FOTOgraphia 214 settembre 2015

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XXII - NUMERO 214 - SETTEMBRE 2015

Leitz List DIRE POCO, FARE MOLTO Ottav... Jano TRECENTOSESSANTA GRADI Foto/Industria 2015 PRODURRE E PRODURRE

GIOVANNI GASTEL RINASCITA DELLA FOTOGRAFIA


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prima di cominciare NELLA CORNICE. Come spesso c’è capitato, e come abbiamo più volte segnalato, ecco qui un ennesimo ritrovamento in un mercatino antiquario, uno dei tanti che animano le giornate festive delle e nelle nostre città. Questa volta si tratta dello spartito di una canzone cantata da Natalino Otto e Antonio Basurto al Festival di Sanremo del 1955. Con testo e musica di Mannucci e Fecchi, Una fotografia nella cornice arrivò settima alla finale del Quinto Festival della Canzone Italiana, che si tenne a Sanremo, dal 27 al 29 gennaio 1955 (sessanta anni fa), il primo trasmesso anche dalla televisione, in collegamento dalle 22,45, al termine del celebre varietà Un due tre, di Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Il Festival fu vinto da Claudio Villa e Tullio Pane, con Buongiorno tristezza. Il testo di Una fotografia nella cornice è terribile, ma la musica è anche peggio. Lo riportiamo per dovere (?) di cronaca.

La fotografia non serve a niente se non offre risposte. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Se si è afferrato calembour (circa), sono contento di stare in buona compagnia. Se non si è capito, mi spiace: sono responsabile di ciò che dico (e scrivo), non di quello che capite. mFranti; su questo numero, a pagina 8 La libertà non è qui, né là, ma dentro ciascuno... la vita è rottura, eresia, dirottamento dalle norme imposte... il delirio dei potenti va fermato. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66

Copertina Per tanti versi, molti dei quali sottoscriviamo (!), il celebrato Giovanni Gastel asserisce che l’attualità tecnologica della realizzazione di immagini determini e definisca -addirittura- una autentica e affascinante Rinascita della Fotografia. Lo certificano i termini di un’epoca nella quale l’applicazione professionale può progettare fantastiche interpretazioni e soluzioni. Portfolio d’autore, con parole a commento, da pagina 34

3 Fotografia nei francobolli

Nella mia stanzetta già da tanto tempo c’è una cornicetta stile quattrocento una saggia mano l’ha dipinta con amor qualche foglia d’oro e uno stemma con due cuor. Nella vecchia cornice ho cambiato fotografia quel visetto felice non c’è più se n’è andato via ma nel toglierlo ahimè ho provato un non so che c’era scritto “voglio bene solo a te” par che dicano i fiori ma perché se n’è andata via e lo stemma coi cuori soffre molto di nostalgia quella patina d’or contro il tempo lotta ancor lentamente perde il magico splendor. Restò vuota così la cornice molti dì solitaria e triste senza quel visin. Ma oggi sono felice una nuova fotografia dentro quella cornice fa fuggire ogni nostalgia non sapete chi è non lo posso dir perché Nella vecchia cornice rimarrà la fotografia con la frase che dice “Questa dedica non è mia” me l’ha scritta mammà, tanti baci al mio papà la canzone del mio amor finisce qua... finisce qua È il quadretto della mia felicità.

Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo delle Salomon Islands, emesso il 21 aprile 2006, per celebrare l’ottantesimo compleanno della regina Elizabeth II del Regno Unito. Un altro valore, da quindici dollari locali, è contenuto in un foglio Souvenir di quattro soggetti filatelici più sette ritratti della stessa regina, in età crescenti. Anche le Pitcairn Islands hanno realizzato una serie filatelica analoga, nella quale -però- questo stesso ritratto della regina con Leica M3 è uno dei sette che accompagnano il foglio Souvenir; ancora, emissione del 21 aprile 2006

7 Editoriale Fotografia a parte, come anche fotografia compresa, attorno a noi agisce una Casta di prepotente volgarità. Tutti noi dobbiamo continuare a svolgere il nostro dovere

8 Richard Avedon Incontro certificato del 22 settembre 1994. Con firma

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Gabriele Basilico È stato lanciato un Premio di Fotografia di Architettura


SETTEMBRE 2015

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

14 Basilico Milano

Anno XXII - numero 214 - 6,50 euro

A cura di Giovanna Calvenzi, avvincente monografia a tema dichiarato, da una straordinaria ricerca d’archivio

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

18 Con quegli occhi Consistenza fotografica nel film Gli occhi di Laura Mars Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

22 Un eterno istante (Per modo di dire) Autobiografia di Giovanni Gastel

24 Dire poco, fare molto L’opera meritoria attraverso la quale Ernst Leitz II ha salvato centinaia di perseguitati dal nazismo in una edizione illustrata per bambini. Non dimenticare

28 E, ora, dp0 Quattro Ulteriore configurazione del particolare sistema Sigma

30 Sguardo a nord Acquisizioni recenti della Fondazione Fotografia Modena

34 Rinascita della fotografia La fotografia allude al reale... è una aggiunta alla realtà. Portfolio di Giovanni Gastel, tra i fotografi contemporanei più noti e conosciuti, che crea mondi di eleganza di Maurizio Rebuzzini

45 Produrre! A Bologna, seconda edizione della biennale Foto/Industria

51 Sottile la linea Mostra di Francesca Salice, fotografa dal cuore grande: versi di un canto che si svolge istante dopo istante di Antonio Bordoni

56 Doppio passo sincronizzato Fotografia panoramica a trecentosessanta gradi di Piero Ottaviano e Giorgio Jano: a Torino e Milano di Angelo Galantini

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Giovanna Calvenzi mFranti Emilio Frisia Angelo Galantini Giovanni Gastel Giorgio Jano Chiara Lualdi Piero Ottaviano Franco Sergio Rebosio Francesca Salice Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

62 Arriva Xeen Gamma di obiettivi Samyang per video e cinema

64 Ai Weiwei Sguardo sulla fotografia del dissidio (e della differenza) di Pino Bertelli

www.tipa.com


Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato

di Alessandro Mariconti

via Foppa 40 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it

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editoriale ANTONIO BORDONI

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ircondati! Nello svolgimento della nostra vita quotidiana, composta di gesti che si ripetono, impegni da assolvere e riferimenti ai quali richiamarsi, siamo circondati da altre esistenze cadenzate secondo princìpi estranei al corso comune delle nostre giornate. In particolare, e soprattutto in malafede, attorno a noi si recitano spartiti e sceneggiature divergenti da quanto viene ufficialmente identificato come comportamento socialmente idoneo (e accettabile). Nello specifico, ci sono interessi e poteri che si basano sul nostro ingenuo rispetto di regole e convenzioni. Per esempio, tutti noi crediamo che la sanità sia argomento primario del vivere civile, e a questo ci atteniamo: per altri, la farmaceutica è uno dei più clamorosi e lucrosi affari dei nostri giorni, con relativi condizionamenti (truffaldini) alle scelte politiche in materia. Ancora. Giorno dopo giorno, siamo richiamati a comportamenti coerentemente declinati sul vivere sociale e responsabile -raccolta differenziata dei rifiuti, sprechi da evitare, offerte da elargire a nobili cause-, con relativo aggravio di sensi individuali di colpa nel caso in cui... non dovessimo ascoltare; mentre il Potere scorre e vive su un altro binario, divergente. Per esempio, lo scorso agosto abbiamo saputo che la stampa delle proposte di modifica a una legge discussa in Senato costerebbe allo Stato (ci costerebbe!) circa un milione di euro. Mentre noi cittadini siamo colpevolizzati se consumiamo carta a sproposito -e così, scriviamo sul retro di fogli già usati, recuperiamo brandelli di carta, ci impegniamo nella raccolta differenziata-, lo Stato se ne frega bellamente. Serenamente (?), i conti sono presto fatti: le proposte di modifica sono state raccolte in cento tomi, di mille pagine ciascuno, per un totale di centomila pagine, che si traducono in circa 2900,00 euro di costi di stampa. Se si stampassero le trecentoventuno copie per senatore -ognuno dei quali ha il diritto di chiederla-, il costo complessivo dell’operazione sarebbe di 930.900,00 euro. A questo si aggiungono le economie di scala e delle strutture di gestione: ogni tomo di mille pagine pesa due chili e mezzo, con un carico conseguente di due quintali e mezzo per senatore; fino alle ottanta tonnellate (80.250kg) complessive. Dieci volte di più delle proposte di modifica per l’Italicum di qualche tempo fa. Tutto questo significa molto per se stesso -nel senso del divario tra la vita individuale e quella pubblica, del cui disprezzo per la vita individuale questo riferito è solo uno dei mille e mille e mille esempi richiamabili- e per molto d’altro: a partire, dalla considerazione dell’essere circondati da autentici mascalzoni che fingono di parlare a nome nostro. Allora, cosa possiamo fare per sopperire al volgare strapotere della Casta, spesso supportata da certo giornalismo? Non molto, ma qualcosa, sì, possiamo farla. Per esempio, possiamo continuare a svolgere la nostra vita quotidiana anteponendo il dovere al diritto, seguendo inviolabili princìpi di etica e morale (e garbo, eleganza, galateo, riconoscenza, gratitudine). Ciò detto, occupiamoci di fotografia e del proprio circondario. Maurizio Rebuzzini

Mentre noi cittadini siamo colpevolizzati se consumiamo carta a sproposito, lo Stato spende circa un milione di euro per stampare copie di emendamenti di legge destinate ai nostri senatori. È una volgarità della Casta, alla quale dobbiamo replicare con senso di dovere (e etica, morale, garbo, eleganza, galateo, riconoscenza, gratitudine).

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Mi ricordo di Maurizio Rebuzzini (Franti)

RICHARD AVEDON

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(pagina accanto) Settembre 1994: il giorno dell’inaugurazione della Photokina, giovedì ventidue, Richard Avedon firma la pagina di Junior Bazaar, del marzo 1951, in prossimità dell’accredito «Kodachrome by Richard Avedon». A destra dell’inquadratura, George M. C. Fisher, ai tempi Ceo della Eastman Kodak Company.

Pagina di Junior Bazaar autografata da Richard Avedon. Il suo servizio di moda è composto da tre fotografie nelle quali le modelle sono inquadrate con accompagnamento di elementi fotografici. Due volte con rulli di negativi 120, e relative esposizioni quadrate 6x6cm, appesi ad asciugarsi (e questa è una delle due immagini), e una volta con biottica Rolleiflex 6x6cm su treppiedi.

di quanto è stata la sua. Infatti, io sono potuto tornare a casa vantandomi di aver incontrato Richard Avedon, lui non è potuto rientrare a casa sua, di sera, dicendo di avermi incontrato. Se si è afferrato calembour (circa), sono contento di stare in buona compagnia. Se non si è capito, mi spiace: sono responsabile di ciò che dico (e scrivo), non di quello che capite. Dei due incontri originari con Richard Avedon, in occasione della Photokina e della sua mostra al Ludwig Museum, mi rimangono un paio di ricordi tangibili, accompagnati dall’immancabile fotoricordo (in anticipo sulla fobia e compulsione dei selfie, che sono fenomeno fotografico successivo al settembre 1994 al quale sto riferendomi: esattamente ventuno anni

fa). In ordine inverso, comincio dalla fotoricordo [pagina accanto], scattata nel momento nel quale Richard Avedon sta firmando una pagina di Harper’s Bazaar, del marzo 1951 (antecedente la mia nascita, questo mi piace annotarlo), sulla quale, in accredito, è certificato «Kodachrome by Richard Avedon»: e questa pagina autografata è il secondo dei ricordi tangibili che ho appena anticipato [qui sotto]. Rimaniamo qui. Richard Avedon ha firmato in prossimità dell’accredito appena riferito, sulla seconda pagina di un suo servizio di moda distribuito sulle prime tre facciate dello spinoff Junior Bazaar, inserito nella fogliazione di Harper’s Bazaar, ideato dal leggendario art director Alexey Brodovitch -personalità fondante della storia della moda,

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Q

Qualcuno avrebbe annotato, e scritto, che le coincidenze sarebbero gli unici accadimenti che rivelano che la vita possa avere un qualche senso (o giù di lì). Da qui, una coincidenza individuale. Il mio primo contatto diretto con Richard Avedon, che successivamente avrei incontrato in altre occasioni, è avvenuto in occasione della Photokina 1994 (dal ventidue al ventisette settembre): la prima che ho svolto per FOTOgraphia, testata nata nel maggio precedente. L’ho avvicinato in due giorni successivi: martedì venti, a una cena organizzata da Eastman Kodak Company, nei pressi di Colonia, per la quale il celebre e celebrato fotografo era ospite d’onore; due giorni dopo, giovedì ventidue, in occasione di una visita guidata alla sua imponente retrospettiva Richard Avedon 1944-1994, al Ludwig Museum, di Colonia, in cartellone dal dieci settembre al trenta ottobre, prodotta con il fattivo contributo di Kodak, allora ai vertici assoluti del mercato fotografico (a seguire, all’inizio del 1995, grazie a Versace, la stessa mostra fu allestita anche a Palazzo Reale, di Milano, dal diciotto gennaio al cinque marzo [FOTOgraphia, febbraio 1995]). Per coincidenza, eccoci!, la notizia della scomparsa di Richard Avedon, mancato il Primo ottobre 2004, a ottantuno anni, mi ha raggiunto domenica tre ottobre, all’aeroporto di Colonia, in partenza per Milano, alla conclusione della Photokina (dal ventotto settembre al tre ottobre, per l’appunto). Ci sono persone, e qualcuna l’ho anche incontrata e frequentata, fortunatamente per poco, che usano attestare di aver conosciuto personaggi pubblici, declinando in “conoscenza” brevi e fugaci incontri casuali. A differenza, non posso assolutamente affermare di aver conosciuto Richard Avedon, uno dei pilastri della fotografia mondiale del secondo Novecento, al top di qualsivoglia elenco che ne conteggi le personalità di spicco. Soltanto, ci siamo incrociati in una mezza dozzina di occasioni. Tanto che posso quantificare che la mia esistenza sia assolutamente più ricca e gratificante


Mi ricordo dell’editoria della moda e della fotografia di moda-, nel 1945, e affidato a Lillian Bassman (1917-2012), che poi divenne una straordinaria fotografa di moda. Tre le immagini di questo rapido servizio, realizzato dall’allora ventottenne Richard Avedon. Tre composizioni nelle quali le modelle sono inquadrate con accompagnamento di elementi fotografici: due volte con rulli di negativi 120, e relative esposizioni quadrate 6x6cm, appesi ad asciugarsi (nella ipotesi scenografica), e una volta con biottica Rolleiflex 6x6cm su treppiedi. L’altro ricordo materiale che ho del mio primo incontro con Richard Avedon, distribuito su due giorni ravvicinati del settembre 1994, è il suo segnaposto alla cena Eastman Kodak Company, di martedì venti: sul fronte, spicca la dicitura ufficiale e certificante “Richard Avedon”, per l’appunto; all’interno, c’è la dedica personalizzata “For Maurizio from Avedon”. E questa non la illustriamo. Bisogna fidarsi... basta la parola. ❖


Notizie

a cura di Antonio Bordoni

PER SALA DI POSA. Accreditata produzione fotografica cinese, Linkstar sta imponendosi tra le eccellenze dell’offerta tecnicocommerciale dei nostri giorni, soprattutto con una linea di flash elettronici monotorcia di sostanziosa efficacia, proposti a prezzi di acquisto/vendita particolarmente convenienti. A questo sistema, scomposto in diverse famiglie, ognuna cadenzata in potenze lampo adeguatamente scandite, si aggiunge ora una lampada Led regolabile, che nel proprio aspetto riprende e ripropone la configurazione dei flash monotorcia, in modo da condividere l’ampio parco di accessori. Ovviamente, la luce Led è continua, e si propone e offre sia per riprese fotografiche sia per riprese video. La lampada Led dell’unità regolabile Linkstar LPS-2100 CTR ha un alloggio in metallo con raffreddamento, che la rende adatta a un uso frequente. La stessa lampada Led può essere regolata su dieci canali e cento sottocanali, adeguati quando si vogliano usare più lampade LPS2100 CTR simultaneamente. In abbinamento ideale, Linkstar annuncia anche la parabola ripiegabile FESR-70S, che crea una uscita di luce ampia e di medio contrasto. Grazie al telo diffusore incluso, la parabola fornisce un effetto di luce morbida, ma allo stesso tempo in qualche modo lucente, che è particolarmente adatta per evidenziare i toni dell’incarnato e dei volti. Ha un diametro di 70cm, ed è ideale per la fotografia di ritratto e di moda. Il vantaggio di questa efficace parabola è che è ripiegabile come un ombrello riflettente.

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Con anelli adattatori predisposti (accessori opzionali), può essere usata su torce flash Bowens, Broncolor, Elinchrom, Hensel e Multiblitz. (Silvestri Fotocamere, via della Gora 13/5, 50025 Montespertoli FI; www.silvestricamera.com).

BEL GRANDANGOLARE. Il nuovo Fujinon XF 16mm f/1,4 R WR è un grandangolare luminoso che incrementa la proposta ottica del sistema X, per apparecchi CSC (Compact System Camera, già Mirrorless), confermando una apertura relativa particolarmente generosa: si accompagna agli obiettivi XF 23mm f/1,4 R, XF 35mm f/1,4R, XF 56mm f/1,2 R e XF 56mm f/1,2 R APD. Sui sensori di acquisizione di dimensioni inferiori, equivale alla focale 24mm sul formato fotografico 24x36mm, di inevitabile riferimento d’obbligo.

La massima apertura relativa f/1,4 consente un’elevata qualità formale delle immagini in condizioni di scarsa luminosità e un gradevole effetto bokeh nella fotografia macro, con una distanza minima di messa a fuoco di soli 15cm. L’obiettivo è dotato di un rapido autofocus e di una struttura resistente alla polvere e agli agenti atmosferici, che ne garantisce l’operatività con temperature fino a meno dieci gradi. Il disegno ottico del Fujinon XF 16mm f/1,4 R WR è composto da tredici elementi divisi in undici gruppi, in una combinazione che comprende due lenti asferiche e

due lenti ED, che riducono le aberrazioni sferiche e cromatiche per ottenere immagini nitide e dettagliate anche alla massima apertura f/1,4. La qualità formale delle immagini è ulteriormente migliorata dall’esclusivo rivestimento Fujifilm HT-EBC applicato su tutte le superfici delle lenti e dal rivestimento Nano GI Coating, che è stato applicato alle superfici posteriori delle lenti del Gruppo Uno. Questo rivestimento modifica l’indice di rifrazione tra vetro e aria, riducendo riflessi e immagini fantasma generate dalla luce che incide diagonalmente. (Fujifilm Italia, Strada Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it).

ARRIVERÀ IN ITALIA? Anticipato nella nostra relazione dalla Photokina 2014 [FOTOgraphia, novembre 2014: voglia, coraggio e capacità di andare oltre l’ovvio e il palese, per incontrare anche produttori “minori”, ma avvincenti], sarebbe ora disponibile l’affascinante medio tele Mitakon Speedmaster 85mm f/1,2, in baionetta per reflex Canon EF, Nikon F e Sony FE. Ipotizziamo che “sarebbe”, perché l’obiettivo è disponibile, in produzione cinese Zhong Yi Optics, ma non si è ancora fatto avanti alcun distributore italiano. Lo aspettiamo. Certo, siamo sinceri, le potenzialità commerciali di questa avvincente interpretazione ottica, che riprende e richiama sapori fotografici di tempi (tra)passati, non prevedono vendite in sostanziose quantità, ma anche la nicchia di coloro i quali sanno apprezzare una tale luminosità relativa e -soprattutto- saprebbero metterla a buon frutto non è affatto inconsistente: non raggiunge vette mercantili, ma non sarebbe neppure da sottovalutare. Però, siamo ben lontani da metterci a fare i conti in tasca ad altri, a giudicare mestieri e professioni

delle quali conosciamo soltanto l’apparenza a tutti evidente. In ogni caso, e nel concreto, il Mitakon Speedmaster 85mm f/1,2 promette e propone prestazioni ottiche di alto livello, già dall’eccellente apertura relativa, che ben assolve le situazioni di scarsa luminosità relativa. Con copertura completa dei sensori full frame, e -per conseguenza diretta- del fotogramma 24x36mm su pellicola, l’obiettivo è specificamente indirizzato al ritratto fotografico, al quale offe un adeguato controllo individuale della sfocatura dei piani di accompagnamento del soggetto inquadrato. Dal punto di vista qualitativo, in senso formale dei termini, si segnala la combinazione ottica di nove elementi divisi in sei gruppi, comprensiva di due lenti a basso indice di dispersione e quattro con elevato indice di riflessione. A conseguenza, le aberrazioni sono contenute al minimo, con accompagnamento di alta nitidezza e contrasto ottimale, già a partire dall’apertura relativa f/1,2. A messa a fuoco manuale, questo medio tele si propone anche per la ripresa video. (Shenyang Zhongyi Optical & Electronic Company Limited; www.zyoptics.net). ❖



Premio Cinema di Angelo Galantini

GABRIELE BASILICO

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A fine giugno, è stato presentato il Premio Internazionale di Fotografia di Architettura e Paesaggio Gabriele Basilico, dedicato alla memoria di un protagonista della fotografia dell’architettura e del paesaggio a livello internazionale, prematuramente scomparso [FOTOgraphia, aprile 2013]. Il Premio è promosso dall’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Milano, dallo Studio Gabriele Basilico e dalla Fondazione Studio Marangoni, di Firenze (premio gabrielebasilico@ordinearchitetti.mi.it). A cadenza biennale, il Premio Internazionale di Fotografia di Architettura e Paesaggio Gabriele Basilico intende stimolare i giovani a indagare l’architettura e il paesaggio attraverso immagini fotografiche che ne rivelino aspetti figurativi, sociali e culturali. In questo senso, il Premio ambisce a diventare -nel tempo- un tassello fondamentale della ricerca e sperimentazione dei linguaggi visivi, ponendosi accanto ai più importanti premi internazionali di categoria. Autore del linguaggio fotografico a tuttotondo, Gabriele Basilico (19442013) ha sempre inteso il proprio lavoro come un impegno civile a favore delle nuove generazioni, intuendo nelle proprie esplorazioni i mutamenti epocali più significativi, in un confronto continuo con esponenti del mondo dell’architettura, dell’urbanistica, della sociologia, della letteratura, della fotografia e dell’arte tutta, nel proprio insieme e complesso. Con un’attenzione particolare e una personale apertura verso i giovani, per i quali è stato grande maestro e amico: per questo il Premio è riservato agli “Under 35”. Ancora: nel sottolineare il rapporto costruttivo di Gabriele Basilico con i giovani, il Premio promuove sul piano internazionale la crescita dei linguaggi visivi nelle produzioni fotografiche delle nuove generazioni di autori. Il tema è proposto in senso aperto -dall’architettura storica a quella contemporanea, dal paesaggio antropizzato alla fotografia di interni, dalla nascita di nuovi luoghi a ogni tipo di complessità dei territori in trasformazione-, così da

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Gabriele Basilico nel vetro smerigliato del suo apparecchio fotografico a banco ottico: Milano, piazza Missori. Fotogramma ripreso dal Dvd a lui dedicato nella collana Fotografia Italiana, prodotta da Giart Visioni d’arte, di Bologna, con il patrocinio della Cineteca di Bologna; distribuzione Contrasto (produzione di Luca Molducci, regia di Giampiero D’Angeli, soggetto e cura editoriale di Alice Maxia) [ FOTOgraphia, febbraio 2010].

consentire ai partecipanti la più ampia declinazione delle proprie ricerche. La partecipazione al Premio avviene su invito: composta da nomi internazionalmente riconosciuti del mondo dell’architettura e della fotografia, la giuria individua segnalatori eccellenti di diversi paesi nel mondo, che invitano i fotografi a sottoporre i lavori svolti e un progetto da realizzare. A dicembre, la giuria premierà l’autore del progetto da realizzare ritenuto più interessante e aggiornato dal punto di vista sia della capacità di lettura del paesaggio e dell’architettura sia dei codici dell’arte contemporanea. Il vincitore riceverà un premio e avrà a disposizione otto mesi per la realizzazione del progetto, che consisterà nell’esecuzione di una ricerca fotografica e relativi apparati di lettura. Il Premio prevede la pubblicazione di un libro. La giuria è composta da: Giovanna Calvenzi, Studio Gabriele Basilico, Milano (presidente); Stefano Boeri, architetto, Milano; Vincenzo Castella, fotografo, Milano; Francesca Fabiani, responsabile delle collezioni di foto-

grafia, Maxxi, Roma; Alberto Ferlenga, responsabile Architettura e Territorio, Fondazione La Triennale di Milano; Bernard Latarjet, già direttore della Mission Photographique de la Datar, Parigi, Francia; Martino Marangoni, presidente della Fondazione Studio Marangoni, Firenze; Sandra Phillips, curatore capo Dipartimento di Fotografia, Museum of Modern Art, San Francisco, Usa; Franco Raggi, architetto, vicepresidente dell’Ordine Architetti di Milano; Roberta Valtorta, direttore scientifico, Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo MI; Bas Vroege, direttore Paradox, Edam - Amsterdam, Olanda. Il Premio Internazionale di Fotografia di Architettura e Paesaggio Gabriele Basilico si svolge con il patrocinio di: Fondazione La Triennale di Milano; Fondazione Mast, Bologna; Maxxi, Roma; Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo MI; Museum of Modern Art, San Francisco, Usa; Politecnico di Milano. E con il sostegno di Epson Italia, Flexform, Hines Italia SGR, Fondazione Mast, Unifor. ❖



Monografia di Maurizio Rebuzzini

BASILICO MILANO

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Straordinaria cernita d’archivio, la raccolta Basilico Milano, a cura di Giovanna Calvenzi, in edizione Contrasto, mette ordine all’interno di una vasta quantità e qualità di fotografie del celebre e autorevole autore, prematuramente mancato [FOTOgraphia, aprile 2013]. Milanese di nascita e vita, oltre le tante escursioni geografiche, Gabriele Basilico ha riservato una attenzione particolare alla propria città: tutto è cominciato all’origine della sua fotografia di architettura, sia per praticità oggettiva, sia per intensa partecipazione emotiva ai propri luoghi, per poi dilatarsi negli anni e nelle stagioni, con rilevazioni fotografiche via via approfondite, via via mirate, via via legate

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Da Basilico Milano: piazzetta Reale (2011).

Da Basilico Milano: via Ripamonti (1978-1980).


Monografia

Basilico Milano, a cura di Giovanna Calvenzi; con testimonianze e contributi critici; Contrasto, 2015; 211 fotografie; 204 pagine 32x26cm, cartonato; 55,00 euro.

Da Basilico Milano: via Noto (1995).

Da Basilico Milano: via Cuneo (1980).

da fantastici fili narrativi che hanno composto i termini di una continuità ideologica che non ha pari. La sequenza di Basilico Milano è scandita sul passo dei numerosi progetti svolti. Molte immagini sono note, qualcuna è addirittura celebre (persino icona del nostro tempo?), altre sono meno conosciute, quantomeno dal grande pubblico; per esempio, è emozionante incontrare i notturni milanesi di Gabriele Basilico, declinati su un binario almeno doppio: il riscontro di un aspetto della città, l’empatia individuale con la stessa città. Quindi, come spesso accade in monografie fotografiche di pregio e valore, l’apparato illustrativo (dai primi lavori fino al 2012) si accompagna con approfonditi testi a corredo e commento, che hanno il merito di aggiungere effettivamente qualcosa, che hanno il pregio di decifrare tra le righe e oltre l’apparenza a tutti evidente. È obbligatoria la segnalazione dei contributi scritti di Marco Romano, Fulvio Irace, Vittorio Gregotti, Luca Doninelli, Alberto Garutti, Ferruccio de Bortoli, Gustavo Pietropolli Charmet, Michele De Lucchi, Francesco De Gregori, Antonio Bozzo, Francesco Moschini, Massimo Minini, Marina Spada, Italo Rota, Gianni Siviero, Marco Belpoliti, Mario Calabresi e Roberta Valtorta (testo critico). Architetti, giornalisti, intellettuali e artisti che hanno composto un ricordo della propria esperienza di collaborazione con Gabriele Basilico, oppure raccontano la propria relazione con la città. In chiusura, un corposo e consistente casellario bibliografico. Ora, e qui, è doveroso riprendere e ripetere la lettera rivolta dallo stesso Gabriele Basilico alla sua città, che in origine accompagnò l’edizione della raccolta Interrupted City / La città interrotta, del 1999 [FOTOgraphia, ottobre 1999].

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Monografia Io vivo in questa città. Amo questa città come si può amare qualcuno a cui ci lega un vecchio rapporto di familiarità e di amicizia. È la città nella quale sono cresciuto. Ha dato forma anche alle mie passioni, alle mie speranze, alle mie angosce. Ammiro le parti belle e le parti misere del suo corpo, dai quartieri alle case, ai muri, ai selciati. Ha una sua bellezza e una sua bruttezza, esterne, visibili, misurabili, che sono l’incarnazione della sua storia, che si esprimono nei suoi caratteri fisici e che acquistano maggiore senso nel confronto con altre città. Questa città è simile a un essere vivente, è un organismo che respira e si dilata sopra di noi, attorno a noi, come un mantello protettivo che ci avvolge e ci confonde nello stesso tempo. Negli anni è diventata per me come un porto di mare, un luogo privato dal quale partire per altri mari, per altre città, per poi ritornare e quindi ripartire. Un porto, cioè un luogo fermo, stabile, dove accumulare reperti e impressioni di luoghi lontani. Immagini che si depositano nella memoria, come una sostanza che la città sa far propria e trattenere, ma che sa restituire metabolizzata in altre immagini, ricomponendo presente e passato, vicino e lontano, a piacimento, secondo le pulsazioni del cuore. Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo. Mi ossessiona un bisogno costante di conoscenza della sua fisicità, una bisogno di rileggerne di nuovo i tratti, le parti nascoste ma anche i luoghi noti e le sembianze più conosciute. Tra di noi c’è un varco aperto che permette uno scambio continuo di percezioni e un punto di vista speciale. Talvolta ho l’impressione che si manifesti in modo più nitido, all’improvviso dinanzi agli occhi, che mi informi del suo ingombro, della sua consistenza, della sua materia e della sua fisicità. La città mi investe e mi abita. Dovendo, poi, esprimere una definizione certa e incondizionata, è per noi giocoforza riprendere quanto ab-

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Da Basilico Milano: via Giovanni Ferrari (1978-1980). (in basso) Da Interrupted City / La città interrotta: area del definito “Centro Direzionale” (viale della Liberazione) ... l’attuale Porta Nuova, di soluzioni urbane e architetture avveneristiche (1996). Da Basilico Milano: via Fabio Filzi (1987).

biamo già attribuito all’edizione originaria di Interrupted City / La città interrotta, monografia del 1999, appena menzionata: anche l’attuale Basilico Milano si rivela come un atto d’amore. Infatti, è una raccolta di ritratti di Milano -ribadiamo, la sua città-, modello privilegiato di una ricerca fotografica che nel corso dei decenni ha stabilito punti fermi della documentazione del territorio e del paesaggio urbano. Proprio a partire dalle architetture di Milano, prima di spingere la sua attenta osservazione ad altre realtà micro-macroscopiche (dalle coste francesi per la Mission Photographique de la Datar ai porti europei, alle linee di transito che disegnano la nuova geografia delle strade della nostra penisola), Gabriele Basilico ha dato forma al proprio linguaggio fotografico basato su immagini che, con la propria elegante compostezza, ridefiniscono un’urbanistica spesso esteticamente confusa e nascosta. Nella incalzante sequenza delle pagine di Basilico Milano, con immagini presentate una dietro l’altra, una dopo l’altra, seguendo un sottile filo conduttore, Milano è indagata nella sua evidente fisicità, nel momento stesso in cui è letta con gli occhi partecipi e premurosi dell’innamorato, più che con lo sguardo freddo e imparziale dell’architetto che si esprime con la visione fotografica: un viaggio nei luoghi del proprio passato e del presente, alla ricerca di legami indissolubili. Raccontare una città scomposta e complessa come Milano è un’impresa difficile, se non addirittura impossibile: troppi punti di vista, troppe suggestioni e il rischio di combinare un lavoro frammentario e incompleto. Proprio per questo, Gabriele Basilico ha dato un indirizzo al proprio racconto, amorevolmente svolto in tempi successivi e dilatati: tanto da comporre una fantastica unità di lavoro e progetto. Tant’è che, in apparenza e nel concreto, non ci sono interruzioni tra ogni progetto e il successivo e il precedente, non c’è alcuna titolazione che stabilisca dei confini, perché la progettualità fotografica di Gabriele Basilico ha manifestato una continuità che lascia scivolare un aspetto dentro l’altro, per sottolineare che la città è una, nonostante la sua apparenza possa rivelarsi sostanzialmente molteplice. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

CON QUEGLI OCCHI

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Certamente, il film statunitense Gli occhi di Laura Mars, di Irvin Kershner, del 1978 (Eyes of Laura Mars), non è un capolavoro. Altrettanto certamente, non merita di apparire in alcuna lista selettiva di film degni di qualsivoglia attenzione. In ogni caso, ai propri tempi, la critica cinematografica si divise in due fazioni contrapposte: per qualcuno, la sceneggiatura e il racconto avrebbero composto i tratti di un thriller ben congegnato; qualcun altro ha presto bocciato il film, sottolineandone l’inconsistenza narrativa e lo svolgimento disomogeneo, frammentario e velleitario. Per quanto lontani da quale che sia ruolo critico, ma da semplici e soli spettatori domestici, personalmente, concordiamo più con la seconda opinione che con la prima. Francamente, il passo dei buoni thriller cinematografici, e letterari, è ben altro. Comunque, qui e ora, non si tratta tanto di compiacersi, o meno, per la sceneggiatura: da questo osservatorio viziato, e in questo spazio redazionale mirato, ci basta la componente fotografica della vicenda. Ci basta e ci avanza anche, se ipotizziamo -co-

Nel film Gli occhi di Laura Mars, di Irvin Kershner, del 1978, la fotografa protagonista (Faye Dunaway) scatta sempre con reflex Nikon FE (o FM), a mano libera, e Hasselblad 6x6cm, su treppiedi.

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me è stato rilevato da chi di dovereche la trama di Gli occhi di Laura Mars ha consistentemente ispirato il romanzo di Paolo Pietroni, giornalista dai mille meriti, Sotto il vestito niente, ambientato nel mondo milanese della moda, dal quale è derivato l’orrendo film omonimo, diretto da Carlo Vanzina, nel 1985 (se possibile, ancora peggiore fu il sequel Sotto il vestito niente 2, di Dario Piana, del 1988).


Cinema

Sul piano delle ispirazioni e contaminazioni, potremmo anche e ancora includere l’episodio Safarà, della serie a fumetti Dylan Dog (numero 182, del novembre 2001), nel quale i poteri di un particolare obiettivo, applicato a una biottica di fantasia, trasformano i soggetti fotografati in assatanati assassini, che infieriscono sulle proprie innocenti vittime, dilaniandole.

LA TRAMA DEL FILM Il soggetto e la sceneggiatura di Gli occhi di Laura Mars sono i primi di John Carpenter accettati da una major di Hollywood, preludio di una lunga e cadenzata carriera cinematografica di vicende al limite del fantastico. La protagonista Laura Mars (interpretata da una affascinante Faye Dunaway) è una fotografa newyorkese della quale il mercato della moda apprezza lo stile ambiguo con il quale rappresenta spesso l’abbigliamento indossato da modelle che paiono morte assassinate, scomposte a terra, come nelle fotografie della polizia scientifica (a proposito: in Lo sbirro, il boss e la bionda, terribile titolo italiano dell’originario Mad Dog and Glory, di John McNaughton, del 1993 [FOTO graphia, novembre 2009], il fotografo della polizia Wayne “Mad Dog” Dobie, interpretato da Robert De Niro, rivela all’amica Gloria, interpretata da Uma Thurman, la spietatezza e malvagità della sua fotografia che «ritrae le don-

Posato di Faye Dunaway per la promozione del film Gli occhi di Laura Mars. Questa Hasselblad su treppiedi è effettivamente presente nella scenografia, nella quale si alterna a reflex Nikon FE (o FM), visualizzate nei set in location esterna (a destra). In queste occasioni, si incontrano anche elementi accessori della fotografia professionale (per esempio, esposimetri) e raffinate citazioni: quale è la preziosa Polaroid 180 (coeva dell’altrettanto prestigiosa Polaroid 195), con tempi di otturazione e aperture del diaframma da impostare manualmente. (pagina accanto, in alto) Locandina e indici dal Dvd del film Gli occhi di Laura Mars, con evidenziazione della personalità fotografica della sceneggiatura.

ne come le ha raggiunte la morte, scomposte e disfatte... e non concede loro neppure un ultimo gesto di residuo pudore e contegno»). Durante l’inaugurazione di una sua mostra, una modella di Laura Mars viene barbaramente uccisa. L’indagine di polizia è affidata all’ispettore John Neville (interpretato dal bravo Tommy Lee Jones), che per propri motivi personali è già presente sul luogo del delitto; in effetti, si è recato alla mostra per rimproverare il cattivo gusto della fotografa e il suo cinismo, come anticamera di un elogio della violenza (gratuita). A questo punto, con confidenza complice, Laura Mars racconta all’ispettore che la sera precedente avrebbe avuto una premonizione dell’omicidio: dagli occhi dell’assassino avrebbe visto l’uccisione della modella, così come poi è realmente accaduto. Eccoli qui... gli occhi di Laura Mars. A seguire, la sceneggiatura si allunga sull’ipotesi di serial killer, con una lunga serie di altri omicidi, puntualmente preavvertiti dalla fotografa: la prima modella uccisa è presto seguita dalla assistente di Laura Mars, dal suo agente e da altre due modelle. Una carneficina, una strage. Ovviamente, l’ispettore John Neville è diffidente, come spesso richiedono le sceneggiature dei polizieschi e dei thriller. Prima di tutto, anche alla luce del suo discutibile gusto fotografico, sospetta della stessa Laura Mars, poi

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Cinema sposta le proprie ipotesi su altre figure a lei vicine: e non andiamo oltre, non entriamo in alcun dettaglio specifico. Chi è interessato, ha a disposizione numerose opzioni per vedere il film. Soltanto, anticipiamo l’ovvio: tra l’ispettore e la fotografa nasce l’amore. Soltanto, anticipiamo un’altra ovvietà: qualcuno non è ciò che dice di essere, ma è vittima di un trauma infantile che ne ha condizionata l’esistenza.

LA FOTOGRAFIA Infarcito di personaggi stereotipati e caricaturali, per motivi canonici e dichiarati, Gli occhi di Laura Mars è comunque un film ad alto tasso fotografico, tutto declinato nel mondo della moda newyorkese. Nel film, tante le scene di set fotografici con sontuosi allestimenti scenici, sia in sala di posa, sia in location esterne. E, poi, non manca una sequenza in camera oscura, con passaggio obbligato dall’ingranditore allo sviluppo delle copie bianconero. Quindi, la personalità sostanziosamente fotografica della trama è ribadita dalle raffigurazioni simboliche che, nella versione Dvd, accompagnano il menu iniziale: per l’appunto, sormontato da Laura Mars / Faye Dunaway in posa fotografica plastica. Ancora, nel corso del film si incontra anche una monografia della fotografa protagonista, manco a dirlo intitolata proprio The Eyes of Laura Mars: certificazione assoluta e inviolabile della sua personalità professionale e del suo gradimento, sia nel mondo patinato della moda newyorkese sia presso il grande pubblico. Nelle sessioni fotografiche sceneggiate nel film, Laura Mars scatta sempre con Hasselblad, per lo più su treppiedi, e Nikon FE (o FM) a mano libera. In aggiunta, nei posati del film, ai tempi distribuiti dall’ufficio stampa della produzione, si segnalano anche ritratti di Faye Dunaway con Leica R3 Electronic. Nel marzo 2008, in un numero monografico declinato come «Tributo alla fotografia e al cinema», l’autorevole American Photo ha osservato la combinazione fotografia-e-cinema da molteplici punti di vista [FOTOgraphia, maggio 2008]. Soprattutto, ricordiamo la classifica dei dieci film significativi della presenza della fotografia nel cinema, nella quale è incluso anche Gli occhi di Laura Mars, del quale ci stiamo occupando.

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Ribadito e confermato il protagonismo fotografico della reflex Nikon FE (o FM), che attraversa la scenografia del film Gli occhi di Laura Mars, sottolineiamo anche che i ritratti promozionali sono stati abbinati alla affascinante Leica R3 Electronic.

In effetti, a parte non apprezzare le classifiche in generale, la considerazione è idonea e opportuna, per quanto accompagnata da film che non avrebbero meritato tanto e per quanto inserita in un casellario che ne ha dimenticati di fondamentali. Svolgimento cinematografico a parte, il tasso fotografico trasversale alla sceneggiatura di Gli occhi di Laura Mars è consistente. Soltanto, è troppo stereotipato quando affronta lo specifico della fotografia e della mo-

da. Diciamo che la sua banalità accontenta il grande pubblico. Se, invece, ricerchiamo anche approfondimenti sul ruolo tra fotografia e altri mondi e approfondimenti dello specifico fotografico, i film di riferimento sono altri. Ma questo, come spesso diciamo, è un discorso che va approfondito altrove e altrimenti. Qui è sufficiente la segnalazione di un titolo del cinema che affronta e assolve il richiamo fotografico. Comunque sia. ❖



Autobiografia di Maurizio Rebuzzini

UN ETERNO ISTANTE

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Subito un avvertimento a chi andrà a leggere l’autobiografia di Giovanni Gastel, Un eterno istante. La mia vita, pubblicata da Mondadori Electa, in distribuzione libraria da metà settembre. Non ci si aspetti di incontrare un racconto cronologico, che dalle origini si snoda lungo il percorso dell’esistenza. L’unica nota biografica, «Giovanni Gastel (Milano, 1955)», è riportata in un risvolto di copertina: poi, basta. In effetti, a differenza di narrazioni scandite nel tempo, siamo in presenza di qualcosa d’altro. Sicuramente, di qualcosa di meglio. Dal secondo risvolto di copertina: «I ricordi di Giovanni Gastel sono quadri, o meglio vivide fotografie a colori che fermano attimi di vita passata: l’infanzia dorata trascorsa tra Milano e la splendida casa di famiglia di Cernobbio, gli incontri con il celebre zio, Luchino Visconti, gli anni difficili della scuola, la scoperta dell’amore per la fotografia e i timidi esordi da assoluto autodidatta, a dispetto del padre che lo voleva laureato. E poi, la famiglia, gli amici, i colleghi, i collaboratori... di tutti, Giovanni tratteggia un ritratto preciso, spesso affettuoso, sempre indulgente. Luci e ombre nella sua vita: al successo, all’eleganza e all’amore per il bello, che lo hanno sempre contraddistinto, fa da contraltare un profondo disagio che si manifesta all’improvviso in interminabili notti insonni e in frequenti attacchi di panico, che lo tormentano per dieci lunghissimi anni. Ne esce, finalmente, provato e forse migliore. Resta sul fondo un malessere silenzioso, una malinconia appiccicosa che è lì a ricordargli che lui è “estraneo al mondo e alle sue storie”». Già: «quadri che fermano attimi di vita passata». Accompagnati da fotografie di riferimento, pagina dopo pagina si susseguono, inseguendosi l’un l’altro, ricordi che ispirano considerazioni e riflessioni. La forma della scrittura di Giovanni Gastel, che si rivela senza alcuna reticenza (clamorose confessioni intime!), è lontana dal saggio e dalla narrativa: soprattutto, ha straordinari debiti di riconoscenza con la poesia, che del resto frequenta

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Un eterno istante. La mia vita, di Giovanni Gastel; Mondadori Electa, 2015; 144 pagine 14x20cm, cartonato con sovraccoperta; 16,90 euro (in copertina, fotografia di Cristiano Miretti).

da tempo, dalla prima raccolta Casbah, pubblicata a sedici anni, a Cinquanta poesie, del 2009, alla sua partecipazione sui social network. Un eterno istante. La mia vita è un racconto esistenziale, che ha tempo e modo di arricchire la coscienza e l’esperienza di tutti. In aggiunta, ovviamente, le trasversalità fotografiche, con tutte le considerazioni che l’accompagnano, sono utili e proficue a coloro i quali -noi, tra questi- vivono con intensità e convinzione giusto la

Fotografia: «E tu, magica scatola, macchina fotografica che eri già perfetta alla tua nascita, banco ottico, macchina a pellicola piana, soffietto e immagine capovolta, telo nero e châssis carichi. Tu, compagna di viaggio per trent’anni, tu mi hai aiutato a disegnare il mondo, il mio piccolo mondo autonomo e personale. Ho amato la tua pesantezza apparente e il tuo aspetto antico e misterioso. I tuoi legni stagionati e i tuoi lucidi metalli, le tue ottiche grandi e pesanti, il tuo essere


sempre appannaggio solo di una stretta cerchia di superprofessionisti». Ma, soprattutto, Un eterno istante. La mia vita, è una lunga e avvincente (e convincente) confessione di Giovanni Gastel: che non approda certo alla fotografia per caso, ma per destino, per karma prestabilito alla nascita. Al pari di altri tanti autori, e meglio di altrettanti altri tanti fotografi, Giovanni Gastel ha la consapevolezza assoluta della propria azione e personalità, del proprio ruolo all’interno della grande filiera della comunicazione entro la quale agisce e opera. Non si limita mai alla superficie a tutti apparente, ma scava nel profondo di una esperienza che ogni giorno è diversa, ogni giorno dischiude porte, nella coerenza di un tracciato inviolabile: quello dell’assolvimento professionale. Testuale: «Luce che canti e ridi e rimbalzi e crei ombre nette e ti nascondi e riappari e ti stemperi e ti annulli e fai tremare o morire dal caldo, tu, luce, hai corpo e forse anima. Tu entri nella mia vita e la disegni e incidi segni sulla mia pellicola, sul mio sensore. Silenziosa luce che attraversi lo spazio profondo per rimbalzare sul mio mondo immerso nel buio e animarlo, colorarlo, riscaldarlo e permetti alla morte di diventare vita, a te ho dedicato il mio lavoro, la mia vita. Ti ho cercato, ho tentato di riprodurti, di imbrigliarti, di studiarti e di dominarti. Ho cercato di riprodurre il tuo splendore nel buio di uno studio, per anni. Con tutti i mezzi. Poi ho capito che non vai studiata, vai sentita con l’anima e il cuore. Finiti gli schemi di luce, i tentativi di ricrearti, tu vai amata, luce, perché sei racconto infinito e cambi, muti, ti trasformi in ogni istante. Vivi nel rapporto con l’oggetto illuminato e diventi quel soggetto e lo scavi e lo definisci. Non vai impostata con la forza, ma accettata». Ancora, testuale: «Nel cuore mi resta questo viaggio perenne, questo prendere aerei e scendere dagli aerei e cercare immediatamente, quasi visceralmente, il senso del posto, la variazione della luce nuova e diversa. È un vedere accelerato, frenetico, che diventa in poco tempo sintesi automatica e genera immagini nuove, interiori, scene in cui ambientare la tua messinscena del reale. Sì, la fotografia, la mia almeno, è sempre pantomima, teatro, messinscena, lontana dalla riproduzione, dalla documenta-

zione della realtà. È sete di interiorizzare la visione, una necessità di capire e fare tuo il mondo, così lontana dalla contemplazione e dallo studio». Da cui... da e con Giacomo Leopardi: «L’anima s’immagina quello che non vede». E, allora, L’infinito: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / [...] Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare. Quindi, sempre con Giacomo Leopardi, da Zibaldone: «Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, che può concepire le cose che non sono, e in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistono, e figurarseli infiniti: uno, in numero; due, in durata; tre, in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, della quale derivano, la speranza e le illusioni. Perciò non è meraviglia: uno, che la speranza sia sempre maggiore del bene; due, che la felicità umana non possa consistere se non nella immaginazione e nelle illusioni. [...]. L’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. [...]. Alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vita si estendesse da per tutto, perciò il reale escluderebbe l’immaginario». E i tormenti della creazione fotografica: «L’otturatore si apre di scatto e la luce entra nell’apparecchio ed è vita e colore e velocissimo brillare del sensore, e poi di nuovo buio. Ma in quel tempo infinitesimamente breve, la luce ha compiuto il suo miracolo, ha in-

ANTONIO BORDONI

Autobiografia

6 aprile 1987, studi fotografici Edimoda, in via Egadi, a Milano: intervista al trentunenne Giovanni Gastel per il primo numero di PRO (Editrice Reflex, Roma). A parte altri incroci casuali, questo è il nostro primo incontro ufficiale. Da qui, datiamo un’amicizia pluridecennale.

ciso il mio pensiero e il mio cuore e la mia visione del mondo in un rettangolo e lì resterà indelebile e virtualmente eterna. E ogni volta penso: “Ora sei mia, piccola, infinita, perfezione”. Ma non è così, sei già altrove e mi sorridi ironica. “Non ancora, Gio, non ancora! Sei vicino, ma non mi hai ancora. Domani provaci di nuovo, la corsa, forse, vale più della vittoria”. E ogni sera è una piccola sconfitta e ogni mattino la ricerca della perfezione ricomincia, in un inseguimento che è follia creativa e gioia profonda». Da e con Eduardo Galeano, in Finestra sull’utopia: «Lei è all’orizzonte. [...] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Conclusione di un libro assolutamente importante, quale è -per l’appunto- Un eterno istante. La mia vita, di Giovanni Gastel: «Tutti voi che siete con me, dentro di me, che siete me, sarete bruciati in un decimo di secondo nell’esplosione del mio flash, in quell’attimo bianco assoluto che si formerà sulla mia retina e che farà piazza pulita di tutto, per un magnifico, perfetto, eterno istante». ❖

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Leitz List di Maurizio Rebuzzini

DIRE POCO, FARE MOLTO

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Su queste stesse pagine, abbiamo già sintetizzato la vicenda ora raccontata in un bel libro illustrato per bambini, pubblicato lo scorso quattro agosto: una prima volta, ne abbiamo scritto nell’ottobre 2011, per poi riprendere l’argomento, nel marzo 2013, in appoggio alla presentazione della fantastica storia Leica raccontata in Ninety Nine Years Leica; quindi, ulteriore richiamo lo scorso febbraio 2015, a proposito della Giornata della Memoria. Nelle tre occasioni, abbiamo richiamato l’ottimo studio del rabbino Frank Dabba Smith, The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train, divulgato nel 2002. Come appena anticipato, torniamo sull’argomento (di immenso valore, che arricchisce la Storia della Fotografia, e quella della Leica, di un capitolo a dir poco nobile), alla luce della trascrizione di quelle note originarie in una edizione libraria rivolta ai bambini: testo semplificato e appropriate illustrazioni a corredo, rispettivamente delle sorelle Taylor e Samantha Beitzel. Ancora, e anche in questo caso, il richiamo è esplicito e diretto: Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera (Dr. Ernst Leitz II e il treno Leica della libertà. Sfidando il nazismo con una macchina fotografica). Titolo della collana Holocaust Series Book, delle edizioni A Book by Me, il libro racconta a proprio modo come Ernst Leitz II e sua figlia Elsie Kühn-Leitz abbiano salvato dallo sterminio centinaia di propri impiegati ebrei e fotonegozianti ebrei tedeschi (da cui il parallelo con Oskar Schindler, reso celebre dal film di Steven Spielberg, del 1993). In particolare, in veste di proprietario e direttore dell’azienda di famiglia, Ernst Leitz II, che nel 1924 approvò il progetto di una macchina fotografica (Leica = Leitz Camera), procurò visti per l’estero, pagò le spese di viaggio e riuscì a trasferire centinaia di persone negli Stati Uniti -dove molte delle quali furono assunte presso la filiale Leitz di New York (730 Fifth Avenue)-, a Londra e Hong Kong. Inoltre, siccome, lasciando la Germania, non si poteva esportare denaro,

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a ciascuno di loro fu data una Leica imballata, da vendere una volta arrivati a destinazione, per far fronte alle prime spese di sopravvivenza. Nel frattempo, la figlia Elsie KühnLeitz aiutava le donne inviate ai lavori forzati in fabbrica, fornendo loro cibo e generi di conforto. Addirittura, nel 1943, fu incarcerata per aver aiutato Hedwig Palm, un ebreo residente a Wetzlar, a fuggire in Svizzera. A questo proposito, registriamo che nel precedente 1938 era già stato arrestato e imprigionato Alfred Turk, direttore vendite dello stabilimento, quando la Gestapo fu informata dell’attività di aiuto agli ebrei. In entrambi i casi, le liberazioni furono ottenute grazie a cospicue bustarelle pagate a membri della stessa famigerata polizia politica. A questo punto, una notazione d’obbligo: qual è il valore aggiunto dell’impegno di Ernst Leitz II a favore degli ebrei? Riprendendo dalle rivelazioni originarie del rabbino Frank Dabba Smith, peraltro ribadite nel resoconto Ernst Leitz of Wetzlar: Hel-

Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera, di Taylor Beitzel, illustrazioni di Samantha Beitzel; A Book by Me / Holocasust Series Book #29, 2015; 24 pagine 21,5x28cm; 13,99 dollari.

La storia comincia con l’identificazione di luogo e situazione: a Wetzlar, in Germania, quando ai vertici dell’industria ottica di famiglia approda Ernst Leitz II.


La Leica originaria nasce nel 1925. E svolgerà un proprio nobile ruolo nell’aiuto agli ebrei perseguitati nella Germania di Hitler, salito al potere nel 1933.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Leitz List Divulgato nel 2002, The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train è il saggio originale con il quale il rabbino Frank Dabba Smith racconta l’azione svolta da Ernst Leitz II a favore degli ebrei tedeschi, a partire dal 1933. Quindi, segnaliamo la successiva edizione di Ernst Leitz of Wetzlar: Helping the Persecuted, del 2010. Dalla metà degli anni Trenta, Ernst Leitz II procurò visti per l’estero, pagò le spese di viaggio e riuscì a trasferire centinaia di ebrei tedeschi negli Stati Uniti -dove molti furono assunti presso la filiale Leitz di New York-, a Londra e Hong Kong. Siccome, lasciando la Germania, non si poteva esportare denaro, a ciascuno di loro fu data una Leica imballata, da vendere una volta arrivati a destinazione, per far fronte alle prime spese di sopravvivenza.

Attenzione: per valutare la preveggenza di Ernst Leitz II riguardo la persecuzione degli ebrei (e di altre etnie e dintorni) non possiamo ragionare con le conoscenze che abbiamo oggi. Bisogna richiamarsi al clima dei tempi, quando la politica del nazismo era ben accetta a molti. Per esempio, Hitler fu acclamato Uomo dell’anno da Time Magazine, nel 1938 (e Stalin fu Uomo dell’anno nel 1939 e 1942). A questo punto, una coincidenza curiosa: lo stesso Time Magazine celebrò Hitler, il precedente 13 aprile 1936 [a sinistra], con un ritratto in copertina, realizzato da Paul Wolff, storico testimonial Leica, autore della prima monografia d’autore che fa esplicito richiamo a un apparecchio fotografico, Meine Erfahruengen mit der Leica (Le mie esperienze con la Leica), del 1934. Quindi, in allungo, registriamo che lo stesso Paul Wolff firmò la copertina del terzo numero di Life, del 17 dicembre 1936.

ping the Persecuted, le sorelle Taylor e Samantha Beitzel datano i trasferimenti all’estero degli ebrei tedeschi alla metà degli anni Trenta, all’indomani della salita al potere del partito nazista (gennaio 1933) e dei primi sabotaggi e impedimenti alla vita e alle attività professionali degli ebrei (aprile 1933). Ovvero... attribuiamo a Ernst Leitz II una lungimiranza sociale e politica fuori del comune. In questo senso, i paralleli sono almeno due, uno cinematografico e l’altro letterario. In questo ordine. Dalla sceneggiatura del film Vincitori e vinti, di Stanley Kramer, del 1961, in originale Judgment at Nuremberg, riprendiamo il dialogo conclusivo tra il giudice statunitense Dan Haywood (interpretato da Spencer Tracy) e il magistrato tedesco Ernst Janning (interpretato da Burt Lancaster), giudicato e condannato dal tribunale. Il magistrato cerca comprensione, affermando che nessuno aveva immaginato quanto stesse realmente accadendo agli ebrei tedeschi; il giudice statunitense ribatte che avrebbe dovuto capirlo la prima volta che era stato indotto a condannare un ebreo innocente. Dalla narrativa, segnaliamo l’ottimo e inquietante Destinatario sconosciuto, di Kressmann Taylor, disponibile in edizione italiana Bur - Rcs, straordinaria anticipazione degli orrori dell’olocausto. La vicenda è presto riassunta. Si tratta di un carteggio tra Max Eisenstein e Martin Schulse, soci in una galleria d’arte di San Francisco: Martin ha lasciato gli Stati Uniti, per tornare nella natia Monaco; l’ebreo Max è rimasto a San Francisco e sovrintende agli affari comuni.

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Leitz List

In forma di carteggio tra gli Stati Uniti e la Germania del 1932-1934, Destinatario sconosciuto, di Kressmann Taylor (Bur - Rcs, 2003; 80 pagine 13x19,7cm) è una straordinaria anticipazione degli orrori dell’olocausto. Originariamente pubblicato sul numero di settembre-ottobre 1938 della rivista Story, in sostanzioso anticipo su quanto avremmo scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale, al pari dell’azione di Ernst Leitz II, fu lungimirante: in anticipo sui tempi, mise in guardia contro l’orrore del nazismo.

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Elsie Kühn-Leitz, figlia di Ernst Leitz II, ha aiutato le donne inviate ai lavori forzati in fabbrica, fornendo loro cibo e generi di conforto. Addirittura, nel 1943, fu incarcerata per aver aiutato Hedwig Palm, un ebreo residente a Wetzlar, a fuggire in Svizzera.

Ernst Leitz II è mancato nel 1956. Non ha mai parlato della sua opera di salvataggio di ebrei tedeschi. Le prime notizie al proposito sono state diffuse da Norman Lipton, impiegato della filiale Leitz di New York, in un articolo pubblicato dalla rivista Photo International, nel 1969. A seguire, la storia completa è stata raccontata dal rabbino Frank Dabba Smith nel suo The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train, divulgato nel 2002. Nel 2007, a Ernst Leitz II -il cui motto fu “Dire poco, fare molto” (!)è stato conferito il riconoscimento Courage to Care Award.

All’indirizzo web www.youtube.com/watch?v=eBkAVnWi6FE si accede al racconto video di Sally Enfield Rabinowitz, che ricostruisce l’odissea dei propri nonni, fotonegozianti ebrei a Francoforte (Ehrenfeld), fino all’inizio degli anni Trenta, salvati da Ernst Leitz II.

La prima lettera di Max è datata 12 novembre 1932 ed esprime felicità per la decisione dell’amico Martin, tornato in una terra di «grande libertà intellettuale, [...] una terra dalla cultura profonda che sta vivendo gli inizi di una straordinaria libertà politica». Martin risponde rivelando il fermento che anima la Germania. Poi, lo stesso Martin tranquillizza Max riguardo l’avvento del nazismo, precisandogli che le notizie che arrivano all’estero non rispecchiano la realtà di una politica a favore della nazione. Quindi, piano piano, trapela la sua adesione al nazismo. A questo punto, Martin chiede a Max di non scrivergli più, perché le lettere di un ebreo gli possono creare fastidi. Addirittura, Martin non accoglie l’invito di Max di aiutare sua sorella attrice residente in Germania (che anni prima fu anche fidanzata con Martin), e gli confessa di non averla salvata dalla Gestapo, quando la ragazza aveva chiesto ospitalità in casa sua. Max continua imperterrito a scrivere a Martin, inviandogli comunicazioni sibilline riguardo invii di “pennelli” utili alla “Lega dei Giovani” e altre questioni facilmente fraintendibili, che possono essere altrimenti interpretate dalla censura che controlla la posta. Alla fine, una sua busta con annullo del 3 marzo 1934 gli ritorna con l’indicazio-

ne di... Destinatario sconosciuto. Attenzione: questo breve romanzo, tale va considerato, fu pubblicato sul numero di settembre-ottobre 1938 della rivista Story. Dunque, in sostanzioso anticipo su quanto avremmo scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale. Al pari dell’azione di Ernst Leitz II, fu lungimirante: in anticipo sui tempi, mise in guardia contro l’orrore del nazismo. Riprendendo le pagine di Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera, di Taylor e Samantha Beitzel, a propria volta ispirate dagli studi del rabbino Frank Dabba Smith, ribadiamo come la declinazione in linguaggio per bambini sia parte di un lungo e nobile impegno a favore della memoria: affinché tutti possano sapere (magari, per non ripetere) e, anche, conoscere la personalità aristocratica di chi ha concretamente agito per aiutare i perseguitati. In questo caso, Ernst Leitz II. Da cui e per cui, segnaliamo anche il racconto video di Sally Enfield Rabinowitz, che ricostruisce l’odissea dei propri nonni, fotonegozianti ebrei a Francoforte (Ehrenfeld), a propria volta salvati da Ernst Leitz II. Il video è a disposizione all’indirizzo web www.youtube.com/watch?v=eBkAV nWi6FE: andate a vederlo! ❖



Sistema di Antonio Bordoni

E, ORA, DP0 QUATTRO

A

Avvincente e affascinante, il cammino fotografico del sistema Sigma dp Quattro, con sensore a immagine diretta Foveon X3. La più recente configurazione Sigma dp0 Quattro si aggiunge a quanto già presente sul mercato, e rinnova il gradimento che è stato espresso lo scorso 2014 con il Premio TIPA nella categoria Design, assegnato alle interpretazioni Sigma dp Quattro (originarie): «È raro che un produttore ridisegni completamente il design delle proprie macchine fotografiche, mentre studia anche una nuova e aggiornata versione dei sensori: questo è proprio ciò che ha fatto Sigma, con la nuova configurazione dp Quattro. La configurazione Sigma dp Quattro è stata completamente riprogettata per la prossima generazione di sensori Foveon X3 “direct image”. Ognuna delle tre versioni/interpretazioni della gamma condividono tra loro forma e funzioni, ma ciò che le distingue è l’obiettivo a focale fissa in dotazione (rispettivamente, 19mm, 30mm e 50mm, che equivalgono a 28mm, 45mm e 75mm della fotografia 24x36mm); quindi, sensore e obiettivo sono allineati e finalizzati a ciascuna dotazione. L’aspetto unico e il funzionamento delle Sigma dp Quattro le distingue dalle concorrenti, ed è una evidente dichiarazione di attenzione al design da parte del produttore». L’attuale e convincente Sigma dp0 Quattro è dotata di obiettivo grandangolare 14mm f/4 (equivalente alla focale 21mm del formato 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo). Al solito, la combinazione ottica dedicata è finalizzata ai migliori risultati fotografici in combinazione con il particolare sensore di acquisizione digitale di immagini. Per ottenere un’alta qualità formale, l’obiettivo impiega quattro elementi in vetro ottico FLD a basso indice di dispersione (“F” Low Disper-

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Il sistema fotografico Sigma dp Quattro, che si basa sull’adozione del sensore a immagine diretta Foveon X3, incrementa la propria scelta visuale con la configurazione Sigma dp0 Quattro, dotata di grandangolare 14mm f/4, equivalente alla focale 21mm del formato 24x36mm (inevitabile riferimento d’obbligo). L’attuale interpretazione si aggiunge alle precedenti Sigma dp1 Quattro (con 28mm), Sigma dp2 Quattro (con 45mm) e Sigma dp3 Quattro (75mm e 90mm con aggiuntivo ottico dedicato 1,2x).

sion), che offrono la medesima qualità delle lenti alla fluorite, e due elementi in vetro ottico a super bassa dispersione SLD (Special Low Dispersion), che riducono l’aberrazione cromatica. Ancora, la qualità ottica dell’obiettivo è ulteriormente incrementata dall’adozione, nello schema, di due lenti asferiche, una delle quali di grande diametro, lavorata sulle entrambe le superfici, che riduce la distorsione a meno dell’uno percento quando l’obiettivo è accomodato sull’infinito. Ciò permette risultati di grande nitidezza alla massima apertura, migliora l’immagine fino ai bordi e sfrutta nella maniera più completa le qualità del sensore di acquisizione, trasferendogli una gamma integra di informazioni sul soggetto. Capace di risultati ottici di alta qualità formale, il suo angolo di campo di novantuno gradi e la sua profondità di campo lo rendono perfettamente adatto alla fotografia di architettura, interni e paesaggio. Il Mirino Ottico VF (accessorio opzionale [FOTOgraphia, marzo 2015]) consente una perfetta visione del campo inquadrato e rende facile la composizione dell’inquadratura, anche con forte luce ambiente. Con il suo 21mm equivalente, l’attuale Sigma dp0 Quattro estende la scelta fotografica del proprio sistema:

28mm (Sigma dp1 Quattro), 45mm (Sigma dp2 Quattro), 75mm (Sigma dp3 Quattro) e 90mm (Sigma dp3 Quattro, con aggiuntivo ottico dedicato 1,2x). Ovviamente, tutte sono dotate del particolare sensore di acquisizione di immagini Foveon, basato sul caratteristico assorbimento della luce bianca da parte del Silicio. Il sensore comprende tre strati di fotodiodi, ciascuno situato a una diversa profondità all’interno di uno strato di Silicio, e ognuno corrispondente a un colore RGB. Attualmente, è l’unico sensore al mondo ad adottare questo sistema verticale di acquisizione dei tre colori ed è anche l’unico a immagine diretta. Il sensore a immagine diretta Foveon X3 acquisisce i colori verticalmente, cioè ogni pixel registra tonalità, valore, e croma accurato e completo, così da avere immagini ricche di tonalità e gradazioni colore. Inoltre, non vi è alcun filtro passabasso necessario per correggere l’interferenza causata dalla matrice dei filtri colore. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖



Contemporaneo di Angelo Galantini

I

SGUARDO A NORD

In coincidenza di date espositive, dal diciotto settembre al dieci gennaio prossimo, l’accreditata Fondazione Fotografia Modena avvia una nuova ricognizione della scena artistica che oggi caratterizza l’Europa nord-occidentale. Presso gli spazi espositivi del Foro Boario, di Modena, viene presentato un nucleo di acquisizioni riferite ai paesi nordici, recentemente entrate a far parte delle collezioni gestite dalla Fondazione e sinora mai esposte: oltre settanta opere di diciannove artisti-fotografi di primo piano, che suggeriscono l’eterogeneità e vivacità di tendenze espressive di un’area geografica che abbraccia Germania, Gran Bretagna e Scandinavia. Abbinato all’allestimento scenico di Fotografia Contemporanea dall’Europa nord-occidentale -altrove identificata anche come Fotografia contemporanea dall’Europa nord ovest. Capitolo I, semanticamente coincidente (ma quale è il titolo vero e ufficiale?)-, un’altra esposizione personale si offre in una combinazione “mostra nella mostra”: Tom Sandberg. Around myself è un omaggio al talentuoso fotografo norvegese Tom Sandberg (1953-2014), prematuramente mancato. Affascinante antologica di alto livello e contenuto straordinario. Ecco quindi che, come avviato, in coincidenza di date, sono presentate opere fotografiche che dialogano con quelle degli altri artisti europei, in un gioco di rimandi e affinità più o meno evidenti. L’intero progetto espositivo è a cura di Filippo Maggia, direttore di Fondazione Fotografia Modena. Nello specifico, e come annotato, Fotografia contemporanea dall’Europa nord occidentale. Capitolo I (adottando questa terza identificazione che ci è stata trasmessa, che ci pare la più coerente e indicativa) è scandita sul tempo e ritmo delle nuove acquisizioni -per l’appunto, dall’Europa nord occidentale-, che confermano, mantenendola, l’impostazione aperta che ha sempre caratterizzato le collezioni di fotografia contemporanea della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena: oltre un migliaio di opere

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da tutto il mondo, che Fondazione Fotografia, in qualità di società strumentale della fondazione bancaria, ha il compito di valorizzare. La pluralità e varietà degli artisti riuniti è uno dei principali punti di forza di questo nuovo capitolo di opere (che sarà presto seguito da un secondo capitolo, a completare l’Europa sud occidentale), che vanno dal

Astrid Kruse Jensen (Danimarca): Disappearing into the Past, nr. 55; 2012 (Stampa su fibra d’archivio; copyright l’artista).

(pagina accanto, in basso) Sarah Jones (Inghilterra): The Rose Gardens (Orange) (I); 2002 (Stampa a colori montata su alluminio; copyright l’artista).

paesaggio al ritratto, dalla staged photography all’istantanea, passando per il reportage e le installazioni. Molteplici sono anche i temi affrontati dagli artisti, che si confrontano con le più urgenti sollecitazioni che la realtà quotidiana impone alla nostra attenzione e indagano questioni legate alla storia del medium e alla natura delle immagini contemporanee.


Contemporaneo Hallgerdður Hallgrimsdottir (Islanda): Yield; 2014 (Stampa a getto di inchiostro; copyright l’artista).

COLLEZIONE FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO

DI

MODENA (4)

Gillian Wearing (Inghilterra): Me As Talbot; 2013 (Stampa al bromuro d’argento; copyright l’artista).

In visione collettiva, sono proposti artisti adeguatamente eterogenei per intenzioni e svolgimento: uno accanto agli altri, autori già noti della fotografia e attori che si stanno affermando oggi sulla scena internazionale. Doveroso l’elenco: Morten Andenæs (1979, Norvegia), Johann Arens (1981, Germania), Jonny Briggs (1985, Inghilterra), Willie Doherty (1959, Irlanda del Nord), Annabel Elgar (1971, Inghilterra), Hallgerður Hallgrímsdóttir (1984, Islanda), Ilkka Halso (1965, Finlandia), Sarah Jones (1959, Inghilterra), Sanna Kannisto (1974, Finlandia), Sandra Kantanen (1974, Finlandia), Astrid Kruse Jensen (1975, Danimarca), Lilly Lulay (1985, Germania), Melissa Moore (1978, Inghilterra), Barbara Probst (1964, Germania), Olivier Richon (1956, Svizzera / Inghilterra), Trine Søndergaard (1972, Danimarca), Wolfgang Tillmans (1968, Germania), Gillian Wearing (1963, Inghilterra). E si arriva ai diciannove annunciati e promessi con la personale di Tom Sandberg (1953-2014, Norvegia). Proprio a proposito della selezione Tom Sandberg. Around myself va annotato che si tratta di un corpus di immagini che la Fondazione Fotografia Modena presenta in (ante)prima assoluta per l’Italia. A cura di Sune Nordgren e Filippo Maggia, è stato composto un sentito e coerente omaggio al fotografo norvegese a poco più di un anno dalla sua scomparsa e a sette dalla grande retrospettiva che gli ha dedicato l’autorevole PS1, di New York. Nel corso di una carriera più che trentennale, Tom Sandberg ha lavorato soprattutto in bianconero, prediligendo medio e grande formato, e dando vita a una rilevante quantità di progetti e opere. I lavori esposti a Modena sono pervasi da un’inquietudine tipicamente nordica: visioni che divengono riflessioni aperte sulla vita e sulle sue infinite sfumature (sottolineate da una superba stampa); in taluni casi, vere e proprie allucinazioni che richiamano gli incubi pittorici di Edvard Munch, nelle quali la presenza umana è proiezione di sé, tanto incerta quanto definitiva. Intenzionalmente, le opere sono allestite in maniera disomogenea e senza didascalie, secondo quanto indicato dall’artista. Una sorta di caos

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Contemporaneo

Tom Sandberg (Norvegia): Untitled; 2009 (Courtesy Tom Sandberg Estate).

(centro pagina, in alto) Tom Sandberg (Norvegia): Untitled; 2009 (Courtesy Tom Sandberg Estate).

COLLEZIONE FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO

DI

MODENA (5)

Tom Sandberg (Norvegia): Untitled; 2010 (Courtesy Tom Sandberg Estate).

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(centro pagina, al centro) Tom Sandberg (Norvegia): Untitled; 2005 (Courtesy Tom Sandberg Estate).

Tom Sandberg (Norvegia): Untitled; 2003 (Courtesy Tom Sandberg Estate).

esistenziale senza soluzione, nel quale, però, tutto approda a una propria logica: così Tom Sandberg ha immaginato e ipotizzato la sua ultima esposizione, insieme all’amico curatore Sune Nordgren, prima di soccombere alla malattia. Così, il pubblico ha l’opportunità di calarsi a fondo nel tormentato mondo interiore del fotografo, presentato anche attraverso due documentari proiettati in mostra, con testimonianze dirette dell’artista e dei suoi amici più stretti. ❖ ❯ Fotografia contemporanea dall’Europa nord occidentale. Capitolo I (catalogo Skira). ❯ Tom Sandberg. Around myself. Mostre promosse da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, con il sostegno di UniCredit, inserite nel programma del festivalfilosofia 2015 dedicato al tema Ereditare, che si svolge a Modena, Carpi e Sassuolo, dal 18 al 20 settembre. Foro Boario, via Bono da Nonantola 2, 41121 Modena; 059-239888; www.fondazionefotografia.org, mostre@fondazionefotografia.org. Dal 18 settembre al 10 gennaio 2016; martedì-venerdì 15,00-19,00, sabato e domenica 11,00-19,00.



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RINASCITA DELL


VANITY FAIR (2007)

Per decenni, Giovanni Gastel ha interpretato la propria fotografia e creatività con strumenti e materiali più che convenzionali (sebbene spesso trasformati in conformità a intenzioni individuali). In particolare, ha agito soprattutto con il banco ottico di più grandi dimensioni otto-per-dieci pollici; ancora, è stato uno dei più capaci attori della fotografia a sviluppo immediato, altrettanto in otto-per-dieci. Il passaggio a nuovi tempi e metodi fotografici lo ha portato a teorizzare come e quanto l’attualità tecnologica stabilisca i termini di una nuova epoca, nella quale l’applicazione professionale può progettare fantastiche interpretazioni e soluzioni. Al solito, e come sempre annotiamo, il come che indirizza e risolve il perché. Al solito, e come sempre annotiamo, la fotografia allude al reale... è un’aggiunta alla realtà

LA FOTOGRAFIA

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di Maurizio Rebuzzini

S

enza ombra di dubbio, Giovanni Gastel è uno dei fotografi contemporanei più noti, concreti e conosciuti. Lontani dal voler attribuire etichette assolute, che si rinchiudono in una sola applicazione, registrandola incondizionatamente, va annotato che Giovanni Gastel agisce soprattutto nel mondo della moda -entro la quale ha esordito quaranta anni fa-, ed è anche un apprezzato ritrattista. Per certi versi, è curioso che si sia affermato come fotografo di figura (sempre staccati da etichette vincolanti), perché -alle origini- ha esordito nello still life, interpretando gli accessori moda con piglio, ironia, humour, inventiva, personalità e straordinaria capacità espressiva. In questo senso, richiamando ancora i momenti iniziali, quello di Giovanni Gastel è stato uno still life anche fumettistico, se

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così possiamo dire, che ha rivelato un fantastico dialogo con gli oggetti, frutto di un approccio convinto: raffigurare con piani di lettura particolari e equilibri compositivi capaci di palesare una realtà altra dietro la realtà a tutti apparente. Da cui, la filosofia portante e discriminante che esprime come e quanto la fotografia debba anche essere una aggiunta alla realtà. Comunque, il transito di Giovanni Gastel alla moda vera e propria, con la relativa allusione al reale, gli fu pronosticato. In quei primi momenti di suo professionismo fotografico. Oliviero Toscani, già “Oliviero Toscani”, apprezzò molto i redazionali originari in forma di still life, pubblicati sotto la direzione di Flavio Luchini (al quale dobbiamo l’editoria della moda in Italia); però, lo mise sull’avviso: «Vedrai -gli disse-, che presto ti faranno fotografare la moda indossata». E così è da quaranta anni circa. Con la sua fotografia, Giovanni Gastel ha creato un mondo


VANITY FAIR (2008)

(neanche troppo immaginario) pervaso da un sogno di bellezza ed eleganza: nel quale vorrebbe magari persino vivere, a scapito della realtà quotidiana. E di questo ne riflette, raccontandosi, nella “autobiografia” Un eterno istante. La mia vita (quadri di ricordi, che presentiamo su questo stesso numero, da pagina ventidue): da non perdere! Dalla mediazione espressiva (tecnica) al risultato formale, la sua è una fotografia dai connotati certi: inquadrature raffinate, composizioni rigorose... la fotografia diventa un linguaggio espressivo in pertinente equilibrio tra regole certe e abusi volontari. Così va rilevato che, per decenni, Giovanni Gastel ha fotografato con il grande formato 8x10 pollici a banco ottico, facendo altresì tesoro e lessico delle prerogative creative dello sviluppo immediato (a questo proposito, aneddoto parallelo e significativo, a fronte del tanto e tanto materiale sensibile utilizzato, la Polaroid

Corporation ha anche certificato che il suo consumo annuale ha superato in fatturato quello di tutta la Svizzera!). Sia in pellicola piana convenzionale, sia con lo sviluppo immediato (polaroid 8x10 pollici), Giovanni Gastel non si è mai limitato ai soli usi convenzionali e canonici delle emulsioni, ma ha sempre affrontato percorsi creativi ed espressivi autonomi: per fare un esempio, ottenendo tonalità seppia dal negativo-matrice bianconero accoppiato al supporto e alla chimica colore; per continuare in esempio, impiegando materiali scientifici, altrimenti indirizzati, nella fotografia convenzionale; per esempio, ancora, abbinando superfici dorate (e/o colorate) a supporti trasparenti. Per questo, una volta esauritosi il ciclo vitale di questa fotografia, nel passaggio all’acquisizione digitale di immagini, Giovanni Gastel ha intuito (e teorizza) una nuova invenzione della fotografia. In assoluto, afferma che la sua capillare diffusione attraverso strumenti semplificati (anche complementari: smarphone e dintorni) ha creato una nuova lingua. In relazione all’impegno professionale è consapevole delle fantastiche possibilità oggi a disposizione dell’autore, che può fare tesoro di una postproduzione finalizzata alla coerente e efficace raffigurazione del soggetto. Da Un eterno istante. La mia vita: «A capofitto, allora, nella nuova avventura digitale. Bisogna capire il mezzo nuovo, devo capire le sue possibilità straordinarie e farle mie nel profondo e in fretta. Allora, ti rendi conto che tutto è cambiato e diverso, che tutte le scelte che facevi prima di fotografare -i contrasti, le filtrature, le cromie-, ora si fanno a valle, dopo lo scatto. Immensa novità, che sposta e prolunga l’atto creativo. [...] E, poi, capire che il “sistema nuovo” contiene un’estetica nuova e tu devi cercarla, dimenticando la fotografia di prima. Devi evitare di chiedere al sistema di ritrovare e ricreare il già fatto, e usare il nuovo mezzo per dire nuove cose». Attenzione: siamo sempre coscienti di commentare il come, in funzione del perché. Del resto, la consecuzione è spesso determinante anche sulla grammatica espressiva. Così che richia(continua a pagina 42)

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VANITY FAIR (2009)




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AMICA (2013)


(continua da pagina 37) miamo, per esempio, l’Impressionismo pittorico: straordinaria esperienza culturale ed espressiva, con retrogusto... tecnico (osservazione utilitaristica, in questo momento). Vediamola così, solo ora e solo finalizzata all’ipotesi che stiamo affrontando. Oltre i valori del proprio contenuto, fondamentale nella storia dell’arte, tecnicamente parlando, l’Impressionismo è stato reso possibile da due apporti fondamentali (che oggi sarebbero classificati come hardware e software), invenzioni del tempo: pennelli con setole di maiale, da cui le caratteristiche pennellate dense e pastose, e tubetti per i colori a olio, che consentirono di uscire dallo studio, per andare en plein air (per le cui escursioni, si annota anche l’invenzione del cavalletto da campagna, facile da trasportare). In rafforzo, ancora da Un eterno istante. La mia vita (dal come al perché e regole logiche e usi arbitrari): «I mezzi [fotografici]

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contano immensamente e in un certo senso contano nulla. [...] Non c’è una mia fotografia che non sia “sbagliata”, sovraesposta, sottoesposta, mossa, sfocata, mossa e sfocata, sgranata, esposta due volte, tre volte. Giocare con la fotografia come un bambino col suo meccano. Ho usato la fotografia come base, ritagliandola, dipingendola, stracciandola e rifotografandola. Giocando e cercando il limite, sempre». La disposizione d’animo e d’azione di Giovanni Gastel -consapevole della successione come... perché- è una delle chiavi che definiscono la fotografia professionale, che prima di tutto deve assolvere i propri compiti istituzionali nei confronti della comunicazione approntata: sia redazionalmente, sia in annunci pubblicitari. Nel farlo, si intravedono le differenze, si intuiscono i valori e le profondità degli autori che hanno la capacità di andare oltre l’apparenza a tutti visibile. Diciamola anche così, prendendo


GLAMOUR (2014)

a prestito da Pino Bertelli, caustico osservatore della Fotografia: «Solo i poeti sanno raccontare ed evocare sogni dolcissimi e inebrianti». Ed è giusto questo lo spessore della fotografia di Giovanni Gastel, in relazione all’assolvimento dei propri incarichi e al supplemento della sua interpretazione e risoluzione. Il concetto deve essere chiaro. Ogni volta che si affronta il discorso fotografico, è necessaria una premessa, almeno una. Per quanto molti siano convinti che la fotografia abbia una stretta parentela con la realtà... niente è più lontano da questa ipotesi, poco le è meno aderente. Infatti, a sostanziosa e sostanziale differenza da ogni altra forma di comunicazione ed espressione (non soltanto visiva), la fotografia è sì vincolata dalla e alla presenza di un soggetto fisico (sia naturale, sia allestito artificiosamente), ma tra raffigurazione indispensabile e rappresentazione volontaria e consapevole ci sta un autore,

la cui azione è guidata e indirizzata dalle sue esperienze, convinzioni e intenzioni, oltre che dai suoi ovvi pre-concetti. Da e con Hubertus von Amelunxen (docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali alla Graduate School di Saas-Fee, Svizzera): «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta; il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica» (in The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History ; 1998). Ancora, da e con Lucia Moholy: «Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Di qui molti traggono la conclusione che la fotografia non sia per nulla un’arte» (in Cento anni di fotografia 1839-1939 ; prima e unica edizione italiana, 2008). In effetti, è vero... pur dissentendo dalle relative conclusioni (o accordandoci, fa lo stesso). L’esercizio della fotografia dipende anche dal sapiente uso e impiego dei suoi strumenti basilari, che l’autore-fotografo deve saper controllare e guidare, per orientare la propria espressività e creatività secondo intenzioni: sintassi di un linguaggio che, come ogni altro, presuppone proprie declinazioni e rivelazioni. In similitudine, punteggiatura, tempistica, evocazione e riconoscimento della scrittura e parola. La fotografia professionale di Giovanni Gastel è raffigurativa per irrinunciabile necessità, ma rappresentativa e interpretativa per indiscutibili intenzioni (e capacità): è realizzata con tanto e tanto amore, sia per il soggetto, sia per la mediazione (fotografia), sia per l’osservatore destinatario. E la fotografia deve essere sempre e comunque un gesto di amore. Il suo fascino estraniante rimanda alla parola mai detta, alla felicità dell’esistenza, al sogno che ciascuno ha nel proprio cuore. Guardatele bene queste fotografie (poesie). Indipendentemente dal soggetto-pretesto, come anche allineati al soggetto-pretesto, quando le osserviamo, queste fotografie valgono per tutto quanto ciascuno di noi trova in se stesso. ❖

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di Angelo Galantini

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iciamocelo con franchezza, ovvero con la schiettezza che è di dovere: etico e morale. L’Italia è uno di quei paesi nel quale sono stati lanciati tanti e tanti programmi fotografici, che si sono esauriti alla loro prima (e unica) edizione. Salvo rari casi, nobili in assoluto e meritevoli in relazione alla considerazione appena espressa, tra “biennali” e altre cadenze -ma quella più frequentata è proprio il ritmo

dei due anni- abbiamo assistito a tante nascite... senza crescita. Ovviamente, l’annotazione è soltanto amara e dolorosa; infatti, non giudichiamo nessuno, non condanniamo, non valutiamo al solo negativo, ma osserviamo e registriamo. Altrettanto ovviamente, comprendiamo la buonafede di tutti coloro che, animati da intenzioni volonterose, finiscono per scontrarsi con realtà dure e avverse. In effetti, non sono le idee che mancano, anche se di qualcuna avremmo fatto volentieri a meno, ma è la mancanza di economie adeguate che mortifica

Gianni Berengo Gardin: Cantieri navali Ansaldo; Genova, 1978.

© GIANNI BERENGO GARDIN / CONTRASTO

La seconda edizione di Foto/Industria, autorevole biennale di fotografia dedicata la lavoro in tutte le proprie forme, declina la parola “produzione” fino a comprendere l’intera filiera, dalla creazione al riciclaggio. A cura dell’accreditato François Hébel, il programma conferma e ribadisce e percorre il punto di vista statutario del Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), che propone l’analisi del rapporto sulla raffigurazione e rappresentazione del mondo industriale. Quattordici mostre in dodici sedi del centro storico di Bologna

PRODURRE!

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FOTO/INDUSTRIA BOLOGNA ’15

Comprensibilmente, Foto/Industria Biennale 2015, a cura dell’accreditato François Hébel, il cui palmares è tra i più qualificati al mondo, conferma e ribadisce e percorre il punto di vista statutario del Mast, che propone l’analisi del rapporto sulla raffigurazione e rappresentazione del mondo industriale. Dunque, il punto di osservazione è dichiarato e vincolante. Tanto che questa seconda edizione di Foto/Industria Biennale replica l’insieme di mostre fotografiche che nell’autunno 2013 hanno accompagnato la solenne e fastosa inaugurazione del convincente museo bolognese [FOTOgraphia, dicembre 2013]. Ancora e anche in questo appuntamento, si registra il coinvolgimento di luoghi simbolo della cultura bolognese: quattordici mostre (dodici delle quali personali, una collettiva e una retrospettiva bibliografica) in dodici sedi del centro storico di Bologna. La quantità è stata scomposta dal curatore François Hébel in cinque passi consequenziali, ai quali si aggiungono due momenti collaterali e di collegamento ideale.

© THE ESTATE

OF

O. WINSTON LINK / COURTESY ROBERT MANN GALLERY

O. Winston Link: Locomotiva Hot Shot in direzione est; West Virginia, 1956.

l’occuparsi di fotografia e con la fotografia, in un paese (di provincia assoluta) nel quale le priorità sociali paiono essere altre e nel quale le sudditanze politiche creano imbarazzanti presupposti e inquietanti sottintesi. Volente o nolente, questo è! Quindi, considerata la statura del riferimento e valutato il cammino (anche soltanto fotografico) fin qui percorso dal Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), delle cui mostre a tema abbiamo puntualmente riferito, osiamo ipotizzare che, dopo l’originaria di due anni fa, Foto/Industria Biennale 2015 rappresenti l’effettiva conferma di un appuntamento che si ripeterà puntualmente negli anni a venire. Le basi organizzative e scientifiche del programma sono solide; i supporti finanziari che lo sostengono sono al di sopra di ogni sospetto; l’autorevolezza dei curatori è fuori discussione; la realtà Mast / Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia offre garanzie sicure ed evidenti. Insomma, lascia intendere che questa si affrancherà come autentica “biennale” fotografica di profilo alto, di svolgimento assicurato.

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Virginia, nel momento in cui, in lontananza, passa un treno a vapore che rilascia una incantevole e seducente scia di fumo. Ancora, tra tanto altro ancora, che comprende anche treni in sosta in piccole stazioni di provincia, o al passaggio tra centri abitati, si ricorda Hawksbill Creek Swimming Hole, altrettanto del 1956, che mostra un treno che passa su un ponte sopra un gruppo di bambini che giocano nell’acqua del fiume. In ogni caso, set complessi, che richiedevano tre-quattro giorni di preparazione. Per chi è interessato, Steam, Steel & Stars è una monografia del 1987 che raccoglie una consistente quantità/qualità di fotografie di O. Winston Link. Come già annotato nell’ottobre 2012, quando abbiamo declinato considerazioni a partire da un programma televisivo statunitense, visibile anche in Italia, al pari dell’illustratore Norman Rockwell (mirabili le sue tavole per il Saturday Evening Post ), anche O. Winston Link ha celebrato una idilliaca visione della provincia statunitense: tutta serenità e buoni sentimenti. In particolare, ha (ri)creato scenari di vita bella e pura, soprattutto notturna, va ribadito, il-

Hong Hao: Le mie cose n. 7; 2004 (oggetti scansionati). Hong Hao: Libri Contabilità 07 B; 2008 (oggetti scansionati).

© HONG HAO / COURTESY PACE BEIJING (2)

È corretto riferirne con ordine e disposizione: e lo stiamo per fare. Però, in anticipo individuale (quasi intimo), richiamiamo una nota assolutamente personale: il grande piacere per la presenza, tra le dodici personali d’autore, dello statunitense O. Winston Link (1914-2001), dove la “O” puntata sta per Ogle, straordinario fotografo, a tutti gli effetti fantastico autore, colpevolmente ignorato da qualsivoglia Storia della Fotografia. Allestimento nella sede della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, a Casa Saraceni. Con l’occasione, nostre annotazioni. Ingegnere per formazione scolastica, O. Winston Link è stato un fotografo commerciale, che ha lavorato soprattutto (e quasi soltanto) per la compagnia ferroviaria Norfolk & Western Railway. Sono note (?) le sue fotografie notturne, per le quali preparava minuziosamente il soggetto, poi illuminato con una consistente quantità di flash elettronici, distribuiti su aree di grandi dimensioni. Per esempio, Hotshot Eastbound, del 1956, presentata anche alla Biennale di Bologna [pagina accanto], raffigura un drive-in in West

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(pagina accanto, al centro) Milano ritratti di fabbriche, di Gabriele Basilico; SugarCo, 1981 (dalla Collezione Savina Palmieri).

luminata con una quantità e varietà di flash elettronici. Infine, una nota per noi dolente, che in un certo senso riprende il clima dell’esordio. Alla scomparsa di O. Winston Link, il piccolo paese di Roanoke, in Virginia, sede di molte attività della Norfolk & Western Railway, per la quale ha sempre lavorato il fotografo, ha riconvertito la propria stazione ferroviaria in disuso in avvincente e appassionante O. Winston Link Museum, dove sono custodite ed esposte le sue attrez-

zature fotografiche (banchi ottici 4x5 pollici e una infinità di flash elettronici) e allestite le sue fotografie più significative; anche la sola visita virtuale è appagante: www.linkmuseum.org.

PASSO A PASSO Comunque, e in conferma individuale, proprio la presenza di un sostanziale “outsider”, quale è -purtroppoO. Winston Link, rivela l’attenzione con la quale è stato

CHI. COSA. DOVE. QUANDO. PERCHÉ

Ospitate in dodici sedi del centro storico di Bologna, le dodici mostre personali di Foto/Industria Biennale 2015 sono programmate dal due ottobre al Primo novembre. Mentre le due mostre allestite al Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), una collettiva e un casellario bibliografico, proseguono fino al prossimo 10 gennaio 2016. Il cartellone, suddiviso per temi.

Fondazione del Monte, Palazzo Paltroni, via delle Donzelle 2, 40126 Bologna. L’uomo, il lavoro, la macchina. Esattamente in quest’ordine. Con questa sequenza di sostantivi, Gianni Berengo Gardin definisce la sua lunga frequentazione con fabbriche, aziende, laboratori, che dalla fine degli anni Settanta sono uno dei suoi terreni privilegiati di indagine [a pagina 45].

Post-produzione ❯ David LaChapelle (New York, Usa): Paesaggio - Land scape. Pinacoteca Nazionale, via delle Belle Arti 56, 40126 Bologna. Modelli in scala realizzati a mano per esplorare le infrastrutture della produzione e distribuzione del petrolio, per illustrare l’aspetto che hanno sulla società moderna [pagina accanto]. ❯ Hong Hao (Pechino, Cina): Le mie cose, Fondi. MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, via don Giovanni Minzoni 14, 40121 Bologna. Progetto iniziato nel 2001: serie di fotografie realizzate scansionando oggetti. Progetto protrattosi per dodici anni, che nel pensiero tradizionale cinese rappresentano il periodo di trasmigrazione in cicli di fati e destini diversi [a pagina 47].

Pausa ❯ Kathy Ryan (New York, Usa): Office Romance. Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, Strada Maggiore 34, 40125 Bologna. «Tutto è cominciato un pomeriggio, quando ho visto una saetta di luce lungo le scale del New York Times Magazine. Allora, ho preso il mio iPhone e ho scattato. E, poi, ho cominciato a vedere immagini di continuo. Il mio ufficio era pieno di incredibile bellezza e poesia» [pagina accanto]. ❯ Jason Sangik Noh (Seul, Corea del Sud): Biografia del cancro. Villa delle Rose, via Saragozza 228-230, 40135 Bologna. Jason Sangik Noh è un cardiologo specializzato in oncologia. Il suo progetto comprende referti scritti a mano, risultati di analisi, grafici e fotografie, che coniugano l’approccio scientifico al paziente con una considerazione per l’aspetto umano, attraverso uno sguardo attento alla sua vita quotidiana e alle sue passioni.

Produzione ❯ Edward Burtynsky (Toronto, Canada): Paesaggio industrializzato. Palazzo Pepoli Campogrande, via Castiglione 7, 40124 Bologna. Fotografia che abbraccia sistematicamente i grandi spazi, anche quando si sofferma a riprendere l’interno di una fabbrica cinese: spazi belli, ma anche respingenti. ❯ O. Winston Link (New York, Usa): Norfolk and Western Railway. Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Casa Saraceni, via Farini 15, 40124 Bologna. Consistente corpus di immagini uniche della ferrovia, soprattutto notturne, riprese dal 1955 al 1959 su una delle ultime grandi linee di treni a vapore degli Stati Uniti [a pagina 46]. ❯ Luca Campigotto (Milano): La poesia dei giganti. Spazio Carbonesi, via de’ Carbonesi 11, 40123 Bologna. Fotografia che dà rilievo e ruolo ai dettagli. La prua di una barca occupa due terzi di una inquadratura, il braccio di una gru taglia una composizione in più segmenti, un cumulo di cavi è allusione a una nave di dimensioni gigantesche. Produttori ❯ Pierre Gonnord (Madrid, Spagna): (Altri) lavoratori. Santa Maria della Vita, via Clavature 8, 40124 Bologna. «Cammino alla ricerca di incontri e di altre esperienze di vita. Il ritratto nasce da un’intimità fragile e silenziosa che tenta di lottare contro l’oblio». ❯ Neal Slavin (New York, Usa): Ritratti di gruppo. Spazio Carbonesi, via de’ Carbonesi 11, 40123 Bologna. La fotografia di gruppo è un genere ampiamente praticato negli Stati Uniti da fotografi di quartiere, che immortalano ogni genere di associazione. Negli anni Ottanta, Neil Slavin ha conosciuto un lusinghiero successo, rivoluzionando lo stilema. ❯ Gianni Berengo Gardin (Milano): L’uomo, il lavoro, la macchina.

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Prodotti ❯ Hein Gorny (Berlino, Germania): La nuova oggettività e l’industria: prodotti industriali e progettazione d’immagine negli anni 1920-1930 in Germania. Museo della Storia di Bologna, Palazzo Pepoli, via Castiglione 8, 40124 Bologna. Hein Gorny (1904-1967) è stato un fotografo commerciale di talento. In particolare, si registra il valore della modernità delle sue interpretazioni, che hanno visualizzato l’estetica e il design della produzione industriale all’indomani della Prima guerra mondiale. ❯ Léon Gimpel (Parigi, Francia): Luci e luminarie. Museo di Palazzo Poggi, via Zamboni 33, 40126 Bologna. Fotografie notturne. Parigi, vigilia di Natale 1921: in rue de Rivoli, un elefante aspira l’acqua da una cascata e innaffia un gruppo di scimmie nascoste tra le palme. In una città che l’ingegnere fiorentino Fernando Jacopozzi ha trasformato in Ville Lumière, le autocromie di Léon Gimpel (1873-1948) visualizzano esplosioni di luci e colori [pagina accanto]. Giovani fotografi, IV edizione GD4Photoart 2015 ❯ Marc Roig Blesa (Olanda / Spagna); Raphaël Dallaporta (Francia); Madhuban Mitra e Manas Bhattacharya (India); Óscar Monzón (Spagna). Mast Gallery, via Speranza 42, 40133 Bologna. Collezione Savina Palmieri ❯ Volumi di Fotografia Industriale: Industria italiana dagli album ai libri fotografici. Mast Gallery, via Speranza 42, 40133 Bologna. Prima è venuto l’album, poi l’opuscolo, infine il libro: nel corso degli ultimi cento anni, le industrie sono sempre ricorse alla stampa per sostenere e promuovere la propria attività [pagina accanto].


© DAVID LACHAPELLE / COURTESY GALERIE DANIEL TEMPLON PARIS - BRUSSELS COURTESY SOCIÉTÉ

FRANÇAISE DE PHOTOGRAPHIE

(SFP)

© KATHY RYAN

allestito il programma espositivo di Foto/Industria Biennale 2015, che si allunga dal due ottobre al Primo novembre, con un’appendice fino al prossimo dieci gennaio per le due esposizioni in cartello presso la sede del Mast. Come anticipato, le dodici mostre d’autore sono suddivise in cinque temi: Post-produzione (due mostre), Produzione (tre mostre), Produttori (tre mostre), Pausa (due mostre) e Prodotti (due mostre). A questi cinque temi, che contengono e propongono dodici personali d’autore, si aggiungono le altre due mostre -per il totale di quattordici- del Mast: collettiva di quattro giovani fotografi dalla quarta edizione GD4Photoart 2015 e casellario di Volumi di Fotografia Industriale, dalla collezione Savina Palmieri. Il curatore François Hébel, direttore artistico dalla parte dei fotografi da trentacinque anni, produttore e curatore di numerose iniziative, esposizioni e libri, è esplicito quando afferma che «Produrre, una parola che accomuna tutto il mondo del lavoro, che si applica tanto alla sfera materiale quanto a quella immateriale. Questa seconda edizione di Foto/Industria, biennale

di fotografia dedicata la lavoro in tutte le sue forme, declina la parola “produzione” fino a comprendere l’intera filiera, dalla creazione al riciclaggio». Ancora, e nello specifico, «Le attività chiamate in causa sono le più svariate, prova, questa, che per i fotografi non esistono soggetti poco attrattivi, e che molteplici sono i modi di affrontarli. In questa edizione, a fianco di artisti di grande fama (reporter, ritrattisti, fotografi di industria), troviamo giovani professionisti e fotografi non fotografi che, attraverso il prisma della fotografia, hanno infuso un tocco di umanità alle proprie professioni. L’ambito del lavoro e della produzione richiama immediatamente la vita quotidiana e la società. Un terreno fertile per la fotografia, fin dalla propria nascita, luogo di sfide, di simboli, nel quale la realtà viene raccontata, ma anche trasformata». In conclusione proiettata in avanti: «Foto/Industria crede nella possibilità di estendere i temi della fotografia a una platea sempre più vasta e di contribuire a una migliore qualità del nostro sguardo». Ancora: missione della fotografia. ❖

Léon Gimpel: Parigi, Primo dicembre 1933, luminarie delle Galeries Lafayette.

(in alto) David LaChapelle: Land Scape; Castle Rock, 2013.

(centro pagina, in alto) Kathy Ryan: Office Romance: 7/3/2013, 6:36 pm, The New York Times.

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TAU Visual si presenta

Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Assoicazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.

Diventare Socio TAU Visual

Per avere un’idea delle attivita’ dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.

Un regalo utile per i lettori di

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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica


SOTTILE LA LINEA di Antonio Bordoni

F

otografa dal cuore grande, Francesca Salice non assolve incarichi professionali, ma interpreta e declina una fotografia personale e d’amore, osservando il reale, ovverosia la vita nel proprio svolgersi: viaggi e street photography, soprattutto. Dunque, applica e offre una visione diretta, stabilita da un collegamento rettilineo e guidato tra autore e osservatore. Nello specifico, è il caso della consistente selezione La linea dei sentimenti, a cura di Denis Curti, allestita alla Galleria Still, di Milano, dal ventiquattro settembre al successivo ventidue ottobre. E qui è il caso di ribadire, una volta ancora, una di più, ma mai una di troppo, una condizione sovrastante della fotografia, della sua comunicazione visiva ed emozionale. Per propria natura raffigurativa, la fotografia è rappresentativa per scelta e volontà esplicita dell’autore. A diretta conseguenza, c’è anche e ancora una fotografia dell’anima, che invece sollecita altre osservazioni, che dalla propria superficie apparente si proiettano in altri ambiti del pensiero e della riflessione individuale, che l’autore richiama e ai quali l’autore invita. Se serve un parallelo con la parola, scritta o detta, è presto fatto: da una parte, c’è la cronaca diretta dei fatti; dall’altra, la poesia delle evocazioni.

La linea dei sentimenti è una selezione di fotografie da viaggi che Francesca Salice ha realizzato nel mondo: Zanzibar, Marocco, Birmania, India e Nepal. La rappresentazione di luoghi e situazioni passa attraverso visioni sostanzialmente concrete. Non si consideri nessuna fotografia significativa in quanto tale (come pure è, con altri proponimenti), ma le si intendano tutte insieme, incluse in un discorso complessivo e concluso: ogni fotografia è il verso di un canto, che si svolge -istante dopo istante- davanti ai nostri occhi

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Ciò a dire che nessuna delle fotografie di La linea dei sentimenti, che Francesca Salice ha visualizzato in una successione di viaggi in Zanzibar, Marocco, Birmania, India e Nepal, è soltanto ciò che raffigura. Infatti, la rappresentazione passa attraverso visioni sostanzialmente concrete, perché questo è il linguaggio della fotografia, ma non sempre coincide con la propria raffigurazione. Ovvero, non si tratta di valutare un soggetto piuttosto di un altro. Quindi, proseguendo nell’approfondimento delle apparenze, può essere rilevante una certa costante riproposizione di colori forti, piuttosto che di simbologie di immediato richiamo. Comunque, non si consideri nessuna fotografia significativa in quanto tale (come pure è), ma le si intendano tutte insieme, incluse in un discorso complessivo e concluso: ognuna è il verso di un canto, che si svolge -istante dopo istante- davanti ai nostri occhi. «Quando scatto -osserva Francesca Salice-, ricerco soprattutto situazioni che raccontino il luogo in cui mi trovo; mi interessano particolarmente i ritratti ambientati, che trasportano lo spettatore proprio in quel determinato posto e in quel determinato momento. Ciò che, inoltre, mi affascina, e che sono istintivamente portata a scegliere, sono il colore, la genuinità di un istante e le emozioni positive». In comunione di intenti, e dal proprio profilo, il curatore Denis Curti sottolinea che «Queste immagini si ispirano all’inconfondibile

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condotta meditata con la quale i primi fotografi esploratori del mondo tentavano con successo di “incanalare il flusso della coscienza visiva del nostro tempo”». A cui consegue che tra la realtà e la sua rappresentazione fotografica si sovrappone l’intenzione dell’autore, forte delle proprie esperienze e finalità. Così che gli attimi sospesi dalla fotografia di Francesca Salice rivelano sia armonia formale, sia adesione al soggetto. Alla ricerca di qualcosa che conosce bene, l’autrice-fotografa si è espressa isolando visioni, creando visioni, proponendo visioni. Nessuno pensi di poter rintracciare le situazioni prese a pretesto e rivederle nello stesso modo. Nessuna di queste fotografie è della realtà, ma tutte prendono spunto da una realtà individuata e codificata per comunicare qualcosa d’altro. Del resto, come sappiamo tutti (o dovremmo saperlo), l’attività principale di ciascuno di noi rappresenta anche la chiave attraverso la quale ognuno osserva la vita, appunto ricondotta attraverso parametri individuali: l’artista proietta, poi, la propria individualità all’esterno, concedendola alla collettività tutta. Miracolo della fotografia, che unisce gli animi tanto quanto troppe parole dei nostri giorni dividono. ❖ Francesca Salice: La linea dei sentimenti; a cura di Denis Curti. Galleria Still, via Balilla 36, 20136 Milano; www.stillfotografia.it. Dal 24 settembre al 22 ottobre, lunedì-venerdì 9,00-18,00, sabato e domenica su appuntamento.

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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

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ottobre 2015

GIAN PAOLO BARBIERI. SKIN... AVVINCENTE MONOGRAFIA D’AUTORE. E richiami evidenti


DOPPIO PASSO SINCRONIZZATO

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CARLO ALBERTO (PALAZZO CARIGNANO) PIAZZA

TORINO: MILANO:

PIAZZALE

CADORNA

Fotografia panoramica a obiettivo rotante: trecentosessanta gradi per raffigurare spazi e luoghi di Torino e Milano. Piero Ottaviano e Giorgio Jano hanno realizzato un intenso e proficuo progetto di fotografia orbicolare utilizzando una configurazione tecnica ideata e realizzata dallo stesso Giorgio Jano. Le ragioni per accettare di buon grado le caratteristiche estetiche della fotografia panoramica sono molte e molto serie: come sottolineano le visioni e visualizzazioni riunite nella avvincente monografia Torino Milano [cinquanta fotografie senza mirino]... in doppio passo sincronizzato. Ironicamente Ottav... Jano (calambour )

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di Angelo Galantini

TORINO:

PIAZZA

SOLFERINO /

VIA

CERNAIA

TORINO:

VIA

PIETRO MICCA /

VIA

XX

SETTEMBRE

R

accolta in monografia, la rilevazione fotografica a trecentosessanta gradi dei piemontesi Piero Ottaviano e Giorgio Jano non si esaurisce nel proprio solo svolgimento: visioni orbicolari di luoghi di Torino e Milano culturalmente e architetturicamente pertinenti e significativi. Oltre a questo, che è soggetto della loro indagine, ci sta anche un fantastico incontro di personalità. Da cui, il richiamo della prefazione di Piero Ottaviano -per l’appunto, Un libro che nasce da un incontro- e l’incipit del suo testo: «Questo libro nasce da una macchina fotografica [...] e probabilmente dal mio incontro con le fotografie di Giorgio [Jano] a una mostra della Libreria Editrice Agorà, di Torino, all’inizio degli anni Novanta». In effetti, Giorgio Jano interpreta la fotografia panorama e

panoramica da tante e tante stagioni: panorama, con inquadrature/composizioni accelerate, soprattutto nel rapporto 1:3, 6x17cm; panoramica, con apparati a obiettivo rotante e visione a trecentosessanta gradi. In entrambe le applicazioni, sempre e comunque con dotazioni tecniche autocostruite. A questo proposito, annotiamo che all’inizio dei Novanta, in occasione della prima uscita pubblica della sua configurazione 6x17cm originaria, pubblicammo un suo portfolio, accompagnato da note tecniche di realizzazione, sul mensile PRO-Professionisti dell’immagine, redazionalmente precedente l’attuale/successiva edizione di FOTOgraphia. Per l’odierno Torino Milano [cinquanta fotografie senza mirino], pubblicato da Musumeci Editore, le fotografie delle due città sono state realizzate con un’altra macchina fotografica, analogamente ideata e realizzata da Giorgio Jano: la identificata 2πf, panoramica

PANORAMICA A TRECENTOSESSANTA GRADI

Alcune espressioni visive della fotografia hanno sostanziosi debiti di riconoscenza con gli utensili della loro realizzazione. Sempre indispensabile, a volte, l’apparato tecnico della fotografia è discriminante: uno dei casi più clamorosi -e altri ce ne sonoè quello della rappresentazione panoramica a obiettivo rotante, sia con configurazioni a rotazione completa di trecentosessanta gradi (quale è l’odierno caso del progetto Torino Milano [cinquanta fotografie senza mirino], di Piero Ottaviano e Giorgio Jano), sia con dotazioni a rotazione limitata a centoventi-centotrenta gradi di escursione (in ordine sparso e casuale, Horizont, Horizon, Viscawide-16, Widepan, Widelux, FT-2 e Noblex di buona memoria). Già ideatore di soluzioni per l’inquadratura panorama 6x17cm (con relativo nostro primo incontro, per la precedente edizione di PRO-Professionisti dell’immagine, nell’autunno 1992), Giorgio Jano ha realizzato anche la definita 2πf: panoramica a trecentosessanta gradi con Rodenstock Apo-Grandagon 35mm f/4,5 decentrabile, su pellicola 70mm a doppia perforazione [qui a destra]. Il princìpio è noto da tempo: addirittura, si incontrano applicazioni che partono dagli istanti di origine della stessa fotografia, in forma di dagherrotipo. Però, a differenza di altre configurazioni (alcune delle quali hanno animato le stagioni di fine millennio,

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OREFICI VIA

TORINO /

Torino Milano [cinquanta fotografie senza mirino], di Piero Ottaviano e Giorgio Jano; con testi introduttivi, in italiano e inglese, di Piero Ottaviano ( Un libro che nasce da un incontro), Giorgio Jano ( Dilatare l’orizzonte) e Ugo Castagnotto ( Un libro che nasce da una macchina); Musumeci Editore, 2014; 120 pagine 33x21cm, cartonato con sovraccoperta; 65,00 euro.

sia a rotazione angolare limitata, sia a rotazione completa di trecentosessanta gradi), questo progetto di Giorgio Jano risponde a capitolati specifici e non generici e generalizzati. Anzitutto, l’obiettivo di ripresa fortemente grandangolare -35mm sul lato corto del fotogramma (6cm)- rivela l’indirizzo privilegiato verso spazi stretti e/o raffigurazioni concentrate a trecentosessanta gradi; in conseguenza, il rapporto tra i lati del fotogramma è sostanzialmente contenuto, in relazione al concetto di panoramica a obiettivo rotante: 6x22cm circa, in una relazione di poco inferiore a 1:4 (più concentrata, rispetto le dilatazioni di altri sistemi “industriali” di concetto analogo). Proprio il passo del rapporto tra i lati produce sostanziose e convincenti inquadrature panoramiche più facilmente gestibili di quelle che derivano da rapporti ulteriormente dilatati, con clamorosa differenza tra le due dimensioni, orizzontale rispetto al verticale. Ancora, nel caso di Piero Ottaviano e Giorgio Jano, la lavorazione delle copie definitive su carta è stata coerente con le attuali tecnologie di gestione e produzione dell’immagine. In un processo integrato, i negativi bianconero sono stati acquisiti con uno scanner dedicato, in modo da poter lavorare in postproduzione sui toni, sui contrasti e sulla densità delle ombre e delle luci. Gli ingrandimenti sono stati realizzati con una stampante inkjet, con inchiostri ai pigmenti di carbone.

VIA

per spazi stretti ed è senza mirino. Imparare a usarla è come riuscire a utilizzare un arto che non sapevi di avere. Alla fine, però, è tuo. La fotografia panoramica a trecentosessanta gradi mette in relazione le architetture che stanno dietro con quelle davanti, in una inquadratura si hanno tutte le situazioni di luce possibili; il risultato ha le linee dritte solo in verticale, è un superamento delle due dimensioni senza arrivare a tre, ti consente e ti obbliga a considerare tutto quello che ti circonda». Ovviamente, e al solito, e come sempre, commentiamo l’apporto tecnico degli utensili per sottolineare il linguaggio e l’espressione della fotografia, che in questa specifica intenzione e applicazione dipendono in larga misura dalla coerente consecuzione di intenzioni e soluzioni. Infatti, e per l’appunto, Piero Ottaviano prosegue in sintonia: «Sono convinto che le sensazioni che produce lo sguardo, in un determinato punto e orientato

MILANO:

PIAZZA

CORDUSIO

MILANO:

PIAZZA DEL

DUOMO /

VIA

MAZZINI /

a trecentosessanta gradi con Rodenstock Apo-Grandagon 35mm f/4,5 decentrabile, su pellicola 70mm a doppia perforazione [pagina accanto, in basso]. Ancora, l’apparato è privo di mirino di previsualizzazione della copertura di campo orbicolare, presente invece in ogni altra dotazione analoga di produzione “industriale”: da cui, la specifica nel titolo «Cinquanta fotografie senza mirino». Già... fotografia panoramica a trecentosessanta gradi, con tutto ciò che questa particolare visione orbicolare comporta (e non c’entrano nulla le opzioni di postproduzione analogamente panoramica di sequenza di fotografie singole riprese con spostamento orizzontale programmato: la scansione dell’obiettivo rotante è altro, è ben altro). Annota Piero Ottaviano, in introduzione alla raccolta/monografia Torino Milano [cinquanta fotografie senza mirino]: «La 2πf [realizzata da Giorgio Jano con grande passione e adeguati calcoli matematici] è stata costruita

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MONCALIERI

RIBERI (MOLE ANTONELLIANA)

CORSO

VIA

DI

DIO /

CORSO

CASALE /

TORINO:

TORINO: GRAN MADRE

BODONI PIAZZA

TORINO:

in una determinata direzione, siano anche la somma delle visioni verso altre angolazioni. C’è sempre un soggetto dominante, ma è la sua relazione con tutti gli altri (le altre visioni) che produce l’esperienza visiva. La scansione dello spazio operata dalla macchina di Giorgio [Jano: a obiettivo rotante] ha caratteristiche tecniche uniche e riproduce questo processo cognitivo. Il risultato è influenzato sia dal punto da cui si scatta, poiché da questo dipende la relazione tra i volumi delle architetture, sia dal punto da cui inizia la scansione, in quanto questo determina quale sarà il soggetto dominante». Grammatica-linguaggio della fotografia panoramica, alla quale abbiamo spesso riservato nostre attenzioni, soprattutto in tempi durante i quali queste rilevazioni hanno avuto anche senso. La visione panoramica, che dipende dalla rotazione orbicolare dell’obiettivo di ripresa, è di per sé otticamente precisa

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e pertinente. Non si basa su una visione centrale e periferica di obiettivi di ampio angolo di campo, quanto dal percorso orizzontale dell’obiettivo rispetto la pellicola, curva sul suo fuoco. A conseguenza, la fotografia panoramica rappresenta su un piano (bidimensionale) un campo originariamente distribuito lungo l’orizzonte: nello specifico dell’applicazione di Piero Ottaviano e Giorgio Jano, per visioni di Torino e Milano, estese all’angolo giro di trecentosessanta gradi. In molti casi, con soggetti lineari inquadrati da punti di vista sostanzialmente vicini, questo comporta un arrotondamento cilindrico più o meno evidente delle geometrie originarie, che nulla ha in comune con la deformazione periferica dell’ampio angolo di campo degli obiettivi grandangolari. Il fenomeno è tanto maggiore, quanto più è breve la distanza di ripresa; se tale distanza, al contrario, è molto grande, per esempio in pae-


MILANO: BASILICA E COLONNE DI SAN LORENZO PACE DELLA

MILANO: ARCO

saggi ampi, l’immagine non sembra più arrotondata. Forse. Se indesiderato, l’arrotondamento caratteristico della visione panoramica può essere minimizzato, scegliendo un punto di vista/di ripresa opportuno. Per esempio, in applicazione più che adeguata, Piero Ottaviano e Giorgio Jano hanno frequentemente evitato la monotonia dell’arrotondamento centrato sul fotogramma, cioè dell’arrotondamento bilaterale simmetrico dell’immagine, interrotto a destra e a sinistra dai bordi estremi del fotogramma: con l’occhio dell’osservatore che va e viene sull’inquadratura senza trovare un ritmo visivo che lo interessi. Come sempre in fotografia, e come troppo spesso qualcuno dimentica, anche nell’applicazione pratica della ripresa panoramica i rimedi visivi sono affidati alla fantasia (creatività) e abilità del fotografo. Le ragioni per accettare di buon grado le caratteristiche estetiche della fotografia panoramica sono molte e molto serie. La

prima è di ordine informativo: è evidente che in non pochi casi la possibilità di descrivere -seppure in maniera arrotondatatrecentosessanta gradi di soggetto fa piuttosto comodo (o rotazioni inferiori, comunque sia superiori ai centoventi-centotrenta gradi di rotazione). Il campo naturale di applicazione di questa possibilità è l’architettura e ancor di più la fotografia urbanistica. Per esempio, si possono realizzare immagini assolutamente descrittive, quali l’inquadratura di una piazza insieme alle due o tre strade che vi confluiscono radialmente. Quindi, non possiamo ignorare esperienze fotografiche meno utilitaristiche, quali quelle di autori con alto tasso di creatività applicata. Ed è proprio il caso, per concludere, del convincente e avvincente progetto Torino Milano [cinquanta fotografie senza mirino], di Piero Ottaviano e Giorgio Jano, in doppio passo sincronizzato. Ironia (?) lessicale: di Ottav... Jano. ❖

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Video di Antonio Bordoni

E

ARRIVA XEEN

Eccellente produzione ottica, che per la fotografia offre anche configurazioni di prestigio assoluto (per esempio, grandangolare decentrabile e basculabile), Samyang Optics sta scandendo i termini di una personalità di alto profilo. In questo senso, si registra la nuova gamma di obiettivi professionali Xeen per video e cinema. Si parte con tre focali full frame di alta qualità formale, indirizzate al video 4K+, di generosa apertura relativa; in progressione: 24mm, 50mm e 85mm, tutte T1,5. E per l’inizio del prossimo anno sono annunciate altre tre focali, che completeranno la proposta ottica. Il marchio Xeen trae ispirazione da “scene” e “seen”, con “8, x” come prima lettera a simboleggiare “infinito”. Riguardo le intenzioni tecnicocommerciali e la collocazione di mercato, Jay M. Kwon, Direttore Esecutivo Marketing di Xeen, è esplicito e diretto: «Vi sono richieste non soddisfatte di obiettivi video-cinema con qualità di immagine di un livello superiore, per un’ampia gamma di utenti che va dalle produzioni indipendenti ai registi di professione. Crediamo che Xeen sia in grado di fornire infinite esperienze di ripresa in campo video e cinema. Grazie all’apertura T1,5 e alla risoluzione adatta al video 4K+, i protagonisti delle riprese video-cinematografiche possono concentrarsi soltanto nella realizzazione

gettata con il know-how di Samyang Optics. Gli obiettivi Xeen impiegano trattamenti Multi Nano Coatings, che assicurano la massima qualità di immagine, riducendo il flare e le immagini fantasma entro livelli minimi. L’apertura relativa T1,5 è un altro aspetto qualificante della linea di obiettivi cine-video Xeen, che assicurano filmati di alta qualità con marcato contrasto e colori ben differenziati, anche in condizioni di illuminazione tutt’altro che ottimali. La notevole apertura relativa crea anche un piacevole effetto di bokeh, per una interpretazione cinematografica ottimale.

delle proprie capacità creative». Con sensori Super 35, le focali Samyang Xeen 24mm T1,5, 50mm T1,5 e 85mm T1,5 offrono la visione/inquadratura equivalente a 35mm, 75mm e 155mm, con angoli di campo comuni in una grande varietà di produzioni cinema e video. Come appena anticipato, altre tre focali sono in programma per l’anno prossimo, arrivando così a costituire un set completo di sei obiettivi professionali per il video e il cinema. Tra le caratteristiche principali degli obiettivi Xeen si registra l’eccellente risoluzione, idonea alle produzioni 4K+. Indirizzata negli obiettivi professionali per il cinema, la linea Xeen è stata pro-

Il sistema ottico Samyang Xeen, per video e cinema, esordisce con tre focali full frame, indirizzate alla qualità video 4K+. In progressione: 24mm, 50mm e 85mm, tutte di generosa apertura relativa T1,5. Quindi, per l’inizio del prossimo anno, sono annunciate altre tre focali, che completeranno la proposta ottica.

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Il regista inglese Harvey Glen, che agisce sia nel cinema sia con la televisione, ha definito gli obiettivi Xeen “impressionanti”, descrivendoli come «obiettivi di grandissima nitidezza». Gli fa eco, il giovane regista tedesco Frank Glencairn, che ha proclamato la serie Xeen come «un punto di svolta nel mercato degli obiettivi cinematografici, realizzata per fornire una qualità di immagine formidabile». Con l’occasione, ricordiamo che Samyang Optics è un’azienda in forte e rapida crescita, che affronta le esigenze di un’ampia varietà di utenti in campo video e fotografico, dai principianti ai professionisti. (Fowa, via Vittime di Piazza Fontana 52bis, 10024 Moncalieri TO; www.fowa.it). ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 7 volte giugno 2015)

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La critica radicale della fotografia del dissidio nasce da una filosofia della differenza che ha padri nobili, come Immanuel Kant, Friedrich Nietzsche, Ludwig Wittgenstein, Jürgen Habermas. Ma qui vogliamo ancorarci alla filosofia dell’interrogazione e della sovversione non sospetta di Edmond Jabès, Emmanuel Levinas, Hannah Arendt, Jean-François Lyotard, Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Franco Fortini, Michel Onfray, Guy Debord. In modo particolare, con l’insolenza che ci aggrada, trasportiamo la visione del dissidio in Jean-François Lyotard (différend), Gilles Deleuze (difference) e Jacques Derrida (différance) nella grande recita della fotografia consumerista. Ossia nel linguaggio fotografico della smagliatura che disvela la rappresentazione univoca della fotografia-merce ed elabora l’autenticità del dissidio, del contrasto, dell’opposizione, dello scontro di fronte all’ingiustizia che impera tanto nei regimi autoritari, quanto nelle democrazie dello spettacolo.

PER UNA FILOSOFIA FOTOGRAFICA DELLA DIFFERENZA

Finché parliamo soltanto, non sarà mai fatta giustizia e mai saranno rispettati i diritti dell’Uomo. Non si tratta di aspirare al conseguimento di un “buon governo”! (poiché non esistono governi buoni, ma un’accolita di saprofiti che a ogni angolo della Terra depredano la parte più povera dell’umanità). Occorre creare momenti di dissidio, eliminare l’ipocrisia istituzionale, rendere il sommo bene kantiano una fase del linguaggio e testimonianza di un Uomo o di un popolo che insorge per la conquista della Libertà e della Giustizia. L’arte della fame sfida l’indicibile e la sovversione non sospetta del potere... pone fine alla condizione universale della sottomis-

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AI WEIWEI

sione. Nel conflitto, la posta in gioco esordisce nella trasgressione e «Il dire è sempre una sfida all’indicibile e il pensiero denuncia l’impensato. L’interrogazione crea. La risposta uccide» (Edmond Jabès: Il libro della sovversione non sospetta; Feltrinelli, 1984; SE Edizioni, 2005). Sovversivo è qualsiasi pensiero, gesto e atto creativo che denuncia il linguaggio del silenzio e dell’oppressione. I linguaggi lavorano per conto dell’organizzazione dominante della vita; l’informazione è la forca ben insugnata del potere: dove c’è comunicazione autentica non c’è nessuna servitù. Non si tratta di dissertare sulla dominazione dello spettacolo nell’esistenza quotidiana, né met-

l’estensione delle libertà personali e la dichiarata illegittimità del modello rappresentativo imperante che opera alla modellizzazione di una comunità di ostaggi proni a tutti i processi di vessazione messi in atto dall’ordine costituito (Jean Lyotard: Il dissidio; Feltrinelli, 1985). Dunque, al fondo, la teoria del dissidio è un’etica del contrasto che si contrappone alla corruzione, alla piaggeria, alla violenza della politica come forma normale di delirio e con tutti i mezzi necessari lavora alla sua dissoluzione.

SULLA FOTOGRAFIA DEL DISSIDIO / 1 Ai Weiwei, architetto, artista, designer, pittore, fotografo, video-

«Ciò non toglie che l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità resti una tra le più belle che mai siano state concepite» Emil M. Cioran tere la creatività al servizio della rivoluzione, ma di mettere la rivoluzione al servizio della creatività e trasformare il mondo. La poetica del dissidio qui è vista come una politica di resistenza che delegittima ogni frasario del potere e confuta tutti gli architravi comunicazionali del consenso. Non partecipa ai presupposti imposti dall’idioma della politica, e l’antagonismo che ne consegue rigetta ogni forma di domesticazione sociale. In arte, e dappertutto, non ci può essere “passaggio” possibile tra il brutto e il bello, il falso e il vero senza

maker, blogger, dissidente del comunismo cinese è indiscutibile testimone di un regime spietato e corrotto che domina su milioni di esseri umani. Dicono le note su Ai Weiwei: nasce a Pechino, il 28 agosto 1957. È figlio del poeta cristiano Ai Qing (Jiang Haicheng), che ha partecipato alla Rivoluzione Culturale di Mao Zedong e successivamente è stato bollato come “destrorso”, isolato e confinato al silenzio fino alla sua scomparsa (1996). Negli anni Settanta, Ai Weiwei è tra i fondatori del gruppo artistico Stars. Nel 1981, si trasferi-

sce a New York (dove incontra Andy Warhol e altri esponenti della Beat Generation), frequenta le scuole di design Parsons The New School For Design e Art Students League of New York. Torna in Cina nel 1993, per stare vicino al padre ammalato. Partecipa alla fondazione del Beijing East Village [Beijing / Pechino], una comunità di artisti d’avanguardia, e nel 1997 alla nascita dell’Archivio delle Arti Cinesi, della quale diviene direttore artistico. Nel 1999, si occupa di architettura; nel 2003, dà vita al suo studio, Fake Design. Insieme agli architetti svizzeri Herzog & de Meuron, vince il concorso per il progetto dello stadio nazionale di Pechino e del padiglione Serpentine Gallery, di Londra. Nel 2006, apre un blog a difesa dei diritti umani in Cina, chiuso nel 2009 dal regime. Per la sua caparbia opposizione alla dittatura cinese, viene arrestato e confinato in una località segreta per ottantuno giorni. La notizia investe la stampa internazionale, e questo lo salva da punizioni più gravi. Nel corso della detenzione, i principali musei del mondo lanciano a suo favore una petizione online, nella quale si chiede la liberazione dell’artista: l’adesione delle persone di ogni ceto è massiccia; in Italia, l’Associazione Pulitzer raccoglie cinquemila firme e il Presidente della Repubblica in carica interviene sul governo di Pechino per la sua scarcerazione. L’artista viene rilasciato su cauzione, ma è costantemente sotto controllo e impedito di lasciare la Cina. Accusato di evasione fiscale, gli viene comminata una multa di dodici milioni di yuan [oltre un milione e mezzo di euro]. Ricorre in appello, e nel giugno 2012 la condanna viene confermata. Circa trentamila sostenitori dell’artista hanno versato 1,37 milioni di dollari, per contribuire alle spese legali.


Sguardi Cinema su Ai Weiwei è tutt’ora “sorvegliato speciale” del regime cinese. Va detto. Nella Cina “democratica” si gettano nelle patrie galere anche Premi Nobel per la pace, come Liu Xiaobo, condannato a undici anni di detenzione perché difensore dei dritti umani, e si tiene agli arresti domiciliari, cercando di farla impazzire, la moglie Liu Xia, poetessa, pittrice e fotografa, impegnata nella difesa dei diritti dell’uomo (ne abbiamo ampiamente parlato in questa medesima rivista, nel dicembre 2013, affrancati dal coraggio editoriale del direttore, Maurizio Rebuzzini). Mentre, nell’epoca consumerista, le nazioni ricche fanno affari (sporchi) con una feroce dittatura, in Cina si operano devastazioni ambientali che influenzano l’intero pianeta, e la tortura e la pena di morte sono gli argomenti abituali di un comunismo tradito che piace solo ai rincoglioniti delle sinistre al caviale, connesse e compromesse con le mafie della finanza internazionale. I mercati neoliberisti sono la menzogna suprema, e tutto ciò che rappresentano è il risultato di un fallimento etico della politica: la mistica della merce è diventata una religione, la “guerra umanitaria” il suo supporto logistico, la lugubre ferocia delle Borse internazionali il termometro di liquidazione di interi pezzi di umanità. Si può morire di risate di fronte a tanta banalità... meglio cercare di vivere armando (con quello che si vuole) l’indignazione e il disprezzo.

SULLA FOTOGRAFIA DEL DISSIDIO / 2 In questo breve discorso sull’arte del dissidio, ci limitiamo a entrare nelle pieghe creative di Ai Weiwei come fotografo... riflettere sulla scrittura fotografica come dispositivo di disobbedienza e mostrare che il disinganno lucido della consapevolezza è un primo passo per innescare un mezzo di liberazione nel corpo sociale martoriato dal potere. La fotografia corrente è la negazione della fotografia. La fotografia, come la fierezza, non s’im-

para a scuola, si vive nella strada! Con gli esclusi, i bastonati, i poveri della Terra. La fotografia non serve a niente se non offre risposte. La coscienza profonda della fotografia è il prolungamento di un’infanzia meravigliosa che, al culmine della disperazione, ha compreso che il successo e il consenso sono la pratica dei dementi. È più importante parlare con un illetterato o una puttana che con qualsiasi fotografo. È deciso. D’ora in avanti parlerò solo con Diane Arbus. In principio, Ai Weiwei fotografava la povertà nelle strade di New York: i conflitti sociali e l’immagine di sé come visione del suo destino di artista eversivo... credo. L’iconografia del dissidio che affabulerà in Cina, ed è questa che stiamo studiando, lo proietterà a giusto titolo tra autori importanti che hanno operato sulla decostruzione dei linguaggi della repressione e dell’adulazione, come elogio incondizionato del potere. «Ciò che non uccide il potere, il potere l’uccide», dicevano i dadaisti. Non si tratta di cambiare il mondo (Karl Marx), ma di trasformare la vita quotidiana (Arthur Rimbaud). Ecco cosa c’è al fondo del fare-fotografia di Ai Weiwei. Nelle immagini di studi di prospettiva, l’artista cinese alza il dito medio e manda a fare in culo i Parlamenti del mondo (cinese, americano, francese...), e mostra che «Il linguaggio è la dimora del potere, il rifugio della sua violenza poliziesca» (Internazionale Situazionista: La critica del linguaggio come linguaggio della critica; Nautilus, 1992). Si vede solo il braccio dell’artista e il dito (non importa se è il suo o è solo un fotomontaggio), che -appunto- sbeffeggia i simboli dell’ordine costituito. Rimandiamo agli esegeti della fotografia patinata dissertare sul rapporto forma-contenuto. A Ai Weiwei bastano un paio di immagini per ridicolizzare la fotografia turistica... l’ironia è sottile. Da poco rientrato in Cina (1994), fotografa la fidanzata di allora, Lu Qing, in piazza Tienanmen, davanti al ritratto di Mao.

La ragazza si alza la gonna nera, trasparente, e mostra un paio di mutandine bianche di taglio occidentale. Alla sinistra, due militari cinesi sfilano solerti, due giovani si stanno fotografando e il tutto avviene sotto lo sguardo di un guidatore di motorette per turisti, visto di spalle, che incastona l’intera scena. Sembra il frammento di un film sulla stupidità. L’inquadratura frontale, tutto a fuoco, e la composizione forte dell’insieme conferiscono a questa fotografia un’aura di provocazione, che porta a pensare che il princìpio di piacere è sempre al di là del princìpio di realtà. Nel 2007, Ai Weiwei lavora con installazioni viventi: fotografa centinaia di cittadini cinesi vicino all’ufficio dove hanno fatto domanda per i documenti di viaggio, difficili da ottenere, specie se non graditi al regime. Le persone fotografate fissano l’obiettivo e lasciano trasparire la tristezza dell’ingiustizia. Qui la fotografia figura una sommatoria dell’intolleranza, che lascia presagire le radici di una marchiatura politica d’accatto. La desolazione della partitocrazia s’impadronisce degli animi dei cittadini, per paralizzarli nel dogma o in ideali senza contenuti, come quelli del comunismo cinese. Il 12 maggio 2008, un terremoto investe la provincia di Sichuan, muoiono più di sessantanovemila persone. Ai Weiwei si reca a documentare la catastrofe. L’artista viene picchiato dalla polizia, tuttavia riesce a pubblicare sul suo blog le immagini di un disastro e l’inefficienza delle costruzioni di scuole e abitazioni dell’organizzazione cinese. Si vedono gli zainetti dei bambini rimasti sepolti sotto le macerie di una scuola, palazzi rasi al suolo, i soccorritori in tute bianche che disinfettano le rovine, esultanti, in bella posa per il fotografo. Il reportage è toccante. Anche ben fatto. In bianconero. Si “sente” il coinvolgimento del fotografo... la compassione per migliaia di morti dimenticati. Le autofotografie di Ai Weiwei esprimono una forma di disprez-

zo dell’autoritarismo (non solo) partitocratico. L’artista infrange un antico vaso cinese, lascia cadere un carro armato, ricostruisce il suo arresto con le medesime cupe atmosfere: il figlio gli tosa i capelli come si fa con i condannati a morte. Lui e i suoi allievi/amici saltano nudi verso il cielo del capannone/studio dove è relegato, spiato, controllato: qui l’immagine è messa al servizio della verità e denuncia la banalità delle istituzioni... mostra che sono i luoghi comuni che rendono pazzi. Un’autofotografia per tutte. Ai Weiwei si mostra nudo in piazza Tienanmen... ha la postura di un samurai che non teme la paura né la morte... porta addosso e nello sguardo fiero da transfuga della morale, della norma, dell’impostura, la bellezza e la giustizia degli eretici di ogni eresia: il vero uccide ogni potere, che solo il dissidio (o la rivolta) rende possibile. Nel 2013, la prigionia di Ai Weiwei si trascolora in un’opera d’arte. Invitato alla Biennale di Venezia, l’artista, che è in regime di “carcerato speciale” e non ha diritto al passaporto, né quello di allontanarsi dalla propria casa/studio... non può essere presente all’evento. Lo sostituisce la mamma, che denuncia con grazia l’oscurantismo del proprio paese. Nella chiesa di Sant’Antonin a Castello sono collocate sei grandi installazioni che compongono S.A.C.R.E.D. (Super, Accuser, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt). Da una feritoia nelle “casse nere” di S.A.C.R.E.D. si può vedere il racconto degli ottantuno giorni di prigionia dell’artista. Sei diorami riproducono le scene quotidiane della carcerazione. La doccia, l’interrogatorio, la cena, il bagno, la notte; due guardie, immobili, accompagnano Ai Weiwei in ogni anfratto dell’abitacolo insonorizzato (una sorta di teatro di marionette elaborate con la tecnologia digitale). L’accusa al potere è feroce. Ogni rivolta è nata nell’arte di vivere tra liberi e uguali. Sotto il marchio del potere, ogni forma di comunicazione designa altro

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Sguardi su dal vissuto autentico. Dove c’è arte del vero, del giusto, del bello non c’è Stato. L’epoca del terrore comunista cinese continua... non ci saranno mai abbastanza ribelli ad attentare ai palazzi della dittatura (quali che siano), e non si edifica nessun paradiso quaggiù e da nessuna parte finché gli Uomini saranno soggetti alle violenze prolungate dei governi. La politica delle democrazie dello spettacolo è l’illusione dell’Uomo diventato merce! La tirannia dei regimi comunisti è l’illusione dell’Uomo diventato schiavo! Sia le democrazie consumeriste sia i comunismi di Stato, sono il prodotto del lavoro sotterraneo di ideologie nefaste, e i cavalieri dell’utopia non saranno mai lodati abbastanza per aver denunciato le miserie, i tradimenti e gli orrori della cupidigia di pochi sull’impoverimento di molti.

Più un’idea di libertà sarà carica di giustizia e bellezza, e più avrà la possibilità di passare alla liquidazione del male immenso incarnato da qualunque ordine sociale. La libertà non è qui, né là, ma dentro ciascuno... la vita è rottura, eresia, dirottamento dalle norme imposte... il delirio dei potenti va fermato, insieme a una folla di esagitati che li celebra e autorizza a perpetuare l’ingiustizia che governa il mondo. Creare significa rompere la cresima dell’ovvio e dell’ottuso, trasmettere le sofferenze dell’umanità agli altri e fare del disagio a vivere tracce di una bava originaria che fa della disobbedienza (e della rivolta) una virtù. Gli uomini si emancipano e respirano soltanto alla morte dei despoti. La corrente libertaria lavora per la libertà degli individui e apre il cammino della speranza verso una fratellanza comunitaria. ❖




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