FOTOgraphia 213 luglio 2015

Page 1

SETTIMIO BENEDUSI ESSERE O NON ESSERE

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano


Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)

Abbonamento a 12 numeri (65,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome

cognome

indirizzo CAP

città

telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO

fax

❑ ❑ ❑

e-mail

Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 28219202, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito su carta di credito ❑ CartaSì ❑ Visa ❑ MasterCard

numero data

provincia

firma

scadenza

codice di sicurezza



prima di cominciare INDAGINE FOTOGRAFICA (E ALTRO). Come tradizione della casa editrice, il numero Duecento di Julia, il fumetto che si precisa in Le avventure di una criminologa, è stato realizzato a colori: in allineamento e continuità con ogni precedente centinaio raggiunto dagli altri personaggi della scuderia Sergio Bonelli Editore. Datata allo scorso maggio, L’immagine perduta è una vicenda che merita la nostra attenzione oltre la segnalazione della sua colorazione celebrativa, invece del consueto e tradizionale svolgimento in bianconero.

Non ci può essere nessuna libertà, fino a quando anche un solo Uomo soffre sulla Terra. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66 Non esistono Angeli e Demoni, ma -tutt’al più- si incontrano imbecilli. Questi, sì. mFranti; su questo numero, a pagina 9 In coincidenza di intenti, ma con svolgimento diverso. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 61 La rivoluzione informatica ha dato una nuova fisionomia alle nozioni di spazio e tempo, modificandone profondamente il rapporto nella società postindustriale. Urs Stahel; su questo numero, a pagina 48

Copertina Incontriamo il talentuoso Settimio Benedusi -noto e riconosciuto soprattutto per la sua fantastica rappresentazione e raffigurazione della bellezza e sensualità femminile- con immagini che esulano (circa) dai canoni consueti del suo esuberante professionismo. È il caso di questo soggetto pubblicitario, del 1992 (!), che, come altre interpretazioni in portfolio, rivela oltre la superficie a tutti apparente. Ne riferiamo da pagina 22

3 Fotografia nei francobolli Come il titolo rivela subito, si tratta di una sceneggiatura a sfondo fotografico, che coinvolge un professionista che ha perduto la vista a seguito di un tragico incidente. Si presume che sia in possesso di una fotografia ricercata da personaggi senza scrupoli, che cercano perfino di ucciderlo, in diverse occasioni. E non riveliamo altro, per non sciupare l’eventuale lettura del fumetto, che offre infiniti cambi di passo in una trama ambientata a New York. Però, con l’occasione, sottolineiamo l’ennesima presenza della fotografia oltre i propri confini, con quanto concede alle sceneggiature del cinema (delle quali ci occupiamo puntualmente, mese dopo mese) e a quelle del fumetto (per le quali, proprio questo luglio, celebriamo il cinquantenario dalla prima apparizione di Valentina, originariamente comprimaria e presto protagonista delle proprie vicende). In termini quantitativi, ma anche qualitativi -va rilevato!-, dal punto di vista di partecipazione fotografica, proprio le avventure di Valentina sono più significative e consistenti di altre, perché Valentina Rosselli, il personaggio creato dal più che bravo Guido Crepax, è fotografa, e dunque declina anche in questa veste la propria prorompente personalità.

Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un annullo postale francese che ha accompagnato l’emissione di sei valori di Les œuvres des grands photographes français (10 luglio 1999, sedici anni fa): dai Rencontres d’Arles di quella estate, una iniziativa di Giuliana Scimé

7 Editoriale A completamento della presentazione della novità tecnico-commerciale Leica Q... altre considerazioni

8 Nell’epoca in cui Si afferma un utilizzo dell’immagine diverso dalla consapevolezza della Fotografia. In riflessione

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Morboso Considerazioni e allineamenti sulla fotografia in forma necrofila, a partire da una trasversalità fotografica, isolata dalla sceneggiatura del film italiano Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. E oltre Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini


LUGLIO 2015

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

17 Che conferma!

Anno XXII - numero 213 - 6,50 euro

Premio di categoria ai recenti TIPA Awards 2015, l’unità Profoto B2 raddoppia l’aggiudicazione del 2014

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

20 Sei dalla Francia

Maria Marasciuolo

Emissione filatelica che ha celebrato sei grandi autori: appunto, Les œvres des grands photographes français (nel senso di Opere dei grandi fotografi francesi )

Filippo Rebuzzini

REDAZIONE

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

22 Essere o non essere La fantastica personalità fotografica di Settimio Benedusi, oltre il temperamento che esprime nella raffigurazione e rappresentazione della bellezza e sensualità femminile. Immagini che rivelano un consistente bagaglio culturale di Maurizio Rebuzzini

34 Valentina, cinquanta Luglio 1965-2015: celebrazione del cinquantenario di uno dei più noti personaggi a fumetti. Con fotografia di Angelo Galantini

43 Qqqquanta Leica

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Settimio Benedusi Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Urs Stahel Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

Derivata dal sistema a telemetro M, in propria attualità tecnologica, la Leica Q non si presenta come variazione su tema noto: ma afferma una personalità di spicco di Antonio Bordoni

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

48 Industria attuale

● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

Con la selezione Industria, oggi, l’autorevole Mast, di Bologna, sottolinea una sostanziosa trasformazione della fotografia contemporanea. Teniamone conto di Urs Stahel

54 Porroflex Pentaprisma per Rolleif lex (Nippon Kogaku / Nikon) a cura di New Old Camera

56 Poli.Radio Parlano gli ideatori e conduttori della trasmissione radiofonica Pictures.of.you. Parole di e per la fotografia intervista di Beppe Bolchi

● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

60 Così appare. Ma! A margine degli aspetti mercantili della fotografia: dalle aste WestLicht Photographica Auction, di Vienna

65 Mary Ellen Mark Sguardo su una fotografa fuori gioco (anche) di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale Q

ualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Lo abbiamo affermato spesso, in tante occasioni (ora, una ancora, una di più, mai una di troppo), sottolineando altresì che per nostro proponimento parliamo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza. Alla luce di questa considerazione, alla quale cerchiamo di attenerci sempre, oggi registriamo un viaggio fotografico entusiasmante e coinvolgente: quello della nuova Leica Q, che presentiamo da pagina quarantatré. Non si tratta tanto di rilevarne e sottolinearne le caratteristiche e prestazioni, che indubbiamente sono di profilo alto (e non potrebbe essere altrimenti), quanto di andare sottotraccia: come spesso facciamo. Ciò precisato, oltre la relazione giornalistica dovuta, qui procediamo oltre: fino a dare rilievo al fatto che con questa configurazione di tanta personalità fotografica Leica ribadisce come e quanto la sua filosofia progettuale e produttiva sia sempre irrevocabilmente indirizzata verso l’immagine, per la quale e alla quale fornisce utensili perfettamente finalizzati al come, che sorreggono il perché delle intenzioni d’autore. In questo senso -e se così intendiamo considerarla-, è perfino curioso che nell’ampio panorama tecnico-commerciale della fotografia soprattutto (soltanto?) Leica svolga il questo compito e impegno, che è ormai sempre più estraneo al processo evolutivo generale... proiettato unicamente all’incremento periodico (ed esponenziale) di valori basilari. Derivata dal sistema “a telemetro” Leica M, in attuale carattere ad acquisizione digitale di immagini, questa Leica Q è incredibilmente “nuova” e “innovativa” proprio in assolvimento di filosofie progettuali sovrastanti. E ora... e allora... tornano alla mente considerazioni espresse da Karin Rehn-Kaufmann, Direttore Artistico Leica Galerie, nel discorso introduttivo al programma di inaugurazione della nuova sede aziendale, tornata a Wetzlar (delle origini), a fine maggio 2014 [FOTOgraphia, giugno 2014]. A memoria: «Leica produce apparecchi fotografici, per proprio mandato esplicito e statutario. Ma non bisogna dimenticare, né trascurare, che -a propria volta- le macchine fotografiche creano immagini. Ed è questa la fantastica e magica differenza che distingue (dovrebbe distinguere) anche il processo produttivo, proiettandolo verso una missione che si presenta nella società, sia quando la fotografia è realizzata da attori (professionisti) che raccontano la vita nel proprio svolgersi, sia quando la fotografia è declinata nell’ambito e territorio privato: in ogni caso, azione creativa attiva e non passiva». Lezione fantastica, emozione condivisa, visione da considerare con tanto e tanto rispetto: qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Maurizio Rebuzzini

Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Oltre i propri parametri ufficiali, che annotiamo da pagina quarantatré, su questo stesso numero, la nuova Leica Q ribadisce come e quanto la filosofia progettuale e produttiva della Casa di Wetzlar sia sempre irrevocabilmente indirizzata verso l’immagine: per la quale e alla quale fornisce utensili perfettamente finalizzati al come, che sorreggono il fondamentale perché delle intenzioni d’autore.

7


Parliamone Cinema di Maurizio Rebuzzini (Franti)

NELL’EPOCA IN CUI

S

Sia chiaro ed esplicito: è più che giusto che la società tutta evolva sistematicamente in relazione (anche) alle componenti tecniche e alla graduale trasformazione del costume. Ciò che identifichiamo come aspetto socioculturale, e che così definiamo, è somma di tante convergenze che non si esauriscono nel solo proprio ambito, ma si allargano a macchia d’olio, influenzando tutto e tutti. Dunque, sia altrettanto chiaro ed esplicito che accettiamo di buon grado ciò che ogni epoca esprime, in ordine (e, a volte, persino in disordine) con se stessa. Però: accogliere non significa necessariamente accettare passivamente, senza altre considerazioni al proposito. Da cui, la consecuzione di queste note, che non giudicano gli aspetti socioculturali incontrollabili, ma invitano a riflettere su qualche retrogusto. Ovviamente, il punto di osservazione è focalizzato a partire dalla fotografia (circa), nostro territorio privilegiato di indagine, ispezione e considerazioni. Recentemente, sulla propria pagina Facebook, che esprime in convincente alternanza di ritmo, il talentuoso Settimio Benedusi, fotografo della bellezza femminile che presentiamo su questo stesso numero della rivista, da pagina 22, con una serie e qualità di fotografie diverse da quelle per le quali è noto e riconosciuto, ha lanciato un allarme. In trascrizione, ha rilevato che, se per qualche bizzarra ragione, i nostri pronipoti dovessero giudicare il nostro tempo dalle fotografie che si stanno esprimendo in Rete... potremmo essere etichettati come un’epoca di scemi che hanno fotografato soprattutto (ma anche soltanto) tramonti, gattini, cani, animali domestici e contorni. In effetti, questa è una sacrosanta rilevazione quantitativa: la liberazione di tanti impedimenti precedenti, sdoganati dalle semplificazioni tecnologiche dei nostri tempi, ha attivato una sostanziosa fotografia di massa completamente estranea al proprio linguaggio visuale, ma referente solo alla superficialità di tanta socialità di profilo basso, che eleva l’Io a valore assoluto e unico. In pa-

8

Conservazione della fotografia, dalle origini (da L’album de famille, di Catherine Ormen-Corpet, fotografie di Joël Laiter; Éditions Hazan, 1999). Per quanto siamo soliti datare l’idea di fotografia privata, ovverosia fotoricordo, dalla Box Kodak, del 1888, si registra anche una situazione antecedente e si scandisce l’evoluzione dei tempi: dalla fotografia d’élite a quella di massa. Fino alla fotografia virtuale che -nei nostri giorniattraversa la Rete... disperdendosi nella propria quantità senza controllo.

METÀ OTTOCENTO

FINE OTTOCENTO


Parliamone role povere, i social network sono invasi da istanti privati e intimi proiettati all’attenzione complessiva (e, perfino, globale): cosa sto mangiando, con chi sto passeggiando, dove mi trovo in questo momento e via discorrendo. Attenzione: le potenzialità della Rete sono esaltanti, oltre che in ordine con i nostri giorni. Da e con Umberto Eco, nel corso di una intervista di qualche tempo fa: «Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare». Sia con le immagini (che appartengono a un sovrastrato diverso da quello che tutti noi intendiamo come Fotografia), sia con le parole (altrettanto distanti dalla letteratura), la stessa Rete è però pregiudicata dall’assenza di controllo e autocontrollo che dovrebbero guidare e indirizzare ogni comunicazione. Eccolo qui, il retrogusto amaro che consegue alla diffusione capillare di potenzialità e liberazioni fotografiche (e fonetiche, di parola). Tanto che, rientrando nel territorio squisitamente fotografico, gattini, cagnetti e tramonti a parte (belle fotografie intime, da custodire nel proprio cuore), si registra anche il clamoroso caso dei selfie, che ormai si stanno imponendo come autentica fenomenologia dei nostri giorni (con relative complicità degli smartphone, che li sollecitano). Quindi, pensando ancora a un domani incombente, poniamoci un’altra domanda: quale immagine fotografica di se stessi trasmettono i protagonisti odierni dei selfie? Ovverosia: esaurita la generazione di coloro i quali hanno nel cuore ritratti posati e convincenti dei propri genitori, i figli e nipoti e pronipoti dei selfie accederanno soltanto a inquietanti sceneggiate davanti a una pizza, nei pressi di un paesaggio, in atteggiamento grottesco? Dunque si tratta di considerare l’aspetto socioculturale contemporaneo nella propria complessità e con le proprie controindicazioni quotidiane. In questo senso, hanno fatto scalpore considerazioni espresse da Umberto Eco, che abbiamo già citato (per la propria lucida capacità di vedere, oltre il solo guardare), in un recente intervento all’Università di Torino. Speculando sul sensazionalismo e sullo scalpore e sulla forzatura titolistica, molte relazioni hanno isolato alcune sue affermazioni dal contesto, elevandole

INIZIO NOVECENTO

ANNI VENTI

ANNI CINQUANTA

ANNI OTTANTA

ad assoluto. In particolare: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. La TV aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità». Guidati e condizionati da una frenesia di sensazionalismo a tutti i costi, con relative declinazioni decontestualizzate e caricaturali delle parole effettivamente pronunciate, pochi resoconti hanno, però, sottolineato l’alto tasso dialettico delle rilevazioni di Umberto Eco, che si è espresso con declinazioni assolutamente articolate, oltre che motivate. Tra l’altro, ha doverosamente sottolineato che «Uno dei grandi problemi della scuola italiana è aiutare i ragazzi a filtrare le informazioni su Internet» (e ci associamo, anche per esperienza diretta). Quindi, in coniugazione modulata e coerente, ha rilevato che «Il fenomeno dei social network è anche positivo, non solo perché permette alle persone di rimanere in contatto tra loro. Pensiamo solo a quanto accaduto in Cina o in Turchia, dove il grande movimento di protesta contro Erdoğan è nato proprio in Rete, grazie al tam-tam. E qualcuno ha anche detto che, se ci fosse stato Internet ai tempi di Hitler, i campi di sterminio non sarebbero stati possibili, perché le informazioni si sarebbero diffuse viralmente». Insomma... né Angeli, né Demoni. Per quanto amari, i retrogusti che accompagnano la socialità della personalità digitale della ripresa fotografica (o quello che è, in altra declinazione, estranea alla consapevolezza di qualsivoglia linguaggio specifico) non scalfiscono l’impianto generale, sia della tecnologia, sia della fotografia: casomai, influiscono sull’aspetto socioculturale. Non esistono Angeli e Demoni; e se ci sono, e per quanto possono esserci, si manifestano negli impieghi individuali e non sono impliciti nelle tecnologie di base. Non ci sono Angeli e Demoni, se non nel nostro cuore, dove li creiamo e coltiviamo per nostra capacità o -all’oppostoottusità e stupidità manifeste. Non esistono Angeli e Demoni, ma -tutt’al piùsi incontrano imbecilli. Questi, sì. ❖

9


Notizie

a cura di Antonio Bordoni

A CORPI MOBILI... OGGI. Per merito della configurazione Silvestri Flexicam, predisposta per ogni dorso ad acquisizione digitale di immagini dei nostri giorni, la nobile e radicata storia della fotografia a corpi mobili (che per semplificazione si identifica anche con la specifica “a banco ottico”) è ancora in corso, e continua a proporre percorsi innovativi, sempre più entusiasmanti. In sintesi, i valori principali della Silvestri Flexicam, le sue caratteristiche basilari: dimensioni 18,8x18x16,2cm, peso 1,1kg, messa a fuoco sulla base di scorrimento micrometrica autobloccante, decentramento verticale 23 più 23mm, decentramento orizzontale 15 più 15mm, basculaggio verticale e orizzontale 15 più 15 gradi. A corredo della dotazione base, che offre e propone convincenti movimenti micrometrici dei piani, sia in decentramento ragionato, sia in rotazione di basculaggio finalizzata, Silvestri presenta anche sistematiche e pratiche soluzioni (meccaniche) di tecnologia attuale, che si integrano, ampliando le possibilità di utilizzo fotografico. È oggi il caso dell’affascinante Adattatore Sony Alpha 7 per Silvestri Flexicam, che estende la facoltà dei corpi mobili a una convincente gamma di Mirrorless full frame e con sensore in dimensioni APS. In attesa di adattatori dedicati e specifici (annunciati), questo originario è già altresì ulteriormente accessoriabile, per la combinazione con ogni altro corpo macchina reflex

10

dei nostri giorni: senza alcuna soluzione di continuità, fino a tutti i sistemi fotografici attualmente presenti sul mercato tecnicocommerciale della fotografia. La condizione di fondo è irrinunciabile (sarebbe irrinunciabile) in molte applicazioni professionali, nell’ambito delle quali la ripresa fotografica di qualità ha inderogabilmente bisogno di strumenti che rendano possibile la creatività dell’autore; diciamolo con franchezza: la costruzione a corpi mobili, sia a banco ottico sia folding, è sempre stata la sorgente di tutte le soluzioni prospettiche e di estensione ottimale della nitidezza a tutto il campo inquadrato. La grande innovazione avvenuta con il passaggio all’acquisizione digitale di immagini non ha cambiato la sostanza di questa condizione. Un fotografo esigente, che vuole essere creativo e protagonista della propria espressività, deve disporre di strumenti flessibili, non completamente condizionati dagli automatismi di funzione. In questo senso, va ribadito che -con l’attuale adattatore per corpi macchina Sony Alpha 7 (e altre reflex)- il pratico e versatile programma Silvestri Flexicam fornisce il primo elemento che si interfaccia alla fotografia a corpi mobili, affrontata e risolta con una dotazione ottica di tutto rispetto: la gamma di obiettivi professionali dedicati Schneider e Rodenstock (immancabili riferimenti della fotografia con configurazioni a corpi mobili), specifici per fotografia digitale ad alta risoluzione, con focali che vanno da 23mm a oltre 100mm. L’Adattatore Sony Apha 7 per Flexicam trasforma le Mirrorless Sony in agile banco ottico, nella cui configurazione la stessa Mirrorless agisce come dorso digitale di acquisizione di immagini. Al contempo, il corpo Flexicam offre tutti i movimenti di decentramento e basculaggio, in una soluzione leggera e compatta di facile trasporto e assemblaggio. (Silvestri Fotocamere, via della Gora 13/5, 50025 Montespertoli FI; www.silvestricamera.com).

ESCURSIONE GRANDANGOLARE. Da tempo scandita in passi fotografici sottolineati, la gamma di obiettivi Sigma per reflex dei nostri giorni propone interpretazioni ottiche mirate: Contemporary, Art e Sports danno risalto alle prerogative esplicite di utilizzo dei singoli disegni. La famiglia Art si arricchisce oggi di uno zoom completamente grandangolare, indirizzato alla fotografia di alta qualità formale, da impreziosire di contenuti sostanziosi. Con copertura del sensore full frame (e, a diretta conseguenza, del fotogramma 24x36mm su pellicola), il Sigma 24-35mm f/2 DG HSM Art conserva l’ampia apertura relativa a tutte le proprie selezioni focali. Progettualmente, è stato concepito per offrire le medesime alte prestazioni delle focali fisse della serie Sigma Art, delle quali replica la generosa apertura relativa, andando a completare un’escursione che scandisce i tempi e termini della fotografia grandangolare più che classica: per quantificare, 24mm, 28mm e 35mm... più intermedi, senza cambiare obiettivo. Adeguatamente maneggevole e pratico, in baionetta AF per reflex Canon, Nikon e Sigma, l’attuale 24-35mm f/2 DG HSM Art replica la sostanza delle prestazioni dell’affermato zoom grandangolare Sigma 18-35mm f/1,8 DC HSM Art, il primo varifocale della gamma (e al mondo) a proporre una ampia luminosità di impiego [FOTOgraphia, maggio 2013]. Nella pratica quotidiana, nella ripresa fotografica, per ottenere un apprezzato effetto bokeh -condizione ottica ormai indispensabile-, il disegno ottico è stato concepito per mantenere inalterate le proprie prestazioni a ogni selezione focale e a ogni apertura di diaframma, a partire dal valore massimo f/2. A fuoco da 28cm, questo Sigma 24-35mm f/2 DG HSM Art è definito da un rapporto di ingrandimento massimo di 1:4,4, che lo rende particolarmente adatto anche all’inquadratura a distanza ravvicinata, alla figura ambientata,

con piacevole sfocato di supporto, e alla fotografia di paesaggio, con sostanziosa profondità di campo. Nell’efficace disegno ottico, una lente asferica di grande diametro si combina con una lente in vetro ottico FLD (“F” Low Dispersion, a basso indice di dispersione) e sette lenti in vetro ottico SLD (Special Low Dispersion), due delle quali asferiche. A conseguenza, la qualità ottica riduce ai minimi termini l’aberrazione sferica, quella cromatica assiale e la curvatura di campo: con resa ottica conseguente di alta qualità formale, a partire dall’apertura relativa f/2. Il sistema di messa a fuoco interna elimina la rotazione della lente frontale dell’obiettivo e aumenta la stabilità complessiva, oltre a consentire l’impiego di filtri polarizzatori circolari, particolarmente utili nelle riprese video. Infine, il Motore Hyper Sonico HSM assicura un accomodamento AF veloce e silenzioso. Inoltre, ruotando semplicemente l’anello di messa a fuoco, l’attuale Sigma 24-35mm f/2 DG HSM Art permette anche la pratica messa a fuoco manuale MF in qualsiasi momento, anche quando è predisposto per l’autofocus. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

I

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri (anche sceneggiatore, con Ugo Pirro), del 1970, è uno dei capisaldi del cinema politico italiano che ha animato la stagione immediatamente successiva le trasformazioni sociali innescate dai movimenti che hanno dato vita al fatidico Sessantotto. A propria volta, e in allineamento consequenziale (quasi), il protagonista maschile è interpretato da un attore-simbolo di quello stesso cinema politico: Gian Maria Volonté, qui nei panni del capo della sezione Omicidi della questura di Roma, che in quegli anni caratterizzò numerose figure a sfondo politico, molte delle quali riprese dalla storia contemporanea (in I sette fratelli Cervi, di Gianni Puccini, del 1968; in Uomini contro, di Francesco Rosi, del 1970; in Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971; in La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, del 1971; in Il caso Mattei, di Francesco Rosi, del 1972; in Sbatti il mostro in prima pagina, di Marco Bellocchio, del 1972; in Todo Modo, di Elio Petri, del 1976; in Cristo si è fermato a Eboli, di Francesco Rosi, del 1979; e altro tanto ancora). La vicenda di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è emblematica di molte tematiche trasversali alla società italiana del tempo (e, magari, ancora di oggi). Nel giorno della sua promozione al comando dell’ufficio Politico della questura di Roma, il capo della sezione Omicidi (per l’appunto Gian Maria Volonté) uccide la propria amante, nel suo appartamento. Dissemina la scena del delitto di indizi che portano a lui, nella ferma convinzione che nessun funzionario di polizia avrà mai l’ardire di raccogliere queste prove a suo carico, ma ognuno rivolgerà l’indagine in altra direzione, che non verso la sua persona intoccabile. Il film si svolge con la cadenza del flashback, della rievocazione di fatti che si sono svolti in precedenza. In particolare, è ricostruito il morboso rapporto intimo con l’amante Augusta Terzi, interpretata da Florinda Bolkan, attrice brasiliana, ai tempi assai apprezzata dal cinema italiano (anche

12

MORBOSO

Il film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, del 1970, è conteggiato tra i più significativi della stagione politica innescata dalle trasformazioni socioculturali del Sessantotto. Straordinari i meriti dei suoi contenuti. A margine, come è doveroso, la nostra considerazione si limita alla presenza della fotografia (sceneggiatura e scenografia): il protagonista Gian Maria Volonté con Nikon F.


Cinema dalle commedie sexy di dubbio gusto e nessuna consistenza). Nello specifico, il nostro osservatorio mirato e indirizzato, oltre che perfino viziato, sottolinea la partecipazione della fotografia alla vita privata dei due amanti. Morbosamente, Augusta Terzi si informa sul modo in cui sono stati trovati cadaveri di morti ammazzati (meglio se di morti ammazzate: al femminile), per ripeterne la postura, per replicare la scena del delitto che il suo amante (capo della sezione Omicidi) puntualmente fotografa: tra le pareti domestiche del lussuoso appartamento, piuttosto che in esterni, su una spiaggia deserta. Subito risolta la questione tecnica: nei panni dell’amante che appaga tanta morbosità, Gian Maria Volonté fotografa con una Nikon F nera, che in interni è accessoriata con un grottesco flash a lampadina (siamo sinceri, assai più scenografico di un qualsivoglia flash elettronico: nella raffigurazione cinematografica, a volte, è adeguato che l’apparenza visiva sia più accattivante della realtà). Quindi, dal nostro punto di vista, non ignoriamo che questa morbosità nei confronti della raffigurazione fotografica della morte violenta ha sostanziosi accompagnamenti, ovvero si è rivelata tra le pieghe di altre narrazioni; almeno in due, una cinematografica e una romanzata, che puntualmente annotiamo. In questo ordine.

ALTRO CINEMA Rimanendo nelle considerazioni odierne, ambientato nel mondo della mafia statunitense dell’inizio degli anni Trenta, Era mio padre, di Sam Mendes (Road to Perdition; Usa, 2002) è un film che contiene e presenta una particolare combinazione fotografica... morbosamente necrofila. Per l’appunto, il killer Harlen Maguire (interpretato dall’attore Jude Law) -che si nasconde dietro la professione di fotografo- è un crudele necrofilo, che prova intima soddisfazione per l’immagine della morte. Lo si capisce immediatamente, fin dalla propria entrata in scena: per conto della polizia, sta fotografando un cadavere, vittima di omicidio; mentre è al vetro smerigliato della Speed Graphic su treppiedi nota che il suo “morto” respira ancora, dà segni di residua vita. Senza troppo scomporsi, lascia la postazione fotografica e si avvicina

DALLA NARRATIVA

al “cadavere”, che rende definitivamente tale... soffocandolo [FOTOgraphia, novembre 2005]. Ecco qui: la combinazione killer-fotografia è assoluta e inviolabile. Harlen Maguire uccide per denaro, ma soprattutto uccide per poter fotografare la morte: come rivelano anche le sequenze in camera oscura e le panoramiche del suo appartamento, appunto tappezzato di “fotoricordo” di cadaveri. Tanto è che nelle scene finali è chiaro che, individuate le vittime designate (su incarico della mafia), le attende al varco, preparando preventivamente la Speed Graphic, in modo da poter “immortalare” la propria opera. Per quanto potremmo essere tentati di iscrivere questa citazione nell’ampio contenitore della fotografia giudiziaria, antropometrica e di polizia (capitolo affascinante, da affrontare quanto prima, anche alla luce di sostanziose monografie a tema di recente pubblicazione), si tratta di altro. Però, come stiamo rilevando oggi, nel comportamento del cinematografico Harlen Maguire c’è proprio sadismo e necrofilia, esercitati attraverso la fotografia.

L’aspetto fotografico trasversale alla vicenda del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sottolinea una componente morbosa: il capo della sezione Omicidi di Roma (interpretato da Gian Maria Volonté) replica con la sua amante Augusta Terzi (l’attrice Florinda Bolkan) scene di delitti sui quali indaga.

Quindi, in proseguimento dagli amanti protagonisti del film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, dai quali siamo partiti e ai quali riferiamo l’essenza delle nostre attuali considerazioni, se un parallelo va identificato, la memoria torna a una combinazione, curiosamente coincidente, isolata dal romanzo Nove Miglia, un poliziesco di Rob Ryan, scritto nel 2000, originariamente pubblicato in Italia nella collana popolare dei Romanzi neri del Giallo Mondadori. Rappresentativa della partecipazione della fotografia a una socialità generalizzata, oltre lo stretto ambito degli addetti, la combinazione fotografica di Nove Miglia è estremamente affascinante, oltre che corrispondente all’argomento odierno (morbosità). In aggiunta, al pari di altre presenze della fotografia nel cinema e nella letteratura statunitensi (sebbene l’autore Rob Ryan sia inglese, nato a Liverpool), anche qui i richiami fotografici sono convenientemente colti, concentrati e competenti: altro discorso, per quanto discorso sostanzioso. Dunque, ora ci limitiamo alla sola componente di morbosa necrofilia e intima soddisfazione per l’immagine del dolore e della morte, che unisce tra loro, associandoli addirittura, i personaggi sui quali stiamo riflettendo. Al pari del cinematografico Harlen Maguire di Era mio padre, in Nove Miglia, anche Vincent Wuzel è un killer che ama la fotografia. In modo analogo, copre la propria attività principale con un riferimento fotografico: in questo caso di compravendita di libri fotografici e fotografie d’autore, ed è a propria volta scrupoloso collezionista. In particolare, Vincent Wuzel colleziona fotografie di morte, in subordine al fatto che lui non riesce a realizzarne di altrettanto feroci. Testuale: «Era difficile da spiegare, questo nucleo privato della sua collezione. Certo, le foto di Avedon erano belle, ma erano solo immagini. Quelle che desiderava davvero erano gli scatti che catturavano qualcos’altro, qualcosa di sfuggente, l’interfaccia tra la vita e la morte. Le sue preferite erano quelle foto che avevano catturato l’istante in cui la vita abbandonava un corpo, quando ciò che era un’entità vitale, senziente, diventava una collezione di cellule morenti.

13


Cinema Nel film Era mio padre, di Sam Mendes, del 2002, l’attore Jude Law interpreta il killer Harlen Maguire, che si nasconde dietro il mestiere di fotografo. È un crudele necrofilo, che prova intima soddisfazione per l’immagine della morte. Per esempio, chiamato dalla polizia sulla scena del crimine, soffoca il “morto” che respira ancora.

Uno dei classici della presenza dei flash a lampadina nelle scenografie del cinema. Dal film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, sequenza dell’accensione e dello spegnimento del piccolo flash montato sulla slitta porta accessori della Nikon F nera usata dal protagonista Gian Maria Volonté nei panni del capo della sezione Omicidi di Roma.

14

«Aveva visto quell’istante diverse volte, dato che era lui quello che premeva il grilletto, gli era capitato di tenere un’arma contro la tempia di qualcuno, e di sparare, e di osservare la testa della vittima che si torceva come quella di un tacchino, e poi, il nulla. Ma accadeva sempre troppo in fretta, non riusciva mai a impedirsi di chiudere gli occhi nel momento della detonazione. E però era convinto che da qualche parte ci fosse una foto che coglieva quello che lui si perdeva. Sei vivo e poi, bang, sei morto». Ecco qui, nelle proprie apparizioni in Nove Miglia, le considerazioni fotografiche di Vincent Wuzel si incrociano con la personalità di killer, appunto in un connubio necrofilo, che viene rivelato nel proprio complesso. «Vincent Wuzel si preparò un caffè e raggiunse il soggiorno per poter pensare con calma. Sul tavolo davanti a lui c’era l’album che raccoglieva i

suoi sforzi personali nel campo della fotografia. Cominciò a sfogliarlo, mentre la sua mente cercava di capire come affrontare quell’improvvisa crisi nella sua vita. [...] «Si fermò sulle ultime cose e fece una smorfia quando vide la foto di quel tipo disteso sul tavolo. Non tanto per la foto in se stessa, anche se era convinto che cogliesse molto bene la totale disperazione negli occhi dell’uomo. Ma per quello che era successo poi. «Lo avevano preso per strada, fuori di un bar. Con lui c’era Brownie [il cui nome è significativamente preso a prestito dall’autore Rob Ryan dalla famiglia di apparecchi fotografici Kodak Brownie], ricordava, che si era avvicinato alle spalle del tipo, gli aveva puntato una pistola alla schiena, lo aveva fatto salire nell’auto dove aspettava PD. Brownie lo aveva colpito due volte, dei colpi rapidi e potenti che lo avevano reso docile,


Cinema

mentre lo legavano e imbavagliavano. Lo avevano portato in quel vecchio ristorante che usavano sempre. Era chiuso da un anno, ma la cucina era ancora intatta, e lo avevano legato sul tavolo di acciaio. Quand’era rinvenuto, li aveva guardati con un’espressione supplice negli occhi. Wuzel aveva preparato la macchina fotografica, una Nikon F3, su un treppiedi, e parlava mentre lavorava, gli spiegava cosa avrebbero fatto e perché, perché a BB non piaceva essere imbrogliato. Era stato allora che aveva scattato quella foto. «“ok” ricordava di aver detto “questo è una specie di esperimento. Quando lo faremo, voglio delle foto per fissare quell’istante. Catturarlo per la posterità”. «Il tipo aveva cominciato a divincolarsi, ma Brownie lo aveva colpito di nuovo ed era svenuto. PD gli aveva gettato addosso dell’acqua fredda. Wuzel voleva che fosse cosciente. «Brownie aveva preso una di quelle grosse lime d’acciaio che si usano per affilare i coltelli e un pestacarne. Stava per conficcare la lima nel lato sinistro del petto quando Wuzel gli aveva detto di no, più vicino al centro. Aveva preso qualche altro scatto della faccia dell’uomo, e poi aveva inserito l’apposito cavo e acceso il motore. Aveva visto che PD stava per sentirsi male, e così lo aveva mandato via, a

prendere qualcosa per cena. «Brownie ci aveva riprovato, un colpo incerto che aveva costretto il corpo a inarcarsi, senza riuscire a penetrarlo. Devi colpire con più forza, gli aveva detto Wuzel. Il cuore è protetto da un sacco di membrane e ossa. Colpisci questa merda. «Brownie aveva alzato il pestacarne e lo aveva riabbassato proprio mentre il winder della macchina fotografica cominciava a girare. Wuzel era convinto che questa volta sarebbe riuscito a coglierlo, l’esatto momento della morte, l’istante esatto. Si sentirono i tessuti lacerarsi e gorgogliare quando la lima di acciaio era penetrata attraverso le membrane e le ossa e aveva trapassato un cuore gonfio di adrenalina che pulsava a una velocità tripla del normale. Una grande fontana carminio si era levata nell’aria, come se avessero trovato un pozzo di petrolio rosso. L’uomo si era contorto per un ultimo, breve istante, la schiena inarcata all’estremo. In un disperato tentativo di bloccare Brownie, era riuscito a liberare una mano dai legacci, ma poi era ricaduto indietro, il manico della lima che bucava dal suo torace. «– Merda – aveva gridato Wuzel. – Merda, merda, merda. «Brownie, schizzato di sangue dalla testa ai piedi, lo aveva osservato perplesso senza pronunciare una sola parola.

Killer di professione e, allo stesso tempo, fotografo con evidenti inclinazioni necrofile, Harlen Maguire di Era mio padre si attarda al vetro smerigliato della propria Speed Graphic per contemplare il dolore e la morte.

«Wuzel aveva indicato la macchina fotografica, l’obiettivo una massa di sangue in rapida coagulazione. Era stato oscurato proprio nell’istante che Wuzel avrebbe voluto catturare. Tutta quella fatica, e per quello che era servito, avrebbero potuto benissimo sparare a quel tipo. «Chiuse l’album. Come si chiamava quell’uomo? Sì, Warren, ecco. Poveretto. Una gran brutta morte, non era neppure riuscito ad avere una foto decente. Da quel momento, Wuzel si era deciso a limitarsi ad acquistare foto; se si cercava di farlo da soli, le spese per le pulizie erano stellari». In definitiva e per concludere, eccola qui l’affinità (elettiva?) tra personaggi, originariamente separati, che abbiamo accostato per sottolineare il filo comune della morbosa necrofilia in forma fotografica. Il cinematografico Harlen Maguire di Era mio padre e Vincent Wuzel di Nove Miglia sono entrambi killer che declinano un particolare modo di intendere la fotografia, appunto come intima soddisfazione per l’immagine del dolore e della morte. Per tanti versi si sommano alla morbosità intima dei protagonisti del film italiano Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, dal quale abbiamo estratto soltanto la trasversalità fotografica. Sia chiaro: il film è ben altro, il film affronta e propone riflessioni e considerazioni di alto spessore. ❖

15



Illuminazione di Antonio Bordoni

CHE CONFERMA!

D

Da un anno all’altro. Da un premio all’altro. Dal TIPA Award 2014 al TIPA Award 2015, nella medesima categoria tecnica. Affermatosi lo scorso anno come Best Professional Lighting System agli ambìti e prestigiosi Premi TIPA della tecnologia fotografica applicata, il sistema flash elettronico Profoto Off-Camera ha confermato il proprio valore e la propria consistenza anche in questa stagione attuale: nel 2014, fu TIPA Award l’interpretazione monotorcia Profoto B1 [FOTOgraphia, giugno 2014]; quest’anno è stata la volta della consecuzione lineare Profoto B2 [FOTOgraphia, giugno 2015], che conferma -ribadendolo!- l’insieme di caratteristiche e prestazioni che lo collocano al vertice assoluto dell’offerta tecnico-commerciale di riferimento. A questo proposito, l’accreditata giuria TIPA, composta da direttori e redattori di ventotto riviste fotografiche di tutto il mondo, ha sottolineato il merito del flash elettronico Off-Camera Profoto B2. La motivazione ufficiale del Premio è esplicita, e sintetizza l’essenza delle sue prestazioni: «Soprattutto nell’ambito della fotografia professionale, la flessibilità della luce consente risultati di illuminazione individuale e creativa: il versatile flash elettronico monotorcia Profoto B2 può essere utilizzato in molte diverse situazioni di illuminazione, gestibili sia dall’apparecchio fotografico sia con comandi accessori. Il B2 è compatibile con reflex Canon e Nikon, sia per la modalità TTL sia per quella HSS, ma opera anche in modalità manuale con gli altri apparecchi fotografici. La sua potenza di 250Ws può essere regolata per gestire fino a nove stop di gamma di luce, con un tempo rapido di ricarica che va da 0,03 a 1,35 secondi. Il B2 accede all’intero assortimento degli accessori Profoto Light Shaping Tools, potendo scegliere tra più di centocinquanta elementi per modellare la luce in massima libertà e secondo intenzioni creative individuali». Flash elettronico portatile, con proprio pratico generatore a batteria di comando e controllo, il Profoto B2 offre straordinarie versatilità di impiego, che consentono il massimo controllo della

Premio TIPA 2015 di categoria [ FOTOgraphia, giugno 2015], il flash portatile Profoto B2 -che, giustamente, qualcuno definisce “monotorcia”consente la massima versatilità nella fotografia in location. Per il controllo della luce, può utilizzare tutti gli accessori delle torce flash Profoto.

17


Illuminazione

luce fotografica professionale, soprattutto in location, sia in illuminazione autonoma sia in abbinamento agli automatismi di esposizione delle reflex dei nostri giorni. Infatti, è predisposto per l’allineamento TTL dedicato con reflex Canon e Nikon, per le quali sono predisposti opportuni controlli Air Remote (rispettivamente, TTL-C e TTL-N). Così che la regolazione del Profoto B2 può essere completamente automatica, con efficace controllo e riscontro della corretta emissione luminosa in dipendenza del soggetto inquadrato. Di piccole dimensioni e leggero, il generatore di comando a batteria può essere portato comodamente alla cintura o a spalla. A propria volta, la torcia flash può essere collocata secondo necessità: su stativo, sulla reflex (mediante una staffa apposita), piuttosto che impugnata a mano e diretta di volta in volta, scatto dopo scatto. Da cui ne consegue una praticità operativa che non impedisce qualsivoglia crea-

18

tività con l’illuminazione. Ancora, la torcia flash è allineata con il sistema Profoto, per cui sono disponibili tutti gli accessori e le parabole che consentono di governare l’emissione della luce. Tra le formule commerciali preordinate dal distributore, che scandiscono i termini concreti e tangibili di un ampio e differenziato sistema, si segnalano due kit finalizzati all’assolvimento ottimale di condizioni basilari della fotografia professionale. Il B2 250 AirTTL To-Go Kit contiene un B2 250 AirTTL (battery pack veloce, potente e facile da utilizzare; talmente compatto e leggero da poter essere agganciato alla cintura o portato sulla spalla), una torcia B2 (tanto piccola e leggera da essere collocabile su uno stativo, un monopiede o sull’apposito supporto della reflex), una batteria Li-Ion (potente e intercambiabile, in dipendenza della potenza selezionata, garantisce da duecentoquindici a cinquantamila lampi con

Still life di Chris Gampat (The Phoblographer) con soggetto il flash portatile Profoto B2, realizzato in occasione della sua presentazione. Grande discorso, argomento che andrebbe trattato: la raffigurazione emozionale degli utensili fotografici (nel cui ambito la storia editoriale della nostra rivista avrebbe voce in capitolo).

una singola ricarica), un carica batterie 2,8A (che ricarica le batterie Li-Ion in un’ora), una B2 Carrying Bag (piccola borsa maneggevole, che contiene il battery pack; da agganciare alla cintura, o tenere a spalla, o collocare su uno stativo), una B2 Location Bag (borsa personalizzabile, con scomparti regolabili; può contenere tutto il kit e altri elementi aggiuntivi; per mezzo degli strappi esterni, possono essere agganciati stativi e ombrelli riflettenti). Più articolato, il B2 Location Kit replica l’unità base B2 250 AirTTL (battery pack veloce, potente e facile da utilizzare; talmente compatto e leggero da poter essere agganciato alla cintura o portato sulla spalla), con una dotazione confortevolmente versatile: due torce B2 e due batterie Li-Ion. In conferma, il carica batterie 2,8A, la B2 Carrying Bag (borsa per due B2 battery pack), e la B2 Location Bag. (Grange, via Cimabue 9, 20032 Cormano MI; www.grangesrl.it). ❖



Filatelia di Maurizio Rebuzzini

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)

SEI DALLA FRANCIA

F

Forte della primogenitura ufficiale, nel realizzare un’emissione filatelica dedicata ai protagonisti nazionali della fotografia, la Francia ha coronato la serie con un ulteriore francobollo introduttivo che consacra l’invenzione per opera di Joseph Nicéphore Niépce (17651833) e Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851). Questo francobollo non ha corso legale, ma completa il Booklet filatelico che riunisce Les œuvres des grands photographes français (Opere dei grandi fotografi francesi) [qui sopra]. Emessa il 10 luglio 1999, la serie è stata accompagnata da celebrazioni mirate. Tra queste, l’annullo dedicato che certifichiamo con due cartoline dai Rencontres d’Arles di quella estate, approntate da Giuliana Scimé e firmate dagli italiani presenti in Camargue: in dettaglio, a pagina tre, su questo stesso numero; in riproduzione completa, a destra. I francobolli celebrano sei autori fondamentali (uno dei quali ancora in vita, nell’estate 1999 di emissione), presentando loro immagini significative, oltre che esemplificative. Il Booklet è comprensivo di rapide note di presentazione dei singoli fotografi: Robert Doisneau (1912-1994), Brassaï (Gyula Halász; 1899-1984), Jacques Henri Lartigue (1894-1986), Henri Cartier-Bresson (1908-2004), Jean Eugène Auguste Atget (18571927) e Nadar (Gaspard-Félix Tour❖ nachon; 1820-1910).

20

Booklet della serie filatelica francese Les œuvres des grands photographes français, emessa il 10 luglio 1999 (sedici anni fa, esatti). Tra le iniziative collegate, registriamo l’annullo dedicato, realizzato in occasione dei coincidenti Les Rencontres de la Photographie Arles 1999, che qui è certificato con due cartoline approntate da Giuliana Scimé, nota e celebrata critica di statura internazionale, e firmate dagli italiani presenti.



Oltre la superficie a tutti apparente, il mondo della fotografia è frequentato e movimentato da autori che assolvono i propri mandati consapevoli del lungo e nobile tragitto del linguaggio visivo. Tra questi, segnaliamo la personalità del capace Settimio Benedusi. Sia attraverso passi professionali, in adempimento di incarichi indirizzati e finalizzati, sia con la cadenza di ricerche personali -sulla cui coerenza ci soffermiamo oggi-, si rivelano particolarità e individualità che palesano una sostanziosa conoscenza dei tratti fondamentali dell’espressione fotografica. A volte, addirittura con richiami colti e convinti a esperienze storiche, che appartengono a un bagaglio di apprendimenti ed esperienze al quale riferirsi. E -magari- dal quale attingere

di Maurizio Rebuzzini

oto soprattutto per la sua fantastica rappresentazione/raffigurazione della bellezza e sensualità femminile, e conosciuto anche per la vivacità delle opinioni -spesso provocatorie- con le quali partecipa all’attualità dei social network, Settimio Benedusi è un autore che appartiene alla nobile schiera di coloro i quali sono stati portati alla Fotografia dalla conoscenza profonda e sentita della sua storia: linguaggio visivo e autori che lo hanno declinato, fino a codificarne inviolabili termini di riferimento. Per questo, in molti suoi svolgimenti professionali traspare e si delinea un fil rouge che propone riferimenti fotografici colti e consapevoli. In effetti, il suo percorso individuale coincide con quello di molti sostanziosi autori contemporanei, ed è temporalmente antecedente alla più recente stagione condizionata da tante semplificazioni (apparenti) e altrettante superficialità. Partendo in tempi durante i quali conoscere è stato un imperativo irrinunciabile, sia in fotografia, sia in assoluto, Settimio Benedusi possiede pertinenti conoscenze storiche e culturali, sulle quali si sono solidificate le radici del presente. Ancora, la sua azione fotografica vanta preziose condivisioni, a partire dalla straordinaria esperienza di Ugo Mulas (maestro di pensiero, per sua ammissione e dichiarazione ufficiale), sulla cui fotografia e sulle cui riflessioni si sono

22

formate solide generazioni di autori italiani dei nostri giorni. Da cui, un efficace retroterra, che sta alla base anche della sua fotografia commerciale, è fondamentale per applicare coerentemente il linguaggio della fotografa, la sua grammatica, la sua sintassi. E questo stesso retroterra guida e dirige la sostanza delle ricerche personali che Settimio Benedusi conduce a margine, e anche in coincidenza, con la sua fotografia professionale. Autore cosciente e scrupoloso, in ogni circostanza fotografica, Settimio Benedusi applica una grammatica-linguaggio che manifesta una straordinaria combinazione di regole logiche e acquisite (relative soprattutto alla costruzione compositiva) e usi arbitrari, che scandiscono un tempo e ritmo che accompagnano l’osservazione, invitandola ad allineare l’irrazionale con il razionale, e viceversa: dalla mente al cuore, ma anche dal cuore alla mente. Prima ancora di aver realizzato ognuna delle sue fotografie, averle pensate o sognate, anche per un solo istante, è questo che rende l’autore diverso da tutti coloro che hanno guardato (non visto) le medesime situazioni, intuito le stesse visioni. Per sempre. Dunque, è fondamentale rendersi conto che tanto la fotografia espressiva (detta anche creativa: ed è lo specifico odierno di Settimio Benedusi) quanto quella di documentazione (a tutti gli effetti, altrettanto creativa) non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. (continua a pagina 31)

PUBBLICITÀ VADIM - 1992 (2)

ESSERE O NON ESSERE N



24

AD MAGAZINE RUSSIA - 2013 (5)

AUTORITRATTO “BAUHAUS” A SEDICI ANNI


25


26

SETTE / MAGAZINE

DEL

CORRIERE

DELLA

SERA - 2014: MENSA DEI

POVERI

(5)


27


AD MAGAZINE RUSSIA - 2013



30

RICERCA PERSONALE

CON

ROLLEIFLEX 3,5F -

MAGGIO

2015

RICERCA PERSONALE AMNIOS - 2003


- 2013 CON IPHONE

RICERCA PERSONALE

(continua da pagina 22) Grammatica-linguaggio: il fotografo-autore, che percepisce determinati valori del soggetto, li definisce nella composizione-inquadratura e li duplica sulla stampa. Se lo desidera, può simulare l’apparenza in termini di valori di densità riflessa, oppure può restituirla ricorrendo ad altri valori, basati sull’impatto emotivo. Ancora, grammatica-linguaggio: a dispetto di talune loro apparenze, le ricerche di Settimio Benedusi non appartengono alla categoria delle “fotografie realistiche”; quanto di reale arrivano a offrire risiede solo nella precisione (o, viceversa, imprecisione volontaria e consapevole) dell’immagine ottica; i valori di contenuto sono invece decisamente “distaccati dalla realtà”. L’osservatore può accettarli come realistici, in quanto l’effetto visivo può essere plausibile, ma se fosse possibile metterli direttamente a confronto con i soggetti reali le differenze risulterebbero sorprendenti. Infatti, dipendono dal fatto che tra la realtà e la sua raffigurazione ci sta il passaggio fondamentale attraverso una mediazione etica e morale. Se vogliamo vederla con un paradosso, che tale è soltanto in apparenza, potremmo anche ipotizzare una sorta di (benevola) bugia. Infatti, come tutti i fotografi, artisti che esprimono la propria espressività da centosettant’anni abbondanti (da quel fatidico 1839, nel quale è cominciato tutto), anche Settimio Benedusi è un inguaribile bugiardo. Lo è perché e per quanto

controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Così come un bravo narratore mente per far comprendere il proprio racconto, omettendo qui, sottolineando là, soprassedendo a destra e allungandosi a sinistra, anche il bravo fotografo mente per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio racconto... il proprio percorso. Dove sta la bugia di Settimio Benedusi? Nel raccontare fotograficamente con perizia e cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, ma imbocchi con decisione il proprio cammino, che può coincidere con quello delle sue intenzioni d’autore, ma anche distaccarsene. Diciamola anche così, diciamola perfino così: con la qualità dei contenuti delle sue fotografie di ricerca, Settimio Benedusi scandisce i tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta. Non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni pacate (e il riposo che l’osservazione ne guadagna non è valore da poco, né da sottovalutare), che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione con altri. ❖

31



La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

settembre 2015

GIOVANNI GASTEL: LA RINASCITA DELLA FOTOGRAFIA... OGGI. Con autobiografia


VALENTINA Si può datare la nascita di Valentina, uno dei più noti e riconosciuti fumetti italiani, al luglio 1965: dunque, oggi ricorre il cinquantesimo anniversario. In realtà, il personaggio originario al quale fu titolata la prima storia a fumetti del geniale Guido Crepax, creatore di Valentina, era un altro: aderente ai propri tempi, il supereroe Neutron. Giusto nel luglio 1965, nella storia approda Valentina Rosselli, di professione fotografa, la cui prorompente personalità ridestina i ruoli. A parte altre intenzioni individuali, è proprio la trasversalità fotografica del personaggio che impone la nostra attenzione: oltre precedenti evocazioni, l’attuale per la ricorrenza del cinquantenario 1965-2015

34

di Angelo Galantini

P

otere e magia dei fumetti... che non aggravano i propri protagonisti (ed eroi) degli acciacchi dell’anagrafe: lasciandoli tutti bloccati, fissi e stabili alla propria età originaria (circa). Marginalmente condivisa con i personaggi seriali della narrativa (dal commissario Maigret, di Georges Simenon, a Sherlock Holmes, di sir Arthur Conan Doyle), questa singolare condizione riguarda sia le strisce giornaliere (per le quali citiamo i Peanuts, di Charles Schulz), sia i racconti più articolati (per esempio, Tex, di Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini), che si susseguono in avventure in successione, spesso collegate le une alle precedenti. In questo senso, eccoci qui, eccoci all’attuale celebrazione: nata il 25 dicembre 1942 -data non certo casuale, riscontrabile da una carta di identità ipotizzata in introduzione a Valentina Pirata, del 1980-, nel corso di circa quaranta anni di peripezie a fumetti, Valentina Rosselli, di professione fotografa, ha attraversato i tempi senza dipendere da qualsivoglia susseguirsi di giorni, mesi e stagioni (circa).


CINQUANTA Oggi, e qui, non ricordiamo la presunta anagrafe (di fantasia) di Valentina, ma commemoriamo il cinquantesimo anniversario della sua nascita come personaggio a fumetti, con consistente partecipazione attiva della fotografia (a pagina 38, sottolineiamo l’allineamento riproponendo una intervista rilasciata nell’estate 1989 dal suo creatore e autore, Guido Crepax, mancato nel luglio 2003 [FOTOgraphia, settembre 2003]). Di fatto, Valentina nasce da una costola di quello che si era proposto come fumetto originario, con protagonista il critico d’arte statunitense Philip Rembrandt (non casualmente), con poteri sovrannaturali, applicando i quali assume l’identità di Neutron. Da cui, proprio Neutron è la serie originaria ideata da Guido Crepax, che fece il proprio esordio sul secondo numero del mensile Linus, appena nato (aprile 1965: altro recente cinquantenario): La curva di Lesmo, in sette puntate dal maggio al novembre 1965.

VALENTINA: LUGLIO 1965-2015 In veste assolutamente comprimaria, la fotografa Valentina Rosselli arriva nella terza puntata di Neutron, a pagina settantatré del numero quattro di Linus, del

Prima di guadagnare una scena propria, diventando protagonista della serie di fumetti che l’hanno celebrata, Valentina (Rosselli) arriva nella terza puntata di La curva di Lesmo, che l’autore Guido Crepax intitolò a Neutron, il critico d’arte statunitense Philip Rembrandt dotato di poteri sovrannaturali. Esattamente cinquanta anni fa, nel luglio 1965, a pagina settantatré di Linus, il fantastico mensile esordito nel precedente aprile, Valentina riceve Philip Rembrandt all’aeroporto lombardo della Malpensa: ecco qui le due vignette dello storico incontro.

35


Biottica Rolleiflex (altre volte certificata come Polly Max) tra le mani di Valentina: avvincente e convincente sottolineatura dei raffinati dettagli della livrea attorno i due obiettivi sovrapposti. In sequenza: Franke & Heidecke, da La Marianna la va in campagna (1968; qui a lato); da Baba Yaga (1971, a destra); da Il bambino di Valentina (1969-1970, qui sotto).

(doppia pagina precedente) Da Valentina assassina (1975-1976).

36

luglio 1965 (ottava tavola delle quarantatré totali): da cui, l’attuale conteggio del cinquantenario tondo 1965-2015. Va ad accogliere Philip Rembrandt, che successivamente diventerà suo compagno di vita (ma non l’unico amante, va rilevato), al suo arrivo in Italia, all’aeroporto lombardo della Malpensa, per accompagnarlo e fargli da guida in una visita agli affreschi di Masolino da Panicale, nella chiesa della Collegiata, di Castiglione Olona, in provincia di Varese. In breve, Valentina prende il sopravvento su Neutron, e ancora oggi l’episodio primigenio La curva di Lesmo è conteggiato al suo personaggio. Dal nostro punto di vista mirato e indirizzato, l’apprezzamento di Valentina non dipende solo dalla sua consistenza grafica e dalle

capacità sceneggiative di Guido Crepax, che -peraltro- sono consistenti, oltre che notevoli, ma proviene in sostanziosa misura dai massicci attraversamenti fotografici di accompagnamento e completamento. Nelle avventure di Valentina, la fotografia gioca ruoli e funzioni eterogenee. A volte, la macchina fotografica è soltanto un elemento grafico, buono per completare la composizione di una tavola; ma in diverse occasioni la fotografia è stata l’autentica protagonista della storia: a partire da Ciao Valentina, del 1966 (oppure Ciao Valentina!, o Ciao, Valentina!, secondo titolazioni in diverse raccolte), nella quale dettagli casualmente e involontariamente inclusi nel secondo piano di fotografie di moda svelano un omicidio: singolare parallelo con il


film Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, al quale -va detto!- la sceneggiatura di Guido Crepax è cronologicamente anteriore, con identiche date ufficiali di rispettive proiezione e pubblicazione. Ancora, e addirittura, in Valentina assassina, del 1975-1976, la macchina fotografica è a lungo sospettata di essere l’arma di una misteriosa serie di omicidi; così come in Baba Yaga, del 1971, le erano già stati attribuiti magici, oscuri e inspiegabili poteri medianici. Tra l’altro, e in allungo e convergenza, una successiva sceneggiatura di un altro fumetto -Dylan Dog, della scuderia Bonelli- ha declinato analoghe ipotesi e combinazioni: nell’episodio Safarà, numero 182, del novembre 2001, chi viene fotografato con una biottica

6x6cm dotata di obiettivo malefico si trasforma in assatanato assassino [FOTOgraphia, dicembre 2006]. A questo punto, in anticipo su altre riflessioni e osservazioni e commenti sollecitati dal cinquantenario di Valentina, una rapida notazione sulle macchine fotografiche che sono comparse nel fumetto. A parte fugaci presenze di Linhof e Cambo a banco ottico, perfettamente caratterizzate, reflex Asahi Pentax Spotmatic, Leica R4 Mot e Nikon F (in versione Novak N, tra le mani di Philip Rembrandt-Neutron) e accessori vari (tra i quali, un esposimetro Minolta), nel corso dei decenni, Valentina ha utilizzato macchine fotografiche diverse, anche se le preferite sono sempre state la Rolleiflex (continua a pagina 40)

Riflessioni di Valentina, nell’ambito di sceneggiature di Guido Crepax che spesso non si sono limitate e fermate ai soli macroaspetti, ma sono approdate a considerazioni e osservazioni di spessore straordinario: diciamola anche così. Con accompagnamento scenografico della fotografia (circa), che è poi il motivo sostanziale che colloca questo fumetto nel nostro percorso, per l’appunto statutariamente fotografico: da Nostalgia (1980; qui sopra); con obiettivo per reflex 35mm, da Il ritratto di Valentina (1977; in alto); con Linhof Master Technika 4x5 pollici e esposimetro Minolta, da Il falso Kandinsky (1991; a sinistra, in alto); con Rolleiflex 3,5F (?) e obiettivi per reflex 35mm, da La spia (1995; a sinistra, al centro).

37


GUIDO CREPAX:

FRONTESPIZIO DELLA MONOGRAFIA

VALENTINA CON

GLI STIVALI

(MILANO LIBRI EDIZIONI, 1970)

A DOMANDE, GUIDO CREPAX RISPOSE

L’avranno chiesto mille volte; una di più. Quali sono le origini di Valentina e del suo nome? «Valentina è nata su Linus, nel 1965: è stato il mio primo personaggio, il mio primo fumetto. Il nome fu un poco casuale; ho una nipote che si chiama Valentina e una figlia Caterina. Ai tempi, era nota la cantante Caterina Caselli, per cui si sarebbe creato un certo equivoco col cognome; suonava meglio Valentina Rosselli. «Invece, il cognome Rosselli è intenzionale: si richiama ai fratelli antifascisti: erano anni nei quali le scelte personali erano più sentite. Rosselli fu intenzionale: Valentina voleva essere una figura impegnata». E prima dei fumetti? «Disegnavo molto. Quando ho cominciato con i fumetti non ero più tanto giovane. Professionalmente, ho iniziato la mia carriera come disegnatore di copertine di dischi. Ero appassionato di jazz; per un caso fortunato, il mio primo lavoro è stato per una copertina di Fats Waller. Questo accadeva quando ero matricola alla facoltà di Architettura, dove poi mi sono laureato. «Comunque, mentre frequentavo Architettura, disegnavo per copertine di dischi e per la pubblicità; ne ho sempre fatta molta, per la benzina Shell in particolare. Ai fumetti non pensavo proprio». Come mai Valentina è nata fotografa? «È un caso, un puro caso». Per esigenze di copione? «No, direi proprio di no. All’inizio, Valentina non era la protagonista dell’avventura. Protagonista era Philip Rembrandt, che c’è tutt’ora». Poi, Valentina è diventata la protagonista delle avventure. «Sì, Valentina divenne subito la protagonista. «Tornando alla questione precedente, della sua professione, penso che la fotografia sia soltanto un elemento accessorio inventato». La fotografia apparteneva allora a un pensiero ricorrente. «Sì, indubbiamente se ne parlava. «Erano anche gli anni di Blow-Up, di Antonioni. Io stesso ho disegnato una storia, la mia seconda in assoluto,

38

che del tutto involontariamente riprendeva l’idea di Blow-Up [già annotato: Ciao Valentina, del 1966]; vagamente si avvicinava al film, che non era ancora arrivato nelle sale. Si può dire che i fatti furono contemporanei: io non pensavo ad Antonioni, e certamente lui non pensava a me, perché non poteva aver visto il fumetto». L’idea era nell’aria. «Esatto, è così. Comunque, allora la fotografia stava diventando sempre più importante. Però, la professione del fotografo era, se si può dire, soltanto maschile, e quindi mi sembrò abbastanza originale inventare una donna fotografa. «Inoltre, bisogna tener conto che allora si parlava molto anche di femminismo; per questo Valentina doveva essere indipendente, doveva avere un lavoro. Questo è lo schema originario». All’inizio, Valentina ha avuto diverse macchine fotografiche; come mai, poi, usò soprattutto la fantasiosa Polly Max, tipo Rolleiflex biottica? «Era la più bella da disegnare, tutto lì. Aveva belle forme e poi era bella da tenere tra le mani; se si potesse dirlo, era fotogenica. Poi mi piaceva anche perché lasciava libero il viso, mentre altre macchine fotografiche si portano all’altezza dell’occhio. La Polly Max è congeniale alle esigenze del disegno». In questo senso, anche l’aspetto estetico delle Fuji, che Valentina usa in questi ultimi tempi [fine anni Ottanta], è gradevole. «Sì, certo. La protezione dell’obiettivo di alcuni apparecchi si inserisce bene nel disegno [la panorama G617 e le compatte medio formato 4,5x6cm per pellicola a rullo 120/220]». A volte, i personaggi sopravanzano i propri autori. Ha mai pensato di sopprimere Valentina, di farla morire? «No, perché non sarebbe conveniente. Qualche volta ho avuto una minima tentazione, e nelle storie ho inserito catastrofi; per esempio, ho fatto sparire i genitori di Valentina in un incidente spettacolare. «Per la storia di Nessuno, ho pensato a un finale tragico, con Phil Rembrandt che precipita con l’aereo, senza peraltro spostare il senso della storia. Anche l’aereo, poi, l’avevo già utilizzato per i genitori di Valentina. «Valentina mi piace molto, e non vorrei liberarmene. Adesso, poi, che è effettivamente diventata una fonte di guadagno, visto che la uso in pubblicità, sarebbe imprudente farla morire. «Anche in passato, Valentina ha fatto pubblicità. Per esempio, molta pubblicità gratuita alla Rolleiflex e ad altre macchine fotografiche, anche se non mi hanno detto, né dato, nulla. Neppure un ringraziamento: sono stato totalmente ignorato. In un certo senso, l’identificazione di fantasia Polly Max fu creata per evitare la citazione diretta, che avrebbe potuto far pensare a un coinvolgimento pubblicitario, peraltro inesistente. «E poi, il nome “Valentina” è proliferato. Non è certo di mia proprietà, però i negozi Valentina e la linea Valentina sfruttano palesemente il fumetto. Recentemente, ho registrato il nome di “Valentina” associato al mio: “Valentina di Guido Crepax”. Per il resto, non posso dire nulla; così come non dissi nulla quando Olivetti sfruttò la notorietà del fumetto per una macchina per scrivere. «Senza che me ne accorgessi, Valentina è diventata un personaggio di moda. Anche Amica ha realizzato un servizio caratterizzando la modella sulla sua immagine. Mi hanno citato con cortesia, però rimane nell’aria questo sfruttamento del personaggio. «Comunque, bisogna riconoscere che molte volte sono riuscito a utilizzare Valentina. Non scandalizzi il discorso economico, e si tenga conto che il fumetto, purtroppo, paga poco, molto poco. Quindi, sono stato quasi costretto a monetizzare dove è stato possibile». Il distinguo è antico. Proprio sul primo numero di Linus [aprile 1965], ne dibatterono Umberto Eco, Oreste Del Buono e Elio Vittorini. Si usa dire che in Italia il fumetto non sia cultura, ma sottocultura. «È vero ancora adesso, senz’altro».


VALENTINA PIRATA (MILANO LIBRI EDIZIONI. 1980) DALL’INTRODUZIONE DELLA MONOGRAFIA

GUIDO CREPAX:

Siccome la sottocultura produce stereotipi e la cultura archetipi, Valentina è uno stereotipo o un archetipo? «Sicuramente non è uno stereotipo. Anche se, debbo essere onesto, nei confronti del fumetto non sono molto tenero. Mi sono sempre mantenuto all’opposizione; a volte sono stato contrario al fumetto. «Effettivamente, per me è sempre stato il modo per esprimermi. Io soprattutto disegno, è vero; però, mi piace anche scrivere. Non dico proprio scrivere, perché non ho mai scritto nulla. Però mi piace inventare storie, e dunque il fumetto è proprio adatto alla mia personalità: io disegno e invento storie scrivendo». All’inizio, le storie di Valentina erano lineari, fedeli a una struttura classica del fumetto. «Relativamente poco anche allora. Beh, sì, un poco di più di oggi. «In effetti, sono stato influenzato dal fumetto americano, è vero, però avevo anche voglia di fare qualcosa di diverso, volevo cambiare. All’origine, ero più preoccupato di modificare la struttura grafica, che la narrazione. Per l’impostazione della pagina, della tavola, ero più influenzato dal cinema; infatti, a quei tempi, guardavo molto il cinema, la nouvelle vague francese, soprattutto». Quando si disegna, si pensa ad appagare/accontentare il pubblico? «No, io mai. Forse è per questo che non ho mai conosciuto un successo monetizzabile. È strano; in fondo mi meraviglio ancora di essere così conosciuto -Valentina è notissima-, però il pubblico mi ha sempre un poco respinto; mi sono sempre sentito un po’ rifiutato. «E non sono certo l’autore più amato del fumetto italiano». Allora, anche Valentina non è simpatica? «Valentina deve essere antipatica; a volte l’ho pensato. Intanto, è un tipo di donna non certo popolare, che mette a disagio. «Quando ho cominciato a caratterizzare Valentina pensai di fare il contrario di quello che andava. Cosa andava? Brigitte Bardot, che aveva avuto la propria immagine disegnata in Barbarella. Io ho fatto tutto il contrario: una bruna con i capelli corti. Mi sono ispirato a vecchi film, all’immagine classica di Louise Brooks [attrice statunitense, che ebbe un significativo successo nel breve volgere di una mezza dozzina di anni, dal 1925 al 1931]. «Questo tipo di donna non sempre piace. Molti uomini non apprezzano le donne con i capelli corti, e dunque diventa un’immagine che sconcerta». Anche la dimensione del sogno può sconcertare. Qui Valentina nutre la propria emozione, la propria vita. «Anche il sogno è stato un modo per introdurre qualcosa di nuovo. Fin dalla prima tavola delle mie storie, infatti, ho sempre cercato di realizzare qualcosa di diverso rispetto la tradizione del fumetto». Il sogno serve per arricchirsi di esperienze che, altrimenti, non si potrebbero avere; quindi, diventa una dimensione di vita? «Sì, per me la dimensione onirica è un dato di fatto. Vedo, però, che non tutti la pensano così. «I sogni di Valentina sono autentiche invenzioni; soltanto raramente attingo da esperienze reali e vere, non necessariamente le mie».

Valentina è un personaggio attento alla società. Qual è la misura del proprio rigore in un mondo che, giorno dopo giorno, tende al pressappochismo, alla faciloneria [nel 1989!?]? «Evidentemente, ho sempre affrontato tutte le problematiche del personaggio; tra le righe appaiono vari elementi. La fedeltà, per esempio: Valentina ha un atteggiamento libero nei confronti del proprio rapporto con il compagno Philip Rembrandt. Ne ha fatte tante, e tutt’ora ne fa. Adesso è al culmine della propria crisi esistenziale, ed è questo che diventa affascinante. È un poco matta, lo ammette lei stessa in una storia recente. «Queste le trasgressioni. Però, nell’insieme, Valentina è buona, non ha mai fatto cose aberranti. È un personaggio positivo, vorrebbe esserlo: spero di esserlo anch’io. Tranne che nelle proprie trasgressioni -io sono un fedele assoluto-, Valentina riflette un poco della mia stessa vita; per questo la sento come un personaggio positivo». Valentina è perfetta? «No, non direi. Fisicamente può essere considerata affascinante. Poi, la perfezione non esiste; lei cerca di essere al meglio». Di chi ha bisogno, Valentina? «Una volta ancora, debbo ammettere che Valentina mi è abbastanza simile; in qualche modo, mi sono copiato. Io sono molto egocentrico, quindi ho sempre cercato di essere autosufficiente. Anche nel lavoro, nel disegno, ho sempre fatto tutto da solo: ho scritto le mie storie e, nel tratto grafico, completo da me tutte le tavole e il lettering. «Anche Valentina, in fondo, è una solitaria; un poco egoista, esibizionista senz’altro, presuntuosa. Beh, io sono presuntuoso. In parte, Valentina sono io: è stato Oreste Del Buono a rilevarlo per primo. Addirittura, lo scrisse nella prefazione al primo libro». Si può conoscere Valentina, nella vita? Esiste Valentina? «Non tanto. Una volta ho scritto su Repubblica che “non ci sono più Valentine”. L’allora sindaco, Carlo Tognoli, mi rispose che non è vero che a Milano non si incontrano donne con questo spirito. Fu simpatico». Un rapporto stabile di Valentina è proprio con Milano. «Sì. Ho anche disegnato delle tavole che mi sono state richieste dalla Provincia. Valentina è un personaggio milanese». Un personaggio solo italiano? «No. Valentina è stata pubblicata molto nel mondo; è stata capita. Edizioni nazionali dei diversi volumi sono state realizzate in undici paesi. Per ora, nell’Est con difficoltà, anche perché il fumetto non è diffuso». Quanti libri, in tutto? [Nel 1989] «Trentuno; Nessuno sarà il trentaduesimo. Adesso sto preparando Il giro di vite, di Henry James. Ho già sceneggiato storie non mie: Edgar Allan Poe, Emmanuelle, Historie d’O, Justine e altri. Valentina rimane, però, la mia immagine pubblica». Che dimensione ha la tavola originale, rispetto la messa in pagina? «In genere, è il doppio. La mia dimensione classica è 50x35 centimetri. Tra tutti i personaggi creati ho disegnato circa quattromila tavole. I disegni sono di più, se si considera anche la pubblicità». Finale: si può fare tutto da soli? «A volte, mi hanno rimproverato la mancanza di uno sceneggiatore. Ma, come ho già rilevato, sono presuntuoso e sostengo che le mie storie debbo sceneggiarmele da me. Sono migliore come disegnatore, però sono in grado di difendere il soggetto». Maurizio Rebuzzini (in estratto, da PRO-Professionisti dell’immagine, settembre 1989) Riproponendo il titolo di una avventura sceneggiata da Guido Crepax, e allestita con cinquanta tavole originali (alcune in vendita, altre in sola esposizione), la mostra Funny Valentine celebra con autorevolezza i cinquant’anni del fumetto. Galleria Nuages, via del Lauro 10, 20121 Milano; www.nuages.net, nuages@nuages.net. Fino al 25 luglio; lunedì-venerdì 14,00-19,00, sabato 10,00-13,00 - 14,00-19,00.

39


Ancora biottica Rolleiflex 3,5F (?), in due tavole consequenziali da Anthropology (1977).

40

(continua da pagina 37) biottica (diciamo la 3,5F), la Rolleiflex SL66 e l’Hasselblad completa di cappuccio rigido di messa a fuoco con lente di ingrandimento (codice 52096). Alla fine degli anni Ottanta, con l’occasione di un accordo per la confezione Valentina di una monouso, si sono potute distinguere le forme di qualche medio formato Fuji. Attenzione, però. Il più delle volte, queste attribuzioni sono dedotte: solo in alcuni casi Guido Crepax ha completato il proprio tratto grafico con le identificazioni dell’apparecchio fotografico raffigurato. Tra le squisitezze, segnaliamo qualche primo piano dell’obiettivo di ripresa della Rolleiflex biottica, con tanto di iscrizione “Franke & Heidecke”: in La Marianna la va in campagna, del

1968, e nella già citata storia di Baba Yaga, del 1971. Addirittura, il più delle volte, il marchio originario è sostituito dalla dizione “Polly Max” volutamente anonima.

VALENTINA IN CAMERA Prima dell’attuale celebrazione commentata del cinquantenario di Valentina (luglio 1965-2015), ne abbiamo già segnalata la impetuosa personalità. Soprattutto lo abbiamo fatto riferendoci a una iniziativa espositiva che si è concordemente manifestata ad anni di distanza, ogni volta aggiornando i propri connotati. Replicato in diverse occasioni, il contenitore comune di Valentina in Camera (il cui richiamo è foneticamente giocato sulla dichiarata combinazione con l’anglosas-


Alle origini (circa). Affascinante combinazione grafica quattro per quattro, da La Marianna la va in campagna (1968).

sone “camera” nel senso di macchina fotografica), a cura di Maurizio Rebuzzini, è stato attribuito a differenti accostamenti di tavole estrapolate e isolate dall’insieme delle avventure, pubblicate a partire dal 1965. Proprio la trasversalità fotografica di Valentina ispirò una intervista che Guido Crepax concesse nell’estate 1989, originariamente pubblicata da PRO-Professionisti dell’immagine, testata precedente all’attuale esperienza di FOTOgraphia. Lo ricordiamo bene ancora oggi, a distanza di venticinque anni abbondanti: l’occasione dell’incontro con Guido Crepax fu allora offerta dal ritorno di Valentina sulle pagine del mensile Corto Maltese, dopo anni di volontaria assenza dal panorama italiano dei fumetti. Nell’occasione, Valentina si ripresentò con-

fermando la propria complessa personalità, ancora in bilico tra la vita reale e il sogno fantastico. Anche la sua macchina fotografica ribadì il proprio essere in perenne oscillazione tra il concreto e l’immaginazione, quasi che la Fotografia non soffra già per se stessa stridenti contraddizioni nei termini e nei fatti. Nell’incontro -riproposto da pagina 38-, risultò chiaro e inequivocabile un elemento che ha sempre qualificato, definendolo addirittura, lo spirito di Valentina. In una condizione nella quale la vita deve sempre saper trovare il ritmo corretto del proprio svolgimento, Valentina non si propone di offrire risposte, ma spunti di pensiero. Come sempre: c’è chi è parte del problema, chi della soluzione, chi del panorama circostante. ❖

È proprio vero e sacrosanto: «La macchina [fotografica] non sbaglia mai!»... almeno, così speriamo: con Fujifilm GS645S, da La gazza ladra (1992). Quindi: con Leica R4 Mot, da La spia (1995; in alto); con banco ottico 13x18cm Linhof Kardan-Color su Stativo Gigante, da Pietro Giacomo Rogeri (1972-1973; al centro).

41



QQQQUANTA LEICA Sul collaudato impianto Leica M (storico quanto contemporaneo), nella propria attuale personalità ad acquisizione digitale di immagini, comprensiva della configurazione M Monochrom finalizzata a un bianconero di alta qualità (formale), la nuova proposizione Leica Q a obiettivo grandangolare fisso (Summilux-M 28mm f/1,7 Asph, con autofocus) conferma una dote produttiva da non sottovalutare. Per quanto referente al comparto fotografico di appartenenza, la tedesca Leica continua a interpretare l’applicazione e finalizzazione delle prerogative tecniche di uso verso soluzioni sostanziosamente fuori dal coro. Certo, a partire dal sensore full frame, l’attuale Leica Q è una dotazione in regola con i dettami dei nostri tempi; altrettanto certo, non si tratta di una sola variante su tema noto... bensì di soluzione autonoma e di alta personalità. Inviolabilmente, Leica: con tutto ciò che questo significa in termini fotografici

Derivata dal corpo macchina del sistema Leica M, che si sta esprimendo con avvincente personalità ad acquisizione digitale di immagini, la Leica Q con obiettivo fisso Summilux-M 28mm f/1,7 Asph interpreta l’attualità fotografica proponendo una configurazione effettivamente innovativa... addirittura fuori dal coro. Rapida, confortevole e di alte prestazioni, impone il proprio carattere nel comparto professionale e in quello non professionale.

43


In perfetto connubio, le prestazioni del corpo macchina Leica Q, dotato di potente sensore full frame Cmos da 24,2 Megapixel effettivi, si allineano a quelle del versatile grandangolare fisso Summilux-M 28mm f/1,7 Asph (autofocus e a messa a fuoco manuale). In particolare, il progetto fotografico Leica Q è stato concepito da Zero: con pertinenti allineamenti di tutte le sue componenti. Oltre la qualità formale delle prestazioni di uso, si segnalano anche una velocità autofocus fuori dal comune, la messa a fuoco macro da diciassette centimetri, correzioni ottiche a partire dalla luminosità relativa f/1,7, estrema silenziosità di impiego e efficace mirino EVF da 3,68 Megapixel di eccellente risoluzione.

di Antonio Bordoni

D

overoso passo indietro: alla straordinaria retrospettiva Ninety Nine Years Leica, che la storica casa di Wetzlar ha pubblicato due anni fa, nel conteggio dei novantanove anni dal prototipo UR-Leica dal quale tutto è cominciato: 1914-2013 [FOTOgraphia, marzo 2013]. Tra tanto altro, quel brillante e coinvolgente racconto della storia Leica, così lontano dalla staticità di tanti altri casellari soltanto superficiali della forma (certamente, necessari altrove), lascia il passato, per affrontare il futuro. A un certo punto di Ninety Nine Years Leica, verso l’epilogo della lunga vicenda, raccolta su duecentottantasei pagine, si incontra una doppia pagina che ne introduce altre due chiuse e sigillate, con proprio retro. Avvertimento esplicito, esortazione: «Top secret - Do not open! - Leica future». Ovviamente, aprendole, non si incontrano apparecchi fotografici autenticamente tali... ma concetti e filosofie. Dei quali, eccoci!, nella propria concretezza e tangibilità, l’attuale Leica Q (Made in Germany) è mirabile e affascinante esempio.

PER L’APPUNTO, LEICA Q In una cadenza alfabetica che scandisce i termini del sistema “M”, dal 1954 della M3 originaria, erede delle precedenti configurazioni con innesto a

44

vite degli obiettivi intercambiabili (dalla Leica I, del 1930), del comparto medio formato “S”, con sensore di acquisizione digitale di immagini di dimensioni generose, e della affascinante compatta “T”, l’attuale identificazione “Q” non dovrebbe essere casuale nella propria declinazione, che interpretiamo come acronimo di “Qualità” (Quality, Qualität, Qualité). Potrà anche non essere così, ma ci piace pensarla in questi termini. Anche perché, in dipendenza con la filosofia Leica dei nostri giorni, espressa nel senso di “Das Wesentliche”, ovvero “L’essenziale”, la Leica Q risponde in maniera superlativa al concetto determinante di forma che deriva dalla funzione e comandi operativi collocati là dove devono effettivamente stare. Ciò a dire che, pur nella propria continuità con il sistema M a telemetro, dal quale eredita l’insieme della propria configurazione, la Leica Q risponde passo a passo a una modulazione di esigenze fondamentali dell’esercizio fotografico dei nostri giorni. Ovvero, in una ipotesi che da Zero progredisce verso cosa deve definire e caratterizzare un apparecchio fotografico convincente e versatile, per la Leica Q sono stati presi in considerazione parametri inviolabili di riferimento e necessità: dalle dimensioni e potenza del sensore (full frame, Cmos dedicato, da 24,2 Megapixel effettivi; sensibilità da 100 a 50.000 Iso equivalenti), con prestazioni allineate alle caratteristiche ottiche dell’obiettivo preordinato (fisso:


Summilux-M 28mm f/1,7 Asph, autofocus e a messa a fuoco manuale), alla risposta del mirino EVF (1280x960 pixel per tre colori e 3,68 Megapixel di risoluzione complessiva), alla praticità di uso, con annessi e connessi, alla messa a fuoco anche a distanze ravvicinate (da 30cm in condizioni standard; da 17cm in Macro), alla connessione lineare e semplificata con i social network (oggi, comunque sia, parametro da non ignorare: modulo Wi-Fi integrato, per la trasmissione a distanza). Fino... alla intransigente qualità formale dell’interpretazione Leica. La somma delle caratteristiche ufficiali ed esplicite della Leica Q -alle quali si aggiunge la silenziosità complessiva, l’autofocus rapido, l’altrettanto veloce gestione dei file e l’allineamento progettuale del sensore in riferimento esplicito alle prerogative ottiche del Summilux-M 28mm f/1,7 Asph- stabilisce il come della ripresa fotografica, da allineare con il perché delle intenzioni creative dei fotografi autori. Oltre la rapida enunciazione non ci soffermiamo ulteriormente sulle stesse caratteristiche: in ossequio al nostro consueto modo di affrontare e avvicinare gli utensili della fotografia, che consideriamo sempre importanti e determinanti, ma altrettanto sempre subordinati alla personalità creativa di chi li mette a frutto. In ogni caso, sia subito chiarito che le peculiarità tecnico-operative della Leica Q -altre ce ne sono, da avvicinare ciascuno per se stesso- sono tutt’altro che marginali: al contrario, sono originariamente

determinanti influenti, decisive e risolutive nel processo fotografico individuale degli autori, in qualsiasi modo e direzione si orienti. In questo senso, tra tanto, per quanto ci affascina personalmente, consideriamo assolutamente autorevole, rilevante e influente la possibilità di selezionare all’interno del mirino 28mm completo e complessivo le inquadrature delle focali più lunghe 35mm e 50mm, autentiche personalità ottiche della fotografia “a telemetro”. In corrispondenza di questo, il file grezzo DNG acquisito propone sì l’inquadratura completa 28mm, comprensiva però delle indicazioni crop (?) di ritaglio di visione: da considerare nella gestione dell’immagine, o da ignorare in post produzione: ancora e sempre... a ciascuno, il proprio. Ancora, non mancano accessori dedicati, in pertinente equilibrio tra classe esteriore (borsa pronto, fondina, custodia protettiva e borsa giorno di impareggiabile eleganza), e convenienze di impiego: flash elettronico dedicato Leica SF 26 e impugnatura aggiuntiva (particolarmente utile per l’ergonometria complessiva, peraltro già ben assolta dal design del corpo macchina).

In dipendenza con la filosofia Leica di stretta attualità, erede di una storia nobile oltre che unica e impareggiabile, il concetto Das Wesentliche, ovvero L’essenziale, calza a pennello all’attuale Leica Q, dotazione fotografica che risponde in maniera superlativa all’idea di forma che deriva dalla funzione e comandi operativi collocati là dove devono effettivamente stare. Da cui e per cui, la Leica Q risponde altresì a esigenze fondamentali dell’esercizio fotografico dei nostri giorni.

NELLO SPECIFICO, LEICA Q Apparecchio fotografico di stretta attualità a obiettivo grandangolare fisso (Summilux-M 28mm f/1,7 Asph, direttamente derivato dal recente e autorevole Summilux-M 28mm f/1,4 Asph dell’ampio sistema

45


Una segnalazione tra i tanti e affascinanti accessori dedicati alla nuova Leica Q: impugnatura e passadita, che stabilizzano l’uso a mano libera. Una apprezzata attenzione anche ai complementi scandisce il senso e valore di un progetto fotografico a tutto campo, finalizzato alla più proficua applicazione. In conseguenza, la somma delle caratteristiche ufficiali ed esplicite della Leica Q stabilisce il come della ripresa fotografica, da allineare con il perché delle intenzioni espressive e visuali dei fotografi autori.

46

ottico M [FOTOgraphia, giugno 2015]), la Leica Q non esprime soltanto se stessa e le proprie prerogative di impiego, come del resto fa anche, ma sottolinea -confermandola- la vocazione Leica di esprimersi fuori dal coro, come già annotato. Cosa significa questo? Su quali considerazioni edifichiamo la nostra ipotesi? Presto detto: sul fatto che, estranea alla consecuzione reflex ex trentacinque millimetri, l’attuale individualità e soggettività tecnologica Leica continua a ribadire princìpi fotografici che non rispondono a convenzioni altrimenti e altrove accettate (progressione della risoluzione, rapidità di scatti in consecuzione sempre più veloce e altro ancora), ma elabora e progetta configurazioni che dallo Zero di partenza approdano a concretezze operative via via identificate come opportune. In questo senso, e per tanti versi, l’attuale Leica Q, cugina del sistema articolato Leica M, fa ideologicamente il paio con la già ricordata Leica M Monochrom, per raffinate acquisizioni in efficace bianconero. Ovverosia, nella propria configurazione a obiettivo grandangolare fisso, la Leica Q offre e propone qualcosa di proprio e individuale, oltre che dannatamente caratteristico: non variazione su tema noto e frequentato, ma dotazione risolutiva di mille e mille situazioni e condizioni della fotografia senza tempo. Ovviamente, qui torna d’attualità un dibattito antico, mai come ora di ulteriore stretta attualità e consistenza. Si tratta di rispondere a una domanda

specifica, che tiene conto del rapporto che inviolabilmente collega l’intenzione creativa ed espressiva della fotografia alla combinazione tecnica con i suoi utensili. Allora: esiste una “fotografia Leica” autonoma nel gesto e nell’esecuzione rispetto quanto realizzato con apparecchi reflex (e relative consecuzioni)? Personalmente, pensiamo di sì. All’interno della nostra convinzione che considera anche la mediazione tecnica (anche, non soprattutto; anche, non soltanto), e la relativa scansione tra grandi famiglie (dal grande formato a corpi mobili allo scatto a mano libera), approdiamo addirittura al rapporto che si instaura con il proprio apparecchio fotografico: assecondando le sue stesse prerogative, piuttosto che applicandole avendole individuate originariamente e preventivamente. L’accostamento lieve e discreto al soggetto e alla composizione, così endemico nella fotografia “a telemetro”, sta alla base di una applicazione che da questo dipende e a questo si riferisce. Quindi, la Leica Q ribadisce questa prerogativa: accostandosi con autorevolezza alle Leica M a obiettivi intercambiabili (alle quali offre un consistente contributo tecnico), partecipa con autorità e forza proprio alla “fotografia Leica”, che ha attraversato i decenni, imprimendo le proprie particolari doti e virtù sull’intera Storia della Fotografia. Discorso lungo, discorso altro, discorso controverso e controbattuto. Ma discorso emozionante. ❖



Mitch Epstein: Stabilimento a carbone di Gavin; Cheshire, Ohio, da American Power, 2003/2015 (C-print; 116,5x144cm).

© OLIVO BARBIERI / COURTESY SIEBENHAAR ART PROJECTS, FRANKFURT AM MAIN

Olivo Barbieri: Maranello, Modena; 2003/2014 (Archival Fine Art Photo Rag Baryta; Polittico in dieci parti, ciascuna 100x78,7cm).

48

di Urs Stahel

L

a fotografia industriale in senso classico è stata interessante fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, sin quando, cioè, la macchina fotografica professionale, il treppiedi, i grandi riflettori e flash da studio, i preparativi minuziosi e una tecnica del ritocco ben congegnata -sia sul negativo, sia sulla stamparestituivano l’immagine precisa, eccezionalmente nitida dell’industria. E questo era il compito richiesto al fotografo industriale. Nei grandi stabilimenti esistevano appositi uffici dedicati alla comunicazione, con fotografi, ritoccatori, litografi incaricati di produrre una documentazione fotografica il più possibile perfetta. Con le ristrutturazioni aziendali, i passaggi di proprietà, i controlli di gestione più rigorosi, negli ultimi trent’anni, molte imprese non solo hanno gettato via tonnellate di storia per immagini, ma hanno affidato la propria documentazione fotografica a circoli amatoriali interni o alla velocità di fotografi esterni che usavano il piccolo formato. La conseguenza è stata un deciso peggioramento, una perdita d’incisività della fotografia industriale; per qualche tempo è svanito ciò di cui andava fiera: la raffigurazione immanente di macchine, architettura, processi lavorativi e prodotti. Poi, la sempre maggiore invisibilità dell’universo produttivo, dovuta alla tecnologizzazione, alla digitalizzazione, alla delocalizzazione dell’industria pesante in paesi lontani dai salari più bassi, ha peggiorato la situazione. Ma le industrie hanno continuato a lavorare e svilupparsi, hanno trasferito e velocizzato i propri impianti e processi produttivi. Oggi utilizzano nuovi materiali, nuovi

dispositivi elettronici di comando, nuovi procedimenti, tra i quali la stampa 3D. Analogamente alla “rivoluzione culturale” che ha caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta, in Occidente, la società industriale è stata interessata da un secondo rivolgimento: la “rivoluzione hightech”, che -a propria volta- ha portato spiccati mutamenti nella vita e nel lavoro, ha prodotto la svolta verso la società dei servizi, ha proiettato il mondo nella cosiddetta epoca postindustriale. L’espressione indica l’era nella quale la tecnologia è in prima linea: grazie a innovazioni tecniche radicali e alla stretta interazione tra industria e ricerca, è stata in grado di sviluppare nuove soluzioni che hanno modificato sostanzialmente la concorrenza sul mercato. «Non sono i fattori “lavoro” e “capitale”, tanto meno la produttività delle risorse materiali ed energetiche o la risorsa per eccellenza, l’informazione, a rappresentare la chiave del cambiamento strutturale socio-economico, bensì i fattori produttivi “ricerca” e “tecnica”» (Rolf Kreibich: Die Wissensgesellschaft. Von Galilei zur High-Tech-Revolution ; Suhrkamp Verlag, 1986). Oggi poi, l’economia e la società mutano ancora più rapidamente grazie ai progressi nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e a Internet. La rivoluzione informatica ha dato una nuova fisionomia alle nozioni di spazio e tempo, modificandone profondamente il rapporto nella società postindustriale. «Le società del passato [...] erano radicate nello spazio e nel tempo. Erano tenute insieme da autorità politiche o amministrative organizzate su base territoriale e/o dalla storia e dalle tradizioni. La rivoluzione industriale ha innescato un progresso nello stato nazionale, sostituendo ai ritmi, alla cadenza della natura il passo della macchina. [...] Il computer, simbolo dell’epoca dell’in-

Proseguendo il cammino avviato nell’autunno 2013, l’autorevole Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), ribadisce l’analisi del rapporto sulla raffigurazione e rappresentazione del mondo industriale -proprio osservatorio statutario- con una selezione che osserva il presente. L’attuale Industria, oggi si presenta dopo precedenti visioni retrospettive, puntualmente registrate in cronaca. Per questa analisi fotografica contemporanea lasciamo la parola al curatore Urs Stahel: riprendiamo dal booklet che sintetizza l’esposizione. Più e meglio di qualsivoglia altra analisi, il testo affronta e risolve il punto di osservazione e l’analisi temporale. Del resto, è proprio questa la missione della parola che accompagna la fotografia: come sempre sottolineiamo e al cui concetto rimaniamo fedeli


INDUSTRIA ATTUALE

49

© MITCH EPSTEIN / COURTESY YANCEY RICHARDSON GALLERY, NEW YORK


NICHOLAS METIVIER GALLERY, TORONTO/GALLERIE SPRINGER, BERLINO COURTESY

© EDWARD BURTYNSKY /

La mostra Industria, oggi, al Mast di Bologna, presenta opere di Olivo Barbieri, Edward Burtynsky, Ariel Caine, Stephane Couturier, Ad van Denderen, Mitch Epstein, Simon Faithfull, Vincent Fournier, Peter Fraser, Jim Goldberg, Brian Griffin, Jacqueline Hassink, Miyako Ishiuchi, Richard Learoyd, Vera Lutter, Trevor Paglen, Sebastião Salgado, Allan Sekula, Bruno Serralongue, Henrik Spohler, Thomas Struth, Hiroshi Sugimoto, Carlo Valsecchi e Massimo Vitali.

50

formazione, pensa in nanosecondi, in migliaia di microsecondi. Di conseguenza, insieme all’innovazione tecnologica nel campo della comunicazione, crea una cornice spazio-temporale radicalmente nuova per la moderna società industriale» (Krishan Kumar: From post-industrial to post-modern society. New theories of the contemporary world ; Wiley-Blackwell, 2004). Scomparsa al più tardi negli anni Ottanta la fabbrica in senso tradizionale -buia, sporca, inquinante-, in Europa è emersa una nuova tipologia di stabilimento: lo showroom. In special modo nei grandi gruppi industriali, i processi produttivi vengono rappresentati e allestiti come pièce teatrali: la fabbrica diventa anche uno spazio espositivo aziendale orientato alla vendita. Nel mondo occidentale la fabbrica, la produzione sono inserite intenzionalmente nella vita culturale. Ne è un esempio la “fabbrica di vetro” che la Volkswagen ha costruito a Dresda per la produzione della Phaeton. Lo stabilimento si fa insieme luogo culturale e produttivo, assume persino carattere sacrale: può essere preso in affitto per allestire eventi e addirittura per celebrare matrimoni. «Qui viene montata, con pezzi provenienti da produzioni esterne, un’unica automobile: la berlina Volkswagen di classe superiore Phaeton. La

fabbrica di vetro serve all’impresa soprattutto per creare un’aura intorno al prodotto, risorsa intangibile di promozione del marchio a vantaggio del cliente. [...] I visitatori dell’impianto assistono alla produzione della Phaeton come a uno spettacolo. Il processo produttivo diventa parte integrante del marketing aziendale» (Julia Franke: Von der Produktion zur Performance. Fotografie der Dienstleistungsgesellschaft; 2010). Ma basta osservare il mondo nel proprio complesso per accorgersi della coesistenza, a seconda della regione, della latitudine, della cultura o del livello di sviluppo, di industrie e società preindustriali, industriali e postindustriali. Mentre in Europa, in un’economia basata prevalentemente sui servizi, le industrie sembrano ormai concentrarsi sulla ricerca, lo sviluppo, la gestione, altrove si continua a produrre a pieno regime, rilasciando fumi e gas di scarico nell’atmosfera. Ma l’influenza della produzione sulla società non è diminuita. Se ancora oggi possiamo ammirare immagini che informano e fanno riflettere sull’industria, non lo dobbiamo più ai pochi fotografi ancora rimasti all’interno delle aziende, ma agli artisti, alla particolare attenzione di fotografi spesso di impostazione concettuale che si interessano ai processi produttivi e al


© THOMAS STRUTH

loro legame con la società. Grazie alle domande che essi si pongono in merito ai rapporti di forza e all’influenza dell’industria sull’uomo e la natura ci continuano ad arrivare immagini istruttive dal gigantesco, colossale universo della produzione. Con la mostra Industria, oggi, il Mast presenta l’immagine dell’industria contemporanea nelle fotografie di ventiquattro artisti e fotografi moderni. Olivo Barbieri, per esempio, nella sua fotografia lunga sette metri raffigurante l’interno di uno stabilimento Ferrari, mostra come i capannoni siano ormai ambienti chiari, luminosi, arredati con grandi, verdi “piante da appartamento”, ma totalmente deserti. Come per la Ferrari, anche nel caso della Bmw o, come abbiamo visto, della Volkswagen, le fabbriche si trasformano in palcoscenici: «In due ore e mezzo di visita», recita il testo assai intrigante di una guida agli stabilimenti Bmw di Lipsia, «potrete assistere alla coreografia dal sincronismo perfetto degli oltre ottocento robot che operano nella zona carrozzeria, al lavoro di precisione eseguito dai robot nell’unità di verniciatura e all’allestimento dei veicoli, effettuato manualmente nell’area montaggio. Qui ogni Bmw diventa un pezzo unico e personalizzato».

Henrik Spohler e Vincent Fournier ci guidano attraverso un mondo di dati e prodotti, un mondo sempre più invisibile nel quale, ormai, solo i cartelli aiutano a orientarsi, perché spazio e tempo hanno perso la propria funzione di principali canoni regolativi. Carlo Valsecchi fotografa impianti produttivi contemporanei come fossero sculture a tuttotondo di una “science and industrial fiction”, un universo high-tech che influenza sempre più la nostra vita quotidiana. Trevor Paglen sembrerebbe prediligere la pura fotografia del cielo, se le molte strisce bianche non indicassero la presenza di orbite satellitari e sistemi di sorveglianza militare a elevata tecnologia. Ogni quattordici giorni il mondo viene fotografato in toto da telecamere satellitari delle quali approfitta Ariel Caine per le sue riprese aeree di impianti industriali. Nell’opera dal titolo Tokamak Asdex Upgrade Interior 2, Thomas Struth si occupa della ricerca tecnologica del Max-Planck-Institut. Nelle sue immagini, l’artista non mostra fabbriche, ma centri di ricerca, sottolineando lo stretto legame tra scienza e tecnologia nella società postindustriale. Queste fotografie rappresentano un commento critico alla nostra fede nel progresso tecnico e scientifico.

Thomas Struth: Interno del Tokamak Asdex Upgrade 2; Istituto Max Planck di Fisica del Plasma, Garchin, Germania, 2009/2011 (C-print 146x180cm).

(pagina accanto) Edward Burtynsky: Demolizione di navi #10; Chittagong, Bangladesh, 2000 (Digital C-print; 132x157,5cm).

51


© VERA LUTTER / COURTESY DELL’AUTORE, NEW YORK

Vera Lutter: Centrale elettrica di Battersea, II; 3 luglio 2004 (stampa ai Sali d’argento in copia unica; 192x427cm).

Brian Griffin: Jonnie Turpie, Digital Director, Maverick Television; Birmingham, Inghilterra, 2003/2013 (Pigment print; 53x53cm).

(pagina accanto, in basso) Jim Goldberg: Vlad #1 (ragazzo nel silo); Ucraina, dalla serie Open See, 2006 (Dye diffusion transfer print e inchiostro; 122x152,5cm).

52

© BRIAN GRIFFIN

(pagina accanto, in alto) Massimo Vitali: Calambrone (#0442); 1999/2013 (C-print; 185,5x235,5cm).


© JIM GOLDBERG / COURTESY DELL’AUTORE E PACE/MACGILL GALLERY, NEW YORK

© MASSIMO VITALI / COURTESY BRANCOLINI GRIMALDI GALLERY, LONDRA

Vera Lutter, dal canto proprio, nelle sue scure immagini stenoscopiche, continua a incentrare il proprio lavoro sull’oppressione, l’imponenza degli impianti industriali, mentre Miyako Ishiuchi documenta in un’ottica moderna la centenaria produzione della seta in Giappone. Infine, Richard Learoyd celebra un’elegia dei trasporti, della logistica nell’ambito della produzione e gestione industriale. Anche nella nostra epoca postmoderna, postindustriale, altamente tecnologica, il possesso e l’uso dei mezzi di produzione e delle competenze creano molteplici disuguaglianze sociali. Se Jacqueline Hassink, Allan Sekula e Bruno Serralongue si occupano di interrogativi e differenze all’interno della società, Ad van Denderen e Jim Goldberg contrappongono alle bianche fabbriche vuote le variopinte, flemmatiche correnti migratorie. L’opera di Brian Griffin riproduce il linguaggio del corpo dei Ceo e dei manager. Ed Burtynsky mostra dove e come vengano riciclate le grandi navi da carico, mentre la fotografia di Sebastião Salgado ricorda che, accanto agli impianti automatizzati, esistono ancora aree del mondo nelle quali si produce sfruttando intensamente la forza lavoro. Infine, nella fotografia di Mitch Epstein, due ciminiere fanno a gara nell’emettere il fumo. ❖

Industria, oggi: immagini contemporanee dalla Collezione di Fotografia Industriale della Fondazione Mast, a cura di Urs Stahel. Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 40133 Bologna; www.mast.org. Fino al 6 settembre; martedì-domenica, 10,00-19,00.

53


Primi anni Sessanta, pentaprisma per Rolleif lex (Nippon Kogaku / Nikon)


Porroflex

www.newoldcamera.com


Intervista di Beppe Bolchi

POLI.RADIO

56

BEPPE BOLCHI

D

Da un contatto occasionale, ma frutto di reciproca curiosità e ricerca, ho conosciuto Barbara Gemma La Malfa. Ero bardato come uomo-sandwich, ad Arles 2014, per sensibilizzare sulla validità e vitalità della Fotografia Italiana [FOTOgraphia, settembre 2014]. Il mio approccio deve esserle apparso singolare, tanto che mi ha invitato a parlarne all’interno di una trasmissione radiofonica che sarebbe andata in onda la settimana successiva, a commento e riflessione sullo svolgimento dei Rencontres. Mi apparve subito singolare che si parlasse di fotografia attraverso la radio, quasi in antitesi con l’ovvia invisibilità del mezzo, ma fui piacevolmente sorpreso e rinfrancato da come si svolse la comunicazione. La passione al servizio della cultura, per il gusto e piacere di farlo: aspetto che considero eccellenza assoluta della nostra bistrattata Fotografia Italiana. Pictures.of.you, titolo della trasmissione, va in onda ogni martedì, dalle 21,00 alle 23,00, sul sito web di Poli.Radio (www.poli radio.it/rock/player_audio.php), oppure tramite App gratuita Tunein disponibile per dispositivi iOS, Android e Windows8, che consente di seguire sulla relativa pagina Facebook. Pictures.of.you è una trasmissione affascinante, che si è occupata di mille e mille aspetti della fotografia, ospitando interlocutori di rilievo, spessore e valore: uno spaccato della fotografia a tutto tondo, con approfondimenti sulla sua cultura dei quali vorremmo poter usufruire più spesso, e che sono comunque disponibili in streaming sul sito di Poli.Radio. Grande iniziativa, pensata, realizzata e gestita con concentrato impegno personale e tanta passione da Daniele Ferrini, Barbara Gemma La Malfa e Ferrante Orcese dai microfoni di una emitten-

Lo staff di Pictures.of.you, programma radiofonico sulla fotografia, in onda su Poli.Radio, ogni martedì sera: Ferrante Orcese al mixer, Daniele Ferrini ai microfoni e Barbara Gemma La Malfa in redazione.

te radiofonica nata all’interno del Politecnico di Milano. Una piccola struttura con un grande cuore. Quando e come sono nate questa Radio e questa trasmissione? Daniele Ferrini: «Poli.Radio è nata nel 2007; abbiamo spento sette candeline lo scorso dicembre... siamo entrati nell’ottavo anno. È una emittente nata dagli studenti del Politecnico, ovvero da ragazzi che -attraverso una piattaforma web e un forumhanno condiviso il sogno di creare un sostanzioso momento di comunicazione e condivisione. «Con un progetto concreto, hanno realizzato una delle prime Web Radio universitarie, con un taglio ben definito. Poli.Radio è musicalmente attenta a un discorso un poco rock, con una specifica ricerca musicale, differentemente da altre emittenti che trasmettono principalmente musica hit. Poi, si affronta anche la vita degli studenti e si raccontano gli accadimenti del mondo. «Personalmente, entro come

collaboratore esterno, nel senso che gravitavo nell’ambiente universitario; comunque, Poli.Radio è interamente gestita da studenti universitari, però si apre anche a contribuzioni esterne, coordinate dallo staff. «Immediatamente dopo, è nata l’idea di un programma sulla fotografia, basato su esperienze personali. Si tratta di un progetto molto ampio». È vero. Ho analizzato gli argomenti dei quali avete parlato: tutti interessanti e documentati. Ancora, tutti in approfondimento della cultura fotografica, con un approccio ben diverso da altre superficialità, che si limitano alla quantificazione di pixel e dintorni. Daniele Ferrini: «È stata una mia idea; mi sono messo in gioco personalmente, e subito si sono uniti altri, a partire da Barbara [Gemma La Malfa], che ha impostato un taglio molto più professionale, permettendoci di ampliare ulteriormente il discorso. Però, l’idea di fondo era chiara: parlare di fotografia e cultura fotografica».

L’orientamento dei programmi e delle trasmissioni è comunque legato al mondo universitario e a ciò che può interessare l’Università. Daniele Ferrini: «Sì. Questo è un bellissimo esperimento di persone con passione, ma anche talento, perché per animare una Radio servono uno staff tecnico e uno redazionale. Per statuto, noi siamo soprattutto attenti al mondo universitario, anche se la facoltà di Ingegneria non è certamente feconda di spunti; però, sicuramente, l’intenzione è quella di intrattenere gli studenti, tanto che le fasce orarie più seguite sono quelle pomeridiane. «Uno dei primi esperimenti di ordine pratico ci impegnò ad aiutare gli studenti a entrare nel mondo del lavoro, a partire da come si compila un curriculum (queste nostre pillole radiofoniche sono state poi copiate; per esempio, da Radio 24). Ancora, abbiamo allestito RadioAttiva, una trasmissione attenta alla cronaca, che adesso è trasmessa da Radio Popolare, con lo


Intervista stesso staff. Una volta concluso l’iter accademico, molti studenti sono diventati professionisti, facendo carriera in questo senso». Torniamo a noi: perché una serie di trasmissioni dedicate alla fotografia? Daniele Ferrini: «Se osserviamo il panorama radiofonico italiano nel proprio complesso, manca un punto di riferimento che metta insieme chi è interessato alla fotografia come linguaggio, piuttosto dell’interesse alla fotografia come strumento. C’è un vuoto. «Ancora, penso che se analizziamo come la fotografia è trattata da riviste e siti, si riscontra un sostanziale disinteresse per la sua cultura (magari, argomento di nicchia). A conseguenza, la nostra idea è stata quella di affrontare argomenti di spessore attraverso un medium originariamente e apparentemente antitetico alla fotografia... che, invece, si coniuga bene: perché permette di completare il messaggio della fotografia. Soprattutto, di escludere la dimensione dell’immagine, per entrare in quella delle persone, degli eventi, dei fatti, dei racconti, della contemporaneità e di quello che succede nella società». Quindi, tutto è nato dalla vostra passione personale, che si è espressa per offrire qualcosa che non c’era. Mi avete visto come uomo sandwich ad Arles 2014, proprio per sensibilizzare sull’aspetto culturale di fondo, che in Italia non esiste [FOTOgraphia, settembre 2014]. Questo è uno degli esempi di chi agisce in maniera non convenzionale: per cui, sono curioso di sapere qual è l’audience, cioè quanto siete seguìti e che tipo di feedback avete dai vostri ascoltatori. Daniele Ferrini: «Prima di tutto, è opportuna una specifica, che riguarda la nostra azione: solamente persone non provenienti dal settore professionale della fotografia possono realizzare un programma di questo tipo, perché siamo apolitici e apartitici. Parliamo di fotografia a trecen-

tosessanta gradi; magari, non conduciamo inchieste, ma trattiamo tutto quanto contribuisce ad allargare il discorso. «Non ci interessa impegnarci nelle battaglie che spesso ci svolgono in fotografia, durante le quali ciascuno cura il proprio piccolo orticello; a differenza, noi cerchiamo di mettere un po’ tutto insieme. Forse è un approccio un poco naïf, però solo persone appassionate e che abbiano un minimo di competenza, ma soprattutto curiosità culturale, possono svolgere una ipotesi del genere. Quindi, c’è anche la singolarità di chi, nel terreno fertile di Poli.Radio, hanno permesso di realizzare questa trasmissione. «A partire dagli ascoltatori: ovviamente abbiamo cominciato rivolgendoci prevalentemente al mondo universitario; a seguire, proseguendo e registrando interazioni e voglia di partecipare, non solo come pubblico, ma anche come ospiti, il discorso si è allargato. In origine, ipotizzavamo un’udienza giovane, nel corso del tempo ci siamo trovati ascoltatori da ventotto a trentacinque anni, un poco più maturi delle previsioni. In ogni caso, ascoltatori che possiedono un certo tipo di competenza fotografica, e che vogliono saperne di più». Barbara Gemma La Malfa: «Secondo me, proprio la nostra impronta verso la narrazione e le storie -piuttosto che la tecnica, i materiali e le attrezzature- ha determinato la tipologia dei nostri ascoltatori. Nel senso che forse i più giovani sono affascinati dalla tecnologia, dal capire come funzionano l’apparecchio fotografico, l’obiettivo e i relativi tecnicismi, piuttosto che dal significato; mentre il nostro pubblico è sicuramente influenzato dal fatto che noi parliamo di contenuti, di come raccontare storie e di come sono state raccontate, facendo parlare direttamente gli autori... e ascoltandoli». Quanti ascoltatori? Barbara Gemma La Malfa: «Nel corso del tempo, c’è stato un incremento costante. Oggi, quando chiediamo a un fotogra-

fo o a un operatore del mondo della fotografia di partecipare a una trasmissione, constatiamo che una grande maggioranza, nell’ordine del novanta percento, già ci conosce. «Ancora, siamo riusciti a coinvolgere personalità di valore sempre maggiore. L’esempio di Grazia Neri è sintomatico; l’essere riusciti ad averla con noi per una intervista è stato importante». Escludete l’attualità? Barbara Gemma La Malfa: «No. Tutto dipende dalle possibilità organizzative e dalla disponibilità di ospiti adeguati». Daniele Ferrini: «Trasmettiamo due ore in diretta. Partiamo con un argomento principale, che fa da filo conduttore, che decliniamo assieme ai nostri ospiti. Non ci precludiamo niente: spaziamo in ogni direzione, riferendoci ad autori e temi, oppure le relazioni della fotografia, magari con la letteratura, i blog e i media. Più raramente ci interessiamo di eventi in svolgimento». In base alla vostra esperienza, qual è il livello di attenzione e sensibilità nei confronti della fotografia, soprattutto da parte dei giovani? Daniele Ferrini: «Nei giovani è molto alto, anche perché molti complementi della vita attuale sono basati sull’immagine. Con gli smartphone, l’immagine è diventata centrale, quindi sollecita attenzione. Il problema è canalizzare l’attenzione verso qualcosa di più strutturato. «Il nostro parlare di fotografia indirizza verso l’approfondimento di temi fondamentali (che spesso proponiamo in forma originale). C’è sicuramente un terreno fertile che deve essere arato». Un tentativo di inserire la fotografia nei programmi didattici è proprio impossibile in Italia? È qualcosa di molto più grande di noi, evidentemente; però, è grave che in Italia non esista una educazione all’immagine su base scolastica. Barbara Gemma La Malfa: «Ahimè, si sono ridotte perfino le ore di insegnamento della Storia dell’Arte!».

In ogni caso, complimenti a voi per il vostro contributo alla causa generale. Quindi, per concludere, quali sono le difficoltà di parlare di fotografia in Radio? Daniele Ferrini: «Più che difficoltà, ci sono opportunità, nel senso che in Radio la parola non deve prendere il posto dell’immagine, ovvero non vogliamo descrivere le fotografie. In verità, si può parlare di fotografia in tanti modi, sia di ciò che si legge in una immagine, sia di quello che non si vede, di ciò che è avvenuto prima e dopo la realizzazione dell’immagine, di ciò che l’immagine ha lasciato nell’autore e nel pubblico; e di ciò che tutti possiamo leggere come espressione culturale, sociale e politica. «Dunque, non ci sono difficoltà, solo un diverso approccio». Barbara Gemma La Malfa: «Attenzione anche ai nostri presupposti originari. Personalmente, siamo molto curiosi di capire come nascono le idee: e questo ha coinciso con gli interessi di un pubblico potenziale. Sono state trasmissioni emozionanti, quelle durante le quali, parlando con fotografi di spicco, sono stati manifestati criteri, metodi, orientamenti e avvicinamenti, che hanno fatto scoprire cosa ha dentro di sé ciascun autore. Ancora, in una trasmissione sulla donna fotografa è stato palesato un approccio del tutto personale e caratteristico rispetto alla descrizione e al racconto fotografici. «In definitiva, impostiamo i nostri incontri radiofonici per entrare nell’intimo degli autori e capire il loro pensiero sulla realizzazione dell’immagine. «In questo senso, la Radio è confortevole. Gli autori possono parlare, senza farsi vedere: e questo stimola commenti e osservazioni che in altre occasioni, in altri ambiti, non si sarebbero espressi con la stessa trasparenza. E, forse, sincerità. «Eccoci qui: la Radio è sincera. Come poco d’altro in questo nostro mondo attuale». Siamo d’accordo. Siamo perfettamente d’accordo! ❖

57


Nel 2006, il versatile banco ottico Silvestri S5 Micron è stato incluso nel selettivo novero degli oggetti di design insigniti del prestigioso e autorevole Premio Compasso d’Oro ADI. Onore a Vincenzo Silvestri e al designer Gabriele Gargiani. Il Premio Compasso d’Oro si offre e propone come il maggior riconoscimento alla progettualità e alla produzione italiana, e mantiene nel mondo un’elevata considerazione, dimostrata anche dal continuo successo delle mostre della Collezione storica.

*Ovviamente, non è vero: si tratta di stare insieme... con intelligenza


offerta unica a MILLE EURO!* Silvestri S5 Micron schiccolata


Mercantile di Maurizio Rebuzzini

COSÌ APPARE. MA!

Q

Quella che potrebbe essere definita e identificata “forbice” tra il racconto teorico della Storia della Fotografia -osservata sia dal punto di vista della fantastica ed entusiasmante consecuzione di immagini, sia con il passo cadenzato degli utensili (soprattutto, macchine fotografiche, obiettivi e pellicole)- e la sua proiezione tangibile sul nostro quotidiano sta vorticosamente allargandosi. Da una parte, magari quella dei sentimenti (perché no?), si collocano le passioni e partecipazioni individuali, perfino intime; dall’altra, vengono rinnovate considerazioni mercantili estremamente condizionanti e influenzanti. Attenzione, però, che non si tratta mai di imperativi assoluti e inderogabili, ma di indicazioni che vengono assorbite passivamente, senza alcuna contestualizzazione doverosa e necessaria. Intervenendo e interferendo sul ciclo originario di domanda-offerta, che sta alla base delle quantificazioni economiche di qualsivoglia comparto in propria proiezione commerciale -dunque, è implicito anche per quanto riguarda il collezionismo/antiquariato fotografico: di immagini e oggetti-, certi comportamenti legittimamente mercantili sono confortati da accettazioni giornalistiche passive, che elevano la plausibile registrazione di dati soggettivi a princìpio, dettame e, perfino, legge. In questo senso, siamo qui a registrare come le relazioni giornalistiche non dovrebbero essere passivamente consenzienti, ma avrebbero il dovere di fornire chiavi di interpretazione e disposizione dei fatti.

SUL MERCATO Sia che si tratti di fotografie in forma di collezionismo, sia che si tratti di attrezzature fotografiche in coincidente intenzione antiquaria/collezionistica, non si può mai ignorare (non si deve ignorare!) come e quanto esista anche un gioco al rialzo... ovverosia subordinazioni pilotate e indirizzate. Ragion per cui, la registrazione dello svolgimento di aste a tema non può, né deve, limitarsi al censimento e casellario di valori asettici, ma deve comprendere anche coincidenti chiavi di lettura.

60

Osvaldo Salas (1914-1992): gruppo di novantadue fotografie realizzate a Cuba tra il 1950 e il 1989, in stampe degli anni Ottanta (la maggior parte delle quali in formato 30x40cm), tutte firmate sul retro. L’intero lotto è stato aggiudicato all’asta di WestLicht Photographica Auction, di Vienna, lo scorso dodici giugno, per 24.000,00 euro.

Werner Bischof (1916-1954): Angkor Vat; Cambogia, 1952. Stampa vintage 17,2x25,4cm, con annotazioni d’agenzia sul retro. Aggiudicazione a 2160,00 euro.


Mercantile Manuel Álvarez Bravo (1902-2002): La Desvendada; Messico, 1938. Stampa 22,1x15,4cm degli anni Ottanta, firmata a margine. Aggiudicazione a 3600,00 euro.

Roy Schatt (1909-2002): James Dean guarda fuori da una finestra; New York, 1954. Stampa 20x19cm degli anni Settanta, firmata a margine e timbro dello studio sul retro. Aggiudicazione a 2880,00 euro.

A questo proposito, e in assoluto, per quanto riguarda la fotografia storica in intenzione collezionistica, non si può ignorare che i mercanti siano alla continua e costante ricerca di nuovi filoni, che integrino l’esaurimento possibile e potenziale di un comparto. Per esempio, interpretiamo in questo modo, anche in questo modo, la recente scoperta e invenzione di Vivian Maier, bambinaia con uso di fotografia, che è stata elevata al rango di autrice di prima grandezza. Sì, in una certa misura concordiamo con coloro i quali hanno sottolineato taluni suoi valori visuali ed espressivi (magari conformandoci ai sempre puntuali Sguardi su, di Pino Bertelli, che solitamente concludono la fogliazione della rivista: Vivian Maier, nell’aprile 2014). Però, l’intera campagna di beatificazione dell’autrice -sconosciuta fino a una mezza dozzina di anni fa- non può essere annotata senza considerare la sua regia mercantile, abilmente orchestrata con finalità, per l’appunto, commerciali. In coincidenza di intenti, ma con svolgimento diverso, come è ovvio che sia, anche le quotazioni antiquarie di quanto è conteggiato come possibile e potenziale collezionismo di apparecchi fotografici (e contorni/dintorni) è altrettanto abilmente guidato e orientato. Sappiamo di non essere affatto lontani dal vero quando ipotizziamo vendite conniventi (anche in sessioni pubbliche d’asta), orchestrate per innescare un gioco al rialzo che prima o poi venga raccolto dal collezionistaappassionato di turno, che si lascia convincere dall’apparente trasparenza delle contrattazioni precedenti.

WESTLICHT: A GIUGNO Per merito di un programma svolto in modo magistrale, per quanto avviato solo da una dozzina di anni, la doppia personalità di WestLicht Photographica Auction, di Vienna, è a dir poco autorevole: tanto da imporre le proprie aggiudicazioni periodiche e cadenzate come riferimento più accreditato dell’intero comparto. Nata come casa d’asta per il collezionismo di oggetti fotografici, e poi allargatasi anche alla fotografia d’arte, WestLicht Photographica Auction organizza e svolge un paio di sessioni di vendita all’incanto all’anno: in riferimento temporale, la data più recente, di metà dello scorso giugno, ha registrato la

61


Mercantile

dodicesima Photo-Auction e la ventisettesima Camera-Auction. A questo conteggio, si aggiunga la sessione speciale di fine maggio 2014, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede amministrativa e produttiva Leica a Wetzlar, con coincidente celebrazione del centenario dal prototipo UR-Leica [del ritorno a Wetzlar di Leica, abbiamo riferito nel giugno 2014; dell’asta, abbiamo relazionato il successivo luglio 2014]. Proprio riallacciandoci alla sessione d’asta 100 Years of Leica, svolta dalla viennese WestLicht Photographica Auction, in trasferimento temporaneo e motivato a Wetzlar, confermiamo che le aggiudicazioni dei cento lotti di apparecchi e accessori storici Leica (e altro a contorno) non debbono essere considerate come un assoluto inviolabile, ma vanno misurate anche alla luce dell’emozione del momento e della particolarità della situazione, che sicuramente hanno suggestionato più di un acquirente potenziale, magari trascinato dall’euforia del giorno particolare. Invece, per quanto riguarda la cadenza, diciamo così, standard, non possiamo ignorare tutto quanto già riferito riguardo la ricerca di nuovi filoni di fotografie da vendere e la possibile regia di aggiudicazioni manovrate a fini mercantili e commerciali: niente di men che lecito, sia chiarito subito, ma disinvolta interpretazione del proprio ruolo e mandato. Attenzione: è giusto che così sia! A questo proposito, per esempio, annotiamo che la recente dodicesima Photo-Auction di WestLicht Photographica (dello scorso dodici giu-

62

Prototipo del Leica Gun Rifle, realizzato dalla filiale Ernst Leitz New York, nel 1937. Spesso proposto e riproposto nelle più recenti sessioni d’asta di WestLicht Photographica Auction, di Vienna. Lo scorso tredici giugno è stato aggiudicato a 280.000,00 euro (probabilmente, è lo stesso lotto battuto a 300.000,00 euro all’asta 100 Years of Leica, del maggio 2014).

Manifesto Leica. Das kleine Photo-Wunder, dell’inizio degli anni Trenta per Optiker Koch, di Zurigo, disegnato da Hubert Saget. Aggiudicazione a 9000,00 euro.

Leica MP nera, con Leicavit MP e Summicron 5cm f/2, del 1957 (centoquarantuno Leica MP nere, su quattrocentododici Leica MP totali). Aggiudicazione a 264.000,00 euro.


Mercantile Reporter Book Camera prodotta da C.P. Goerz Berlin, nel 1889 circa, sovramarcata “E. Krauss & Cie Paris” per il mercato francese. Aggiudicazione a 33.600,00 euro.

Doppio lotto... in variazione dello stesso tema: Lancaster Watch Camera, in versione “Ladies’ Model” (di maggiore rarità) e “Men’s Model”, del 1890 circa. Aggiudicazioni a 36.000,00 euro e 21.600,00 euro.

Affascinante Damoizeau Cyclographe (panoramica a trecentosessanta gradi), del 1894 circa, in set con tre obiettivi originari in ottone. Aggiudicazione a 48.000,00 euro.

gno), scandita su trecentoventisei proposte, ha allargato il concetto e senso di fotografia da collezione, estendendosi anche a stampe (rigorosamente vintage) di seconda scelta, rispetto il soggetto noto e acclamato. Allo stesso momento, onore e merito ai curatori, che hanno saputo individuare nuovi giacimenti fotografici dai quali attingere: una sottolineatura, sopra tutte, per l’ampio capitolo della fotografia sovietica, che merita effettivamente propria identità storica (valori mercantili a parte). Allo stesso modo, anche la ventisettesima Camera-Auction di West Licht Photographica (tredici giugno) ha sottolineato la capacità fuori del comune di imbandire una vendita all’incanto particolarmente accattivante per il redditizio mondo del collezionismo fotografico. In ripetizione d’obbligo: non si prenda tutto per oro colato, ma si misuri l’ipotesi relativa e manipolata di talune crescite esponenziali di valore. In altrettanta ripetizione d’obbligo: si consideri con rispetto e stima la capacità di inanellare ben cinquecentosettantanove lotti di alto tasso... feticistico (detto con riguardo e senza alcun eventuale giudizio di demerito individuale). Comunque, e a conti fatti, lo svolgimento di queste sessioni di vendita all’incanto di fotografia, in equilibrio tra l’espressione creativa e il collezionismo di attrezzi storici, rappresentano un riferimento d’obbligo inevitabile e certo: i cataloghi virtuali, in formato Pdf, e la quantificazione delle aggiudicazioni sono disponibili dal sito www.westlicht-auction.com. ❖

63



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte giugno 2015)

I

MARY ELLEN MARK

I citrulli ragionano sempre al contrario: ecco perché la fotografia corrente ha il successo che merita... si fa per dire. Guy Debord diceva (o era Dante?) che è piuttosto con il coltello che bisognerebbe rispondere agli argomenti culturali/politici che imperano nella società del proprio tempo. Il linguaggio fotografico della seduzione mercantile serve a instaurare nell’immaginario collettivo una teoria di domesticazione sociale: è il linguaggio della vendita, cioè della prostituzione. Realizzare brutte fotografie del vero richiede del genio (che è sempre compreso, magari male, tuttavia mai disconosciuto, solo ignorato)! Scattare belle fotografie del nulla richiede del talento e notevoli dosi di stupidità (che è sempre celebrata in epoche come questa, dove un citrullo con la faccia da comico di seconda mano fa il primo ministro di una panacea d’imbecilli che dovrebbero vergognarsi di essere nati, quando sono di fronte a un’urna elettorale, una scheda in mano e come servi schiocchi si prostrano al letame che la politica, tutta, riserva loro). «Se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare», sosteneva Mark Twain, mentre Huckleberry Finn -un ragazzino orfano di madre, figlio dell’ubriacone della città- scappava dalla “buona educazione della civiltà” sul fiume Mississippi con una zattera, in compagnia di uno schiavo nero che inseguiva il suo più grande desiderio: diventare un uomo libero, proprio come Huck e il capo di una banda di ragazzini con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia, Tom Sawyer. Disprezziamo la fotografia del mercimonio e amatoriale, è vero, per quello che dice e per quello che è! L’indecenza della fotografia liquida (in una società esulcerata nell’apparenza) è un atto di aggressione, di sconcezze, di barbarie disperse nell’avvenire dei

nostri scontenti... si spaventa e si seduce al medesimo tempo. Ma la fotografia che vale è quella che non seppellisce il proprio genio nel successo... si è grandi fotografi e basta: e non lo si diventa né per consenso né per decreto... lo stile costituisce il solo legame tra la fotografia e la verità. Non detestiamo i nobili di spirito, solo gli appestati di ogni ricchezza espropriata agli ultimi, agli esclusi, ai violentati; alla razza di serpi della politica, della fede e dei saperi (che non sanno comportarsi con tatto, né grazia) preferiamo la compagnia di illetterati, folli o “quasi adatti” e ci “chiamiamo fuori” dal tempo della menzogna spettacolare che fa del mondo un villaggio e della gente animali da cortile.

sono -al tempo stesso- lo scopo; e governi, banche, partiti usano i media allo stesso modo delle bombe, per la colonizzazione del mondo: tutte cose che Friedrich Nietzsche, Niccolò Machiavelli, Baltasar Gracián, Walter Benjamin e Pier Paolo Pasolini avevano annunciato, invitando gli uomini a disertare e disobbedire alla fenomenologia delle merci... e, come “ladri di notte”, a infiltrarsi nelle pieghe dell’alienazione contemporanea, per cercare di rovesciare la beatitudine contemplativa delle masse. La fotografia (come tutti i media) è un palinsesto del comunicare nel quale s’imprimono filosofie, ideologie e concezioni del mondo della soggezione, e solo la trasmutazione

«Sono interessata alle persone borderline. Provo affinità con coloro che non hanno sfondato nella nostra società. Quello che voglio fare più di ogni altra cosa è riconoscere la loro esistenza» Mary Ellen Mark Nel proprio insieme, la fotografia è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine/simulacro e confessione della società spettacolare/liquida: perché, come sappiamo, «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord). La fotografia così pensata e così fatta non realizza la filosofia veridica della vita quotidiana, filosofizza la realtà falsa dei mercati globali. Il carattere fondamentale della fotografia mercantile deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi

dei valori dati può aiutare a ritrovare la strada che porta alla liberazione dell’immaginario sociale.

DI UNA FOTOGRAFA FUORI GIOCO (ANCHE) Dicono le note: Mary Ellen Mark nasce nella periferia di Philadelphia, in Pennsylvania, il 20 marzo 1940. È mancata a New York, lo scorso venticinque maggio. Inizia a scattare fotografie da bambina, a nove anni, con una box Kodak Brownie. Studia alla Cheltenham High Scholl, poi alla University of Pennsylvania, dove consegue una laurea in pittura e

storia dell’arte. Nel 1964, si laurea (ancora) con un Master in fotogiornalismo presso la Annenberg School for Communication and Journalism; l’anno successivo, ottiene una borsa di studio per fotografare in Turchia. Viaggia e fotografa in Inghilterra, Germania, Grecia, Italia e Spagna. Nel 1966, va a New York, si mescola alle dimostrazioni contro la guerra del Vietnam, s’affianca ai movimenti di liberazione delle donne, la cultura omosessuale, la miseria delle periferie. Di fatto, elabora una sensibilità etica/estetica che l’avvicina agli ultimi, gli esclusi, gli umiliati e gli offesi. Mary Ellen Mark lavora nella pubblicità ed è fotografa di scena in oltre cento film, tra i quali Alice’s Restaurant, di Arthur Penn, del 1969, Comma 22, di Mike Nichols, del 1970, Conoscenza carnale, ancora di Mike Nichols, del 1971, Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, del 1979, Fellini - Satyricon, di Federico Fellini, del 1969, Australia, di Baz Luhrmann, del 2008. Pubblica su Life, Rolling Stone, The New Yorker, Vanity Fair; i servizi/progetti sono molti e sovente straordinari... le sue fotografie sono esposte in tutto il mondo... i riconoscimenti e i premi non si contano [tra i tanti, ricordiamo il recente autorevole Outstanding Contibution to Photography Award 2014, premio alla carriera che accompagna lo svolgimento dei Sony World Photography Awards (FOTOgraphia, giugno 2014)]. A noi, tuttavia, interessa circoscrivere la ricerca all’iconografia di Mary Ellen Mark sui senzatetto, la tossicodipendenza, la prostituzione, la disperazione, la violenza delle periferie della Terra. Diciamo così: siamo portarti a studiare e entrare (con disinvolta insolenza libertaria) nelle pieghe affabulative di quanti fanno della fotografia una forma di disvelamento e di denuncia nella quale l’Uomo è

65


Sguardi su misura di tutte le cose e lo Stato niente! E questo implica un farefotografia totalmente privo di sacro: siccome tutto è falso nell’ordine costituito, tutto si può dire per lavorare alla sua caduta! Quando la pelle del reale cade in fotografia, la contro-morale degli Ultimi diventa incendio e si passa a una gaia scienza di liberazione.

MARY ELLEN MARK. NOSTRA SIGNORA DELLE PERIFERIE Il cantico fotografico di drogati, barboni, poveri, puttane, di chi non ha voce né volto, che fuoriesce in molti lavori di Mary Ellen Mark, è avvolto in un’aura di amorosa condivisione con l’umanità emarginata delle periferie. La materia e la memoria (Henri-Louis Bergson), che sono alla base della sua iconografia, ci fanno comprendere l’odore del mondo e anche il lezzo sul quale gli arricchiti poggiano il proprio successo. La violenza, la solitudine, la tristezza, l’esclusione sono riflessi negli sguardi, nei corpi, negli atteggiamenti delle persone fotografate. La realtà è investita di dignità, risponde a interrogazioni dell’esistente e le porta alla luce della vita quotidiana. I potenti non rivestono gli dèi del consenso se non con le armi che producono, smerciano e quotano in borsa. I poveri guardano impauriti la propria faccia sfigurata nei ballatoi della storia, e la politica della terra bruciata si accorda sempre con le urne elettorali e la soppressione dei diritti più elementari dell’Uomo. In modo particolare, le immagini di Mary Ellen Mark sulle periferie dicono -almeno ci sembra- che la sofferenza è la sostanza di ogni vita offesa; e la comprensione, la tolleranza e la benevolenza sono strumenti (dei dominatori) per perpetuare una felice ignoranza e una prolungata oppressione. La pedagogia dell’autoritarismo è la somma teologica di ogni repressione, e i nemici da liquidare sono la follia, la sregolatezza, la ribellione che respingono l’infelicità come possono. Il malessere della civiltà dello spettacolo è il brulotto (ancora inesploso) sotto il culo del potere: e capita persino che qual-

66

che volta anche i massacrati dalla storia strappino le ali ai profeti di cartapesta... e si assumano il compito di fare piazza pulita della “grande” scuola dei tiranni. I bambini con le pistole, i drogati sfiniti, i poveri ammucchiati sui marciapiedi, le donne violate, le persone estremizzate, le lotte per la conquista al diritto di avere diritti di tutti gli Uomini e le Donne che fuoriescono dalle fotoscritture di Mary Ellen Mark detergono la castrazione sociale del mondano e restituiscono agli spossessati di ogni dignità i propri meriti e le proprie qualità, i propri profumi di comunità. Anche il fetore del Potere si riconosce di conseguenza, e anche se i potenti dicono di non puzzare, perché s’inebriano di “griffe” santificate, puzzano lo stesso di sterco! Non moriranno nemmeno eleganti, come pensano! Si pisceranno addosso dalla paura, come tutti, quando riconosceranno i violentati dal dolore dei secoli dalla lama che accompagna la loro rabbia alla gola del primo ministro, banchiere, generale o papa vestito Armani. Non ci può essere nessuna libertà, fino a quando anche un solo Uomo soffre sulla Terra. La figurazione della fame, della violenza, della diserzione, della distruzione, dell’odio, che deborda dalle immagini di Mary Ellen Mark, non è mai accusatrice, anche quando non condivide la situazione di emarginazione che l’accompagna. La fotografa cerca di capire, di comprendere, di calarsi negli “abiti” dei fotografati... e quello che porta nella sua macchina fotografica è un trattato di sensazioni, di emozioni, di amori per l’escluso: affina una genealogia della morale su una parte dell’umanità confinata nel disprezzo e nella cattività, e -con la grazia, la leggerezza, la fecondità dell’accoglienza di donna ai confini dell’estremoelabora una particolare cartografia dell’amorevolezza. Quando è vissuta anzitutto nel sangue dei giorni, la fotografia acquista un’eccezionale carica di verità. Il ragazzino che nasconde la pistola sotto il giubbotto, i ragazzini che si lavano con l’acqua

fredda, la solitudine della donna nuda nella vasca da bagno, il bambino malato nel letto bianco, l’ago che entra nel braccio della ragazza in nero... la ritrattistica dei rom, dell’omosessualità, delle lotte sociali, della prostituzione, della follia abbandonata, della disperazione accettata... tanto per fare qualche esempio... contengono una sapienza architetturale di rara bellezza: qui Mary Ellen Mark mostra che il grande fotografo non è mai autore di molti “successi” variamente modificati... è una sorta di poeta, di musicista del reale che continua ad effettuare variazioni sul medesimo tema. L’intera opera di Mary Ellen Mark è consacrata a vedere, precisare, affinare, correggere, aggiungere, fotografare e rifotografare il corpo e la coscienza umiliata del proprio tempo. Le fotoscritture in bianconero di Mary Ellen Mark esprimono stati sublimi del disincanto, eccessi di vitalità, colgono l’essenza dell’immediato che si trascolora nel giusto e fissano nel bello le tensioni della storia sconsacrata, per non dimenticarla. Il suo linguaggio fotografico non è per niente semplice... l’inquadratura è scarna, forte, diretta... la composizione che ne consegue elabora un’antropologia della visione nella quale l’intuizione è anche il risultato... la vicinanza fisica con i soggetti fotografati è quella amicale... i corpi presi all’interno delle propri ambienti rivelano un mondo... il senso della misura e del rispetto risplendono nel vero. Quando la fotografia non è propedeutica al sistema mercantile che la sovvenziona, rompe gli schemi del miserabilismo e conferma che tutto il resto è trucco. La fotografia del sentire di Mary Ellen Mark contiene la meraviglia e lo sconcerto, mostra che i momenti di raffinatezza nascondono un’infanzia intramontabile e un princìpio di vita nel quale gli Uomini e le Donne cercano di toccare la felicità con la punta delle dita. «Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi», diceva Antoine de Saint Exupéry, ma solo se si possiede

(come Mary Ellen Mark) il coraggio della verità si può accedere a una poetica dello sguardo che corrisponde agli interrogativi disancorati dalla rassegnazione dell’universo quotidiano. Va detto. La fotografia di strada non è quella fatta nella strada (come insegnano storici, galleristi, fotografi della mediocrità accettata e venduta a musei, centri commerciali e adatta a confezionare calendari con l’imperio vaneggiate di “opera d’arte”)... vero niente. Le anime morte della fotografia lo sanno... si rifugiano nel successo per dimenticare la paura di essere scoperti... tutto s’impara, anche la devozione per il mercato, la banalità, il servilismo. Il cinismo dei fotografi si concilia con quello dei potenti e persino con le vittime che hanno “divorato” con la macchina fotografica, senza sapere mai che la fotografia così fatta s’instaura sul crollo della bellezza, che è un “chicco di grano”, e quando muore nel giusto, nel buono, nella libertà, diventa fiore di giustizia. La fotografia di strada si fa con l’umanità della strada... dove fotografo e soggetti s’incontrano e respingono l’intolleranza, la brutalità, il provincialismo di un’epoca. La solitudine della conoscenza e il rifiuto della cattiveria lega uomini, donne, angeli, santi, madonne, puttane, banditi, folli, diversi al disagio della civiltà... e camminano insieme verso la liberazione dai saprofiti, dai corrotti, dai criminali che fanno professione di governare. La fotografia di strada non si stupisce che l’ultimo dei vagabondi valga più del primo ministro di un paese di cialtroni... è una questione di stile... al fondo della saggezza incompleta della fotografia di strada c’è l’intima soddisfazione che la distruzione dei simulacri porta con sé quella dei pregiudizi: se cerca un destino, non lo può che trovare sulle rovine di tutto ciò che sostiene la civiltà dello spettacolo. Il ricco si è accorto del povero soltanto quando aveva la canna del fucile in bocca! E non era un film! Ma una villanìa da fine del (di questo) mondo. ❖




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.