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ANNO XXII - NUMERO 217 - DICEMBRE 2015
27 gennaio 2016 GIORNATA DELLA MEMORIA
Massimo Sestini CALENDARIO POLIZIA 2016
FERDINANDO SCIANNA A PARLARE DI FOTOGRAFIA
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prima di cominciare VINCITORI E VINTI. Le nefandezze compiute dal nazismo sono assolutamente indiscutibili: sia per come è stata condotta la Seconda guerra mondiale, sia in Germania, con le persecuzioni religiose, politiche e sociali, sia nei territori via via occupati. Non a caso, alla conclusione del conflitto, sono stati istituiti tribunali speciali che hanno giudicato i responsabili di eccessi e ignominie. Però, attenzione, pur legittimo e motivato (sia chiarito subito), questo nostro è anche un parere... da vincitore, rispetto ai vinti. Se la guerra fosse andata altrimenti, le opinioni avrebbero potuto essere di segno algebrico opposto. Infatti, quello che conta sono sempre gli “uffici stampa”: con esordio indietro nei secoli/millenni, dal De bello Gallico, con il quale, cento anni prima della datazione del tempo da Gesù, Gaio Giulio Cesare espresse la propria opinione rispetto i vinti, presentandoceli come barbari ai quali sarebbe stata donata la civiltà dell’Impero romano. A margine della Seconda guerra mondiale, che in qualche modo e misura oggi evochiamo in celebrazione della Giornata della Memoria 2016 (ventisette gennaio), da pagina quarantaquattro di questo stesso numero, con ulteriori rimbalzi anticipatori, proviamo a pensare come sarebbero stati giudicati gli Alleati, se il Terzo Reich li avesse costretti alla resa militare. Ovvero, per esempio: i bombardamenti alleati sui quartieri operai delle città industriali tedesche, finalizzati a privare le fabbriche belliche di forza lavoro (presto sostituita da internati nei Campi di sterminio), programmati con fredda determinazione militare, potrebbero essere conteggiati come crimini di guerra? Del resto, una volta che gli Stati Uniti sono dovuti soccombere in Vietnam, trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, non si sono svolti processi (magari interni) a quelle frange dell’esercito che si sono macchiate di stragi immotivate? (Soprattutto, richiamiamo il definito Massacro di My Lai, del 16 marzo 1968, dove e quando soldati statunitensi della Compagnia Charlie, della Undicesima Brigata di Fanteria Leggera trucidarono trecentoquarantasette civili, principalmente vecchi, donne, bambini e infanti. Tra parentesi, il massacro è stato svelato, il successivo 12 novembre 1969, dal giornalista indipendente Seymour Hersh, che ricevette e diffuse le fotografie scattate dagli stessi soldati: servizio fotografico sul Cleveland Plain Dealer, del venti novembre, e Life, del cinque dicembre). Per non parlare, in casa nostra, della considerazione di “patrioti”, con la quale si è soliti identificare i partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale. Anche qui, se la guerra fosse finita al rovescio, i partigiani non sarebbero stati considerati terroristi (termine moderno), sovversivi, eversori, attentatori, dinamitardi, brigatisti? M.R.
Non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma a volte le incontriamo. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 42 e 47 Una fotografia è un corollario di segni che si aprono su vie diverse e costruiscono un sistema radiale che può raggelare il vero nel falso o diventare un atlante di conoscenze. Si tratta di trasformare i soggetti fotografati in narratori della propria storia. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 62 Avevo capito che Auggie fotografava il tempo -sia il tempo naturale che quello umanoe che lo faceva piazzandosi in un angolino del mondo con l’intenzione di farlo suo, montando di guardia nello spazio che si era scelto. Paul Auster; su questo numero, a pagina 8 Scrivere sulla fotografia è un esercizio individuale. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 25
Copertina «Tre compagni d’oratorio; Bagheria, 1960. [...] Quanto mi piacerebbe potere ancora fare una fotografia, un ritratto, con la stessa diretta spontaneità, con la folgorante necessità di una forma necessaria perché non si cerca, si ignora» (Ferdinando Scianna). A parlare di Fotografia con..., da pagina 38
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo compreso in un foglio Souvenir delle Isole Marshall, emesso il 16 novembre 1998. Come commentiamo da pagina 54, è stata rielaborata una icona della Storia: prigionieri politici fotografati da Margaret Bourke-White, nell’aprile 1945, alla liberazione del Campo di Buchenwald
7 Editoriale Richiamo dovuto all’ampio contenitore redazionale che, da pagina 44, celebra la Giornata della Memoria 2016. A partire dalla Fotografia, senza fermarsi alla Fotografia
8 Racconto di Natale di Auggie Wren Dal New York Times, del 25 dicembre 1990, venticinque anni fa, il racconto che è trama portante (o quasi) del film Smoke, di Wayne Wang, del 1995 di Paul Auster
12 Da Schindler’s List Poca fotografia (solo scenografica), ma tanto basta... oggi Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DICEMBRE 2015
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
14 Diatriba improponibile
Anno XXII - numero 217 - 6,50 euro
Considerazioni e riflessioni su una vicenda d’attualità di Beppe Bolchi
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
19 Dal Photoshow 2015 Considerazioni e amarezze a proposito di una fiera mercantile svoltasi senza alcuna regia plausibile
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
24 La sua Africa
Maddalena Fasoli
Solenne progetto fotografico del bravo Paolo Solari Bozzi: Zambian Portraits, in convincente monografia Skira di Angelo Galantini
Paul Auster Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Chiara Lualdi Giovanni Mereghetti Gian Paolo Randazzo Franco Sergio Rebosio Ferdinando Scianna Massimo Sestini Paolo Solari Bozzi
30 Calendario zenitale Il valente Massimo Sestini ha realizzato le dodici tavole del Calendario 2016 della Polizia di Stato. Dall’alto di Maurizio Rebuzzini
38 A parlare di Fotografia Con Ferdinando Scianna: tra i fotografi di tutti i tempi e di ogni geografia ed esperienza, il più acuto osservatore della Fotografia, intesa a tutto tondo. Soltanto parole in conversazione con Maurizio Rebuzzini
44 Giornata della Memoria 2016 Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa liberò Auschwitz
46 Attraverso Parole In introduzione, due fantastici romanzi. Da leggere
48 Nei Campi Commovente documentazione di Giovanni Mereghetti
54 In commemorazione Tre emissioni filateliche a tema... più un’altra. Forse di Antonio Bordoni
HANNO
COLLABORATO
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58 Il coraggio di Ernst Ancora: Ernst Leitz II ha salvato centinaia di ebrei
Rivista associata a TIPA
61 Icona del Novecento Sguardi sul bambino del ghetto di Varsavia di Pino Bertelli
65 Roman Vishniac Sguardi su una Fotografia rubata al delirio del potere di Pino Bertelli
www.tipa.com
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di Alessandro Mariconti
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editoriale GIOVANNI MEREGHETTI (AUSCHWITZ)
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oincidenze e circostanze allineano le nostre riflessioni sull’Olocausto (nel senso della Giornata della Memoria 2016, il ventisette gennaio prossimo) a una terribile involuzione della Vita. Su questo numero, da pagina quarantaquattro, offriamo una visione che prende spunto da rilevazioni fotografiche, nostro terreno di incontro comune: come sempre, ottime e corroboranti le considerazioni di Pino Bertelli sulla fotografia (anonima) del bambino del ghetto di Varsavia, presa a pretesto e simbolo per approfondimenti di spessore; sempre con la stessa compagnia di scrittura, riproponiamo una riflessione sul fotografo Roman Vishniac, originariamente pubblicata nell’ottobre 2003; quindi, in analoga replica, ribadiamo l’azione svolta da Ernst Leitz II, che ha salvato centinaia di ebrei dalla persecuzione; infine, con corollario parallelo (dalla filatelia, per intenderci), il progetto fotografico del bravo Giovanni Mereghetti propone una attuale e vivida documentazione dei Campi. Allestite da tempo, e per tempo, queste corrispondenze e consecuzioni “fotografiche” in osservazione della vita nel proprio svolgersi arrivano a incrociarsi con la tragedia dello scorso venerdì tredici novembre, a Parigi, che ripropone clamorosamente la malefica interpretazione (pretestuosa) della religione. Sia chiaro: l’attuale violenta applicazione di un Credo ha nulla a che vedere con qualsivoglia religione. La religione è sempre qualcosa che sta dentro ciascuno di noi... niente di diverso. Ma non bisogna limitarsi alle attualità temporali, perché è sempre il senso della Storia che può insegnare qualcosa, che può offrire termini di crescita sociale: quindi, non dimentichiamo il medioevo del cattolicesimo, con i propri accompagnamenti di analogo stampo, a partire dall’inquisizione, per non limitarci a questa. È anche teorizzabile che -all’alba del Duemila- ci sia ancora chi sta vivendo e applicando il proprio medioevo. Per cui, fatti salvi alcuni distinguo del caso, abbiamo la presunzione di considerare la nostra partecipazione alla Giornata della Memoria 2016 -che non intendiamo limitata al solo sterminio di ebrei, ma estesa a tutte le persecuzioni del nazismo- come contributo a un pensiero sociale rivolto in avanti, oltre che al positivo (con il conforto di un punto di vista “fotografico”: fantastico e privilegiato s-punto di partenza, e non arido punto di arrivo). A questo proposito, oltre la doverosa menzione del film Schindler’s List, che proponiamo a pagina dodici, con il quale Steven Spielberg racconta magistralmente il Terzo Reich, richiamiamo anche la sceneggiatura di Cabaret, di Bob Fosse, del 1972. La sequenza è emblematica: gente comune in una locanda in metafora dell’adesione al nazismo, con l’insopportabile tasso di normalità che accompagnò la sua follia. Normalità di un ordinato paese centroeuropeo, che staccava il biglietto per ogni ebreo spedito verso un Campo di concentramento: un tanto a chilometro, tariffa vagone bestiame, che le SS pagavano regolarmente alle Bundesbahn, con periodici versamenti e lettere di sollecito in caso di ritardo. Irremovibilmente: mai più! Inviolabilmente: senza odio! Maurizio Rebuzzini
Su questo numero, da pagina quarantaquattro, evochiamo la Giornata della Memoria 2016 (ventisette gennaio). Al solito, e come dovere, partiamo da osservazioni “fotografiche”, ribadendo una delle nostre convinzioni: che la Fotografia sia sempre fantastico e privilegiato s-punto di partenza (mai e poi mai, arido punto di arrivo). In sequenza coordinata e coerente: Parole di Esistenza (in introduzione, due romanzi folgoranti), Nei Campi (commovente documentazione attuale di Giovanni Mereghetti), In commemorazione (emissioni filateliche a partire da una celebre fotografia di Margaret Bourke-White, dal Campo di Buchenwald, dell’aprile 1945), Il coraggio di Ernst (in ripetizione, la nobile vicenda di Ernst Leitz II, che ha salvato centinaia di ebrei), Sguardo su una Icona del Novecento (con Pino Bertelli, il bambino del ghetto di Varsavia ), Sguardo su Roman Vishniac (in riproposta, ancora con Pino Bertelli, da FOTOgraphia dell’ottobre 2003, una Fotografia rubata al delirio del potere). In Memoria e Onore.
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Racconto di Natale di Paul Auster
DI AUGGIE WREN
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Questa storia me l’ha raccontata Auggie Wren. Ma Auggie, dal momento che non ci fa bella figura -o non bella come vorrebbe- mi ha chiesto di non usare il suo vero nome. A parte questo, tutta la faccenda del portafoglio perduto, della nonna cieca e della cena di Natale è la stessa che mi ha raccontato lui. Auggie e io siamo grandi amici da undici anni. Lui lavora nella vecchia Brooklyn, in una tabaccheria di Court Street dove io vado spesso perché è l’unica tabaccheria che ha i miei sigari preferiti. Per molto tempo non gli ho prestato molta attenzione: per me Auggie Wren era l’omino dalla felpa blu col cappuccio, quello che mi vendeva i sigari e le riviste, l’irriverente e caustico tipetto che aveva sempre la battuta pronta sul tempo, sui Mets e sui politici di Washington. Tutto finiva lì. Ma un giorno di molti anni fa Auggie, sfogliando una rivista in negozio, s’è imbattuto nella recensione di un mio libro e mi ha riconosciuto nella foto che accompagnava l’articolo. Da quel giorno fra noi le cose sono cambiate: per Auggie non ero più un cliente qualunque, ero diventato un personaggio illustre. Molta gente mostra un’indifferenza totale per i libri e gli scrittori, ma Auggie si considera un artista e, una volta scoperto il segreto della mia identità, ha cominciato a trattarmi come un alleato, un confidente, un compagno d’armi. A dir la verità io lo trovavo assai imbarazzante. Poi, com’era quasi inevitabile, un giorno mi ha chiesto se volevo vedere la sua collezione di fotografie. E me l’ha chiesto con tanto entusiasmo e con tanta gentilezza che non ho potuto fare a meno di accettare. Chissà cosa mi aspettavo, ma certo non quello che Auggie mi ha fatto vedere il giorno dopo. Dopo avermi portato in una piccola stanzetta senza finestre nel
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Dal New York Times, del 25 dicembre 1990 (venticinque anni fa). Il racconto è inserito anche nella sceneggiatura del film Smoke, regia di Wayne Wang; Usa, 1995 (pubblicata in Italia da Einaudi Editore, 1995). In Smoke, il tabaccaio Auggie Wren è interpretato da Harvey Keitel; lo scrittore Paul Benjamin, da William Hurt. Tra tanto altro, l’accompagnamento fotografico del film sottolinea una certa visione del Tempo [ FOTOgraphia, novembre 2003]. Una versione illustrata del racconto è stata pubblicata in Italia da Federico Motta Editore, nel 1998.
Nel film Smoke, Auggie Wren (Harvey Keitel) è un tabaccaio di Brooklyn che interpreta in maniera personale il senso della fotografia. Ogni mattina, alle otto in punto, fotografa l’angolo della propria tabaccheria. Quando presenta allo scrittore-cliente Paul Benjamin (William Hurt) gli album nei quali ha raccolto quattro anni di fotografie, sottolinea il valore del Tempo: «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi».
retro del negozio, Auggie ha aperto uno scatolone e ha tirato fuori dodici album identici di fotografie. Poi mi ha spiegato che quello era il lavoro di una vita. Non gli prendeva più di cinque minuti al giorno: ogni santo giorno degli ultimi dodici anni Auggie s’era messo all’angolo fra Atlantic Avenue e Clinton Street alle sette in punto del mattino e aveva scattato una foto a colori della stessa scena. Ormai la raccolta
ammontava a più di quattromila fotografie. Ogni album era un anno e tutte le foto erano ordinate in sequenza dal Primo gennaio al 31 dicembre. Sotto ciascuna istantanea c’era scritta scrupolosamente la data. Mentre sfogliavo gli album esaminando le immagini non sapevo cosa pensare. All’inizio ho avuto l’impressione che fosse la cosa più strana e sorprendente che avessi mai visto. Tutte le foto
erano uguali. Per me quella raccolta era un mattone monotono e ripetitivo: la stessa strada e le stesse case all’infinito, un delirio implacabile e ridondante d’immagini. Non sapendo cosa dire continuavo a voltare le pagine annuendo con la testa per fingere un certo gradimento. Auggie, imperturbabile, mi guardava con un largo sorriso, ma dopo alcuni minuti m’ha interrotto dicendo: – Vai troppo svelto. Se non rallenti non riuscirai mai a capire. Naturalmente aveva ragione. Se non ci diamo il tempo di osservare non riusciamo a vedere nulla. Allora ho preso un altro album e mi sono sforzato di stare più attento ai dettagli, di notare i cambiamenti del tempo, di osservare la diversa angolazione della luce col passare delle stagioni. Infine sono persino riuscito a cogliere le variazioni del traffico e a prevedere la sequenza dei giorni (il trambusto dei giorni lavorativi, la relativa immobilità dei giorni festivi, il contrasto fra il sabato e la domenica). Poi a poco a poco ho cominciato a riconoscere la gente che si vedeva in secondo piano, i passanti che andavano al lavoro, le stesse persone immortalate nello stesso posto dall’istantanea quotidiana di Auggie. Dopo aver imparato a riconoscere le persone mi sono messo a studiarne il portamento, il modo di camminare nei diversi giorni, e a cercar di dedurre da quegli indizi superficiali di che umore erano, quasi potessi immaginare la loro vita e penetrare l’invisibile dramma murato nel loro corpo. Quando ho preso un altro album non ero più annoiato e perplesso come all’inizio. Avevo capito che Auggie fotografava il tempo -sia il tempo naturale che quello umano- e che lo faceva piazzandosi in un angolino del mondo con l’intenzione di farlo suo, montando di guardia nello spazio che si era scelto. Vedendomi assorto
Racconto di Natale nell’osservazione del suo lavoro, Auggie ha continuato a sorridere compiaciuto. Poi, quasi mi avesse letto i pensieri, mi ha recitato un verso di Shakespeare. – Domani e domani e domani, – ha mormorato sottovoce, – il tempo scorre a piccoli passi –. A quel punto ho capito che sapeva perfettamente quel che faceva. Tutto questo è successo più di duemila istantanee fa. Da quel giorno Auggie e io abbiamo discusso più volte il suo lavoro, ma è soltanto la settimana scorsa che Auggie mi ha detto come si è procurato la macchina fotografica e come ha iniziato a fare fotografie. La storia che mi ha raccontato riguarda proprio questi argomenti, e io sto ancora cercando di coglierne il significato. All’inizio della settimana scorsa un editor del New York Times mi ha telefonato chiedendomi se volevo scrivere una novella da pubblicare sul quotidiano di Natale. Il mio primo impulso è stato quello di rifiutare, ma siccome la persona era molto affabile e insistente, alla fine del colloquio gli ho detto che ci avrei provato. Ma quando ho attaccato il telefono m’è venuto il panico. Che ne sapevo di Natale? Che ne sapevo di novelle scritte su commissione? Nei giorni successivi, in preda alla disperazione, ho combattuto con i fantasmi di Dickens, di O. Henry e di altri maestri dello spirito di Natale. Il solo termine “novella di Natale” evocava in me spiacevoli associazioni che mi facevano venire in mente insopportabili effusioni di sentimentalismo ipocrita e sdolcinato. Anche nel migliore dei casi le novelle di Natale non erano altro che sogni dorati e illusori, fiabe per adulti. Mi venisse un colpo se mi mettevo a scrivere una cosa del genere! D’altra parte com’era possibile proporsi di scrivere una novella di Natale priva di sentimento? Era una contraddizione in termini, un rebus irrisolvibile. Era come cercare d’immaginarsi un cavallo da corsa senza gambe o un passero senz’ali. Poiché non ero venuto a capo di nulla, giovedì sono uscito a fare
una lunga passeggiata nella speranza che l’aria fresca mi chiarisse le idee e poco dopo mezzogiorno sono andato in tabaccheria a far provvista di sigari. Come al solito dietro il banco c’era Auggie, e quando lui mi ha chiesto come andava io, senza volerlo, mi sono trovato a confessargli i miei guai. Dopo avermi ascoltato Auggie ha detto: – Una novella di Natale? Tutto qui? Amico mio, se mi offri il pranzo ti racconto la migliore novella di Natale che tu abbia mai ascoltato. E ti garantisco che è vera da cima a fondo. Allora siamo andati alla fine dell’isolato da Jack’s, un posticino affollato e chiassoso dove si mangiano ottimi panini al prosciutto e dove ci sono le foto delle vecchie squadre dei Dodgers appese al muro. Ci siamo seduti a un tavolo della sala interna, abbiamo ordinato da mangiare, e a quel punto Auggie è partito in quarta. Ecco il suo racconto. Era l’estate del ’72. Un bel mattino un giovanotto sui diciannove o vent’anni entra in negozio e si mette a rubare qua e là. Un ladruncolo più patetico di quello non s’era mai visto. Defilandosi accanto all’espositore dei giornali nell’angolo più distante, il ragazzo si riempiva di libri le tasche dell’impermeabile. In quel momento al banco c’era gente e quindi non lo vedevo, ma appena l’ho individuato mi sono messo a gridare. Lui è fuggito come una lepre e quando io sono riuscito a schizzare fuori dal banco era già arrivato in Atlantic Avenue. L’ho rincorso per mezzo isolato, ma poi ho smesso perché ero scoppiato. E siccome al ragazzo in fuga era caduto qualcosa per terra, mi sono chinato a vedere cos’era. Era il suo portafoglio. Non c’erano soldi, ma oltre alla patente c’erano tre o quattro fotografie. Avrei potuto chiamare la polizia e farlo arrestare -sulla patente c’era nome e indirizzo- ma non me la sono sentita. Era un povero teppistello, e quando ho guardato le foto non sono riuscito a incazzarmi. Si chiamava Robert Goodwin. Ricordo che in una foto aveva il braccio sulla spalla del-
la madre o della nonna, in un’altra aveva nove o dieci anni, un gran sorriso in faccia ed era vestito da giocatore di baseball. Non me la sono proprio sentita. Probabilmente ormai era drogato. Un miserabile ragazzotto di Brooklyn senza arte né parte... che me ne fregava in fondo di due tascabili da quattro soldi? Così ho tenuto il portafoglio. Ogni tanto mi veniva l’impulso di spedirglielo, ma poi rimandavo sempre e non mi decidevo mai. A un certo punto è arrivato Natale e io mi sono trovato solo senza compagnia. Di solito il capo m’invitava a casa sua, ma quell’anno lui e la moglie erano andati dai parenti in Florida. Così quella mattina, mentre ero seduto in casa un poco depresso, ho visto il portafoglio di Robert Goodwin su un ripiano della cucina e mi sono detto: “Che diavolo, perché non fare una buona azione ogni tanto?”. Così mi sono infilato il cappotto e sono partito per restituire il portafoglio di persona. L’indirizzo era nel quartiere popolare di Boerum Hill. Quel giorno faceva un freddo cane. Ricordo d’essermi perduto più volte prima di trovare la casa giusta. Da quelle parti sembra tutto uguale e si continua a girare in tondo nello stesso posto convinti di essere altrove. Insomma, alla fine arrivo all’appartamento che cerco e suono il campanello. Silenzio assoluto. Penso che non ci sia nessuno, ma riprovo per esser sicuro. Aspetto un altro po’, e mentre sto per andarmene sento arrivare qualcuno che strascica i piedi. – Chi è? – chiede la voce di una vecchia. Io rispondo che sto cercando Robert Goodwin. – Sei tu, Robert? – dice la vecchia. Poi sento sbloccare un dozzina di serrature e vedo aprirsi la porta. La vecchina ha perlomeno ottant’anni, forse novanta, e immediatamente mi accorgo che è cieca. – Sapevo che saresti venuto, Robert, sapevo che non avresti dimenticato nonna Ethel a Natale, – dice lei, e si fa avanti con le braccia aperte. Non c’era molto tempo per pensare, capisci, dovevo dire
qualcosa alla svelta. Così, prima di rendermene conto, ho risposto: – Sì, nonna Ethel, sono venuto a trovarti perché è Natale –. Non chiedermi perché l’ho fatto, non ne ho la più pallida idea. Forse non volevo deluderla, non so. Mi è venuta così. Ed eccomi lì a ricambiare il suo abbraccio sulla porta. Non le ho detto che ero il nipote, non in maniera esplicita, perlomeno, ma era implicito. Però non volevo imbrogliarla, era un gioco che entrambi avevamo deciso di giocare senza discutere le regole. Voglio dire, quella donna sapeva che io non ero il nipote. Era vecchia e svanita, ma non al punto da non accorgersi della differenza fra un estraneo e la carne della sua carne. Tuttavia era felice di fingere, e siccome io non avevo niente di meglio da fare, ero contento di reggere la parte. Così siamo entrati in casa e abbiamo passato la giornata insieme. Per inciso l’appartamento era una topaia, ma che altro ci si poteva aspettare da una cieca che doveva fare le pulizie da sola? Ogni volta che mi chiedeva qualcosa sulla mia vita io le mentivo. Le dicevo che avevo trovato un buon lavoro in una tabaccheria e che stavo per sposarmi, le raccontavo varie storielle e lei faceva finta di credere a tutto. – Mi fa piacere, Robert, – diceva annuendo e sorridendo, – l’ho sempre detto che prima o poi le cose si sarebbero aggiustate... Insomma, dopo un po’ mi viene una gran fame, e poiché ho l’impressione che in casa non ci sia granché, vado al negozio più vicino e compro un sacco di roba: pollo allo spiedo, minestrone, insalata di patate, torta al cioccolato e così via. Ethel ha due bottiglie di vino tenute da parte in camera da letto, e così fra tutti e due riusciamo a mettere insieme una discreta cenetta di Natale. Ricordo che a forza di bere vino siamo diventati un po’ brilli: così quando abbiamo finito di mangiare siamo andati a metterci più comodi in salotto. Siccome mi scappava la pipì, ho chiesto scusa e sono andato al gabinetto. A quel punto le cose hanno
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Racconto di Natale preso una piega completamente diversa. Era già abbastanza pazzesco fare la scena di essere il nipote di Ethel, ma quel che ho fatto dopo è stata una follia che non mi potrò mai perdonare. Appena sono entrato in gabinetto ho visto sei o sette macchine fotografiche accatastate contro il muro accanto alla doccia. Erano macchine 35 millimetri nuove di zecca e di buona marca, ancora confezionate nella scatola. Ho immaginato che fossero di Robert, quello vero, e che fossero il bottino di un colpo recente. Non avevo mai fatto una foto in vita mia né avevo mai rubato nulla, ma quando ho visto quelle macchine in bagno mi è venuto di prenderne una. Così, senza motivo. E senza pensarci due volte ne ho presa una e sono tornato in salotto. Benché fossi stato in gabinetto pochi minuti, nonna Ethel s’era
addormentata in poltrona. Troppo Chianti, probabilmente. Fatto sta che, mentre lei dorme di gusto come un bambino, io vado in cucina a lavare i piatti e poi, pensando che fosse inutile svegliarla, decido di tornare a casa. Non potendo nemmeno lasciarle un biglietto di addio perché è cieca, metto il portafoglio del nipote sul tavolo, prendo la macchina fotografica e me la svigno alla chetichella. Fine della storia. – Non sei più tornato a trovarla? – Una volta, tre o quattro mesi dopo. Mi sentivo così turbato per il furto della macchina fotografica che non avevo il coraggio di usarla. Perciò alla fine ho deciso di restituirla, ma nonna Ethel non abitava più là. Non so che fine abbia fatto. Al suo posto c’era un altro inquilino che non mi ha saputo dire dov’era. – Probabilmente era morta. – Sì, probabilmente.
– Questo significa che aveva passato l’ultimo Natale con te. – Suppongo di sì. Non ci avevo mai pensato. – Hai fatto bene, Auggie, è stato un bel gesto verso quella vecchietta. – Le ho mentito e l’ho derubata. Non vedo come si possa chiamare una buona azione. – L’hai resa felice. E la macchina fotografica era comunque rubata: in realtà non apparteneva a chi l’hai presa. – Per l’arte tutto è lecito, eh, Paul? – Non la metterei così, però tu almeno hai fatto buon uso di quella macchina. – Ecco, adesso la novella di Natale ce l’hai, vero? – Sì, – ho risposto, – penso di sì. Vedendo Auggie sorridere malizioso con una luce misteriosa e intimamente compiaciuta negli occhi, m’è sorto il dubbio che la
storia fosse tutta inventata, ma al momento di chiedergli se mi avesse preso in giro ho capito che non me l’avrebbe mai detto. Era riuscito a farsi prendere sul serio, e quella era l’unica cosa che contava. Nessuna storia è falsa finché una sola persona ci crede. – Sei grande, Auggie, – gli ho detto. – Grazie per l’aiuto, è stato prezioso. – Non c’è di che, – mi ha risposto lui continuando a guardarmi con quella strana luce folle negli occhi. – D’altra parte, se non potessi confessarti un segreto che amico saresti? – Ti devo un grande favore. – Figurati. Scrivila come te l’ho raccontata e non mi devi un bel niente. – Salvo il pranzo. – Certo, salvo il pranzo. Ricambiando il sorriso di Auggie con un sorriso ho chiamato il cameriere e ho chiesto il conto. ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DA SHINDLER’S LIST
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Poco cinema ha affrontato il tema dell’Olocausto. In effetti, e a tutti gli effetti, la tragicità dell’argomento poco si presta alla mediazione sceneggiata, e poi -in simultanea- bisogna anche considerare legittime una doverosa riservatezza e una necessaria discrezione, oltre a un profondo senso di rispetto per le vittime e i loro congiunti. In tempi sostanzialmente recenti, solo l’italiano Roberto Benigni ha avvicinato l’argomento, sceneggiando, dirigendo e interpretando La vita à bella, del 1997, che ha ottenuto straordinari riconoscimenti internazionali, a partire da tre premi Oscar: miglior film straniero, migliore interpretazione e migliore colonna sonora (di Nicola Piovani). In tempi lontani, un altro italiano ebbe il coraggio di trattare un capitolo doloroso della vita dei Campi: con il suo Kapò, del 1960 (nomination all’Oscar per i film stranieri), Gillo Pontecorvo infranse la barriera di tabu riguardo la collaborazione di internati ebrei nella gestione dei prigionieri. Punto. Altrimenti, per decenni, la cinematografia -soprattutto statunitense- ha aggirato il problema (se di questo poi si tratta), limitandosi a vicende di campi di detenzione e reclusione militari. Tra i tanti film richiamabili, la trasversalità fotografica -alla quale dovremmo attenerci (forse)- richiama alla ribalta soprattutto tre titoli, in ognuno dei quali la fotografia fa una propria breve ed eterea apparizione: sempre, e comunque, ininfluente sulle rispettive sceneggiature e scenografie. Temporalmente antesignano è Stalag 17, di Billy Wilder, del 1953: film d’avventura svolto con tempi, ritmi e dialoghi da commedia brillante (proprio nello stile del celebrato regista, che, tra tanto altro, ha firmato l’epocale A qualcuno piace caldo, del 1959, con Marilyn Monroe, Tony Curtis e Jack Lemmon). In una scena, quando viene inquadrato il contenuto del baule del sergente J.J. Stefton, “trafficante” senza scrupoli, interpretato da un enigmatico William Holden, si intravede una preziosa Leica III. Analogamente fulminee e leggere sono due situazioni fotografiche coin-
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Doppia sequenza di lampi, dall’unica scena del film Schinder’s List (di Steven Spielberg, del 1993) attraversata dalla fotografia. Nulla di che, ma accattivante complemento scenografico. Tanto ci basta... oggi.
cidenti, che collegano idealmente film di svolgimento accostabile: La grande fuga, di John Sturges, del 1963 (con cast di tutto rispetto), e l’orrendo e improbabile Fuga per la vittoria, di John Huston, del 1981 (infarcito di stelle del calcio dei tempi). In entrambi i casi, per la fuga dal campo di prigionia, vengono predisposti documenti falsi di identificazione, sui quali è necessario collocare un ritratto autentico. Ecco qui che, nell’inventiva e capacità di adattamento (e creatività) proprie della detenzione, compaiono apparecchi fotografici improvvisati. Nel primo caso, tra le mani del falsario Blythe “The Forger” (per l’appunto, Blythe “Il falsario”, interpretato dal bravo Donald Pleasence) prende vita un apparato basato su un obiettivo Zeiss; nel secondo caso, occhiali, lampada a petrolio e altre suppellettili danno vita a una macchina fotografica.
Per certi versi, da un punto di vista e osservazione che ci appartiene, e del quale andiamo persino fieri, la fotografia fa capolino anche nell’epocale Schindler’s List, di Steven Spielberg, del 1993: certamente una delle sceneggiature più concentrate tra quante (poche) hanno affrontato la persecuzione degli ebrei nella Germania del Terzo Reich. Niente di più, ma neppure di meno, di una Exakta con flash a lampadine tra le mani di una fotografa “ambulante” che ritrae i clienti di un elegante ed esclusivo ristorante tedesco, frequentato da industriali e alti ufficiali (dell’esercito e della famigerata Gestapo). Però, come visualizziamo, accattivanti sequenze di lampi. E questo è quanto, in anticipo su quanto abbiamo compilato in celebrazione della Giornata della Memoria 2016 (ventisette gennaio), da pagina 44, su questo stesso numero. ❖
Analogico e digitale di Beppe Bolchi
Come dipinge il Sole Fotografia pei dilettanti, di Giovanni Muffone (Ulrico Hoepli Editore, quinta edizione, 1902).
(in alto, a destra) Scatola a tenuta di luce: stenopeica autocostruita.
(in basso, a destra) Cassetta di lastre in vetro dei primi del Novecento, comprata in un mercatino antiquario.
“Cosa, Dove, Quando, Come e Perché”... e non il mezzo con cui vengono conseguite. Fondamentalmente, la funzione di apparecchi, obiettivi e accessori è rimasta pressoché invariata. Per registrare le immagini può essere anche sufficiente una scatoletta a tenuta di luce [stenopeica / pinhole autocostruita, qui sopra], con la quale impressionare il materiale sensibile -in fotografia stenopeica-; mentre apparecchi specifici, come le panoramiche a obiettivo rotante [in basso, al centro], sono sostituibili con apposite staffe dedicate, che consentono la rotazione dell’apparecchio attorno il piano nodale dell’obiettivo di ripresa [in basso, a sinistra]. Ancora, relativamente agli apparecchi, non tanto a margine, c’è da notare anche che l’obsolescenza di quelli meccanici è prossima a Zero, e comunque sono sempre riparabili e attivabili, quando non sono proprio distrutti. Le lastre in vetro contenute in una cassetta dei primi del Novecento, comprata in un mercatino per qualche decina di euro [qui sotto], sono ancora perfettamente utilizzabili, così come lo è la mia Bencini Comet degli anni Cin-
BEPPE BOLCHI
Panoramica Seitz Roundshot a trecentosessanta gradi e staffa per rotazioni orbicolari.
grafico si è lasciato colonizzare dagli informatici anche sulle definizioni, che per loro hanno forse più senso. Dov’erano i fotografi e i rappresentanti dei fotografi quando serviva? Se torniamo indietro nel tempo, non per essere nostalgici, ma per conoscere meglio la nostra storia, almeno quella fotografica, troviamo che -nella prefazione della quinta edizione (1902) del manuale Hoepli Come dipinge il Sole - Fotografia pei dilettanti [a sinistra]- il dottor Giovanni Muffone ha declinato interpretazioni poetiche e profetiche che potrebbero adattarsi anche alla nostra attualità. Testuale: «Il secolo novello è nato con la fotografia, amico, ed ormai la statistica muta le parti e numera solo, con ben scarse cifre, quelli che non sono fotografi». Quindi, così come non lo hanno fatto altre precedenti evoluzioni, anche le nuove/attuali tecnologie non hanno modificato i nostri comportamenti fotografici, se non per il fatto di aver reso più semplici i processi, ma solo per chi la fotografia la utilizza e applica come passatempo. Ben diverso è l’approccio che deve avere un professionista, ormai ingabbiato in una spirale che lo vede responsabile di tutta la filiera, non più limitata al solo scatto; e lo stesso dicasi per i non professionisti che frequentano la fotografia con convinzione e applicazione (progettuale). Però, nonostante tutto, l’aspetto rilevante è sempre stato e rimane il messaggio che le immagini devono contenere; quindi, le fatidiche risposte alla sequenza di domande fondanti
BEPPE BOLCHI
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La Fotografia è l’oggetto, il risultato visibile e tangibile della registrazione della Luce su un supporto stabile (fotosensibile in termini chimici o elettronici). La Fotografia non è il mezzo con cui si registra l’azione della Luce. Basterebbero queste due incontestabili definizioni per risolvere il quesito, che appare ormai veramente stantio: analogico e digitale. Entrambe le tecnologie hanno in comune la funzione di registrare immagini con la Luce; quindi, non può esserci competizione, ma solo questioni di opportunità e progettualità. Innanzitutto, mi preme esprimere alcune considerazioni sulle definizioni date (imposte?) ai due sistemi; Analogico, da “analogia”, cioè rapporto di somiglianza, affinità, conformità tra due o più elementi; Digitale, da “digit”, cioè cifra (in inglese), ma anche dita (sia in inglese, sia in italiano). Cosa c’entra la conformità o la somiglianza con il fatto che il sistema abbia bisogno di tecnologie chimiche? Cosa ha a che fare la digitazione (manuale) con la registrazione “cifrata” delle immagini? Perché non sono state definite Fotografia Chimica e Fotografia Cifrata? Da questo punto, dall’alto della propria indipendenza fonetica, che limita al minimo indispensabile (e anche meno) l’uso di termini stranieri, i francesi non si sono lasciati ingannare: le loro corrispondenti e rispettive definizioni sono Argentique e Numerique. Perché, in Italia (e altrove), ci hanno confuso con definizioni devianti? Come spesso accade, il mondo foto-
ARCHIVIO BEPPE BOLCHI
DIATRIBA IMPROPONIBILE
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quanta e -a maggior ragione- le mie Nikon F2 degli anni Settanta. Invece, gli apparecchi digitali hanno una obsolescenza clamorosamente esuberante: non solo per la smania dei produttori di presentare nuovi modelli ogni sei/otto mesi, ma anche -e purtroppo- perché non sono altrettanto facilmente riparabili in caso di guasti; infatti, i ricambi elettronici sono impossibili da gestire, considerando l’assoluta mancanza di standardizzazione combinata con le migliaia di versioni immesse sul mercato. Quand’anche fosse possibile, i costi di gestione e intervento sconsigliano la riparazione, in ottemperanza a quella dannata legge dell’usa-e-getta, ormai sancita dal mercato (non soltanto fotografico). Altro aspetto che richiede attenzione è l’alimentazione degli stessi apparecchi fotografici: quelli meccanici non ne hanno bisogno, tranne che per attivare l’esposimetro (e con un minimo di esperienza si può farne anche a meno). Al contrario, gli apparecchi fotografici elettronici non possono funzionare senza le relative batterie, diverse da modello a modello, in molti casi solo ricaricabili, il che fa bene all’ecologia, ma obbliga a portarsi appresso il relativo carica-batterie e effettuare regolarmente la ricarica e sicuramente tenersi una batteria di scorta per ogni evenienza. Le funzioni di otturazione e chiusura di diaframma al valore ottimale di esposizione non hanno subìto variazioni: gli esposimetri continuano ad agire nella stessa maniera, così come è inalterato il concetto di qualità formale vincolato alle dimensioni del materiale sensibile (fotogramma o file che sia). Allo stesso tempo, registro che un salto epocale è rappresentato dalla possibilità di re-
golare a piacere, e secondo necessità e intenzioni, la sensibilità di registrazione, con relativo allineamento opportuno alle diverse condizioni di luce: miglioramento e beneficio straordinari. Invece, è più problematica la regolazione relativa alla qualità della luce. Con la pellicola, il riferimento alla luce bianca teorica (neutra) era regolato dallo stesso film a colori (per luce diurna, a 5500 kelvin, e artificiale/tungsteno, a 3200-3400 kelvin). Tarature intermedie potevano essere calibrate con appositi filtri correttori. Oggi, si può impostare il valore necessario (e indispensabile) direttamente sull’apparecchio, ma ben pochi se ne rendono pienamente conto, e lasciano agli automatismi di funzione ogni interpretazione e decisione cromatica. La latitudine di posa è oggi delegata all’apparecchio; con le pellicole si dipendeva da diverse tipologie (negativo/diapositiva) e diverse offerte delle case produttrici (meglio le pellicole, quindi), al pari della scelta del contrasto, sostanzialmente basso in digitale, perfino superlativo con le pellicole. Il tanto declamato -e spesso usato a sproposito- HDR (High Dynamic Range) non è che l’applicazione del Sistema Zonale del grande Ansel Adams, addirittura già preconizzato da Gustave Le Gray, nel 1856! Però, bisogna saperlo applicare con misura e capacità, per evitare le orribili illustrazioni che qualcuno propone. Le opzioni della camera chiara (in post produzione) non sono dissimili da quelle della camera oscura: hanno certamente maggiori potenzialità, ma necessitano anche di approfondite capacità, addestramento e delicatezza. È tanto facile applicare un “filtro”, più difficile è capire e sapere quali sono le sue finalità. Comunque, il filtro polarizzatore rimane uno strumento indispensabile in molte occasioni e la sua funzione in ripresa non può essere applicata a posteriori. La luce: ecco, questa è una bella novità. Le nuove luci Led, dai bassi consumi e dalla lunga durata, consentono opzioni impensabili con sistemi a luce calda/artificiale e flash. Maggiore duttilità, minore ingombro, minor costo, minor consumo. Peccato che non vengano ancora sfruttate appieno dagli addetti ai lavori. Il riscontro immediato è ancora in fase interlocutoria. Suicidatasi Pola-
BEPPE BOLCHI (2)
Analogico e digitale
Storia di una famiglia negli anni di fine Ottocento: da FOTOgraphia, del novembre 2010. Interventi creativi con pellicole polaroid: manipolazione manuale sulla superfice dei film integrali (in alto, a sinistra) e distacco dell’emulsione (in alto, a destra).
roid Corporation, la vera fotografia a sviluppo immediato non è più uno strumento disponibile a livello professionale. La valutazione su un piccolo monitor supplisce solo parzialmente alle necessità. Ci sono le piccole stampanti portatili della tecnologia Zink, ancora poco performanti per le necessità reali, per cui aspettiamo con calma la loro evoluzione. In stagioni passate, il dopo scatto ha offerto soluzioni veramente accattivanti per la fotografia chimica (antiche tecniche: carta salata, bromolio, gomma bicromatata, cianotipia, collodio
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umido), mentre plotter e stampanti a getto di inchiostro sono ancora alla ricerca di prestazioni creative di livello analogo (per esempio, in ambito polaroid, penso a elaborazioni quali la manipolazione manuale [a pagina 21] e il trasferimento e il distacco dell’emulsione [ancora, a pagina 21], che tanta soddisfazione hanno dato a chi le ha sapute applicare creativamente, e magari anche solo pedissequamente). Dove il divario tra le due tecnologie si è fatto molto ampio, non certo a favore di bit, bytes e digits, è l’aspetto della durata e della conservazione. Le pellicole, addirittura le lastre dei nostri nonni e bisnonni, sono ancora oggi fisicamente ben preservate e utilizzabili. Conservo e utilizzo negativi dei miei genitori, scattati oltre settant’anni fa, con una semplice e facile consultazione, custoditi in buste meramente adagiate in un cassetto. Ho recuperato la storia di una famiglia negli anni di fine Ottocento attraverso una cassetta di legno contenente lastre di vetro, ritrovata nella cantina di un vecchio cascinale [FOTOgraphia, novembre 2010; a pagina 21]. Con un minimo di attenzione e ordine, pellicole e stampe fotografiche chimiche hanno una durata certificata e potranno esserlo ancora (l’archivio Corbis, di Bill Gates, nella Iron Mountain, in Pennsylvania, ne è la dimostrazione più eclatante). Al contrario, le immagini digitali hanno bisogno di una strategia ben definita per poterne garantire la conservazione e la reperibilità. Gli stessi formati di registrazione sono in continua modificazione, i file grezzi Raw sono diversi secondo gli apparecchi utilizzati e necessitano di interfacce dedicate. I più comuni Jpeg compressi sono già in evoluzione, e comunque il formato è di proprietà del fornitore, che potrebbe decidere di revocarne la licenza d’uso, mettendo fuori legge tutti i nostri archivi. Le applicazioni che trattano le immagini sono in continua evoluzione, forzata non solo dalle nuove prestazioni, ma anche (soprattutto?) da esigenze commerciali, così come i vari sistemi operativi e le relative interconnessioni di compatibilità. Quindi, dobbiamo stabilire una vera e propria strategia, in mancanza della quale il rischio di perdere o di non saper rintracciare le nostre immagini è veramente elevato. Quali file archiviare? Che valore hanno? Quali
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JUSTIN QUINNELL
Analogico e digitale
Fotografia ripresa con foro stenopeico, con tre mesi di esposizione su pellicola a colori.
i criteri di archiviazione? Teniamo tutto? La nostra struttura è idonea? Tutte queste domande richiedono risposte. I dati devono essere identificabili e univoci (quanti “_DSC0187” esistono oggi al mondo?), devono essere archiviati e rintracciabili, devono essere protetti. Le nostre strutture sono in grado di garantire tutto questo? Qual è l’affidabilità e la durata dei supporti sui quali le custodiamo? Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia. Significativo è il recente monito del vice presidente di Google, Vint Cerf («Se non si trova una soluzione, il Ventunesimo secolo sarà un enorme buco nero»), che ha definito il prossimo futuro Digital Dark Age. Il suo consiglio è sconcertante: «Se avete una fotografia alla quale tenete davvero, stampatela su carta». E le stampe dovrebbero essere realizzate a regola d’arte e su supporti resistenti nel tempo (su carta chimica?). Comunque, prima di concludere, segnalo ciò che le due tecnologie hanno di unico e caratterizzante, che solo in quel modo è possibile fare: quindi, frutto di una scelta oculata, senza falsi feticismi o nostalgie. Fabbricarsi, costruirsi il proprio apparecchio fotografico è ovviamente appannaggio della fotografia chimica. Una scatoletta, più o meno solida, con il piccolo foro per far passare la luce (stenopeico / pinhole), rimane una esperienza unica da sperimentare. Ho già citato gli apparecchi per panora-
miche a obiettivo rotante, ma anche quelli a fessura per effettuare le strisciate (tipici del fotofinish) possono essere utilizzati solo con le pellicole. Un altro aspetto che può rivelarsi importante: lunghissime esposizioni sono possibili solo con le pellicole. Nonostante i relativi difetti di reciprocità, le pellicole possono essere esposte per ore, giorni, perfino mesi [qui sopra]; i sensori digitali, al contrario, sopportano solo esposizioni limitate, in alcuni casi solo fino a trenta secondi, e comunque non oltre le decine di minuti, onde evitare il rischio di veder bruciare qualche prezioso pixel. Discorso analogo vale per il contrasto, fino al limite delle pellicole lith, al tratto, bianco e nero, senza grigi intermedi, utilizzate in fotomeccanica. Impiego di nicchia, è vero, ma tuttora valido. Ultimo, ma non ultimo, la registrazione di immagini su pellicola consente ormai facilmente anche la relativa acquisizione digitale, sfruttando tutte le sue prerogative nel post-scatto. Il processo inverso, benché spesso promesso, non è ancora una realtà, se non per riproduzione. Qui potrebbe aprirsi un discorso sull’etica di proporre stampe chimiche, in origine generate da immagini digitali. Non sono in discussione la validità e il contenuto delle immagini stesse, ma credo che il processo debba essere dichiarato, soprattutto nel mercato del collezionismo e della fine-art.
BEPPE BOLCHI
Analogico e digitale
L’approccio digitale ha evidentemente i propri plus, che in alcuni caso sono elettrizzanti. In ordine sparso. La possibilità di effettuare riprese in sequenza rapidissima, fino a sessanta fotogrammi al secondo, resa disponibile dalle nuove tecnologie, consente soluzioni impensabili altrimenti. Il momento decisivo può essere scelto a posteriori. Chissà cosa ne avrebbe pensato il grande Henri Cartier-Bresson! Comunque, è un grande vantaggio nella ripresa d’azione e di fenomeni in rapido svolgimento. La possibilità di programmare scatti in sequenza è oggi più facile, consentendo la realizzazione dei cosiddetti time-lapse, in molti casi veramente sensazionali. Interessanti le opzioni di “stitching”, cioè la fusione di più fotogrammi, valide per le riprese panoramiche, ma anche per poter amplificare la dimensione e la qualità delle riprese, soprattutto nella riproduzione di opere d’arte e in architettura [qui sopra].
L’opzione digitale indiscutibilmente più utilizzata rimane comunque quella del foto ritocco, purtroppo ampiamente abusato, ma indubbiamente efficace. Anche in questo caso, si potrebbe aprire una parentesi sull’etica, La modificazione, il togliere o l’aggiungere elementi a una immagine dovrebbero essere dichiarati, per non ingannare gli osservatori. È accettato nelle immagini pubblicitarie. Sicuramente è da bandire per tutto ciò che riguarda reportage e documentazione, ma -ripeto- è una questione che merita ulteriori approfondimenti e prese di coscienza. Indiscutibilmente di grande validità è l’opzione di poter agganciare alle immagini una serie di dati e riferimenti che consentano di identificarle, rintracciarle, selezionarle, attraverso parole chiave e informazioni che le definiscano e caratterizzino. Un monito a quelli che utilizzano applicazioni “craccate”, cioè non ufficiali, quindi rubate: siete certi che nei metadati exif non venga tracciato in maniera invisibile questa
Oltre che per realizzare visioni panoramiche, lo “stitching”, cioè la fusione di più fotogrammi, può essere applicato per amplificare la dimensione e qualità delle riprese, soprattutto in architettura (qui, il quartiere della Défense di Parigi) e nelle riprese di opere d’arte.
incauta informazione? Attenzione: il diritto d’autore è valido sia per le nostre immagini sia per qualsiasi opera dell’ingegno, compresi i programmi applicativi che utilizziamo. Per concludere, e sicuramente di rilevanza per le immagini digitali, è la loro possibilità di condivisione attraverso piattaforme Web, opzione ormai ampiamente utilizzata al punto da intasare i vari server che sono costretti a fagocitare oltre tre milioni di immagini ogni giorno. La relativa utilità è fondamentale nella gestione delle informazioni; altro discorso sarebbe quello legato alla nostra utilità, ma anche qui entreremmo in un campo minato, estraneo al contesto di queste note. Per tonare alla partenza, nessuna diatriba -ormai- tra Fotografia Analogica e Digitale, il riferimento alla tecnologia è inutile, gli aspetti importanti sono e saranno sempre i contenuti, i messaggi che affidiamo alle mostre immagini, il loro utilizzo e la loro conservazione nel tempo. ❖
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Fiera
di Maurizio Rebuzzini
DAL PHOTOSHOW 2015 Incontri al nostro stand al Photoshow 2015 (dal ventitré al venticinque ottobre scorsi), a partire da Francesco Cito, autorevole e celebrato fotogiornalista. Quindi, in sequenza, Maurizio Galimberti, autore contemporaneo tra i più affermati nel mondo dell’arte, Giovanni Gastel, al quale si attribuisce una inconfondibile eleganza nella fotografia, soprattutto di moda, ma non soltanto, e Settimio Benedusi, intrigante interprete del ritratto e della moda, hanno firmato le loro rispettive copertine in edizioni recenti di FOTOgraphia: maggio, settembre e luglio 2015.
GIAN PAOLO RANDAZZO (4)
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Prima di commentare lo svolgimento del recente Photoshow, a Milano, nei padiglioni espositivi di Superstudio Più, nel fine settimana ventitré-venticinque ottobre, bisogna accordarsi sull’argomento da affrontare e svolgere. Tanti ce ne sono, che diventano presto troppi. Però, se si intendesse relazionare in termini enciclopedici, si finirebbe per non trattare effettivamente nulla; ci si perderebbe in una infinita e interminabile sequenza di parole, le une accostate alle altre, le une susseguenti alle precedenti: magari, persino in bell’ordine, ma con l’inutilità dei temini incolore della scuola dell’obbligo. Qui, nessuno ci impone nulla... per cui, mettiamoci d’accordo. Ovviamente, l’intesa è unilaterale, perché stabilita da noi, qui in redazione, e subìta da voi, sulle pagine della rivista. Ma, comunque sia, di consonanza preventiva si tratta. Subito svelata: non ci interessa alcuna dietrologia, non raccogliamo alcuna recriminazione (e non sottolineiamo neppure le nostre personali), non, non, non. Invece, ci occupiamo di commercio fotografico in Italia, espresso alla luce e dai riflettori della propria fiera più fragorosa: il Photoshow, evento fieristico realizzato da Aifoto (Associazione Italiana Foto & Digital Imaging), che dal 1979 rappresenta l’intera filiera del nostro mercato. Per lungo tempo, il Photoshow si è svolto a cadenza annuale, alternando le sedi espositive di Milano e Roma, rispettivamente negli anni dispari e pari. Lo scorso 2014, non si è svolto il Photoshow programmato nella Capitale. Per il futuro, si vedrà, una volta che i protagonisti, gli attori commerciali, avranno elaborato le proprie considerazioni oggettive (e di costo/contatto con il pubblico potenzialmente cliente), interpretando i dati di affluenza e fidelizzazione espressi dal Photoshow 2015, a Milano. Comunque, indipendentemente dalla presenza di pubblico (ma neppure tanto indipendentemente), una considerazione ci pare sovrastante. In un’epoca, come la nostra, nella quale la comunicazione in tempo reale della rete Internet assolve egregiamente e
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risolve, quali sono il compito e ruolo di una fiera commerciale? Probabilmente, molto probabilmente, non è più un problema di novità di mercato, come è stato fino a qualche anno fa, quando i visitatori smaniavano di avvicinare e toccare con mano gli utensili della fotografia (magari anche solo per nobile e giustificato spirito feticistico). Altrettanto probabilmente, una fiera nazionale, quale è il Photoshow, non può introdurre parametri mercantili di profilo alto, né esprimere il senso di una tendenza, come invece possono farlo le esposizioni mondiali di riferimento: dalla Photokina, di Colonia, nell’autunno degli anni pari, all’International Consumer Electronics Show, di Las Vegas (meglio conosciuto come Ces), al Cebit, di Hannover (salone leader delle soluzioni, dei prodotti e dei servizi per tutti i settori della tecnologia dell’informazione e della comunicazione). Dunque, e a conseguenza diretta e inevitabile, le considerazioni nazionali non possono prescindere dall’immediata redditività del contatto con il pubblico, dalla proiezione di questo avvicinamento sulle scelte di acquisto dei prodotti. Così che un’altra domanda sorge spontanea: in termini fieristici, così diversi da altri contatti (per esempio, attraverso la qualificata e autorevole editoria specializzata, ovvero, l’editoria fotografica: sulla quale riferiamo più avanti), è ancora tempo nel quale si può anteporre l’utensile alla realizzazione di immagini, come fu in anni di gloriosi entusiasmi tecnici che da soli bastavano a gratificare gli utilizzatori? Oppure, osservando la realtà che ci circonda (senza dare alcun peso, né valore, a quella che vorremmo ci circondasse), non sarebbe forse il caso di invertire i termini del discorso, in una operazione algebrica che -diversamente dal canonico- potrebbe far cambiare il risultato? Ovvero, oggi più di ieri, oggi meglio di ieri, oggi diversamente da ieri, è imperiosamente attiva una quantità di realizzatori di immagini che a questa pensano (all’immagine), prima di porsi problemi tecnici. A nostro modo di intenderla, è questo un pubblico nuovo e potenziale verso il quale rivolgersi. Così che, rientrando nei confini fisici del Photoshow di Milano, onore e merito, prima di altri, a Canon e Nikon, per la intraprendente, dinamica e solerte interpretazione del contenitore: “Photo”, come referenza prima-
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Fiera
ria e principale; “Show”, come allineamento di profilo alto e sfavillante. Ancora, onore e merito a coloro i quali hanno aderito con i propri utensili complementari, di supporto (obiettivi, accessori e integrazioni) al soggetto di maggiore richiamo universale (la macchina fotografica, in tutte le proprie personalità tecnologiche attuali): M. Trading, con gli obiettivi Sigma, soprattutto; Rinowa, con una proposta cadenzata ed eterogenea; Manfrotto, con un consistente bagaglio di proposte. Ancora, onore e merito a coloro i quali si sono accodati con altri accessori specifici e con linee di prodotto avvincenti, dai supporti alle borse, dalla post produzione alla stampa, da-a tanto altro ancora. Ancora, onore e merito all’area video Ibts, sia per la regia di Stefano Belli, sia per l’intraprendenza e coerenza e concentrazione degli espositori tutti: ognuno per se stesso, nel momento nel quale ciascuno è stato tessera di un prezioso mosaico complessivo. Ancora, onore e merito a Fujifilm, paradossalmente l’ultima produzione fotografica che ancora offre e propone una fotografia chimica tangibile, interpretata nei termini dello sviluppo immediato Instax, che affianca il convincente sistema ad acquisizione digitale di immagini in configurazione CSC (Compact System Camera, già Mirrorless) e dintorni, sia a obiettivi intercambiabili, come è statutario che debba essere, sia con interpretazioni a obiettivo grandangolare fisso. Ancora, onore e merito a Leica Italia, che ha allestito una propria passerella
(dall’alto e da sinistra) Altri incontri al nostro stand al recente Photoshow 2015, tra posa e sceneggiata: con Monica Silva e Maurizio Galimberti; Giovanni Gastel e Maurizio Rebuzzini con la copertina dello scorso settembre (per l’appunto, di Giovanni Gastel) e una quantità di autobiografie dello stesso Giovanni Gastel [ Un eterno istante; FOTOgraphia, settembre 2015]; Settimio Benedusi e Giovanni Gastel (ancora lui) si disputano le rispettive copie di FOTOgraphia, con proprie copertine (luglio e settembre 2015). Infine, seminario Il linguaggio fotografico e la fotografia attraverso i Social Network, con Igers Milano, a cura di Maurizio Rebuzzini, con Barbara Gemma La Malfa e Marco Lamberto.
esterna ma prossima al Photoshow. Oltre tanti altri valori -che, paradossalmente, includono l’unica novità tecnica di sostanza annunciata e presentata “al Photoshow” (Leica SC) e che, altrettanto paradossalmente, stabiliscono i termini di sostanziosi primati di performance (scanditi da una transizione dalla pellicola alla tecnologia digitale sicuramente complessa, ma oggi superlativa)-, così agendo, Leica ha creato i presupposti per incontrare nel modo migliore e più confortevole il proprio pubblico: che, siamo sinceri, non ha tanti punti di contatto con i parametri standardizzati del mercato fotografico. Non è stata un’azione di superbia, ma un’opzione dettata dal rispetto e dalla consapevolezza di se stessi e del proprio mondo. Hai detto poco! Infine, onore e merito a Fowa, la cui ampiezza di offerta ha generato un afflusso costante allo stand e una permanenza convinta attorno le tante proposte: molte delle quali di personalità nota, tanto da essere addirittura classica, ma altrettante delle quali autenticamente innovative e interpretative di un presente in proiezione futuribile. E, poi? E, poi! E, poi, sostanziose perplessità sulla regia della Fiera, che è stata presentata come “rivoluzionaria” nella propria formula, ma che ci è parsa “conservatrice” e “miope” nella propria sostanza. Qui e ora non è luogo, né tempo, per approfondire questa nostra visione, confortata da tanti incontri con i visitatori: se sono stati sinceri, se non si sono espressi per mal intesa cortigianeria (verso chi e cosa, poi?), se
Fiera
possono essere considerati rappresentativi di una referenza commerciale possibile e potenziale... andrebbero ascoltati... andrebbero assecondati. Del resto, come abbiamo annotato in tante e tante occasioni, a questa precedente, e come annoteremo ancora in tante e tante altre occasioni, a questa successive, sollecitiamo una educazione commerciale che si estenda oltre i soli riferimenti tecnici, per comprendere la definizione di un commercio rivolto all’applicazione attiva di un interesse: sia che si tratti di semplice (e nobile) fotoricordo domenicale, sia che si tratti di impegno individuale più sostanzioso (quel fotoamatorismo, anche organizzato, frequentato da molti), la fotografia è un hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è certo valore da poco, né da sottostimare. In definitiva, quale non-regia mortifica gli sforzi di quanti agiscono nel comparto fotografico (molti dei quali includono anche sostanziosi impegni finanziari)? La non-regia che pensa e ragiona unilateralmente, senza arricchirsi di opinioni diverse e complementari, ciascuna delle quali nasce da esperienze proprie maturate a livelli sovrapposti e non coincidenti della fotografia: dallo scatto alla riflessione, dalla gratificazione a altre intenzioni individuali. In questo senso, siamo perfettamente consapevoli delle differenze tra la comunicazione Web e quella “cartacea”: la Rete si distingue per freschezza e rapidità di argomenti, con relativa facilità e velocità di ricerca e
In posa alla mostra #WeAreIgersMilano, curata da Filippo e Maurizio Rebuzzini, in collaborazione con Instagramer Milano: dodici autori con una selezione di dodici immagini ciascuno. Dall’alto e da sinistra: Giovanni Gastel con Marzia Bellini e Marco Lamberto; Maurizio Galimberti, Settimio Benedusi e Monica Silva.
informazione, mentre la lettura (scrittura) di riviste e/o libri offre tempo e modo per elaborare e riflettere. Come dire, e diciamolo!, che la scrittura/lettura di riviste (e/o libri) favorisce la comprensione di argomenti complessi e articolati. E di questo si dovrebbe tenere conto. Molto conto! Per quanto riguarda la nostra esperienza personale, che potrebbe anche risultare utile alla regia complessiva, prima di tutto, bisogna intendersi. Sono almeno due le funzioni che il giornalismo fotografico deve svolgere, e che noi pensiamo di svolgere: da una parte, si rivolge al proprio pubblico; dall’altra, contribuisce a comporre i tratti del mondo verso il quale si indirizza e del quale testimonia. Sia in ambito squisitamente tecnico, sia indirizzandosi all’immagine e all’approfondimento di aspetti espressivi e culturali, l’azione giornalistica non può venir meno al doppio dovere appena enunciato, con il sostanzioso carico e bagaglio di etica e deontologia che tutto questo comporta. Quindi, vanno comprese le differenze che intercorrono tra l’individuo singolo (il giornalista, il lettore, l’operatore del mercato fotografico, l’autore...) e il collettivo al quale si riferisce e richiama: ovvero, bisogna essere consapevoli che ognuno è parte di una società che possiede una cultura e una storia. In sintesi, come individui siamo liberi di essere ciò che vogliamo essere, mentre l’appartenenza e il richiamo a un qualsivoglia collettivo impongono un carattere storico, che è anche figlio di una definita continuità culturale.
Nel collettivo, ciascuno trova la propria cifra più vera e unica. Da solo, nessuno può raggiungere una qualsiasi conclusione che sia diversa da quanto gli fanno credere i propri sensi, ma un collettivo sì. Da soli, non avremmo una logica, che è una costruzione eminentemente collettiva. Da soli non avremmo una scienza, prodotto di una continua interazione tra uomini e tra uomini e vita. Per essere tale -Uomo-, l’Uomo deve essere sociale. In definitiva, questo è lo spirito che definisce la personalità giornalistica di FOTOgraphia, le cui (molte) individualità sono proiettate al collettivo del mondo fotografico, al quale propongono e offrono le proprie (presunte) competenze: spunti utili e proficui. Ciò detto, ribadiamo e confermiamo: se è vero che i tempi cambiano... è altrettanto vero che ogni commercio deve sapersi rinnovare con loro (cambiando abilmente d’abito). Per quanto riguarda le passerelle mercantili della fotografia, probabilmente non servono più fiere di utensili (e basta), che ormai vengono annunciate, presentate e commentate altrimenti (con competenza, dalle riviste specializzate che sanno di cosa parlare e come farlo, per rivolgersi al pubblico). Forse, serve una straordinaria festa della fotografia: non più interpretata nel solo senso dell’offerta tecnica, ma ispirata dalla gratificazione degli utenti. In ogni caso, e in assoluto, per il bene(ficio) dell’intero mercato. Ci rivolgiamo soprattutto agli operatori di profilo alto -che sono il riferimento principe di tutto e tutti: inutile far finta di non averlo capito-, alcuni dei quali, mal consigliati e pessimamente indirizzati da qualcuno, credono ancora che l’incremento commerciale della fotografia possa prescindere ed essere separato dalla promozione del proprio esercizio: professionale, al quale guardare con ammirazione, ma anche individuale e quotidiano, dal quale i clienti possono trarre benefici, gioia, soddisfazioni e piaceri, senza soluzione di continuità. Ennesima ripetizione: la fotografia è ancora (e sempre lo sarà, indipendentemente dalle proprie tecnologie e personalità tecniche) un esercizio attivo e non passivo, un hobby creativo e non statico. Dobbiamo esserne tutti convinti. ❖
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PER TRICOT CHIC
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
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febbraio 2016
SIMONE NERVI: INCANTO VISUALE. VERSO MONDI ONIRICI, OLTRE OGNI REALTÀ. Percezioni surreali
LA SUA AFRICA
ZAMBESI RIVER, KATOMBORA (“DENINGA RUN”)
Non si può rimanere indifferenti di fronte al solenne progetto Zambian Portraits, del bravo Paolo Solari Bozzi, riunito in una monografia pubblicata da Skira. La raccolta è significativa e significante da infiniti punti di vista, tanto che ciascuno ha pure il dovere di aggiungerne anche di propri. Ma non capiremo mai, se non rallentiamo. Non si proceda in fretta. Ogni fotografia è parte di un insieme, che aiuta a comporre, ma è diversa dall’altra. Rallentare. Questo è il consiglio. Così è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi
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Lo stesso si deve dire per il giudizio dal vivo delle fotografie: nell’attuale caso di Paolo Solari Bozzi, soprattutto nella successione delle pagine dell’autorevole monografia. Chi scrive ha già guardato le immagini, e offre una chiave di lettura a chi ancora le deve avvicinare, al quale consiglia -come stiamo per considerare- un tempo doppio. Dopo una prima presa di contatto generale e complessiva, ognuno ritorni a capo, per consentire alle emozioni individuali di affiorare in superficie e accomodarsi nella mente e nel cuore. Questo è il grande valore della fotografia di Paolo Solari Bozzi, che comunica all’esterno con la leggerezza, ma consistenza, di chi finge di non volerlo fare, di chi finge di percorrere un territorio solitario. Al contrario, questa fotografia è così “bella” (in un senso che non si limita all’apparenza della propria superficie) da non potersi esaurire con semplici parole di commento e presentazione. Dall’impeccabile composizione di bianconeri di straordinaria forza visiva -forma necessaria, ma non sufficiente- si alza la voce dei soggetti rappresentati (non solo raffigurati), che libra nell’aria a un’altezza che in pochi hanno mai osato pensare. Raramente, come nel caso di Zambian Portraits, è indispensabile il consiglio di guardare non venendo meno a se stessi, così come chi scrive lo fa dal proprio punto di vista, oggettivamente viziato, quantomeno mirato: guardare, per vedere. Non si può rimanere indifferenti di fronte alla solenne quantità di fotografie che Paolo Solari Bozzi ha visualizzato e realizzato nel corso di questo suo progetto africano -temporalmente successivo a un primo, originario, Namibia Sun Pictures, pubblicato nel 2013che dal punto di vista produttivo lo ha impegnato per quattro mesi, lo scorso 2014. Questa monografia è significativa e significante da infiniti punti di vista, tanto che ciascuno ha pure il dovere di aggiungerne anche di propri. Subito va sottolineato come in fotografia, al pari e allo stesso tempo diversamente da altre forme di comunicazione, esiste un legame indissolubile tra conoscenza e pratica, tra sapere e fare. In questo sono esemplari la passione e l’impegno personale dell’autore, fotografo non professionista, sollecitato da progetti personali. L’avvicinamento alle sue fotografie, la presa di contatto con il suo modo di registrare la realtà (questa è la materia delle sue immagini) deve seguire la consecuzione che ha guidato la sua stessa azione. Per le fotografie in Africa, terra che ama incondizionatamente, Paolo Solari Bozzi ha applicato un rigore morale assoluto. Ha agito come pochi autori di grande statura espressiva sanno fare (e per questo merita di essere elencato in casellari ristretti della fotografia
di Angelo Galantini
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ON THE
WAY FROM
KABINGA TO MBATI
crivere di fotografia, sulla fotografia, è un esercizio individuale. In questo, non si discosta da alcun altro indirizzo di vita, che ciascuno interpreta sulla scorta delle proprie esperienze e nella proiezione/protezione delle proprie visioni e intenzioni. Così, da quando ha finalizzato la propria passione in progetti di consistenza, pubblicati in convincenti monografie d’autore, la fotografia del bravo Paolo Solari Bozzi -per la quale, oggi, sottolineiamo il valore della più recente raccolta Zambian Portraits, in edizione Skira- viene celebrata con la sontuosità formale e di contenuto che la sua opera merita. È già stata osservata e presentata da una qualificata successione di esplorazioni (appunto individuali), che hanno via via rimarcato particolari peculiarità espressive: a ciascuna contemplazione, la propria. La premessa è indispensabile per definire come scrivere di fotografia, sulla fotografia, non possa mai prescindere dall’osservazione educata individualmente, e maturata in riflessioni, rilievi, esplorazioni.
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KAFWINTA VILLAGE (MWITA, CHONGO) LUKULU KAFWINTA VILLAGE (MWITA)
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KAWAUN VILLAGE
contemporanea). Mai invasivo, mai sovrapposto ai propri soggetti, è testimone partecipe della vita, riuscendo a congelare istanti rappresentativi non soltanto di se stessi: anche quando ha applicato il ritratto posato e consapevole (da parte del soggetto). Paolo Solari Bozzi ha usato la macchina fotografica con una abilità fuori dal comune: da un lato, la macchina fotografica ha sollecitato il contatto con i soggetti; dall’altro, ha saputo tenerla a necessaria distanza. Nell’apparenza del semplice e quotidiano, la sua fotografia si è focalizzata su aspetti di vita non sempre facili. Non si è nascosto dietro la macchina fotografica, facendosi proteggere dal suo filtro tra realtà e raffigurazione, ma l’ha usata per introdursi in mondi e situazioni altrimenti impenetrabili. Soprattutto in questo, non soltanto in questo, sta il suo valore d’autore. Nel suo lavoro si è lasciato guidare e condurre da ciò che -di volta in volta- l’ha toccato e sorpreso. Le sue fotografie hanno un alto tasso di misterioso, che consente a ciascun osservatore di aggiungere visioni proprie personali (ancora!). Alcune volte, richiamano per ciò che è incluso nell’inquadratura; altre volte, per quanto ne è restato fuori. Nella propria sensibilità d’autore, Paolo Solari Bozzi rivela l’essenza stessa della fotografia, che non prevede formule assolute per la propria realizzazione. È sempre un processo misterioso e magico, quasi una sfida senza fine. Con la macchina fotografica consapevolmente tra le mani, nuove idee si schiudono continuamente e nuove possibilità si rivelano a ogni passo. È per questo sottile territorio, invisibile e non delineato da confini certi e certificati, che passa la linea discriminante che separa “fare fotografie”, “scattare fotografie”, dall’“essere fotografo”: tra quanti
MAZABUKA, ZAMSUGAR MAZABUKA, ZAMSUGAR
(tutti) possono tenere tra le mani una macchina fotografica, solo il fotografo è capace di aprirsi abbastanza, di mettersi in gioco, per riconoscere queste “possibilità” nel momento in cui appaiono. Solo il fotografo sa portarle avanti e perseguirle. Il lento scorrere del tempo, durante il quale il bravo fotografo ha affrontato i soggetti di Zambian Portraits in logica consecuzione (d’autore!), sottolinea che la teoria dipende dalla pratica, che la teoria si basa sulla pratica e, a propria volta, serve la pratica (teoria-pratica-teoria, dunque). In altri termini, le singole osservazioni riscontrate hanno provocato determinate percezioni, fatto sorgere una serie di impressioni collegate da un nesso approssimativo esteriore. Dopo questa prima fase della conoscenza, proseguendo nel contatto diretto con il proprio impegno fotografico, Paolo Solari Bozzi è sicuramente approdato a numerose ripetizioni degli avvenimenti, che hanno suscitato in lui percezioni e impressioni: e allora si è prodotto un subitaneo cambiamento (un salto) nel processo della conoscenza, e sono nati i concetti. Da questo momento, il fotografo applica il proprio linguaggio espressivo caratteristico non riflettendo più l’aspetto fenomenico, gli aspetti singoli e i nessi esterni dei fatti, ma cogliendo l’essenza della realtà, il proprio insieme e il proprio nesso interno. Come rivela la progressione della fotografia di Paolo Solari Bozzi -da Namibia Sun Pictures a Zambian Portraits-, che ognuno di noi può misurare e conteggiare in relazione allo scorrere del tempo, la differenza tra concetto e percezione non è stata soltanto quantitativa ma anche qualitativa. Procedendo in questa direzione, e servendosi dei metodi del giudizio e della deduzione, l’autore ha offerto conclusioni logiche.
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GREAT EAST ROAD
Zambian Portraits, di Paolo Solari Bozzi; testi dell’africanista Mirella Ricciardi, testimonianza di Giovanni Umicini, contestualizzazioni di Paolo Solari Bozzi; Skira, 2015; edizione bilingue, italiano e inglese; 122 fotografie in bianconero, stampate in selezione di grigi; 176 pagine 35x35cm, cartonato; 60,00 euro.
«Con queste fotografie essenziali, stampate in maniera eccellente, Paolo Solari Bozzi ha aperto una finestra sullo Zambia dei nostri tempi» A questo punto, una discriminante riguarda il senso espressivo di coloro i quali, come ha fatto Paolo Solari Bozzi in terra d’Africa, documentano e registrano la realtà. «Per vedere una città [un luogo, una persona, un accadimento, una situazione...] non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero d’elementi che a ogni secondo la città [e ogni altro soggetto reale...] mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma di una macchina, dal quale si possa capire come funziona» (Italo Calvino: Gli dèi della città, in Una pietra sopra; Einaudi Editore, 1980). Con questo, esauriamo il personalismo di scrittura al quale abbiamo accennato in apertura (basato su maturazioni e riflessioni individuali), mantenendo altresì una promessa riportata poche righe dopo, quando abbiamo rilevato che la parabola esistenziale e produttiva di Paolo Solari Bozzi è edificata su «passione e impegno». Dicendola con le parole di Italo Calvino, gli Zambian Portraits sono stati realizzati non solo con occhi semplicisticamente aperti. Nelle proprie costruzioni, abilmente composte e impeccabilmente inquadrate (questa è l’irrinunciabile forma del linguaggio visivo), l’autore ha decisamente «scartato tutto ciò che impedisce di vedere la realtà, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere». Ha «saputo semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme
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NEAR LUSAKA
Mirella Ricciardi
LIVINGSTONE, MARAMBA MARKET NFWELA VILLAGE, KAMUNZEKELI SCHOOL (BEST FRIENDS)
numero d’elementi che a ogni secondo la realtà mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma di una macchina, dal quale si possa capire come funziona». Dunque, dal punto di vista espressivo, Paolo Solari Bozzi è figlio di un’epoca nella quale la fotografia si è manifestata ed espressa anche attraverso la riflessione e (certa) lentezza dei propri strumenti. L’osservazione è obbligatoria oggi, non soltanto necessaria, alla luce delle frenetiche rapidità che stanno condizionando sia la socialità tutta del mondo occidentale, sia aspetti mirati della vita (tra i quali, quello di scattare fotografie e dell’essere fotografo). Nell’ambito fotografico, e indipendentemente da altre tante considerazioni possibili, Paolo Solari Bozzi compone il proprio percorso espressivo con la fotografia argentica: quella esposta su pellicola fotosensibile (medio formato 6x7cm e 6x9cm), successivamente trattata e trasformata con processi (chimici) adeguatamente cadenzati. Questa è una Fotografia, la maiuscola è d’obbligo, che affonda le proprie radici espressive indietro nei decenni, fino addirittura nei secoli, e non dipende dalla sola produzione automatica di immagini. A parte altri aspetti positivi, che qui non interessano, una certa essenza della fotografia digitale dei nostri giorni non ha analoghi natali, ma dipende da una società che consuma tutto in fretta e furia. Invece noi, ora, guardiamo gli Zambian Portraits, di Paolo Solari Bozzi. Non capiremo mai, se non rallentiamo. Non si vada troppo in fretta. Ogni fotografia è parte di un insieme, che aiuta a comporre, ma è diversa dall’altra. Rallentare. Questo è il consiglio. Sapete com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi. ❖
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CALENDARIO È d’obbligo: i calendari d’autore, i calendari istituzionali non svolgono alcuno dei compiti anticipati e annunciati della propria edizione. Per esempio, e soprattutto, non indicano con sufficiente chiarezza la successione di date e giorni del mese. Però, con altra fantastica intenzione, gli stessi calendari d’autore configurano monografie a tema, svolte e presentate in avvincente successione di immagini. Le dodici tavole del Calendario 2016 della Polizia di Stato, in anno bisestile (con tutto il proprio carico di suggestione), sono firmate dal valente fotogiornalista Massimo Sestini, che ha visualizzato i contenuti d’obbligo con inquadrature dall’alto. Tavola dopo tavola, il ritmo zenitale non è solo forma apparente (come pure è), ma contenuto appassionante e coinvolgente. Calendario d’autore, senza alcun dubbio
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ZENITALE In una linea avviata di calendari d’autore, il Calendario 2016 della Polizia di Stato è stato realizzato con dodici tavole firmate da Massimo Sestini: punta di diamante del fotogiornalismo italiano. Con visioni dall’alto e inquadrature rigorosamente zenitali, il valente fotografo ha raffigurato dodici azioni di intervento della Polizia, al servizio del paese. Di fatto, è stata applicata una lezione visiva e rappresentativa di alto spessore e linguaggio inequivocabile. La consapevolezza e coscienza fotografica di Massimo Sestini sono tante e tali da indurlo verso rappresentazioni di Documento e Memoria che si insinuano nelle nostre percezioni. Non è solo una ricreazione di stampo scolastico, ma proprio la capacità di applicare e declinare un linguaggio espressivo efficace e concreto, inviolabilmente e ineluttabilmente indirizzato all’osservatore, preso per mano e accompagnato verso la comprensione di fatti e istanti della Vita. È la grammatica di Massimo Sestini che fa l’autentica differenza, che scandisce i parametri della Fotografia di Memoria e Documento. La Fotografia che richiede sempre e comunque la Maiuscola.
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di Maurizio Rebuzzini
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Qui sotto, nella doppia pagina precedente e nella doppia pagina successiva (in posizione identica), dietro le quinte delle situazioni durante le quali Massimo Sestini ha fotografato da elicotteri della Polizia di Stato per realizzare le dodici tavole del Calendario 2016.
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iprendiamo da Bruno Munari, fantastico designer capace anche di riflettere tutto tondo, a partire proprio dalla sua attività principale: infatti, come spesso sottolineiamo, la conoscenza dipende dalla pratica, cioè dalla produzione e dalla propria attività professionale. Non possiamo ignorare che l’attività produttiva dell’Uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli Uomini. Tutte queste conoscenze non possono essere acquisite al di fuori dell’attività produttiva. Dunque, riprendiamo da Bruno Munari: «Fantasia: tutto ciò che prima non c’era, anche se irrealizzabile. Invenzione: tutto ciò che prima non c’era, ma esclusivamente pratico e senza problemi estetici. Creatività: tutto ciò che prima non c’era, ma realizzabile in modo essenziale e globale. Immaginazione: la fantasia, l’invenzione e la creatività pensano, l’immaginazione vede». Eccoci qui: un aspetto macroscopico della Fotografia del valente Massimo Sestini -punta di diamante del fotogiornalismo italiano-, un aspetto macroscopico che ne sta stabilendo una fantastica cifra stilistica, si riconduce alle sue visioni zenitali dall’alto, realizzate soprattutto -ma non soltantodalle altezze raggiungibili con l’elicottero. Probabilmente, oltre tanti altri precedenti, è il caso di datare questa fotografia dai solenni funerali di papa Wojtyła (Giovanni Paolo II), dell’aprile 2005 [con nostra relazione sul numero di FOTOgraphia, del maggio immediatamente successivo]. Eccoci qui: attento fotografo, nella sua cronaca, Massimo Sestini applica con straordinaria abilità
Calendario 2016 della Polizia di Stato, con fotografie di Massimo Sestini: tavola di dicembre. Intervento dei Nocs (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza), al Castello di Gargonza, a Monte San Savino, in provincia di Arezzo.
Calendario 2016 della Polizia di Stato, con fotografie di Massimo Sestini: tavola di giugno. Intervento di Polizia presso il Nuraghe Losa, nelle campagne del comune sardo di Abbasanta, in provincia di Oristano. Uno dei piĂš importanti e meglio conservati monumenti nuragici della regione.
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Ancora e in conferma, dietro le quinte delle situazioni durante le quali Massimo Sestini ha fotografato da elicotteri della Polizia di Stato per realizzare le dodici tavole del Calendario 2016.
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la consecuzione Fantasia-Invenzione-Creatività, accostandovi una Immaginazione capace di vedere là dove si è soliti soltanto guardare. La cadenza zenitale scandisce oggi tempi e termini di un avvincente e convincente Calendario istituzionale. Dodici tavole zenitali modulano l’attività della Polizia di Stato con una efficacia visiva che ha dello straordinario... nell’ordinario del quotidiano. Certo, la fotografia è un lessico composto da tanti e tanti equilibri. Quindi, questa fotografia di Massimo Sestini non viene meno all’esigenza compositiva primaria, fino a disegnare inquadrature di efficacia visiva (e grafica, anche) fuori dal consueto. Però, attenzione, il racconto non si perde nell’apparenza a tutti visibile, per approfondire nel dettaglio che stabilisce i termini della narrazione fotografica. Nella sua presentazione (d’obbligo), il Capo della Polizia di Stato Alessandro Pansa, è esplicito e diretto. Ovviamente, allinea il gesto fotografico di Massimo Sestini alla sostanza dell’impegno della Polizia: «Riuscire a modificare il proprio punto di vista, nella vita come nel lavoro, costituisce un esercizio prezioso che regala a chi lo compie una visione nuova, sempre istruttiva, e -in qualche caso- persino sorprendente. Anche noi della Polizia di Stato, con questo Calendario 2016, abbiamo voluto modificare il punto di vista». Ovvero, «Massimo Sestini è riuscito a cogliere da una prospettiva zenitale dodici momenti della vita della nostra istituzione. Si tratta di autentiche opere d’arte che ci offrono -come se fossero del tutto nuove- situazioni che siamo abituati a vivere da una prospettiva “terrestre”». Ancora: «Queste immagini ci ricordano, appunto, come sia sufficiente osservare un poco più dall’alto (in questo caso grazie all’impiego dei nostri elicotteri) per afferrarne la bellezza, l’armonia e insieme una complessità che magari fino a quel momento ci erano sempre sfuggite». Il richiamo è inevitabile; l’assist del Capo della Polizia di Stato è offerto su un piatto d’argento. Da e con il professor John Keating (interpretato da Robin Williams, in L’attimo fuggente, di Peter Weir, del 1989): cambiare il proprio punto di vista, per raggiungere prospettive inconsuete, che
Calendario 2016 della Polizia di Stato, con fotografie di Massimo Sestini: tavola di marzo. Intervento di subacquei della Polizia a Portopalo di Capo Passero, in provincia di Siracusa.
Calendario 2016 della Polizia di Stato, con fotografie di Massimo Sestini: tavola di novembre. Intervento della Polizia a Napoli, in una situazione criminale che ha registrato decine di omicidi nell’arco di quarantotto ore.
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A ritroso nel tempo, e fatti salvi richiami rapidi, magari in complemento ad altri argomenti, sulla nostra rivista, la fotografia di Massimo Sestini è stata presentata in tre occasioni: giugno 2015, con lancio dalla copertina, a commento della splendida documentazione della migrazione verso l’Italia; settembre 2008, per una avvincente retrospettiva allestita alla Galleria Grazia Neri, di Milano; Massimo Sestini in FOTOgraphia: luglio 2015, settembre 2008, maggio 2005.
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maggio 2005, a testimonianza delle sue fotografie dei funerali di papa Wojtyła, riprese da un elicottero della Polizia di Stato. Per tanti versi, tutti legittimi e plausibili, possiamo datare lo stilema delle fotografie zenitali di Massimo Sestini -cadenza che scandisce tempi e modi dell’attuale Calendario 2016 della Polizia di Stato- proprio dai solenni funerali di papa Giovanni Paolo II, di dieci anni fa.
dischiudano altre e tante altre porte esistenziali, che introducano verso altre e tante visioni individuali. La consapevolezza e coscienza fotografica di Massimo Sestini sono tante e tali da indurlo verso rappresentazioni di Documento e Memoria che si insinuano nelle nostre percezioni. Non è solo una ricreazione di stampo scolastico (di una volta), ma proprio la capacità di applicare e declinare un linguaggio espressivo efficace e concreto, inviolabil-
mente e ineluttabilmente indirizzato all’osservatore, preso per mano e accompagnato verso la comprensione di fatti e istanti della Vita (in questo caso, della Polizia di Stato al servizio del paese). È la grammatica di Massimo Sestini che fa l’autentica differenza, che scandisce i parametri della Fotografia di Memoria e Documento. La Fotografia che richiede sempre e comunque la Maiuscola. Volontaria, oltre che consapevole. ❖
Realizzata per fotografi che amano la rapidità, l’eccezionale Canon EOS 7D Mark II cattura i momenti più straordinari, quelli che sfuggono a chi non dispone di tanta e tale velocità d’azione. Sia che si tratti di fotografie o filmati video, si può oggi esprimere il proprio lato creativo come mai prima d’ora. Costruita sulle eccellenti prestazioni della celebre e affermata EOS 7D, dotata di doppio processore, e mettendo a frutto le tecnologie presenti nell’ammiraglia professionale EOS-1D X, la rivoluzionaria reflex Canon EOS 7D Mark II è stata creata per affrontare e risolvere il dinamismo delle azioni, con potenza e prestazioni estreme, per fornire ai fotografi più esigenti la libertà di scattare un universo di situazioni in continuo svolgimento. Canon EOS 7D Mark II offre tutte le prestazioni della reflex (temporalmente) precedente e ancora molto di più, grazie al nuovo sistema AF a 65 punti a croce e al doppio processore DIGIC 6. EOS 7D Mark II rappresenta, quindi, un nuovo ed entusiasmante punto di riferimento assoluto per velocità e potenza, scattando a un’incredibile raffica di 10 fotogrammi al secondo (fps), senza alcuna perdita di risoluzione. Ideata per immortalare il momento cruciale, con una qualità eccezionale, la reflex vanta un nuovo sensore APS-C CMOS da 20,2 MP con una gamma ISO
nativa 100-16.000, espandibile fino a 51.200. Insieme a un avanzato sensore di misurazione della luce ad alta risoluzione, da 150.000 pixel RGB + IR, e all’innovativo rivelatore di sfarfallio, EOS 7D Mark II garantisce immagini sempre esposte perfettamente. Completamente adattabile allo stile con cui si scatta, la reflex offre controlli personalizzabili sul corpo macchina e un nuovo mirino, con una copertura di circa il 100%. Infine, con caratteristiche video di livello professionale, tra le quali uscita HDMI diretta e tecnologia Dual Pixel CMOS AF, Canon EOS 7D Mark II aiuta a scoprire nuovi livelli di creatività espressiva. Grazie a tutte queste caratteristiche avanzate, Canon EOS 7D Mark II è la fotocamera ideale per raccontare l’inverno da una nuova e avvincente prospettiva. Si tragga ispirazione dai racconti di alcuni fotografi che con la propria Canon hanno trovato nuove storie da raccontare. Si legga il racconto di un utente Canon che, visitando la Valle Engadina, ha scoperto uno sport invernale avventuroso ed eccitante -lo Skijöring-, in cui gli sciatori sfrecciano sul ghiaccio tra gli zoccoli scalpitanti dei cavalli. E, poi... tante altre Winter Story, all’indirizzo Web Canon.it/comeandsee. Buon inverno, con Canon EOS 7D Mark II.
EOS 7D Mark II: raccontare l’inverno! Da una prospettiva unica con Canon EOS 7D Mark II. Congelare l’azione per raccontare le storie più avventurose.
A PARLARE DI FOTOGRAFIA Con Ferdinando Scianna: tra i fotografi di tutti i tempi -dal fatidico 1939 di originee di ogni geografia ed esperienza, il più acuto osservatore della Fotografia, intesa a tutto tondo e in ogni propria componente lessicale e sociale. Il suo ragionamento sulla Fotografia è sempre perspicace e sottile; soprattutto, è sempre originale e stimolante, tanto da definire e delineare una personalità di eccellenza assoluta e irrinunciabile. Soltanto parole
in conversazione con Maurizio Rebuzzini
S
enza ombra di dubbio, senza alcuna ombra di dubbio, Ferdinando Scianna è uno dei fotografi-autori fondamentali del secondo Novecento. Altrettanto, senza ombra di dubbio, senza alcuna ombra di dubbio, la sua Fotografia di Documentazione e Memoria, con maiuscole volontarie, oltre che consapevoli, ha rischiarato la nostra epoca, arricchendola di visioni dirette e trasversali di straordinario conforto. Certo, ha mille e mille ragioni, quando lui stesso rileva e afferma che la fotografia non ha modo, né tempo, né mezzi, per influire positivamente sui grandi equilibri socio-politici della Vita: ma, in proseguo di pensiero, ha altrettante mille e mille ragioni, quando completa... osservando che la brutta fotografia impoverisce la nostra stessa esistenza. Ancora, e in rumoroso complemento, tra i fotografi di tutti i tempi -dal fatidico 1939 di origine- e di ogni geografia ed esperienza, Ferdinando Scianna è il più acuto osservatore della Fotografia, intesa a tutto tondo e in ogni propria componente lessicale e sociale. Per quanto misurati nelle attribuzioni, fino alla pura e schietta avarizia, l’assoluto che gli assegniamo è sentito, necessario, dovuto, obbligatorio, oltre che doveroso: il ragionamento di Ferdinando Scianna sulla Fotografia è sempre perspicace e sottile; soprattutto, è sempre originale e stimolante, tanto da definire e delineare una personalità di eccellenza assoluta e irrinunciabile. Incontrare Ferdinando Scianna, in occasioni pubbliche, piuttosto che in (privilegiate) circostanze private, è un’esperienza più che edificante: ammesso, e non concesso (?) che la Fotografia sia territorio meritevole di riflessione (da e con Phil Stern, in FOTOgraphia, dell’ottobre 2009: «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è poi così importante»), le considerazioni espresse da Ferdinando Scianna non sono soltanto intelligenti, come pure sono, ma sono addirittura esemplari e ammirevoli. Tanto che, in ossequio a una intenzione giornalistica e redazionale che caratterizza questa nostra rivista, per mille e mille versi estranea all’intenzione comune e consolidata dell’editoria di settore, qui e oggi, non riportiamo alcuna fotografia di Ferdinando Scianna, dando per scontato che debbano essere note e conosciute dal pubblico al quale ci rivolgiamo. Se così non è... poco male. Non abbiamo altro da aggiungere, né mostrare: siamo soltanto responsabili di ciò che affermiamo, non di quanto viene compreso. L’idea di limitarci a parole, con un solo accompagnamento fotografico, ripreso indietro e indietro nei decenni (stiamo per riferirne), è sorta spontanea durante un incontro, lo scorso dieci novembre, che abbiamo richiesto e sollecitato per confrontare tra noi alcune considerazioni fotografiche maturate in tempi recenti. Come dall’anticipazione riportata sul nostro numero del precedente novembre, abbiamo concordato di affrontare una ipotesi lanciata e motivata in ambito di fotografia d’arte, di fotografia veicolata attraverso canali mercantili, estranei ed esterni al suo percorso lineare di Documentazione e Memoria, che per noi (Ferdinando Scianna e noi, in comunione di vedute e considerazioni) è missione originaria della stessa Fotografia. Interpellato al proposito, un affermato autore italiano -presente e attivo sul mercato internazionale della fotografia da galleriaha rilevato come e quanto la sua azione sia scomponibile in tre quantificazioni consequenziali: dieci percento fotografia, quaranta percento stampa, cinquanta percento cornice. Dato l’indirizzo esplicito e dichiarato, nulla da eccepire, non soltanto poco da
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eccepire. Data l’ampiezza di intenti entro la quale si manifesta la fotografia contemporanea, questa scomposizione calza anche a pennello... quando e per quanto si ipotizza, come si sta supponendo e ammettendo, un presente assoluto, che rinuncia alla missione di Memoria che definisce e identifica quella che personalmente consideriamo espressione fotografica, ovverosia linguaggio visivo che ha definito il mondo, a partire dal Novecento. Dunque, questa sequenza dieci-quaranta-cinquanta percento non compone i tratti di una visione cinica, quanto i termini di una attualità e modernità, propria e caratteristica di coloro i quali producono per il mercato, non per la comunicazione. Che poi, questo indirizzo primario lasci anche scappare brandelli di diffusione fotografica coerente ad altri princìpi -ai quali crediamo e ai quali attribuiamo senso e valore-, è tutto un altro discorso. Invece, quello che questo effettivamente significa è che nella propria inevitabile evoluzione (attenzione, come spesso annotiamo, e qui ripetiamo, una volta ancora, una di più, mai una di troppo: la storia va avanti, con o senza di noi), la fotografia trasforma e differenzia i propri significati. Del resto, a ben guardare, è stato così per ogni altra forma espressiva: basti pensare all’incisione artistica, all’acquaforte, che è trasmigrata dalla documentazione a forma espressiva autonoma e mercantile. Ovviamente, nel confronto con Ferdinando Scianna, rimanendo in campo “statistico” (se così ci concediamo di ipotizzare), le considerazioni di scomposizione della Fotografia nella quale noi crediamo (lui e noi, in comunione di intenti) sono percentualmente assai diverse. Per entrambi, la Fotografia di Documentazione e Memoria è novanta percento tale... fotografia. E, poi, ognuno di noi, in cuor proprio, valuti come e dove attribuire il restante dieci percento: alla Vita? alla riflessione? all’esperienza? alle intenzioni? Con tutto, e considerata risolta la sollecitazione originaria (?), rimane e si impone la nostra opinione espressa in apertura, il nostro giudizio lapidario, quanto motivato e convinto. Ripetiamolo: oltre le proprie indiscutibili e mirabili capacità e qualità di fotografo-autore, che lo collocano tra le personalità fondamentali del secondo Novecento, senza ombra di dubbio, senza alcuna ombra di dubbio, «Tra i fotografi di tutti i tempi -dal fatidico 1939 di origine- e di ogni geografia ed esperienza, Ferdinando Scianna è il più acuto osservatore della Fotografia, intesa a tutto tondo e in ogni propria componente lessicale e sociale. Il ragionamento di Ferdinando Scianna sulla Fotografia è sempre perspicace e sottile; soprattutto, è sempre originale e stimolante, tanto da definire e delineare una personalità di eccellenza assoluta e irrinunciabile». Ovviamente, non è/sarebbe richiesto che i fotografi vadano oltre le proprie competenze specifiche e i propri svolgimenti istituzionali e statutari... forse... probabilmente. In effetti, come si è soliti pensare e considerare, ai fotografi chiediamo immagini, così come al prestinaio... chiediamo pane. Però, come rivela lo stesso Ferdinando Scianna, là dove è opportuno e necessario farlo (a commento di Obiettivo ambiguo, in riedizione Contrasto Books, del 2015, che stiamo per incontrare): «Faccio fotografie da quarant’anni. Non si esercita un mestiere vissuto come passione senza riflettere sul senso di quello che si fa, senza confrontarsi con se stessi e con i propri maestri, senza vivere ed esprimere i propri entusiasmi e le proprie idiosincrasie. Così, da quasi altrettanti anni, scrivo, anche, di fotografia e sulla fotografia, sui fotografi soprattutto. Quasi sempre questi articoli sono stati occasione per chiarire a me stesso come cambiavano o si confermavano le mie opinioni, per definire il giudizio sul lavoro degli altri, per cercare di capire il mio».
Da cui, oltre le monografie fotografiche d’autore -e quest’anno sono stati cinquant’anni dall’edizione del suo primo titolo, Feste religiose in Sicilia, con testi di Leonardo Sciascia, pubblicato da Leonardo da Vinci Editrice, di Bari, nel 1965-, da tempo Ferdinando Scianna accentra il proprio pensiero fotografico in avvincenti raccolte di testi. In un certo senso (magari solo il nostro, solo nostro), si può considerare antesignano l’ottimo Etica e fotogiornalismo, pubblicato da Mondadori Electa, nel 2010: «L’irruzione della fotografia nel panorama culturale della nostra vita è relativamente recente: meno di due secoli. Il fotogiornalismo è arrivato immediatamente dopo, e subito ha posto problemi etici, specificamente legati alle inedite e spesso sconvolgenti novità tecnico-culturali poste dalla fotografia. Molti pensano che oggi ci sia una particolare urgenza di affrontare i problemi etici nel fotogiornalismo. A me non pare. L’etica è etica. Non credo che esista un’etica specifica del giornalismo, con una conseguente sottoetica del fotogiornalismo. La fotografia mostra, non dimostra; ci fa vedere il morto, raramente la causa della morte. E quanto all’assassino, quello ce lo mettiamo quasi sempre noi». Nel 2003, con Peliti Associati, di Roma, è uscito Quelli di Bagheria (città natale di Ferdinando Scianna), presentato come «Un album personale di fotografie e parole. I ricordi della sua terra, Bagheria, dove ha vissuto gli anni della prima giovinezza. Immagini scattate da Ferdinando Scianna prima che scoprisse la “vocazione” per la fotografia e poi rimaste per molti anni chiuse in un cassetto. Le immagini sono accompagnate da annotazioni, come in un diario della memoria». Quindi, immediatamente a seguire, Contrasto Books -l’attenta e straordinaria casa editrice di riferimento della celeberrima agenzia di fotogiornalismo, la casa editrice che più e meglio di ogni altra rivolge le proprie attenzioni alla fotografia, sia con qualificate monografie illustrate, sia con saggi di profilo elevato- ha pubblicato in rapida successione tre raccolte di testi di Ferdinando Scianna, che nel proprio insieme e complesso sono letture indispensabili per coloro i quali si occupano di Fotografia, oltre la sterile gratificazione delle proprie immagini e dei propri pensieri al proposito. (Attenzione: oltre quanto stiamo per presentare, e dal quale stiamo per estrapolare, la stessa casa editrice Contrasto Books ha in catalogo anche monografie illustrate di Ferdinando Scianna: Altre forme del caos, del 2001; Baaria Bagheria, con il regista Giuseppe Tornatore, del 2009; Ferdinando Scianna, nella collana FotoNote, del 2008; La geometria e la passione, del 2009; Piccoli mondi, riedizione del precedente Mondo Bambino, del 2012). La convincente ed avvincente trilogia Ti mangio con gli occhi, del 2013, Visti&Scritti, del 2014, e Obiettivo ambiguo, del 2015, fa corsa a sé, nel momento in cui le singole raccolte di testi e riflessioni edificano una consistente e appassionante impalcatura di parole di spessore sulla e per la fotografia, qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Seguendo un ordine nostro, indipendente dalle date di pubblicazione, come anche dai riferimenti temporali delle considerazioni di Ferdinando Scianna, riprendiamo passaggi che -secondo noisono rappresentativi della profondità e utilità dei testi: in una ipotesi secondo la quale la parte è indicativa e significativa del tutto... quantomeno, per coloro i quali frequentano consapevolmente il contorno della fotografia. (Altra attenzione: sia chiarito subito, non soltanto presto, anche la straordinaria capacità di scrittura di Ferdinando Scianna, la cui profonda cultura e la cui frequentazione di personaggi di spicco della letteratura del secondo Novecento non sono certo maturate, né si sono rivelate, per caso).
Da Visti&Scritti estrapoliamo il commento a tre ritratti simili tra loro, quanto personali nella propria indiscutibile unicità, realizzati da Ferdinando Scianna nel 1960, a diciassette anni (ma ancora prima, come stiamo per incontrare), in sostanzioso anticipo sulla Fotografia che, successivamente e per mezzo secolo (a tutt’oggi), ne avrebbe definito l’altezza d’autore. Ovviamente, uno dei tre ritratti è quello che accompagna -in immagine unica, ma non solitaria- queste attuali note, con lancio dalla copertina della rivista. In anticipo, però, è doveroso richiamare quanto in copertina della raccolta risolve il senso della consecuzione di parole sulle immagini: «Ogni tanto, nel chiedere a qualcuno di lasciarsi fotografare, gli si dice: Vieni che ti immortalo. Ti immortalo! Tanto arrogante a volte si fa il linguaggio, per esorcizzare l’angoscia della nostra impermanenza. Eppure, c’è in questa iperbole un residuo di quel mito faustiano che gli uomini, da quando hanno cominciato ad avere coscienza di sé, e quindi del tempo, insensatamente perseguono. Fermare il tempo, non fosse che per un istante». Da cui e con cui. Tre compagni d’oratorio; Bagheria, 1960. 1960 è l’anno cui queste fotografie sono riferite nel mio archivio, ma la data vera è intorno al 1957-58. Forse prima. Avevo quindici anni al massimo. I negativi, quando li ho ritrovati, erano dentro una cassetta di legno senza alcuna protezione né indicazione. Ma le fotografie, lo ricordo, le feci perché ci servivano delle fototessere per la nostra squadra di calcio. Farsi fare le foto costava caro. Io ero l’unico ad avere la macchina fotografica. Una Voigtländer Vito C, che mio padre mi aveva portato come regalo dal solo viaggio “in continente” fatto con mia madre, a risarcimento, forse, di quel viaggio di nozze che, sposati in piena guerra, non avevano mai fatto. Di avermi regalato quella macchinetta, che non era tanto male a giudicare dalla qualità dei negativi, non si pentì mai abbastanza. Il tarlo della fotografia, la fuga a cavallo della fotografia, lui pensava, mi erano venuti da quel regalo fatale. Questi ritratti mi sono ritornati dal passato come un colpo al cuore. Quel colpo al cuore che solo sanno darti, possono darti, le fotografie del tuo album di famiglia. Finire in un album di famiglia, adesso lo so, è l’ambizione più grande per una fotografia. Vedendo queste foto in apertura del mio libro, Quelli di Bagheria, molti mi hanno chiesto se uno di quei ragazzi fossi io. All’inizio, la domanda mi ha sorpreso, poi ho capito che era una sorta di riconoscimento. È così: uno di quei ragazzi, forse quello che è morto giovanissimo, forse tutti quanti, sono io. Sono io nella assoluta trasparenza del mio sguardo di allora, di fotografo che non sognava nemmeno che più tardi avrebbe fatto il fotografo. Anche io guardo questi volti come se mi vedessi in uno specchio. Quanto mi piacerebbe potere ancora fare una fotografia, un ritratto, con la stessa diretta spontaneità, con la folgorante necessità di una forma necessaria perché non si cerca, si ignora. Proseguendo, Obiettivo ambiguo, riedizione aggiornata del 2015 di una raccolta di quattordici anni prima (pubblicata da Rizzoli), è suddiviso in due tematiche: parte con Piccole polemiche sui massimi sistemi, che comprende ventisei testi di visioni a tutto tondo, e si completa con sessanta presentazioni di La fotografia e i fotografi. Consapevoli della diversità di visione, ma analoga onestà di intenti e intenzioni, osiamo accostare queste escursioni agli Sguardi su, con i quali il situazionista (dichiarato e palese) Pino Bertelli solitamente conclude la fogliazione di questa rivista. Fatti salvi tanti distinguo, in entrambi i
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casi, si tratta di rilevazioni lucide e fuori dal coro di realtà fotografiche troppo spesso affrontate (altrove e da altri) con la superficialità dell’accettazione passiva di canoni prestabiliti. A completa differenza, e a assoluto onor suo, Ferdinando Scianna non si lascia condizionare da connivenze e convenienze del momento o di comodo. Accompagnata con irriducibile onestà intellettuale, la sua osservazione è sempre e comunque concentrata. In breve, sa benissimo di cosa parla, e soprattutto sa perché e come farlo. Per mille e mille motivi, probabilmente tutti legittimi, forse, abbiamo nulla da aggiungere ai testi che compongono l’ossatura di Ti mangio con gli occhi : francamente, le nostre attitudini verso il cibo, in qualsivoglia sua manifestazione, non vanno oltre l’alimentazione necessaria e sufficiente. Con questo, però, non disconosciamo a nessuno il diritto/dovere di pensarla altrimenti. In effetti, a partire da fotografie “di cibo”, in una accezione ampia e articolata, le riflessioni di Ferdinando Scianna al proposito sono altrettanto concrete e convincenti di quelle che richiamano prontamente altri orizzonti fotografici, magari di più immediata condivisione di queste. Ma! Ma, la presentazione è esplicita e chiara e diretta, anche in questo caso: «Mi sono detto, questo non è un libro sulla cucina, e ancora meno un libro di cucina. Non ci sono ricette. E magari è uno dei suoi più gravi difetti. È un libro sul magiare e sul ruolo fondamentale che il cibo ha avuto e ha nella mia memoria e nelle mie esperienze di vita. Come, credo, nella vita di tutti noi». Questo è... punto. Per quanto di riguarda, onore e merito alle opinioni altrui, alle diversità che vanno accettate, comprese e assecondate. Niente di più, né diverso. Quindi, in conclusione di percorso, la presentazione della raccolta, dalla copertina di Obiettivo ambiguo, che abbiamo già avuto modo di presentare, in questo nostro attuale percorso: «Faccio fotografie da quarant’anni. Non si esercita un mestiere vissuto come passione senza riflettere sul senso di quello che si fa, senza confrontarsi con se stessi e con i propri maestri, senza vivere ed esprimere i propri entusiasmi e le proprie idiosincrasie. Così, da quasi altrettanti anni, scrivo, anche, di fotografia e sulla fotografia, sui fotografi soprattutto. Quasi sempre questi articoli sono stati occasione per chiarire a me stesso come cambiavano o si confermavano le mie opinioni, per definire il giudizio sul lavoro degli altri, per cercare di capire il mio. Tutto, diceva Savinio, prima o poi finisce in un libro. Spero che questo incontri qualcuno che non lo consideri inutile». Riproponiamo il testo con il quale Ferdinando Scianna commentò (per noi, nell’aprile 1995), l’antologica di Gianfranco Moroldo, alla Galleria Il Diaframma - Kodak Cultura, di Milano. Alberto Savinio pensava che le coincidenze sono i soli accadimenti che possano far sospettare che la vita abbia un senso. Come sorprendersi, dunque, se il giorno in cui mi metto a scrivere questa nota su Gianfranco Moroldo per la sua mostra al Diaframma coincide con il giorno in cui chiude L’Europeo? Per me, aveva chiuso da un pezzo. Per la mia memoria, il nome di quel giornale, dove sono stato diciassette anni, fino al 1983 (ma negli ultimi cinque, almeno, inutilmente, stupidamente), si sovrappone ad altri tempi e altri nomi; nomi di persone magnifiche, che erano anche magnifici giornalisti, con i quali ho avuto il privilegio di condividere un’esperienza irripetibile e di imparare il mestiere: Tommaso Giglio, il direttore mitico, Franco Pierini, Roberto Leydi, Aldo Santini, Alberto Ongaro, Lina Coletti, Guido Gerosa, Gianfranco Vené, Enzo Magri, Gian Maria Dossena... (Basta, maledizione! Cominciano a esserci troppi morti tra i miei ricordi!).
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E tra questi nomi, queste persone, un posto a parte ce l’ha Gianfranco Moroldo. Quando, fresco arrivato dalla Sicilia, cominciai a collaborare con L’Europeo avevo ventitré anni. L’anno successivo, il 1967, entrai nello staff. Moroldo c’era già da dieci anni ed era una leggenda nel mondo del fotogiornalismo italiano. Eppure, fin da subito, mi fu vicino, affettuosamente e senza nemmeno quella condiscendenza che la mia plateale inesperienza avrebbe giustificato. Mai nemmeno l’ombra di invidia, né di prosopopea. Se vedeva una mia foto appena decente, me la strappava di mano per andare a vantarla presso il direttore. Era il primo a spingere perché mi si affidassero storie importanti. Insomma, non soltanto un grande maestro nel mestiere, ma persona di una eleganza morale veramente straordinaria. E uomo bellissimo, poi, gran seduttore, sempre pronto alla battuta; compagno incomparabile. Semmai ero io a invidiarne la leggerezza, la capacità di essere in qualunque situazione come un pesce nell’acqua e di mettere a proprio agio la gente con cui aveva a che fare, che si trovasse in un bar di periferia come nel salotto di una principessa. E che fotogiornalista! Avevo già visto molti suoi servizi, naturalmente, ma ricordo ancora l’impatto -appena entrato, si può dire- con quella sua immagine strepitosa del mucchio di cavalli bruciati con il lanciafiamme del servizio sull’alluvione di Firenze. Erano appena arrivate le stampe dal laboratorio poche, non è mai stato pletorico Gianfranco-, e lui le sfogliava veloce: aspettava quella. Quando arrivò, la guardò soddisfatto. Mi raccontò che i cavalli li aveva visti la mattina, ma aveva aspettato fino a sera per tornare sul posto a fare la foto. Ci voleva quella luce, mi disse. Poi, la sera, aveva trovato quelli con il lanciafiamme. Un miracolo, ma un miracolo capito, cercato, trovato. E fu la mia lezione numero uno per una delle grandi immagini del fotogiornalismo italiano del dopoguerra. E quante altre ce ne ha date Moroldo! L’economia, il senso dell’immagine riassuntiva, simbolica, la chiarezza narrativa, il disprezzo per i fronzoli estetici. E l’attenzione costante, la curiosità. Raramente abbiamo lavorato insieme sullo stesso servizio, come è ovvio. Ma mi ricordo un episodio dei miei inizi di fotoreporter. Eravamo stati mandati tutti e due al festival di Sanremo, con Lietta Tornabuoni, se non ricordo male. Il festival era finito, uscivamo. Non so che cantante, atteso fuori dai suoi fan, fu lanciato ripetutamente per aria. Moroldo recuperò in un lampo la macchina e cominciò a scattare. Furibondo per avere finito subito la pellicola si accorse che io ero lì, imbambolato a guardare lui, e cominciò a insultarmi: che cosa guardi, cretino?, fai le foto, il servizio non è mai finito finché non sei rientrato al giornale! Quante volte mi sono tornate in mente queste parole, soprattutto quando la stanchezza spingeva a far finta che fosse finita, a smettere di guardare. Ancora in doverosa e richiesta e dovuta ripetizione (nostra): non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma a volte le incontriamo. In definitiva, come annotiamo altrove e altrimenti, su questo stesso numero, per altri richiami e riferimenti (ma la Fotografia sia intesa come un continuum, senza alcuna soluzione di manifestazione), così come le fotografie che -giorno per giornoincontriamo nel giardino per il quale ognuno di noi si è incamminato nella propria osservazione del suo linguaggio sono fiori da cogliere, anche le parole che sentiamo possono arricchirci più e meglio di quanto (non) possano farlo i denari. Grazie a te, Ferdinando. ❖
27 gennaio 2016 gioRnaTa DeLLa MeMoRia
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La sToRia non può insegnaRci nuLLa, se scegLiaMo Di DiMenTicaRLa anne peRRy
Ogni anno, il ventisette gennaio, in ricorrenza della liberazione del Campo di Auschwitz, in Polonia, si commemorano le vittime dell’Olocausto. La data e la ricorrenza sono state designate dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, del Primo novembre 2005, durante la Quarantaduesima riunione plenaria. La risoluzione è stata preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005, durante la quale la stessa Assemblea Generale ha celebrato il sessantesimo anniversario della liberazione dei Campi di concentramento nazisti e la fine dell’Olocausto... forse
iL 27 gennaio 1945, fuRono abbaTTuTi i canceLLi Di auschwiTz. L’aRMaTa Rossa enTRò neL pRiMo Dei caMpi LibeRaTi
Per essere identificati in base alla propria “colpa”, i prigionieri dei Campi dovevano portare cuciti sugli abiti triangoli colorati. Talvolta, i colori usati differivano da Campo a Campo, ma i più comunemente usati erano EBREI (da 5,6 a 6,1 milioni di sterminati) due triangoli sovrapposti a formare la stella di David, con la dizione Jude DISSIDENTI POLITICI (da 1 a 1,5 milioni di sterminati) TESTIMONI DI GEOVA (diecimila nei Campi, 2500 uccisi) IMMIGRATI NOMADI (Rom e Sinti: da 200 a 800mila sterminati)
OMOSESSUALI MASCHI (da 10 a 250mila sterminati) Ai quali si aggiungono: CIVILI SLAVI (da 3,5 a 6 milioni di sterminati) PRIGIONIERI DI GUERRA (da 2,5 a 4 milioni di sterminati) HANDICAPPATI (da 200 a 300mila sterminati) Non è stato possibile determinare il numero esatto delle vittime dell’Olocausto, che si stima siano dai 13 ai 19 milioni
GIOVANNI MEREGHETTI (AUSCHWITZ, POLONIA)
ASOCIALI E LESBICHE
Con onestà (intellettuale) di Maurizio Rebuzzini
ATTRAVERSO PAROLE
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Destinatario sconosciuto, intenso e appassionante e coinvolgente romanzo epistolare di Katherine Kressmann Taylor; traduzione di Ada Arduini; Bur - Biblioteca Universale Rizzoli, dal 2000; 80 pagine 13x19,7cm; 6,00 euro.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
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Non vorrei essere frainteso: né in assoluto, per ciò che esprimo; né -tantomeno- qui e ora, in introduzione a una serie di interventi a tema, che si allineano alla celebrazione della Giornata della Memoria 2016 (ventisette gennaio), in ricordo perenne e perpetuo di ciò che questo significa: in una successione, va sottolineato, a partire da considerazioni pretestuosamente fotografiche, che non si concludono con la stessa fotografia, ma da questa prendono soltanto avvio. In ripetizione, una volta ancora, una di più, mai una di troppo: che la Fotografia sia sempre e comunque fantastico s-punto di partenza, mai e poi mai arido punto di arrivo. Richiamando l’Olocausto -che ha indelebilmente macchiato il Novecento, infangando altresì una nazione di radicata libertà intellettuale-, non ci limitiamo all’apparenza a ognuno evidente (e spesso sottolineata, con colpevoli dimenticanze) della persecuzione del popolo ebraico, ma abbracciamo tutte le persecuzioni, individuate con cinica determinazione. Anche se, per mille e mille motivi (non tutti legittimi), si tende sempre e solo richiamare la Shoah degli ebrei, la nostra memoria abbraccia tutte le vittime di tanta e tale follia, unite tra loro dall’insolubile legame della propria autorevole innocenza: dissidenti politici, disabili, autistici, rom, omosessuali/lesbiche, Testimoni di Geova e altre fedi, “asociali”... e tanto altro ancora. In anticipo su questo, ed è qui che non vorrei essere frainteso, mi sento di affermare che -pur nella propria tragicità, infamia, disonore, vergogna, indecenza e ignominia- l’Olocausto è da attribuire a un istante di spregevole follia... individuale. In precedenza, l’Umanità si era già macchiata le mani con stragi di popoli: non andiamo tanto indietro nei secoli, fino allo sterminio delle popolazioni del centro America, soprattutto perpetuato per fini bassamente utilitaristici (a partire dalla razzia di oro). Invece, ci attestiamo sulla strage dei nativi americani: sistematicamente condotta con regia governativa, da una nazione alla ricerca di territori e spazi esistenziali. Non voglio essere frainteso, e non mi-
nimizzo l’Olocausto, ma punto il dito anche verso quel governo che ha stabilito a tavolino e con lucida consapevolezza l’eliminazione di un popolo. Ciò precisato, ciò detto, cosa ci rimane nel cuore, là dove la fine del Novecento ha poi ripetuto orrori che speravamo di esserci lasciati alle spalle, all’indomani della Seconda guerra mondiale? Soprattutto, il senso della Storia e la vigilanza che ognuno di noi deve esercitare sulla follia e verso l’umiliazione delle genti. Cosa ci deve guidare oggi, alla luce di quanto abbiamo potuto imparare? Niente di più dell’accoglienza del diverso, della comprensione delle diversità, della valorizzazione di quell’unicità che ciascuno di noi si porta appresso per comporre tessere di un fantastico mosaico globale. Anche se i nostri tormentati giorni ci fanno sentire parole e opinioni aberranti, che posticipano il senso della Vita, riducendola a pretestuosa problematica di ordine pubblico, dobbiamo essere sempre convinti che l’incontro dei popoli, la migrazione delle genti e ogni altra manifestazione esistenziale compongono gli straordinari tratti di uno scambio necessario alla crescita individuale, che poi si proietta in crescita collettiva. Ancora: è proprio l’accoglienza e comprensione del diverso da noi, in qualsiasi modo e misura si manifesti questa (presunta) “diversità”, l’elemento cardine di
qualsivoglia crescita sociale. Dunque, circolazione di idee, arricchimento di pensiero, evoluzione dell’intelletto. Ma qui siamo andati oltre, al di là del confine che identifica le considerazioni specifiche sull’Olocausto. Per cui, rientriamo... incontrando due titoli letterari. Infatti, siamo perfettamente convinti che i romanzi aiutano a vivere. Da e con Francesco Alberoni (sul Corriere della Sera, del 10 novembre 2008): nonostante una certa attualità sociale dei nostri giorni tenda a indirizzarci verso la saggistica e il giornalismo, che trattano argomenti che consideriamo seri e impegnativi, dalla storia alla politica, all’economia e alla scienza, non è da queste letture che impariamo cose importanti, pratiche e utili. Invece, con la sua forza di flusso di accadimenti (anche) fantasiosi, la narrativa aiuta a comprendere la realtà e il comportamento degli esseri umani. In rafforzo. Senza negare importanza alla saggistica, penso che la narrativa offra quanto la saggistica non potrà mai dare: lo scorrere reale della vita umana, il significato delle azioni, i pensieri nascosti, i mille motivi contraddittori che stanno dietro le nostre decisioni. La narrativa (e con lei certa fotografia che registra la vita nel proprio svolgersi) ci fa partecipare al mondo interiore di uomini e donne che sperano, sognano, amano, soffrono, lottano, vincono, sono felici e hanno paura. Un mondo che non è lineare, dove si mescolano passato, presente e futuro, tenerezza e passione, dubbi e certezze, odio e compassione, violenza e pentimento. In questo modo, acquisiamo conoscenze pratiche e intuitive. In questo senso («partecipare al mondo interiore di uomini e donne»), allontanandoci ancora per un attimo dal soggetto esplicito di questa nota, ma neppure poi tanto, è doverosa la segnalazione della trilogia con la quale Ken Follett ha raccontato il Novecento, per l’appunto attraverso storie di uomini e donne, famiglie che si incrociano, destini che si influenzano l’un l’altro: La caduta dei giganti (2010), L’inverno del mondo (2012) e I giorni dell’eternità (2014) scandiscono, rispettivamente, i
Con onestà (intellettuale) tempi della Prima guerra mondiale, le condizioni che hanno portato alla Seconda, con relative devastazioni planetarie, e la ricostruzione della seconda metà del Secolo. Storie di coraggio e lealtà, codardia e perfidia... insomma la Vita. (Tra parentesi, al pari di I pilastri della Terra -storia di medioevo dello stesso autore-, si tratta di vicende nelle quali spiccano straordinarie personalità femminili di forza e eroismo). Quindi, dal punto di vista narrativo, rientriamo nel tema-soggetto, riprendendo una segnalazione già riportata, lo scorso settembre, a margine della vicenda di Ernst Leitz II, che ha salvato centinaia di ebrei dalla persecuzione (e ripetiamo ancora oggi, da pagina 58). Dalla narrativa, segnalo l’inquietante Destinatario sconosciuto, di Katherine Kressmann Taylor, disponibile in edizione italiana Bur: stupefacente anticipazione degli orrori dell’Olocausto. La vicenda è presto riassunta: carteggio tra Max Eisenstein e Martin Schulse, soci in una galleria d’arte di San Francisco. Martin ha lasciato gli Stati Uniti, per tornare a Monaco; l’ebreo Max è rimasto a San Francisco, e sovrintende agli affari comuni. La prima lettera di Max è datata 12 novembre 1932, ed esprime felicità per la decisione dell’amico Martin, tornato in una terra «dalla cultura profonda che sta vivendo gli inizi di una straordinaria libertà politica». Martin risponde rivelando il fermento che anima la Germania. Poi, lo stesso Martin tranquillizza Max riguardo l’avvento del nazismo, precisandogli che le notizie che arrivano all’estero non rispecchiano la realtà di una politica a favore della nazione. Quindi, piano piano, trapela la sua adesione al regime. A questo punto, Martin chiede a Max di non scrivergli più, perché le lettere di un ebreo possono creargli fastidi. Addirittura, Martin non accoglie l’invito di Max di aiutare sua sorella attrice, residente in Germania, e gli confessa di non averla salvata dalla Gestapo, quando la ragazza aveva chiesto ospitalità in casa sua. Max continua imperterrito a scrivere a Martin, inviandogli comunicazioni sibilline riguardo invii di “pennelli” utili alla “Lega dei Giovani” e altre questioni facilmente fraintendibili, che possono essere altrimenti interpretate dalla censura che controlla la posta. Alla fine, una sua busta con annullo del 3 marzo
L’amico ritrovato, di Fred Uhlman; traduzione di Mariagiulia Castagnone, introduzione di Arthur Koestler; Universale Economica Feltrinelli, dal 1986; 96 pagine 12,5x19,5cm; 5,50 euro [nel 1989, è stato sceneggiato un film, con titolo italiano identico, diretto da Jerry Schatzberg].
1934 gli ritorna con l’indicazione di... Destinatario sconosciuto. Appunto! Attenzione: questo breve romanzo fu pubblicato sul numero di settembre-ottobre 1938 della rivista Story. Dunque, in sostanzioso anticipo su quanto avremmo scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale. Al pari dell’azione di Ernst Leitz II, fu lungimirante: mise in guardia, in anticipo sui tempi, contro l’orrore del nazismo. Sullo stesso tema, con contorno di tormenti individuali, un altro romanzo emozionante è L’amico ritrovato, di Fred Uhlman (in edizione italiana Feltrinelli), sceneggiato anche per il cinema, nel 1989: titolo italiano identico, con la regia di Jerry Schatzberg. Nella Germania del 1933, all’alba della salita al potere di Hitler, due giovani sono compagni di classe al Karl Alexander Gymnasium, di Stoccarda: uno è di religione ebraica, l’altro di famiglia nobile. Si frequentano, condividendo letture, passioni, sogni e speranze. Forzatamente, la Storia li separa: Hans Strauss viene mandato dai genitori negli Stati Uniti (dove diventa Henry Strauss), e si salva dalle persecuzioni; il conte Konradin von Hohenfels segue il destino familiare prestabilito, aderendo al nazismo. Venticinque anni dopo la fine della guerra, Hans/Henry Strauss riceve una richiesta di fondi da parte del liceo nel
quale ha studiato, che gli invia anche un opuscolo con i nomi di tutti gli studenti che si sono avvicendati sui banchi, in una storia pluricentenaria. È perplesso e impaurito. Non sfoglia l’opuscolo, temendo di perdere il ricordo dell’amico di infanzia. Finalmente, si fa coraggio, segue l’elenco alfabetico e, all’ultima parola del testo, ritrova l’amico. Si riconcilia con la loro storia, attraverso il suo (di lui) destino. Punto. Conclusione. Arricchiamoci delle parole che sentiamo, e riserviamo loro un posto nel nostro cuore. Parole, letture e riflessioni che sono buone compagnie per le nostre escursioni nel mondo. Insieme, impariamo ad assaporare parole e linguaggio (anche fotografico, sia chiaro). Da e con il professor John Keating (interpretato da Robin Williams, in L’attimo fuggente, di Peter Weir, del 1989): qualunque altra opinione contraria avete potuto sentire al proposito, parole e idee possono cambiare il mondo, anche solo il nostro personale. Non leggiamo, scriviamo e fotografiamo (e non ci occupiamo di fotografia) perché è bello farlo. Noi leggiamo, scriviamo e fotografiamo perché siamo vivi, membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Attorno a noi si manifestano professioni nobili, concretamente necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia... la bellezza... il romanticismo... l’amore... la fotografia... sono queste le cose che ci tengono in vita. Richiamo Walt Whitman (18191892), poeta statunitense che ha guidato intere generazioni (tanto per quantificare, la mia, tra le altre): «Oh me, oh vita! Domande come queste mi perseguitano, / infiniti cortei di infedeli, città gremite di stolti, / [...] Che v’è di nuovo in tutto questo, oh me, oh vita? / Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste e l’identità, / Che il potente spettacolo continui, e che tu puoi contribuire con un verso». Così come le fotografie che -giorno per giorno- incontriamo nel giardino per il quale ognuno di noi si è incamminato nella propria osservazione del suo linguaggio sono fiori da cogliere, anche le parole che sentiamo possono arricchirci più e meglio di quanto (non) possano farlo i denari. Non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma a volte le incontriamo. ❖
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di Maurizio Rebuzzini
N
eanche a sottolinearlo, ma forse è opportuno rimarcare: per quanto sia appurato e accettato che la Fotografia sia un linguaggio autonomo, che si esprime secondo un lessico anche codificabile (non soltanto, codificabile), è meno accolta un’altra sua componente, che si esprime sia in termini e connotati positivi, come è legittimo che debba essere, sia con lineamenti e fisionomie quantomeno ambivalenti e enigmatiche. Sopra tutto, eccoci qui, la Fotografia è un’espressione visiva che -volente o nolente- mette ordine nel disordine. Ovvero, giusto in quanto linguaggio (con tutti i propri connotati conseguenti), finisce per aggraziare qualsivoglia proprio soggetto in una composizione a dir poco estetizzante: indipendentemente,
o quasi, o forse, dalla natura dell’evento, sia reale sia ricreato. In conseguenza diretta, ogni Fotografia, anche quella del “dolore”, è sostanziosamente aggraziata e accattivante... soprattutto quando e dove e per quanto non ci siano coinvolgimenti personali e intimi. Ci piaccia o meno, così è. Consapevole di questo, convinto di dover spezzare ogni disorientamento visivo, per il suo progetto di documentazione fotografica attuale dei Campi, il bravo Giovanni Mereghetti ha applicato stilemi fotografici che introducono “fastidi” visuali volontari: in definita, consapevole e convinta intenzione di sintonia, estranea a qualsivoglia avvenenza formale. Dunque, approda alla grazia propria e necessaria anche declinando una fotografia adeguatamente “sporcata”: e qui usiamo i termini con un cosciente scarto di significato, da individuare e accettare subito, non soltanto presto.
GIOVANNI MEREGHETTI - BIRKENAU, POLONIA (2)
NEI CAMPI
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Volendolo fare -ma non ne abbiamo alcuna intenzione-, potremmo anche stilare una bibliografia di titoli fotografici che hanno elaborato progetti riferiti ai Campi di prigionia, detenzione e, soprattutto, sterminio allestiti dalla follia nazista alla fine degli anni Trenta, con lo scopo di attuare la definita “soluzione finale”: eliminazione fisica di tutte le “diversità” reputate divergenti dalla purezza ariana (?), attraverso lo sterminio programmato e cinico di ebrei, avversari politici, omosessuali, Rom, disabili, asociali e fedeli di tanti e tanti Credo (e altro ce n’è...). Non lo facciamo, perché dalla totalità (a noi nota), preferiamo estrapolare prospetti che si segnalano per la propria qualità inviolabilmente fotografica (lessico, linguaggio, sintassi, etica, garbo...), imprimendo la propria traccia nel nostro cuore e nella nostra mente. Come è il caso, in stretta attualità di svolgimento, delle fotografie a tema realizzate e confezionate da Giovanni Mereghetti. Eccoci qui 49
A questo punto, non ci occupiamo del soggetto, che ciascuno di noi conosce per quanto consente ogni percettibilità, e sul quale riflette in intimità di intenti. Invece, ci riferiamo alla delicatezza con la quale Giovanni Mereghetti si è espresso al proposito. Infatti, nessuna fotografia è il proprio soggetto... ma “fotografia del soggetto”. Quindi, qui non osserviamo i Campi, ma fotografie di Campi: tra la realtà e la rappresentazione ci sta un autore, con tutto il proprio carico e bagaglio di vita, esperienze, intenzioni, capacità e personalità. Tanti sono i generi nei quali si è soliti identificare la fotografia. Come se, per tranquillità e sicurezza personali, ci fosse bisogno di etichette certe, alle quali riferirsi. Ma, per propria natura ed esigenza espressiva esplicita, la fotografia in sé non avrebbe bisogno di riconoscimenti in contenitori assoluti e inderogabili. La fotografia è come la parola che vola nell’aria, dove è raccolta da chi sa riconoscerne i tratti distintivi, con i quali mettersi in immediata sintonia: empatia, addirittura. Ovvero, comprensione e condivisione dei pensieri e delle emozioni espresse dall’autore, con il quale ci si allinea. Giovanni Mereghetti, che fotografa da qualche decade, svolge progetti in qualche misura riconducibili al fotogiornalismo; per esempio, questo sui Campi è soltanto uno dei capitoli entro i quali sta edificando una commossa rievocazione della Memoria. Però, l’apparenza fotogiornalistica delle sue immagini può mal indirizzare l’osservazione. La sua coerente documentazione fotografica non ha debiti di riconoscenza soltanto con l’identificazione esplicita di definizione semplificata e semplicistica. È qualcosa di più, che appunto appartiene all’anima che traspira dalle fotografie di Giovanni Mereghetti, autore che, giocoforza, è solito presentare la propria opera e produzione identificandola come ci si attende che venga annunciata: confermiamo, fotogiornalismo di passo. Soprattutto qui, soprattutto ora, scandendo tempi e modi di fotografie dei Campi, questo (inevitabile?) riconoscimento, che scarta immediatamente a lato molte altre manifestazioni della fotografia, abbracciandone altrettante, richiede una precisazione, che nel caso delle fotografie di Giovanni Mereghetti è addirittura d’obbligo, cioè inevitabile. Infatti, la sua fotografia è inviolabilmente fedele a princìpi stabiliti da una identificata e consolidata consecuzione di applicazioni della Fotografia. Non generica fotografia dal vivo e del reale, ma appassionato e partecipe coinvolgimento, che prosegue idealmente la fotografia sociale e umanista, che a cavallo del Novecento è fantasticamente esplosa in un mondo -appunto quello fotografico- che, in precedenza, si divincolava sulle proprie presunte appartenenze all’arte espressiva. Tra i tanti meriti, che la Storia non sempre riconosce loro, preferendo occuparsi di teorie piuttosto che di fatti, con il proprio impegno sociale, Jacob A. Riis e Lewis W. Hine, i due fotografi umanisti di riferimento, hanno proiettato la fotografia all’esterno dello sterile dibattito degli addetti, impegnati tra loro a discutere sulla forma. Così facendo, hanno arricchito la visione fotografica di contenuti consistenti. Ecco quindi che la fotografia di Giovanni Mereghetti non dipende tanto dal fotoreportage più consolidato, a propria volta sfaccettato in mille e mille personalità diverse e non sempre complementari, con il quale peraltro condivide alcuni tratti caratteristici apparenti, ma, proprio, dalla fotografia umanista. Certo, non sono più tempi di scoperte sconvolgenti e intuizioni sociali folgoranti e discriminanti. Dunque, oggi la fotografia non ha tempo e modo per essere dirompente, così come lo furono le immagini che rivelarono le terribili condizioni di vita degli immigrati a New York (How the Other Half Lives, di Jacob A. Riis; 1890) e come quelle del lavoro minorile, di Lewis W. Hine, della prima decade del Novecento (che, va detto, contribuirono a modificare le leggi sul lavoro negli Stati Uniti). Oggigiorno, è la fotografia di guerra (mostruosamente, genere fotografico che non tramonta mai) che assorbe tutto il brivido
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visivo del quale dispongono i mezzi di comunicazione. Quando è mal declinata, è questa una fotografia che colpisce come un pugno nello stomaco, sconvolgendo le sensibilità individuali, alle quali propone una indiscriminata sequenza di orrori espliciti. Al contrario, la fotografia umanista, alle cui intenzioni si iscrive Giovanni Mereghetti, è declinata in tutt’altro modo. Non ignora le contraddizioni esistenziali dei nostri giorni, ma non le rivela colpendo l’osservatore a tradimento. Al contrario, Giovanni Mereghetti è tanto e talmente partecipe della propria azione, che lui -prima di tutto- si allinea con il proprio osservatore. Lo prende per mano,
sussurrata (che evita gli strilli che oggi sembrano essere tanto di moda, non soltanto in fotografia). Ogni luogo non è rappresentativo di se stesso (pur essendolo, anche), quanto significativo di un’esistenza complessiva, sulla quale autori come Giovanni Mereghetti sanno attirare l’attenzione. Non lo fanno, e non lo fa, con la tossicità delle luci della ribalta, ma con la delicatezza di quella tenue lampadina che basta per la lettura concentrata di un buon libro. Giovanni Mereghetti è straordinariamente consapevole delle capacità esplicite ed implicite della fotografia. Ha una tale padronanza della mediazione tecnica, inevitabile strumento del linguaggio
GIOVANNI MEREGHETTI - AUSCHWITZ, POLONIA (4)
e l’accompagna lungo un tragitto costellato di osservazioni, riflessioni e annotazioni: mai soluzioni! Queste, non competono alla fotografia o al fotografo, che deve svolgere un altro compito, il suo: quello di far vedere ciò che, distrattamente, avremmo potuto soltanto guardare. E la distinzione non è da poco. Da ciò, questo delicato modo di declinare la fotografia arriva ad esprimere un’anima. È una fotografia d’amore (per la Vita e l’Uomo), è una fotografia di riflessione (che dall’autore si allunga sull’osservatore), è una fotografia di rilevazione (che può sottolineare condizioni esistenziali che esigono raccoglimento individuale), è una fotografia
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GIOVANNI MEREGHETTI - DACHAU, GERMANIA (4)
espressivo, che potrebbe benissimo confezionare immagini di inaudita violenza visiva. Non lo fa, perché sa che ciò che si costruisce soltanto sulla forza è effimero, e presto cede il passo alla violenza immediatamente successiva. Invece, e al contrario, la fotografia d’amore di Giovanni Mereghetti non ha stagioni, non dipende da umori, non si basa su velleità. Agisce istante dopo istante, si solidifica senza sbavature e allunga nel tempo la propria influenza. Certe fotografie sono un pugno nella pancia, abbiamo appena annotato. A volte serve, il più delle volte è un esercizio inutile: lo sanno bene coloro i quali frequentano la fotografia anche dal pro-
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prio interno, non soltanto come osservatori. La fotografia di Giovanni Mereghetti è completamente diversa: agisce sulle emozioni irrazionali e sulle considerazioni razionali applicando un linguaggio visivo incoraggiante. Le sue fotografie raggiungono la mente (rigorosamente coerente e logica), passando direttamente dal cuore (istintivo ed emotivo), oppure -con coincidente percorso inversoarrivano al cuore passando dalla mente. Nella vita odierna, ricca di contraddizioni e povera di emozioni autentiche, c’è tanto bisogno di fotografi come Giovanni Mereghetti. Abbiamo soprattutto bisogno della sua capacità di discernere dal-
l’insieme quell’istante significativo, dal quale ognuno di noi può decollare per pensieri propri, per osservazioni individuali. È il momento decisivo che Henri Cartier-Bresson ha fatto proprio, riprendendo un pensiero del Cardinale di Retz: «Non c’è niente a questo mondo che non abbia un momento decisivo». È il momento decisivo che Henri Cartier-Bresson ha teorizzato in forma fotografica, introducendo l’originaria raccolta di sue immagini: quell’Images à la Sauvette (simultanea edizione statunitense The Decisive Moment, appunto), straordinaria monografia, fondamentale per un certo uso della fotografia, che è poi quella che a Giovanni Mereghetti interessa di più.
Da cosa dipende tanta abilità espressiva, che distinguiamo dalla capacità creativa di altre applicazioni della fotografia? In semplicità, ma non banalità, dall’amore per il prossimo e dal rispetto per la vita propria e altrui: valori che passano trasversali lungo l’intera storia evolutiva del linguaggio fotografico. C’è chi l’ha, e chi ne è privo. Giovanni Mereghetti ne diffonde in abbondanza, tanto da arricchire ciascuno di noi. La consecuzione è presto individuata: il fotografo attento, che si pone al servizio della propria narrazione, non pensa al momento dello scatto, ma riflette prima e dopo. E così facendo, fa riflettere l’osservatore. Il senso della fotografia di Giovanni Mereghetti dipende dall’ampiezza della sua cultura, dall’insieme dei valori esistenziali che lo definiscono e dalla vivacità con la quale li esprime. Nulla è artificiale nelle sue inquadrature, che pulsano di una vita congelata nel tempo fotografico. Scattare fotografie può essere una contraddizione, perché se la macchina fotografica -da un lato- facilita il contatto con il soggetto, dall’altro ne stabilisce anche una certa distanza. Quando la macchina fotografica è tra Giovanni Mereghetti e il soggetto diventa lo strumento per avvicinare e vedere (non soltanto guardare) mondi altrimenti impenetrabili. In questa azione, l’autore esercita la più autentica delle azioni della fotografia, quella che distingue la sua espressione (visiva) da ogni altra (non necessariamente visiva). Giovanni Mereghetti fissa indelebilmente e per sempre l’attimo preciso e transitorio che ha osservato. Percepisce la realtà e, immediatamente, la registra per congelare tempo e spazio in una dimensione che le proietta in avanti «e per sempre». Soprattutto in questo sta la peculiare importanza della fotografia all’interno della vicenda culturale del Ventesimo secolo. Come ha annotato Ferdinando Scianna, fotografo e attento osservatore del suo linguaggio, questa è «La fotografia che privilegia il valore di racconto, di traccia del mondo, di intuizione, di folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita, reali, surreali, che la fotografia, vero linguaggio della modernità, ha introdotto in modo rivoluzionario nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo». Qui, e per questo, si affaccia una responsabilità etica ben chiara a coloro i quali fotografano dal vero, e della quale è sicuramente consapevole Giovanni Mereghetti, la cui etica è al di sopra di ogni sospetto. Nella propria espressività sollecitata e fornita all’osservatore, il problema del fotografo è di vedere chiaramente i limiti e, allo stesso momento, le qualità potenziali del proprio mezzo, perché è precisamente qui che l’onestà della visione, non meno della sua intensità, è un requisito indispensabile per un’espressione corretta. Come appena annotato, ma la ripetizione si impone, questo significa avere rispetto reale per il soggetto che sta di fronte, visivamente espresso in termini di chiaroscuro (poco o nulla hanno in comune il colore e questa fotografia). Come evidenziano le immagini di Giovanni Mereghetti, abile nella gestione della camera oscura / camera chiara, oltre che in quella della ripresa dal vivo, la realizzazione più completa di tutto questo si ottiene senza trucchi di metodo o manipolazioni, attraverso l’applicazione di tecniche fotografiche dirette. Attraverso un lessico ben cadenzato. È nell’organizzazione di questa effettiva oggettività (pur nella soggettività del pensiero dell’autore) che entra in campo il punto di vista del fotografo nei confronti della Vita (maiuscola volontaria e consapevole). Ancora, è in questo processo, per Giovanni Mereghetti assolutamente necessario, che scatta il concetto formale generato dalle emozioni o dall’intelletto, o da entrambi. Ancora prima di scattare, il soggetto è osservato nei termini della sua traduzione fotografica, per essere organizzato a esprimere la propria personalità esplicita, piuttosto che usato come forma astratta, per creare un’emozione senza legami con l’oggettività raffigurata in quanto tale. ❖
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Filatelia di Antonio Bordoni
IN COMMEMORAZIONE
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Emissione filatelica statunitense, in serie per gli anni della Seconda guerra mondiale. Nel foglio Souvenir del “1945”, pubblicato il 2 settembre 1995, è incluso il ricordo della liberazione dei Campi di concentramento nazisti, nei quali è stato perpetuato l’Olocausto degli ebrei (e l’eliminazione di tanti e tanti altri indesiderati al regime). Come in altri francobolli analoghi, si evoca la celebre fotografia di Margaret Bourke-White, dal Campo di Buchenwald, ripresa nell’aprile 1945 (pagina accanto).
Busta con annullo del primo giorno di emissione.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
MARGARET BOURKE-WHITE
A
Annunciata da tempo, ma in pausa di riflessione (per mille e mille motivi, probabilmente tutti leciti), la compendiosa riflessione Fotografia nei francobolli, del nostro direttore Maurizio Rebuzzini, è lì, latente, ma non latitante. È nell’aria, e ha bisogno di maturare in tempi e modi adeguati. Diciamola meglio, forse: non è ancora il momento per completarla, non è ancora stagione giusta... che verrà quanto e dove confluiranno i palpiti che trasformano, quasi per magia, e con mistero, l’ipotesi in affermazione, i presupposti in concretezza, i pensieri in parole. Per ora, accontentiamoci di sapere che potrà arrivare, senza pretendere che arrivi prima di quando è legittimo che sia. Punto. Però, in questa occasione, è doveroso riprendere e richiamare emissioni filateliche che hanno commemorato l’Olocausto, con richiami espliciti alla Storia della Fotografia, territorio entro il quale si orienta, per l’appunto, lo studio Fotografia nei francobolli, appena richiamato. A questo proposito, è doverosa una precisazione: per quanto, tutti, proprio tutti, i francobolli siano ripresi e ricavati da fotografie (in assoluto, oltre che in linea di massima), l’intera analisi di Maurizio Rebuzzini si concentra e limita alle emissioni filateliche che hanno rapporti diretti e chiari ed espliciti e evidenti con la Fotografia: maiuscola volontaria, oltre che consapevole e convinta. Quindi, e ancora, va rilevato che -con e per opportunità e chiarezza- il passo di Fotografia nei francobolli è stabilito da una confortevole successione di capitoli a tema, entro i quali è stata scomposta l’impressionante quantità totale. Ovviamente, il terribile e inquietante tema dell’Olocausto è stato avvicinato da mille e mille francobolli: altro discorso, altro tema. Per quanto ci riguarda direttamente, ci limitiamo a osservare le rievocazioni che hanno ripreso immagini non generiche, non casuali (ammesso, e non concesso, che la Shoah possa includere e comprendere qualcosa di casuale), ma si sono rivelate attraverso fotografie che tracciano anche, e non soltanto, il tragitto della propria Storia evolutiva.
Nei mesi conclusivi della Seconda guerra mondiale, la fotogiornalista Margaret Bourke-White ha seguìto l’avanzata in Europa dell’esercito statunitense. È entrata nel Campo di Buchenwald con le truppe dal generale George S. Patton, il 15 aprile 1945. Questa sua fotografia raffigura prigionieri politici detenuti: icona del Novecento.
Foglio Souvenir di una serie filatelica dedicata al Novecento: “1940 - Decade di guerra e pace”. Emissione delle Isole Marshall, del 16 novembre 1998.
Non certo casualmente, ma per motivazioni tangibili e concrete, l’inquietante vicenda è richiamata soprattutto, e forse soltanto, da una fotografia epocale, da una fotografia che appartiene a pieno diritto a qualsivoglia racconto cronologico e scandito del Novecento: quella dei prigionieri politici nel Campo di Buchenwald, in Germania, che la fotogiornalista statunitense Margaret Bourke-White, una delle figure di spicco e rilievo dell’intero tragitto della Fotografia, ha realizzato nell’aprile 1945, al seguito dell’esercito statunitense in avanzata territoriale, sotto il comando del generale George S. Patton, che entrò a Buchenwald il quindici del mese. Da cui e per cui, come testimoniamo in questo ambito redazionale, il richiamo filatelico da tre fogli Souvenir, ognuno dei quali ha interpretato a proprio modo e con proprie intenzioni visive la fotografia originaria. In ordine di memoria individuale: Guyana, in una emissione del 9 luglio 1995, nel cinquantenario dalla fine della Seconda guerra mondiale (a pagina 56); Isole Marshall, da una serie dedicata al Novecento, con sottolineatura del “1940 - Decade di guerra e pace”, emessa il 16 novembre 1998, in cadenza di fine secolo/millen-
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
Filatelia
nio (a pagina 55 e, in ingrandimento di dettaglio, a pagina 3); Stati Uniti, da una serie commemorativa degli anni della Seconda guerra mondiale, nel cinquantenario dalla fine, nella sintesi del “1945”, emessa il 2 settembre 1995 (peraltro comprensiva dell’evocazione della bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, nell’isola giapponese
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Guyana, nel cinquantenario della fine della Seconda guerra mondiale: 9 luglio 1995. Olocausto (?): Albania, 6 luglio 1999.
di Iwo Jima, dalla celebre fotografia di Joe Rosenthal, e del bacio in Times Square, a New York, del marinaio e dell’infermiera -altra icona- fotografato da Alfred Eisenstaedt il giorno dell’annuncio della fine della guerra, alle 17,51 del 14 agosto 1945; a pagina 54). Ovviamente, in raffigurazione, presentiamo sia i fogli Souvenir completi,
sia l’estrapolazione dei singoli francobolli, a propria volta visivamente accostati alla fotografia originaria di Margaret Bourke-White. Quindi, per completare la segnalazione filatelica sull’Olocausto, non si possono ignorare i due valori a tema, emessi dall’Albania il 6 luglio 1999... seppure potrebbe essere il caso di non prenderli in considerazione (qui sopra). Sì: il richiamo è esplicito; sì, si tratta di una raffigurazione che attinge alla Storia della Fotografia; ma... no, la raffigurazione carceraria è estranea a qualsivoglia vicenda della Seconda guerra mondiale. Si tratta di una fotografia di Henri Cartier-Bresson, nientemeno!, scattata nella prigione di Leesburg, nel New Jersey, nel 1975. ❖
Leitz List (in ripetizione) di Angelo Galantini
IL CORAGGIO DI ERNST
A
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Divulgato nel 2002, The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train è il saggio originale con il quale il rabbino Frank Dabba Smith racconta l’azione svolta da Ernst Leitz II a favore degli ebrei tedeschi, a partire dal 1933. Quindi, segnaliamo la successiva edizione di Ernst Leitz of Wetzlar: Helping the Persecuted, del 2010.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
Almeno tre sono state le occasioni precedenti nelle quali -su questa stessa rivista- abbiamo riferito la nobile vicenda del produttore tedesco di apparecchi fotografici (e ottica di precisione) Ernst Leitz II, e famiglia, che dal 1933 di salita al potere di Hitler ha messo in salvo circa trecento propri dipendenti di religione ebraica e negozianti e amici, trasferendoli all’estero. In stretti termini temporali, una prima volta, ne abbiamo scritto nell’ottobre 2011, per poi riprendere l’argomento, nel marzo 2013, nell’ambito della presentazione della fantastica storia Leica raccontata in Ninety Nine Years Leica; quindi, lo scorso settembre, abbiamo presentato un bel libro illustrato per bambini, pubblicato il precedente quattro agosto, che riprende e ripete la storia con proprio linguaggio. Ora, e in questo attuale contenitore redazionale mirato, è opportuno riprendere e ripetere proprio da questo nostro più recente intervento giornalistico. Tra parole e illustrazioni, l’affascinante e concreto Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera (Dr. Ernst Leitz II e il treno Leica della libertà. Sfidando il nazismo con una macchina fotografica), realizzato dalle sorelle Taylor e Samantha Beitzel, svolge in modo esemplare e ammirevole il proprio scopo prefisso: far conoscere la Storia, affinché se ne possano acquisire i termini di memoria e lezione... soprattutto per non ripeterne i capitoli più nefasti. Magari, a partire dalle persecuzioni e oppressioni. Titolo della collana Holocaust Series Book, delle edizioni A Book by Me, il libro racconta a proprio modo come Ernst Leitz II e sua figlia Elsie Kühn-Leitz abbiano salvato dallo sterminio centinaia di propri impiegati ebrei e fotonegozianti ebrei tedeschi (da cui, si è soliti richiamare il parallelo con
Oskar Schindler, reso celebre dal film di Steven Spielberg, del 1993: è scontato, Schindler’s List). Ovviamente, come già annotato, torniamo sull’argomento alla luce delle odierne consecuzioni celebrative della Giornata della Memoria 2016 (ventisette gennaio). Altrettanto ovviamente, e forse addirittura di più, lo facciamo adempiendo nostri intendimenti, che declinano e intendono la Fotografia come fantastico (e privilegiato) s-punto di partenza, verso riflessioni, osservazioni, commenti, considerazioni e visioni che arricchiscano la nostra vita, fosse anche solo quella del giorno-per-giorno (comunque, mai e poi mai, la Fotografia come arido punto di arrivo!). In un contenitore, come è questo di FOTOgraphia, esplicitamente indirizzato all’approfondimento e alla conoscenza (qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi), la vicenda di Ernst Leitz II è di immenso valore: arricchisce la Storia della Fotografia, e quella della Leica, di un capitolo a dir poco nobile. Ripetendo e ribadendo note già riportate, non ci rifugiamo in alcun territorio di malevola convenienza individuale, ma rispondiamo a un’etica (e morale e garbo e eleganza e riconoscenza e gratitudine) che tiene conto di come ci esprimiamo, in funzione del perché lo facciamo. Come abbiamo già avuto modo di annotare, e come abbiamo ripetuto in tanti ambiti e per altri riferimenti, siamo perfettamente consapevoli delle differenze tra la comunicazione Web (oggi imperante) e quella “cartacea”. Ribadiamo: la Rete si distingue per freschezza e rapidità di argomenti, con relativa facilità e velocità di ricerca e informazione, mentre la lettura (scrittura) di riviste e/o libri offre tempo e modo per elaborare e riflettere. Come dire, e diciamolo!, che la
Leitz List (in ripetizione)
Dr. Ernst Leitz II and the Leica Train to Freedom. Defying the Nazis with a Camera (Dr. Ernst Leitz II e il treno Leica della libertà. Sfidando il nazismo con una macchina fotografica), di Taylor Beitzel, illustrazioni di Samantha Beitzel; A Book by Me / Holocasust Series Book #29, 2015; 24 pagine 21,5x28cm; 13,99 dollari. Racconto della stessa vicenda di Ernst Leitz II, in linguaggio adatto alla comprensione dei bambini [ FOTOgraphia, settembre 2015].
scrittura/lettura di riviste (e/o libri) favorisce la comprensione di argomenti complessi e articolati. Eccoci qui. Ernst Leitz II è mancato nel 1956. Non ha mai parlato della sua opera a favore, difesa e tutela di ebrei tedeschi. Le prime notizie al proposito sono state diffuse da Norman Lipton, impiegato della filiale Leitz di New York, in un articolo pubblicato dalla rivista Photo International, nel 1969. A seguire, la storia è stata raccontata dal rabbino Frank Dabba Smith, nel suo convincente The greatest invention of the Leitz family: The Leica freedom train, divulgato nel 2002. Nel 2007, a Ernst Leitz II -il cui motto fu “Dire poco, fare molto” (!)- è stato conferito il riconoscimento Courage to Care Award. In particolare, in veste di proprietario e direttore dell’azienda di
famiglia, Ernst Leitz II, che nel 1924 approvò il progetto di una macchina fotografica (Leica: “acronimo” di Leitz Camera), procurò visti per l’estero, pagò le spese di viaggio e riuscì a trasferire centinaia di persone negli Stati Uniti -dove molte delle quali furono assunte presso la filiale Leitz di New York (730 Fifth Avenue)-, a Londra e Hong Kong. Inoltre, siccome, lasciando la Germania, non si poteva esportare denaro, a ciascuno di loro fu data una Leica imballata, da vendere una volta arrivati a destinazione, per far fronte alle prime spese di sopravvivenza. Nel frattempo, la figlia Elsie Kühn-Leitz aiutava le donne inviate ai lavori forzati in fabbrica, fornendo loro cibo e generi di conforto. Addirittura, nel 1943, fu incarcerata per aver aiutato Hedwig Palm, un ebreo residente a Wetz-
lar, a fuggire in Svizzera. A questo proposito, registriamo che nel precedente 1938 era già stato arrestato e imprigionato Alfred Turk, direttore vendite dello stabilimento, quando la Gestapo fu informata dell’attività di aiuto agli ebrei. In entrambi i casi, le liberazioni furono ottenute grazie a cospicue bustarelle pagate a membri della stessa famigerata polizia politica. A questo punto, una notazione d’obbligo: qual è il valore aggiunto dell’impegno di Ernst Leitz II a favore degli ebrei? Riprendendo dalle rivelazioni originarie del rabbino Frank Dabba Smith, peraltro ribadite nel più recente resoconto Ernst Leitz of Wetzlar: Helping the Persecuted, del 2010, i trasferimenti all’estero degli ebrei tedeschi cominciano alla metà degli anni Trenta, all’indomani della salita al potere del partito nazista
(gennaio 1933) e dei primi sabotaggi e impedimenti alla vita e alle attività professionali degli ebrei (aprile 1933). Ovvero... attribuiamo a Ernst Leitz II una lungimiranza sociale e politica fuori del comune. Straordinaria preveggenza. Infine, segnaliamo anche il racconto video di Sally Enfield Rabinowitz, che ricostruisce l’odissea dei propri nonni, fotonegozianti ebrei a Francoforte (Ehrenfeld), a propria volta salvati da Ernst Leitz II. Lo abbiamo visualizzato sul nostro numero dello scorso settembre. Il video è a disposizione all’indirizzo web www.youtube.com/watch?v=eB kAV nWi6FE: andate a vederlo! Quindi, cerchiamo di mantenere alla Storia la propria consistente e compatta dote di insegnamento: mai più, dobbiamo gridare a pieni polmoni! ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 23 volte settembre 2015)
ICONA DEL NOVECENTO
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La filosofia della fotografia di strada/situazionista è la costruzione di un percorso che segue l’istinto del gatto, l’intuizione dell’aquila, la passione ereticale dei cuori in amore. Si tratta di costruire una situazione in rapporto con quello che si percepisce. Per noi, la macchina fotografica è uno strumento di conoscenza e non un grazioso giocattolo meccanico. «Fotografare è trattenere il respiro, quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale. Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira il cervello, l’occhio e il cuore» (Henri Cartier-Bresson: L’immaginario dal vero; Abscondita, 2005). Tutto vero. La bellezza della fotografia non addomesticata ai linguaggi dominanti, non è quella che proviene dallo studio delle “belle arti”, ma quella che contravviene o si oppone all’esposizione della banalità del male. Ogni ritratto è un autoritratto. È la scoperta di se stessi per mezzo della macchina fotografica e discorso sul mondo. Non importa essere fotografi, né situazionisti, per frequentare la fotografia di strada/situazionista: basta appartenere a un paese qualunque, non riconoscere nessuna patria e nessuna bandiera come propri... rifiutare le menzogne della plebaglia politica, religiosa, culturale e la feccia dei barbari della finanza con quel pizzico di lucida follia che non dispensa di passare dal sarcasmo all’agire a fianco dei popoli oppressi contro i saprofiti del crocifisso, dell’assassinio e del terrorismo dei dividendi bancari. Nei suoi momenti migliori, la nostra epoca è stata sanguinaria, come si addice a ogni società veramente ispirata (fascista, nazista, comunista, consumerista): inquisizione, conquista, violenza sono stati eccelsi nel
massacro e nell’assoluzione... e hanno mostrato che gli stupidi ragionano sempre al contrario.
IL BAMBINO DEL GHETTO DI VARSAVIA: HISTORÌA DI UNA ICONA DEL NOVECENTO Basta un solo esempio di fotografia di strada/situazionista, per far vedere che la polizia del pensiero non può nulla contro l’impudenza di una realtà da mattatoio, e -malgrado l’origine dell’immagine e l’aguzzino nazista che l’ha scattata- il dispregio verso ogni forma di oppressione ne esce ugualmente e con forte presa della verità. Si tratta di un’icona che ancora oggi non lascia scampo ai boia del nazismo e nemmeno a tutti quelli che sono venuti dopo e hanno continuato a seminare di sangue i campi di grano... gli occhi dell’innocenza negata ne contano le meraviglie. L’immagine del bambino del ghetto di Varsavia è divenuta perfino troppo celebre e consumata, quando si tratta di olocau-
sto: il bambino ebreo impaurito, con le mani alzate e sotto la minaccia del mitra di un soldato nazista, è apparsa in libri, riviste, film, reportage televisivi, poster, magliette, tatuaggi... tra poco, sarà stampata su scatole di sigari, santini elettorali e bottigliette di profumo. Lo stile delle canaglie è sempre quello che persegue il profitto, e il banchetto del crimine veicola miti e illusioni a buon mercato. Le urla in favore della memoria e della giustizia storica si schiantano contro la totalità dello spettacolo-integrato e smascherano la sua falsificazione: meglio lavorare alla fine dell’orrore che sopravvivere a un orrore senza fine. [Annotazione d’obbligo: questa fotografia del bambino del ghetto di Varsavia -simbolo dell’oppressione nazista sulla Polonia e sull’intera Europa- è stata votata come la più significativa del Novecento, in una indagine tra i lettori del quotidiano milanese Corriere della Sera, realizzato nel 1999]. La fotografia del bambino del
ghetto di Varsavia non fu scattata per caso: per la prima volta, è apparsa nell’album allegato al rapporto stilato dal generale SS Jürgen Stroop, per informare i suoi superiori, Walter Krüger e Heinrich Himmler, sulle operazioni di liquidazione degli ebrei (e della resistenza armata) nel ghetto di Varsavia, che tra il 19 aprile e il 16 maggio 1943 aveva tenuto in scacco i nazisti. Dopo aver soffocato nel sangue la ribellione, ecco il messaggio che Jürgen Stroop invia al suo superiore Walter Krüger, compilando il suo rapporto Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia: «Sono stati eliminati centottanta ebrei, banditi e subumani. Quello che era il quartiere ebraico di Varsavia non esiste più. La Grosse Aktion [grande azione, termine utilizzato dai tedeschi per descrivere le operazioni nel ghetto] è terminata alle 20,15, facendo esplodere la sinagoga di Varsavia. Il numero totale di ebrei dei quali ci si è occupati assomma a cinquantaseimila sessantacinque (56.065), includendo coloro che
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Sguardi su sono stati catturati e coloro dei quali può essere dimostrato lo sterminio» (The Stroop Report, http://www.jewishvirtuallibrary.org/i t.wikipedia.org/). Rilegato finemente e con la copertina di cuoio nero, l’album fotografico della repressione si compone di cinquantatré immagini; quella del bambino è la V-14. La didascalia recita: «Estratti a forza dal bunker» [Per una disamina approfondita sulle vicende della fotografia del bambino del ghetto di Varsavia e altre considerazioni, contraffazioni, manipolazioni di un’icona del Novecento, rimandiamo al libro di Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, pubblicato da Laterza, nel 2011]. La documentazione della distruzione del ghetto, delle deportazioni, della repressione degli insorti era stata richiesta da Walter Krüger, comandante della divisione SS Das Reich, composta di soldati scelti, che si è distinta (su diversi fronti) per crimini di guerra. Le vie della crudeltà sono varie: tutte vanno incontro alle implorazioni e all’euforie dei popoli assoggettati... l’unico ordine di grandezza al quale possono giungere i governi autoritari è il fallimento. L’epoca propizia ai tiranni coincide sempre con la fine di un ciclo di civiltà. Jürgen Stroop attribuisce a Walter Krüger queste parole: «Si tratta di un materiale prezioso per la storia, per il Führer, per Heinrich Himmler e per i futuri studiosi del Terzo Reich, come pure per i poeti e gli scrittori, per la formazione delle SS e, soprattutto, per documentare gli sforzi e i pesanti e sanguinosi sacrifici sopportati dalla razza nordica e dalla Germania per disebreizzare l’Europa e l’intero globo terrestre» (Frédéric Rousseau: Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia; Laterza, 2011). Il 22 maggio 1945, quattordici giorni dopo la resa della Germania nazista, il comandante Walter Krüger si toglie la vita: alla scuola dei tiranni vanno soltanto pagliacci, istrioni e assassini in formato grande. Imperi, nazioni, regimi si
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costituiscono grazie ai loro massacri, spesso rimasti impuniti e commessi in piena gloria di dio e dello Stato... trovano ispirazione nei macellai, nei santi, nei tagliagole dell’opportunità politica, senza sapere, forse, che l’ambizione ad assurgere a bravacci del potere è una sorta di oblìo che fa di coloro che vi si dedicano dei dementi in potenza.
sinio dei popoli continua: perciò, dinanzi alla sfilata dei responsabili, non ci resta che cercare un sentiero luminoso che si insinua tra il disprezzo e la rivolta sociale. Dalla lettura di un’immagine si può uscire o più stupidi o più intelligenti. Il sistema politico/economico/culturale è in grado di omologare qualunque tipo di fotografia in un eterno presente di
«Caro Gesù Bambino, ti ringrazio per aver esaudito i miei desideri dell’anno scorso. Ti avevo chiesto di eliminare la fame nel mondo, e infatti quelli che avevano fame sono quasi tutti morti» Giobbe Covatta Il generale Jürgen Stroop fu arrestato dalle truppe americane, nel maggio 1945, e processato dal tribunale americano stabilito a Dachau. Venne ragionevolmente impiccato il 6 marzo 1952, sulle macerie del ghetto. Ancora oggi, i figli degli sterminati portano i cani a pisciare in quel luogo... per non cancellare il ricordo di un delinquente da operetta che nella sua infinita stupidità ha inflitto una ferita profonda nella memoria dell’umanità. Qui, non c’interessa sapere come si chiamava, né quale è stata la vita del bambino del ghetto di Varsavia... come si è salvato dallo sterminio nazista, né dove è espatriato. Ciò che c’importa è entrare nel ventre di questa fotografia e vedere come il documento di una violenza possa rovesciarsi in un’immagine di resistenza. È l’innocenza negata al bambino del ghetto di Varsavia che preserva da un lato- il fallimento di un’ossessione (l’antisemitismo); dall’altro, l’idea sfigurata dello spettacolo nazista (che se la prende anche con i bambini). L’apocalisse si adatta a meraviglia a ogni potere, e in ogni epoca; come possiamo vedere in questo inizio di secolo, l’assas-
domesticazione collettiva. In questo senso, la macchina fotografica registra allo scopo di dimenticare o contraffare. «La macchina fotografica che isola un momento di agonia lo fa con la stessa violenza con cui l’esperienza di quel momento isola se stessa. La parola “scatto”, usata per armi e macchine fotografiche [nell’inglese “shoot”], rispecchia una corrispondenza che non si limita al semplice aspetto meccanico. L’immagine fissata dalla macchina è doppiamente violenza, e questa duplice violenza rende meno netto il contrasto: il contrasto tra il momento fotografato e tutti gli altri momenti» (John Berger: Sul guardare; Bruno Mondadori, 2003). Tutto vero. Il tempo catturato dalla macchina fotografica diventa tempo storico quando è assunto dall’utopia in cammino e dall’azione che ne consegue. Una fotografia è un corollario di segni che si aprono su vie diverse e costruiscono un sistema radiale che può raggelare il vero nel falso o diventare un atlante di conoscenze. Si tratta di trasformare i soggetti fotografati in narratori della propria storia. Lo specchio della memoria
della Shoah si può decifrare dalla messe d’immagini tragiche apparse nel mondo (in via ufficiale) dopo il 28 aprile il 1945... quando, sulla copertina di The Illustrated London News, appare il generale Dwight D. Eisenhower [che poi sarà presidente degli Stati Uniti per due mandati successivi, dal 1953 al 1961, con vicepresidente Richard Nixon] (visibilmente indignato) con le braccia ai fianchi, in mezzo ai suoi soldati e ai corpi straziati del campo di sterminio di Ohrdruf, nella Turingia tedesca. Ora tutti sanno (se vogliono sapere): i fotoamatori della Shoah, soldati fulminati sulla via della fotografia delle camere a gas, e gli ebrei della Judenrat, la polizia arruolata fra gli ebrei dei ghetti, hanno fatto di questo hobby dei crimini hitleriani un linguaggio dell’intolleranza, della brutalità e del dilettantismo provinciale. Non è la sofferenza che rende liberi, ma il desiderio di essere sciolti da ogni catena.
SULLA FOTOGRAFIA DI STRADA/SITUAZIONISTA (ALTROVE, FOTOGRAFIA SPONTANEA) Ando Gilardi, geniale storico senza guinzagli, definisce fotografia spontanea (che noi, con l’insolenza che c’è propria, détourniamo in fotografia situazionista o di strada) l’iconografia dell’annientamento ebraico. Scrive: «La fotografia spontanea l’affidiamo a un ossimoro: il fotografo incontra un soggetto che gli procura una grande emozione, che “prende” lui più di quanto lui non prenda la fotografia. In parole diverse, la fotografia spontanea non è come quella di cronaca o dei momenti familiari: è un fatto mentale e morale privato che può avvenire in moltissimi modi: in viaggio, come visitando un museo, o come -magari- sfogliando un giornale illustrato, o oggi -meglio ancoranavigando in Internet» (Ando Gilardi: Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea; Bruno Mondadori, 2008). Tutto vero. La fotografia spontanea della Shoah è stata una palude iconica nella
Sguardi su quale naufragarono i criminali e gli spettatori del crimine. Le foto-ricordo della Shoah andavano a ruba tra i volenterosi carnefici di Hitler. Intere famiglie naziste passavano le sere a guardare i mostri-giudei che venivano fucilati, bruciati o gettati nelle fosse comuni. Furono stampate anche delle cartoline di queste malvagità, e spedite per posta. Centinaia di migliaia di immagini (alcuni dicono un milione) andarono a sollazzare l’esaltazione antisemita di un popolo, senza che nessuno mai (o pochi) si fosse reso conto che erano di fronte a una barbarie inaudita. A giudicare dalle fotografie della Shoah che ha prodotto, il nazismo sarà stato tutto, tranne che intelligente. Gli eccessi dell’iconografia della Shoah -come uccidere un bambino con un colpo di pistola alla testa, sollevandolo da terra per i capelli- sono revisionati con la benevolenza dei boia. Nella sentenza di un tribunale delle SS emessa, nel 1943, contro un ufficiale appartenente al corpo, l’SS-Untersturmführer Max Tauber, si legge: «L’imputato scattò una serie di fotografie delle fucilazioni e ne fece realizzare altre dall’SS Fritsch, benché sapesse che riprendere simili avvenimenti fosse proibito. Si tratta per lo più di fotografie che testimoniano i peggiori eccessi, molte sono indecenti. [...] Fotografie simili possono essere causa di enormi pericoli per la sicurezza del Reich, se capitano in mani sbagliate. [...] La disubbidienza dev’essere quindi considerata come particolarmente grave. Invece, il tribunale non ritiene che il suo comportamento potesse portare a una disgregazione del potenziale militare del popolo tedesco, perciò non ha preso nemmeno in considerazione una possibilità del genere. [...] Al popolo tedesco, furiosamente antisemita, le fotografie dello sterminio degli ebrei non avrebbero fatto impressione negativa, semmai il contrario» (Ando Gilardi: Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea; Bruno Mondadori, 2008). Che bello! Basta sfogliare il libro Bei tempi. Lo sterminio degli ebrei
raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare (di E. Klee, W. Dressen e V. Riess; La Giuntina, 1990), per continuare a vomitare sulla peste nazista e la pratica disumana dello sterminio di massa registrata da un apparecchio fotografico (degli eccidi stalinisti parleremo la prossima primavera di bellezza). Quando la verità è più forte dell’immagine spontanea salva la dignità dei soggetti fotografati, ne assicura la giustizia e reinventa la storia. Cosa significa la fotografia del bambino del ghetto di Varsavia e cosa resta dell’immaginale tragico che si porta addosso? Non pensiamo affatto che l’inquadratura sia stata “chiaramente studiata”, come è stato scritto (Frédéric Rousseau: Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia; Laterza, 2011). Il fotografo nazista ha pensato di realizzare uno scatto emblematico, esemplare, forse, raffigurativo del terrore di donne, uomini e bambini e, più ancora, documentativo dell’umiliazione di un intero popolo. Non è andata così. L’immagine del bambino del ghetto di Varsavia contiene le stigmate del provvisorio e mostra che nulla è di più sospetto nella fede in una razza, un dio o uno Stato. È facile fotografare il male, ci riescono tutti: assumerlo esplicitamente, riconoscerne la realtà inesorabile, è -in compenso- un’impresa da massacratori di grande vaglio. Il fotografo anonimo non costruisce la situazione, la subisce... racconta un intermezzo senza sapere che l’innocenza negata del bambino non è che l’autobiografia trasfigurata di un’epopea affogata nell’impudore. Il significato delle immagini della Shoah si trova sulla superficie, nella sintesi di due intenzioni: quella che si manifesta nell’immagine e quella del fotografo che pensa di aver colto al volo il momento o l’epifania di una disfatta. Non è il fotografo che spiega l’immagine, è la drammaticità della fotografia che spiega il fotografo. L’universo fotografico della Shoah non ha niente del magico della grande fotografia sociale. La
filosofia della fotografia situazionista (o di strada) è necessaria per portare alla coscienza il linguaggio fotografico della disillusione. «Il compito della filosofia della fotografia è interrogare i fotografi sulla libertà, esaminare la pratica alla ricerca della libertà. [...] Una tale filosofia è necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa» (Vilém Flusser: Per una filosofia della fotografia; Bruno Mondadori, 2006). Il linguaggio fotografico dei forni crematori è la decostruzione della memoria, piuttosto che l’inverso. È una retorica di elementi truccati, una metafisica del peggio, un’antologia della violenza che rispecchia la dignità calpestata dei sommersi e dei sopravvissuti. Primo Levi ci avverte: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire» (Primo Levi: I sommersi e i salvati. I delitti, i castighi, le pene, le impunità; Einaudi, 1986). Il linguaggio al rovescio delle fotografie della Shoah prese dagli stessi carnefici rende la vergogna del genocidio ancora più vergognosa. Il soldato-fotografo del bambino del ghetto di Varsavia scatta un’istantanea, coglie un gruppo di persone minacciate dai mitragliatori nazisti: sulla destra, il bambino con le mani in alto si rovescia nell’immagine e si prende il proscenio... la forza della fotografia è dovuta al movimento delle due donne (con le braccia alzate) alla sinistra dell’inquadratura... una guarda a destra, l’altra invece si volta indietro e, un po’ tagliata, una bambina getta lo sguardo verso la macchina fotografica e mette in relazione il bambino col mondo. L’atmosfera scenica sembra presa da un film neorealista di Roberto Rossellini o da Furore, di John Ford. Più ancora, da una fotografia di Lewis W. Hine, Roman Vishniac o Diane Arbus: il punto focale dell’immagine è spostato (malamente) sul bambino del ghetto, che viene incastonato all’interno dell’inquadratura e si trascolora in simbolo di resistenza. Il bambino alza le mani, intimorito dalla presenza dei solda-
ti... ha il cappello un po’ di traverso, un cappottino lungo fino alle ginocchia, i calzini alti, si vedono appena i calzoni corti e lo zainetto sulle spalle... il fotografo taglia i piedi del bambino... si lascia trasportare dall’improvvisazione, e ciò che rimane sulla pellicola è una cartografia della paura che corrisponde a un’incoscienza, una registrazione confusa di ciò che accade di fronte a lui... immagazzina quello che è un eccesso e ne fuoriesce una metafora che lo condanna come fotografo e come aguzzino. Non c’è nulla di peggio di un profluvio di tracce, di un’abbondanza di segni che decretano un istante vivo da un istante morto. Sotto ogni aspetto, la lettura di questa fotografia supera l’avvenimento estetico, e la bellezza eversiva del bambino atterrito elabora una scrittura poetica dell’altro, denota la stupidità che si ha del mondo, non la sua realtà. La fotografia trionfa al cospetto dell’eternità, e la storia dell’orrore si riduce a schiuma. Il bambino del ghetto di Varsavia non è solo l’icona dell’olocausto, ma anche di tutte le innocenze ammazzate nelle guerre di tutti i governi. È un’immagine del riconoscimento, e la sua figurazione è un atto di accusa di tutti i conflitti. L’espressione simbolica della violenza si contrappone all’alterità della giustizia, della bellezza, della gioia che determinano la mediocrità, l’arroganza e il fanatismo di tutti i poteri. I grandi dolori sono indimenticabili e non suscitano nessuna riconciliazione. A mio disdoro, confesso che il disgusto, lo sgomento, l’indignazione che mi assalgono alla lettura della cartografia malata della Shoah (che è lo spettacolo di una ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, direbbe Guy Debord, in Questa cattiva reputazione...; Postmedia Books, 2014) m’impedisce di perdonare... la vigliaccheria di ogni potere va combattuta sempre e comunque... vivere tra liberi e uguali significa smettere di venerare, pregare, obbedire. Significa levarsi contro il dispotismo e proclamarne la fine. ❖
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Sguardi su (in riproposta) di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, Una volta marzo 2003)
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ROMAN VISHNIAC
La grande fotografia eversiva di Roman Vishniac si ritaglia sull’iconografia del dolore sacrale degli ultimi dei giusti, e sotto una visione di estrema verità è riuscita a mostrare che non esistono “mondi scomparsi”, né sconfitti, ma memorie storiche che possono contribuire a fermare i massacri che una parte di umanità ha portato (e porta ancora) contro i propri simili, in nome di Dio, del popolo e del possesso (mascherato sotto il nome di progresso). La bellezza della Terra è stanca. Gli uomini l’hanno violata. Gli ulivi dei patriarchi sono stati tagliati e la civiltà dello spettacolo è al culmine della disperazione. «Non sono contrario alla fine del mondo, ma preghiamo l’autorità celeste di non concedere più arche» (Guido Ceronetti). Quando si profana la gioia, tutti i cieli sono svaligiati. Ogni crimine ha i propri fondamenti nell’ordine costituito. La fotografia di Roman Vishniac, rubata al delirio del potere (nazista), mostra la dignità di un popolo, quello ebraico (prima dei fasti terroristici dello Stato di Israele contro genti dello stesso sangue). Roman Vishniac è un poeta dell’immagine sdrucita, un testimone di speranze spezzate, e più ancora il cantore di una coscienza popolare, che grazie alla sua opera resterà indelebile negli occhi e nel cuore di tutti gli umiliati e gli offesi. La sua è stata una missione di pace contro i progrom della rapacità e una testimonianza radicale della vita ebraica. Nei primi anni Trenta, in Germania già si parlava di sterminare gli ebrei. In modo particolare i bambini, le donne, gli svantaggiati, gli omosessuali, i “quasi adatti”: non ci poteva essere futuro per i “figli di David” nella terra dei Nibelunghi e ovunque il potere nazista fosse arrivato. Tra il 1934 e il 1939, il giovane ebreo scatta sedicimila immagini, di nascosto, in situazioni difficili, pericolose; per questa im-
presa Roman Vishniac viene arrestato e gettato in galera. Molte delle fotografie che aveva sottratto alla realtà ebraica, sfigurata dalla follia di Hitler, furono (sembra) distrutte dai propri car-
l’intimità disagiata di un popolo. Gli ebrei, inoltre, non sono facili a farsi fissare sulla pellicola. Il divieto biblico (la Tōrāh) di celebrazione delle immagini li rende scettici o schivi alla propria ritrattistica. Quando
«Non dimenticare, non lasciare che l’oblio cancelli la memoria: questa è la sua ossessione. Sfidando tutti i pericoli, superando ogni ostacolo, [Roman Vishniac] viaggia di provincia in provincia, di villaggio in villaggio, cogliendo bassifondi e mercati, un gesto qui e un movimento là, immagini di speranza e di disperazione; perché le vittime non svaniscano completamente nell’abisso; perché continuino a vivere, dopo la tortura e il massacro. E ha vinto la scommessa: vivono ancora» Elie Wiesel cerieri. Quando (in modo rocambolesco) riuscì a sbarcare negli Stati Uniti (1940), aveva addosso (cuciti sotto gli abiti) un pugno di negativi (circa duemila). Il resto della propria monumentale opera l’aveva consegnata al padre, in un villaggio francese (ClermontFerrand), e lì rimase per tutta la durata del conflitto mondiale. Roman Vishniac andò errante per le città, i villaggi, le periferie povere dell’Europa hitleriana e riuscì, come nessuno mai, a fotografare
Roman Vishniac è chiamato a riflettere sulla propria opera afferma: «Perché l’ho fatto? Una macchina fotografica nascosta per registrare il modo di vivere di un popolo che non desiderava essere immortalato dalla pellicola: può sembrare una cosa strana. Era folle entrare e uscire da paesi dove la mia vita era costantemente in pericolo? Qualunque sia la domanda, la mia risposta resta sempre la stessa: doveva essere fatto. Sentivo che il mondo stava per essere gettato
nella folle tenebra del nazismo, e che il risultato sarebbe stato l’annientamento di un popolo che non aveva nessun portavoce per registrare il proprio destino. Intendiamoci, la sua fede assoluta in Dio potrebbe aver impedito la ricerca di un salvatore umano. Sapevo che era mio compito assicurarmi che questo mondo scomparso non svanisse del tutto». La libertà di pensiero è più forte delle gogne, degli spari e delle esecuzioni sommarie. Perché è nel pensiero che si distruggono gli dèi, e le sapienze degli angeli ribelli annunciano le realtà immaginate, dove la verità muore di verità e tutte le follie di liberazione sono divine. Come un grande “figurinaio”, Roman Vishniac affabula immagini di speranza e disperazione, che rappresentano un atto di accusa contro la rapacità e l’indifferenza dell’intera umanità verso la “soluzione finale” contro gli ebrei (almeno fino alla “scoperta” dei Campi di sterminio); queste icone della sofferenza e della liberazione continuano a vivere in noi e tra noi, anche dopo la tortura e il genocidio. «Attraverso il mio dolore personale, vedo con l’occhio della mente i volti di sei milioni di persone appartenenti alla mia gente, innocenti, brutalmente assassinate per ordine di un essere perverso. Il mondo intero, gli stessi Ebrei che vivevano sicuri in altre nazioni, compresi gli Stati Uniti, stettero a guardare e non fecero niente per fermare il massacro. Il ricordo di coloro che sono stati spazzati via deve proteggere le generazioni future dal genocidio. È un mondo scomparso, ma non sconfitto, colto in immagini realizzate con una macchina fotografica nascosta» (Roman Vishniac). La catechesi della bruttura mostra i volti dell’uomo rattristati. Per distruggere un sogno non bastano più le “bombe intelligenti” dei governi emancipati, il dei-
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Sguardi su (in riproposta) cidio dei poveri è consumato nei supermercati dell’imbecillità globale delle guerre. Roman Vishniac si fa testimone supremo del mondo ebraico martorizzato. Le proprie immagini evocano il dolore, e i suoi personaggi (i rabbi, i venditori ambulanti, i mendicanti, i vecchi, i bambini) sono avvolti in una sorta di amore fanciullesco, malinconico e gioioso, che è proprio del cuore di tutti gli utopisti. Roman Vishniac non vuole che l’uomo dimentichi e lasci nell’oblio la cattiveria della propria politica; dai suoi ritratti emerge anche la grande possibilità amorosa di accoglienza, di ospitalità, di condivisione che l’uomo può porgere all’altro uomo. Roman Vishniac è stato «Un uomo generoso, affettuoso, che la propria missione ha reso ardito. Ognuna delle sue fotografie nasconde un rischio. Un giorno,
forse, ci racconterà di come ha raggirato la Gestapo. E le spie. E la morte. Un giorno ci racconterà gli inganni, i travestimenti, i trucchi che ha dovuto usare per riuscire a penetrare in questo luogo, per avvicinare quello studente, per cogliere la luce fioca di una certa scuola. Un giorno ci racconterà dei templi saccheggiati, del naufragio della preghiera, della desolazione che aveva previsto, che aveva visto prima ancora di fotografarla per affidarcela in custodia. Poeta della memoria, poeta elegiaco delle speranze infrante, Roman Vishniac resta il primo e il migliore nel segno della fedeltà» (Elie Wiesel). Il fuoco di Eraclito, come la torcia a kerosene che brucia alla memoria di milioni di martiri a Gerusalemme, giudicherà l’universo governato dalla violenza delle istituzioni politiche; solo i disertori dell’innocenza portano in
loro il crollo degli imperi, perché a un’era di agonia preferiscono l’apocalisse della gioia. La fotografia dell’estremità, del limite o dell’esilio di Roman Vishniac è una lezione di amore e grandezza espressiva che un uomo ha donato alla propria gente. Nei suoi ritratti si respirano le schegge della coscienza e le pugnalate della storia. La forza espressiva di Roman Vishniac è insolita e irripetibile. La “brutalità” o, se vogliamo, la rozzezza dell’inquadratura, i tagli arbitrari, l’occasionalità della luce non vanno a rompere quell’equilibrio magico, quello sguardo dell’autentico, quella riservatezza e presenza del sogno, che fanno della sua fotografia una lingua dell’agorà (della piazza), che si chiama fuori dall’inclinazione alla demenza di una società che riluce nella propria decomposizione. È anche un ponte, un percorso, un cercare
altri territori dove la comprensione, l’amore, l’incontro tra le genti sono all’inizio della comunità dell’arcobaleno (multietnica) da conquistare. Se poi, in seguito, una parte di ebrei si sono comportati come i propri aguzzini, hanno rappresentato di nuovo il terrore dei campi di sterminio, delle torture, delle camere a gas, questa è l’altra storia. Una volta diventata sovrana la vendetta, ogni forma di giustizia muore. La fotografia del dolore di Roman Vishniac si rivolge al cuore, perché è nel cuore che l’immaginale si fa mondo. La visione del cuore è anche la passione dell’anima che riflette il risveglio dell’uomo. Dove è il cuore, lì saranno anche bellezza e disperazione (Agostino, diceva). Ogni cuore è cuore di re. Perché il sentimento d’amore e di fraternità dell’Uomo per l’Uomo è il bene più importante e più bello di tutti gli uomini. ❖