Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXIII - NUMERO 218 - FEBBRAIO 2016
Beppe Bolchi RITRATTI ALLO SPECCHIO
Leica SL VOCAZIONE PROFESSIONALE
SIMONE NERVI INCANTO VISUALE
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)
Abbonamento a 12 numeri (65,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome
cognome
indirizzo CAP
città
telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO
data
provincia fax
❑ ❑ ❑
Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 1027671617, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito PayPal (Graphia srl)
firma
COSMO LAERA
prima di cominciare
IL LUNGO ADDIO. Cesare Colombo, tra i più convinti e consapevoli cultori della fotografia, ci ha lasciati lunedì diciotto gennaio, a ottant’anni. Come già annotato, per dovere di anagrafe, abbiamo raggiunto un tempo nel quale dobbiamo salutare compagni di strada, con i quali abbiamo condiviso passaggi e considerazioni attorno la materia istituzionale della Fotografia. Cesare Colombo è stato raffinato autore, nel momento in cui è altresì trasmigrato nella considerazione sulla fotografia, arricchendo il bagaglio delle nostre conoscenze con osservazioni originali e con visioni lungimiranti (fino all’affascinante Lectio Magistralis L’occhio come mestiere, svolta sotto l’egida Afip - Associazione Fotografi Professionisti International, il ventuno maggio scorso, in combinazione con Giovanna Calvenzi). Ed è questa, oltre tante altre, l’amarezza di questo momento. Ci domandiamo dove finiscano i pensieri individuali, le capacità riflessive dopo la data fatidica? Certo, ci consola sapere che, Verba volant, le parole e idee espresse (anche da Cesare Colombo) continuino a librarsi nell’aria, là dove possono essere raccolte da ciascuno, e fatte proprie. Però, allo stesso tempo, ci sentiamo derubati di quanto tanto altro ancora avremmo potuto ricevere, avremmo voluto ricevere. In conforto individuale, che è nulla rispetto gli affetti privati (sia certificato subito), rimangono anche i ricordi personali. Ora che siamo sollecitati alla memoria individuale, annotiamo che Cesare Colombo è stato uno dei nostri primi incontri fotografici, forse -addirittura- il primo in assoluto, nella primavera 1973, alla Galleria Il Diaframma, di Milano. Ricordiamo bene che intervenimmo in un suo ragionamento con Lanfranco Colombo (soltanto omonimo), titolare della Galleria, e i nostri discorsi si incrociarono. Casualmente (forse), abbiamo avuto l’occasione di riprenderli il giorno dopo, in centro città, quando entrambi stavamo fotografando una manifestazione femminista (erano gli anni). E, poi, a seguire... tante e tante altre occasioni comuni, in alcune delle quali il carattere forte di Cesare Colombo ha scandito termini di ragionamento e osservazione senza compromessi (erano gli anni di impegno civile e politico). Invece, non ricordiamo l’ultimo incontro, sicuramente di quest’inverno, sicuramente allacciato a quanto espresso nella Lectio Magistralis / Afip appena accennata. Ed è bene che sia così: un nostro inizio senza fine. Così, possiamo anche pensare che Cesare Colombo sia soltanto da qualche altra parte, per quanto non più qui. Un ricordo affezionato. Un ricordo di stima profonda. M.R. (Franti)
Anarchico senza fissa dimora, padrone del suo tempo, affascinante narratore di storie e animatore di utopie, [Mario Dondero] vivrà con tenace caparbietà una vita sospesa nel presente dei suoi scatti, delle relazioni umane che costruisce e scopre di giorno in giorno e che cattura in immagini attraversate da una continua tensione morale. Uliano Lucas e Tatiana Agliani; su questo numero, a pagina 8 Non c’è libro, film o fotografia senza un’idea che la sostenga e la magnifichi nel dispendio creativo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 C’è di che riflettere. C’è di che discutere. Cosa sarebbe più la nostra vita senza fotografia? Cosa sarebbe la nostra mente, senza fotografie d’autore? La nostra percezione della realtà ne rimarrebbe mortificata, La nostra esperienza, impoverita. Il nostro sapere, modesto. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 62 In fotografia e dappertutto, la realtà è subordinata a quella del senso del reale che gli corrisponde. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Tra tanta frequentazione, soprattutto ringraziamo Mario Dondero per averci rivelato come sia possibile crescere ricordando di essere stati giovani... e di esserlo ancora. mFranti; su questo numero, a pagina 8
Copertina Dalla serie The Sons of Earth (2012), di Simone Nervi, creatore di mondi, sognatore capace di manipolare la realtà per realizzare e presentare un mondo nuovo, sorretto da un’estetica d’incanto. Da pagina 28
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo di una serie di sette valori sui giovani, emessa il 17 aprile 1974. Ovviamente, in estratto, il soggetto fotografico
7 Editoriale Viene dismessa la Holga, che per lungo/troppo tempo è stata una scorciatoia per chi è privo di creatività propria
8 Mario Dondero Mario Dondero, che con la sua presenza ha illuminato il fotogiornalismo del secondo Novecento, è stato sconfitto dalla malattia con la quale stava combattendo da tempo di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, e Pino Bertelli
FEBBRAIO 2016
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
14 Fotografia silente Pellegrinaggio nei luoghi dove sono state ambientate scene salienti del film Blow-Up, di Michelangelo Antonioni testo e fotografie di Guido Tosi Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XXIII - numero 218 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
19 A proposito di... Camera Lettera aperta di Beppe Bolchi, che non condivide quanto abbiamo accreditato a Camera - Centro Italiano per la fotografia, lo scorso novembre. E risposta
22 Paradisi perduti Suggestivo progetto svolto da Antonio La Grotta con la consapevolezza degli stilemi visivi che definiscono la più efficace fotografia (d’autore)
28 Incanto visuale Il bravo Simone Nervi mostra l’incongruo, avvalendosi della fotografia in evidente e consapevole e convinta post produzione digitale. Allineiamoci alla sua incantevole creatività, tra fascino, moda e sogni... Wonderland di Elisa Contessotto
40 Ritratti allo specchio L’audace Beppe Bolchi ha fotografato con la nuova Impossible B&W 2.0, in grande formato 8x10 pollici, realizzando una convincente galleria di personaggi del mondo fotografico. Eccellenza fotografica in visualizzazione rovescia: così attuale, così antica di Angelo Galantini
49 È Leica! Prove sul campo (e annotazioni conseguenti) della nuova e affascinante Leica SL, che introduce un parametro tecnico-commerciale assolutamente innovativo: CSC (Mirrorless) con intenzione e indirizzo professionali. Non test teorici da laboratorio, ma effettive situazioni reali di ripresa fotografica e video. E osservazioni di Stefano Zarpellon e Antonio Bordoni
58 Libia (1935) Un antico album fotografico, con ricordi lontani nel tempo e nello spazio, assume connotati e fisionomie che superano la sola oggettività a tutti evidente. Album di ricordi del capitano di artiglieria Alberto Berengo Gardin, padre del fotografo Gianni di Maurizio Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Tatiana Agliani Gianni Berengo Gardin Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Elisa Contessotto Andrea Del Zozzo Pacifico D’Ercoli mFranti Angelo Galantini Antonio La Grotta Cosmo Laera Chiara Lualdi Uliano Lucas Simone Nervi Gian Paolo Randazzo Franco Sergio Rebosio Guido Tosi Stefano Zarpellon Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
64 La città dell’acciaio Sguardi sull’Archivio Fotografico Lucchini, di Piombino di Pino Bertelli
www.tipa.com
Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato
di Alessandro Mariconti
via Foppa 40 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it
w w w. p h o t o 4 0 . i t
editoriale H
arvey Zucker, che per diciassette anni, fino alla fine dei Novanta, è stato proprietario e conduttore di una fantastica esperienza commerciale di riferimento (A Photographers Place, libreria specializzata, al 133 della Mercer street, a New York, nell’area di SoHo, tra la Prince e la Spring street), è una delle personalità chiave del fenomeno planetario della Holga: in origine, macchina fotografica 6x6cm popolare, prodotta in Cina, piena di difetti e di scarsa qualità formale. Proprio nella sua libreria, che si accompagnava con proposte fotografiche di contenuti sostanziosi (tra le quali, una considerevole quantità e qualità di dagherrotipi), sono state vendute le prime Holga interpretate in declinazione creativa da fotografi-autori di prestigio, valore e pregio. Proprio dalla sua libreria è partito il tam tam preRete (va rilevato), che ha diffuso nel mondo l’arbitrarietà della fotografia Holga, per la quale si è sempre ipotizzata la necessità di agire con più apparecchi, almeno due, in considerazione dei difetti propri e caratteristici, che cambiano (cambiavano) da un esemplare all’altro. Ora, la memoria individuale torna a quei lontani giorni di fine secolo, circa, alla luce della notizia secondo la quale viene dismessa la produzione della Holga: chi ce l’ha, se la tenga; chi non ce l’ha, e la vuole avere, deve ora rivolgersi a un territorio commerciale estraneo al tragitto comune della compravendita. Con l’occasione, e in consueto approfondimento in forma di dialogo, è bene precisare alcune condizioni fondanti della definita creatività fotografica, che troppo spesso ha dato vita a confusioni e interpretazioni scorrette. Quantomeno scorrette. La Holga, al pari di altre dotazioni fotografiche di propria personalità trasversale al tragitto tecnologico cadenzato, crea e realizza fotogrammi sei-per-sei di alta personalità. Soprattutto, i suoi difetti congeniti si proiettano in composizioni dai bordi sfumati e imprecisi (l’obiettivo non copre adeguatamente il formato) e in inquadrature penalizzate (?) da incontrollabili infiltrazioni di luce. Da cui e per cui, la fotografia Holga ha presto acquisito i termini generali di creatività: insieme ad altre macchine fotografiche altrettanto imprecise (citazione d’obbligo per la Diana). Giusto questa è la base della fotografia fantasiosa ed espressiva che le è sempre stata riconosciuta. Se non che, con lo scorrere dei giorni e l’accessibilità apparente alla creatività preconfezionata, il sistema si è allargato, andando a comprendere configurazioni Holga a foro stenopeico, in proposta stereo (3D) e altre varianti ancora. Se non che, nello stesso scorrere dei giorni, la Holga si è imborghesita nell’idea di estro precotto, da scaldare al forno a microonde. Allora, la precisazione è presto riferita: la creatività individuale non ha nulla da spartire con soluzioni impachettate e imballate allo scopo. La creatività è sempre qualcosa che sta nel cuore e che prevede e presuppone progettualità. Magari con Holga o foro stenopeico, che nascono dal cuore... non da soluzioni surgelate, da scongelare senza anima: ultima spiaggia per gli imbecilli che non hanno nulla da esprimere. Maurizio Rebuzzini
Personalmente, possiamo vantare di essere stati tra i primi a registrare, in forma giornalistica e critica, la fotografia Holga, certificandone il valore e senso a partire dal lontano febbraio 1998. Oggi, la dismissione della sua produzione priva coloro i quali credono nella creatività precotta di una delle scorciatoie proprie e caratteristiche di chi non ha progettualità e idee proprie, amore e convinzione dell’espressività di talune arbitrarietà fotografiche. In un certo senso... evviva!
7
In ricordo
di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, e Pino Bertelli
M
MARIO DONDERO
Mario Dondero, che con la sua presenza ha illuminato il fotogiornalismo del secondo Novecento, è stato sconfitto dalla malattia con la quale stava combattendo da tempo. È mancato domenica tredici dicembre, a Fermo, nelle Marche, dove da tempo risiedeva. Lo ricordiamo oggi, e qui, con due testi significativi. Anzitutto, riprendiamo il capitolo a lui dedicato in La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia, autorevolmente compilato da Uliano Lucas e Tatiana Agliani, pubblicato da Giulio Einaudi Editore, all’inizio dello scorso dicembre (del quale riferiremo sul prossimo numero della rivista, con data di copertina marzo). Quindi, riproponiamo lo Sguardo su Mario Dondero, di Pino Bertelli, originariamente presentato nel luglio 2012. Entrambi i testi sono compilati al presente, ed è anche così che ricordiamo la figura di Mario Dondero. Come spesso annotiamo... a ciascuno, il suo. A ciascuno, le proprie intimità, i propri ricordi, le proprie emozioni. Le nostre confortano l’amicizia personale, ricca di tante influenze e di altrettante lezioni, in un tragitto comune nel quale la Fotografia, inviolabile territorio comune di frequentazione e avvincente opportunità
di confronto, non è mai stata -come spesso annotiamo- arido punto di arrivo, ma sempre e comunque fantastico s-punto di partenza. Tra tanta frequentazione, soprattutto ringraziamo Mario Dondero per averci rivelato come sia possibile crescere ricordando di essere stati giovani... e di esserlo ancora. Altri, dai rispettivi palcoscenici, possono sottolineare ulteriori lezioni esistenziali, tutte condotte lungo il cammino comune attraverso esperienze di natura e origine fotografica. Da cui e per cui, ora e qui e in questa occasione, non sono tanto significativi episodi e momenti (a partire da quello sempre riferito a Ugo Mulas, portato alla fotografia proprio da Mario Dondero, in occasione di un incontro fortuito di tanto e tanto tempo fa: imprimatur che ha sicuramente indirizzato la vita dello stesso Ugo Mulas, e che ha influito sulla fotografia italiana e internazionale nel proprio insieme e complesso). Da cui e per cui, ora e qui e in questa occasione, è soprattutto significativa l’etica e morale (e garbo, eleganza, gratitudine, riconoscenza...) che hanno guidato e orientato la vita di Mario Dondero e la sua fotografia della vita, per la Vita. M.R. (Franti)
8
ULIANO LUCAS
N
Nato a Milano nel 1928, ma profondamente legato a Genova, città paterna dove trascorre lunghi periodi della sua infanzia e giovinezza, agli inizi degli anni Cinquanta Mario Dondero [1] è un giovane giornalista comunista tutto immerso nelle idealità della Resistenza, a cui ha partecipato sedicenne come partigiano nella Repubblica dell’Ossola. Ha studiato al liceo classico Berchet e dopo la guerra ha iniziato a lavorare come cronista per i giornali della sinistra l’Unità e l’Avanti!, venendo poi assunto a Milano sera. Per corredare i suoi articoli di “nera” con quelle fotografie tanto richieste dai giornali del pomeriggio, impara però anche a usare la macchina fotografica e rimane conquistato da questo diverso modo di fare giornalismo, «viatico per incontrare uomini e donne di origini e paesi diversi, gente famosa o ignota, ma carica di una speciale umanità» [da una intervista rilasciata agli autori, il 18 gennaio 2002]. Abbandona quindi il lavoro di giornalista di penna per quello di fotografo freelance, incarnando da allora con le sue scelte e il suo modo di essere un’idea quasi mitica di reporter bohémien che ha in certa misura fatto passare in secondo piano il valore stesso delle sue immagini.
Mario Dondero (Milano, 6 maggio 1928 - Petritoli / Fermo, 13 dicembre 2015)
Anarchico senza fissa dimora, padrone del suo tempo, affascinante narratore di storie e animatore di utopie, vivrà con tenace caparbietà una vita sospesa nel presente dei suoi scatti, delle relazioni umane che costruisce e scopre di giorno in giorno e che cattura in immagini attraversate da una continua tensione morale. Dondero non è interessato tanto alla tecnica o all’estetica dell’immagine, ma si avvicina alla macchina fotografica per empatia, scoprendovi «un modo per stare tenacemente dalla parte dei deboli», «una grande scuola di libertà», «un’attività che non ha bisogno di ore d’ufficio per esistere quanto del favore degli dèi, degli elementi atmosferici e dei mutevoli empiti del vostro ingegno» [da una intervista rilasciata agli autori, il 18 gennaio 2002]. Come i suoi compagni di Brera, guarda come fonte d’ispirazione alle esperienze del giornalismo internazionale, ma più che in Life e Cartier-Bresson, mito della sua generazione, si rispecchia in Lewis Hine, in Robert Capa e David Seymour, in quel gruppo di fotografi della Magnum «che davano qualcosa di più, restavano più profondamente nella memoria, ritraevano il mondo in una maniera così straordinaria e convincente anche con la co-
In ricordo
All’indomani della scomparsa, domenica tredici dicembre, la personalità fotografica di Mario Dondero è stata ricordata a Fermo, città marchigiana dove ha vissuto gli ultimi anni della sua intensa vita, il ventisei e ventisette dicembre scorsi, nei giorni di ritmo cadenzato che caratterizzano il periodo tra Natale e capodanno. Una significativa quantità e qualità di fotografie di Mario Dondero è stata proiettata sulla facciata del palazzo comunale della città, il Palazzo dei Priori, nella centrale piazza del Popolo.
L’iniziativa è stata promossa, organizzata e svolta dall’attento Collettivo Tatanka, insieme all’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), alla Fototeca Provinciale di Fermo e al Comune di Fermo. L’affascinante documentazione visiva che qui presentiamo è stata realizzata da Andrea Del Zozzo, dell’Associazione Altidona Belvedere, che gestisce la Fototeca Provinciale di Fermo, che custodisce e sta inventariando e digitalizzando il monumentale archivio di Mario Dondero.
9
In ricordo stante presenza della loro umanità» [da una intervista rilasciata agli autori, il 18 gennaio 2002 [2]]. «Cartier-Bresson, con tutta la stima, non è mai stato il mio fotografo preferito -ammette-. È raffinato e intelligente, ma anche distante ed elegante. No, ho avuto piuttosto Robert Capa come suggeritore... per via della semplicità, della freschezza dello sguardo che era sempre difettoso dal punto di vista tecnico» [da una intervista rilasciata agli autori, il 18 gennaio 2002]. Pur dimostrando una ferma padronanza del mezzo, usato con consapevolezza e modernità, Dondero non rivolge dunque una particolare attenzione alla composizione dell’immagine, alle scelte di luce o di esposizione, non ricerca particolari esiti formali o concettuali, ma scatta con un’incredibile istintività e con una capacità di osservare e di entrare in comunicazione con il mondo attorno a lui che lo portano a fermare il suo obiettivo su situazioni all’apparenza insignificanti e a restituircele invece in tutto il loro carico di storia [3]. Così avviene ad esempio nei ritratti, la cui efficacia non deriva dallo studio o dalla scelta della posa ma dalla sintonia con il soggetto, che l’autore riesce a mostrare in un’espressione autentica, cogliendo in una situazione ordinaria qualcosa del suo modo di essere. Le sue fotografie sono caratterizzate da una narrazione semplice e coinvolgente, che vive di un particolare rapporto con il tempo, quello su cui riflette Roland Barthes nella Camera chiara, quello che spinge Giorgio Agamben a parlare per le foto di Dondero di immagini che richiamano il mo-
mento del Giudizio universale, quando uomini e donne resuscitano nel proprio corpo di carne e tornano a vivere in tutta la propria pienezza per l’eternità [Giorgio Agamben: Il Giorno del Giudizio; Nottetempo, Roma 2004]. Usa in genere l’obiettivo 50mm, il cui campo visivo è affine a quello dell’occhio umano; non cerca deformazioni prospettiche, non muta attraverso la scelta di diverse focali la realtà, non drammatizza l’evento; fotografa spesso in soggettiva, optando quindi per una visione che fa sentire l’osservatore della foto testimone della scena insieme al fotografo; rinuncia a immagini esemplari che assurgano a simbolo di un’epoca, ma coglie invece un momento del flusso dell’esistenza sottraendolo all’evanescenza e restituendolo in tutta la sua ricchezza. Della fotografia valorizza insomma l’antinomica capacità di consegnare all’eternità un istante ormai passato, di farsi “libro della vita” in cui sono iscritti i nomi, i volti, i percorsi individuali degli uomini. Ma con una straordinaria capacità di catturare il momento che porta con sé tutta una storia. Le sue foto non sono mai prelevamenti casuali di un dato di realtà, come nell’estetica dell’estemporaneità di Garry Winogrand o Robert Frank, ma sono sempre racconto, movimento, frammento di una narrazione più ampia. E questo perché Dondero non è solo testimone, osservatore occasionale, ma partecipa al momento che ritrae, lo conosce e lo può raccontare dall’interno, nei suoi percorsi, nei suoi cambiamenti, in tutto il suo bagaglio di storie passate e nelle potenzialità dei suoi
Note [1] Su Mario Dondero: Antonio Ria (a cura di), Mario Dondero. Una commedia umana. Ritratti e reportage, Edizioni Le Ricerche, Losone 2003; Mario Dondero, Un modo di vivere, Edizioni della Meridiana, Firenze 2004; Mario Dondero, Dalla parte dell’uomo, Il Canneto, Genova 2012; Stefano Alpini e Francesco Monceri (a cura di), Mario Dondero. Incursioni sul set, Ets, Pisa 2012; Simona Guerra (a cura di), Mario Dondero, Bruno Mondadori, Milano 2011; e la corposa monografia a cura di Nunzio Giustozzi e Laura Strappa, Mario Dondero, Electa, Milano 2015. Ricordiamo poi anche Franco Vaccaneo, Per Cesare Pavese, i giorni le opere i luoghi. Percorsi fotografici di Mario Dondero e Paolo Smaniotto, Fabiano, Canelli 2001.
10
svolgimenti futuri. È parte del flusso della storia che ritrae, e crea foto scattate “tra un’immagine e l’altra” delle grandi narrazioni, nel tempo della vita. Lavora inizialmente con il settimanale Le Ore, che come vedremo rappresenta negli anni Cinquanta un innovativo tentativo di fare un giornalismo tutto per immagini, poi nel 1954 si trasferisce a Parigi, nel1960 a Londra, nel 1970 torna a Roma per alcuni anni e poi è di nuovo a Parigi. Nel 1999 si trasferisce a Fermo, nelle Marche, paese d’adozione dove dagli anni Ottanta passa con la moglie e i figli lunghi periodi d’estate. Ma vive soprattutto in viaggio, e in questo incessante peregrinare realizza racconti che nascono principalmente dai suoi interessi, dalla sua cultura e dalla sua conoscenza della realtà, che poi propone alle redazioni di giornali con cui trova un’affinità, come L’Espresso, Il Giorno, Il Mondo, Jeune Afrique, Afrique-Asie, e via via Tempo, l’Unità, L’Illustrazione italiana, Il Diario, Il Venerdì, il manifesto. Come scrive giustamente Francesco Biamonti, insegue «l’angelo della storia» [in Dondero Luz. Antilibro per Mario Dondero. Testimone per immagini 19511999, a cura di Francesco Pirella e Letizia Lodi; Pirella Editions, Genova-Voltri 1999], ma non quella dei grandi eventi, documentati da una fotografia di stringente attualità, bensì quella dei lunghi processi, che Dondero sa leggere e capire, quella non dei “vincitori” ma dei “vinti”, che osserva e restituisce nella consapevolezza che sono loro i protagonisti per secoli ignorati su cui fermare il proprio sguardo. Racconta allora
la fatica e la dignità, spesso negata, del lavoro in Italia e nel mondo, mostra le follie e le sofferenze della guerra, nel conflitto fra Algeria e Marocco nel 1963, negli scontri tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord nel 1968, negli ospedali dell’Afghanistan con l’associazione Emergency negli anni Duemila. Curioso come ogni fotografo dovrebbe essere, affascinato da storie e da culture diverse, viaggia in Africa, dove segue i processi di decolonizzazione, ma racconta anche le culture locali, mostra le architetture dei paesi Dogon, entra nei villaggi Malinkè dove i saggi, depositari della tradizione, trasmettono ancora di generazione in generazione, con le loro parole e i loro canti, l’antica storia del Mali. I grandi eventi li vive in un controtempo che ne coglie gli antefatti o ne indaga le conseguenze, rifiutando la logica della fotografia spettacolare; come a Praga, che visita nel 1968 raccontando l’utopia di un comunismo dal volto umano della primavera di Dubček e che lascia il giorno prima del crudo ritorno alla realtà che i carri armati sovietici portano con sé; o come in Russia, dove viaggia lungamente alla ricerca dei contraddittori segni lasciati dal regime comunista insieme al giornalista del manifesto Astrit Dakli per un reportage che diventerà poi il libro I rifugi di Lenin. Ma si fa anche testimone delle battaglie individuali e collettive per un miglioramento della società, che diventano potenti simboli di una concezione dell’uomo. Fotografa il Maggio francese; Alexandros Panagulis, oppositore del regime dei colonnelli, durante il suo processo nel tribunale militare di
[2] «Non farei un altro mestiere -afferma ancora Dondero-, nonostante tutte le difficoltà, lo definisco una sorta di precarietà di lusso perché tu puoi vibrare delle emozioni eccezionali che nessun’altra attività ti darebbe... Sebastião Salgado diceva una cosa che condivido pienamente: quando tu hai cento rullini nella borsa per girare il mondo sei il padrone del mondo. E poi questo privilegio che ti dà il fatto di arrivare da solo a fare delle foto in un posto e che la gente ti accoglie ed entri in una comunità e fai un’esperienza di vita...». [3] «Deve sempre rimanere chiaro che per me fotografare non è mai stato l’interesse principale -afferma così Dondero-; ancora oggi non mi reputo un fotografo tout court. A me le foto interessano come collante delle relazioni umane o come testimonianza delle situazioni» [da Mario Dondero, a cura di Simona Guerra; Bruno Mondadori, Milano 2011; pagina 5].
In ricordo Atene; l’eroe della resistenza greca Manolis Glezos; le sedute del Tribunale Russell a Stoccolma per i crimini commessi contro la popolazione vietnamita durante la guerra; e torna sui luoghi della memoria di queste storie di impegno e di lotta, come nel reportage realizzato in Spagna pensando agli anni della guerra civile o come in quello sulle Langhe di Cesare Pavese. Fotografa anche il mondo intellettuale, quello del cinema, le avanguardie del teatro, ma con poche concessioni alla mondanità, in quella che è sempre una ricerca di dialogo, di confronto con uomini e donne animati dalla sua stessa coscienza civile. E poi coglie il lato lieve della
vita, la dolcezza della condivisione, gli affetti e gli incontri, come un chansonnier. Enigma per i maîtres à penser della fotografia europea, che, forse proprio per la sua indifferenza verso la ricerca stilistica, non sono mai riusciti a classificarne il percorso e le scelte, sostenitore di una fotografia che vive nel tempo della sua attualità, della sua pubblicazione su un giornale, tanto da rifuggire per anni dalle mostre e dai libri fotografici e da non essersi mai curato del suo archivio, Dondero è dunque un freelance che rifiuta da sempre di applicare la logica commerciale al reportage giornalistico, per continuare a viaggiare da indi-
pendente, «perché i fotografi sono delle redazioni viaggianti, dei pensieri costanti, degli inventori di storie che senza la solitudine o qualche fortunata agenzia con cui esista una sorta di dialogo e di stimolo non possono operare» [da una intervista rilasciata agli autori, il 18 gennaio 2002]. In un suo scritto degli anni Ottanta leggiamo: «Mentre diventano sempre più labili i confini fra giornalismo e pubblicità, la fotografia testimonianza sta perdendo terreno nei confronti della fotografia spettacolo. Cresce magari la finizione tecnica, l’involucro estetico, ma si fa debole il discorso interiore. Il documento semplice e duro lascia il posto al-
C
C’è più verità in un atto d’insubordinazione che in tutte le fotografie del mondo, e tutte le fotografie del mondo non valgono un caffè con un amico o un colpo di pistola preso al cuore per la conquista di una società di liberi e uguali. Se la fotografia della stupidità (digitale o analogica è la medesima cosa) non rassomigliasse perfettamente al talento, al progresso, alla speranza o all’arte fotografica per tutti... nessuno vorrebbe essere stupido. Con una macchina fotografica da esibire nello spettacolo infame, cialtrone, vigliacco che gli stupidi della fotografia (amatoriale o professionale) celebrano perfino al cesso... tutti si sentono artisti, e mostrano a ogni sfogliata dell’industria culturale o elettorale (sempre più penosa) che il confine tra stupidità e vanità è banalizzato per il fatto che solo gli ironici, i cinici o i liberi pensatori hanno il pudore di nasconderlo. Insomma, dietro un bel fotografo c’è spesso un bello stupido. Ci sono fotografie che -malgrado la loro banalità espressiva- raggiungono il riconoscimento mercantile di Christie’s, oppure -con la loro ferocia- acquisiscono il Premio Pulitzer. Una fotografia di Andreas Gursky (Rhein II, stampata nel 1999) è stata battuta da Christie’s, a New York, per oltre quattro mi-
Mario Dondero nel ricordo di Vauro, per il Fatto Quotidiano.
lioni di dollari. Si tratta di una veduta del fiume Reno, incastonato tra due sponde verdi e il cielo piovoso; l’immagine di Andreas Gursky è di una stupidità estetica di non poco conto [ FOTO graphia, aprile e giugno 2012]. Il fotogramma di un qualsiasi film western di John Ford o una sola immagine (imperfetta) di donne e uomini in rivolta della Rivoluzione dei gelsomini bastano a gettare tutta l’arte fotografica di Andreas Gursky nella pattumiera, e restituire alla storia la verità che le compete. E dire la verità in ogni campo della comunica-
zione è un atto rivoluzionario. Rhein II ha spodestato un’altra fotografia della stupidità celebrata, Untitled #96, dell’americana Cindy Sherman, battuta all’asta, sempre da Christie’s, lo scorso maggio 2011, per 3,89 milioni di dollari [ FOTOgraphia, giugno 2011]. L’immagine raffigura una ragazzina con una maglietta arancione, una gonna bianca e arancione appena sollevata sulle cosce (le gambe non si vedono), ha una mano quasi chiusa vicino alla testa (si notano le unghie laccate di rosso) e nell’altra, appoggiata su una gamba, tiene un
l’illustrazione elegante, alla macchia cromatica fine a se stessa. Quella che Willy Ronis chiama la photo humaniste, la concerned picture cara a Simon Guttmann, la “foto d’impegno civile”, come la si è chiamata in Italia, mi sembra perdere punti nei confronti di immagini nelle quali l’attenzione è volta ad altri temi, ad altri interessi» [Mario Dondero; 33 Edizioni, Fermo 1986]. Di questa photo humaniste Mario Dondero rimane oggi uno dei sempre più rari, irriducibili interpreti. ❖ Uliano Lucas e Tatiana Agliani (da La realtà e lo sguardo; Giulio Einaudi Editore, Torino 2015)
pezzo di carta (una pagina strappata dall’elenco del telefono). Il pavimento è di mattoncini giallo-oro, la bocca appena dischiusa e le labbra dipinte con rossetto rosso, lo sguardo perso verso qualcosa lontano. Quando i fotografi non hanno niente da dire, non hanno una visione autentica di ciò che fanno. Non si parla che di letteratura; è difficile trattenere il vomito di fronte a tanta stupidità applicata alla fotografia. Il mercato dozzinale d’alto bordo che compra l’arte, anche la più infima, è il medesimo che ri/produce un’umanità di Bibbie e cannoni. Anche la fotografia con la quale Kevin Carter ha vinto il Premio Pulitzer nel 1994, Stricken child crawling towards a food camp, scattata in Sudan, che per molti rappresenta il simbolo della carestia e dalle fame nel mondo... a noi sembra invece esprimere una visione “cannibalesca” della verità. È un giorno di marzo del 1993, il fotogiornalista Kevin Carter vede una bambina poco distante dal suo villaggio, che sta morendo... un avvoltoio la segue, in attesa di farne il pasto. Il fotografo aspetta il momento decisivo, e dopo una ventina di minuti scatta. Poi va sotto un albero a parlare con Dio e pensare a sua figlia (racconta lui). Quando gli fu assegnato il pre-
11
In ricordo stigioso Pulitzer, e i giornalisti chiesero che fine avesse fatto la bambina, Kevin Carter non dette alcuna risposta. Pochi mesi dopo, il 27 luglio 1994, scrive una lettera alla figlia e alla moglie, dalla quale si era separato, e si lascia morire con il gas, nella sua automobile. Aveva affermato: «Sono rimasto sconvolto, vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi, la gente ha iniziato a parlare di quella fotografia, così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato testimone di qualcosa di così orribile non è stato necessariamente un male». Dipende dal modo di come si fa o si evita di fare una fotografia. Fotografare significa disfarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, spargere i propri segreti là dove la verità e la bellezza contengono la giustizia sociale. Fotografare è una provocazione, una visione altra della realtà che si situa oltre ciò che è, e denuda ciò che sembra essere. La fotografia della violenza contiene il vocabolario della stupidità. Il calendario Lavazza (il caffè che prende san Pietro per grazia di Dio) è solo un esempio del cattivo edonismo nel quale versa la fotografia del simbolico mercantile. Per festeggiare la ventesima edizione del calendario che magnifica il successo della compagnia, i padroni del caffè hanno riunito dodici celeberrimi autori dell’immagine patinata (Erwin Olaf, Thierry Le Gouès, Miles Aldridge, Marino Parisotto, Eugenio Recuenco, Elliott Erwitt, Finlay MacKay, Mark Seliger, Annie Leibovitz, Albert Watson, David LaChapelle, Ellen von Unwerth), The Lavazzers, appunto, firme che hanno reso grande negli anni il calendario Lavazza. L’entusiasmo è di quelli epocali. I fotografi si sono autocelebrati con un autoscatto, e hanno stretto il loro rapporto più intimo con l’immagine pubblicitaria del caffè Lavazza, dicono. La regia accorta è dell’Agenzia Armando Testa (gente che sa cosa vuole il pubblico più abbiente e dirige i bisogni/consumi dei
12
naufraghi da supermercato). Una messe di fotoamatori o fotografi dell’ascesa all’olimpo consumerista trasecolano di tanta sapienza estetica. Tuttavia, il calendario è brutto forte e le sante intelligenze della fotografia riescono a far sognare l’immaginario di tutti i mondi fotografici possibili, quelli che danno diritto di cittadinanza alla sregolatezza controllata e all’educabilità del consenso nel confortorio di una continuata compiacenza foto-televisiva. Prendiamo solo l’autoritratto di Annie Leibovitz. La fotografa newyorkese ha una Fujifilm X100 al collo, è seduta su una roccia, in un letto di fiume, con tanto di stivaloni da pescatore... tiene una tazzina di caffè Lavazza, in una mano, e nell’altra il cucchiaino per girare lo zucchero. Si autosserva (autocompiace): sembra dire che la vita è bella e una felice ignoranza prolunga l’esistenza dei consumatori di ogni merce (ma non ci crede nemmeno lei). Annie Leibovitz pare non sapere, e forse non lo sa davvero, che la fotografia del presente è la sola verità possibile (come insegnano le immagini scippate alle rivolte arabe, prese dagli stessi protagonisti dell’insurrezione con telefoni cellulari, macchine usa-e-getta, videocamere, fatte girare nei social network di tutto il mondo) e cogliere al momento le rose (la bellezza) della vita, Orazio diceva. Sempre lei ha celebrato le magie espressive dell’iPhone 4s (con funzione fotografica incorporata, da otto Megapixel): «Sto ancora imparando ad usarlo -ha annotato, in un fuori onda sul canale statunitense Msnbc-, ma è certamente la macchina fotografica punta-e-scatta dei nostri giorni. È una penna, una matita, un notebook», con il quale fotografi e principianti potranno magnificare le chimere private e pubbliche della società postmoderna. Annie Leibovitz non arriva ad affermare questo, ma è a ciò che l’insieme del suo fare-fotografia mira e fomenta sacche di cadaveri che scattano fotografie. Tiriamo corto. La desertificazione della coscienza e dell’intel-
ligenza fotografica passa proprio dall’adorazione di questi frequentatori di illusioni estetiche/etiche. Solo i buoni poeti (in ogni forma d’arte) si fanno interpreti della bellezza autentica e restituiscono alla storia dell’Uomo, della Donna, ciò che li percorre, li abita e li ossessiona fuori dalla sacralità dei mercati dell’arte. Prima di tutto, i grandi fotografi saccheggiano le corpografie del reale, e attraverso l’ironia, la disobbedienza e il conflitto raggiungono la verità come formazione ideativa, depositaria di saggezze ereticali. La fotografia del vero, del buono, del bello è un tragitto ludico o abrasivo, che porta alla gioia dell’immediato che s’intreccia col giusto. Ciò che non la uccide (la fotografia della bellezza), la fortifica. La macchina fotografica non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide a diventare artisti. Anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani di persone intelligenti a diventare testimoni autentici della propria epoca (alla maniera di Umberto Eco). La bellezza autoriale di Mario Dondero non sempre è stata compresa; nemmeno la sua inclinazione comunarda della realtà è stata molto studiata. Tuttavia, l’affabulazione fotografica di Mario Dondero lascia tracce indelebili del proprio valore di uomo impegnato nel rilevare il disagio sociale e il dolore quotidiano che buca l’ingiustizia generale. Infatti, la nobiltà delle sue immagini mostra che la bellezza è un aspetto della giustizia, e una società dove a molti manca il pane non va sostenuta, ma abbattuta. L’abbiamo detto altrove e lo grideremo sempre (con le parole di un grande filosofo/psicologo, James Hillman): «Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione» nelle strade della Terra. Un’annotazione necessaria (della quale potremmo anche fare a meno): Mario Dondero è uno dei maggiori fotogiornalisti italiani. Nasce a Milano, nel 1928, e negli anni Cinquanta inizia a lavorare per l’Unità, l’Avanti!, Milano sera, Le Ore. Frequen-
ta il Bar Jamaica (nel quartiere di Brera), dove si incontra con fotografi e intellettuali non proprio intonati con la cultura dominante (Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Carlo Bavagnoli, Ugo Mulas, Uliano Lucas). Nel 1955, va a Parigi, e le sue fotografie appaiono sulle pagine di L’Espresso, L’Illustrazione italiana, Le Monde, Le Nouvel Observateur; conosce Roland Topor, Claude Mauriac, Daniel Pennac; fissa nel tempo l’immagine del gruppo di scrittori del Nouveau roman (Nathalie Sarraute, Samuel Beckett, Alain RobbeGrillet, Claude Mauriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier, Gérard Bessette, Michel Butor, Marguerite Duras, Robert Pinget, Jean Ricardou); la sua ritrattistica africana è pubblicata nelle riviste Jeune Afrique, Afrique Asie, Demain l’Afrique; fotografa con grazia Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini (ma sono tanti i ritrattati dell’intellighenzia nobile, borghese fissati dal suo obiettivo). La curiosità documentale, porta Mario Dondero in giro per il mondo, e il suo sguardo singolare, il gusto per la bella/scevra inquadratura, lo iscrive a pieno nella Storia autentica della fotografia italiana. Nella figurazione antropologica di Mario Dondero -e l’impeto libertario che la sostiene (le indagini del Tribunale Russell, gli scatti in Afghanistan, le torture in Algeria, fino a girare un documentario sui Griots, in Africa)- si coglie l’attenzione e lo sforzo (sovente il coraggio) di comunicare la giustizia, la verità e il bene comune negato agli esclusi della Terra. La visione comunarda di Mario Dondero sembra dire che la verità abita l’uomo interiore, e quando i più l’avranno scoperto si riverserà fuori, nel mondo in rivolta. La nascita di una società libera e giusta sboccia da una rinnovata resistenza che si traduce in disobbedienza civile. Per Mario Dondero, «La fotografia è un magnifico strumento per raccontare, coglie situazioni
In ricordo che le parole non possono comunicare. Ciò che intendo è che non mi interessa l’aspetto tecnico o artigianale della fotografia, che non mi interessa l’estetica, ma il contenuto delle fotografie. Mi basta raggiungere una capacità tecnica sufficiente per raccontare delle storie. Penso che il fotogiornalismo sia l’espressione più alta della fotografia, e sono convinto che sia più importante pubblicare su un giornale che allestire una mostra. Scomodare l’identificazione arte per il reportage mi sembra eccessivo, anzi direi che troppo talento artistico nuoce al racconto». Tutto vero. Del resto, le turbolenze generazionali che emergono ai quattro venti della Terra gli danno ragione. Ribadiamolo: gli insorti del nuovo millennio, che hanno fotografato se stessi, le morti dei loro cari, l’arroganza dei potenti che li tenevano a catena come
schiavi... con immagini sgranate, sghembe, sfocate riprese con telefonini, videocamere, apparecchi amatoriali, hanno mostrato il valore d’uso della fotografia sociale meglio dei fotoreporter blasonati della celebrata carta stampata o delle televisioni. A leggere con attenzione le fotografie di Mario Dondero -non solo quelle d’impegno civile-, si resta affascinati dalla tanta bellezza e senso di giustizia che contengono. Ci salgono agli occhi i contadini del Sud italiano, ritratti di donne di ogni-dove, operai col sorriso aperto verso nuove primavere di bellezza, bambini raffigurati in allegre speranze di vita buona. Sotto ogni taglio, questa scrittura fotografica rimanda a utopie mai dimenticate e, a ben guardare, invita a raccogliere l’azione, la resistenza, fino alla rivolta come esistenza etica, che sfocia in disobbedienza civile.
Le mostre, i libri, gli incontri pubblici confermano e rinnovano la coscienza sociale di questo fotografo anomalo. La sua opera intera lo incarna come un “maestro di civiltà”, che nulla o poco ha a che fare con la superbia e l’ignoranza propria ai servi contenti della fotografia mercantile italiana. I fotografi della cultura oscurantista (dell’indifferenza) passano, i poeti dell’iconografia della bellezza popolare restano. «La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza. Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa presero le armi» (Albert Camus diceva). La trattazione fotografica di Mario Dondero riprende la visione libertaria di Henri Cartier-Bresson (ma è solo un esempio) e denuda l’iconologia dell’osceno fotografico nel quale siamo immersi: mette a fuoco, con esattezza, il cuore della tragedia della società dello spet-
tacolo e rompe la relazione tra il mercimonio dell’immagine e il consenso mediatico che abbrutisce l’immaginario collettivo. La fotografia in amore (o dell’anima bella) di Mario Dondero ha la capacità di fissare nella quotidianità i valori e i disvalori disseminati in ogni forma di comunicazione (religiosa, politica, culturale). È un percorso esperienziale che fa buon uso dell’indignazione, per disvelare le fonti dell’ingiustizia impunita (che ciascuno dovrebbe approfondire e portare avanti per sradicare il brutto e il falso dal proprio sentire). Nessuna giustizia e nessuna bellezza può essere sovrana se non è del popolo. La bellezza è la forma compiuta della bellezza. Il divenire di una società di liberi e uguali è tutto qui. ❖ Pino Bertelli (da FOTOgraphia, luglio 2012)
Pellegrinaggio
testo e fotografie di Guido Tosi - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIA SILENTE
M
Molto si è detto e scritto sul film BlowUp, di Michelangelo Antonioni, del 1966, e -probabilmente- queste mie annotazioni non aggiungono nulla di nuovo alla vicenda cinematografica per se stessa. Tuttavia, ritengo opportuno esprimere e condividere una mia piccola esperienza, che certifica un atto di amore verso la fotografia e il cinema. Con il racconto di un appassionato -questo lo devo sottolinearesi percorre un tragitto, un itinerario assolutamente individuale e personale, estraneo a qualsivoglia ipotesi di fredda e asettica relazione filologica. In preparazione a un viaggio a Londra, riguardando per l’ennesima volta il film, mi sono stupito del ruolo da protagonista che il silenzio ha nella ricostruzione cinematografica di Michelangelo Antonioni. In precedenza, pur avendo visto e rivisto più volte BlowUp, non avevo considerato questo aspetto con la giusta attenzione. A voler essere precisi, e armandosi di un cronometro, si potrebbe calcolare la percentuale esatta di silenzio in contrapposizione a suono/dialoghi/ musica del film, ma il conforto delle cifre nulla aggiungerebbe alla stima di massima e all’impressione ricevuta. Senza timori, si può affermare che più della metà del film è in silenzio, o riporta soltanto i suoni dell’ambiente: il vento nel parco, il ritmo degli scatti a Veruschka, in sala di posa, il silenzio della camera oscura, fino all’onirica scena finale dell’incontro di tennis tra mimi. Tanti silenzi, che accompagnano nel migliore dei modi le immagini del film. Paradossalmente, perfino il chiassoso siparietto degli Yardbirs è funzionale a questa cadenza: ancora e in conferma, fa da contrappunto ed esalta il silenzio. Addirittura, il pubblico che si esalta solo quando Jeff Beck scaglia dal palco quello che resta della propria chitarra appena distrutta, conferma la modulazione del silenzio, sottolineato dal momento nel quale lo strumento che genera suoni viene meno. Poi, il protagonista Thomas (interpretato dall’attore David Hemmings) sopravanza tutti e riesce a raccogliere il manico della chitarra; se lo porta via,
14
Pellegrinaggio a Maryon Park, di Londra, dove sono state ambientate le sequenze iniziali e finali del film Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, del 1966.
Pellegrinaggio DUBBI
Riguardando attentamente la scena di Blow-Up, in camera oscura, durante la quale il protagonista Thomas stampa freneticamente ingrandimenti di dimensioni sempre più grandi delle fotografie scattate al parco, si nota la presenza di copie bianconero con inquadratura indubbiamente grandangolare.
In combinazione, altre stampe presenti nella medesima circostanza sono più vicine all’inquadratura del 50mm (circa). Ancora, nel proprio insieme, paiono più visioni derivate dalle riprese cinematografiche, che fotografie effettivamente scattate con la Nikon F ipotizzata. Non sono riuscito a individuare l’obiettivo montato sulla Nikon F, ma escluderei i grandangolari esasperati; potrebbe essere qualcosa tra il 50mm e il 105mm. Però, quando Thomas ripone la macchina fotografica, individuo il 50mm f/1,4, inconciliabile con gli ampi campi di visione dei negativi che poi stampa. Ma, comunque, tutte queste considerazioni sono superflue, quando e per quanto concediamo al cinema un margine di interpretazione/adattamento della realtà, in funzione delle proprie esigenze narrative.
15
Pellegrinaggio salvo liberarsi del feticcio appena fuori dal locale, dove viene raccolto da un passante e ancora abbandonato. Insomma, le interpretazioni sono infinite. Ma ora, lasciamo da parte il silenzio e torniamo alla fotografia. Per chi ama il cinema, per chi ama visceralmente un film, non credo possa esistere emozione più grande che visitare i luoghi dove è stato girato. Vi invito a provare. Dal centro di Londra, con i mezzi pubblici, si raggiunge Maryon Park (dove si svolgono le sequenze iniziali di Blow-Up, che danno avvio alla riflessione sceneggiata) con un viaggio di un’ora circa. In metropolitana, usando la Jubilee Line, si arriva alla fermata di North Greenwich; poi, con i bus 161 o 472 si va a Woolwich Road. Il parco inizia subito, ma nel caso ci si dovesse perdere, si chiedano indicazioni per i tennis courts, quelli utilizzati nella scena finale del film. Durante la mia visita/pellegrinaggio, per evocare le inquadrature del film, ricreandole, mi sono servito dell’aiuto di un amico, al quale ho assegnato il ruolo di Thomas (il fotografo protagonista). Avrei dovuto prepararmi meglio, stampando le singole inquadrature, ma il tempo a mia disposizione era relativamente poco e l’emozione troppa... per seguire uno schema: sono andato a memoria. Comunque, avendo visto più volte il film, il ricordo non mi ha tradito. Non avendo a disposizione una Nikon F (reflex visualizzata nel film), ho fornito l’amico di una Olympus OM10; per i miei scatti, ho usato la mia amata Minolta SR-T 101; le pellicole bianconero Fomapan 200 e 400 sono state sviluppate in Caffenol. Si inizia con l’ingresso al parco, dove i quattro alberi visualizzati nel film sono ancora lì (mentre il negozio antiquario, nel quale Thomas si sofferma prima di entrare nel parco, è ora occupato da un’altra attività commerciale). Dopo qualche passo, si raggiunge il pianoro dove si trovano i campi da tennis, ai quali torneremo alla fine del cammino. Guardando i campi da tennis, sulla sinistra, si intravede il piccolo promontorio, dove Thomas osserva i due innamorati che si arrampicano verso l’alto. Con facilità, si individua la salita sulla destra che il fotografo protagonista affronta con un paio di salti poco aggraziati, che il mio ami-
16
Pellegrinaggio co/figurante ha replicato in modo un poco più armonioso. A questo punto, pochi gradini separano dalla radura iconica presso la quale Thomas trova Jane (interpretata da Vanessa Redgrave) e il suo amante, e inizia a fotografarli. Difficile descrivere l’emozione provata. La tranquillità e il silenzio del parco contrastano in modo ambiguo con il sottofondo di violenza e cupa illusione di Blow-Up. È un luogo magico: tutto quello che succede nel film forse non succede davvero (nel film), e quindi -in un certo modo- approdiamo a un momento nel quale il visitatore ha l’effettiva sensazione di trovarsi in un luogo dove si è compiuto un crimine. Ecco il colpo d’occhio, magnifico, sublime e potentissimo! Il prato dove tutto -o, forse, niente- si svolge: punto centrale/focale della narrazione del film. Mi ha accolto lo stesso brusio di vento che si percepisce nel film. È un momento magico.
Cosa è cambiato? Fortunatamente, i due alberi ai quali Thomas si appoggia per fotografare ci sono ancora: monumentali (passatemi la certificazione). Però, ora, mancano i due alberi sul lato sinistro della radura (guardando dal lato opposto a quello di accesso) e manca anche la recinzione dove (forse) si nasconde il killer (se un killer esiste davvero); purtroppo, non ci sono più nemmeno l’albero e il cespuglio in fondo alla radura, presso i quali, in un secondo momento, dopo lo sviluppo delle pellicole e l’analisi dettagliata degli ingrandimenti (da cui, Blow-Up / ingrandimento), Thomas andrà a cercare il cadavere (se un cadavere esiste). Peccato. Ovviamente, l’ultima tappa del pellegrinaggio mi ha riportato al campo da tennis. Personalmente, la sequenza di gioco tra mimi l’ho sempre considerata eccessiva e fuori luogo/tempo, inserita nella vicenda soprattutto per rimarcare ancora un concetto or-
mai chiaro: infatti, già tutto il film è denso e risolto; quindi, a mio avviso, si regge anche senza quei quattro minuti di girato estremamente onirico. Ma lasciamo queste considerazioni ad altre istanze: quello che mi ha intrigato è che i campi da tennis sono ancora nel parco, e vi si può addirittura entrare. Dunque, l’ultima mia fotografia in rievocazione, che conclude il mio pellegrinaggio laico, compone il mio figurante (nei panni di Thomas) in mezzo all’area sulla quale Michelangelo Antonioni conclude il film con un allontanamento verso l’alto. È ora di lasciare il parco: piove e fa freddo a Maryon Park. Silenzio e fotografia. Non potrei consigliare nulla di meglio; quindi, se passate da Londra, ritagliatevi tre ore per visitate questo luogo. A mio avviso, Blow-Up a parte, oppure Blow-Up nel cuore, Maryon Park è decisamente più singolare, stimolante, vivo ed emozionante di altri indirizzi soltanto turistici. ❖
Lettera al direttore di Beppe Bolchi (e, poi, Maurizio Rebuzzini e Franti)
E
FRANCESCA DEGLI ANGELI
E
Egregio direttore, carissimo Franti... leggendo sempre con curiosità, attenzione e molto interesse la vostra rivista, non potevo non soffermarmi sull’articolo relativo alla recente inaugurazione di Camera - Centro Italiano per la Fotografia, a Torino [FOTOgraphia, dello scorso novembre, a doppia firma]. Le vostre puntualizzazioni e approfondimenti sui legami con la città di Torino sono -come sempre- puntuali e illuminanti. La Storia e la Cultura della Fotografia passano sicuramente anche attraverso tali dettagli e queste trasversalità. Però, devo contestare la vostra visione sulla scelta dell’autore presentato in così pompa magna, proprio in occasione dell’inaugurazione di questo Centro, che si propone di diventare punto di riferimento per la Fotografia in Italia e per la Fotografia Italiana. Non contesto, certo, Boris Mikhailov e il suo lavoro sull’Ucraina, ma, altrettanto certamente, il fatto che si sia voluto celebrare un autore e il suo lavoro politico e sociale e non già la Fotografia. Oh, certo, è stato fatto attraverso fotografie; però, attorno un tema di attualità politica internazionale. Distinzione troppo sottile? Non per me: prova ne sia che non è stato realizzato un catalogo della mostra, ma una monografia propriamente celebrativa dell’autore, a rafforzare l’intenzione di proporlo come “Autore”, indipendentemente dalle immagini proposte ed esposte a contorno del sontuoso avvio di Camera. Trattandosi di una iniziativa privata, certamente, le relative scelte editoriali e museali non andrebbero discusse (forse), ma bisognerebbe solo accettare o rifiutare (forse): ognuno è libero di andare o non andare a visitare la mostra, ma questa opzione legata al soggetto proposto è palesemente in contrasto con la volontà dichiarata di proporsi come “Centro Italiano per la Fotografia”, o, addirittura “Casa della Fotografia Italiana”, come qualcuno ha già voluto accondiscentemente definirla e identificarla. Domanda inevitabile, almeno per me: abbiamo proprio bisogno di autori stranieri, pur validi, per valorizzare la Fotografia in Italia?
EMANUELE BENINI
A PROPOSITO DI... CAMERA
Voi affermate che non sarebbe stato possibile presentare alcun autore italiano, se non con una antologica o una retrospettiva, in quanto non ci sarebbero lavori analoghi di un certo peso. Può darsi. Ma, sicuramente, ci sono lavori di spessore verso i quali una minima conoscenza delle proposte italiane avrebbe potuto rivolgersi, fino a considerarli meritevoli di esposizione, in forma d’avvio/inaugurazione solenne. Consentitemi una motivata opposizione al direttore e ideatore del progetto di Camera, che -in occasione di un incontro preventivo per parlare di una iniziativa volta alla ricerca e promozione dei fotografi italiani- consigliò caldamente di mettersi a indagare, girando l’Italia e le millanta iniziative fotografiche, per scovare e mettere in vetrina quelle meritevoli. Certo... è proprio quello che bisognerebbe fare, ma proporlo ad altri (dalla cattedra di tanta istituzione solenne) e non compiere il minimo sforzo per conoscere più da vicino le tantissime proposte autoriali che si esprimono nel nostro paese, significa proprio predicare bene e razzolare male. Soprattutto da parte di chi vanta e ostenta una competenza
Beppe Bolchi, uomo-sandwich in visita ad Arles 2014: La Photographie italienne est vive. Vive la Photographie italienne. Attenzione, e sia detto: non si tratta della sola iniziativa che Beppe Bolchi ha svolto e svolge a favore della valorizzazione della fotografia italiana, argomento che persegue coerentemente da anni e anni, ma, concetamente, una delle tante. In un certo modo, tra le più appariscenti; in altra intenzione, una... tra le tante. Mai troppe!
sublime, ed è stato capace di ottenere un supporto politico e il sostegno di sponsor autorevoli e disponibili (fosse anche soltanto in termini finanziari). Nella vostra individuazione dei legami con la città di Torino, voi non avete incluso una realtà molto importante della Fotografia in Italia, rappresentata dalla Federazione Italiana delle Associazioni Fotografiche. Ecco, la Fiaf è nata e ha sede proprio a Torino e rappresenta una componente fondamentale della Fotografia Italiana. Riunisce centinaia di circoli fotografici e migliaia di fotografi associati; ma, soprattutto, ha varato e vara iniziative fotografiche di larghissimo respiro, pur tendendo a non farlo sapere in giro, quasi si abbia timore di dimostrare la propria importanza e il proprio valore (tutto meritato). Una minima conoscenza del mondo della fotografia in Italia non può non essere consapevole di tutto ciò. Perché cito questo? Per tornare allo spunto iniziale: proprio per esprimere il rammarico che non siano stati presi in considerazione -e, comunque, non proposti- progetti di grande valore, a partire dal maestoso e affascinante programma Le immagini del Gusto, che ha coinvolto un migliaio di autori Fiaf (e dintorni), che hanno agito con competenza e dedizione assolute. L’alternativa c’era: almeno una e certamente autorevole e avvincente. Novecento autori coinvolti, sedicimila immagini proposte, mille quelle esposte in occasione della mostra svoltasi a Bibbiena, nel 2008, duecentocinquanta mostre locali, un catalogo generale con circa seicento fotografie, diversi cataloghi regionali, tutti ben stampati e disponibili. Questa è Fotografia, la fotografia dell’Italia del Cibo, guarda caso proprio il tema di Expo (viene il sospetto che Expo sia stato considerato non di sinistra?). Questa è Fotografia, realizzata da fotografi italiani autoctoni, tra i quali, magari, scoprire autori e talenti che non siano tra quei trentacinque che da altrettanti trentacinque anni vengono proposti e riproposti, mortificando tutti gli altri. Che grande apertura sarebbe stata!
19
Lettera al direttore
20
PER LA
CAMERA - CENTRO ITALIANO
Altrettanto caro Beppe Bolchi -indipendentemente dalle nostre frequentazioni private e/o dalla tua apprezzata partecipazione alla stesura delle nostre pagine [per esempio, su questo stesso numero, da pagina 40]-, riceviamo, leggiamo e con intensa adesione rispondiamo. In linea di massima, potremmo anche allinearci sulle tue nobili posizioni, sempre declinate verso la valorizzazione della fotografia italiana. In questo senso, ricordiamo ancora qui la tua iniziativa svolta nel corso dei Rencontres d’Arles Photographie 2014, dove e quando ti sei “esposto” (in tutti i sensi) come uomo-sandwich per sottolineare che “La Photographie italienne est vive - Vive la Photographie italienne” [ FOTOgraphia, settembre 2014]. Ancora, dal nostro privato comune, siamo testimoni della tua convinzione e passione per questo stesso discorso, da te inteso e interpretato senza compromessi, né negoziazioni. Dunque, anche per quello spirito che ci fa comprendere e rispettare il diverso (da noi), ti siamo sempre vicini e solidali... ci mancherebbe altro! Però, la Riflessione, l’Osservazione e il Commento giornalistici che promettiamo nel colophon della rivista, sul quale pochi, forse, si soffermano, presuppone un passo e una considerazione mediata tra il nostro Io (il nostro Noi) e il resto, e il tutto. Cerchiamo di spiegarci meglio (sperando di riuscire a farlo), per motivare -non giustificare, sia chiaro- il nostro modo di intendere il colloquio con la lettura delle nostre pagine. Personalmente, siamo consapevoli come e quanto la scrittura, e nello specifico la nostra scrittura, sia sem-
FOTOGRAFIA (2)
Eccomi, egregio direttore, carissimo Franti, al di là degli indubbi meriti di Boris Mikhailov e la validità delle sue immagini, l’iniziativa di Camera -se davvero fosse il Centro Italiano per la Fotografia- avrebbe inaugurato con una mostra Italiana, sull’Italia e realizzata da fotografi italiani. Quanti sorrisi e apprezzamenti avrebbe ottenuto! E, certamente, si sarebbero potute scoprire anche altre pregevoli iniziative e autori meritevoli. Purtroppo... una occasione persa. Una grande occasione persa. Cordialmente. Beppe Bolchi
Camera Centro Italiano per la Fotografia (via delle Rosine 18, 10123 Torino; 011-0881150; www.camera.to, camera@camera.to) ha inaugurato la propria attività con la mostra Boris Mikhailov: Ukraine, che ha stabilito subito una visione globale, estranea a qualsivoglia chiusura territoriale. Da una parte, questo è. Da altro punto di vista, il visitatore generico -estraneo al dibattito propriamente fotografico, con tutte le proprie sfaccettatureè stato richiamato dall’argomento, prima che dall’autore. E questa la leggiamo come intenzione «per la Fotografia»: qualsiasi cosa questo possa significare.
pre un esercizio individuale: volente o nolente. Idealmente, non si discosta da alcun altro indirizzo di vita, che ciascuno interpreta sulla scorta delle proprie esperienze e nella proiezione delle proprie visioni e intenzioni. Quindi, la scrittura non può mai prescindere dall’osservazione educata individualmente, e maturata in riflessioni, rilievi, esplorazioni. Allo stesso momento, per quanto individuale, la stessa scrittura giornalistica ha referenze meno personali, che le conferiscono caratteri particolari. Sì, Beppe, siamo soltanto responsabili di ciò che scriviamo, non di quanto il lettore capisce (e lo abbiamo certificato in altre occasioni, a questa precedente), ma siamo altresì responsabili del clima e delle atmosfere che le nostre parole possono sollecitare. Da cui e per cui, preso atto delle tue altre opinioni al proposito, non ce la sentiamo proprio di allineare il progetto fotografico-sociale di Boris Mikhailov alla pur lodevole iniziativa Fiaf riguardo Le immagini del Gusto. Lo spessore autoriale delle due serie fotografiche non è comparabile, non percorre lo stesso tragitto, non propone le medesime considerazioni.
Diverso, poi, è il discorso sull’inaugurazione di Camera - Centro Italiano per la Fotografia, di Torino. Anche in questo caso, abbiamo già rilevato che si tratta di questo, e non di un “Centro per la Fotografia Italiana”, né di un “Centro Italiano della Fotografia”, con tutte le differenze sostanziali che le rispettive declinazioni (che i rispettivi fonemi) implicano. Sì, anche noi avremmo gradito un esordio in chiave nazionale, ma non ce la sentiamo di rimproverare l’indirizzo internazionale, che sicuramente risponde a strategie e proiezioni che saranno chiare nel proseguo dell’attività espositiva e culturale di Camera, di Torino. Ciò a dire, Beppe, che ciascuno di noi ha le proprie ragioni: tu le tue, noi le nostre (in funzione giornalistica, che non è affatto distante da quella individuale, così come abbiamo relazionato in cronaca, in FOTOgraphia, dello scorso novembre: inutile ripetere). Come in molte altre nostre “dispute”, sempre serene, sempre lievi, sempre rispettose, sempre stimolanti, anche qui e ancora qui ci piace sottolineare una valutazione coerente. Nel nostro reciproco rispetto delle opinioni altrui, nella nostra reciproca attenzione per il diverso (qualsiasi cosa questo significhi), ciascuno di noi si è arricchito di un’altra visione, di un altro punto di vista. Ci domandiamo: cosa sarebbe la nostra vita, se non potessimo attingere al pensiero del prossimo? Sicuramente, sarebbe più misera. Per cui, grazie per le tue parole. Grazie per la tua franchezza. Grazie, Beppe, per quanto tanto fai a favore della fotografia italiana. Te ne siamo profondamente grati, e invitiamo tutti a considerare il tuo impegno. Per quanto riguarda le istituzioni private, e concludiamo, sai bene come e quanto noi si stia distanti da giudizi e anatemi. Infatti, non conosciamo le strategie, non siamo stati informati riguardo la progressione dei lavori, non possediamo termini di merito e/o demerito. E, poi, comunque sia, siamo buonisti e speranzosi: in qualcosa che -finalmente!- ribalti i termini del nostro provincialismo culturale (anche fotografico, ma non soltanto), per attivare visioni a tutto tondo prive di qualsivoglia modesta autoreferenzialità. Ci speriamo proprio. Ciao. ❖ Maurizio Rebuzzini (Franti)
PARADISI PERDUTI di Antonio Bordoni
T
erzo premio nella categoria Architecture (Architettura) ai recenti Sony World Photography Awards 2015 [FOTOgraphia, giugno 2015], il progetto Paradise Discoteque, del bravo e autorevole Antonio La Grotta, è stato penalizzato da una curiosa interpretazione della giuria, che ha gratificato altro: una serie svolta con molta meno capacità visiva, peraltro sostanziosamente fuori tema, o -comunque sia- sostanziosamente estranea alla categoria di riferimento. Ammesso e concesso che ogni sentenza debba essere accettata, per quanto non necessariamente condivisa, rimane l’amarezza per un riconoscimento
minore a una serie fotografica di alta espressività e rigorosamente osservante degli stilemi propri e caratteristici della comunicazione e intenzione fotografica. Giusto applicando il linguaggio proprio e caratteristico della fotografia, composto da infinite sfumature narrative, da centosettantacinque anni (ormai, abbondanti), disponiamo di fantastiche e inoppugnabili testimonianze visive sulla vita nel proprio svolgersi. In questo senso, pronta a proiettarsi sulla società tutta, la Storia della Fotografia è ricca di scoperte significative e di momenti di grandezza (forse) insospettabili. Sia quando svolge incarichi prestabiliti, sia quando è rivolta verso progetti individuali, la fotografia professionale ha sempre aiutato a scrivere pagine di grande valore sociale.
Suggestivo progetto fotografico, svolto da Antonio La Grotta con la consapevolezza degli stilemi visivi che definiscono la più efficace fotografia (d’autore). Documentazione sistematica di discoteche abbandonate, di luoghi dismessi, che in stagioni lontane hanno vissuto momenti di gloria e popolarità. La bellezza formale di queste inquadrature è anticamera di un mondo dissolto. Magistrale capacità della fotografia, che arriva a colpire le percezioni individuali 22
È il caso delle Paradise Discoteque, che Antonio La Grotta ha individuato soprattutto nelle regioni a nord del nostro paese: avvincente e convincente documentazione sistematica di discoteche abbandonate, di luoghi dismessi, che in stagioni precedenti hanno vissuto momenti di gloria e popolarità... quantomeno presso una certa e identificata categoria di persone, di pubblico. Il passo della narrazione di Antonio La Grotta è riconosciuto e subito svelato: se sono necessarie identificazioni certe, il suo fotogiornalismo di alto profilo è stato declinato e interpretato con gli stilemi propri e caratteristiche della fotografia di architettura. Agendo in questo modo, e facendolo con sostanziosa consapevolezza dell’essere e sapere (individuale e collettivo), Antonio La Grotta sottolinea ed evidenzia come e quanto la fotografia sia sostanzialmente definita da regole certe e usi arbitrari. Da cui, ecco qui soprattutto, visioni frontali / meridiane delle facciate di edifici ormai abbandonati, che raccontano di
24
se stessi e dei propri ruoli antichi (originari) più e meglio di tante altre considerazioni, di tanti altri allunghi visivi. Con Paradise Discoteque, Antonio La Grotta scandisce tempi e modi di inquietanti assenze: accenni, richiami, addirittura evocazioni. Ma, magistralmente, rappresentazioni fotografiche che fanno vibrare l’animo e le coscienze. Si associano idee, sentimenti e si sollecita la Memoria. Mediante la visibile “assenza”, il bravo e attento fotografo-autore applica una intelligente visione di taglio, di rimbalzo, di margine, che arriva ad essere più diretta della semplice raffigurazione di avvenimenti. È una riflessione lunga, profonda, che andrebbe commentata in spazi e luoghi opportuni. Qui, l’allusione serve soprattutto per collocare il progetto fotografico di Antonio La Grotta all’interno di un linguaggio radicato nella storia evolutiva della comunicazione visiva. Siccome la fotografia è un linguaggio comunque sia estetico ed estetizzante, che mette addirittura ordine nel dis-
ordine, che compone inquadrature affascinanti, Antonio La Grotta ha accelerato il concetto. Ha fotografato con l’ordine formale, la pulizia compositiva e il rigore estetizzante della più concentrata fotografia di... architettura. La prima reazione di fronte alle sue immagini è estetica: innegabilmente si è attratti e affascinati, sedotti addirittura, dalla bellezza e astrazione dei luoghi. Luci, colori, spazi, volumi e pesi sono distribuiti con ammirevole abilità. Si tratta -addirittura!- di fotografie... artistiche. L’emozione arriva presto al cervello, dopo aver attraversato il cuore. Tutta questa bellezza formale è anticamera di un mondo dissolto. Qui, in un tempo-spazio che si perde indietro nei decenni, si sono manifestate esistenze: le artificiose felicità di ieri sono controbilanciate dall’abbandono di oggi. Tutto questo è quanto la parola non riesce a dire, ma che l’immagine può evocare, ed è il vero segreto di queste fotografie che -come altre della contemporaneità- colpiscono le percezioni individuali.
26
Come il cinema, anche la fotografia è una comunicazione asemantica, che non può raccontare, analizzare, articolare in un discorso compiuto, ma che possiede maggior forza evocativa, maggior vigore epifanico: nella fotografia, perché l’operazione della ripresa contiene un tasso di involontarietà (ciò che esiste accanto al soggetto: il contesto, per l’appunto); nel cinema, perché il regista deve controllare ogni singolo angolo del contesto, e il grande cinema è quello nel quale l’ultima comparsa in fondo ha la faccia giusta e recita nella maniera giusta. Non provano nulla, cinema e fotografia. Neppure, malgrado tutto, spiegano o dicono, anche se raccontano. Ma evocano, fanno vibrare ciò che è stato, mettono in moto associazioni di idee, sentimenti, fanno sentire odori dimenticati: immergono la memoria nel contesto. Ed è questo che definisce, più che caratterizzare, il progetto Paradise Discoteque, di Antonio La Grotta. Tante grazie. ❖
INCANTO VISUALE
TRICOT CHIC ADV (2016)
Quando il reale non ci basta più, non è sufficiente, ecco giungere tra noi fantastici sognatori... capaci di manipolarlo e poi presentarlo come una novità: un mondo nuovo, sorretto da un’estetica d’incanto. Uno di questi creatori di mondi è il convincente Simone Nervi
N
TRICOT CHIC ADV (2012)
ato a Brescia, nel 1980, Simone Nervi diventa fotografo durante l’estate del 2002, quando -annoiato all’interno di una mostra senza visitatori- inizia a scattare autoritratti ben oltre l’orario di chiusura, finché lo sorprende una guardia giurata che gli punta contro la pistola. «Ancora due scatti, e sono da lei», gli risponde d’impulso Simone. Questo è l’avvio: otto anni dopo, viene scelto per realizzare le immagini dell’autorevole Calendario Campari 2010, per celebrare con Campari Milano quello che è uno dei riti della città -l’aperitivo-, con protagonista la Bond Girl Olga Kurylenko: dinamica, grintosa e rigorosa modella, come la città raccontata dalle dodici fantastiche immagini che hanno fatto il giro del mondo. Nel frattempo, Simone Nervi realizza campagne pubblicitarie per brand italiani e internazionali.
30
Fotografo e Digital artist e Comunicatore multimediale, Simone Nervi individua nella post produzione digitale la possibilità di varcare i confini della natura, per osare esplorazioni in terre lunari e paesaggi onirici, dove l’inconscio e l’improbabile sono regnanti silenziosi. Spiega: «Attraverso la creazione di un’immagine in qualsiasi ogni propria forma, cerco solo di rendere realmente naturale la situazione più inverosimile e incongrua». I suoi grandi ispiratori sono il Fellini di 8½, David LaChapelle della monografia fondante Hotel LaChapelle, Haruki Murakami con il suo fantastico romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie: rispettivamente, un regista, un fotografo e uno scrittore, maestri di una creatività che esplode, di rigurgiti subcoscienti che percorrono la strada dell’inverosimile, reso poi sublime nell’arte. Sulla loro scorta, Simone Nervi mostra l’incongruo, per usare un suo termine, avvalendosi della fotografia in evidente e consapevole e convinta post produzione digitale. (continua a pagina 37)
NYCE ADV (2014)
di Elisa Contessotto
WONDERLAND (2012),
DAL LIBRO
THE DARK SIDE &
THE
LIGHT SIDE
CALENDARIO CAMPARI (2010)
DOROTHY SHAW (2009) OF
THE TALES EARTH (2012) OF
THE SONS
(continua da pagina 30) La post produzione e il fotoritocco sono il mezzo per raggiungere il mondo immaginato e desiderato: «Con il digitale, la fotografia sta subendo lo stesso percorso che ha intrapreso la pittura tempo addietro: si sta lasciando alle spalle la sola rappresentazione della realtà, per raccontare un mondo più interiore, come la mente umana e il suo inconscio». Come un’Alice smarrita nel suo Paese delle meraviglie, anche il fotografo costruisce la propria strada e piega la realtà ai suoi canoni estetici. Ne risulta un mondo surreale, che esprime grazia, eleganza e una bellezza a tratti inquieta, ma sempre bilanciata. La fotografia di Simone Nervi incanta: a tal punto che mentre ci si allinea con le immagini, ci si ritrova catapultati al loro interno. In un attimo, appaiono mondi nuovi, universi tangibili, sogni cannibali. La distanza che intercorre tra oggetto e soggetto si annulla, a tal punto che è impossibile opporre resistenza e non farsi cullare in queste visioni immaginifiche e misteriose. «Mi piace pensare
di avere una particolare dote nel creare mondi onirici, nel rendere la realtà più simile a come vorrei che fosse», riflette. Non sono maschere che il fotografo allestisce, ma identità certe e ricche di energia vitale. Il suo segno è riconoscibile, diverso, come il segno di un qualunque creatore. Diventa un dato di fatto che le visioni di Simone Nervi esistano in modo autonomo, senza che lo sguardo dell’osservatore ne modifichi la superficie. Il mondo altro è definito, regolato e contingente. Le figure che vivono le sue fotografie non sono immobili, bensì inafferrabili. Da un lato, libertà e identità; dall’altro, una conformità audace alla fisica scelta. Anche se in mezzo a tutto il côté si respira il desiderio del fotografo di divertirsi con la materia e con la materialità creatrice: «Esercito la facoltà di essere creativo, termine tanto obsoleto quanto comprensibile», è riportato nella presentazione del sitoweb di Simone Nervi (www.simonenervi.com). Non ci resta che seguire la sua Wonderland, tra fascino, moda, sogni e creatività. ❖
37
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
.
marzo 2016
GIANFRANCO SALIS: IL CINEMA DI TINTO BRASS. TRA SCANDALO E PROVOCAZIONE. Uno sguardo
di Angelo Galantini
zamento non è un problema (ammesso, e non concesso che di questo possa trattarsi), né una difficoltà. Non lo è in assoluto, così come, in sovramercato, non lo è in relazione alla semplice funzione in acquisizione a scanner della copia positiva (unica, in origine). Però, nella propria personalità rovescia -ovvero, allo specchio- questi ritratti rivelano e sottolineano almeno un paio di condizioni storiche della ripresa fotografica, soprattutto riferita alla raffigurazione di volti e persone. Parliamone. Altrettanto rovesci nella propria analoga unicità di copia positiva, i dagherrotipi -da cui tutto è partito (nel 1839)- compongono i tratti della forma originaria della “fotografia”: per quanto siamo persuasi che ciò che abbiamo sempre identificato come tale -ovvero, Fotografia- si sia evoluta dal processo negativopositivo di William Henry Fox Talbot (prima di tutto, disegno fotogenico, e subito dopo calotipo), non possiamo tralasciare i termini ufficiali di nascita, per l’appunto, in visione rovescia. Tra l’altro, cosa significa questo nel caso del ritratto? Soprattutto che il soggetto raffigurato si riconosce meglio nella stessa fotografia: che ne presenta il volto, le sembianze, così come il soggetto conosce se stesso... allo specchio! Ma questi, che comunque sono fondanti, sono solo gli aspetti formali dell’azione fotografica di Beppe Bolchi, che poi vale e si impone per considerazioni sotto traccia e nel profondo. Soprattutto oggi, in tempi di altre semplificazioni (apparenti), l’azione classica e storica di Beppe Bolchi è stata a dir poco esemplare, oltre che riconciliante con modalità che scandiscono un’idea fotografica profonda e convincente. Scattare in otto-per-dieci pollici, con un apparecchio fotografico rigidamente collocato su treppiedi (che, nello specifico, si è altresì visivamente ed emozionalmente imposto per la propria costruzione folding -a base (continua a pagina 47)
S
Lo scorso settembre, l’audace Beppe Bolchi, che esprime la sua eccellenza fotografica in pertinente equilibrio tra attualità e memoria storica, ha allestito una affascinante mostraperformance di ritratto. Su un set grande formato otto-per-dieci pollici, con folding Tachihara in legno, di fantastico sapore (il come finalizzato al perché ) ha fotografato con la nuova emulsione Impossible B&W 2.0, realizzando una convincente galleria di personaggi del mondo fotografico: allo specchio... perché la copia finale si presenta rovesciata destra-sinistra. C’è di che riflettere. Dunque, riflettiamo: dalla confortevole accettazione di se stesso, da parte del soggetto, a un ritorno alle stesse origini della fotografia, nata in forma di dagherrotipo. Eccoci qui 40
BEPPE BOLCHI A SAVIGNANO IMMAGINI FESTIVAL 2015 (FOTOGRAFIA DI GIAN PAOLO RANDAZZO)
candita al ritmo di personaggi che animano il mondo fotografico, convenuti a Savignano sul Rubicone, nella provincia romagnola di Forlì-Cesena, in occasione della ventiquattresima edizione di SI Fest - Savignano Immagini Festival, il cui apice si è registrato nel fine settimana dodici-tredici settembre scorsi [FOTOgraphia, ottobre 2015], la galleria di Ritratti che l’ardimentoso Beppe Bolchi ha certificato per la propria caratteristica formale fondante, Allo specchio, è esattamente ciò che dichiara di essere: immagini rovesce dei singoli soggetti! Qui in doverosa sintesi. Perché rovesce? Perché realizzate con la nuova e affascinante emulsione Impossible B&W 2.0, in sostanziose dimensioni fotografiche: sistema fotografico 8x10 pollici, da tradurre in 20,4x25,4cm, esposto e trattato con gli utensili dedicati che furono propri e caratteristici della stessa dimensione fisica di pellicola polaroid di massimo grande formato quotidiano, alla portata di ciascuno (altro discorso per i materiali “fuori quota” 50x60cm, con passo fotografico proprio, alternativo e parallelo a quello della fotografia professionale di svolgimento “standardizzato”). A differenza dei precedenti polaroid otto-per-dieci pollici, dai quali deriva, e sulla cui linea Impossible offre oggi anche una emulsione colore, che ripropone termini un tempo noti, il bianconero B&W 2.0 registra il soggetto inquadrato senza raddrizzarne la composizione in fase di sviluppo delle copie positive, pronte in una manciata di secondi. Dunque, il senso e la misura di Ritratti allo specchio stanno anche qui: nella raffigurazione a lati invertiti, destro-sinistro, del soggetto, che il bravo Beppe Bolchi ha prontamente sottolineato, facendone motivo conduttore. È ovvio che l’eventuale raddriz-
RITRATTI
ALLO SPECCHIO
41
MARIO BELTRAMBINI (PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CULTURA E IMMAGINE)
42
NINO MIGLIORI (FOTOGRAFO) MICHELE SMARGIASSI (GIORNALISTA)
44
BARBARA GEMMA LA MALFA (RESPONSABILE
UFFICIO STAMPA
6GLAB) SAVIGNANO IMMAGINI FESTIVAL 2015 :
SEQUENZA DEL RITRATTO IMPOSSIBLE
810 A BARBARA GEMMA LA MALFA (FOTOGRAFIE
DI
GIAN PAOLO RANDAZZO / 4)
45
ELISA CONTESSOTTO (CURATRICE)
ALESSIA LOCATELLI (CRITICO
E CURATORE)
MAURIZIO REBUZZINI (DIRETTORE
DI
FOTOGRAPHIA)
IMPOSSIBLE, NEL SENSO DI POSSIBILE
Erede della dismissione delle pellicole a sviluppo immediato che hanno fatto la storia della Polaroid Corporation (e della Storia della Fotografia, più in generale e assoluto), Impossible propone una gamma di emulsioni indirizzate alla consistente quantità/qualità di apparecchi per filmpack integrali. Tre sono i sistemi affrontati, con confezioni singole o in bundle dello stesso film o di due film omogenei in accostamento. La maggiore eterogeneità si richiama al vasto e differenziato sistema Polaroid 600 [qui a destra]: Color Film 600, in sei finiture (standard, con cornice perimetrale nera, con cornice perimetrale colorata, con cornice perimetrale dorata, con cornice perimetrale argentata e con immagine circolare al centro del fotogramma caratteristico); Lucky 8 Edition Color film; Third Man Records Edition Black & Yellow Film; B&W 600 2.0, in cinque finiture (standard, con cornice perimetrale nera, con cornice perimetrale colorata, con cornice perimetrale Skateistan di disegni geometrici e con immagine circolare al centro del fotogramma caratteristico). Per il sistema SX-70, una delle leggende del lungo tragitto
46
della fotografia a sviluppo immediato [FOTOgraphia, febbraio 2007], si ripetono i filmpack colore e B&W 2.0, sia con cornice perimetrale standard, sia con cornice perimetrale nera. Lo stesso dicasi per i filmpack Image (Spectra, per gli Stati Uniti). Dopo di che, ecco anche il grande formato 8x10 pollici (20,4x25,4cm), a colori e bianconero B&W 2.0... con il quale sono stati ripresi i Ritratti allo specchio, di Beppe Bolchi, in attuale e meritata passerella. Tutto sommato, ci sarebbe poco altro da aggiungere, se non sottolineare che, per mille e mille motivi, tutti logici e tutti condivisibili, l’attuale offerta tecnico-commerciale Impossible percorre un territorio mercantile dichiaratamente diverso da quello che ha sempre e comunque definito la personalità Polaroid Corporation. Per quanto la fotografia a sviluppo immediato polaroid si indirizzò soprattutto all’impiego familiare e fotoricordo, con appendice professionale nei grandi formati 4x5 e 8x10 pollici (10,2x12,7cm e 20,4x25,4cm) e nei filmpack a strappo per fototessera e dorsi medio formato (soprattutto, ma non soltanto), le emulsioni Impossible si rivolgono particolarmente alla fotografia creativa, se non già arbitraria. Ovverosia, quello che un tempo era un utilizzo personale e una finalità espressiva individuale degli autori coinvolti con la fotografia integrale polaroid, oggi, con Impossible, è la meta principale dell’attualità della fotografia a sviluppo immediato. Da cui e per cui, in sovramercato, si propone ancora e immancabilmente il discorso di finitura delle copie, nello specifico delle stampe otto-per-dieci pollici realizzate con apparecchi fotografici idonei e realizzate seguendo il processo di trattamento e laminazione con sviluppatrice esterna. Come certifichiamo qui a sinistra, con un altro dei Ritratti allo specchio, di Beppe Bolchi, le fasi di lavorazione producono una copia contornata della propria vaschetta di chimici, del lembo di trascinamento e laminazione nella sviluppatrice e della caratteristica cornice argentata di trattenimento. Allora: cosa farne delle infrastrutture, ovverosia dei definiti “sporchi di lavorazione”, tanto caratteristici? Tenerle/tenerli, per sottolineare l’essenza e tangibilità (materialità) della fotografia a sviluppo immediato? Eliminarle/eliminarli, come è previsto che venga fatto, per una copia su carta effettivamente tale (punto e basta)? Una via di mezzo, per mantenere un passepartout perimetrale argentato? Ovviamente, l’infrastruttura certifica la personalità Impossible 8x10 pollici. Però! Beh... a ciascuno, il suo.
La gamma di filmpack integrali Impossible per apparecchi fotografici Polaroid, presenti sul mercato in consistente quantità, si divide in tre offerte tecnico-commerciali: per il sistema Polaroid 600, per apparecchi della genìa SX-70 e per configurazioni Image. Sono proposte emulsioni colore e bianconero. La maggiore eterogeneità di finiture della copia si registra nel caso del colore per Polaroid 600: Color Film 600, in sei finiture (standard, con cornice perimetrale nera, con cornice perimetrale colorata, con cornice perimetrale dorata, con cornice perimetrale argentata e con immagine circolare al centro del fotogramma).
GIAN PAOLO RANDAZZO (2) PAOLA RICCARDI (CURATRICE) SILVIO CANINI (FOTOGRAFO)
(continua da pagina 40) ribaltabile-, in legno: Tachihara), significa riproporre un come che è assolutamente indicativo e guida del perché. Ovverosia, significa declinare una mediazione tecnica influente sul risultato finale, sulla posa meditata, ragionata e consapevole, che scarta a lato ogni considerazione di istantanea (altrove e altrimenti significativa, ma non qui, ma non in questo caso). Scandito dall’osservazione concentrata del vetro smerigliato, per una composizione a lungo pensata, il rito del grande formato fotografico identifica una certa Fotografia, che affonda le proprie radici in un linguaggio applicato che è idioma e lessico, espressione e grammatica. Questa combinazione non si esaurisce nel solo gesto del fotografo-autore (nello specifico, l’attento Beppe Bolchi), ma allinea le proprie stesse intenzioni con la partecipazione attiva e cosciente del soggetto, adeguatamente immobile e concentrato davanti all’apparato di ripresa fotografica. Per conseguenza diretta, questa azione classica non è vintage fine a se stesso, ma è magistrale proposta che tiene in vita e alimenta un passo fotografico che ha stabilito princìpi che hanno attraversato la Storia... edificandola addirittura. Oltre tanti altri momenti, tanta altra fotografia, questa declinazione del ritratto posato è efficace sintesi di un rimando a memoria futura del quale andare orgogliosi e fieri. Quindi, come non allineare l’attualità espressiva di Beppe Bolchi con la lunga Storia (non solo della Fotografia), che offre e propone un passo cadenzato del ritratto fotografico in posa? Come non arricchirsi di questi ritratti definiti da un autentico e condivisibile piacere di realizzazione? Come non pensare che sono proprio queste cadenze d’autore che -giorno per giorno e giorno dopo giorno- disegnano un linguaggio visivo dalle tinte forti e dalla personalità indiscutibile? Efficaci Ritratti allo specchio. ❖
47
È LEICA! di Stefano Zarpellon e Antonio Bordoni
S
ubito un chiarimento d’obbligo. Per nostra intenzione esplicita e per nostro proposito giornalistico non ci allineiamo ai test di prova teorica degli apparecchi fotografici: mai ci siamo espressi in questi termini. Nell’ambito dell’editoria di settore, altri lo fanno... e certamente lo fanno anche bene, consapevoli delle responsabilità etiche e morali che questo tipo d’azione implica e prevede. Soltanto, in tempi ormai remoti, abbiamo spesso commentato attrezzature degne di attenzione, soprattutto riferite a particolari applicazioni: dalla visione panoramica a obiettivo rotante all’inquadratura consapevolmente accelerata, dalla finalizzazione specifica alla costruzione particolare, dalle logiche del banco ottico alle proposizioni grande formato a base ribaltabile (folding). Invece, quanto si manifesta in territori tecnici più consueti è stato solo presentato per se stesso, senza ulteriori verifiche dettagliate sul campo: soprattutto, da quando la tecnologia ad acquisizione digitale di immagini ha soppiantato la varietà di interpretazioni meccaniche, imponendo parametri incontrollabili e ineluttabili.
Prove sul campo (e annotazioni conseguenti) della nuova e affascinante Leica SL, che introduce un parametro e riferimento tecnico-commerciale assolutamente innovativo: quello della configurazione CSC (Compact System Camera, già Mirrorless) con intenzione e indirizzo professionali. Non test teorici da laboratorio, ma effettive situazioni reali di ripresa fotografica e video. In tempi immediatamente successivi, abbiamo potuto agire con tre dotazioni diverse, tutte preserie, non ancora definitive, ma adeguatamente in dirittura d’arrivo. Considerazioni e opinioni
49
STEFANO ZARPELLON (2)
Milano, notturno urbano in piazza Gae Aulenti, nella nuova area cittadina edificata a Porta Nuova (porta Garibaldi). Selezione focale a 24mm, esposizione a 1/25 di secondo, con diaframma f/4,5, per una sensibilità di 1600 Iso equivalenti. Ottimo dettaglio e correzione adeguata della distorsione, alla focale di esordio dello zoom Leica Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph. Stabilizzazione ottica appropriata, che ha consentito un file di alta qualità formale sul sensore Cmos pieno formato 24x36mm, a ventiquattro Megapixel.
(pagina precedente) La nuova Leica SL propone un nuovo comparto tecnico-commerciale della fotografia: CSC (già Mirrorless) professionale.
50
Ora! Da una parte, non veniamo meno a questi nostri princìpi, lasciando ad altri il territorio della vivisezione; da un’altra, registriamo come e quanto -al giorno d’oggi- si stiano affacciando sul mercato proposte fotografiche di indirizzo particolare (oltre che esplicito e dichiarato), meritevoli di approfondimenti sul campo. In particolare, a partire da oggi, ci soffermiamo (e soffermeremo) là dove riteniamo abbiano senso e valore, ma anche significato, valutazioni in passo cadenzato. Ovviamente, sempre e nulla di teorico in laboratorio, ma impressioni sul campo, realizzate con l’ausilio e il sostegno di attori che agiscono effettivamente nel campo fotografico, andando a considerare come e quanto l’apporto tecnico sia influente sull’esercizio stesso della fotografia: sia chiaro, dal punto di vista strettamente formale, perché i contenuti sono tutt’altro discorso.
MIRRORLESS PROFESSIONALE Annunciata a fine ottobre, e presentata in Italia nei giorni del controverso Photoshow, di Milano, dove e quando (e con intelligenza e spirito pratico) la filiale Leica Camera Italia ha agito in proprio, al di fuori dei padiglioni espositivi, allestendo una propria personale passerella in immediata prossimità, la nuova Leica SL si offre e propone come CSC (Compact System Camera, già Mirrorless -e ancora Mirrorless, nel linguaggio corrente-) a indirizzo professionale: disposizione principale e primaria della gamma di apparecchi fotografici Leica... da cento anni a questa parte!
Altrove, sono sintetizzate le sue caratteristiche tecniche ufficiali; per quanto ci riguarda, noi specifichiamo soltanto i termini della nostra prova sul campo, del nostro report funzionale. A fine novembre e fine dicembre, in tempi immediatamente successivi, abbiamo avuto a disposizione tre corpi macchina (uno alla volta), parte di quel lotto di prototipi operativi che precedono sempre la produzione in serie e quantità. Da cui e per cui, le osservazioni scandite dall’attento Stefano Zarpellon (www.zast.it), fotografo di levatura assoluta e competenza tecnica fuori dal comune, si riferiscono a Leica SL non ancora definitive, per l’appunto finalizzate a verifiche pratiche sul campo: osiamo sperare, le nostre tra le altre. Anche gli obiettivi in dotazione, Leica Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph, sono stati diversi: sempre specificati “Demo”, per non essere confusi -gli obiettivi come i corpi macchina- con la produzione definitiva e ufficiale. Così che, abbiamo registrato anche moderate differenze tra i kit avuti in uso, evidentemente dovuti proprio alla definizione stessa di “preserie”. In particolare e nello specifico, sono state diverse le risposte all’accensione e le reattività ai comandi: ma la sostanza non ha subìto danni, perché tutte le Leica SL testate hanno soprattutto sottolineato la propria personalità professionale, peraltro ribadita anche dal prezzo di vendita-acquisto, che non risponde ad alcun canone di mercato di massa e generico, con tutte le strategie conseguenti.
REPORT UNO: IN CITTÀ
Fine novembre. Le osservazioni di Stefano Zarpellon riguardano più il video: sono state riprese molte clip, in situazioni differenti, durante il giorno e in notturno. Subito è stato notato che in condizioni di forte contrasto, tra luce e ombra, in esposizione automatica con profilo Standard, si incontrano moderate sfasature cromatiche, soprattutto nelle alte luminosità, sia con luce diurna sia in artificiale; in particolare, sui toni gialli, arancioni e rossi, nelle aree sovraesposte, aumenta molto il contrasto. Lo stesso accade anche nella ripresa fotografica in file compresso Jpeg, quando si acquisisce in doppia modalità Raw+Jpg. Però, senza troppe sorprese (ce lo aspettavamo), quando si apre il file grezzo DNG, il problema sui colori non c’è... e tutto torna naturale, anche in inquadrature/composizioni molto contrastate. In video, sono altresì ben visibili “contraffazioni” visive quando si riprendono soggetti con pattern ripetuti e ripetitivi, tipo pareti di mattoni, cancellate, tetti di case; addirittura, se si associa il movimento macchina (panning orizzontale), l’alterazione è ancora più evidente, sia in 4K sia in HD e in riprese rallentate a centoventi fotogrammi al secondo (120). Attenzione, però, che tutto rientra in una sorta di normalità, quando si opera con strumenti di ripresa privi di filtro antialas, come è -per l’appunto- la Leica SL: e il software è sempre in grado di correggere adeguatamente il filmato, per riportarlo a una restituzione visiva coerente e di qualità.
In video, l’autofocus funziona bene anche con il touch screen; secondo gusti e inclinazioni individuali, può risultare un poco “nervoso” alla risposta. Quindi, e in assoluto, si consiglia di agire sempre in messa a fuoco manuale, magari con l’aiuto del follow-focus. Ancora: il peaking aiuta molto nella messa a fuoco manuale, quando bisogna prendere confidenza con la rotazione della ghiera, di classe Leica. A questo proposito, chi ha già confidenza con il sistema ottico di casa, che risponde a parametri meccanici progettuali e costruttivi sostanziosamente propri, e diversi da quelli di altri produttori, parte avvantaggiato; allo stesso momento, coloro i quali si avvicinano al pianeta Leica per la prima volta debbono mettere in preventivo anche un moderato tirocinio che educhi i gesti e le regolazioni sui livelli meccanici del sistema. Una volta presa confidenza, non ci sono problemi di accomodamento, e tutto fila via liscio. Comunque, l’autofocus sulle riprese fotografiche è molto veloce, e la raffica a undici fotogrammi è notevole; ovviamente, se si scatta in Raw (DNG), la visualizzazione delle immagini dopo la raffica non è immediata: bisogna aspettare la legittima risposta del buffer. Lo stabilizzatore ottico è di ottimo livello e aiuta nelle riprese a mano libera. Alla luce di concrete e concentrate prove sul campo, Stefano Zarpellon annota quanto e come lo abbia aiutato molto la dimensione fisica della Leica SL, CSC (Compact System Camera, già Mirrorless) in vocazione e intendimento professionali
Milano, notturno urbano in piazza Gae Aulenti, nella nuova area cittadina edificata a Porta Nuova (Porta Garibaldi): UniCredit Pavilion. Ancora, selezione focale a 24mm, esposizione a 1/15 di secondo (a mano libera), con diaframma a tutta apertura f/2,8, per una sensibilità di 800 Iso equivalenti. Si confermano sia il dettaglio, sia la resa prospettica adeguata, sia la stabilizzazione ottica ottimale, per uno scatto a mano libera con tempo di otturazione lungo.
51
STEFANO ZARPELLON (2)
Milano, notturno urbano in piazzale Cadorna. Selezione focale a 57mm, esposizione a 1/50 di secondo, con diaframma f/3,5, per una sensibilità di 10.000 Iso. Si sottolineano la precisione e velocità dell’autofocus con soggetti in rapido movimento, nel traffico cittadino. In una situazione scarsamente illuminata, l’impostazione di un alto valore di Iso equivalenti ha prodotto un piacevole effetto grana, accompagnato da un disturbo limitato, in una ripresa fotografica volontariamente bianconero.
52
espliciti e assecondati: ha una impugnatura ottimale (grip, nel gergo accettato), con presa adeguata (soprattutto per coloro i quali hanno mani un poco grandi). Ovviamente, e la registrazione è d’obbligo, potrebbe essere opportuno poter contare su un supporto con allungamento, che in inquadratura verticale stabilizzi maggiormente la presa. Questa impugnatura (accessorio opzionale) è prevista e annunciata, e quindi l’aspettiamo... assaporando i tempi dell’attesa, che ci ricordano momenti e modi durante i quali non tutto era subito a disposizione, ma andava desiderato: a ciascuno, le proprie emozioni individuali. Avanti con le considerazioni pratiche, maturate da una applicazione in prova concentrata. Notazione d’obbligo per l’ottimo mirino elettronico, che consente di controllare le riprese video a mano libera con una perfetta e autorevole visione della scena e dei dettagli, anche in condizioni di luce avara; ovviamente, in pieno sole è obbligatorio usarlo, perché il monitor posteriore -per quanto di grande qualità-, con la sua superficie lucida, non aiuta molto per le riprese in pieno sole: con tanta luce, non si riesce a verificare quello che si riprende. Inoltre, non inclinabile, in situazioni di poco spazio e riprese rasoterra impone di avvalersi di un ulteriore monitor esterno. Le riprese rallentate a centoventi fotogrammi al secondo (120) sono davvero molto fluide e belle. Come già annotato, solo in situazioni particolari -già affrontate-, si possono notare aree con artefatti: diciamo,
sempre quando lo sfondo non è regolare e ci sono trame difficili, come linee rette che si confondono con i soggetti in movimento rallentati. Adesso, nello specifico: i comandi operativi sono l’autentico punto di forza della efficace e convincente Leica SL. Sono ben distribuiti e semplici (addirittura troppo semplici?), fino a menu di interpretazione spontanea e naturale: ci si arriva subito! Forse, alcuni tasti sono troppo vicini tra loro e simili; per esempio, al buio, a volte, il tasto di registrazione video si può confondere con quello, immediatamente prossimo, dell’impostazione standard delle funzioni tasti... ma non è questione da sottolineare con eccessiva severità. Tanto più che, in una sola giornata, peraltro senza consultare il ben redatto manuale di istruzione, anche alla luce della propria disposizione fotografica (bagaglio indispensabile per ciascuno di noi), Stefano Zarpellon ha compreso e decifrato in modo ottimale le funzioni base. Non si è cimentato nella personalizzazione di comandi e set (per una dotazione fotografica da restituire dopo le prove sul campo), e si lascia questa opzione a coloro i quali, in pieno possesso d’uso, intendano indirizzare la propria Leica SL verso impieghi continuativi: per esempio nel video, per passare da un set di ripresa all’altro, magari memorizzando la consecuzione di funzioni operative finalizzate. In assoluto, la gamma dinamica cromatica del video è buona a 8bit, con registrazione su scheda interna, e siamo certi che migliori notevolmente se si lavora
a 10bit di profondità colore via HMI non compresso, con un registratore esterno. In fotografia, la stessa gamma dinamica cromatica è altrettanto buona, fino a diventare ottima nel caso di acquisizione volontaria in bianconero. Lo zoom Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph è super inciso anche a tutta apertura; forse, è fin troppo inciso. In controluce, nei rari caso nei quali si è manifestato, il flare è risultato ben controllato e piacevolmente “cinematografico”, se capiamo cosa questo significa. Saremmo curiosi di valutare i risultati con obiettivi più luminosi, per dire gli f/2, f/1,4 e f/0,95, perfino, del sistema ottico Leica M, utilizzabili con apposito adattatore. In assenza, ci siamo concentrati sulle selezioni focali 24mm, 35mm, 50mm e 90mm, sia in fotografia sia in video, a conseguenza delle quali non abbiamo potuto approfondire, né ci è interessato farlo, il fuori fuoco, che ormai definisce il valore acquisito del boken. Comunque, particolare non trascurabile, in altezza, le dimensioni del barilotto dello zoom sono superiori alle misure della Leica SL, e impediscono di usare l’intera estensione delle piastre lunghe per teste video; quindi, si è costretti a montare tutto il corpo con obiettivo arretrato rispetto alla disposizione della piastra e, per bilanciare la testa del treppiedi, si lavora un poco scomodi. Da cui, e in aggiunta, siamo in attesa dell’impugnatura verticale opzionale, che crea uno spessore sul fondello del corpo macchina. Riguardo il controllo remoto della Leica SL, attraverso
dispositivi mobili (smarphone e tablet), utilizzando la connessione wireless interna, abbiamo scaricato l’apposita applicazione Leica SL https://itunes.apple.com/ it/app/leica-sl/id937302741?mt=8, nello specifico con iPhone 4s: ottima soluzione per lavorare in remoto, con preview in tempo reale, con la quale si possono governare e cambiare tutti i parametri della SL, come se si agisse dal monitor del corpo macchina. L’applicazione è molto valida soprattutto in situazioni nelle quali si ha difficoltà a lavorare direttamente sull’apparecchio, oppure nel senso di opportuno scatto a distanza, magari per pose lunghe e/o trasferimento su dispositivi esterni delle immagini e dei video.
REPORT DUE: ALPE DI SIUSI Fine dicembre; alta montagna, a duemilacinquecento metri, in basse temperature climatiche. Prima di tutto, prima di altro, si confermano le opinioni positive generali e complessive sulla Leica SL, che assolve il proprio mandato statutario di configurazione fotografica professionale con piglio e concretezza, oltre che confortevole praticità di impiego: dall’ergonomia al mirino, dal monitor di alta qualità (con visione chiara della scena e dei dettagli) all’autofocus estremamente rapido, dai comandi intuitivi all’organizzazione del menu. Oltre, ovviamente, le caratteristiche esplicite di qualità formale delle immagini acquisite. Quindi, sull’esperienza di una situazione particolare, in alta montagna, si aggiungono altri termini indero-
Milano: fogliame nei giardini pubblici di via Palestro. Selezione focale a 56mm, esposizione a 1/60 di secondo, con diaframma f/4, per una sensibilità di 100 Iso equivalenti. Il file compresso Jpeg, non interpretato, non lavorato in post produzione, rivela come e quanto le foglie verso il lato destro dell’inquadratura, in evidente sovraesposizione, varino verso il giallo (comunque, facile il riequilibrio in post produzione). Ovviamente, come sottolineato nel testo, il corrispondente file grezzo DNG non presenta alcuna anomalia cromatica nelle aree sovraesposte.
53
STEFANO ZARPELLON (2)
Alpe di Siusi, Alto Adige. Selezione focale a 24mm, esposizione a 1/500 di secondo, con diaframma f/5,6, per una sensibilità di 200 Iso equivalenti. In forte controluce, ottima risposta cromatica e quasi totale assenza di flare, che si accompagnano con una gamma dinamica adeguatamente estesa.
54
gabilmente positivi: a basse temperature, oscillanti tra i meno sei gradi del mattino (-6°C) ai meno tre gradi del giorno (-3°C), a duemilacinquecento metri di altitudine, l’autonomia della batteria è stata di grande aiuto. È stata sufficiente per una giornata continuativa di scatti e video, come del resto deve essere una attrezzatura fotografica professionale, in alternanza di uso tra osservazione a mirino e controllo su monitor. Anche in questo caso, Stefano Zarpellon ha realizzato riprese video notturne, per le quali, in tutta onestà, avrebbe magari fatto comodo un obiettivo più luminoso dello zoom originario Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph, che accompagna la Leica SL fin dal suo attuale esordio. Si sarebbero potuti impostare Iso equivalenti meno alti, per limitare al minimo o -addirittura- eliminare il rumore sulle aree in ombra. Anche l’autofocus soffre un poco, al buio: però, è di grande aiuto l’ingrandimento della scena in modalità liveview (a monitor), che permette di mettere fuoco con precisione. Quindi, come già annotato, la messa a fuoco manuale è agevolata dalla funzione piking, per la quale è doveroso maturare una confidenza con la ghiera di accomodamento, in inviolabile stile Leica (con tutto quanto questo significa). In alternativa, l’autofocus touch screen è adeguatamente efficace. A ciascuno, le proprie predisposizioni. All’atto pratico, abbiamo avuto personali problemi di “mosso” in situazioni fotografate a tempi lunghi di venti secondi, con la Leica SL fissata su treppiedi adeguato al suo ingombro e peso. Ripensandoci ora, a mente
fredda, senza alcuna altra emozione aggiunta, ipotizziamo che può essere intervenuto lo stabilizzatore ottico: durante la posa, può aver regolato i gruppi ottici in continuo, creando un involontario e indesiderato mossosfocato. È certo che in condizioni di questo tipo, è bene disinserire la stabilizzazione ottica, peraltro superflua data la rigidità della collocazione fotografica. Ancora, si sono confermati gli slittamenti cromatici in sovraesposizione (rosso e giallo) sulle preview in Jpeg e in video con profilo Standard, già annotati, e riferiti a un altro corpo macchina. Altrettanto ancora, quando si apre il file grezzo DNG, tutto è a posto e si è confortati da una interpretazione fotografica di qualità adeguatamente alta. Altra conferma per gli ottimi risultati in bianconero, con una profondità tonale e una distinzione del dettaglio, sia in fotografia sia in video. E, poi, è avvincente e convincente la resa a tutta apertura del diaframma, con aree di sfocatura ben delineate contro un disegno perfetto del soggetto a fuoco. Operativamente, la possibilità di agire su due schede di memoria influisce sulla risposta all’accensione: se e quanto si usano due schede, invece di una soltanto, la Leica SL risulta più lenta in risposta, e non è subito pronta allo scatto, una volta accesa. Per esattezza di informazione, la nostra esperienza è stata condotta con schede di memoria SanDisk Estreme Pro SDHC II, con velocità di 280mb/s, da sedici e trentadue Giga (16GB e 32GB) e Lexar Pro-
fessional 1000x SDXC II, con velocità di 150mb/s, da sessantaquattro Giga (64GB).
IN CONCLUSIONE Ovviamente, si deve tenere presente che abbiamo agito e ragionato (che Stefano Zarpellon ha agito e ragionato per noi) con dotazioni Leica SL e Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph preserie: produttivamente definite, ma antecedenti alla configurazione definitiva destinata al mercato. Quindi, l’insieme delle considerazioni positive non è stato influenzato da questo, perché ciò che si è rivelato adeguato non verrà corretto; mentre, qualche annotazione negativa potrebbe essere stata risolta in dirittura di arrivo. E, poi, in ogni caso, si tenga sempre conto che si tratta di annotazioni personali e individuali, che non necessariamente coincidono con gusti e intenzioni di altri utenti. Attenzione, comunque: dopo le nostre prove eseguite con Leica SL, e indipendentemente da questo, sia chiaro, c’è stato un aggiornamento firmware 1.2, che migliora alcune funzioni e prestazioni. In positivo, e senza riserve, le annotazioni riguardano una serie di nostre considerazioni. Con ordine. ❯ Eccellente il monitor ampio e touch screen, finalizzato anche al pertinente controllo della messa a fuoco; per la messa fuoco. ❯ Mirino elettronico molto ampio e luminoso con ottima copertura di campo, pari a quella delle reflex professionali.
❯ Comandi semplici e menu facile da scorrere. ❯ Ampia personalizzazione dei comandi. ❯ Zoom Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph, che nasce per la Leica SL, di alta qualità e ottima stabilizzazione, con resa formalmente equivalente a quella delle focali fisse. ❯ Possibilità di usare una sostanziosa quantità di obiettivi preesistenti, Leica e non, tramite adattatori dedicati, con i quali il firmware 1.2 amplia le prestazioni. ❯ Autofocus molto veloce e ampia area di messa a fuoco, su quasi l’intero fotogramma. ❯ Ergonomia molto buona, con efficace impugnatura, capace di equilibrare l’invadenza fisica di uno zoom 24-90mm di dimensioni meccaniche considerevoli (con diametro filtri di 82mm). ❯ Corpo macchina robusto e tropicalizzato. ❯ Ottimo slowmotion a centoventi fotogrammi al secondo (120). ❯ Uscita HMI Full per registrare in 4.2.2 a 10bit. ❯ Registrazione interna su scheda 4K piena, con sensore in formato 24x36mm. ❯ Scatto silenzioso, per quanto non azzerato. ❯ Vibrazioni azzerate per la mancanza di specchio; si riesce scattare a 1/15 di secondo a mano libera, con una buona percentuale di assenza di mosso, anche alle selezioni focali più lunghe. ❯ Design essenziale, tipico Made in Germany, con materiali di alta qualità che garantiscono e assicurano solidità e durata nel tempo.
Alpe di Siusi, Alto Adige. Selezione focale a 73mm, esposizione a 1/100 di secondo, con diaframma f/4, per una sensibilità di 400 Iso equivalenti. Bell’effetto bianconero (volontario), sfocato piacevole e ottimo dettaglio a tutta apertura, nell’area di messa a fuoco, che si combina con una gradevole sfocatura (desiderata) dei piani prospettici via via più lontani.
55
La Leica SL è dotata di sensore di acquisizione digitale di immagini Cmos da ventiquattro Megapixel; di dimensioni 24x36mm, il sensore può essere selezionato in dimensione ridotta APS-C (dieci Megapixel). Si possono impostare sensibilità da 50 a 50.000 Iso equivalenti. Acquisizione e registrazione in formato ridotto Jpeg e grezzo DNG, anche in combinazione. Video in formato MP4 e MOV, con risoluzione 4K, e slowmotion fino a centoventi fotogrammi al secondo (120). Mirino elettronico SXAG, da 4,4 Megapixel. Tempi di otturazione da 1/8000 di secondo a sessanta secondi pieni; scatto rapido fino a undici fotogrammi al secondo. Automatismi di esposizione Program (P), priorità ai tempi di otturazione (T), priorità ai diaframmi (A); esposizione manuale (M).
La Leica SL, con nuova baionetta L per gli obiettivi intercambiabili, nasce con lo zoom Vario-Elmarit-SL 90mm f/2,8-4 Asph. Sono già annunciati altri due obiettivi di imminente commercializzazione: Apo-Vario-Elmarit-SL 90-280mm f/2,8-4 e Summilux-SL 50mm f/1,4 Asph. Tramite adattatori dedicati, si possono utilizzare gli obiettivi dei sistemi Leica M, Leica T, Leica S e Leica R, oltre gli obiettivi Leica Cine. Ovviamente, quando e per quanto si certifica “Leica M”, si comprendono anche tutti gli obiettivi storici per apparecchi fotografici a telemetro, in baionetta M, come con innesto a vite 39x1, tramite ulteriore adattatore vite-baionetta.
56
Al negativo, con le riserve appena richiamate, soprattutto relative alla valutazione su Leica SL preserie. In altrettanto ordine: ❯ Peso e ingombro sostanziosi nella combinazione Leica SL con il Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph, che esulano dalla consuetudine CSC, per stabilire un nuovo riferimento tecnico-commerciale: in senso di indirizzo professionale. ❯ Un certo sbilanciamento tra corpo macchina e zoom Vario-Elmarit-SL 24-90mm f/2,8-4 Asph, le cui dimensioni interferiscono con le piastre video per treppiedi (più lunghe di quelle per fotografia). ❯ Apertura non costante dello zoom Vario-ElmaritSL 24-90mm f/2,8-4 Asph, che si nota quando si eseguono cambi di focale in ripresa video, in modalità di esposizione manuale. ❯(Considerazione del tutto individuale) Prezzo elevato: del resto in ordine con le intenzioni e implicazioni fotografiche Leica, che antepongono l’efficacia della costruzione a qualsivoglia compromesso commerciale. ❯ Batterie con autonomia non lunghissima, nel caso di impiego soprattutto video, che impongono una dotazione di riserva a portata di mano. ❯ Riproduzione cromatica sfalsata di soggetti ad alto contrasto in preview Jpeg e in video (che non sussistono sul file grezzo DNG). ❯ Ingressi per microfono non jack, ma con adattatore; causa troppe interferenze, il microfono interno non è utilizzabile per la presa diretta.
❯ Sfasature in video, quando si inquadrano soggetti a trama ripetuta. Per finire, una annotazione di costume fotografico. Se si conteggia dal prototipo UR, del 1913 o 1914, quella Leica è una storia centenaria. Di fatto, si tratta del marchio fotografico di più antiche origini, tra quanti sono presenti sul mercato attuale. Quindi, non possiamo ignorare che il concetto asettico e non dialogante di tecnologia è sempre riferito a geografie estranee ai confini europei, tra i quali si comprende la Germania della Leica, peraltro tornata all’originaria Wetzlar giusto in occasione del proprio centenario istituzionale [FOTOgraphia, giugno 2014]. Da queste premesse, una osservazione personale, che non si esaurisce in alcun individualismo. Oltre tanti altri valori propri, paradossalmente, l’attuale interpretazione fotografica di Leica stabilisce termini di sostanziosi primati di prestazioni (scanditi da una transizione dalla pellicola alla tecnologia digitale sicuramente complessa, ma oggi superlativa). Non ci si limiti alla consistenza della SL oggi analizzata, ma si consideri l’intera offerta tecnico-commerciale, che si sposa con proposizioni mercantili di agguerrita personalità. Insomma, a cento anni dalla propria preistoria, Leica è una delle produzioni fotografiche che ancora oggi interpretano con coerenza e fermezza la propria individualità, illuminando l’intero comparto. Con tutto quanto questo possa significare. Non è certo poco. Anzi! ❖
Un antico album fotografico, compilato da un militare inviato lontano da casa, non rappresenta certo una rarità. Tanti ce ne sono stati, molti gelosamente custoditi dalle famiglie, come ricordo indelebile della propria storia; altrettanti, una volta esauriti i cicli vitali, sono reperibili in mercatini antiquari, là dove le memorie perdono il proprio senso e valore, la propria intimità originaria, per alimentare e assecondare la voglia di oggetti del passato con i quali contornare esistenze attuali: soprammobili di profilo, con palese retrogusto... storico (ai quali la fotografia, sia in forma di stampa o album, sia in consistenza di apparecchi, fornisce nutrimento gradevole e gradito). Però! Però, in chiave consapevole e cortese, come è quella di coloro i quali -noi tra questi- frequentano la Fotografia, assaporandone sia i macroaspetti a tutti palesi, sia i contorni di complemento, un album fotografico compilato dal capitano di artiglieria Alberto Berengo Gardin assume connotati e fisionomie che superano la sola oggettività a tutti evidente. Non si tratta di omonimia: Alberto è il padre di Gianni Berengo Gardin, fotografo che non ha affatto bisogno di alcuna presentazione 58
LIBIA (1935)
di Maurizio Rebuzzini apitano di artiglieria in Libia, nel 1935, Alberto Berengo Gardin (1887-1963), padre del fotografo Gianni -una delle figure più note del firmamento italiano in proiezione planetaria-, ha accompagnato la propria missione militare con una avvincente e convincente registrazione fotografica. Il valore e merito di questa raccolta in album, come si è usato fare fino a qualche decade fa (e tanto più nella prima metà del Novecento), scandisce almeno due tempi autonomi, ciascuno dei quali va considerato per se stesso e in accompagnamento dell’altro. Anzitutto, è doveroso un chiarimento, è dovuta una precisazione che evita l’inganno. Ovvero, non bisogna osservare questo passato di Alberto Berengo Gardin -come del resto non si deve osservare alcun altro passato- alla luce delle condizioni sociali attuali della fotografia. A differenza, bisogna calarsi in ciò che è accaduto, cercando di immedesimarsi con i relativi tempi. Così che, questa documentazione fotografica dal proprio vissuto non ha alcun tratto in comune con ciò che oggi-
C
giorno consideriamo “immagine”. In termini odierni, è pressoché scontato, ormai, registrare istante per istante lo svolgimento della propria giornata (altro fenomeno, indipendente dalla Fotografia così come l’abbiamo fin qui irrevocabilmente intesa); e, dunque, così ragionando, così riferendosi, questo album sarebbe poca cosa. Invece, e all’esatto opposto, l’azione di Alberto Berengo Gardin non ha risposto ad alcuna socialità trasversale, ma a una intimità propria, che ha declinato il passo e la cadenza fotografica per ciò che il linguaggio esplicito e inviolabile della documentazione visiva richiede e, addirittura, impone: a memoria futura. Quindi, ecco qui il primo dei due tempi che sottolineiamo: quello dell’azione consapevole e convinta, che nella propria spontaneità di gesto si inserisce nel fantastico capitolo trasversale della Memoria, ovverosia della fotografia che registra, rileva e documenta qualcosa che si svolge, e che -senza la Fotografiaandrebbe perduto nella propria temporaneità. Sia con intendimento professionale -e non è questo il caso-, sia con propositi non professionali -ed è proprio questo il caso-, tale e tanta fotografia afferma una delle condizioni fondanti della stessa Fotografia, in Maiuscola
Alberto Berengo Gardin (1887-1963), padre del celebre e celebrato fotografo Gianni, è stato inviato in Libia, nel 1935. Capitano di artiglieria, oltre a svolgere i propri compiti militari (qui al traguardo di uno strumento geodetico), ha realizzato una intensa e convincente documentazione fotografica di luoghi, persone e situazioni. Le stampe sono state raccolte in un album, sul quale oggi e qui riflettiamo. (pagina accanto) Pagina dall’album nel quale Alberto Berengo Gardin ha raccolto le sue impressioni fotografiche, in Libia, nel 1935.
59
(pagina accanto) Parata militare all’arrivo del contingente militare italiano inviato in Libia, nel 1935.
Sulla nave (bastimento?) di trasferimento delle truppe italiane in viaggio verso la Libia.
(pagina accanto) Postazione militare italiana in Libia, nel 1935.
60
volontaria, prima che cosciente. Del resto, come già annotato, nella Storia dell’Umanità, la Fotografia per prima (e unica... con cinema in appendice) ha reso permanente ciò che avrebbe dovuto rimanere transitorio. Per cui, la fotografia della Memoria, che può nascere individuale, ma che presto si offre e propone in ben altra proiezione sociale, è quella stessa che racconta la vita nel proprio svolgersi, andando a sottolineare aspetti e vicende significative oltre il proprio semplice accadimento. È questo il senso assoluto dell’album di Alberto Berengo Gardin, che -senza saperlo o volerlo- si accoda a tanta altra fotografia del vero, in intenzione di Ricordo: dai nativi americani, di Edward Sheriff Curtis, agli Uomini del Ventesimo secolo, di August Sander, dal quartiere a luci rosse di
New Orleans, di E.J. Bellocq, alla distruzione delle comunità ebraiche dell’Europa, di Roman Vishniac. Quindi, in richiamo a quanto accade oggi -che è legittimo che avvenga (infatti, volente o nolente, la storia va sempre avanti... con o senza di noi)-, non decliniamo questa fotografia per quanto di effimero e transitorio definisce l’attualità di certa immagine individuale, ma per ciò che questa stessa fotografia incide nel profondo delle emozioni e riflessioni di ciascuno di noi. In effetti, e qui sta il punto (esclamativo!), c’è sempre bisogno di fotografi, siano professionisti o non professionisti conta poco ai fini della conclusione, che sappiano raggiungere il cuore e la mente degli osservatori, in un tragitto di andata-e-ritorno, senza soluzione di continuità. Ci sono fotografie che, improvvisamente, smettono
61
Osservazioni fotografiche sulle popolazioni libiche, realizzate da Alberto Berengo Gardin con garbo e comprensione delle differenze: atteggiamento e proposizione assai diversi dallo spirito coloniale dell’intervento militare italiano nel paese. Ribadiamo «Ci sono fotografie che, improvvisamente, smettono di essere tali, fotografie, e si muovono, prendono vita, costruiscono vita».
Considerazione aggiuntiva, oltre i valori propri dell’album di Alberto Berengo Gardin dalla Libia, del 1935. La Ica 6x9cm a soffietto, con la quale ha fotografato, è stata anche la prima macchina fotografica usata da Gianni Berengo Gardin, al suo avvicinamento alla fotografia, nel 1943.
62
di essere tali, fotografie, e si muovono, prendono vita, costruiscono vita. Così che noi che le guardiamo non siamo più solo osservatori, ma diventiamo protagonisti. Ci muoviamo anche noi negli stessi spazi e percepiamo la presenza delle medesime persone: siamo nelle situazioni, non stiamo più guardandone solo delle raffigurazioni. È questa la magia di certa fotografia (spontanea, come nel caso di questo album dalla Libia, del 1935, lontano nel tempo, ma vicino nelle impressioni), che presto fa dimenticare la propria forma necessaria per lasciare libero il pensiero individuale. Ribadiamo: alla fine, non abbiamo più davanti agli occhi fotografie di vicende manifestate, ma siamo autenticamente al loro interno. Addirittura, cominciamo a sentire gli aromi dei luoghi e le voci della gente. Non siamo più protetti
negli spazi personali della nostra vita, ma sul volto sentiamo il vento dell’aria aperta. C’è di che riflettere. C’è di che discutere. Cosa sarebbe più la nostra vita senza fotografia? Cosa sarebbe la nostra mente, senza fotografie d’autore? La nostra percezione della realtà ne rimarrebbe mortificata. La nostra esperienza, impoverita. Il nostro sapere, modesto. E, poi, nello specifico, una seconda riflessione, assolutamente di parte, consapevolmente “egoistica”: la Ica 6x9cm, a soffietto, con la quale Alberto Berengo Gardin ha fotografato in Libia, nel 1935, è stata anche la prima macchina fotografica usata da Gianni Berengo Gardin, al suo avvicinamento alla fotografia, nel 1943. Destini che si incrociano e affermano: cosa sarebbe più la nostra vita senza fotografia? ❖
TAU Visual si presenta
Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.
Diventare Socio TAU Visual
Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.
Un regalo utile per i lettori di
.
Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 23 volte novembre 2015)
LA CITTÀ DELL’ACCIAIO
Costituzione italiana - Articolo 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
L
La fotografia è l’alfabeto degli angeli: attraversa il vento della Storia ed è il messaggero delle stelle che ci porta a non dimenticare... è la manifestazione del dolore, della gioia, della compassione, della fraternità, dell’accoglienza, della felicità che appartiene agli Uomini, alle Donne che hanno affrontato le tempeste dell’esistenza e compreso lo spirito, l’anima e l’epifania della Vita giusta, della Vita bella, della Vita buona nel miracolo laico della vivenza quotidiana. Le immagini pubbliche e private di una città sono anche il suo autoritratto. Il grande Archivio Fotografico Lucchini, preso in carica dall’Archivio Storico Comunale di Piombino (www.comune.piombino.li.it), contiene la memoria e la storia della città dell’acciaio, della città-fabbrica, della gente del ferro dagli anni Quaranta agli anni Novanta. Sono diecimila immagini digitalizzate (da un corpus totale di trentamila)... una topografia visuale di notevole spessore culturale, politico e sociale che racconta i sogni, le speranze e la dignità di un’intera città legata alle chiamate della sirena che indicava i turni di lavoro in fabbrica. Non sappiamo se nell’Archivio non ci sono o non sono state ancora scansionate le fotografie dei grandi scioperi anarco-sindacalisti dell’Undici e dell’adesione larga al fascismo dei piombinesi. Dopo l’8 settembre 1943, la città insorse nella “Battaglia di Piombino”... molti giovani andarono alla macchia e si affrancarono alla Resistenza... offrirono un elevato contributo di lotte e vite umane per la conquista della democrazia. Nel 2000, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha insignito la città di Piombino con la
64
Più precisamente e con maggiore chiarezza: La città dell’acciaio nell’Archivio Fotografico Lucchini (Piombino, 1940 - 1990). In ricordo e memoria (e dedica) del mio amico e maestro di vita don Andrea Gallo (1928-2013), che diceva che «Il diritto della forza va combattuto con la forza del diritto».
Medaglia d’Oro al Valor Militare. La cultura del ferro, a Piombino (Baratti), ricordiamolo, risale ai forni etruschi. La Magona d’Italia nasce nel 1864, gli Altiforni e Fonderie di Piombino nel 1897. Il compito della fotografia documentarista non è quello di approssimarsi alla propaganda, ma alla percettibilità di una civiltà della fatica che riscopre l’importanza del corpo come traccia storica dell’umanità. La fotografia
dell’umano parla di aurore che hanno brillato nella vita comune e di sconfitte che hanno insegnato che là dove ci sono cadute ci sono anche resurrezioni. La bellezza fanciulla dell’Archivio Lucchini soggioga e incanta, qualifica l’estetica generalizzata (l’autorevolezza) del lavoro e dei lavoratori: c’è qualcosa di prometeico in quelle facce aperte all’avvenire e una potenza delle forme in quelle cattedrali di ferro
«Dietro a ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi: caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione» Piero Calamandrei (discorso agli studenti, 1955)
che implicano ammirazione e stupore. Senza condizioni.
MEMORIA E STORIA DELLA CITTÀ DELL’ACCIAIO Per il movimento operaio di Piombino, il fumo delle ciminiere non è stato solo pane ma anche un laboratorio di cultura, politica, condivisione sociale. Come si vede nelle fotografie, l’attaccamento delle generazioni del primo dopoguerra alla città dell’acciaio corrisponde a qualcosa d’identitario, filiale, anche di scanzonato... incarnato nel diario quotidiano che l’attraversa. La pesca, le barche a vela, i balli alla Lega Navale, il carnevale, i commercianti, gli artigiani (e i grandi scioperi in difesa del lavoro) hanno espresso la visione forte e bella di una popolazione schiva alla servitù, che ha combattuto per respingere dappertutto l’infelicità. Se entriamo a “gatto selvaggio” nella messe d’immagini dell’Archivio Lucchini, comprese le celebrazioni istituzionali (personalità della politica, della cultura, dell’esercito, della chiesa in visita agli stabilimenti), possiamo vedere la germinazione di una ritrattistica corale, nella quale la persona è la misura di tutte le cose: inaugurazione di appartamenti per i dipendenti, scuole professionali di ingresso al lavoro, befane ai bambini, premiazione degli operai più anziani, partecipazione giovanile allo sport, alla musica, al teatro, al cinema... sono concatenati in situazioni munifiche, e tutto risulta in equilibrio con la cosa fotografata. Ogni immagine è gravida di “senso”, promesse e significati, e diventa “segno” di un atto futuro. Nella geografia umana dello stabilimento ci sono immagini in controluce di grande impatto emotivo. Lo sguardo del fotografo appoggia la fabbrica sul mare, e i fumi delle ciminiere sembrano lunghi capelli di fate nel vento. Ancora: le case, il porto, la spiaggia di Ponte
Sguardi su d’Oro, la campagna intorno alla fabbrica ritagliano una figurazione austera (qualche volta anche a colori) della filiera siderurgica. E la lavorazione dell’acciaio all’interno dei reparti intreccia stili, linee, forme che vedono l’Uomo (e i valori della sua maestria) al centro del racconto visivo. La bellezza dell’operaio che figura la propria vitalità conferisce alla ritrattistica che ne consegue l’innocenza del divenire. Gli operai fotografati sui luoghi di lavoro figurano una fenomenologia della dignità: sembrano caricarsi di eredità culturali e politiche come sommatoria di credenze, e nelle pieghe di questo atteggiamento volitivo, quasi ludico, riflettono su «ciò che rende la vita degna di essere vissuta» (Thomas S. Eliot). Il tempo e lo spazio, la materia e la realtà s’intrecciano sui volti degli operai e si legge -ci sembra- il senso del rispetto: non solo per il proprio lavoro, ma anche per la crescita sociale della comunità. Quando si fotografa un Uomo, e come sta al mondo, si tocca la verità della carne e il sangue dei giorni (Friedrich W. Nietzsche diceva). Certo, la politica non è stata estranea al destino della popolazione, e non sempre le decisioni prese sono state lungimiranti; tuttavia, il cammino è stato il medesimo. Al di là del bene e del male, l’immaginario collettivo è stato coinvolto nelle scelte del momento politico/ideologico: forse, la consultazione più allargata dei cittadini avrebbe potuto fare meno danni, o evitare incomprensioni, rotture, strappi profondi, ferite irrimarginabili. La speranza ha occhi di infanzie intramontabili e porta con sé il magico, il mistero e l’ignoto: sa anche che il cammino verso l’inferno è lastricato di buone intenzioni.
L’AUTOBIOGRAFIA DI UNA CITTÀ ATTRAVERSO I VOLTI DELLA CLASSE OPERAIA
Nel rizomario fotografico dell’Archivio Lucchini, sui volti degli operai, si può cogliere la mutazione antropologica di una popolazione e di una città: i cambiamenti, i comportamenti, gli atteggiamenti,
i gesti disseminati in migliaia di immagini introducono la fotografia nella tenerezza dei corpi che ha fissato nella vita quotidiana. Un portolano di differenze, sguardi, espressioni, posture che esprimono storia e coscienza di quando sognare significava anche vivere, e la fabbrica rappresentava una scuola culturale, politica e sociale, nella quale, insieme al lavoro, si apprendeva anche il giusto e l’ingiusto... e i modi per dissentire sul torto subìto e riconoscere la serenità che avanza: è la raffigurazione dei rituali che autentifica l’autobiografia di una città attraverso i volti della classe operaia. Fino agli anni Sessanta, l’abbecedario fotografico della fabbrica (a uso dei topi da biblioteca) è essenziale, non pittografico... semmai legato alla cinematografia d’impronta socialista: gli altiforni, le ciminiere, i gasometri, le grandi gru, la nascita delle rotaie, le banchine del porto sono avvolti in un bianconero emozionale, che prende alla gola, commuove, coinvolge, affascina. C’è un’immagine straordinaria dell’ingresso della fabbrica, che ricorda la nascita del cinema, con il film dei fratelli Lumière, L’uscita dalle officine Lumière (22 marzo 1895). Una curiosità: ai primi del Novecento, in Italia, il cinematografo era ancora ambulante, e solo poche città avevano delle sale cinematografiche (Torino, Roma, Napoli, Milano, Firenze...); a Piombino, nei medesimi tempi, c’era il Cinema Eden (a pianterreno dell’attuale Albergo Centrale). A proposito del libretto di Silvia Avallone, Acciaio (Rizzoli, 2010), e del filmetto omonimo di Stefano Mordini, Acciaio (2012), dobbiamo dire che gli autori parlano di ciò che non conoscono (o solo in parte): sembrano non sapere che la letteratura, il cinema, la fotografia d’impegno civile sono strumenti per leggere la realtà (non per tradirla)... sono dispositivi d’interazione tra destino individuale e destino storico. Nel 1964, Renzo Rossellini jr (con la supervisione del padre Roberto) gira a Piombino il docufilm L’età del ferro, e mostra
che l’eleganza, la grazia, la maniera, lo stile, e -ovviamente- la grandezza albergano nel princìpio di realtà contro il princìpio di piacere. Non c’è libro, film o fotografia senza un’idea che la sostenga o la magnifichi nel dispendio creativo. La bellezza contiene la giustizia, sostenevano gli antichi greci, il resto è merce. Nelle proprie differenze stilistiche, i fotografi dell’Archivio Lucchini hanno trascolorato la passione sacrale (pagana) per il lavoro di intere generazioni: hanno fatto comprendere che per i piombinesi lavorare in fabbrica significava anche stare insieme. E le battaglie per una quotidianità meno feroce servivano a insegnare qualcosa, anche quelle perdute. I costruttori di Piombino sapevano che diventare protagonisti della propria storia e definire un percorso di vita significava scegliere. I guerrieri d’acciaio piombinesi hanno affrontato crisi, tagli, dolori indimenticabili... hanno sfidato la Storia che spesso li ha condannati a malattie professionali, infortuni, morti sul lavoro, disoccupazione, licenziamenti forzati, migrazione in altri paesi in cerca di nuove possibilità di vivere... sapevano che la lama della sofferenza non ha lo stesso taglio per tutti, ma ciò che ai piombinesi non ha mai fatto difetto è quella gioia sconsiderata dell’utopia che non rinuncia alla bellezza della verità e della giustizia e porta con sé profumi d’eternità. E, come scrive Victor Hugo, il profumo dei gelsomini può mutare il corso delle costellazioni. La documentazione dell’Archivio Lucchini è metodologica, sapiente, professionale. La crescita della fabbrica è fotografata nei minimi dettagli: costruzioni di capannoni, strade, sbancamento di grandi aree adibite a nuove sedi produttive rifigurano lo stabilimento negli anni Settanta; i reportage sul campo di colata dell’altoforno, dell’acciaieria, dei treni di laminazione sono di una compiutezza e bellezza poetica non solita: con inquadrature ambientate, conferiscono alla figura umana una qualche regalità. Gli
operai sono visti come cavalieri che fecero l’impresa e interpreti di una cultura del lavoro, poi persa (in parte) con l’automazione delle macchine. L’espansione della fabbrica (fine anni Settanta) è fotografata in modo diverso dall’iconografia precedente. Le immagini sono altrettanto belle, ma più concettuali; l’attenzione alle forme è pregevole; il dettaglio sostituisce il totale della macchina e -comunque- le architetture industriali assumono più importanza della manualità dell’Uomo. Ci sono fotografie straordinarie di siviere che brillano d’acciaio fuso, rotaie che si allungano tra cilindri di laminazione, laminati che serpeggiano tra gli operai, treni, frammenti di macchinari, manufatti, pompe idrauliche, stazioni elettriche che portano in sé un mutamento sociale, antropologico, morfologico del lavoro e di un’intera città. Le visite allo stabilimento, le assemblee sindacali, i tavoli delle trattative tra sindacati e azienda, l’acquisizione della fabbrica di Lucchini descrivono altri modi di lavorare, non sempre migliori per gli operai, e al contempo una diversa considerazione della produzione di acciaio e destinazione dei prodotti finiti. In fotografia e dappertutto, la realtà è subordinata a quella del senso del reale che gli corrisponde. Una sequenza di fotografie a colori degli anni Ottanta è di una finitezza espressiva singolare. Ancora una volta, gli operai emergono dall’inquadratura (che tuttavia descrive appieno l’ambientazione) e riflette l’elegiaca potenza della fabbrica. La tenerezza dei corpi è la medesima del passato: i rossi, i neri, i verdi accendono l’immaginazione popolare, e sotto quei gesti antichi, quelle tute sporche, quel coraggio disseminato nel sudore della Storia... ormai si avvertono i segni montanti del secolo della globalizzazione e del nuovo ordine economico. Gli operai interpretano una specie di malinconia per ciò che non è più e timore per l’esclusione da un mondo incapace di contenere altri mondi, incapace -forse- di co-
65
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA
049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it
Sguardi su struire un’umanità migliore, più giusta e più comprensiva. Di là da ogni sorta di euforia per un passato ormai dimenticato, il giusto, il bello, il buono fuoriescono dalle immagini di una città-fabbrica che cambia volto e si appresta ad affrontare l’avanzare della modernità, non del tutto corrispondente ai disegni dei nuovi mercati dell’acciaio. Per molta parte dei piombinesi, l’acciaio sembrava essere l’unico cammino che conduceva a una vita etica ancora legata ai sentimenti di accoglienza, solidarietà, fraternità: inoltre, c’è da dire che una politica impreparata (a volte pericolosa e discriminatoria) ha condizionato situazioni, sogni e speranze di una città che aveva fatto del lavoro il crogiolo di tutte le istanze di libertà e partecipazione alla crescita della democrazia. Nella propria interezza, l’Archivio Lucchini è molto più di una dossologia importante, significa-
tiva, monumentale di fotografie: è un atlante di conoscenze, una cartografia visuale che s’identifica intimamente con i soggetti rappresentati, e porta alla luce la forza estetica, etica, della gente del ferro. I fotografi (non citati, ma in molte immagini si riconosce lo sguardo autorevole di uno dei più grandi fotografi industriali italiani, il piombinese Lando Civilini) isolano momenti di storia operaia e ne conservano il significato: cittadini, operai, impiegati, dirigenti sembrano uscire da un album di famiglia. Il tempo narrato diventa storico, e -quando è assunto nella memoria e nella coscienza sociale- conserva verità eterne. La Verità non sta in una sola fotografia, ma nell’insieme fantastico che racconta il romanzo di una fabbrica e della città, e la Verità -quando cade nella fotografia autentica/documentaria- esprime il ritratto di un’epoca. ❖