheri Beppe Bolchi Antonio Bordoni Alessandro Di Mise mFranti Angelo Galantini Maurizio Galimberti Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 Photofestival 2015 Centoventisei mostre fotografiche animano la primavera di Milano. Altre, arriveranno in autunno
64 Carlo Mollino Sguardo sulla fotografia dell’erotismo da boudoir di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale G
iorno dopo giorno si manifestano e avvicendano cambiamenti che influiscono sulla vita nel proprio insieme e complesso. Dal nostro punto di vista mirato e indirizzato, dobbiamo (dovremmo) occuparci soprattutto di quanto riguarda il comparto fotografico, magari estendendoci a come e quanto le evoluzioni tecnologiche si proiettino sul linguaggio, la visione e l’espressività. Vera e sacrosanta fino a qualche stagione fa, questa condizione basilare è stata letteralmente stravolta dalla trasformazione sostanziale introdotta e diffusa dalla sostituzione dei princìpi originari della pellicola fotosensibile, a favore dell’acquisizione digitale di immagini... e consecuzioni su tutto il flusso di lavoro e lungo la filiera di gestione. Repentinamente, sono stati deformati tanti equilibri precedenti: che hanno altresì attivato considerazioni e prese di posizione che hanno contrapposto tra loro i due tempi fotografici. Al solito, non entriamo in questo dibattito, che ha pochi motivi di esistere. Però, all’avvio del nostro ventunesimo anno di edizione, dal maggio 1994, registriamo che si è trattato di un periodo fondamentale per la fotografia, come mai è accaduto in precedenza. A questo proposito, si impone una rilevazione: la metamorfosi della fotografia ha influito anche sulle considerazioni redazionali, che da argomenti originariamente indirizzati alla fotografia professionale sono migrati verso ragionamenti via via più riferiti all’immagine, ai propri perché, oltre gli inevitabili come. Zoccolo duro e irrinunciabile di ogni ragionamento rimane la propensione alla comprensione, che accompagna ciascuno di noi tra le pieghe del mondo fotografico, affrontato sia per i suoi macroaspetti, sia per quei complementi trasversali che lo insaporiscono: con obliquità sociali e di costume dal cinema, dai fumetti, dalla narrativa... e altro ancora. In questo senso, dobbiamo prendere atto che una delle consecuzioni dell’attuale personalità della fotografia -non più frequentata soltanto con quella concentrazione che ha scandito tante e tante straordinarie stagioni- riguarda proprio la sua presenza in tutta la società, magari a partire dalle sue declinazioni attraverso i social network e dintorni. In questo senso, è il caso di accelerare? di esagerare? Ovvero, possiamo affermare che una certa Fotografia, così come è stata coltivata, adorata, idolatrata e venerata per decenni, stia legittimamente concludendo il proprio percorso, nel momento nel quale si devono obbligatoriamente considerare altre personalità, altre attualità? Certo, ci esprimiamo per metafora, ma anche in paradosso. Però! Però, non pensiamo di essere tanto lontani dal vero, quando affermiamo che è tempo di riconsiderare cosa sia l’immagine fotografica nella nostra società contemporanea, e in proiezione futuribile. Eccoci qui. Consapevoli di volerne riflettere con garbo e pacatezza, siamo altresì grati a coloro i quali vorranno/potranno contribuire a questo ragionamento. Ovviamente, non intendiamo rinnegare nulla (del nostro passato comune), ma siamo disposti a riconoscere l’efficacia e fondatezza di quanto sta accadendo. Maurizio Rebuzzini
Per ovvie considerazioni tecnologiche attuali, che hanno esteso la fotografia anche a strumenti non necessariamente esclusivi, mirati e dedicati, al giorno d’oggi, la possibilità di realizzare immagini è tanto vasta e quotidiana da sollecitare lo scatto continuo, rivolto allo svolgimento di ogni giorno della propria vita. Per conseguenza, è probabilmente tempo di riconsiderare cosa sia l’immagine fotografica nella nostra società contemporanea. Nel rispetto di una Storia lunga e nobile, si stanno affacciando socialità completamente nuove, che dal presente si indirizzano irrimediabilmente al futuribile.
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Ricordo Cinema di Maurizio Rebuzzini
LANFRANCO COLOMBO
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ANGELO GALANTINI
M
Martedì sette aprile, a novantuno anni, Lanfranco Colombo è mancato a Genova, dove si era stabilito da anni. Figura di spicco della fotografia italiana, ha animato il panorama contemporaneo con numerose iniziative: a partire dalla galleria Il Diaframma, avviata nel 1967, a Milano, nella centrale via Brera 10, a ridosso degli indirizzi canonici dell’arte (la prima galleria privata europea dedicata esclusivamente alla fotografia). Queste sale espositive formarono un autentico crocevia di cultura e l’epicentro di un’attività fotografica che si è protratta per circa trent’anni. Tra tante altre considerazioni, proprio al Diaframma hanno esordito molti autori italiani, che successivamente si sono imposti per il proprio fantastico tragitto fotografico: tanti i nomi, che compongono i tratti della fotografia italiana dei nostri giorni. Il sito internet nel quale Lanfranco Colombo stava raccogliendo memorie di una vita in fotografia riporta una dichiarazione perentoria. Rispondendo alla domanda La fotografia per Lanfranco Colombo, ha rivelato il senso del suo impegno, avviato alla fine degli anni Cinquanta: «Per me è stato investire emozioni e denaro non attendendo ritorni, questo mi dà gioia ancora oggi: un modo sicuro di leggere le persone, quindi la vita. Investire un patrimonio per darlo ed essere felice». Questa affermazione richiama gli oneri e onori di una vita fotografica trascorsa a organizzare mostre ed eventi, impegnandosi in prima persona da ogni punto di vista. Si registra anche una consistente esperienza editoriale, quando, nel 1966, Lanfranco Colombo rilevò la gestione ed edizione del mensile Popular Photography Italiana, nato nel 1957, che nel 1972 divenne Il Diaframma Fotografia Italiana, per sottolinearne la rinnovata vocazione nazionale, in proiezione internazionale. La redazione della rivista fu estremamente sofisticata: con messa in pagina di Giancarlo Iliprandi (art director della testata dal 1966 al 1972), designer e grafico, esponente di spicco di una modernità che ha letteralmente trasformato l’editoria italiana del tempo.
Lanfranco Colombo in una istantanea della fine degli anni Ottanta, tra i padiglioni della Sezione Culturale del Sicof, che ha diretto e organizzato per tutte le sue edizioni, dal 1969 di origine.
A questo proposito, va ricordato che prima di Lanfranco Colombo, Popular Photography Italiana non fu altro che l’edizione nostrana, in banale traduzione, della testata leader statunitense, pubblicata a New York da ZiffDavis Publishing Co, della quale replicava i contenuti, accompagnandoli con modesti e limitati interventi locali, equamente scomposti tra presentazioni tecniche e riflessioni critiche. La direzione di Lanfranco Colombo, che coinvolse autori di pregio e valore (un nome sopra tutti e prima di tutti: Ando Gilardi), cambiò completamente il passo. Fu abbandonata la matrice statunitense, così improbabile nel nostro paese, e dal leggendario numero Centocinque furono pubblicate mo-
nografie di indiscutibile valore, che contribuirono a formare la coscienza fotografica di una intera generazione, che stava agendo in momenti di particolari tensioni sociali e trasformazione del costume e della vita nel proprio insieme e complesso (con datazione obbligatoria al Sessantotto). Lanfranco Colombo è stato anche direttore della Sezione Culturale del Sicof (Salone Internazionale Cine Ottica Fotografia), che Roberto Pinna Berchet fece nascere nell’autunno 1969. In questa veste, edizione dopo edizione, declinò nel nostro paese la formula originaria della Photokina, di Colonia, il cui aspetto culturale era stato ideato dal leggendario Fritz Gruber (19082005). Anche la consistenza dei programmi espositivi della Sezione Culturale, ospitati all’interno dei padiglioni fieristici del Sicof, stabilisce i termini di un tempo particolarmente felice per la fotografia nel nostro paese, con appuntamento merceologico allungato su uno svolgimento prolungato su una intera settimana (abbondante). Dalla fine di quegli anni Sessanta, e per luminose stagioni successive (diciamo, almeno fino a tutti gli anni Ottanta), accanto a una vivacità commerciale animata da numerosi protagonisti e da una esuberanza mercantile scandita da una offerta tecnica estremamente vitale e differenziata (paradossalmente più di quanto abbiamo oggi a disposizione), sia il Sicof nel proprio complesso, sia la collegata Sezione Culturale, a cura di Lanfranco Colombo, furono specchio di un mondo fotografico italiano splendido, vigoroso e intelligente. Con la pacatezza che contraddistingue il nostro pensiero attuale, bisogna addirittura annotare quanto furono benefiche per tutti noi anche le discussioni e le animate disapprovazioni che spesso accompagnavano ogni Sezione Culturale. In questo senso, non possiamo ignorare, né sottovalutare, che proprio quelle contese, dispute e polemiche furono espressione di un entusiasmo positivo e provvidenziale, che ha accompagnato (avviato) il cammino fotografico di molti, noi compresi. ❖
Notizie
a cura di Antonio Bordoni
SEMPRE PIÙ ROBUSTA. Al top di gamma, la compatta Ricoh WG-5 GPS conferma e ribadisce le prestazioni outdoor della particolare gamma finalizzata a prestazioni in condizioni ambientali avverse. Utilizzabile in immersione, fino a quattordici metri di profondità, propone prestazioni antiurto migliorate e efficienti funzioni GPS (specificate nella sigla identificatrice). La Ricoh WG-5 GPS è confezionata in una livrea che resiste a cadute da 2,2 metri e sopporta le basse temperature, fino a meno dieci gradi. La combinazione tra uno zoom 4x di elevata apertura relativa f/2 (f/4,9 in posizione tele) e un sensore di acquisizione digitale di immagini Cmos retroilluminato, da sedici Megapixel, promette immagini di alta qualità formale. Il rumore è adeguatamente corretto, per favorire le riprese di soggetti scarsamente illuminati, come può capitare nelle scene subacquee, nei paesaggi notturni e agli eventi sportivi indoor. Il design della WG-5 GPS è coerente con il concetto della gamma di appartenenza: corpo macchina di facile presa e antisdrucciolo, in finitura arancio o metallica (grigio canna di fucile). L’ampio monitor LCD wide-screen da tre pollici si allinea al modulo GPS, per registrare dati di posizione e log di viaggio sulle immagini acquisite. Ulteriori facilitazioni si hanno dalla misurazione di pressione, altitudine e profondità e dalla bussola digitale. Ovviamente: anche registrazione di filmati Full HD (1920x1080
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pixel). (Fowa, via Vittime di Piazza Fontana 52bis, 10024 Moncalieri TO; www.fowa.it).
VERSO IL FUTURO. No. Non si può più ignorare la realtà degli smartphone. Volendo, dal nostro punto di vista indirizzato, li potremmo anche considerare dal solo punto di vista delle loro funzioni fotografiche; ma non possiamo assolutamente ignorarli. Come è doveroso che sia, la nuova linea Samsung Galaxy S6 e Galaxy S6 edge si offre e propone anzitutto per il raffinato design, basato su materiali sofisticati e caratterizzato da una eleganza al passo con i tempi e la socialità dei nostri giorni (6,8mm di spessore e 138g di peso il Galaxy S6;
7mm di spessore e 132g di peso il Galaxy S6 edge). In questa chiave, il display Quad HD Super Amoled da 5,1 pollici vanta 577 pixel, un’alta densità e una conveniente luminosità 600cd/m2, per la migliore visibilità all’esterno. In logica consecuzione, è fin scontato che l’armonia della forma si accordi con una quantità e qualità di funzionalità che dal presente si proiettano verso il futuro, fosse anche solo prossimo. Non è questo spazio adeguato per approfondire la sostanza di questa avvincente interpretazione dell’agenda digitale, che non è in discussione: soprattutto se si considera l’adozione della tecnologia 14nm da 64 bit, un innovativo sistema di memoria LPDDR4 e una unità flash UFS 2.0 (qualsiasi cosa questo significhi). Invece, sono doverose considerazioni fotografiche, magari da intendere anche come specchio fedele dell’insieme delle caratteristiche e prestazioni dei due smartphone Samsung Galaxy S6 e Galaxy S6 edge. Si registrano due dotazioni fotografiche, una frontale da cinque Megapixel e una posteriore da sedici Megapixel, con obiettivo f/1,9. L’High Dynamic Range HDR, lo stabilizzatore ottico di immagine OIS e il bilanciamento del bianco con sensore IR -tutti con attivazione automatica in tempo reale- assicurano una alta sensibilità luminosa e una correzione ottimale della nitidezza. In livrea White Pearl (bianco Perla), Black Sapphire (nero Zaffiro), Gold Platinum (oro Platino), per entrambi i dispositivi; Blue Topaz (blu Topazio, solo Galaxy S6) e Green Emerald (verde Smeraldo, solo Galaxy S6 edge). (Samsung Electronics Italia, viale della Liberazione 9/13, 20124 Milano; www.samsung.it).
TUBI MACRO. Inesorabilmente, gli attuali sistemi fotografici stanno riappropriandosi di valori e termini che hanno definito il lungo e differenziato cammino della tecnica applicata alla realizzazione di immagini via via più specializzate. Così, in registrazione di
attualità, i tubi di prolunga MCEX11 e MCEX-16, in baionetta Fujifilm X, ampliano l’operabilità delle configurazioni mirrorless (ufficialmente CSC - Compact System Camera) della propria genìa. Manco a dirlo (forse): collocati tra obiettivo e corpo macchina, aumentano il tiraggio (la distanza) al sensore, consentendo così l’inquadratura e messa a fuoco di soggetti molto più vicini al punto di ripresa, rispetto l’escursione originaria di ogni obiettivo. Nelle rispettive sigle identificative, i numerici “11” e “16” specificano, in millimetri, le due misure dei tubi di prolunga: per l’appunto, di 11mm e 16mm, a cui corrispondono equivalenti allungamenti di tiraggio. Apposite sintesi tabellari specificano nel dettaglio il comportamento con ogni focale, con quantificazione sia dei termini di ingrandimento sia di distanza di messa a fuoco, ovverosia accomodamento in macro. I tubi di prolunga MCEX-11 e MCEX-16 sono completi di connessioni elettroniche, che trasmettono automaticamente le informazioni tra l’obiettivo Fujinon X e il corpo macchina, conservando sia l’autofocus sia il controllo del diaframma. (Fujifilm Italia, Strada Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it). ❖
Parliamone di Maurizio Rebuzzini
FOTOGRAFIA D’ARTE
O
Onore e merito al Mia Fair - Milan Image Art Fair, la cui quinta edizione si è svolta nei locali espositivi del centro polifunzionale The Mall, nella nuova e avveniristica area milanese sorta a Porta Nuova, che si propone come efficace punto di riferimento per mille e mille interpretazioni urbane, accadimenti culturali compresi. Per propria proposizione, Fiera Internazionale d’Arte dedicata alla Fotografia e all’Immagine in Movimento, Mia Fair sta svolgendo il proprio ruolo preposto con autorevolezza e concretezza assolute. Da cui, non si tratta tanto di commentare l’eccellente svolgimento di questa attuale edizione 2015 (dall’undici al tredici aprile scorsi), che ha registrato centoquarantacinque stand allestiti con attenzione curatoriale e ventiduemila visitatori, e neppure sottolineare lo spessore degli appuntamenti di contorno, a partire da incontri e tavole rotonde di sostanzioso approfondimento tematico, quanto di considerare l’essenza della missione. Presto detto: proporre la fotografia come investimento d’arte, come linguaggio espressivo degno di considerazioni collezionistiche che ne sottolineino spessore e valore. In questo senso, l’insieme delle proposte incontrate al Mia Fair 2015, in tragitto sulla cadenza della quinta edizione, è stato sostanzialmente adatto e opportuno. Certo, va rilevato, non tutte le presentazioni hanno interpretato il mandato: alcune per propria inconsistenza, altre per un eccesso di finiture e contenuti d’“arredamento”, ovverosia di semplici giochi visivi analoghi alle grafiche da grandi magazzini. Ma, nonostante qualche slittamento individuale, l’insieme ha compreso e definito l’indirizzo verso la fotografia d’autore in chiave di avvincente collezionismo. Del resto, come ben sappiamo, fanalino di coda di altre consistenze nazionali (Stati Uniti e Francia, sopra tutti), l’Italia del collezionismo fotografico deve compiere quei passi di esordio che contribuiscano a tracciare il cammino. Dunque, è proprio in questo senso che l’eterogeneità del Mia Fair
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Mia Fair 2015: Monica Silva, rappresentata dalla galleria Still, di Milano, intervistata a proposito del suo progetto Banana Golden Pop Art, ironico contributo fotografico all’estetica dell’arte Pop.
Incontro tra i padiglioni espositivi del Mia Fair 2015, nel centro polifunzionale The Mall, di Milano: Giovanni Gastel e Gian Paolo Barbieri, due straordinari interpreti della fotografia di moda (e dintorni) dei nostri giorni.
Grazia Neri posa davanti al ritratto-moda di Audrey Hepburn, di Gian Paolo Barbieri.
Parliamone Indiscutibile Instant Artist, che si esprime soprattutto con i canoni della fotografia a sviluppo immediato, Maurizio Galimberti è un esponente di spicco della fotografia d’arte contemporanea [su questo numero, da pagina 34].
Fotogiornalista di valore assoluto, Ferdinando Scianna è apprezzato anche nel collezionismo fotografico rivolto alla contemporaneità.
ALESSANDRO DI MISE (7)
Massimo Sestini, in posa davanti alla sua fotografia di migranti che ha ottenuto il secondo Premio General News Singles, al recente World Press Photo 2015, per fotografie realizzate nel 2014 [ FOTOgraphia, aprile 2015].
Rappresentato al Mia Fair 2015 dalla galleria Alquindici, di Piacenza, Pio Tarantini è un autore che si esprime nell’ambito della fotografia di ricerca: in posa davanti al trittico Cosmo, del 2011.
sta svolgendo un compito (istituzionale?) degno di grande attenzione. Infatti, senza stabilire confini vincolanti, l’offerta che propone attraverso i suoi espositori è rappresentativa di un tanto/tutto, all’interno del quale, passo dopo passo, si potranno stabilire i termini di una direzione allineata con le situazioni e condizioni geografiche attualmente già consistenti. In definitiva, attraverso l’incontro con il pubblico visitatore, scomposto tra la semplice curiosità verso la fotografia e l’intenzione collezionistica, le gallerie che si stanno orientando verso la fotografia possono individuare i parametri di quanto possa essere plausibile all’ipotesi originaria di investimento d’arte. Come detto, in altri paesi, questo discorso è stato chiarito da relativi percorsi avviati da tempo; in Italia, si tratta ancora di stabilire princìpi e decretare unità di misura. In assoluto, la linea demarcatrice della fotografia da collezione indica due indirizzi autonomi: da una parte, agisce la fotografia d’autore che nasce autenticamente tale; dall’altra, cresce la proposta di fotografie professionali che si proiettano verso il gradimento collezionistico, una volta assolto il proprio compito originario. Diciamola meglio, forse: da una parte, si incontra la fotografia che nasce esplicitamente come riflessione d’autore, con rispettivi percorsi espressivi e visuali (con quanto significa intravedere paralleli tra la vita e l’arte); dall’altra, si esprime la fotografia professionale alla quale il Tempo trascorso assegna lo stesso valore di parallelo tra la vita e l’arte. A questo proposito, annotiamo che il mercato della fotografia d’arte statunitense, prolifico e economicamente ricco e appagante, è costantemente alla ricerca di nuovi filoni entro i quali indirizzare le attenzioni dei collezionisti e degli investitori. In una realtà tanto favorevole, che si esprime con una alta qualità e massiccia quantità di gallerie e opportunità di acquisto/vendita, le invenzioni mercantili sono all’ordine del giorno. Per esempio, da tempo alcune gallerie di New York City, al vertice della lunga filiera nazionale, stanno proponendo all’arte perfino il fotogiornalismo di guerra degli anni Sessanta (Vietnam!), per l’appunto confezionato con i canoni formali della fotografia da appendere in casa, o in ufficio, nonostan-
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Parliamone
Tra i quindici finalisti selezionati dal Comitato scientifico di Mia Fair 2015, il Premio Bnl gruppo Bnp Paribas è andato ex-aequo a Bruno Cattani, con un’opera da Memorie, e Massimiliano Gatti, con l’opera In Superficie. La motivazione della giuria: «Abbiamo assegnato il Premio Bnl gruppo Bnp Paribas a Bruno Cattani e Massimiliano Gatti, perché entrambe le opere, a titolo e in misura diversi, rappresentano due strade possibili nella ricerca fotografica: la disamina storica e politica, nel caso di Massimiliano Gatti, con le sue immagini di archeologia militare, e la restituzione visiva di un istante di vita privata, nel caso di Bruno Cattani, con un ovvio rimando alla poetica di Luigi Ghirri».
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te il soggetto esplicito e palese sia tutt’altro che lieve e accomodante. Per esempio, ancora, possiamo conteggiare in termini sostanzialmente mercantili (soltanto mercantili?) la recente scoperta e proposizione di Vivian Maier [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTO graphia, dell’aprile 2014]; sì, la sua fotografia, fino a ieri sconosciuta, è affascinante e intrigante... ma la sua attuale “beatificazione” fotografica è stata sicuramente governata e indirizzata da convenienze e connivenze mercantili, per l’appunto. In quale modo, la sfaccettata Mia Fair, fiera d’arte fotografica ideata e diretta da Fabio Castelli, contribuisce alla crescita (nascita?) di una consapevolezza collezionistica della fotografia? Semplicemente svolgendo in modo adeguato il mandato che si è preposta. Ovverosia, accompagnando l’area fieristica scandita dalle intenzioni esplicite dei singoli espositori (siano gallerie che presentano autori, siano autori in proprio) con iniziative collaterali indirizzare all’approfondimento di tematiche specifiche del collezionismo d’arte. Insomma, in parole chiare, interpretando un concreto concetto di cultura dell’immagine che non è soltanto teorico ed etereo, ma si edifica sulla tangibilità di un realismo mercantile dichiarato e manifesto. In questo modo, il pubblico ha modo di individuare con chiarezza le linee di tendenza e i princìpi che scandiscono il passo della fotografia d’arte, nello stesso modo e tempo nei quali i protagonisti (fotografi in abito d’arte) esprimono le proprie rispettive personalità: dalla ricerca contemporanea alla fotografia d’archivio, dalla cronaca alla storia, in adempimento di quella creatività applicata che è l’elemento indispensabile sul quale si erige l’intera vicenda. Alla resa dei conti, tra i padiglioni del Mia Fair si rivela quel tempo ritrovato che sta alla base di qualsivoglia ulteriore intenzione e proiezione: verso il collezionismo di cuore, l’investimento d’arte, piuttosto che il semplice apprezzamento culturale individuale. Il Mia Fair sottolinea che ci sono tanti modi di collezionare fotografie, ma tutti rispondono ad almeno due condizioni: indirizzare la propria attenzione all’immagine verso espressioni fotografiche selezionate e sottolineare -rispettandola- la volontà rappresentativa dichiarata dagli autori.
Parliamone
ALESSANDRO DI MISE (2)
Oltre le gallerie e gli autori in proprio, al Mia Fair 2015 hanno esposto anche istituzioni coabitanti con la fotografia: è il caso dell’associazione di categoria Tau Visual, con il suo coordinatore Roberto Tomesani.
Il convincente progetto Dark Cities, di Daniele Cametti Aspri, relativo alle capitali europee, già esposto a Roma, a metà marzo, è stato presentato al Mia Fair 2015 dalla galleria Visiva, di Roma.
Incontrata altrove che non in una collezione coerente e scandita, ogni fotografia si accorda a racconti relativi e giustifica e motiva speculazioni intenzionali, alle quali spesso offre un alibi credibile. A sostanziosa differenza, nell’insieme articolato (e motivato) di ogni collezione, le stesse fotografie esprimono una convincente doppia personalità... convergente. È anche questo il senso e valore di una collezione fotografica, che deve rafforzare e accentuare l’individualismo di ogni immagine, realizzando -al contempo- un insieme logico e apprezzato e apprezzabile. La prepotente personalità delle fotografie in collezione -che stabiliscono anche termini finanziari di investimento (va detto, per inciso)- si afferma come tale, appunto prepotente personalità, in almeno due comportamenti coesistenti: ognuna fotografia per se stessa e anche in relazione e subordine alla continuità abilmente composta e coordinata dal collezionista.
Questa magica bivalenza delle fotografie in collezione non è soltanto benefica, ma addirittura fondante. Infatti, indipendentemente dalla propria genesi e oltre l’assolvimento di condizioni originarie, ogni fotografia raggiunge l’osservatore in tempi e con modi successivi. Dunque, la questione è spesso questa: la fotografia (qualsiasi fotografia) vale soprattutto per quanto ciascun osservatore trova in se stesso. Immagine dopo immagine, ognuno prosegue il proprio viaggio personale, respira gli umori della storia, si inoltra in atmosfere straordinarie. Allo stesso tempo e momento, ciascuno individua quali fotografie siano più consone (di altre) alle nostalgie del proprio cuore e in quali spazi riesce ad ascoltare il proprio respiro, allineato a quello dei fotografi-autori. È questo il senso e l’origine di ogni collezionismo. Dunque, anche di quello della fotografia d’arte, liberata da ogni altra dipendenza, da ogni altro assolvimento concreto e tangibile. ❖
1990 (?). Biottica 4,5x6cm a uso segnaletico, realizzata utilizzando parti di apparecchi a banco ottico
Sinar Twin
www.newoldcamera.com
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
S
SPEED GRAPHIC
Sempre semplificata in “Speed Graphic”, la celebre folding 4x5 pollici del fotogiornalismo statunitense dagli anni Trenta è stata prodotta in numerose configurazioni, simili tra loro, ma anche con caratteristiche e prestazioni diverse. Per questo, i singoli modelli sono stati definiti da identificazioni proprie. In assoluto, però, per legittima semplificazione, si tratta sempre e comunque di “Speed Graphic”, punto e basta, indipendentemente da altre sottigliezze, scandite da una storia evolutiva riconducibile a specifici anni di produzione: tanto per dire, il modello più celebre è la Pacemaker Speed Graphic, del 1947, con relativa variante Pacemaker Crown Graphic semplificata. Ovviamente, quando e dove è stato necessario e conforme, le scenografie del cinema (soprattutto) statunitense hanno incluso il fascino esteriore della Speed Graphic, sempre e comunque accompagnata da indispensabile flash a lampadine annesso. In questo senso, l’evocazione più consistente si ha nel film ad alto tasso fotografico Occhio indiscreto, di Howard Franklin (The Public Eye; Usa, 1992), sceneggiato sulla personalità di Weegee, fotocronista newyorkese degli anni Trenta e Quaranta [FOTOgraphia, luglio e settembre 2008, e poi, ancora, marzo 2011, in occasione dell’edizione italiana della sua avvincente autobiografia]. Come abbiamo approfondito nel novembre 2012, in questo stesso ambito redazionale, alla maniera dell’originale Weegee, anche il cinematografico Bernzy o Grande Bernzini (Leon Bernstein) si muove nel sottobosco newyorkese: in una città violenta, nella quale ogni notte si rinnova la sfida della vita, e dove il valore dell’esistenza non supera i tre dollari a cadavere con cui i giornali di nera pagano ogni fotografia di morti ammazzati. Sullo schermo, un ottimo Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali ognuno è disposto a individuare il leggendario Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quanto il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio.
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Come già annotato in molte occasioni precedenti, ma qui la ripetizione si impone, il film Occhio indiscreto, di Howard Franklin, del 1992, è sceneggiato sulla personalità di Weegee. Nel film, nei panni di Leon Bernstein, Joe Pesci replica bene i modi del leggendario Weegee: immancabile sigaro tra i denti e Speed Graphic.
Speed Graphic anche per Margaret Bourke-White (interpretata da Candice Bergen) nel film Gandhi, di Richard Attenborough, del 1982, nella cui sceneggiatura si evoca l’incontro tra la fotografa e il Mahatma, del 1946.
Cinema
Speed Graphic su treppiedi per l’inviata televisiva Ann Kay (interpretata da Dawn Addams), che sul transatlantico in viaggio per gli Stati Uniti intervista e fotografa il protagonista King Shahdov, interpretato da Charles Chaplin, anche regista del film Un re a New York, del 1957. Ancora la Storia della Fotografia nel cinema: Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006. Interpretato da Ned Eisenberg, Joe Rosenthal fotografa con una Speed Graphic la bandiera statunitense issata sulla sommità del monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945.
A seguire, è altrettanto Speed Graphic per due celebrati fotogiornalisti del Novecento, richiamati in due film che includono rispettivi gesti fotografici: in entrambi i casi, riferiti a autentiche icone della Storia. Dunque, è Speed Graphic tra le mani di Margaret Bourke-White (il cui fascino e la cui eleganza sono ben rappresentati da una affascinante Candice Bergen), che compare nel film Gandhi, di Richard Attenborough (Gran Bretagna, 1982). L’episodio visualizzato è storico. Nel 1946, due anni prima del suo assassinio, quando il Mahatma aveva attirato l’attenzione internazionale, la reporter statunitense fu inviata da Life in India. Celeberrimo è il ritratto con l’arcolaio compreso nell’inquadratura orizzontale. Ugualmente, è Speed Graphic per Joe(seph) Rosenthal dell’Associated Press (interpretato da Ned Eisenberg), la cui epocale fotografia è filo conduttore del film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood (Usa, 2006). Anche qui, un doveroso richiamo. Il 23 febbraio 1945, le forze armate statunitensi conquistarono un prezioso territorio: per l’occasione, cinque marine e un medico issarono la bandiera stelle-strisce sulla sommità del monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima. Il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale. E qui, e ora, non entriamo nel merito della vicenda dell’autentica bandiera, issata prima di questa, che abbiamo affrontato nel luglio 2007, ma richiamiamo il concetto consentito e concesso di fotografia staged / allestita, teatralizzata, trasversale alla rievocazione della bandiera sovietica sul Reichstag, nella primavera 1945 (su questo stesso numero, da pagina 45). Un altro paio di Speed Graphic, entrambe su treppiedi, ovvero non usate a mano libera, sono diagonali a due film nei quali la fotografia fa garbatamente capolino. In Un re a New York, di e con Charles Chaplin ( A King in New York; Gran Bretagna, 1957), la Speed Graphic è usata dall’inviata televisiva Ann Kay (interpretata da Dawn Addams), che sul transatlantico in viaggio per gli Stati Uniti incontra, intervista e fotografa il protagonista King Shahdov (Charles Chaplin). Altrettanto fugace è la Speed Graphic con la quale il morboso killer-fotografo Harlen Maguire
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Cinema
Due fugaci Speed Graphic nella scenografia di L’alibi era perfetto, di Fritz Lang, del 1956.
Speed Graphic su treppiedi per il morboso killer-fotografo Harlen Maguire (interpretato da Jude Law) di Era mio padre, di Sam Mendes, del 2002.
Oltre la macchina fotografica sfasciata, che evoca un incidente sul lavoro, nell’appartamento del fotografo L.B. Jefferies (James Stewart), del film La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock, del 1954, non manca una Speed Graphic.
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(interpretato da Jude Law) inquadra un cadavere all’inizio del film Era mio padre, di Sam Mendes (Road to Perdition; Usa, 2002) e con la quale, alla fine della vicenda, cerca di fotografare anche la sua vittima designata Michael Sullivan (Tom Hanks). Tra le innumerevoli Speed Graphic in fotocronaca (statunitense), una sola citazione: per quelle che appaiono di sfuggita, appoggiate su un banco in tribunale, nel film L’alibi era perfetto, di Fritz Lang (Beyond a Reasonable Doubt; Usa, 1956), durante l’interrogatorio del protagonista Tom Garrett (interpretato da Dana Andrews). Quindi, conclusione idealmente allacciata all’esordio. Siamo partiti da una Speed Graphic clamorosa, quella di Occhio Indiscreto / simil Weegee, e chiudiamo con un’altra altrettanto chiassosa. Sebbene l’impianto
fotografico di La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock (Rear Window; Usa, 1954) sia costruito attorno una reflex Exakta, dotata di teleobiettivo Kilfitt Fern-Kilar 400mm f/5,6, all’inizio del film, le inquadrature dell’appartamento del fotografo L.B. Jefferies (James Stewart) si attardano su una macchina fotografica sfasciata, che motiva l’incidente sul lavoro che costringe a casa il protagonista. Quindi, in carrellata, si approda all’immancabile Speed Graphic del fotogiornalismo statunitense. Ovviamente, siamo ben lontani dal casellario e dall’esaurimento di una raccolta completa ed esaustiva della inclusione di Speed Graphic nell’ambito di sceneggiature cinematografiche. Siamo consapevoli di aver compilato soltanto una segnalazione fugace... per quanto rappresentativa. ❖
© ESTATE BRASSAÏ (2)
Brassaï è stato uno dei più grandi fotografi della prima metà del Novecento: applicando una passione straordinaria, ha osservato il quotidiano con una curiosità e fuori dal coro. Una mostra allestita a Milano celebra e racconta la sua storia eccezionale ed emozionante
QUELL’AMORE PER PARIGI Veduta notturna su Parigi, da Notre-Dame; 1933-1934.
Montmartre; 1932.
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di Antonio Bordoni
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ino al ventotto giugno, Palazzo Morando / Costume Moda Immagine, di Milano, nella centrale via Sant’Andrea, ospita una suggestiva retrospettiva di Brassaï (al secolo, Gyula Halász; 1899-1984), nato in Transilvania, nella Romania centrale, che è vissuto e ha agito a Parigi, nella prima metà del Novecento: a cura di Agnès de Gouvion Saint-Cyr, selezione di duecentosessanta fotografie ideata per il Comune di Parigi da Philippe Ribeyrolles, nipote di Brassaï, e responsabile dell’omonimo Archivio (Estate Brassaï), originariamente esposta all’Hotel de Ville tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014. A Milano, mostra realizzata da Fratelli Alinari - Fondazione per la Storia della Fotografia.
Come sottolineato da Pino Bertelli, in un suo convincente Sguardo su [in FOTOgraphia, dell’ottobre 2004], « Brassaï è stato uno dei più grandi fotografi del proprio tempo. Aveva la curiosità universale dell’artista che sta fuori dal coro, ma non si lascia sfuggire nulla del quotidiano. Non è stato solo uno sciamano della fotografia di strada, ma anche un eccellente pittore, disegnatore, scultore, cineasta e scrittore». Conteggiata nell’ambito di Expo in Città, come da copione di questi mesi, a corollario dell’Esposizione Universale, e considerata tra i centoventisei appuntamenti del Photofestival 2015 (su questo numero, a pagina 62), Brassaï. Pour l’amour de Paris riassume e visualizza l’opera intensa e luminosa del poliedrico autore. La mostra racconta la storia eccezionale di una passione: quella che per più di cinquant’anni ha legato Brassaï
© ESTATE BRASSAÏ (6)
Prostituta gioca a biliardo, Boulevard Rochechouart, Montmartre; 1932.
Prostituta in Place d’Italie; 1932.
(centro pagina, in alto) Fotografo ambulante, al Parc Montsouris; 1930 circa.
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alla vita quotidiana della capitale francese, frequentata sia per la sua esuberanza nota e conosciuta, sia negli aspetti più nascosti e meno noti della sua personalità. Protagonisti delle sue fotografie sono i personaggi che animano la città, contribuendo alla leggenda di Parigi: dagli intellettuali agli artisti, dalle grandi famiglie a prostitute e mascalzoni. In definitiva, ghiotta opportunità per conoscere l’intensa attività di un autore fuori del comune, oltre che “dal coro”, che ha vissuto Parigi come fonte di fantastiche riflessioni visive e filo conduttore di una creatività che ha inciso profondamente sulla Storia della Fotografia. Ancora con e da Pino Bertelli, dallo Sguardo su appena richiamato: «Brassaï arriva a Parigi nel 1929, voleva fare il pittore. Incontra André Kertész (un maestro della fotografia magica), e un po’ per campare e un po’ perché in fondo è un mestiere da ladri e da figli di puttana si dedica alla fotografia. Si avvicina al gruppo dei surrealisti, ma non si lascia tentare dalla fotografia “concettuale”, apprezzata molto dalla “crema intellettuale” parigina, né si abbandona ai “grafismi” estetizzanti che molto piacciono ai fotografi del “banale d’arredamento”, che -ieri come oggi- frequentano i cessi delle gallerie per un po’ di celebrità da “saldi di fine stagione” o sono “carta da parati” nelle miserevoli scuole serali dove si “insegna” a pensare e lavorare sui crinali dell’immaginario assoggettato, e proprio lì muore la fotografia. «Gli amici fraterni di Brassaï sono Henry Miller, Pablo Picasso, Jacques Prévert, Paul Éluard, Pierre Reverdy, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Jean Cocteau, Henri Michaux, Salvador Dalí, Daniel-Henry Kahnweiler, André Kertész, e negli anni Trenta scopre i percorsi estetici ai quali resterà affrancato tutta la vita. Prima di altro è la serie Paris de nuit, ed è subito grande fotografia. «Per Brassaï, la fotografia non è un’“arte”, ma un mezzo per mangiare e, qualche volta, anche un linguaggio poetico non proprio infame. Inizia a lavorare con una Voigtländer Bergheil 6x9cm con Heliar 105mm f/4,5, sviluppa le pellicole e stampa i negativi nella sua camera d’albergo. Un aneddoto (riportato da chiunque abbia studiato Brassaï): a proposito del tempo di esposizione delle sue fotografie notturne, Brassaï era solito affermare che all’inizio della posa accendeva una sigaretta e tappava l’obiettivo quando aveva fino di fumarla».
Proprio la monografia originaria Paris de nuit, del 1933 (oggigiorno disponibile in riedizioni recenti, spesso con più fotografie delle sessanta di partenza), compone i tratti indelebili del suo vagabondare nei caffè, nei locali frequentati dalla buona borghesia parigina e dagli apache, i teppistelli dei quartieri sotto Senna. La capacità visiva di Brassaï fu folgorante: tanto da farlo definire da Henry Miller “l’occhio di Parigi”. Ancora oggi, a distanza di ottanta anni abbondanti, si resta folgorati dal suo sguardo fermo e al contempo tenero. Come nessuno mai, Brassaï ha restituito alla storia ciò che vi è di più autentico: la bellezza della diversità. Ovvero, e nel concreto, prostitute sulla strada che sembrano madri di famiglia e madri di famiglia che paiono prostitute. La scrittura fotografica di Brassaï è legata allo sguardo irriverente e curioso di un cantastorie della fotografia di strada; nelle sue immagini mostra l’infinitezza del vuoto e l’incertezza dei destini individuali. In un bianconero sensuale, ogni immagine è un’opera a sé, ma allo stesso momento un tassello di una storia collettiva, che appartiene a ciascuno di noi. Brassaï si aggirava per Parigi con l’apparecchio fotografico come un gatto randagio al mercato del pesce -ha sottolineato Pino Bertelli, nella sua riflessione fuori dall’ordinario (e “dal coro”)-. Giorno dopo giorno, Brassaï ha colto situazioni intime, minimali, surreali, sequenze di gesti e corpi che si trascolorano in una specie di “film di carta” e raggiungono una ricchezza artistica che ha pochi eguali nella storia autentica della fotografia. La fotografia di Brassaï diffida dell’estrema chiarezza perché sa che nel mistero, nella magia e nell’ombra risplendono i segreti d’ogni poeta che sfugge alla menzogna, per donare a chi lo vuole la bellezza dell’amore e l’interrogazione della verità in forma di poesia. ❖ Brassaï. Pour l’amour de Paris, a cura di Agnès de Gouvion Saint-Cyr; mostra realizzata da Fratelli Alinari - Fondazione per la Storia della Fotografia e Estate Brassaï, con il patrocinio dell’Ambasciata di Francia in Italia e in collaborazione con il Comune di Parigi / Dipartimento Mostre, l’Institut français Milano e la Camera di Commercio e Industria francese in Italia. Palazzo Morando / Costume Moda Immagine, via Sant’Andrea 6, 20121 Milano; 02-88465735; www.costumemodaimmagine.mi.it. Fino al 28 giugno; martedì-domenica 10,00-19,00. ❯ Volume-catalogo Brassaï. Pour l’amour de Paris, a cura di Agnès de Gouvion Saint-Cyr; Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia, 2015; 300 fotografie; 256 pagine 24x28cm, cartonato con sovraccoperta; 45,00 euro.
Lulu de Montparnasse, al Monocle; 1932 circa.
Prostituta in rue Quincampoix, angolo rue de la Reynie; 1932 circa.
(centro pagina, in basso) Coppia al Bal Musette des Quatre-Saisons, rue de Lappe; 1932 circa.
Autoritratto di Brassaï, con Voigtländer Bergheil, in Boulevard Saint-Jacques, a Parigi (1931-1932). A proposito del tempo di esposizione delle sue fotografie notturne, Brassaï era solito affermare che all’inizio della posa accendeva una sigaretta e tappava l’obiettivo quando aveva fino di fumarla.
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POLVERE DI STELLE In un avvincente allestimento scenico di trecento ritratti, la retrospettiva Stardust celebra David Bailey, uno dei più significativi fotografi contemporanei, che ha dato un contributo rilevante alle arti visive. In coincidenza, la mostra offre al pubblico uno sguardo complessivo su un autore iconico, che ha osservato in modo creativo e stimolante soggetti e gruppi, fotografati nel corso di cinque decenni: molti di loro famosi, alcuni sconosciuti, ma tutti coinvolgenti e memorabili
Andy Warhol (1965).
di Angelo Galantini
© DAVID BAILEY (2)
O
rigine. Quando è esplosa la rivoluzione sociale degli anni Sessanta, il fotografo David Bailey si è trovato al posto giusto, al momento adatto, con l’anagrafe appropriata: a Londra, dove molto si è concentrato; nei primi anni Sessanta, quando un insieme di dinamiche culturali e sociali orientarono la gioventù verso il nuovo e il moderno; poco più che ventenne, in un’età conteggiata dal 1938 di nascita. Con qualche anno in più dei Beatles e Rolling Stones, tutti nati tra il 1940 e il 1943 (solo il bassista originario dei Rolling Stones, Bill Wyman, era più vecchio, essendo nato nel 1936), David Bailey si è ritagliato un ruolo predominante nell’ottimismo e edonismo della Swinging London. Tanto che, in anticipo sulle note a commento e in presentazione della sua consistente retrospettiva Stardust, allestita al PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, di Milano, fino al prossimo due giugno (con
Kate Moss (2013).
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© DAVID BAILEY (2)
Jack Nicholson (1984).
relativa e coincidente monografia-catalogo pubblicata da Skira), è doveroso ribadire quanto è noto a molti: David Bailey ha ispirato la personalità e i tormenti del fotografo protagonista del film epocale Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, del 1966, al quale ci siamo riferiti in tante e tante occasioni (la più recente delle quali, nel settembre 2012). Quindi, è giocoforza ribadire una volta ancora come e quanto la vicenda di Blow-Up vada considerata discriminante anche per la semplificazione scenica di molte imitazioni successive, che hanno definito i termini di tanto brutto cinema. Ancora qui, confermiamo: alla rappresentazione del “fotografo” di Blow-Up, così vicina alla realtà della Swinging London di collocazione, va addebitata la linea divisoria tra una visione/considerazione
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cinematografica della fotografia precedente e una seguente. In particolare, le va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi. Rientrando nel seminato, la collocazione temporale della fotografia originaria di David Bailey stabilisce la fisionomia di un tempo sociale che ha influenzato i decenni a seguire: con proiezioni fotografiche verso la moda, la pubblicità e la ritrattistica di celebrità... nella pura, schietta e genuina interpretazione di un edonismo sostanziosamente liberatorio (forse). E quella di David Bailey è la classica fiaba di quei
tempi. Dalla classe operaia dell’East London di origine, per e con meriti propri, ha raggiunto le alte vette della società britannica: tra tanto altro, è membro onorario della prestigiosa e selettiva Royal Photographic Society; e nel 2001 è stato insignito del titolo di Commander of the Order of the British Empire, come riconoscimento per il suo impegno artistico. Al culmine di una serie di lavori saltuari, David Bailey è approdato alla fotografia nel 1959, a ventuno anni, quando fu assunto come apprendista nel John French Studio, pioniere della fotografia londinese di moda. Il successivo 1960, ha avviato la sua collaborazione con British Vogue, alle cui pagine ha collaborato per quindici anni, prima come interno, poi da libero professionista. A questo proposito, e oltre la valutazione che lo
considera come uno dei più autorevoli fotografi contemporanei, si è soliti conteggiare la fotografia di David Bailey come innovativa e di trasformazione: in effetti, al pari di altre personalità di quegli anni (da Richard Avedon a Irving Penn, all’italiano Gian Paolo Barbieri), David Bailey ha coniugato una raffinatezza visiva moderna (nel suo caso edificata sul fondo bianco-luce) con lezioni classiche di composizione e costruzione dell’immagine. E questo ha fatto la differenza tra la fotografia allora imperante e quella che si sarebbe affermata in seguito. Certamente a partire da queste esperienze appena ricordate, vanno sottolineate la potenza e l’energia di un orientamento culturale, raccolto dalla vita quotidiana e portato in sala di posa, che ha abbattuto antiquate e rigide barriere di classe:
Johnny Depp (1995).
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© DAVID BAILEY (2)
Bob Dylan (1986).
David Bailey. Stardust; saggio di Tim Marlow; Skira / Tod’s / PAC, 2015; edizione in inglese; 300 illustrazioni; 272 pagine 25,4x33cm, cartonato; 58,00 euro.
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per approdare presto a rappresentazioni brillanti ed eleganti... dell’abbigliamento, delle personalità dei soggetti in ritratto e degli oggetti della vita reale. Attingendo al capace archivio di David Bailey, la selezione della affascinante antologica Stardust, al PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, di Milano, fino al due giugno, si offre e propone come consistente quantità e qualità di trecento efficaci ritratti che raccontano mezzo secolo di spettacolo (e dintorni). E, in effetti, Stardust è esattamente ciò che il titolo promette: Polvere di stelle. Ovverosia, galleria di personaggi che hanno scandito i tempi sociali e dello spettacolo nei cinquant’anni di carriera del celebrato fotografo. In sequenza serrata, si incontrano attori, scrittori, musicisti, politici, registi, modelle e artisti fotografati
con una capacità interpretativa che ha pochi eguali. Curata dallo stesso David Bailey e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery, di Londra, e con la rivista Icon, la mostra presenta una scelta di fotografie che lo stesso autore identifica come le più significative e memorabili della sua carriera. Ancora: per questa esposizione, David Bailey ha realizzato nuove stampe in gelatina d’argento, che gli hanno permesso di rivedere ogni singola immagine. Innovativa e provocatoria, l’opera di David Bailey include ritratti intensi ed evocativi. Il coinvolgimento tra autore e soggetto è palpabile e presente in tutti i suoi scatti: da quelli realizzati con celebrità, come Meryl Streep, Johnny Depp, Jack Nicholson e Kate Moss, ai nudi di sconosciuti volontari che hanno posato per il
Grace Jones (2008).
suo progetto Democracy, tra il 2001 e il 2005; dalle icone della musica, come i Beatles e i Rolling Stones, a giganteschi protagonisti delle arti visive, come Salvador Dalí, fotografato insieme ad Andy Warhol, ma anche Francis Bacon e Damien Hirst. La mostra si accompagna, quindi, con una monografia che ne riespone il titolo e ripropone il tragitto: David Bailey. Stardust, in edizione inglese Skira / Tod’s / PAC. Con passo proprio, la sequenza delle pagine dischiude un percorso non cronologico, ma per temi, che mette a confronto diverse interpretazioni del ritratto e decifra la statura fotografica dell’autore, introdotta da un saggio dello storico dell’arte Tim Marlow, direttore alla Royal Academy, di Londra. In ripetizione e conferma: proprio alla luce della di-
chiarata scelta dal capace archivio, meglio di altre precedenti monografie d’autore, questa attuale Stardust rivela qualcosa di più di David Bailey, che ha letteralmente scardinato le rigide regole che hanno guidato le precedenti generazioni di fotografi ritrattisti e di moda. In definitiva, David Bailey ha incanalato nel proprio lavoro la novità e l’energia della Swinging London degli anni Sessanta, creando quella freddezza casual che ha contrassegnato il suo stile. ❖ David Bailey. Stardust. Mostra promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura e Tod’s. PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, via Palestro 14, 20121 Milano; 02 92800917; www.pacmilano.it, www.tods.com/stardust. Fino al 2 giugno; martedì-domenica 9,30-19,30, giovedì fino alle 22,30; ingresso 8,00 euro (ridotti 6,50 euro); visite guidate gratuite, domenica alle 18,00.
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MASSIMO SESTINI: OPERAZIONE MARE NOSTRUM;
MIGRANTI TRATTI IN SALVO DALLA
MARINA MILITARE ITALIANA AL LARGO DELLE COSTE LIBICHE
(SECONDO PREMIO GENERAL NEWS SINGLES AL WORLD PRESS PHOTO 2015)
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
giugno 2015
MASSIMO SESTINI: CRONACA CONTEMPORANEA VERSO LA STORIA. Dall’alto
RITORNO A M
Dodici anni dopo un primo progetto declinato e svolto con la personalità che gli è propria, Maurizio Galimberti è tornato a Marrakech, in Marocco, per una ulteriore esplorazione fotografica. Ancora e immancabilmente: fotografia a sviluppo immediato, che ora si è
MARRAKECH
espressa con l’emulsione Fujifilm Instax, originariamente indirizzata alla fotoricordo. Ancora e assiduamente: avvicinamenti e tracce che rappresentano un bisogno creativo di entrare con la materia dello sviluppo immediato nell’immagine. Inviolabili gesti d’artista
di Maurizio Rebuzzini
Q
uando si affronta la fotografia creativa e artistica, svincolata dall’assolvimento pratico di raffigurazioni finalizzate e mirate (proprie della fotografia professionale nel proprio insieme e complesso), bisogna decretare subito una distinzione d’obbligo. Da una parte, si collocano i gesti artistici e le intenzioni espressive a cui la fotografia offre passivamente i propri connotati: dunque, arte che finalizza la fotografia, senza peraltro applicare o declinare alcuno dei suoi connotati grammaticali. Dall’altra, si considerano le azioni che frequentano consapevolmente i passi e passaggi propri del linguaggio fotografico, qualsiasi cosa questo possa significare. A diretta conseguenza, l’azione artistica che attinge dalla fotografia in modo soprattutto (soltanto?) utilitaristico appartiene di diritto al mondo dell’arte entro il quale si manifesta: senza incidere, né influire, sul cammino e percorso della Fotografia. Mentre, invece, chi si esprime nella e con la coscienza della sintassi fotografica è artista che partecipa anche al tragitto della Fotografia. Per l’appunto, il bravo e apprezzato Maurizio Galimberti, noto e riconosciuto per la propria intonazione con la fotografia a sviluppo immediato, è un autore che si rivolge al mondo dell’arte, ma influisce e incide anche (e consistentemente) in quello fotografico, contribuendo con la propria azione al luminoso viaggio del linguaggio fotografico. Le sue opere, equamente ripartite tra ritratto e scomposizione-e-ricomposizione di panorami, soprattutto urbani, altrettanto imparzialmente realizzate in mosaico o con interventi sulla superficie dell’immagine, costituiscono un elemento epocale della creatività fotografica dei nostri giorni.
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In selezione, oggi presentiamo un progetto realizzato in tempi assolutamente recenti, lo scorso febbraio, quando Maurizio Galimberti è tornato a Marrakech, in Marocco, dodici anni dopo una prima indagine sulla celeberrima città, alla quale si riferiscono tante e tante avventure visive e creative sostanzialmente contemporanee. Al pari dell’originario, datato indietro nel tempo, anche il progetto attuale è di carattere personale, svolto per il consistente comparto di collezionisti d’arte (e di fotografia) che seguono il suo lavoro. Dunque, è un progetto d’artista autenticamente tale, senza altri o ulteriori vincoli di carattere professionale. Proprio per questo, il corrente progetto su Marrakech, ovverosia sul ritorno a Marrakech, esprime appieno il senso e valore dell’espressività dell’autore Maurizio Galimberti e la sua coerente interpretazione del dinamismo del movimento: in questo caso definito attraverso immagini sulle quali è intervenuto manualmente, sia con tracce perimetrali, che sopprimono la piatta linearità della fotografia istantanea, sia con alterazioni in superficie, che si appropriano dell’immagine, addirittura riscrivendola: segni che imprimono una sorta di asfalto di nobili richiami artistici (vogliamo pensare alla pittura di Alberto Burri?) e che con la propria materia definiscono la scena, la figurazione e -perché no?- la vita. In termini operativi, il progetto è stato svolto con pellicola a sviluppo immediato Fujifilm Instax, originariamente indirizzata alla fotoricordo familiare e dintorni. Anche questo impianto, in valutazione convinta e consapevole, esprime l’alto tasso “fotografico” della creatività artistica di Maurizio Galimberti. Ovvero, non un’emulsione già orientata verso l’interpretazione espressiva (diciamolo: i filmpack Impossible, utilizzabili con apparecchi Polaroid), ma proprio una pellicola comune, di profilo lieve, che (continua a pagina 43)
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(continua da pagina 36) viene stravolta non per mandato istituzionale, ma per volontà e capacità individuale. Oltre che per volontà artistica. Nel confronto tra i due progetti Marrakech distanti negli anni, Maurizio Galimberti ha altresì risposto a una sua domanda originaria: come è cambiato il mio occhio, il mio animo in un lasso di tempo tanto lungo, durante il quale sono maturate mille e mille esperienze fotografiche? Risposta: allo stesso momento, è cambiato poco e tanto. Poco, se si conteggia la coerenza del suo approccio d’arte (e Maurizio Galimberti è un vero artista: va detto); tanto, se si smonta l’apparato, per approfondire sotto traccia. A questo proposito, è doveroso sottolineare che in una uniformità di interpretazione creativa, che si inserisce in una tradizione da tempo consolidata, l’immagine che compare una manciata di secondi dopo lo scatto è congeniale alla manifestazione della inventiva e immaginazione individuale di Maurizio Galimberti. Accanto ad altri suoi profili espressivi (tra i quali ricordiamo ancora la scomposizione programmata della realtà, successivamente ricomposta in una forma che la renda di nuovo evidente e riconoscibile... forse), gli interventi sulla superficie dell’immagine, realizzati durante la sua formazione -per l’appunto applicati in questo progetto di Marrakech-, definiscono un gesto interpretativo dominante, perentorio, autoritario e autorevole: la sua volontà creativa ed espressiva di entrare con la materia dell’istantanea nella raffigurazione realizzata. Ancora, in evoluzione rispetto ogni precedente visione e restituzione di situazioni urbane, l’attualità di questa Marrakech rivela una disinibita capacità di Maurizio Galimberti di stare nella scena inquadrata e composta nell’area immagine del fotogramma Fujifilm Instax. Interventi manipolatori a parte, ma
anche interventi manipolatori inclusi, che -ripetiamolo- rivelano il suo proposito di entrare con la materia dell’istantanea nell’immagine, annotiamo come e quanto l’attuale progetto richiami canoni espliciti di quella che è identificata come street photography. Quindi, in riferimento a serie fotografiche precedenti, tra le quali ricordiamo quelle su Lisbona, New York, Parigi, Londra e su evocazioni nazionali, qui Maurizio Galimberti ha (momentaneamente?) accantonato altri richiami formalmente scanditi (per esempio, la fotografia e il cinema di Wim Wenders), per incamminarsi verso quell’incedere senza meta apparente, che stimola e sollecita l’osservazione di chi -come lui- ha il cuore per vedere... oltre il semplice guardare. Ancora, sono necessarie ulteriori considerazioni sull’impiego della pellicola Fujifilm Instax: attualità dello sviluppo immediato in filmpack integrale, a colori autosviluppanti. Ne abbiamo riferito nel (lontano!) luglio 2001, in occasione dell’affascinante progetto My Paris 2001, probabilmente il primo nel quale Maurizio Galimberti trasmigrò dalla fotografia a sviluppo immediato polaroid. E qui ripetiamo: rafforzata da una mediazione tecnica che interpreta l’indirizzo originario della fotoricordo verso un eccellente dinamismo creativo, sia per quanto riguarda l’interpretazione dei toni, sia per quanto concerne la risposta alle manipolazioni sulla superficie (tanto caratteristiche dell’azione fotografica di Maurizio Galimberti), questa rinnovata espressione offre eccezionali composizioni. Ovvero, ribadisce il percorso espressivo di un autore a dir poco magistrale, oltre che temerario. In definitiva e conclusione: questa attuale di Marrakech è una tappa importante del percorso espressivo di Maurizio Galimberti, capace di inventare e innovare nella convinzione di se stesso e della propria creatività. Inviolabile gesto d’artista. ❖
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EVGENII KHALDEI / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST
LA BANDIERA
SUL REICHSTAG In occasione del settantesimo anniversario (maggio 1945 – 2015, circa), riprendiamo, ripetendole, considerazioni già espresse dieci anni fa, nel sessantesimo anniversario. L’immagine-simbolo della resa di Berlino, alla quale consegue la resa dell’esercito tedesco e la fine della Seconda guerra mondiale (sul fronte occidentale), è una delle fotografie che da tempo alimentano una serie di distinguo da parte degli storici e del mondo fotografico. Dettagliate analisi rivelano l’artificiosità della rappresentazione: comunque sia, teatralizzazione in applicazione del coerente e indispensabile linguaggio visivo della fotografia. Il nostro plauso, la nostra approvazione
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EVGENII KHALDEI / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST (4)
Variante sostanzialmente identica all’immagine ufficiale, alla quale può essere comparata: le differenze sono minime e riguardano soprattutto la restituzione prospettica della scena originaria.
(a destra) Altra variante della fotografia ufficiale, con un diverso movimento della bandiera al vento. Si tratta di un montaggio, evidente ai bordi della stessa bandiera.
(centro pagina, in alto) Ulteriore versione, priva di fumo in città, del resto effettivamente assente una volta cessati i combattimenti per le strade.
(centro pagina, in basso) Dettaglio che rivela che il soldato che tiene l’asta della bandiera ha due orologi, uno per polso: imbarazzante certificazione di soprusi da parte delle truppe sovietiche di occupazione.
(pagina precedente) Tra le diverse versioni della bandiera issata sul Reichstag dai soldati dell’Armata Rossa all’indomani della conquista (liberazione) di Berlino, questa è considerata la fotografia ufficiale (di Evgenii Khaldei, o Yvgeni Khaldi): immagine-simbolo della fine della Seconda guerra mondiale (fronte occidentale).
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di Maurizio Rebuzzini
M
aggio 1945 - 2015 (o fine aprile): settanta anni. Immagine-simbolo della conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa, la bandiera rossa issata sul Reichstag, alla conclusione della Seconda guerra mondiale, nella primavera 1945, è una delle fotografie più conosciute del Ventesimo secolo. È un’immagine che appartiene alla memoria collettiva. Questa raffigurazione occupa un posto di rilievo nella Storia della Fotografia; e, ovviamente, compare in ogni retrospettiva storica delle vicende del mondo e della cronologia fotografica: appunto, simbolo della conclusione della Seconda guerra mondiale (fronte occidentale). Tuttavia, da sempre, il mondo fotografico riflette sulla sua autenticità. Il dibattito è antico; non riguarda solo questa fotografia, ma si estende a una identificata serie di immagini storiche, in analogo odore di non autenticità: ovverosia, staged / allestite, teatralizzate (che personalmente approviamo, spesso incondizionatamente: come ogni comunicazione, la fotografia deve esprimersi secondo inderogabili canoni specifici, che includono anche princìpi visivi e lessicali). Alla luce di una imponente retrospettiva allestita al Deutsches Historisches Museum, di Berlino, a cura di Ernst Volland, titolare dell’archivio storico della Fotoagentur Voller Ernst, nel 2005, nel sessantesimo anniversario, la bandiera sul Reichstag è tornata di attualità. Dal punto di vista “fotografico”, si è ripreso il caso della bandiera rossa issata sul Reichstag alla luce di
altre recenti alterazioni all’immagine, che nel mondo giornalistico si stanno moltiplicando anche grazie alla semplicità e semplificazione dei software di gestione digitale. Volente o nolente.
TEATRALIZZAZIONE (LEGITTIMA) A parte la distinzione tra falso confezionato e teatralizzazione a uso fotografico (come sono molte delle fotografie della storia: più pose che istantanee, più staged che spontanee: ed è assolutamente legittimo che così sia!), nel caso della bandiera sul Reichstag si incontrano e incrociano numerosi fatti. In particolare, non va sottovalutato il sistematico adattamento alla politica quotidiana, perpetuato per decenni dai paesi socialisti, maestri della correzione e mistificazione della storia: Unione Sovietica, prima di tutti, ma anche Repubblica popolare cinese e tutti gli altri (a questo proposito rimandiamo all’ottimo Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, di Michele Smargiassi, pubblicato nel 2009 da ContrastoBooks). Ricordiamo soprattutto le revisioni storiche, con cancellazione da pose precedenti di personaggi scomodi, caduti in disgrazia o indesiderati. Ancora oggi, a settanta anni dai fatti di Berlino, della primavera 1945, si registrano voci che commentano la fotografia della bandiera rossa sul Reichstag, sia come falsificazione sia come ricostruzione artefatta: e a questa diatriba è stata dedicata l’imponente mostra fotografica (alla quale ci siamo appena riferiti), allestita al Deutsches Historisches Museum, di Berlino, da Ernst Volland, all’interno dell’ampio contenitore di Der Kriegund seine Folgen (ovvero, La guerra e le sue conseguenze), nella primavera-estate 2005.
ALEXANDER GREBNEV / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST
REICHSTAG: UN SIMBOLO Lo stesso Evgenii Khaldei ha avuto modo di raccontare e descrivere questa missione, presentandola come spontanea (e già questa ricostruzione è considerata adulterata a uso storico): «Fin dall’inizio della guerra,
si parlava molto del Reichstag, simbolo del nazismo. La mattina del due maggio, sono entrato nel Reichstag. Dappertutto si sentivano rumori tremendi; l’eco dei combattimenti per le strade non si era ancora spento. Un simpatico giovane soldato, mi si è avvicinato e ha commentato la bandiera rossa che tenevo in mano. Mi ha esortato a salire sul tetto del Reichstag per issarla a testimonianza della vittoria. «Il Reichstag stava bruciando. Ci siamo avvicinati alla cupola, rimanendo distanti dalle fiamme. Abbiamo fissato la bandiera su un lungo bastone, e io mi muovevo per individuare un punto di vista fotograficamente adeguato: con la bandiera in primo piano, volevo avere Berlino nell’inquadratura. Ho scattato un intero rullino di trentasei pose. Quindi, sono volato subito a Mosca con un aereo militare. La fotografia è stata pubblicata immediatamente, divenendo l’immagine ufficiale della conquista di Berlino». Perché proprio il Reichstag? Dopo l’incendio (doloso) del 1933, peraltro finalizzato alla messa al bando dei comunisti tedeschi, accusati ingiustamente, la sua ricostruzione cancellò i simboli della repubblica di Weimar (1918-1933). Per i sovietici, e Stalin in particolare, la nuova imponenza architettonica simbolizzò il potere nazista. Quindi, issare la bandiera sul Reichstag, che può essere immaginato come un animale sconfitto (la Germania di Hitler), certificò la vittoria.
VARIANTI E COMMENTI Tornando alle versioni dell’immagine, il confronto tra la fotografia ufficiale di Evgenii Khaldei e quella ufficiosa -appena ricordate-, rivela una serie di interpre-
Stessa situazione delle fotografie di Evgenii Khaldei, ripresa da Alexander Grebnev, lui pure sul tetto del Reichstag negli stessi momenti. Le fotografie di Evgenii Khaldei e quelle di Alexander Grebnev sono simultanee. Almeno due operatori erano in azione sul tetto del Reichstag.
MARK REDKIN / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST
Proprio questa esposizione ha presentato preziosi e utili documenti originali sovietici e russi: allo stesso momento nel quale molti di questi hanno fatto chiarezza, alcuni altri hanno addirittura aumentato dubbi e confusione. Come allora annotato dal curatore Ernst Volland, nel corso degli anni sono state presentate numerose versioni fotografiche dell’innalzamento della bandiera rossa sul Reichstag, simili ma diverse da quella ufficiale realizzata da Evgenii Khaldei (o Yvgeni Khaldi; a pagina 45); solitamente cambiano alcuni dettagli e sono differenti particolari di complemento. La variante più diffusa è sostanzialmente identica all’immagine ufficiale (pagina accanto, a sinistra, in alto), alla quale può essere comparata. Le differenze sono minime e riguardano soprattutto la restituzione prospettica della scena originaria: nella fotografia ufficiale, la bandiera appare più piccola, così come le persone che si intravedono sulla strada; l’inquadratura è più ampia. Ovvio ipotizzare due scatti diversi, realizzati da Evgenii Khaldei in successione ravvicinata. Provvisto di Leica, si è arrampicato sul tetto del Reichstag alle sette del mattino del 2 maggio 1945 (e poi, la fotografia fu datata trenta aprile, giorno in cui l’Armata Rossa conquistò definitivamente Berlino); quindi, è perfino scontato che abbia realizzato numerosi scatti analoghi, come -del resto- stiamo per avere conferma.
Fotografia vista raramente: bandiera issata per certificare la vittoria, fotografata da Mark Redkin prima della ricostruzione allestita da Evgenii Khaldei, che è diventata immagine-simbolo.
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tazioni visive finalizzate. Inizialmente, il fotografo ha drammatizzato la scena, accentuando le nubi del fumo della battaglia, tecnica peraltro frequentemente usata dai fotografi sovietici di guerra (immagine ufficiale; a pagina 45). Quindi, si può anche notare un ritocco di circostanza, per cancellare uno dei due orologi ai polsi del soldato che sostiene la bandiera (a pagina 46), imbarazzante testimonianza/certificazione di soprusi da parte delle truppe sovietiche d’occupazione (a parte i saggi storici, il clima quotidiano della Berlino dell’immediato dopoguerra, divisa tra sovietici, inglesi e statunitensi, traspare nel romanzo Il buon patriota, di Joseph Kanon, appunto ambientato nei caldi giorni dell’estate 1945). Ancora, un’altra versione, con un diverso movimento della bandiera al vento, è un montaggio (a pagina 46). Le tracce dell’intervento si riconoscono ai bordi della stessa bandiera. Tuttavia, questa ulteriore interpretazione è stata pubblicata abbastanza frequentemente. Altrettanto ritoccata appare una quarta versione, priva di fumo in città, del resto effettivamente assente una volta cessati i combattimenti per le strade (ancora, a pagina 46). In questa fotografia, il ritocco è significativo, oltre che ancora evidente: l’orologio al polso destro è stato letteralmente graffiato. Comunque, data la drammaticità della raffigurazione, questo ritocco (marginale?) non attrae, né richiama l’attenzione. Nel film documentario di Marc-Henri Wajnberg (Eugeni Khaldei, photographe sous Staline; 1997; sessantaquattro minuti), lo stesso Evgenii Khaldei commenta il ritocco: «Nell’ufficio editoriale dell’agenzia Tass, dove ho sviluppato la pellicola, un collega ha
notato subito i due orologi. Immediatamente, con un ago, ne ho graffiato uno dal negativo». Un altro fatto, fino a ieri sconosciuto, rivelato dall’allestimento della mostra di Ernst Volland, alla quale continuiamo ad attingere, è che una fotografia analoga non fa parte della serie scattata da Evgenii Khaldei, ma da un altro fotografo (a pagina 47). Si tratta di una fotografia di Alexander Grebnev, collega di Evgenii Khaldei, lui pure sul tetto del Reichstag, negli stessi momenti. Le fotografie di Evgenii Khaldei e quelle di Alexander Grebnev sono sostanzialmente simultanee. Questo prova che almeno due operatori erano in azione sul tetto del Reichstag. E qui la vicenda pare complicarsi, oppure si complica effettivamente. È tutto un problema di date. Berlino fu conquistata dall’Armata Rossa il trenta aprile, dopo giorni e giorni di strenua difesa finale, con combattimenti strada per strada. È ovvio ipotizzare che la bandiera rossa sia stata immediatamente issata sul Reichstag, considerando anche la simbologia, niente affatto secondaria, del Primo maggio, giornata dei lavoratori. Per mille motivi, tra atmosferici e militari (barlume di ulteriore resistenza da parte di soldati tedeschi isolati), la bandiera originaria potrebbe/può essere volata via, tanto da rendere necessaria la ricostruzione/teatralizzazione del due maggio, peraltro favorita da una adeguata luce ambiente, congeniale alle esigenze della fotografia. In questo senso, si dovrebbe considerare come effettivamente storica, seppure di minor impatto visivo, la fotografia di Mark Redkin, antecedente quella ufficiale di Evgenii Khaldei (a pagina 47).
FOTOAGENTUR VOLLER ERNST
Colorazione del bianconero originario di Evgenii Khaldei. Non può essere altrimenti, perché i fotografi sovietici di guerra non disponevano di pellicole a colori.
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Originalmente, la fotografia di Evgenii Khaldei è in bianconero, e non avrebbe potuto essere altrimenti, considerato che i fotografi sovietici di guerra non disponevano di pellicole a colori. In tempi successivi, lo stesso fotografo ha colorato l’immagine, che così è stata pubblicata occasionalmente (in copertina di FOTOgraphia, del giugno 2005, e sulla pagina accanto). Continuando l’esame, si deve coinvolgere un altro fotografo sovietico, Victor Tomin, che il Primo maggio ha fotografato la bandiera rossa issata direttamente sulla cupola del Reichstag. Come Evgenii Khaldei ha più volte detto a Ernst Volland, che nel 2005 ha allestito l’imponente mostra retrospettiva di Berlino attingendo al proprio vasto archivio storico, è verosimile che questa fotografia ripresa da un aereo sia stata ritoccata. La bandiera simbolica potrebbe essere stata inserita a posteriori: mossa dal vento e in una adeguata combinazione compositiva (regola della divisione dell’inquadratura in terzi di attenzione visiva). Appena scattata questa fotografia, Victor Tomin avrebbe fatto immediatamente rotta su Mosca, per presentare l’immagine direttamente a Stalin. La fotografia è stata subito pubblicata, e ancora oggi non è chiaro se si tratti di una falsificazione o meno. Ci si deve basare sulle sensazioni e le parole di Evgenii Khaldei, che non avrebbe mai discreditato un collega, data la consistente solidarietà tra i fotografi sovietici di guerra, inviolabilmente uniti dai rischi comuni corsi in numerose battaglie. Soltanto, si può tener conto del fatto che dopo la pubblicazione sulla Pravda del tre maggio, la fotografia non è più stata usata.
La bandiera che è conservata nel Museo militare di Mosca non è quella issata sul Reichstag, in nessuna circostanza. Una leggenda vuole che la bandiera-simbolo dell’immagine di Evgenii Khaldei, e di quelle di Alexander Grebnev, sia in realtà una tovaglia rossa con incollata una falce-e-martello in cartone (?). Quella nel Museo riporta l’iscrizione di una piccola unità di soldati che ha partecipato alla conquista del Reichstag. È la riproduzione, di vivida colorazione rossa, dell’originale che la direzione del Museo asserisce di conservare in un deposito protetto.
INTERPRETI E PERSONAGGI L’identità dei tre soldati che issano la bandiera sovietica nella fotografia ufficiale Evgenii Khaldei esige un’analisi dettagliata. L’immagine simbolizza diversi eventi di rilevanza storica: la conclusione della guerra sul fronte occidentale, con la conseguente caduta del fascismo e del nazismo, e relativa sconfitta definitiva della Germania di Hitler. I tre soldati della bandiera sono diventati eroi nazionali, e tutti i sovietici conoscono i loro nomi: Michail Jegorow, Meliton Kanataria e Konstantin Samsonow. Hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti di Stato, fino a una pensione vitalizia. Tuttavia, Evgenii Khaldei ha rivelato che non sono stati loro i protagonisti della sua fotografia, bensì Alexejev Nicolaiev, Abdullhakim Ismaiilow e Leonid Gorjatschov. Cosa è successo? È ancora fondamentale la testimonianza diretta dello stesso Evgenii Khaldei, che nelle occasioni pubbliche ha sempre avvallato la versione ufficiale, senza lasciar trasparire la propria co-
TONY NEWITT
ALTERAZIONI E ALTRO
Evgenii Khaldei, autore della fotografia della bandiera rossa issata sul Reichstag (2 maggio 1945?), ha affermato di essersi ispirato alla bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, fotografata da Joe Rosenthal (23 febbraio 1945). Nel 1995, i due fotografi si incontrarono a Visa pour l’Image, il prestigioso e qualificato Festival International du photojournalisme che ogni anno, all’inizio di settembre, richiama a Perpignan, alle pendici dei Pirenei, migliaia di addetti del giornalismo fotografico mondiale.
EVGENII KHALDEI (O YVGENI KHALDI)
PETRUSSOW / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST
WOLFGANG KROLOW / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST
di guerra nota in occidente, dall’invasione tedesca del 1941 fino alla fine della Seconda guerra mondiale, Evgenii Khaldei ha guardato il conflitto da est verso ovest. Curiosamente, la biografia di Evgenii Khaldei si annoda attorno le date e vicende della parabola sovietica. Nacque nel 1917, qualche mese prima della rivoluzione bolscevica. Un anno dopo, sua madre morì durante i saccheggi di un pogrom antisemita scatenato nel villaggio ucraino dove la famiglia viveva. Affidato ai nonni, è cresciuto coltivando particolari curiosità: soprattutto per i tempi e i luoghi. A undici anni, assemblò una macchina fotografica, mettendo insieme una scatola di cartone e gli occhiali della nonna. Professionalmente, si è affermato con immagini celebrative dell’edificazione del socialismo, declinate con enfasi ed entusiasmo.
Pubblicata da Aperture nel 1997, anno della sua scomparsa, quando fu realizzato anche il documentario di Marc-Henri Wajnberg, Eugeni Khaldei, photographe sous Staline (sessantaquattro minuti), la monografia Witness to History: The Photographs of Yevgeny Khaldei rappresenta la più completa e ricca testimonianza sull’opera fotografica dell’autore russo. Evgenii Khaldei seguì l’avanzata a occidente dell’Armata Rossa, conclusasi con la conquista/liberazione di Berlino, del 30 aprile 1945, per conto dell’agenzia giornalistica statale Tass, della quale era dipendente. L’archivio di Evgenii Khaldei è prezioso, perché osserva un fronte di guerra da un punto di vista poco noto al di fuori dei confini nazionali (e magari anche al proprio interno): esattamente all’opposto delle prospettive che hanno guidato e governato tutta la fotografia
Evgenii Khaldei a Berlino, davanti al Reichstag, nel maggio 1945.
Evgenii Khaldei nella sua abitazione di Mosca, nel 1993.
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EVGENII KHALDEI / FOTOAGENTUR VOLLER ERNST (2)
Dopo la caduta di Berlino, oltre la serie sul Reichstag, Evgenii Khaldei organizzò e fotografò altri innalzamenti simbolici della bandiera sovietica: alla Porta di Brandeburgo e all’aeroporto di Berlino-Tempelhof.
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noscenza dei fatti. Personalità di spicco, e più capace tra i fotografi sovietici di guerra impegnati sui fronti della Seconda guerra mondiale, tanto da essere spesso definito come il “Robert Capa russo”, Evgenii Khaldei era dotato di straordinaria memoria; per esempio, ricordava nomi, località e date di tutte le sue fotografie. Quindi, conosceva la verità. Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1997, si è aperto/rivelato a un giornalista inglese: «Immediatamente dopo aver scattato la serie fotografica della bandiera sul Reichstag, sono andato a Mosca, da Stalin. Il nostro comandante-in-capo ha ricevuto le mie fotografie e la lista dei nomi dei soldati coinvolti. Dopo un lungo esame, ha scelto l’immagine e, tra tutti i soldati che hanno partecipato alla conquista del Reichstag, ha indicato quali avrebbero dovuto essere celebrati; gli altri sono finiti nel dimenticatoio. Ho dovuto firmare una dichiarazione che mi impegnava a mantenere il segreto; non avrei dovuto rivelare quanto sapevo. Sotto Stalin, questa era storia». Stalin, georgiano, indicò in un compatriota georgiano il soldato che issa la bandiera, gli altri due sono russi. Come in molti altri casi della Storia, oltre che della Storia della Fotografia, questa vicenda sembra senza fine (certa). Comunque, va registrato che, al pari di altre immagini-simbolo, è stata reinterpretata in molte altre raffigurazioni. È stata dipinta a olio. Illustra la copertina di un libro sulla storia di Berlino. Nei paesi socialisti e allineati, è stata usata in numerose emissioni filateliche dedicate agli anniversari della fine della Seconda guerra mondiale e della sconfitta del nazismo/fascismo (un esempio, su questo numero, a pagina 3).
Inoltre, dobbiamo anche registrare che in quei giorni di Berlino, Evgenii Khaldei organizzò e fotografò altri innalzamenti simbolici della bandiera sovietica: in cima alla Porta di Brandeburgo (qui sopra; spesso confusa con la bandiera sul Reichstag) e all’aeroporto di Berlino-Tempelhof (a sinistra). Al Festival International du photojournalisme Visa pour l’Image, nel 1995, Evgenii Khaldei incontrò Joe Rosenthal, autore della fotografia della bandiera statunitense che viene issata sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, dove fu combattuta una delle più feroci battaglie del Pacifico (altra icona della Storia e della Storia della Fotografia). Entrambe le fotografie sono sostanzialmente staged (allestite, teatralizzate): va detto, senza implicazioni contrarie e negative. Comunque, si tratta di due immagini che rappresentano simbolicamente la vittoria degli Alleati sul fronte europeo e su quello del Pacifico. (Tra parentesi, anche l’immagine di Joe Rosenthal è stata reinterpretata in infinite varianti. Oltre a essere argomento esplicito dell’avvincente film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006 [FOTOgraphia, maggio 2013]). Ironia della sorte, entrambe le immagini-simbolo della fine della Seconda guerra mondiale sono state scattate da fotografi di religione ebraica. Amara nota conclusiva. In patria, all’indomani della guerra, Evgenii Khaldei fu una delle vittime delle persecuzioni di Stalin contro il cosmpolitismo, vale a dire contro gli ebrei sovietici. Licenziato dalla Tass, visse anni di grandi disagi e difficoltà. Ritornato al lavoro all’indomani della morte di Stalin, non venne comunque mai riabilitato. ❖
Un doveroso passo temporale indietro. Affermatasi nella categoria Open - Architecture del prestigioso e autorevole Sony World Photography Award 2013, Martina Biccheri affronta la geometria dell’architettura moderna e contemporanea applicando un linguaggio, un lessico, una comunicazione di cui controlla e dirige le modalità. Crea le proprie seducenti geometrie per scandire il passo e la cadenza di un reale presentato in relazione a propositi inderogabilmente individuali. Non ci si limiti alla superficie delle sue immagini, a tutti evidente: perché, in profondità e sotto traccia, c’è tanto altro. Con autorità e competenza, la brava autrice arresta la realtà, non per contemplarla, ma per domarla e restituirla... con amore
di Angelo Galantini
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uando si affronta la Fotografia per commentarla, e forse addirittura giudicarla, bisogna sempre escludere l’apparenza del soggetto, per affrontare la sostanza della sua rappresentazione. In tempi passati, un evidente percorso tecnico-operativo selezionava alla base molta fotografia. Oggi, in momenti nei quali è stato semplificato il processo, bisogna assolutamente distinguere tanta (troppa?) bella fotografia -tutto sommato facile da ottenere, e per questo alla portata di ognuno- dalla buona fotografia: ovvero, si deve entrare più nel profondo. (continua a pagina 57)
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GEOMETRIE
SEDUCENTI
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(continua da pagina 52) La premessa è indispensabile perché le architetture geometriche e grafiche della brava Martina Biccheri si presentano con connotati visivi che appartengono anche a tanta bella fotografia che non dice niente di più del puro esercizio formale della propria realizzazione. Invece, e a completa differenza, queste sue avvincenti e convincenti geometrie visive sono altro: a un esame adeguato, rivelano i connotati e i contenuti e la sostanza della buona fotografia, quella che merita di essere conteggiata e valutata tra i progetti meritevoli di attenzione e considerazione. Tanto che è obbligatorio richiamare l’affermazione di Martina Biccheri al Sony World Photography Award 2013, nella categoria Open - Architecture, dove si è imposta in una selezione alla quale hanno partecipato oltre quarantacinquemila fotografie di autori provenienti da centosessanta paesi del mondo. Hai detto poco! A distanza di due anni da quel prestigioso riconoscimento, le seducenti geometrie di Martina Biccheri sottolineano categoricamente come e quanto la fotografia sia una comunicazione (visiva) definita da propri connotati inderogabili, che vengono declinati sulla necessità originaria di un soggetto esplicito e concreto: sia reale sia costruito, non importa. Dunque, raffigurativa per natura (e obbligo?), la fotografia è rappresentativa per scelta e linguaggio. Non necessariamente ciò che raffigura basta a se stesso e significa soltanto se stesso; il più delle volte, soprattutto con autori che si esprimono con intenzioni creative (è il caso attuale di Martina Biccheri), la fotografia rappresenta qualcosa di più e oltre la propria sostanziale apparenza formale. In definitiva, i connotati stessi della fotografia rappresentano comunque una interpretazione della realtà. Ovvero, per essere buona, la fotografia deve rappresentare qualcosa di autonomo e proprio, dovendo necessariamente raffigurare qualcosa (d’altro?) che si è presentato davanti all’obiettivo. Per cui, un avvertimento: andando (magari) nei luoghi fotografati da Martina Biccheri, non è certo che ognuno possa vedere nel modo in cui lei ha fotografato. Tra la realtà e la sua rappresentazione non c’è di mezzo tanto uno strumento, ma la capacità d’autore di utilizzarlo in base e relazione alle proprie intenzioni. Consapevole di applicare un linguaggio, un lessico, una comunicazione di cui controlla e applica le modalità, l’autrice Martina Biccheri ha creato le proprie seducenti geometrie per scandire il passo e la cadenza di un reale presentato in relazione a propositi inderogabilmente individuali. Il fascino della geometria ben composta nello spazio fotografico non è fine a se stesso. Al contrario, è finalizzato a forme espressive di grande ed efficace personalità. In tale senso, è curioso osservare come e quanto queste opere di Martina Biccheri siano autenticamente fotografiche, in base a identificazioni volontariamente perseguite: non intende dimostrare nulla, ma mostrare molto... magari, anche se stessa. La natura fotografica di queste composizioni dipende anzitutto dalla mediazione del mezzo e dei materiali che stabiliscono -per l’appunto- l’esercizio fotografico: apparecchi, obiettivi e pellicole (oppure, e non cambia niente, acquisizione digitale di immagini e relativa gestione finalizzata: evviva!). È questo l’insieme che trasforma, non per magia, ma per capacità creativa e interpretativa, la raffigurazione in rappresentazione. L’autrice è intervenuta sulla formulazione dello spazio e del tempo che ha racchiuso nelle proprie composizioni, dirigendo il lessico della fotografia, definito da una infinita serie di equilibri e combinazioni visive. Però, la tecnica è niente, senza l’autore, senza Martina Biccheri, che sa che fotografare significa arrestare la realtà, non per contemplarla, ma per domarla e restituirla... con amore. ❖
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Considerazioni di Maurizio Rebuzzini (Franti)
A PROPOSITO DI LYTRO
P
Progetto fotografico sostanziosamente innovativo, che nella recente mezza dozzina di anni ha animato abbondanti rumors e accesi dibattiti (teorici), soprattutto attraverso la Rete, Lytro approda al mercato internazionale con la configurazione (risolutiva?) Illum, che si rivolge sia al comparto professionale sia all’indipendenza non professionale. Qui e ora, non serve alcuna dietrologia e rievocazione: chi volesse orientarsi in queste direzioni ha materiale virtuale in abbondanza al quale alimentarsi. Invece, qui e ora, in relazione al nostro modo di frequentare la fotografia (senza alcuna soluzione di continuità, fino ai collegamenti tecnico-commerciali), sono necessarie considerazioni sotto traccia, analisi riflessive. Anzitutto, una stima sovrastante e prevalente. La Lytro Illum è la prima configurazione fotografica che interpreta il file digitale (e per questo “virtuale” e “potenziale”, ovvero non finito/definitivo) in modo originale, andando a intervenire sui parametri fotografici basilari: messa a fuoco, prospettiva ed esposizione. Di fatto, come sottolineato dal distributore italiano Fowa nella sua comunicazione di annuncio: «L’innovativo strumento fotografico coniuga un apparecchio Light Field e una piattaforma software progettati per ridefinire il modo con il quale ritrarre il mondo» (e “Light Field” è il nuovo comparto tecnico-commerciale di riferimento). Ovviamente, lasciamo stare le considerazioni sul senso assoluto dell’immagine fotografica, così come l’abbiamo intesa dalle origini, e ancora la intendiamo. Allo stesso modo della trasformazione del sorriso, in voga qualche stagione fa (c’è ancora?), e della possibile e potenziale genìa di ritratti soltanto sorridenti, anche e ancora qui pensiamo che sarà l’intelligenza degli utenti a fare qualsivoglia differenza: speriamo verso interpretazioni gratificanti, che aggiungano qualcosa al lungo e nobile tragitto espressivo del linguaggio fotografico. Però, in volo alto e altro, una domanda è scontata: come mai la ricerca applicata dei produttori leader del settore
Lytro Illum è la prima configurazione fotografica (e, per ora, anche l’unica) che interpreta la virtualità e potenzialità del file digitale in modo originale: con gestione in post-produzione di messa a fuoco, prospettiva ed esposizione. Questa ridefinizione fotografica avvia il nuovo comparto Light Field.
ha ignorato questa opzione, in post-produzione (momento e valore discriminante della gestione digitale dell’immagine)? Ovvero, come mai, avendola certamente incrociata, non l’ha frequentata? Convinti come siamo della positività essenziale della tecnologia, che trasforma in realtà antichi sogni, non introduciamo alcun retrogusto, e riflettiamo sulla proposizione Lytro Illum, che avvia un nuovo comparto tecnico-commerciale, estraneo a ogni altra definizione, giusto in relazione e dipendenza del
proprio indiscutibile cambiamento (da cui, il TIPA Award 2015 per l’Imaging Innovation: dopo l’anticipazione in FOTOgraphiaONLINE.com, approfondiremo il prossimo giugno). In un tempo nel quale l’elettronica di consumo -entro la quale sono ormai conteggiati gli strumenti della fotografia (indipendentemente da ciò che realizzano e consentono di realizzare: Fotografia)- propone ai propri utenti anche filosofie di appartenenza e riconoscimento individuale, Lytro Illum conferma e trasforma. Conferma, nel momento nel quale promette proprie norme di utilizzo e creatività; trasforma, se consideriamo che offre
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Considerazioni un sistema chiuso, estraneo (?) alle modalità di App di personalizzazione individuale dei nostri giorni. Per quanto la tecnologia, ancora, influisca sul costume e sui gesti, la cadenza Lytro Illum scandisce un passo proprio e autonomo. Portavoce della casa madre -con sede a Mountain View, in California, nella Contea di Santa Clara, in un’area di forte concentrazione tecnologica-, il distributore Fowa sottolinea con evidente fierezza le unicità del sistema. Sono questi termini che individuano l’indirizzo commerciale e mercantile verso il quale si orienta la Lytro Illum. A seguire, starà ai singoli utilizzatori comporre i tratti di quelle differenze vitali e fondamentali che retrocollocano lo strumento fotografico rispetto il suo impiego, fino a realizzare immagini di tanta e tale personalità da acquisire ruoli e mansioni nel grande contenitore/capitolo della Fotografia, in tutte le proprie fantastiche e incisive manifestazioni espressive. Ovvero, finalizzando in modo linguisticamente opportuno e mirato le prerogative tecniche e le caratteristiche del particolare sistema fotografico, ciascun fotografo-autore avrà tempo e modo per esprimersi: sia in finalità commerciale, sia in proiezione creativa. A ciascuno, le proprie intenzioni e necessità esistenziali. Di fatto, una innovativa interpretazione del sensore di acquisizione digitale di immagine e una particolare configurazione dell’obiettivo allacciato e con-
nesso forniscono prestazioni fotografiche assolutamente particolari, alle quali contribuisce una piattaforma software finalizzata. Nell’acquisire il colore, l’intensità e la direzione di ogni raggio di luce che fluisce verso il sensore, la Lytro Illum crea una consistente quantità di informazioni visive, che possono essere reinterpretate in post-produzione per ricreare immagini secondo proprie intenzioni espressive (o esigenze raffigu-
La Lytro Illum, con la quale prende avvio il comparto tecnico-commerciale Light Field, è dotata di sensore personalizzato da quaranta Megaray (unità di misura dell’acquisizione Light Field), zoom ottico 8x (30-250mm), apertura costante f/2 e otturatore ad alta velocità (fino a 1/4000 di secondo). In combinazione con una innovativa piattaforma software, consente di regolare aspetti delle immagini che sono solitamente fissi e inviolabili.
rative). In breve: possibile ridefinizione di piani di messa a fuoco (e sfuocati), di valori luminosi e altro ancora. Per abilitare tali composizioni su più strati, la Lytro Illum applica una particolare versatilità fotografica, ottenuta fondendo un hardware su misura con una potente piattaforma software. Sulla base di un sensore Light Field personalizzato da quaranta Megaray (unità di misura dell’acquisizione Light Field), uno zoom ottico 8x (equivalente all’escursione focale 30-250mm della fotografia 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo), una apertura costante f/2 e un otturatore ad alta velocità (fino a 1/4000 di secondo), l’innovativa piattaforma software consente di regolare aspetti delle immagini che sono solitamente fissi e inviolabili: come la messa a fuoco, l’inclinazione, il cambio di prospettiva e la profondità di campo, sulla cui combinazione si basa il linguaggio della rappresentazione fotografica. Oltre a permettere regolazioni dell’immagine dopo la ripresa, la piattaforma software della Lytro Illum consente anche di vedere le immagini in 3D, realizzare animazioni personali, esportare le immagini in formati comuni, come Jpeg, e condividerle nel web o su dispositivi mobili. Inoltre, i file realizzati dalla Lytro Illum sono compatibili con le suite di editing fotografico esistenti e diffuse, come i software Adobe Photoshop e Lightroom e Apple Aperture. ❖
126 mostre di Maurizio Rebuzzini
PHOTOFESTIVAL 2015
C
Con intelligenza e apprezzato senso pratico, l’organizzazione dell’intenso programma di mostre Photofestival, nato per accompagnare la fiera merceologica Photoshow e cresciuto con altra autonomia, ha scomposto le proprie date 2015 in due fasi successive, con intervallo estivo. La prima sessione primaverile, dal venti aprile al venti giugno, si allinea all’avvio del semestre di Expo Milano 2015 (dal Primo maggio al trentuno ottobre), evidente ed esuberante riferimento culturale e turistico della città, ma anche della nazione. A seguire, in autunno, il Photofestival 2015 proporrà una ulteriore seconda sessione, dal quindici settembre al trentuno ottobre, ancora coincidente con lo svolgimento dell’Expo, ma soprattutto allineata con il fine settimana della fiera merceologica Photoshow, nei padiglioni espositivi di Superstudio Più, sempre a Milano, dal ventitré al venticinque ottobre: dunque, autentico “fuorisalone”. Le date primaverili del Photofestival, programma espositivo a cura di Roberto Mutti e Giovanni Pelloso, per conto di Aif - Associazione Italiana Foto & Digital Imaging, registrano cifre e valori consistenti (soprattutto, in termini quantitativi). Nello specifico, si conteggiano centoventisei mostre fotografiche in città e nell’area metropolitana milanese: con allestimenti in gallerie d’arte, spazi istituzionali, palazzi storici e sedi occasionali, che ospitano e presentano sia autori affermati sia fotografi emergenti, con uno sguardo che spazia su passato, presente e futuro. Ovviamente, per approdare alla consistenza e solidità di centoventisei appuntamenti, il contenitore Photofestival comprende l’insieme dell’offerta fotografica di Milano, considerando sia mostre programmate (e aderenti al cartello), convenientemente coordinate, sia mostre sollecitate per l’occasione, sia mostre prodotte per la circostanza.
CON L’EXPO 2015 In ogni caso, per la sostanza della sua proposta, il Photofestival 2015 ha ottenuto il rilevante patrocinio di Expo Milano 2015: insieme al merceologico
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❯ 12 mostre in spazi espositivi nell’area metropolitana. ❯ 17 mostre prodotte, con marchio “Photofestival”, realizzate appositamente per la manifestazione. ❯ 39 mostre in bianconero, a riprova e conferma di un lessico proprio e autonomo di grande valore e frequentazione assidua. Ancora, si registra una avvincente mostra fotografica sull’Esposizione Internazionale di Milano del 1906: inedita testimonianza d’epoca e filo diretto con l’attualità di Expo Milano 2015.
IN PROIEZIONE
Il Photofestival 2015 si svolge a Milano, in due sessioni: dal venti aprile al venti giugno (con programma di centoventisei mostre); e poi dal quindici settembre al trentuno ottobre. Entrambi i periodi sono coincidenti con lo svolgimento di Expo Milano 2015. La seconda sessione, dal quindici settembre al trentuno ottobre, è altresì allineata con il fine settimana della fiera merceologica Photoshow 2015, nei padiglioni espositivi di Superstudio Più, sempre a Milano: dal ventitré al venticinque ottobre (locandina sulla pagina accanto).
Photoshow, di ottobre, è tra le iniziative selezionate dal Comune e dalla Camera di Commercio di Milano per costituire il programma di Expo in Città 2015, il palinsesto di eventi che anima il capoluogo lombardo durante il semestre dell’Esposizione Universale. Da cui, e in consenso, il sottotitolo Dire, Fare, Mangiare, entro il quale sono state collocate molte delle mostre promosse e prodotte, ha guidato autori fotografi che si sono allineati con il tema centrale dell’Expo. Consistenti e appaganti le cifre che scandiscono il passo della prima sessione del Photofestival 2015 (in una cadenza espositiva qualitativamente varia ed eterogenea). In sintesi. ❯ 126 mostre fotografiche, che spaziano dal reportage alla ricerca, dal ritratto e figura all’architettura, dallo still life al paesaggio. ❯ 11 mostre allestite nei palazzi storici di Milano, due delle quali, a Palazzo Castiglioni e Palazzo Bovara, riservate al tema del cibo. ❯ 9 mostre nei cluster espositivi di Expo Milano 2015. ❯ 94 mostre a Milano.
La consistenza (quantitativa) del Photofestival 2015 non esaurisce i propri meriti nel suo solo svolgimento, per quanto sia proprio questo svolgimento che ne stabilisce il valore di maggior spicco. Al pari di quello dell’Internationale Photoszene Köln, che nell’autunno degli anni pari accompagna la fiera merceologica Photokina, l’intenso programma trascina la città in iniziative che danno senso e spessore alla fotografia: con relative e auspicabili consecuzioni convenienti e proficue. Quindi, la sessione autunnale, attorno le date del Photoshow, si offre come contorno e richiamo all’appuntamento fieristico: con altrettante relative e auspicabili consecuzioni convenienti e proficue. Ovviamente, nei due appuntamenti in calendario, sono proposte e offerte mostre fotografiche di diverso spessore, sia per contenuto sia per allestimento scenico: dalle possenti esposizioni nelle gallerie istituzionali dell’arte alle volonterose iniziative di spazi minori, ma non per questo inferiori nell’intenzione e nello spirito. Così che trovano conferma, e non soltanto conforto, le considerazioni secondo le quali sempre più la fotografia vada respirata e vissuta in profondità, anche quando qualcuno ha necessità di ricavarne indicazioni utilitaristicamente commerciali (a partire dall’ampio contenitore dell’Aif - Associazione Italiana Foto & Digital Imaging, che riunisce le aziende distributrici del settore). Se anche questo deve essere, se
126 mostre soprattutto questo consente di manifestare pubblicamente la creatività della fotografia, osservata attraverso l’occhio di autori affermati e l’entusiasmo di autori emergenti, la comunione di intenti è inderogabilmente legittima, consentita e conforme: in uno spirito secondo il quale questo incessante programma espositivo contribuisce al clima di interesse attorno la stessa fotografia (perché no?... con auspicabile ricaduta sui consumi e il consolidamento del mercato commerciale). Ciò detto, ribadiamo e confermiamo: se è vero che i tempi cambiano... è altrettanto vero che l’intero mercato fotografico debba fare altrettanto. Non più solo Photoshow, fiera di novità, che ormai vengono annunciate e presentate altrimenti (soprattutto in tempo reale, attraverso la Rete), ma straordinarie feste della fotografia: dall’offerta tecnica alla gratificazione degli utenti, e viceversa. In ogni caso, e in assoluto, per il bene(ficio) dell’intero mercato. Se anche di questo si tratta, l’affi-
liazione che sollecita un programma consistente, quale è il Photofestival, si propone come lezione per l’intero comparto. Una lezione della quale fare prezioso tesoro. E ci rivolgiamo, soprattutto, agli operatori di profilo alto, alcuni dei quali credono ancora che l’incremento commerciale della fotografia possa prescindere ed essere separato dalla promozione del proprio esercizio: professionale, al quale guardare con ammirazione, ma anche individuale e quotidiano, dal quale i clienti possono trarre benefici, gioia, soddisfazioni e piaceri. Ennesima ripetizione: la fotografia è ancora (e sempre lo sarà) un esercizio attivo e non passivo, una frequentazione creativa e non statica. Dobbiamo esserne tutti convinti. ❖ Photofestival 2015: centoventisei mostre fotografiche a Milano. Fino al 20 giugno. Guida-calendario degli eventi in programma sul sito www.photofestival.it; catalogo distribuito gratuitamente presso i singoli spazi espositivi (136 pagine 16x16cm).
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 21 volte aprile 2015)
I
CARLO MOLLINO
Il genio comincia sempre col dolore. Ed è una certa inclinazione della critica italiana -specialmente- ad attribuire alla stravaganza, all’inibizione e all’estetizzazione delle forme in fotografia e dappertutto, confondere l’eros da boudoir dall’erotismo struccato dei libertini d’ogni tempo. Comprendere la cura dei piaceri vuol dire partecipare alla costruzione di un’erotica libertaria che mette fine a secoli di miserie sessuali e smascherare il disagio della civiltà fondata sulle nevrosi ossessive delle religioni e delle istituzioni. Scrittori, pittori, fotografi, cineasti più avvertiti (ma anche carbonari di ogni disobbedienza amorosa) hanno presto compreso che andare alla radice della propria sessualità significa cambiare se stessi e il mondo. Venti secoli di dottrine, ideologie, promiscuità familiari hanno devastato il desiderio, il piacere, il corpo, la sensualità, la voluttà... e fatto del giusto edonismo un cumulo di ovvietà ordinate in codici, regole, confessioni... e impedito (con la repressione, la reclusione, la violenza) l’eruzione della rivoluzione sessuale nella vita quotidiana. Nella cartografia dei libertini di ogni arte ci sono nomi eccellenti, e basta consultare un casellario di libri censurati dalla Chiesa e dallo Stato, per vedere che autentici predoni dell’erotismo hanno non solo liberato la propria sessualità (in tutti i modi possibili, fino anche all’autodistruzione): fuori dai limiti e regole che mortificano il piacere del desiderio, hanno infranto il monopolio dell’educazione. I confessionali dei preti, i lettini degli psicoanalisti e il perbenismo di facciata dei politici hanno prodotto cimiteri d’infelicità e fatto dell’amore (anche il più solitario o quello rivolto alla persona dello stesso sesso) un corollario di perdizione, deviazione o perversione. Per gli spiriti eccellenti è deplorevole che una civiltà sia
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stata eretta sulla negazione del corpo, e non sia riuscita a considerare la sessualità, le passioni, le pulsioni (anche le più estreme)... alla stregua della fame, della sete, della gioia di quanti hanno sofferto e lottato contro l’infelicità.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’EROTISMO DA BOUDOIR L’ingegnere Carlo Mollino, da Torino (1905-1973)... architetto, designer, pilota automobilistico e aeronautico... a tempo perso fotografo di donne denudate con cura e senza un filo di grazia...
da boudoir che potrebbe stare accanto alla mistica del gemito (e alla possessione dell’anima) di santa Teresa d’Ávila (una suora affetta da evidenti pulsioni schizofreniche, che diceva di fare l’amore con Gesù). In molti considerano Carlo Mollino un esponente del modernismo, art nouveau, surrealismo, barocco, rococò. È venerato dai collezionisti per le sue creazioni scenografiche, architettoniche, oggettistica d’avanguardia. Quindi, Carlo Mollino deve una certa notorietà di foto-
«In qualunque settore dell’arte, ogni stile si afferma contro lo stile. È minando l’idea di ragione, di ordine, di armonia che prendiamo coscienza di noi stessi. Tranne qualche criminale, tutti aspirano ad avere un’anima pubblica, un’anima-manifesto. L’intellettuale stanco riassume le deformità e i vizi di un mondo alla deriva» Emil M. Cioran autore di scritti come Architettura, arte e tecnica (1947, e riedizioni successive), Tutto è permesso salvo la fantasia (1950) e Il messaggio dalla camera oscura (1949) [FOTOgraphia, dicembre 2006], una curiosa e approfondita storia della fotografia... ha elaborato una sommatoria di fotografie non proprio erotiche -semmai allusive- di un erotismo
grafo anticonformista per le visioni femminili, realizzate in polaroid (soprattutto). I più importanti musei del mondo hanno ospitato le sue opere e il “designer senza industria” è asceso agli onori istituzionali; e la sua casa torinese -Casa Mollino- è diventata un apprezzato museo [fotografato anche da Patti Smith, nel 2010, nell’ambito del suo avvincente
progetto Camera Solo; FOTO graphia, settembre 2014]. Per una lettura essenziale delle sue fotografie si possono vedere, in particolare, Carlo Mollino. Polaroid (a cura di Fulvio Ferrari, Giovanni Arpino e Daniela Palazzoli; Umberto Allemandi & C, 1985) e Carlo Mollino. Polaroids (a cura di Fulvio Ferrari e Napoleone Ferrari; Arena Editions, 2002; seconda edizione, Damiani, 2014): qui si comprende bene la complessità del personaggio, che sembra stagliarsi tra le contraddizioni dell’eros e la decadenza della mortificazione della carne. Perfino Agostino, uno dei padri della Chiesa, dice che la libido nasce dopo il peccato, ed è ricompensa del peccato di disobbedienza. L’immaginale fotografico di Carlo Mollino è una partitura estetizzante della sensualità che esalta se stessa ed entra in una spirale di detestazione del femminile al contrario. Carlo Mollino conservò con cura le sue fotografie, non furono mai esposte o vendute; solo pochi amici ebbero il privilegio di averle in dono, come biglietto d’auguri per l’anno nuovo. La grande fotografia, senza il profumo ereticale di una bellezza autentica, è un’impresa volgare. Sigmund Freud, Carl Gustav Jung, Wilhelm Reich e i maestri delle filosofie orientali hanno scritto pagine immortali sul desiderio dei piaceri come enigma delle cosiddette architetture erotiche, e ci hanno lasciato in sorte la pratica libertaria dell’eros leggero come pedagogia del corpo: «La scoperta del femminismo egualitario, le esultanze, le dinamiche ludiche, i giochi edonistici, l’invenzione del corpo dell’altro, la costruzione del piacere a due, la cura dell’altro, le virtù (delicatezza, premura, dolcezza, tenerezza, invenzione, immaginazione), e tutto ciò che presiede alla costruzione di due piaceri: quello dell’altro e il proprio» (Michel Onfray:
Sguardi su La cura dei piaceri. Costruzione di un’erotica solare; Ponte alle Grazie, 2009)... contiene il fascino della dissoluzione dei valori istituiti. L’osceno è un’invenzione degli uomini morti. Il bello, il giusto e il buono sono alle radici di ogni forma di libertà (della bella individualità), e quando si alzano i paraventi della cultura, della politica o della fede si cade in una mediocrità senza rimedio. A ritroso. Tra il 1960 e il 1973 (quando viene a mancare), Carlo Mollino colleziona oltre duemila fotografie di donne spogliate (altre fonti dicono milleduecento); le custodisce in semplici buste bianche, all’interno di un mobile antico: come l’album di francobolli di un bambino un po’ introverso della buona borghesia. Quando vengono pubblicate, galleristi, storici, critici si contendono l’appellativo di genio! Una stupidaggine che fa rabbrividire quanti si occupano seriamente di fotografia del profondo e non di pruriti femminili repressi. Ma si sa che, in questo paese di rincitrulliti da dottrine, ideologie e mercimoni, basta essere un po’ meno stupidi della media per apparire più intelligenti. Sulle fotografie di Carlo Mollino sono state spese molte parole; siccome l’entusiasmo è l’apogeo degli imbecilli, non possiamo evitare di ricordarne alcune. Marta Casadei, a fronte di una mostra al Mnaf - Museo Nazionale Alinari della Fotografia, di Firenze, organizzata dalla Fondazione Alinari, scrive: «Un Paganini della creatività che, dicono, non amava ripetersi. Le sue creazioni sono pezzi unici, limited edition. Le fotografie scattate sono solo quaranta. Una produzione che riflette senza dubbio il suo gusto per l’elitario, ma anche la voglia di rifuggire una serialità livellatrice che avrebbe tradito il valore del prodotto. L’amore dell’artista per l’obbiettivo, da lui considerato un metodo utile alla definitiva rappresentazione del mondo». La banalità è la punizione che ciascuno si merita per i propri eccessi. In presentazione di una mo-
stra di Carlo Mollino, a New York, l’autorevole The New Yorker pubblica qualcosa di diverso: «Questa selezione di diverse centinaia di polaroid conserva il mistero essenziale di un progetto decadente ed ermetico. Anche se chiaramente sono il prodotto di una profonda ossessione, queste fotografie sono volutamente impersonali, ogni dettaglio barocco è un invito per lo spettatore a immaginare incontri di Mollino con quelle donne». Qui le cose si fanno più serie... non si cade nell’errore di aderenza, e in qualche modo si rimanda il lettore alla burrasca delle proprie emozioni, destini approssimativi e riserve d’intelligenza. Una fotografia che non si capisce, o si capisce troppo, perde la propria poesia nel ridicolo. Va detto. La nostra cattiva reputazione non ci permette di sorvolare su tante facezie, degne del più ciarlatano degli artisti americani... Andy Warhol. Quando serve alla crescita di un mito o di qualcosa che ha a che fare con l’arte, il linguaggio della seduzione è l’idioma della vendita, cioè della prostituzione. Non si disprezza mai abbastanza l’artista per quello che dice, ma per quello che è. Ogni elogio ha i propri biasimi. Caravaggio non ha mai avuto bisogno di pubblico, ma del coltello per tagliare il pane e altro del quale non vogliamo dare conto. Un’opera d’arte, quando è grande, contiene la coscienza di un’epoca.
IL FOTOGRAFO CON I BAFFI DA VOYEUR Carlo Mollino, il fotografo con i baffi da voyeur, è un minimalista della fotografia erotica; per accogliere le modelle, sceglie una villa sulle colline torinesi; poggia le ragazze (ballerine, incontri occasionali o qualche amica con l’inclinazione a fare Bettie Page, senza avere l’ironia della sua sfrontatezza) a tendaggi, pareti, sedie, specchi, letti. Le composizioni asservite allo sguardo imperante del fotografo sono perfino ridicole, per non dire di autoritratti edificanti, presi alla ma-
niera delle segnaletiche della polizia o su un divano timidamente sdraiato (ridente), accanto a una ragazza ancora da spogliare. Quando è in vena di ilarità, il fotografo dandy lascia il proprio marchio “C M”, sulle natiche della modella prostrata su una macchina per scrivere con accanto una bottiglia di champagne. C’è un ritratto di sé davvero fulminante: Carlo Mollino è seduto come un re su una sorta di trono di bambù, la corona/cerchio di canne che aleggia sulla sua testa sembra celebrare la sua potenza creativa. A ben vedere, tutta la sua iconografia raffigura la ricusazione del piacere diretto, come superamento del peccato che conduce diritto alla dannazione. In molte immagini fuoriescono atteggiamenti masochistici di second’ordine, riferimenti espressivi a Jean Cocteau e E.J. Bellocq, senza mai avere né l’irriverenza espositiva dell’uno né la forza espressiva dell’altro. La sede del desiderio sembra situata negli occhi, e le fiamme dell’inferno sono allontanate nell’esibizione (spesso a pagamento) di gustose signorine aperte all’arte della seduzione. L’intera architettura fotografica di Carlo Mollino è una sorta di cerimoniale chiesastico, nel quale il fotografo/profeta del trasgressivo sembra detestare le donne più che amarle. C’è un’evidente incapacità di avvicinarle, corteggiarle, sedurle, conquistarle, condividere la selvatichezza dell’amore. La sua scrittura fotografica è un dispositivo di conciliazione, ma la donna è sempre sottomessa e denudata di ogni identità. Sacra e puttana al medesimo tempo. L’immaginazione erudita di Carlo Mollino si spinge in molte direzioni; lo spettacolare sublimato diventa la dimora dello sguardo e l’estasi dell’oggetto del desiderio si sostituisce alla fame d’amore (o di sesso) che si attacca all’incoscienza dell’irrazionale. La vitalità di un fotografo si manifesta attraverso immagini che superano la sfera ristretta degli interessi personali e rispecchiano valori per i quali può anche morire.
La sfilata di gambe divaricate, velate, depositate nella macchina fotografica di Carlo Mollino esprimono una catenaria penosamente pubblicitaria dell’eros che nulla a che vedere con le sensazioni radicali che ci hanno trasmesso Jacopo da Varazze (Legenda Aurea), il marchese de Sade (Le centoventi giornate di Sodoma), Georges Bataille (L’Erotismo), le lettere d’amore di Eloisa e Abelardo, le giovinette di Balthus e le feste pagane dell’antichità. I grandi dell’erotismo fotografico -come Robert Mapplethorpe e Gian Paolo Barbieri- sanno che la ricerca del piacere e del desiderio erotico è interconnessa con la sensualità, e il linguaggio simbolico del corpo non ha nulla a che fare con la pornografia, ma con la scoperta della bellezza e finitezza della seduzione. Nelle loro immagini si coglie la leggerezza giocosa del piacere d’amare e d’essere amati senza tanti infingimenti strutturali... e basta un’immagine di Henri Cartier-Bresson, quella delle gambe di Martine Franck che legge un libro su un divano (la testa è tagliata dall’inquadratura), per spazzare via i travestimenti, nemmeno raffinati, delle donne di Carlo Mollino. L’erotismo è innanzitutto gioco in libertà di corpi in amore. La fotografia di Carlo Mollino santifica attraverso l’abiezione, e sotto un certo taglio figurale esprime una delinquenza sessuale degna di un abatino profanato dal priore. Sembra prendere a prestito (in malo modo) le parole del divino marchese nella Nuova Justine: «Le donne, create apposta per i nostri piaceri, devono unicamente soddisfarli in ogni caso e in qualunque modo; se si rifiutano, bisogna ucciderle come esseri inutili, come animali pericolosi», o quantomeno fotografarle in atti di sottomissione o beffarda spavalderia. Lo stile, l’inquadratura e l’empatia di un fotografo con ciò che cade nella propria macchina fotografica esprimono la verità (o la menzogna) di un autore. La filosofia dell’immagine nuda di Carlo Mollino cela una volga-
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Sguardi su rità indicibile, una teologia negativa del femminile e dell’impurità sessuale che la rende prossima al casino o all’altare. Per i filosofi del piacere non esistono né impurità né il peccaminoso... non ci sono né prostitute né sante... solo donne e il desiderio d’amore che ne consegue... in amore niente è anormale... tutto si può profanare, perché niente è sacro! «E così come i cani non generano gatti, gli universitari non generano pensatori sovversivi» (Michel Onfray), i fotografi sono una razza di cortigiani avvezzi all’uso di strisciare all’ombra di ogni corte, e fanno dell’autocompiacimento l’esaltazione dell’umiliazione. La nobile arte del fotografo è quella di servire il padrone che lo espropria di ogni valore ideativo. Il fotografo, se è necessario, si fa complice di crimini che il padrone giudica necessari al benessere del proprio potere. La colorazione delle polaroid di Carlo Mollino contiene una certa fascinazione del proibito: i marroni, i gialli, i neri delle istantanee riproducono una sensazione di provvisorio e disvelato, dove la donna è solo la maschera esposta davanti alla macchina fotografica. Calze nere o bianche, camicette trasparenti, vestaglie aperte, veli, scarpe con i tacchi alti, catene, gioielli, fronzoli, posture provocatorie o remissive sono il prontuario alchemico di Carlo Mollino... le modelle stanno al gioco... qualcuna falsamente sfrontata, altre assumono pose secondo la peggiore pornografia familiare (quella che passa nelle televisioni di tutto il mondo). La pornografia si definisce per ciò che viene mostrato brutalmente; all’opposto, l’erotismo appartiene alla sfera dell’immaginale personale, emozionale, subliminale. I dipinti di Gustave Courbet (L’origine du monde) e Egon Schiele (Eros) e il cinema di Pier Paolo Pasolini, Derek Jerman e Lars von Trier, ad esempio, vanno oltre la facile sensualità fisica: i significati visivi che seminano nelle loro opere appartengono a una cultura del comportamento e della condivisione, e arrivano a
“toccare” l’intimità di qualcosa profondamente sensuale. Nel florilegio fotografico di Carlo Mollino, le effusioni lesbiche, le masturbazioni, le costrizioni del corpo denunciano una mancanza di talento e la trasformazione di miti in feticci: l’esaltazione della sessualità o l’orchestrazione di una “lussuria” provinciale colloca queste vestali dell’osceno dimezzato fuori dall’eros come verità, e il fotografo si erge a padrone di una situazione aleatoria che rinuncia al possesso reale in favore dell’immaginazione. Essere superficiali con stile è più facile che fare della fotografia uno strumento di liberazione sessuale e accoglienza di tutte le indiscrezioni dei sensi. Il piacere dell’erotismo non ha contropartita: supera qualsiasi legittimazione biologica, sociale, morale e appare in tutta la propria dirompente fecondità nell’appagamento concreto e nell’impudenza estetica/etica che si trascolora nella sovversione non sospetta dei codici e valori dominanti. La fotografia che vale richiede una sorta di pietà compassionale o un’ingenuità ispirata e incline al sublime, al tragico, all’immensità estetica che è capace d’intimità, ma non di solitudine, e sa amare senza la vergogna d’amare. La fotografia in forma di bellezza è quella che fa dell’inafferrabile un canto di gioia, un dolce fiorire della finitudine dell’Uomo e della Donna in cammino verso la conquista della civiltà felice. La fotografia è l’intuizione!... vedere sempre il generale nel particolare: ecco il tratto distintivo del fotografo di genio!... l’uomo di genio è sempre in opposizione al proprio tempo... le sue opere contengono il bello dissociato dall’utile (la bellezza del diavolo, che in gioventù, specialmente, qualcuno ha conosciuto almeno una volta, Goethe diceva). E la fusione dell’innocenza, intelligenza e ragione che sbordano nello splendore del magico destituiscono i dettati del pensiero comune e (con tutti gli strumenti necessari) si affrancano al riscatto dell’immaginario liberato che appartiene all’umanità intera. ❖