FOTOgraphia 219 marzo 2016

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Settimio Benedusi ES_SENZA

Pentax K-1 REFLEX FULL FRAME

GIANFRANCO SALIS SGUARDO SU TINTO BRASS


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prima di cominciare OLTRE IL NOME DELLA ROSA. Venerdì diciannove febbraio è mancato Umberto Eco, una delle autorità della cultura italiana. I giornali lo hanno ricordato autore di Il nome della rosa, romanzo del 1980, dal quale è stato anche sceneggiato un film diretto da Jean-Jacques Annaud, del 1986, con protagonista Sean Connery. Personalmente, preferiamo altro. Tra tanto, ci ha sempre affascinato la sua partecipazione all’Ouvroir de Littérature Potentielle (OuLiPo; officina di letteratura potenziale), che annoverò tra le proprie fila anche Raymond Queneau (fondatore), George Perec e Italo Calvino. In questo ambito, Umberto Eco ha compilato avvincenti tautogrammi (raffinato gioco linguistico, è un componimento nel quale tutte le parole hanno la medesima lettera iniziale), tra i quali ricordiamo il memorabile Povero Pinocchio. Quindi, segnaliamo anche i suoi lipogrammi costituiti -ancora a gioco linguistico- da un testo nel quale non può essere usata una determinata lettera, oppure composti con l’uso di una sola vocale. È il caso della poesia La mamma, limitata alla vocale “a”.

La mamma Casta, santa, brava, allatta, alata gatta, cavalla, capra (narra Saba). Fa sana panna, sala la pappa al baccalà, la dà alla panza, alla garganta, all’amata ragazza nata. Canta la nanna. S’alza all’alba, s’attarda, abbassa tarda la lampada, ramazza, s’arrabatta, paga la rata. Salda, parca, accatta la patata, la castagna, l’ananas, la lasagna, l’anatra, la bacca, la lana, la matassa all’arca, alla cassapanca. Mamma: apax. Accastata, ama papà. Ma a gara l’Altra trama la cabala, Magdala da sassata, stramba, laccata, balzana prava da caldana, barbara atta al marasma. Pazza papà assalta, matta n’allarga la patta, la gratta, n’azzanna la palla, la slappa, la palpa, la bagna, la sbrana… Avvampa affannata, s’aggrappa alla barba, attratta accavalla l’anca anarca, alza la gamba… Ah la gazza fa gazzarra! La casa? Spaccata, affamata. La mamma s’adatta. Ammalata d’asma, avanza stanca, la scarpa da panda, slabbrata, scalcagnata, la larga casacca strappata, la spalla abbassata. Annaspa affranta, casca dalla scala, almanacca, s’allarma ch’accada la frana, la valanga, la cataratta all’altana, alla capanna. Alza lagna alla navata. anta: aspra ed astra. L’Altra, prava, scaltra, ladra, mala razza da satana (salamandra da sabba), ama la cassata, la canasta, la salangana, l’allappa l’Albana d’annata (marsala, malaga, grappa), l’Alfa, fa la vasca smaccata, balla la czarda, la pavana, la lambada, la sarabanda al Gala, pazza scarta la carta a baccarà, fa l’alalà all’Atalanta, anagramma. L’Aga Khan l’arrazza, l’appaga anal. Ama la palanca, s’abbassa a tanta manna: va a Panama, ammarra la barca, svaccata, vaga s’aggrada, vaga raccatta tanta caparra dannata, l’accapparra, l’accatasra e Calatrava, alla banca ammassa dracma, sfarfalla. Assatanata dalla gangia, fa da ganza al gagà barabba, ah la bazza! Farà la grana, avrà la lacca, l’agata, la granata, la malacca. Ammazzala! Sbanda la madama, Lallarallà! Ma paga la magagna! Batta la nasata! Dramma: la vacca da bassa tacca attracca alla mammana! Passata la farsa (la scampagnata, la bravata, la cagnara, la stravaganza, la cavalcata), manca lassa la tasca. Magna cacca. Arsa dalla vana mattana, datata, sdata, baldracca scassata, frasca, cagna, fantasma, cala gabbata a Malta, a Zara. Accaldata d’afa vasta alla savana, passa all’ambra araba, all’armata afra - aspra masnada, amalgama d’abracadabra, casamatta, santabarbara d’Ambaradam. Basta. Amara, s’ammazza all’Asmara. Cala la bara.

La conoscenza della fotografia autentica ridesta la coscienza, la sua mercificazione servile l’uccide. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Da cui e per cui, il fotografo professionista riconduce alla stessa Fotografia anche propri riverberi intimi. mFranti; su questo numero, a pagina 9 Da cui e per cui, il fotografo professionista riconduce alla stessa Fotografia anche propri riverberi intimi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 62 Ancora, dobbiamo rilevare come e quanto l’attuale racconto visivo della vita nel proprio svolgersi sia scandito dal dolore (degli altri). Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 33 In fotografia e dappertutto, l’entusiasmo degli imbecilli (specie di sinistra) è deleterio: non hanno ancora compreso che la differenza tra intelligenza e stupidità risiede nella maniera di maneggiare l’arma della Verità (anche con la Fotografia). Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64

Copertina Posato di Tinto Brass, dalla galleria di fotografie di scena (e altro) realizzate da Gianfranco Salis, che compongono i tratti dell’allestimento espositivo Uno sguardo libero, che al Complesso del Vittoriano, di Roma, celebra il noto regista. Da pagina 56

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo del foglio Souvenir Millennium 1000-2000, di Palau, emesso il 2 febbraio 2000. L’invenzione della fotografia è riferita al 1826 del primo esperimento riuscito di Joseph Nicéphore Niépce (altre fonti datano al 1827)

7 Editoriale Il valore della “carta”, con tutto il proprio autorevole carico di affidabilità e approfondimento... ed etica

8 Nel nome dei padri... Richiamo motivazionale (e non soltanto questo) al commovente progetto Es_senza, di Settimio Benedusi, visualizzato, presentato e commentato da pagina 42

10 Sigma al passo di... Due nuove convincenti Mirrorless Sigma sd Quattro e Sigma sd Quattro H accrescono un comparto tecnico-commerciale di straordinario riferimento attuale


MARZO 2016

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

12 Cine Harper’s Bazaar Il primo assegnato di Giovanni Gastel per la leggendaria testata statunitense (con edizioni internazionali), del cui staff fa ora parte, allinea la moda al cinema: con serata di celebrazione (e merito). E altro richiamo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Anno XXIII - numero 219 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

15 Storia italiana Uliano Lucas e Tatiana Agliani hanno compilato una autorevole Storia del fotogiornalismo in Italia. Il loro La realtà e lo sguardo è un approfondito studio del quale non si dovrebbe/potrebbe fare a meno

18 Toni di giallo Due libri sono cadenzati al ritmo di fotografie che accompagnano il testo: Maurizio de Giovanni e Renzo Bertasi a ridosso della narrativa noir

22 Mia Fair 2016 Incontro con Fabio Castelli, ideatore e direttore della prestigiosa rassegna dedicata alla fotografia da collezione: per la sesta edizione, a fine aprile

26 Ecco qui, Pentax

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Gian Paolo Barbieri Settimio Benedusi Renzo Bertasi Pino Bertelli Antonio Bordoni Tinto Brass Fabio Castelli mFranti Angelo Galantini Chiara Lualdi Gian Paolo Randazzo Franco Sergio Rebosio Gianfranco Salis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

Reflex di prestigio e vertice, la Pentax K-1, con efficace sensore di acquisizione full frame, è top di gamma di Antonio Bordoni

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

30 Il dolore degli altri

● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

Anno dopo anno, il World Press Photo è fedele testimonianza delle brutture della vita attuale. In conferma, l’attuale edizione 2016 ribadisce. Ahinoi di Angelo Galantini

42 Momenti da ricordare Es_senza: commovente progetto di Settimio Benedusi di Maurizio Rebuzzini

49 Fabbriche 1933-1953 Al Mast, di Bologna, la fotografia industriale dello svizzero Joakob Tuggener, fotografo di spicco e alto valore

● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

56 Sguardo libero La cinematografia di Tinto Brass nelle fotografie di scena di Gianfranco Salis: in mostra, a Roma

64 Fotografia della povertà In sedici passi, sguardi sull’immagine di opposizione di Pino Bertelli

www.tipa.com


Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato

di Alessandro Mariconti

via Foppa 40 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it

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editoriale C

incischiando con le compagnie del lavoro giornaliero, da tempo, abbiamo a che fare con attori che si sono presentati alla ribalta da poco, ma hanno presto affermato la propria autoritaria personalità, fino a imporla. Ovviamente, ci riferiamo a quanto è raggiungibile attraverso uno dei monitor che accompagnano l’attualità di ciascuno di noi, in professionalità o meno poco conta. In questo senso, è evidente e palpabile una certa scissione generazionale. Considerata la rapidità delle trasformazioni tecnologiche che influiscono sulla nostra vita, si registra una certa divisione tra coloro i quali arrivano da altri momenti, con consuetudini apprese nel tempo, ovverosia nel passato, e chi, invece, anagraficamente nativo digitale, è proiettato solo sul presente assoluto. A conseguenza diretta e inevitabile, oggi coesistono almeno due approcci alla conoscenza e all’informazione: mantenendo la stessa cadenza appena rilevata, i meno giovani (diciamola così) utilizzano le nuove opzioni tecnologiche, a partire dalla Rete, allo stesso modo in cui hanno precedentemente agito in loro assenza; mentre, i più giovani accettano il presente in maniera e misura assolute. Cosa distingue un criterio dall’altro? La prudenza e l’accertamento e l’approfondimento delle fonti. Realisticamente parlando, l’attualità della Rete, con propri annessi e connessi, è a dir poco fantastica: almeno, e al minimo, straordinaria fonte di informazioni, facilmente raggiungibili. Però, attenzione, la prudenza e l’accertamento appena accennati sono indispensabili, per distinguere dove e con chi ci si relaziona. Infatti, a differenza dei tempi precedenti, composti di sola carta (in forma di periodici o libri), la semplicità di parola in Rete e l’assenza di qualsivoglia filtro selettivo, sia di chi scrive, sia universale di chi dovrebbe esaminare preventivamente, crea confusione e turbamento. Come appena annotato, per forza di cose, i nativi digitali non possiedono alcuna difesa e non hanno i mezzi per distillare e selezionare ciò che incontrano. Tanto che, se proprio vogliamo individuare un retrogusto amaro dell’attualità tecnologica, possiamo limitarci a questo aspetto. Infatti, per quanto siamo consapevoli dell’ineluttabilità del progresso, che influisce sulle esistenze, e della sua sostanziale positività, dobbiamo anche considerare l’ingerenza dei singoli e di chi ne fa cattivo uso. Come spesso annotiamo, e qui ribadiamo una volta di più, una volta ancora, mai una volta di troppo: parliamo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza. Dunque, nessuna tecnologia è a priori “angelo o demone”... casomai lo sono coloro i quali la applicano (nei due sensi). A questo punto, e in conclusione, onore e merito a coloro i quali, magari noi tra questi, persistono a considerare sostanziale la raccolta su carta di idee e opinioni: a patto che siano espresse con competenza e conoscenza. E distribuite per autentica capacità di farlo. Niente di più e niente di meno di questo. Maurizio Rebuzzini

In adattamento e finalizzazione dalla copertina di FOTOgraphia, dello scorso novembre 2015, visualizzazione di “carta”, in difesa della quale rivendichiamo ruoli e competenze, in approfondimento di intenti. Certo, e ci mancherebbe altro, plauso e merito alle tecnologie digitali che accompagnano la nostra vita; ma, allo stesso tempo, richiamiamo l’attenzione sulla necessaria e indispensabile proprietà di filtri selettivi, per identificare le fonti di informazione alle quali accediamo e con le quali arricchiamo il nostro bagaglio individuale di nozioni e informazioni.

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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)

NEL NOME DEI PADRI...

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Imperia, 21 agosto 2015. «Oggi, otto anni fa, è mancato mio papà, Marsilio. Marsilio era un gran bel tipo. Era il mio papà. Oggi, con mia mamma Renza, siamo andati alla messa in suo ricordo. Prima, però, ho voluto scattare questa immagine, appena svegli, alle sette e mezza del mattino».

Milano, 2 dicembre 2015. Settimio Benedusi e la mamma Renza Abbondi, si incamminano verso piazza del Duomo, alla conclusione della serata di inaugurazione dell’allestimento di Es_senza, alla Leica Galerie Milano.

GIAN PAOLO RANDAZZO

S

Su questo stesso numero, da pagina quarantadue, presentiamo il commovente progetto fotografico Es_senza, realizzato dal talentuoso Settimio Benedusi. In sintesi: dittici su base di fotoricordo della sua infanzia, che cancellano il padre scomparso. In ripetizione di quanto lì annotato, confermiamo che questa interpretazione (in forma di alterazione volontaria e consapevole) riconduce la fotoricordo alla propria missione originaria ed esplicita, che accompagna le nostre esistenze, avvalorandone i ricordi. In analoga ripetizione, ribadiamo che la sottrazione del padre scomparso è tale solo in apparenza formale, dalla quale lì partiamo per riflessioni in sostanza. Comunque, sia chiaro, che si tratta di assenza (fisica) apparente, che sottolinea con amore e partecipazione la presenza continua del padre. Su un altro piano, complementare a quello delle riflessioni specificamente riferite al passo fotografico dei dittici di Es_senza, di Settimio Benedusi, ancora e anche qui ribadiamo come questo commosso ricordo (commovente nei suoi contenuti espressivi e intimi) sia stato declinato con termini e stilemi della cadenza esistenziale che guida e governa la vita quotidiana di Settimio Benedusi, fotografo senza soluzione di continuità di pensiero e progettazione. Dunque, in combinazione, qui e ora, riteniamo doverose altre considerazioni, che dalla materia statutaria di nostro incontro partono per un tragitto di riguardi in condivisione: al solito, e come sempre affermiamo, che la Fotografia non sia mai e solo arido punto di arrivo, ma sempre fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Allora... gli affetti familiari, i grandi riferimenti originari di ciascuna esistenza. Allora... il rapporto figlio-genitori e viceversa, tenendo conto che lo svolgimento della vita è scandito dall’alternarsi delle generazioni, dalla trasmissione di valori, in verticale: dai genitori ai figli. Ma tenendo anche conto di quanto i figli possono -a propria volta- insegnare... anche ai genitori. Quando una fine arriva, chi resta de-


FRANCESCO SANNITO

ve elaborare il proprio dolore, deve rasserenare i propri ricordi, deve far riaffiorare i momenti felici (e auguriamo a tutti che i tempi della fine siano in ordine con le rispettive anagrafi, nel rispetto dei cicli esistenziali: terribile deve essere il dolore di sopravvivere ai propri figli). La formulazione di pensieri rasserenanti e rassicuranti ha un grande alleato, il Tempo. È il Tempo che attenua i toni, che cancella l’indesiderato, che valorizza le felicità. Ma il Tempo non basta, oppure è troppo generico: è a disposizione di tutti, è statico e non dinamico, scorre senza picchi. Per chi è in grado, e bisogna riconoscere che non tutti lo sono (una volta abbattuto il Muro di Berlino, possiamo anche piantarla lì con l’uguaglianza arida e sintetica), è a disposizione un altro straordinario complice: la propria capacità di pensiero individuale, svolta come e per quanto ciascuno è capace di fare, distesa secondo i propri modi di vita attiva. Anche qui, ancora qui, ripetiamo un’ipotesi che riferiamo nella presentazione/celebrazione del commovente progetto Es_senza, di Settimio Benedusi, da pagina quarantadue. Siamo convinti che l’attività produttiva dell’uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli uomini.

La pratica professionale è uno dei criteri con i quali raggiungere il senso della realtà e della verità, ovvero l’autentica conoscenza del mondo esterno. Però, ciascuno di noi riceve conferma della verità della propria conoscenza solo dopo che -nel corso del processo esistenziale materiale- ha raggiunto i risultati previsti. Da cui e per cui, il fotografo professionista riconduce alla stessa Fotografia anche propri riverberi intimi: nello specifico, Es_senza, di Settimio Benedusi fotografo. Da cui e per cui, chi vive con la scrittura riconduce alla stessa Scrittura anche i propri riverberi intimi: nello specifico, La notte di Natale, di Maurizio Rebuzzini giornalista, in FOTOgraphia, del dicembre 2008. Quale ricordo può essere più emozionato e partecipe, di quello che ci impegna per ciò che siamo, che indirizza i nostri pensieri con quelle pratiche attraverso le quali avviciniamo il senso della realtà e della verità? Probabilmente, certamente... nessuno. Da e con Settimio Benedusi, in ricordo del padre Marsilio, mancato nel 2007, a ottantaquattro anni [su questo stesso numero, da pagina quarantadue]: «Oggi, otto anni fa, è mancato mio papà, Marsilio. Marsilio era un gran bel tipo. Era il mio papà. Oggi, con mia mamma Renza, siamo andati alla messa in suo ricordo. Prima, però, ho voluto scattare questa immagine, appena svegli, alle sette e mezza del mattino». Da e con Maurizio Rebuzzini, in ricordo del padre Natale, mancato nel 1979, a settant’anni [nel centenario dalla nascita 1908-2008; FOTOgraphia, dicembre 2008]: «L’ho cono-

Autunno 2009. Martina Galantini (Rebuzzini), è stata uno dei soggetti testimonial dell’affissione (sei metri per tre) che, a Milano, ha evocato la beatificazione di don Carlo Gnocchi (25 ottobre 2009).

6 novembre 1935. Sul retro di questo ritratto di Natale Rebuzzini, certificato in rilievo “F. Celso, corso XXII marzo 19, Milano”: «Tina, come un fior nel suo dolce profumo nel mio cuor sei sbocciata. A te questa mia per far che possa essere mai dimenticato». La dedica richiama l’incontro con Martina, che avrebbe sposato l’8 maggio 1937. È l’unico suo scritto del quale ho mai avuta notizia.

sciuto tardi, quando la sua vita era abbondantemente avviata e incanalata; non ho avuto alcun peso nella sua esistenza. Oggi, non ieri, quando lo avevo a portata di mano, lui ne ha molto nella mia. Non passa giorno che non gli rivolga un pensiero, che non lo chiami a testimonianza delle mie azioni, sperando che qualcosa di ciò che sto facendo sia per lui motivo di orgoglio: anche se non sono mai riuscito a dirgli -non spiegargli, proprio dirgli- verso dove stavo incamminandomi». Da e con Maurizio Rebuzzini, in ricordo della madre Martina, mancata nel 2010, a novantasette anni [nel centenario dalla nascita 1913-2013; FOTOgraphia, novembre 2013]: «Una sera, magari anche per gratificare quel suo avermi riaccolto senza fare domande e senza esprimere giudizi (se non l’osservazione secondo la quale il mio posto giusto sarebbe dovuto essere altrove e con altri... ma!), per ricambiare quel vivere assieme adeguatamente grottesco, con lei a farmi da mamma, come se invece di cinquant’anni passati ne avessi avuti ancora dieci, mi proposi mete culinarie di maggiore consistenza e soddisfazione. Mi procurai una ricetta per un buon minestrone, andai a comperare tutti gli ingredienti, mi esercitai con pazienza e, alla fine, produssi il mio piatto forte. Orgoglioso di tanto, le chiesi se le fosse piaciuto. Risposta laconica, educata, ma esplicita: “Almeno, era caldo”. Almeno era caldo: e questo merito, del quale vado fiero e orgoglioso, è una benemerenza che nessuno potrà mai togliermi. Comunque vadano a finire le vicende individuali della vita». Nel nome di padri (e madri). ❖

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Mirrorless di Antonio Bordoni

SIGMA AL PASSO DI...

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Prima di presentare le due nuove configurazioni fotografiche Sigma sd Quattro e Sigma sd Quattro H, che ribadiscono la vocazione progettuale della celeberrima produzione giapponese, che si divide tra una consistente gamma di obiettivi e un sistema di apparecchi di alta personalità, vale la spesa annotare che sono state presentate come “Mirrorless”, ovverosia senza specchio reflex. Nell’uso comune, la qualifica è sostanziosamente chiara e non si presta ad alcun fraintendimento: per l’appunto, “senza” (less) “specchio” (mirror). Se non che, con pratica suicida, che è ormai trasversale alla proposta fotografica dei nostri tempi (lontani, ormai, i momenti di chiarezza verso il pubblico), le aziende del settore hanno optato per una definizione ufficiale su base tecnica (da addetti ai lavori, non tradotta al pubblico): CSC... Compact System Camera. Che differenza sottolinea l’industria fotografica? Che si tratta di apparecchi (Camera) di dimensioni ridotte (Compact), con sistema di obiettivi intercambiabili e di accessori diversificatori (System). Ebbene, a questo dobbiamo attenerci quando e per quanto certe ufficialità di identificazione lo esigono (per esempio, nella cadenza dei TIPA Awards, che vengono presentati ogni anno, a giugno). Però, sappiamo bene come e quanto, nel linguaggio comune, nelle conversazioni e nelle negoziazioni all’atto di acquisto/vendita, nessuno vada oltre la chiarezza esplicita di “Mirrorless”, che mette tutti in condizione di comprendersi. Bene. Dall’inizio. La nuova famiglia di apparecchi fotografici Sigma, la cui offerta comprende anche le dp Quattro di eccellenza assoluta (certificata anche da un prestigioso TIPA Award 2014; FOTOgraphia, giugno 2014), conferma alcune delle proprie tecnologie proprietarie, nel momento nel quale ne frequenta anche altre di dominio pubblico. Due le dotazioni di esordio, che riprendono il senso del richiamo identificativo della gamma dp: Sigma sd Quattro e Sigma sd Quattro H, che si indirizzano a una fascia alta del mercato, scandendo ca-

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Dotata di sensore Foveon X3 Quattro, in dimensioni APS-H, di 26,6x17,9mm, da cinquantuno Megapixel di risoluzione, la Sigma sd Quattro H è la configurazione di più alto prestigio tecnico del nuovo sistema fotografico Mirrorless della nobile e celeberrima casa giapponese. Esordisce insieme alla Sigma sd Quattro, con sensore in dimensioni APS-C, da trentanove Megapixel. Per il sistema a obiettivi intercambiabili è stata creata la baionetta Sigma SA.

ratteristiche di uso di profilo elevato. Subito confermato: entrambe adottano il sensore di acquisizione a immagine diretta Foveon X3 (della generazione Quattro). Basate sul concetto della compatta Sigma SD1 Merrill, sul mercato da tre anni, circa, le attuali Sigma sd Quattro e Sigma sd Quattro H sono Mirrorless a ottiche intercambiabili (altrove e altrimenti... CSC / Compact System Camera). Per l’occasione è stata creata la baionetta Sigma SA. Compatte e leggere, come da protocollo, accedono all’intera gamma di obiettivi Sigma Global Vision -scandita al ritmo delle linee Contemporary, Art e Sports-, e sono progettate per mettere a buon frutto, al miglior frutto, le prestazioni ottimali degli stessi obiettivi. La Sigma sd Quattro adotta un sensore in dimensioni APS-C, da trentanove Megapixel, fotograficamente equiparabile alla qualità in pellicola dei fotogrammi medio formato; diversamente, la Sigma sd Quattro H propone un sensore di acquisizione in dimensioni APS-H, di 26,6x17,9mm. Si tratta di un nuovo e più grande sensore Foveon X3 Quattro, che raggiunge la risoluzione di ben cinquantuno Megapixel, a garanzia di prestazioni fotografiche straordinariamente efficaci... quantomeno dal punto di vista formale: la qualità dei contenuti non spet-

ta all’industria produttrice, ma è materia del fotografo utilizzatore. Comunque sia, è proprio il sensore di acquisizione di immagini Foveon X3 Quattro che qualifica e definisce la tecnologia fotografica Sigma. Tecnologia proprietaria, il sensore a immagine diretta mette a frutto le caratteristiche di assorbimento della luce da parte del Silicio; utilizza tre strati di fotodiodi, collocati a diverse profondità nello strato di Silicio, ciascuno corrispondente a un colore RGB. È l’unico sensore al mondo a sfruttare la separazione verticale dei colori. Non ha bisogno di filtro passa basso, per correggere le interferenze provocate dalla struttura tipica dei normali sensori. Il sensore Foveon X3 Quattro a immagine diretta tiene conto di tutte le informazioni veicolate dalla luce, comprese quelle relative al colore. Il suo rapporto tra pixel è 1:1:4, rispettivamente nello strato inferiore, medio e superiore. I dati riguardo la luminanza recepiti dallo strato superiore sono applicati agli strati medio e inferiore. Questa particolare struttura consente di processare i dati immagine velocemente e con precisione, con calcoli basati sul cento percento dei dati blu, verde e rosso. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

CINE HARPER’S BAZAAR

G

Giovedì undici febbraio, l’arrivo del fotografo italiano Giovanni Gastel nello staff dell’autorevole e prestigioso Harper’s Bazaar, con sua proiezione sulle edizioni internazionali della leggendaria testata di moda, è stato celebrato con una serata in onore ispirata a Fashion & Cinema. Con questo, sono stati sottolineati lo spessore e valore del primo servizio realizzato da Giovanni Gastel, che -secondo accordi- verrà pubblicato in tutte le edizioni di Harper’s Bazaar: ognuna, con proprie programmazioni redazionali, ma tutte entro l’arco di tre/quattro mesi. A seguire, con cadenza serrata, Giovanni Gastel realizzerà altri servizi di moda con identica proiezione e pianificazione internazionale. Ben per lui, prima di tutto, e bene anche per l’implicito riconoscimento di un talento italiano, che non si esaurisce nella propria geografia originaria. Come è intuibile, e senza nessuno sforzo di pensiero, il primo servizio che Giovanni Gastel ha creato per Harper’s Bazaar è stato declinato con una cadenza fotografica che osserva il mondo del cinema, interpretato con indispensabili riferimenti e richiami alla moda: come da mandato esplicito. Ovverosia, l’attento fotografo -che appartiene al ristretto novero delle attuali eccellenze planetarie del professionismo [nostro più recente richiamo in FOTOgraphia, dello scorso settembre 2015, con lancio dalla copertina e presentazione della sua autobiografia]- ha rivisitato dodici film che hanno influito sulla sua vita, sulla sua personalità, sulla sua educazione all’immagine. Senza alcuna scala gerarchica, ma in un elenco richiamato a memoria (nostra), i dodici film sono: Matrimonio all’italiana, di Vittorio De Sica (1964); Blow-Up, di Michelangelo Antonioni (1966); Romeo e Giulietta, di Franco Zeffirelli (1968); Bella di giorno, di Luis Buñuel (1967); Morte a Venezia, di Luchino Visconti (1971); Il gattopardo, di Luchino Visconti (1963); Lawrence d’Arabia, di David Lean (1962); Il padrino: Parte II, di Francis Ford Coppola (1974); Ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci (1972); La dolce vita, di Federico Fellini (1960); Vertigo (in

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Italia, La donna che visse due volte), di Alfred Hitchcock (1958); Cleopatra, di Joseph L. Mankiewicz (1963). Al momento, queste fotografie di Giovanni Gastel non possono essere pubblicate al di fuori del circuito delle edizioni nazionali di Harper’s Bazaar; però, appena saranno liberate, ipotizziamo dal prossimo luglio (speriamo), sarà nostra premura presentare questa avvincente e convincente galleria rievocativa, celebrativa del cinema nella sua più autorevole espressione. Per il momento, richiamiamo una curiosa combinazione, una singolare circostanza: quella del consistente ritorno al cinema di Harper’s Bazaar, a quasi sessant’anni dalla sua fascinosa evocazione nel film Cenerentola a Pa-

Poster di lancio e invito alla serata in onore di Giovanni Gastel, in occasione del suo ingresso ufficiale nello staff dell’autorevole Harper’s Bazaar: a New York, lo scorso undici febbraio. Onore e merito all’apprezzato fotografo italiano, in proiezione internazionale [nostro più recente richiamo in FOTOgraphia, del settembre 2015].

rigi, in originario Funny Face, diretto da Stanley Donen, nelle sale cinematografiche dal 1957 (prima proiezione, negli Stati Uniti, il tredici febbraio... quasi in coincidenza di date/anniversario con la serata newyorkese di celebrazione di Giovanni Gastel, l’undici febbraio). Di Cenerentola a Parigi (Funny Face) ci siamo occupati in due occasioni precedenti, sempre e comunque in questo ambito redazionale riservato alla presenza della fotografia nel cinema (sceneggiature e/o scenografie): nel luglio 2008, sottolineammo come la sequenza programmata dei titoli di testa del film certifichi a chiare lettere la consulenza di Richard Avedon, autore anche delle fotografie di moda via via visualizzate; quindi, nel febbraio 2013, ci soffermammo sulla cadenza “stopposa” della sceneggiatura in forma di musical, con terribile balletto dei protagonisti Fred Astaire e Audrey Hepburn alla tenue luce rossa della camera oscura (giudizio personale, giudizio individuale). Qui e ora, in occasione di questa insolita coincidenza, che si basa sulla nostra particolare considerazione della presenza della fotografia al cinema, ripetiamo e riprendiamo i termini sostanziali della vicenda sceneggiata, con relativa evidenziazione che l’atmosfera del giornalismo di moda evocata si basa -per l’appunto- sull’esperienza redazionale di Harper’s Bazaar. Come esplicitamente sottolineato nel titolo italiano, si tratta di una sostanziale reinterpretazione della favola di Cenerentola, con ruoli adattati: dopo l’invasione nella sua polverosa bottega da parte del fotografo di moda Dick Avery (interpretato da Fred Astaire e disegnato sulla personalità di Richard Avedon... tanto che “Dick” è il diminutivo corrente di Richard), attorniato da fascinose modelle e da uno staff invadente e sfacciato, la colta, timida e schiva libraia del Greenwich Village, di New York, Jo Stockton (nientemeno che Audrey Hepburn, forse la più elegante e raffinata figura del cinema di tutti i tempi) viene ingaggiata per un servizio di moda a Parigi, dove e quando le luci della ribalta ne esaltano l’indiscussa personalità.


Cinema

Nota a margine: per quanto comparse a margine dei due protagonisti, nella scena in libreria agiscono autentiche modelle di quei tempi. Tra queste, segnaliamo la presenza di due in particolare, con le quali sono state anche scritte pagine significative e significanti della fotografia di moda: Suzy Parker e Dovima (nei panni di Marion), che è poi il volto/corpo della celebre fotografia Dovima con gli elefanti (Cirque d’Hiver; Parigi, agosto 1955), di Richard Avedon [FOTOgraphia, dicembre 2010]. Per quanto l’allora trentatreenne Richard Avedon sia accreditato come consulente del colore e degli effetti fotografici di Funny Face (Cenerentola a Parigi ), come abbiamo appena annotato, è evidente che la figura del fo-

L’ambiente di Harper’s Bazaar fa da sfondo al film Funny Face (in Italia, Cenerentola a Parigi), di Stanley Donen, del 1957 (locandina e posato promozionale), con Audrey Hepburn. Interpretato da Fred Astaire, nei panni del fotografo Dick Avery, il protagonista maschile è disegnato a misura di Richard Avedon, accreditato nei titoli di testa come consulente degli effetti fotografici [ FOTOgraphia, luglio 2008]. Tra tante altre note, l’allineamento della sceneggiatura con Harper’s Bazaar è curiosamente sottolineato dall’art director Dovitch, che evoca il leggendario art director Alexey Brodovitch, personalità fondante della storia della moda, dell’editoria della moda e della fotografia di moda.

tografo professionista interpretato da un poco credibile Fred Astaire sia stata confezionata sulla sua taglia. Allo stesso momento, identifichiamo con certezza i richiami ispiratori della raffigurazione cinematografica del mondo della moda, che spesso cede al caricaturale (a volte, forse troppe volte, il cinema statunitense si lascia prendere la mano, scordando che ogni espressione visiva sia sempre e comunque un “esercizio a togliere”: le aggiunte sleali sminuiscono e invalidano il tragitto lineare). Quindi, capricci e isterismi della redazione della rivista di moda newyorkese, dalla quale parte il racconto: e qui -su basi certe- ipotizziamo un (irriverente?) parallelo con Harper’s Bazaar e con

il suo leggendario art director Alexey Brodovitch (Dovitch sullo schermo). Già... Alexey Brodovitch: personalità fondante della storia della moda, dell’editoria della moda e della fotografia di moda. Dunque, consapevoli di come Giovanni Gastel sia rispettoso del mondo professionale entro il quale agisce, e sia informato sulla sua storia ed evoluzione, immaginiamo la suggestione con la quale ha varcato l’ingresso della sede newyorkese di Harper’s Bazaar, nella quale si respirano climi e atmosfere che hanno inciso profondamente sulla stessa Storia della Fotografia. Per non parlare dell’onore e gratificazione di una serata di sua celebrazione. Sia chiaro: onore al merito. ❖



Fotogiornalismo di Maurizio Rebuzzini

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STORIA ITALIANA

Almeno tre sono le condizioni in base alle quali è legittimo esprimersi, ovunque e a ogni titolo si intenda farlo e a qualsivoglia pubblico ci si voglia indirizzare. Uno: avere competenza della materia proposta e, per diretta conseguenza, trattata. Due: avere la capacità di farlo, nel senso di possedere e padroneggiare i termini di dialogo e comunicazione adatti a raggiungere il proprio destinatario, qualsiasi questo sia e in ogni condizione nella quale vi si indirizza. Tre: avere, soprattutto, la voglia di farlo. E qui, a guardare bene, sta l’autentica discriminante di tutto, non soltanto di molto: il desiderio (l’aspirazione?) di non tenere per sé soltanto le proprie riflessioni, considerazioni e competenze, ma l’aspirazione (il desiderio?) di condivisione ed esternazione a tutto campo, senza alcuna avarizia, senza nessuna remora. Se così è, come siamo convinti che sia (ma non è il caso di andare oltre, in approfondimento: quantomeno, non qui e non ora), Uliano Lucas e Tatiana Agliani, che insieme hanno già firmato nobili pagine di racconti e relazioni sul fotogiornalismo in Italia, oltre che sull’impianto più generale della comunicazione visiva [1], possiedono e rivelano le tre condizioni conseguenti: hanno competenza della materia proposta e, per diretta conseguenza, trattata; possiedono e padroneggiano i termini di dialogo e comunicazione adatti a raggiungere il proprio destinatario; e, soprattutto, hanno voglia di farlo. Da cui, la loro recente Storia del fotogiornalismo in Italia, sottotitolo esplicativo dell’ottimo saggio La realtà e lo sguardo, pubblicato da Giulio Einaudi Editore lo scorso dicembre, si offre e propone come opera fondante per definire e identificare una sequenza di fatti (e misfatti) che hanno scandito di termini della fotografia applicata e subordinata all’informazione giornalistica nel nostro paese. Rispetto altre considerazioni sulla fotografia, per le quali abbiamo oggi a disposizione una infinita quantità di testi (magari, lo stesso non possiamo

conteggiare in qualità [2]), l’analisi di Uliano Lucas e Tatiana Agliani ha il merito e valore della concretezza. Nonostante il titolo del loro saggio sia in qualche misura “evocativo” -La realtà e lo sguardo-, la trattazione è rigorosamente consistente e “materiale”: per l’appunto, Storia del fotogiornalismo in Italia. Ovverosia, non ci si perde in considerazioni estetiche e teoriche, ma si percorre un tragitto solido e certificato, scandito da momenti sociali influenti sullo svolgimento delle esistenze: qualsiasi cosa questo possa significare per ciascuno di noi. La risposta che arriva dalle intense pagine dell’avvincente e convincente testo-saggio assolve una delle condizioni che consideriamo discriminanti per l’intero cammino della fotografia che non rimane nei cassetti, che non allestisce soltanto mostre, che non vola sopra le teste, senza sfiorare nulla e nessuno. La risposta è pertinente e indiscutibile: come e quanto, e per quanto, la Fotografia abbia influito (e influisca) sulla Vita. Infatti, e in definitiva, bisogna essere consapevoli che il sistema del giornalismo, al quale la fotografia offre il proprio linguaggio fotogiornalistico, è quello che -insieme ad altri, sia chiaro- declina idee e opinioni che formano le coscienze. E di questo, del valore sociale della fotografia di giornalismo, sono perfettamente consapevoli i due autori, Uliano Lucas e Tatiana Agliani, che hanno scandito passi consequenziali di una vicenda dai connotati noti e dal dietro-le-quinte da decifrare e codificare. D’accordo o meno con le opinioni che vengono espresse -a ciascuno, le proprie considerazioni al proposito-, non si può soprassedere sullo straordinario valore assoluto e inviolabile dell’apparato allestito. Passo a passo, Uliano Lucas e Tatiana Agliani percorrono la vicenda del fotogiornalismo in Italia, con contestualizzazioni sociali che hanno identificato e definito lo scorrere degli anni e dei decenni. In un tragitto anche cronologico, finalizzato alla comprensione storica dei singoli tempi e momenti, si incontrano

La realtà e lo sguardo - Storia del fotogiornalismo in Italia, di Uliano Lucas e Tatiana Agliani; Giulio Einaudi Editore, 2015; 600 pagine 14,5x22,5cm; cartonato con sovraccoperta; 42,00 euro.

i protagonisti di questa fantastica Storia... del fotogiornalismo in Italia. In questo senso, e neppure tanto a margine, c’è un altro riconoscimento che va attribuito ai due attenti autori: quello di ricordare e segnalare fotografi, agenzie e testate che altrove sono stati già dimenticati, oltre che sacrificati all’altare di quella mondanità che, volente o nolente, condiziona e ha condizionato molte retrospettive fotografiche dei nostri giorni, e di quelli immediatamente precedenti.

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Fotogiornalismo Al contrario, l’impegno e concentrazione di Uliano Lucas e Tatiana Agliani sono stati rivolti alla certificazione e considerazione di tutti coloro i quali hanno agito nell’informazione fotogiornalistica italiana. Su queste pagine, come già nella rassegna Fotogiornalismo in Italia 1945-2005, esposta e itinerata in numerose sedi nazionali e ospitata anche fuori dai nostri confini [FOTOgraphia, ottobre 2006 e novembre 2008], si ritrovano personalità sulle quali troppe storiografie hanno calato un velo di silenzio. Quindi, se un’altra misura va presa in considerazione, ecco qui un ulteriore valore assoluto e prezioso che eleva questo racconto sopra tanti. Forse, sopra tutti. A questo punto, prima di altri nostri riguardi, in presentazione e poi in conclusione, dal punto di vista formale va annotato che l’apparato fotografico di La realtà e lo sguardo è opportuno, sia per quantità (moderata, ma efficace), sia per scelta (mai casuale). Di fatto, in accompagnamento alle parole, una selezionata gallerie di fotografie visualizza ciò che il testo racconta, confermando i punti di vista e sottolineando i passaggi. Dunque e ancora, nulla di incorporeo, ma tutto finalizzato al racconto. L’intero e sostanzioso corpus del testo, che approda a ben seicento pagine di edizione libraria, è confortevolmente scandito su una sequenza di capitoli consequenziali. In ordine: ❯ Fotografia e fotogiornalismo tra Otto e Novecento (in quattro sottocapitoli) riconduce le origini della fotografia alle condizioni sociali dell’Italia a cavallo del secolo, con la nascita dei primi giornali illustrati; ❯ Fotografia e fotogiornalismo nel ventennio fascista (in dieci sottoca-

pitoli) spazia dalla celebrazione del regime per immagini e con immagini alle prime esperienze di agenzie e fotogiornalisti sul campo, con relativa fondazione di testate popolari; ❯ La liberazione dell’Italia e il dopoguerra (in due sottocapitoli) si sofferma sui termini di ricostruzione dell’apparato fotogiornalistico, con una approfondita analisi dell’esperienza di Il Politecnico, celebre e stimato settimanale fondato e diretto da Elio Vittorini, la cui esistenza è stata condizionata dai rapporti con il Partito Comunista di Palmiro Togliatti (che ne decretò anche la chiusura); ❯ Verso il miracolo economico: la normalizzazione del 1948 e gli anni Cinquanta (in dodici sottocapitoli) è probabilmente, e a nostro giudizio individuale, il capitolo fondante di tutto il racconto; è ponte tra passato e presente; è chiave di interpretazione del presente; è lucida analisi di un sistema di giornalismo che si è protratto in avanti nei decenni, e che ancora oggi persiste nel nostro paese; ❯ Fra tradizione e innovazione: la stampa negli anni Sessanta e Settanta (in tre sottocapitoli) sottolinea le condizioni nelle quali (a imitazione di esempi internazionali?) i fotogiornalisti furono attori protagonisti, nello staff giornalistico, al seguito di una variegata quantità/qualità di testate periodiche, che compresero anche quotidiani del pomeriggio, che spaziarono dalla cronaca all’approfondimento, sia a cadenza settimanale sia con tempestività giornaliera; ❯ Il Sessantotto e la fotografia (in tre sottocapitoli) richiama sia la fotografia della contestazione, sia il dibattito che -per forza di cose- dalla Vita approdò alla Fotografia stessa; ❯ La fine del rotocalco e le trasfor-

Note [1] Tatiana Agliani, studiosa di comunicazione visiva, si è formata all’università Ca’ Foscari, di Venezia, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Civiltà dell’India e dell’Asia orientale. Ha scritto saggi e curato libri sulla fotografia e il fotogiornalismo italiani, tra i quali La famiglia italiana nei rotocalchi, in L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia III (2006) e L’arte della vita è di scena al Jamaica, in Jamaica Arte e vita nel cuore di Brera (2012). Uliano Lucas, tra i maggiori fotogiornalisti italiani [FOTOgraphia, marzo 2010 e novembre 2013; Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del marzo 2008], è autore di consistenti progetti di studio e ricerca sul sistema dell’informazione e sulla storia del fotogiornalismo. Menzioniamo la collana Il fatto, la foto, di Idea Editions, e i volumi L’informazione negata (1981), Storia fotografica del lavoro in Italia (1982), Film: la storia, le immagini (1994), Fotoreporter italiani nell’ex Jugoslavia (1996), Carla Cerati: Milano 1960-1970 (1997).

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mazioni degli anni Ottanta (in dieci sottocapitoli) è l’ovvia introduzione alla situazione attuale: dalla svolta del sistema dell’informazione alla trasformazione dei quotidiani (sempre meno tali), alla nascita dei newsmagazine, agli allegati settimanali ai quotidiani, alla prepotente cronaca rosa; ❯ Dalla crisi del fotogiornalismo alla morte del reportage? Il sistema della notizia negli anni Novanta riconduce l’esperienza nazionale a equilibri ormai globali, alle nuove forme di informazione, all’affievolimento di antiche personalità professionali. A chiusura, un ulteriore capitolo finale: Conclusioni. Il fotogiornalismo ai tempi di internet. Prospettive e scenari abbandona la retrovisione, per introdurre e affrontare un dibattito di assoluta attualità e inviolabile presenza latente (ma non latitante) tra quanti si occupano di fotografia, soprattutto nel senso e misura del fotogiornalismo e dei suoi equilibri. Nostra conclusione: La realtà e lo sguardo - Storia del fotogiornalismo in Italia, di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, è un libro del quale non si dovrebbe fare a meno. Magari, rispetto altri tempi di avarizia di titoli, oggi è più difficile orientarsi all’interno di un’offerta che è proliferata esponenzialmente. Magari, rispetto tempi di scelte uniche e obbligate (visto che si pubblicavano pochi approfondimenti sulla fotografia), oggi la quantità a disposizione può risultare disorientante e frastornante. Se così è, abbiate fiducia del nostro giudizio, espresso a fronte di una frequentazione fotografica intensa e vigorosa: questo saggio merita che gli vengano dedicate serene serate di lettura. Il nostro sapere individuale ne uscirà rafforzato. ❖

Insieme, Uliano Lucas e Tatiana Agliani hanno lavorato a diverse pubblicazioni, tra le quali corre l’obbligo ricordare Storia d’Italia. L’immagine fotografica 1945-2000 (2004), Il fotogiornalismo in Italia. Linee di tendenza e percorsi 1945-2005 (2005), Pablo Volta. La Sardegna come l’Odissea (2007), Federico Garolla. In scena e fuori scena (2008), ’68. Un anno di confine (2008 [FOTOgraphia, ottobre 2008]) e È un meridionale però a voglia di lavorare (con Giorgio Bigatti; 2011). [2] Nel 1974, per un mensile che molti ancora ricordano, ma pochi possono aver effettivamente conosciuto, Photo 13, diretto da Ando Gilardi e Roberta Clerici, nel ruolo di giovane redattore, coniammo una metafora: «Al mondo, tutti credono di saper fare almeno tre cose: fotografare, scrivere di fotografia e andare a cavallo. Ahinoi, solo il cavallo protesta». A distanza di quarantadue anni, quella ipotesi non ha perso il proprio smalto originario.



Coincidenza di Angelo Galantini

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TONI DI GIALLO

Due libri nei quali fotografie selezionate accompagnano il testo, motivandolo e visualizzandolo, sono stati pubblicati in curiosa coincidenza. Non si tratta soltanto di percorso comune tra parole e immagini, quanto -più nello specifico- di due opere che partono e si estendono in un territorio comune: diciamola anche così. Da una parte, c’è il corposo Una domenica con il commissario Ricciardi, nel quale Maurizio de Giovanni, autore del ciclo di romanzi noir incentrati su questa figura, ambientati nella Napoli degli anni Trenta, ripercorre luoghi e situazioni che hanno guidato la sua scrittura; dall’altra, incontriamo Il mondo di Maigret, nel quale Renzo Bertasi illustra con proprie interpretazioni fotografiche romanzi del noto personaggio di Georges Simenon (che è stato anche attento fotografo; FOTO graphia, luglio 2008). Le affinità tra i due titoli finiscono qui. Infatti, Una domenica con il commissario Ricciardi, di Maurizio de Giovanni, si offre e propone come visione e interpretazione (quasi) di un fantastico dietro-le-quinte ispiratore di avvincenti romanzi. Mentre, su un piano differente, Il mondo di Maigret scandisce il passo di un commosso e sentito omaggio a uno dei più avvincenti (e umani, va rilevato) persecutori del crimine, che si distingue per statura e scrittura nell’ampio e diversificato panorama dei personaggi seriali della narrativa poliziesca e noir, genericamente identificata come “gialla”, nel nostro paese. Con ordine.

Una domenica con il commissario Ricciardi, di Maurizio de Giovanni; ricerca iconografica a cura di Stefania Negro e Luca Sorbo; prefazione di Paolo Mieli; Skira Editore, 2015; 176 pagine 16,5x24cm; 19,50 euro.

COMMISSARIO RICCIARDI Una domenica con il commissario Ricciardi riunisce otto racconti di Maurizio de Giovanni, che continua il ciclo avviato nel 2007 con l’originario Il senso del dolore. Il protagonista è richiamato nel titolo -per l’appunto, il commissario Ricciardi- e l’ambientazione è confermata: come appena annotato, la Napoli degli anni Trenta. La particolarità di queste ennesime vicende sta proprio nella propria combinazione con una intensa e av-

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Il mondo di Maigret, nelle fotografie di Renzo Bertasi; L’informazione (piazza Zaniboni 13, 46040 Monzambano MN; 0376-809483), 2015; 106 pagine 14,7x21cm; 20,00 euro.

vincente e convincente quantità/qualità di fotografie a corredo, che scandiscono tempi e modi del racconto. Certo, al possibile e per quanto possibile, riprendono e richiamano la narrazione, ma -allo stesso momentoabbracciano tutto il ciclo di romanzi noir incentrati sulla figura del com-

missario Ricciardi, che nello specifico di questa letteratura è anagraficamente il più giovane personaggio seriale, erede di una tradizione statunitense, inglese e francese (soprattutto) esordita con il leggendario investigatore bibliofilo Auguste Dupin, nato dalla penna di Edgar Allan Poe. Dunque, oltre il valore della scrittura di Maurizio de Giovanni, in questo specifico caso, onore e merito alla capillare ricerca iconografica a cura di Stefania Negro e Luca Sorbo. E, ancora, va sottolineata anche l’autorevole prefazione di Paolo Mieli. Alla buona maniera degli scrittori noir -non sempre ripetuta dalla letteratura nel proprio insieme e complesso-, l’atmosfera della vicenda che sta per essere narrata è chiarita e definita subito, per esempio nelle prime righe del racconto Caffè e sfogliatella, prego, il primo degli otto compresi nella raccolta Una domenica con il commissario Ricciardi. Testuale: «La sera precedente, Ricciardi aveva avuto la sorpresa di ritrovarsi di fronte, all’uscita della questura, nientemeno che Bruno Modo, lo scanzonato dottore che alla cura dei tantissimi malati che confluivano ogni giorno all’ospedale dei Pellegrini, nel vicino quartiere della Pignasecca, affiancava la competenza del miglior medico legale della città. «Se lo ritrovò appoggiato al muro che fumava, il cappello all’indietro, il colletto sbottonato dietro il nodo allentato della cravatta. Al suo fianco, come sempre a poco più di un metro, senza corda né guinzaglio, il cane pezzato che da circa un anno gli faceva compagnia. La sera era dolce e l’aria serena; settembre era avanzato, ma sembrava non aver la minima intenzione di mollare il ricordo della rovente estate che l’aveva preceduto». Temporalmente immediatamente successivo al precedente Anime di vetro, del 2015, ottavo titolo di Maurizio de Giovanni con il commissario Ricciardi, questo nono capitolo (in otto racconti) si focalizza su una domenica di settembre del 1932, che offre spunto e pretesto per intrecciare tra loro personaggi di straordinaria


© STEFANO FITTIPALDI, ARCHIVI PARISIO

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TRONCONE, NAPOLI (3)

Coincidenza

personalità: la narrazione collega le loro voci, i loro ricordi e i loro sogni, guidando il lettore attraverso una Napoli resa ancora più viva e reale dalle efficaci immagini d’epoca che accompagnano i suoi racconti. La bibliografia di Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) di romanzi noir incentrati sulla figura del commissario Ricciardi, ambientati nella Napoli degli anni Trenta, e pubblicati da Einaudi Stile Libero, è stata avviata nove anni fa: Il senso del dolore (2007), La condanna del sangue (2008), Il posto di ognuno (2009), Il giorno dei morti (2010, Premio Camaiore di Letteratura Gialla e Premio NebbiaGialla Suzzara per la letteratura noir e poliziesca), Per mano mia (2011), Vipera (2012, Premio Viareggio e Premio Camaiore di Letteratura Gialla), In fondo al tuo cuore (2014) e Anime di vetro (2015). Quindi, in Il metodo del Coccodrillo (Mondadori, 2012, Premio Scerbanenco) appare per la prima volta l’ispettore Lojacono, con il quale Mau-

rizio de Giovanni ha dato avvio a una ulteriore sequenza poliziesca, richiamata ai romanzi dell’Ottantasettesimo Distretto, di Ed McBain (che ha ispirato le serie televisive di indagine poliziesca), ambientata nella Napoli odierna: I Bastardi di Pizzofalcone (2013), Buio per i Bastardi di Pizzofalcone (2013) e Gelo per i Bastardi di Pizzofalcone (2014).

Tifoso allo stadio, con corno scaramantico in vetro (Studio Troncone, anni Trenta).

COMMISSARIO MAIGRET

(in alto) Gioco di carte per strada, giocatore con il moncherino (Studio Troncone, anni Trenta).

Si conteggia che tra il 1931 di origine, con Pietr il lettone, e il 1972 di fine, con Maigret e il signor Charles, siano settantacinque i romanzi con protagonista il celebre commissario inventato dallo scrittore belga Georges Simenon (1903-1989). In Italia, la sua fama è inviolabilmente dipendente anche (soprattutto!) dagli sceneggiati televisivi Le inchieste del commissario Maigret, trasmessi in trentacinque puntate, dal 1964 al 1972, dal Programma Nazionale della Rai (oggi, Rai 1). Per conseguenza,

(in alto, a sinistra) Zona Lavinaio al Mercato, vita di strada (Studio Troncone, senza data).

l’immaginario individuale dell’aspetto del commissario si riconduce alla straordinaria caratterizzazione dell’attore Gino Cervi, che lo stesso Georges Simenon indicò come il più plausibile e fedele al suo pensiero (e che fu replicato sulle copertine delle edizioni Oscar Mondadori). Originariamente pubblicati da Mondadori, in una collana popolare, da tempo i romanzi di Maigret, e i romanzi di Georges Simenon nel proprio insieme e complesso, sono stati nobilitati -come meritano- in edizione Adelphi: va rilevato... con una traduzione più accurata, assolutamente migliore delle precedenti, almeno tirate via. Ancora, Adelphi rispetta i titoli originali, spesso modificati da Mondadori, che addirittura svelò l’assassino nel titolo Maigret e il sergente maggiore, dall’originario Les caves du Majestic, che legittimamente diventa Nei sotterranei del Majestic, con Adelphi. Gli estimatori del commissario Maigret sono tanti; curiosamente, tra

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Coincidenza

Per I sotterranei del Majestic ( Les caves du Majestic; 1942).

(a sinistra) Per Maigret e il ladro indolente ( Maigret et le voleur paresseux; 1961).

(in alto) Per Il pazzo di Bergerac ( Le fou de Bergerac; 1932).

(in alto, a destra) Per Maigret a scuola ( Maigret à l’école; 1954).

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questi spicca la personalità del genovese Romolo Ansaldi, anche autorevole collezionista Leica, universalmente considerato come maggior conoscitore mondiale dell’opera di Georges Simenon [FOTOgraphia, luglio 2008]. E tra gli estimatori scorrono linee di pensiero autonome e parallele: c’è chi (come noi) predilige i romanzi ambientati a Parigi e c’è chi, invece, preferisce quelli di altra geografia. Comunque, a ciascuno il proprio spirito. In tutto questo, l’attento Renzo Bertasi non ha censurato nulla. Per il suo progetto Il mondo di Maigret, raccolto in volume per intenditori (del personaggio, soprattutto), ha realizzato una convincente serie di fotografie ispirate a quaranta romanzi, per ognuno dei quali accompagna l’immagine con una selezione dal testo. Oppure, ed è più legittimo, accosta a una selezione dal testo una immagine a dir suo esplicativa e sintetizzante. Insomma: ha realizzato una fantastica galleria di richiami alle

avventure del commissario Maigret. A questo punto, come sempre del resto, la Fotografia impone una riflessione, che solitamente si riferisce soprattutto al ritratto (è efficace la rappresentazione fotografica, oppure è la personalità del soggetto che fa la differenza?), ma anche alla raffigurazione di fiori (è bella la fotografia, oppure lo è il soggetto, nella propria forza di natura?). In sostanza: sono efficaci le fotografie di Renzo Bertasi, realizzate con perizia del linguaggio specifico e competenza dei riferimenti letterari evocati, oppure è il nostro amore per la narrativa di Maigret che indirizza il giudizio, fino a condizionarlo? Ebbene, con immancabile onestà intellettuale, siamo certi: sia l’uno, sia l’altro. Consistenti e legittime le fotografie, in un contesto di complicità di intenti con il soggetto. La stessa complicità emozionale che ha guidato, diretto e indirizzato la buona fotografia del bravo Renzo Bertasi. Al solito: evviva! ❖



Fotografia d’arte di Maurizio Rebuzzini

Parola d’ordine: collezionare fotografia. Da sei anni, imminente edizione 2016 compresa (dal ventinove aprile al due maggio prossimi, a The Mall Porta Nuova, di Milano), il Mia Fair, acronimo di Milan Image Art Fair, si offre e propone come valido e attivo punto di riferimento per la fotografia da collezione, d’arte: per l’appunto, in traduzione d’obbligo, Fiera Internazionale d’Arte dedicata alla Fotografia e all’Immagine in Movimento. Lo abbiamo annotato lo scorso anno, all’indomani dello svolgimento della quinta edizione 2015 [FOTOgraphia, maggio 2015], e qui corre l’obbligo della ripetizione dovuta: il Mia Fair svolge il proprio ruolo preposto con autorevolezza e concretezza assolute. Quale? Presto detto: proporre la fotografia come investimento d’arte, come linguaggio espressivo degno di considerazioni collezionistiche che ne sottolineino spessore e valore. Altra domanda d’obbligo. In quale modo, la sfaccettata Mia Fair, fiera d’arte fotografica ideata e diretta da Fabio Castelli, contribuisce alla crescita (nascita?) di una consapevolezza collezionistica della fotografia? Semplicemente svolgendo un modo adeguato il mandato che si è preposta. Ovverosia, accompagnando l’area fieristica scandita dalle intenzioni esplicite dei singoli espositori (siano gallerie che presentano autori, siano autori in proprio) con iniziative collaterali indirizzare all’approfondimento di tematiche specifiche del collezionismo d’arte. Insomma, in parole chiare, interpretando un concreto concetto di cultura dell’immagine che non è soltanto teorico ed etereo, ma si edifica sulla tangibilità di un realismo mercantile dichiarato e manifesto. Ne abbiamo parlato giusto con Fabio Castelli, in anticipo sullo svolgimento dell’imminente edizione 2016, a cavallo tra aprile e maggio. Ovviamente, cominciamo a tirare le somme di cinque edizioni svolte, che compongono i tratti di una ossatura solida, di fondamenta stabili. Annota Fabio Castelli: «Fin dalla prima edizione, a chiusura dei padiglioni

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GIAN PAOLO RANDAZZO (4)

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MIA FAIR 2016

Fabio Castelli è l’ideatore e direttore di Mia Fair, acronimo di Milan Image Art Fair, fiera d’arte fotografica che si offre e propone come valido e attivo punto di riferimento del collezionismo. La prossima edizione 2016 si svolge nei padiglioni espositivi di The Mall Porta Nuova, di Milano, dal ventinove aprile al due maggio. In anticipo su questa sesta edizione, abbiamo incontrato Fabio Castelli, per affrontare e analizzare le tematiche trasversali alla fotografia d’arte.

espositivi, analizzo lo svolgimento, per rilevare se qualcosa va cambiato e cosa -invece- può essere confermato. Così che, in definitiva, anno dopo anno, il Mia Fair si profila come una costante messa a punto e ricerca di svolgimento nel proprio doppio indirizzo: verso gli espositori, che possano trarre i maggiori benefici, e rivolto al pubblico, da sollecitare con proposte sempre migliori e interessanti sul e dal mondo della fotografia. «Il mio intento è quello di fare il più possibile cultura sulla fotografia, che è un magnifico mondo, che affascina tutti noi, che ne siamo appassionati, e che coinvolge dai suoi aspetti scientifici -se vogliamo- alla ricerca espressiva... e poi, moda, reportage, ritratto, pubblicità... e avanti ancora. «Ho citato la fotografia scientifica, prima di altro, perché quest’anno avremo una presenza consistente di radiografie dello Studio Maspes, che analizza pitture e sculture antiche, che porterà una serie di studi, soprattutto di sculture lignee del Trecento, dai quali si evince il percorso dell’artista nella costruzione della propria opera; dunque, non rilevazione minuziosa dell’opera e dei suoi eventuali restauri, ma proprio scansione delle dinamiche della creazione artistica. E, poi, se-

gnalo anche una comparazione tra un originale di Giovanni Segantini e le relative radiografie. «Questo, anche per sottolineare la ricerca costante di novità, che si sono manifestate in ogni edizione. In questo senso, mi preme sottolineare quanto abbiamo fatto per dare visibilità e merito al lavoro dello stampatore, che affianca l’azione del fotografo. Provenendo dal mondo della grafica, ricordo quando le opere venivano presentate con le due firme: quella dell’artista e quella dello stampatore (che ha riportato su lastra), in comunione di intenti e valore. Anche in fotografia, il rapporto professionale non è soltanto tecnico, ma si basa su reciproci contributi all’interpretazione finale in stampa». Quindi, ipotizziamo una sesta edizione Mia Fair 2016 molto attiva e brillante: «Assolutamente, sì -afferma Fabio Castelli-. Con una intensificazione del programma parallelo e di contorno all’esposizione fieristica vera e propria. Per esempio, segnalo la lettura portfolio svolta da collezionisti (con presenze estremamente qualificate dei più importanti collezionisti di fotografia del mondo) e di responsabili delle più accreditate collezioni pubbliche e corporate».


Fotografia d’arte

Mia Fair 2015: la fotografia di Gian Paolo Barbieri presentata dalla galleria 29 Arts in Progress.

Mia Fair 2015: il fotoreportage di Massimo Sestini presentato tra le proposte Mia.

Mia Fair 2015: il convincente progetto Dark Cities, di Daniele Cametti Aspri, relativo alle capitali europee, è stato presentato dalla galleria Visiva, di Roma.

Alla resa dei conti, tra i padiglioni del Mia Fair si rivela quel tempo ritrovato che sta alla base di qualsivoglia ulteriore intenzione e proiezione: verso il collezionismo di cuore, l’investimento d’arte, piuttosto che il semplice apprezzamento culturale individuale. Il Mia Fair sottolinea che ci sono tanti modi di collezionare fotografie, ma tutti rispondono ad almeno due condizioni: indirizzare la propria attenzione all’immagine verso espressioni fotografiche selezionate e sottolineare -rispettandola- la volontà rappresentativa dichiarata dagli autori. Ancora Fabio Castelli, ideatore e direttore di Mia Fair: «Siamo consapevoli di fare mercato, di promuovere mercato. Siamo una “fiera”. Personalmente, sono fautore del mercato come parte del sistema dell’arte. Fermo restante tutti gli aspetti culturali, che debbono esprimersi al massimo livello, le componenti economiche e commerciali sono e rimangono fondamentali. «Io stesso sono un collezionista di fotografie, e mi esprimo per conoscenza della materia [Le stanze della fotografia, in FOTOgraphia, dello scorso ottobre 2015]». Personalmente, pensiamo che l’Italia del collezionismo fotografico sia fanalino di coda di altre consistenze nazionali. Qui, Fabio Castelli dissente: «Non direi. Bisogna tenere presente che in Italia il collezionismo d’arte contemporanea è molto forte. Purtroppo, la politica del nostro paese e i relativi aspetti fiscali fanno sì che molti collezionisti preferiscono acquistare altrove; quindi, la potenzialità di fuoco e l’interesse che è rappresentato da una notevole fascia di collezionismo... emigra. Nel concreto, la nostra Iva al ventidue percento non è competitiva con aliquote inferiori praticate in paesi limitrofi, nell’ordine di almeno un dieci percento in meno. E su certe cifre, queste percentuali sono significative. «Poi, in aggiunta, dobbiamo considerare anche lo scarso supporto da parte delle istituzioni. Per esempio, è legittimo che durante il Mia Fair, che si è affermato come appuntamento internazionale di rilievo, la città non organizzi nulla attorno la fotografia? Non potrebbe esserci, come a Parigi, una settimana della fotografia? Ancora di più, il mese della fotografia? Milano è piena si spazi pubblici adeguati e di gallerie private che potrebbero creare un

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richiamo forte, peraltro appagante anche per il pubblico nel proprio insieme, oltre allo specifico del collezionismo». A questo punto, una curiosità mirata. Ci domandiamo se le fotografie in collezione si supportino l’una alle altre, per accrescere il valore dei singoli, per assegnare un valore aggiunto. Fabio Castelli è perplesso: «Direi di no. Casomai, il valore aggiunto si raggiunge quando tutto il “pacchettone” viene proposto in un’asta, che crea un forte richiamo attorno la collezione. Però, alla fin fine, l’interesse per un corpus in qualsiasi misura omogeneo e mirato è soprattutto museale, che può mettere a frutto la concezione con la quale la collezione è stata edificata attorno un filo conduttore identificabile e identificato». Comunque, rientrando nello specifico Mia Fair, chiediamo a Fabio Castelli di puntualizzare il ruolo internazionale svolto dalla fiera: «In termini semplici, osserviamo che ogni anno registriamo un interesse crescente da parte di visitatori ed espositori stranieri. In questo senso, dal punto di vista organizzativo, la proiezione planetaria, che è quella alla quale ormai ci si deve riferire e richiamare, impone attenzioni strategiche: per esempio, a partire dalle date di svolgimento, che devono tenere conto di un calendario fitto di incontri ana-

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«In definitiva, possiamo rilevare che il successo di Mia Fair dipende anche dalla nostra volontà e capacità di aprirci a ogni tipologia di fotografia, che rivolgiamo al mondo del collezionismo, una volta risolti i rispettivi compiti originari, nella moda, nel reportage, nella fotografia industriale e in tutte le applicazioni, senza alcuna soluzione di continuità. In espressioni di eccellenza, si sottolinea la perfetta coniugazione di un linguaggio mirato con gli aspetti estetici dell’immagine».

loghi, che si svolgono in tanti paesi. «Allo stesso tempo, è considerevole il ruolo intermediario che svolgiamo in referenza con le istituzioni museali e d’archivio italiane, alle quali offriamo la possibilità di rivolgersi a un mondo integrativo al loro indirizzo di studio originario, proiettando le loro esperienze su un palcoscenico estremamente vivo e frizzante, per loro altrimenti irraggiungibile. E questo completa la nostra missione, che non si limita alla dimensione di sola fiera, ma diventa propositiva sul piano culturale. «In definitiva, possiamo rilevare che il nostro successo dipende anche da questa volontà e capacità di aprirci a ogni tipologia di fotografia, che rivolgiamo al mondo del collezionismo, una volta risolti i rispettivi compiti originari, nella moda, nel reportage, nella fotografia industriale e in tutte le applicazioni, senza alcuna soluzione di continuità. In espressioni di eccellenza, si sottolinea la perfetta coniugazione di un linguaggio mirato con gli aspetti estetici dell’immagine». Chiusura d’obbligo, riallacciandoci a nostre opinioni in proposito. La personalità eterogenea e sfaccettata del Mia Fair, arricchita anche da un fitto programma di conferenze e incontri e altro, che accompagna l’esposizione fieristica e mercantile, sta svolgendo un compito (istituzionale?) degno

di grande attenzione. Infatti, senza stabilire confini vincolanti, l’offerta che propone attraverso i propri espositori è rappresentativa di un tanto/tutto, all’interno del quale -passo dopo passo- si potranno stabilire i termini di una direzione allineata con le situazioni e condizioni geografiche attualmente già consistenti. In definitiva, attraverso l’incontro con il pubblico visitatore, scomposto tra la semplice curiosità verso la fotografia e l’intenzione collezionistica, le gallerie che si stanno orientando verso la fotografia possono individuare i parametri di quanto possa essere plausibile all’ipotesi originaria di investimento d’arte. In assoluto, la linea di demarcazione della fotografia da collezione indica due indirizzi autonomi (almeno due): da una parte, agisce la fotografia d’autore che nasce autenticamente tale; dall’altra, cresce la proposta collezionistica di fotografie professionali che si proiettano verso il gradimento collezionistico, una volta assolto il proprio compito originario. Diciamola meglio, forse: da una parte, si incontra la fotografia che nasce esplicitamente come riflessione d’autore, con rispettivi percorsi espressivi e visuali (con quanto significa intravedere paralleli tra la vita e l’arte); dall’altra, si esprime la fotografia professionale alla quale il Tempo trascorso assegna lo stesso valore di parallelo tra la vita e l’arte. Incontrata altrove che non in una collezione coerente e scandita, ogni fotografia si accorda a racconti relativi e giustifica e motiva speculazioni intenzionali, alle quali spesso offre un alibi credibile. A sostanziosa differenza, nell’insieme articolato (e motivato) di ogni collezione, le stesse fotografie esprimono una convincente doppia personalità... convergente. È anche questo il senso e valore di una collezione fotografica, che deve rafforzare e accentuare l’individualismo di ogni immagine, realizzando -al contempo- un insieme logico e apprezzato e apprezzabile. La prepotente personalità delle fotografie in collezione -che stabiliscono anche termini finanziari di investimento (va detto)- si afferma come tale, appunto prepotente personalità, in due comportamenti coesistenti: ognuna per se stessa e anche in relazione e subordine alla continuità abilmente composta dal collezionista.


Fotografia d’arte

GIAN PAOLO RANDAZZO (3)

Mia Fair 2015: Giovanni Gastel ha confezionato una avvincente galleria di propri polaroid otto-per-dieci pollici di moda (figura e still life), che hanno tracciato linee indelebili e significative nella comunicazione visiva del nostro tempo.

Questa magica bivalenza delle fotografie in collezione non è soltanto benefica, ma addirittura fondante. Infatti, indipendentemente dalla propria genesi e oltre l’assolvimento di condizioni originarie, ogni fotografia raggiunge l’osservatore in tempi e con modi successivi. Dunque, la questione è spesso questa: la fotografia (qualsiasi fotografia) vale soprattutto per quanto ciascun osservatore trova in se stesso. Immagine dopo immagine, ognuno prosegue il proprio viaggio personale, respira gli umori della storia, si inoltra in atmosfere straordinarie. Allo stesso tempo e momento, ciascuno individua quali fotografie siano più consone (di altre) alle nostalgie del proprio cuore e in quali spazi riesce ad ascoltare il proprio respiro, allineato a quello dei fotografi-autori. È questo il senso e l’origine di ogni collezionismo. Dunque, anche di quello della fotografia d’arte, liberata da ogni altra dipendenza, da ogni altro assolvimento concreto e tangibile. ❖


ECCO QUI PENTAX Top di gamma, al vertice del qualificato e prestigioso sistema fotografico, la nuova Pentax K-1 impone l’efficacia del proprio sensore di acquisizione digitale di immagini Cmos full frame (24x35,9mm). La risoluzione di 36,4 Megapixel effettivi assicura file immagini di alta qualità formale, caratterizzati da appropriate gradazioni tonali e da resa impeccabile anche alle alte sensibilità (fino a ben 204.800 Iso equivalenti).

di Antonio Bordoni

A

ttesa da tempo, chiacchierata là dove l’approfondimento e le certezze non hanno alcun diritto di ospitalità (sottobosco dei rumors tecnici fini a se stessi), è ora disponibile la prima reflex Pentax con sensore full frame di acquisizione digitale di immagini. Ovviamente, e come d’obbligo, la K-1 si colloca al vertice del proprio variegato sistema fotografico Pentax K, assumendo l’onore e onere di ammiraglia della famiglia di profonda e radicata e nobile storia fotografica (a partire dalle prime reflex Asahi Pentax, presto Asahi Pentax Spotmatic, sulle cui eccellenti prestazioni è stato edificato un mito dagli anni Sessanta).

Come è scontato che sia, la qualità discriminante e determinante della reflex Pentax K-1 parte dal suo cuore, ovverosia dall’efficace sensore full frame Cmos, in dimensioni 24x35,9mm, con una superficie equivalente al fotogramma di riferimento inevitabile (24x36mm), da quasi cento anni standard della fotografia agile e versatile. In conseguenza diretta, abbinata a tecnologie proprietarie dell’immagine, la risoluzione di 36,4 Megapixel effettivi della Pentax K-1, top di gamma, assicura acquisizioni di alta qualità formale, caratterizzate da appropriate gradazioni tonali e da resa impeccabile anche alle alte sensibilità (fino a ben 204.800 Iso equivalenti). All’atto pratico dell’utilizzo quotidiano, proprio il sensore di acquisizione digitale di immagini in formato full frame restituisce la stessa profondità di campo delle configurazioni 24x36mm di attinenza fotografica, sottolineando anche un gradevole effetto bokeh (che va tanto di moda, anche se pochi sanno di cosa si tratta), sostanziosamente superiore rispetto alle reflex dotate di sensore APS, di dimensioni inferiori.

OLTRE IL FULL FRAME Affinando le proprie tecnologie esclusive e proprietarie, accumulate in decenni di configurazioni fotografiche indirizzate al più ampio pubblico generico e all’utenza professionale (da un affascinante sistema reflex a obiettivi intercambiabili Pocket Instamatic 110 a generazioni di reflex 35mm, prima in innesto a vite degli obiettivi intercambiabili, quindi con passaggio alla baionetta K, fino a un avvincente sistema medio formato 6x7cm reflex), con l’attuale ammiraglia K-1 full

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Ormai, ogni sistema reflex dei nostri giorni ha raggiunto il medesimo livello tecnologico. Con l’arrivo della nuova Pentax K-1, con sensore di acquisizione digitale full frame, si completa l’offerta di reflex di vertice dell’attuale mercato fotografico: che si rivolge sia al comparto professionale, sia ai fotografi non professionisti che agiscono con atteggiamenti concentrati e consapevoli. In un momento di tante altre voci, che si rincorrono e susseguono là dove le parole hanno perso il proprio senso compiuto, la nobile e storica produzione giapponese conferma la propria intenzione mercantile, scandita al ritmo e con la cadenza di una diversificata quantità e qualità di soluzioni tecniche. Per ogni utenza possibile e potenziale Per quanto il progetto “meccanico” della attuale Pentax K-1 sia riuscito a concepire e realizzare un corpo macchina di dimensioni essenzialmente contenute, la reflex è equipaggiata con una quantità/qualità di caratteristiche e funzioni proprietarie di livello professionale, a partire dal monitor LCD (di 3,2 pollici, con risoluzione di 1.037.000 pixel), che può essere inclinato, basculato e ruotato, per poterlo orientare sull’angolazione desiderata, tanto in orizzontale (fino a 35 gradi) quanto in verticale (fino a 44 gradi), senza uno spostamento eccessivo del centro dell’immagine inquadrata rispetto all’asse ottico dell’obiettivo. In allineamento, il mirino ottico tradizionale assicura una copertura del cento percento dell’area effettivamente inquadrata. Oltre la gamma di obiettivi Pentax full frame, da quelli in innesto a vite 42x1 realizzati oltre sessant’anni fa per le prime reflex Pentax (con opportuni adattatori) ai più recenti disegni ottici della serie D FA, la K-1 può utilizzare anche tutti gli obiettivi DA delle reflex Pentax con sensore in dimensioni APS, per i quali è preordinata la funzione di crop automatico. È altresì possibile adattare anche gli obiettivi SMC Pentax del sistema medio formato 6x7cm, dei quali si utilizza solo la porzione centrale dell’intero cono immagine.

Per anteporre la qualità formale dell’acquisizione digitale, ovverosia della fotografia, il sensore Cmos full frame 24x35,9mm è privo di filtro AA (anti-aliasing). Il sistema di trattamento dell’immagine ad alta velocità è stato affidato al nuovo processore Prime IV, capace di registrare file grezzi Raw a 14bit, equivalenti a una registrazione caratterizzata da raffinate gradazioni tonali e cromatiche. Centro di comando della Pentax K-1, il monitor LCD di 3,2 pollici ha una risoluzione di 1.037.000 pixel. La reflex riprende anche filmati video in Full HD (1920x1080 pixel), nel formato di registrazione H.264.

frame, Pentax ribadisce la propria vocazione all’interpretazione tecnologica d’eccellenza. Così, registriamo che l’attuale Pentax K-1 è dotata di una rinnovata modalità Shake Reduction II (riduzione delle vibrazioni) di nuova generazione, che limita in modo ancora più efficace le eventuali vibrazioni e micromovimenti che possono essere trasmessi -anche involontariamente- alla reflex, negli scatti a mano libera. Shake Reduction II agisce su cinque assi, e compensa le vibrazioni come se fosse impostato un tempo di otturazione cinque volte più veloce rispetto a quello realmente in uso (- 5 stop). Questo accomodamento agisce anche sul sensore su un aggiustamento pari a un singolo pixel, per assicurare acquisizioni di massima nitidezza possibile.

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Il mirino ottico di tipo Easy to Focus è congeniale alla messa a fuoco manuale, sia con obiettivi non AF, sia con obiettivi AF in modalità Manual Focus. Progettato appositamente per il sensore full frame e provvisto di una visualizzazione del cento percento dell’area inquadrata, con ingrandimento di circa 0,7x, lo stesso mirino è dotato di schermo di messa fuoco Natural Bright Matt III, di efficace luminosità.

RAPIDAMENTE E VIDEO

La nuova Pentax K-1 è equipaggiata con una quantità/qualità di caratteristiche e funzioni proprietarie di livello professionale, a partire dal monitor LCD (di 3,2 pollici, con risoluzione di 1.037.000 pixel), che può essere inclinato, basculato e ruotato, per poterlo orientare sull’angolazione desiderata, tanto in orizzontale (fino a 35 gradi) quanto in verticale (fino a 44 gradi), senza uno spostamento eccessivo del centro dell’immagine inquadrata rispetto all’asse ottico dell’obiettivo.

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SOTTOTRACCIA Per anteporre la qualità formale dell’acquisizione digitale, ovverosia della fotografia, il sensore Cmos full frame 24x35,9mm è privo di filtro AA (anti-aliasing). Il sistema di trattamento dell’immagine ad alta velocità è stato affidato al processore Prime IV, capace di registrare file grezzi Raw a 14bit, equivalenti a una registrazione caratterizzata da raffinate gradazioni tonali e cromatiche. Ancora avanti, la Pentax K-1 impiega un nuovo modulo AF Safox 12, con un’area autofocus espansa a copertura dell’intero campo immagine del sensore full frame, tramite trentatré sensori AF (venticinque dei quali di tipo a croce, disposti al centro). Il sensore centrale e i due sensori posti immediatamente sopra e sotto sono finalizzati a rilevare il flusso luminoso di obiettivi di luminosità relativa f/2,8, in modo da perfezionare la messa a fuoco con focali luminose. Operando insieme con l’evoluto Pentax Real-Time Scene Analysis System, questa configurazione AF assicura un inseguimento autofocus nettamente migliorato, quando si fotografano soggetti in rapido movimento. Aggiornato con applicazioni finalizzate, la modalità si abbina a un sensore esposimetrico RGB con circa 86.000 pixel e con il rinnovato processore di immagini Prime IV, per un’analisi in tempo reale della distribuzione della luminosità della scena inquadrata, tenendo conto dei colori e del movimento del soggetto. In base a questi dati, le condizioni luminose del soggetto sono valutate e misurate con grande accuratezza, per finalizzare la corretta esposizione.

La Pentax K-1 dispone di un otturatore che incorpora una serie di nuovi meccanismi, per un controllo veloce e preciso dello specchio, sia in apertura sia in chiusura, compreso un dispositivo di rallentamento che minimizza la vibrazione che lo specchio trasmette a chiusura ultimata. Si possono acquisire fino a diciassette immagini in sequenza rapida in formato grezzo Raw, oppure fino a settanta immagini in formato compresso Jpeg con qualità Ottima, in una singola sequenza, alla velocità massima di circa 4,4 frame al secondo. I filmati video sono ripresi in Full HD (1920x1080 pixel; frame rate 60i/30p), nel formato di registrazione H.264. La reflex è equipaggiata con un ingresso per microfono stereo esterno e un ingresso per cuffia. Nel corso della ripresa, si può anche regolare manualmente il livello di registrazione audio, monitorando i livelli dei due canali stereo sul display, via microfono, e tagliare il fruscio del vento mediante la nuova modalità di riduzione. In aggiunta ai diversi e specifici effetti visivi disponibili per la registrazione dei filmati, la convincente Pentax K-1 offre anche la modalità di filmato intervallato, che acquisisce sequenze video a risoluzione 4K (3840x2160 pixel), in un intervallo di tempo regolabile dall’utente. Sono disponibili molteplici funzioni per rete wireless (Wi-Fi), a supporto delle operazioni da smartphone e tablet. Installando l’applicazione dedicata Image Sync in un dispositivo mobile, con sistema operativo iOS o Android, si controllano e governano i requisiti operativi in Live View sul display delle stesse unità esterne. È anche possibile scaricare le immagini acquisite su smartphone e tablet, per poi condividerle in rete sui social network o sui siti web. Grazie al modulo GPS incorporato, la Pentax K-1 fornisce svariate funzioni evolute, compresa la registrazione di località, latitudine, longitudine, altitudine e ora UTC (Universal Time Coordinated), oltre alla direzione di puntamento della reflex in fase di ripresa. Si accede facilmente ai dati GPS salvati in ciascuna immagine tramite un computer: per navigare, verificare sullo schermo la località di ripresa e i dati di posizione, che possono essere prontamente salvati. Infine, tanto altro c’è a contorno di questa Pentax K-1, che fa ovviamente tesoro e vanto dell’attualità tecnologica dei nostri giorni applicata a complemento della ripresa fotografica. Così che, è doveroso sottolinearne la proiezione tecnico-commerciale in due indirizzi coabitanti: verso la fotografia non professionale svolta con puntiglio e applicazione rigorosa, come anche (soprattutto?) verso l’impiego professionale, peraltro confortato da una gamma ottica di eccellenza assoluta, in quantità e qualità di focali. ❖



(pagina accanto) Primo premio General News Singles: Mauricio Lima (Brasile), per The New York Times. Ospedale alla periferia di Hasaka, in Siria (Primo agosto 2015). World Press Photo of the Years 2015 e Primo premio Spot News Singles: Warren Richardson (Australia). Migranti al confine ungherese (28 agosto 2015).

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di Angelo Galantini

U

ndici anni fa, nel 2005, in occasione del cinquantenario del prestigioso premio al fotogiornalismo internazionale, fu realizzata una fantastica retrospettiva fotografica. Per quanto richiamata all’anniversario, Things As They Are (in traduzione, Le cose così come sono) non fu sterile celebrazione, che non avrebbe avuto molto senso (forse), ma affrontò con sapienza e competenza la materia convocata nel sottotitolo dell’autorevole monografia: Photojournalism in Context Since 1955 [FOTOgraphia, aprile 2006]. A cura di Mary Panzer, storica della fotografia, con

avvincente postfazione di Christian Caujolle, direttore dell’agenzia fotografica e della galleria VU, la rassegna ha il merito di mantenere la parola data, presentando il fotogiornalismo non attraverso fotografie in quanto tali e protagoniste infeconde, ma al passo del loro utilizzo sui periodici di prima pubblicazione: per l’appunto... in Context, nel contesto. La rievocazione di questa edizione, che nel trascorrere del tempo non ha certo perso per strada il proprio valore originario, il proprio rilievo -tanto da essere ancora e sempre considerata tra le opere bibliografiche fondanti del fotogiornalismo-, è sollecitata dall’approssimarsi di un altro anniversario tondo: quest’anno sono stati assegnati i riconoscimenti alla cinquanta-


IL DOLORE DEGLI ALTRI Anno dopo anno, edizione dopo edizione, il World Press Photo è fedele testimonianza delle brutture della vita attuale, osservata soprattutto attraverso la lente di ingrandimento delle guerre e delle loro terribili conseguenze e consecuzioni. Nello specifico dell’edizione 2016 (per fotografie realizzate nel 2015), il tema trasversale sottolinea la migrazione dei profughi, che scappano da guerre e persecuzioni. Il tutto a partire proprio dalla World Press Photo of the Year 2015, dell’australiano Warren Richardson. Da e con l’intrepido e audace Pino Bertelli: «La missione di ciascuno (anche senza macchina fotografica) è portare a buon fine la bellezza, la fraternità, l’accoglienza del diverso da sé: nell’animo di un fotografo (come di qualsiasi uomo) alberga un imbecille o un poeta»

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Primo premio Spot News Stories: Sameer Al-Doumy (Siria), Agence France-Press. Douma, Siria: il fumo sale da un edificio bombardato (30 ottobre 2015).

Primo premio General News Stories: Sergey Ponomarev (Russia), per The New York Times. Rifugiati arrivano in barca nei pressi del villaggio di Skala, sull’isola greca di Lesbo (16 novembre 2015).

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novesima edizione del World Press Photo; dunque, l’anno prossimo saranno sessant’anni. Da cui e per cui, ci permettiamo di sperare in una analoga retrospettiva, magari più interna e intima allo stesso concorso, che vada a indagare e riflettere ancora sul fotogiornalismo. Addirittura, suggeriamo un punto di vista che può stabilire e significare lo scorrere del tempo fotografico in proiezione verso una socialità della comunicazione visiva che si è molto trasformata nei sessant’anni trascorsi, sia per l’inevitabile scorrere del tempo, sia a causa delle alterazioni tecnologiche che hanno influito e stanno sempre più influendo sull’informazione giornalistica, alla quale il fotogiornalismo fa esplicito riferimento.

Una chiave di visione può essere isolata dallo svolgimento dello stesso World Press Photo, nato in sordina, cresciuto con qualche disagio (fino al non svolgimento di un paio di edizioni, nei primi momenti) e poi affermatosi con autorità. A complemento, si annota anche la sistematica espansione geografica dei fotogiornalisti partecipanti e vincitori, che da qualche edizione a questa parte registra la presenza di autori provenienti da nazioni un tempo estranee al professionismo internazionale. Scorrendo la lista dei premi assegnati con l’attuale edizione World Press Photo 2016, per fotografie scattate lo scorso 2015, incontriamo fotogiornalisti dall’Australia (a partire dalla World Press Photo of the


Primo premio Contemporary Issues Singles: Zhang Lei (Cina), Tianjin Daily. Inquinamento atmosferico a Tianjin, a nord della Cina (10 dicembre 2015).

Year 2015 di Warren Richardson [a pagina 30]), dal Brasile, dalla Cina, dalla Russia, dalla Siria, dalla Turchia, dall’Iran, dalla Slovenia e dal Sudafrica. Questo, a valle di una consistente partecipazione di quasi ottantatremila fotografie (82.951), realizzate da più di cinquemila fotografi (5775), provenienti da centoventotto paesi (129).

IMMANCABILE DOLORE Come abbiamo già sottolineato in occasioni precedenti, sempre e comunque relazionando attorno le assegnazioni del World Press Photo, ancora dobbiamo rilevare come e quanto l’attuale racconto visivo della vita nel proprio svolgersi sia scandito dal dolore (degli altri).

Anno dopo anno, edizione dopo edizione, il World Press Photo è fedele testimonianza delle brutture della vita attuale, osservata soprattutto attraverso la lente di ingrandimento delle guerre e delle loro conseguenze e consecuzioni: nello specifico, a partire proprio dalla World Press Photo of the Year 2015, dell’australiano Warren Richardson [a pagina 30], è trasversale a tutto la migrazione dei profughi, che scappano da guerre e persecuzioni. In un certo senso, ci allineiamo con il titolo della fotografia, Hope for a New Life (Speranza di una nuova vita), che si erige a simbolo di esistenze proiettate in avanti, che si sono lasciate alle spalle tante e tante terribili vicende. (continua a pagina 37)

Terzo premio Spot News Singles: Niclas Hammarström (Svezia). Ennesima vittima di una faida tra bande; la quarta di una notte a San Pedro Sula, in Honduras (4 marzo 2015).

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Terzo premio People Singles: Dario Mitidieri (Italia). Ritratto di una famiglia siriana rifugiata nel campo della Bekaa Valley, in Libano. La sedia vuota rappresenta il capofamiglia ucciso in guerra (15 dicembre 2015).

Primo premio Sports Singles: Christian Walgram (Austria), Gepa Pictures. Il discesista ceco Ondrej Bank cade durante i Campionati del Mondo a Beaver Creek, Colorado, Usa (15 febbraio 2015).

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Primo premio Nature Stories: Tim Laman (Usa). Orango di Sumatra in atteggiamento di sfida (17 marzo 2015). (in alto) Primo premio Nature Singles: Rohan Kelly (Australia), Daily Telegraph. Una massiccia “nuvola tsunami” si avvicina alla Bondi Beach, a Sidney (6 novembre 2015).

Primo premio Sports Stories: Vladimir Pesnya (Russia), Sputnik. L’allenatore prepara il ghiaccio per la partita dell’HC Vetluga, Russia (19 febbraio 2015).

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WORLD PRESS PHOTO 2016 (SUL 2015)

World Press Photo of the Year 2015 (e primo premio Spot News Singles): Warren Richardson (Australia). Un uomo passa un bambino attraverso la recinzione al confine ungherese-serbo, a Rรถszke, in Ungheria (28 agosto 2015) [a pagina 30]. General News Singles: 1) Mauricio Lima (Brasile), per The New York Times [a pagina 31]; 2) Paul Hansen (Svezia), Dagens Nyheter; 3) Chen Jie (Cina) [a pagina 38]. General News Stories: 1) Sergey Ponomarev (Russia), per The New York Times [a pagina 32]; 2) Abd Doumany (Siria), Agence France-Press; 3) Daniel Berehulak (Australia), per The New York Times. Spot News Singles: 1) Warren Richardson (Australia) e World Press Photo of the Year 2015 [a pagina 30]; 2) Corentin Fohlen (Francia); 3) Niclas Hammarstrรถm (Svezia) [a pagina 33]. Spot News Stories: 1) Sameer Al-Doumy (Siria) [a pagina 32], Agence France-Press; 2) Roberto Schmidt (Germania), Agence France-Press [a pagina 38]; 3) Bulent Kilic (Turchia), Agence France-Press. Sports Singles: 1) Christian Walgram (Austria), Gepa Pictures [a pagina 34]; 2) Greg Nelson (Usa), per Sports Illustrated; 3) Jonas Lindkvist (Svezia), Dagens Nyheter. Sports Stories: 1) Vladimir Pesnya (Russia), Sputnik [a pagina 35]; 2) Christian Bobst (Svizzera); 3) Tara Todras-Whitehill (Usa), Vignette Interactive.

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Contemporary Issues Singles: 1) Zhang Lei (Cina), Tianjin Daily [a pagina 33]; 2) Adriane Ohanesian (Usa); 3) John J. Kim (Usa), Chicago Tribune. Contemporary Issues Stories: 1) Mรกrio Cruz (Portogallo) [a pagina 39]; 2) Francesco Zizola (Italia), Noor [a pagina 36]; 3) Sara Naomi Lewkowicz (Usa). Daily Life Singles: 1) Kevin Frayer (Canada), Getty Images [a pagina 37]; 2) Mauricio Lima (Brasile), per The New York Times; 3) Zohreh Saberi (Iran), Mehrnews Agency. Daily Life Stories: 1) Daniel Berehulak (Australia), per The New York Times; 2) Kevin Frayer (Canada), Getty Images; 3) Sebastiรกn Liste (Spagna), Noor. People Singles: 1) Matic Zorman (Slovenia) [a pagina 37]; 2) Matjaz Krivic (Slovenia); 3) Dario Mitidieri (Italia) [a pagina 34]. People Stories: 1) Kazuma Obara (Giappone); 2) Daniel Ochoa de Olza (Spagna), The Associated Press; 3) Magnus Wennman (Svezia). Nature Singles: 1) Rohan Kelly (Australia), Daily Telegraph [a pagina 35]; 2) Anuar Patjane Floriuk (Messico); 3) Sergio Tapiro (Messico). Nature Stories: 1) Tim Laman (Usa) [a pagina 35]; 2) Brent Stirton (Sudafrica), Getty Images per National Geographic; 3) Christian Ziegler (Svizzera), per National Geographic. Long-term Projects: 1) Mary F. Calvert (Usa) [a pagina 39]; 2) Nancy Borowick (Usa); 3) David Guttenfelder (Usa).


(pagina accanto) Secondo premio Contemporary Issues Stories: Francesco Zizola (Italia), Noor. Nel Canale di Sicilia, un gommone sovraffollato di profughi veleggia dalla Libia verso l’Italia (26 agosto 2015).

Primo premio Daily Life Singles: Kevin Frayer (Canada), Getty Images. Uomini spingono un triciclo vicino alla centrale elettrica a carbone di Shanxi, in Cina (26 novembre 2015).

(continua da pagina 33) Per la cronaca, la fotografia simbolica è stata scattata il 28 agosto 2015: un uomo passa un bambino attraverso la recinzione al confine ungherese-serbo, a Röszke, in Ungheria. (Per altra cronaca, come si può osservare, la fotografia è formalmente imperfetta, caratterizzata come è da un “rumore” forte e palpabile: è stata scattata di notte, senza flash, con una impostazione alta/altissima di Iso equivalenti, al limite massimo consentito. Ma, come sempre rileviamo, non è la forma che conta, quanto il contenuto: e qui è mirabile la sintesi di una vicenda che la fotografia ha merito -e missione- di rivelare in un modo che le è proprio e che non appartiene ad alcuna

possibile osservazione dal vivo. Dunque, fotografo testimone, fotografo narratore, fotografo certificatore). Al dolore manifesto, del quale veniamo tutti a sapere, giorno dopo giorno, ora dopo ora, attraverso la cronaca giornalistica, si accostano anche altri dolori sottotraccia, che il fotogiornalismo indaga e svela con il proprio lessico diretto e universale. Forse, una annotazione complementare può/potrebbe registrare un retrogusto amaro, con il quale dobbiamo fare i nostri conti: il dolore è fotogenico; comunque la si declini, la fotografia rimane una sintesi anche estetica (ed estetizzante?) che mette ordine nel disordine, che mostra, magari senza dimostrare nulla (da e con Ferdinando Scianna... circa).

Primo premio People Singles: Matic Zorman (Slovenia). Bambino aspetta in fila la registrazione presso un campo profughi a Preševo, in Serbia (7 ottobre 2015).

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Secondo premio Spot News Stories: Roberto Schmidt (Germania), Agence France-Press. Un muro di rocce, neve e detriti si avvicina all’Everest Base Camp, in Nepal (25 aprile 2015).

Terzo premio General News Singles: Chen Jie (Cina). Vista aerea della città dopo l’esplosione di Tianjin, Cina (15 agosto 2015).

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TRA LE RIGHE

Ora, occupiamoci dei fotogiornalisti premiati nelle otto categorie di riferimento del World Press Photo 2016, sette delle quali con doppia assegnazione (Singles e Stories), e nella moltiplicazione per tre premi ciascuna. Prima di farlo, attenzione: la categoria Portraits delle scorse edizioni è stata sostituita da People. Lo scorso anno, 2015 sul 2014, abbiamo registrato la presenza di ben dieci italiani, record nazionale assoluto e quantità record dell’edizione, ridotti poi a nove per la contestabile squalifica di Giovanni Troilo, dell’Agenzia Luz Photo [FOTOgraphia, aprile 2015]. Quest’anno, registriamo soltanto due fotogiornalisti italiani: Francesco Zizola, secondo premio Contemporary Issues

Stories [a pagina 36], e Dario Mitidieri, terzo premio People Singles [a pagina 34] (dopo il terzo premio General News Stories 2004 ). Quindi, è doveroso sottolineare tre fotogiornalisti che hanno ottenuto due riconoscimenti ciascuno: l’australiano Daniel Berehulak, primo premio Daily Life Stories e terzo premio General News Stories, in entrambi i casi su assignment per The New York Times; il canadese Kevin Frayer, di Getty Images, primo premio Daily Life Singles [a pagina 37] e secondo premio Daily Life Stories; e il brasiliano Mauricio Lima, primo premio General News Singles [a pagina 31] e secondo premio Daily Life Singles, in entrambi i casi su assignment per The New York Times.


Primo premio Contemporary Issues Stories: Mário Cruz (Portogallo). Abdoulaye è un carcerato quindicenne, imprigionato a Thies, in Senegal (18 maggio 2015).

Quindi, in consecuzione diretta, vale la spesa annotare l’attenzione fotogiornalistica del New York Times, appena richiamato in due occasioni, certificata dalla quantità/qualità di reportage premiati al World Press Photo 2016: oltre i quatto appena evocati, c’è anche e ancora il primo premio General News Stories del russo Sergey Ponomarev [a pagina 32]. Ancora: da segnalare che tra i premi ricevuti da fotografi dell’Agence France-Press se ne registrano tre nella categoria Spot News Stories: a certificazione di un impegno fotogiornalistico di assoluta grande attenzione internazionale [due dei quali alle pagine 32 e 38]. In chiusura, attestiamo che è stata confermata la categoria Long-Term Projects, creata lo scorso anno

per valorizzare l’impegno di un fotogiornalista che si dedica a un tema lungo un arco di anni. Il corpo di lavoro che si presenta può contenere da ventiquattro a trenta immagini, scattate durante un periodo di almeno tre anni. Inoltre, almeno quattro fotografie devono essere state realizzate nell’anno a cui il concorso si riferisce (il 2015, per l’attuale edizione 2016). Eccoci qui: primo premio Long-Term Projects alla statunitense Mary F. Calvert, per il corpus Sexual Assault in America’s Military [qui sopra], che svela e rivela una condizione inquietante che attraversa le forze armate statunitensi. Non ci sono graduatorie rispetto altre tragedie esistenziali: ancora e sempre dolore (degli altri). ❖

Primo premio Long-Term Projects: Mary F. Calvert (Usa). La ventunenne Natasha Schuette è stata sistematicamente molestata dal suo sergente istruttore durante l’addestramento alla base di Fort Jackson, nella Corolina del Sud (21 marzo 2014).

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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

aprile 2016

PHOTOCHROMES: GIRO DEL MONDO ALLE ORIGINI DEL COLORE. A CAVALLO DEL SECOLO. Otto e Novecento


Il commovente progetto fotografico Es_senza, del talentuoso Settimio Benedusi -qui in replica redazionale, dopo la sua prima pubblicazione nel trimestrale EyesOpen! / Assenza, e il suo avvincente allestimento in mostra, alla Leica Galerie Milano, lo scorso dicembre- riconduce la fotoricordo alla propria missione originaria ed esplicita, che accompagna le nostre esistenze, avvalorandone i ricordi: gli affetti familiari, i grandi riferimenti di ciascuna esistenza, l’alternarsi delle generazioni, la trasmissione di valori. La sottrazione del padre scomparso è tale solo in apparenza (fisica) formale, dalla quale partire per riflessioni in sostanza: con il passo di dittici, la presenza del padre è sottolineata con amore e partecipazione. Formulazione di un pensiero rasserenante e rassicurante. Mancanza in apparente assenza. Presenza, per sottrazione

MOMENTI A di Maurizio Rebuzzini

llora. Quante belle fotografie non professionali accompagnano le nostre giornate? Tante, magari non tutte buone... e la differenza è sostanziale. Allo stesso momento, quante brutte fotografie dobbiamo subire, giorno per giorno, giorno dopo giorno? Altrettante, forse addirittura di più. Sicuramente, troppe. Da cui, la demarcazione tra fotografia professionale e non professionale è stabilita anche, ma non soltanto, da almeno due discriminanti: la progettualità dell’immagine e l’impegno assoluto e inderogabile dell’autore. Ancora, e ancora di più, la differenza è sostanziale. A conseguenza, tante e tante sono le ripartizioni che si potrebbero stilare, per definire l’uno esercizio e l’altro (entrambi nobili e autorevoli, ciascuno per proprio conto). Quella che ci interessa, alla luce del progetto intimo Es_senza, di Settimio Benedusi, professionista dai mille e mille meriti [FOTOgraphia, luglio 2015], è una e una soltanto: la distinzione tra atteggiamento saltuario, risolte altre priorità della propria esistenza individuale, e andatura rigorosamente declinata in termini fotografici.

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Ecco qui. Il fotografo professionista non è tale -fotografosoltanto per le ore che dedica al proprio mestiere, ma lo è con una dedizione che lo rende tale -fotografo- senza alcuna soluzione di continuità: sia nei momenti propriamente professionali, sia nella conduzione del proprio pensiero. E qui, se proprio vogliamo aiuti esterni, conferme autorevoli, per introdurre debitamente Es_senza, di Settimio Benedusi, è doverosa una considerazione sostanziale. È doveroso ripetere una nostra convinzione assoluta, che magari abbiamo già avuto occasione di esternare. O, forse, non lo abbiamo ancora fatto. Non importa l’originalità delle parole, ma il loro senso. Siamo convinti che l’attività produttiva dell’uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli uomini.


«Oggi, otto anni fa, è mancato mio papà, Marsilio. Marsilio era un gran bel tipo. Era il mio papà. Oggi, con mia mamma Renza, siamo andati alla messa in suo ricordo. Prima, però, ho voluto scattare questa immagine, appena svegli, alle sette e mezza del mattino» Marsilio Benedusi: nato il 16 settembre 1923, mancato il 21 agosto 2007. Renza Abbondi Benedusi: nata il 3 settembre 1926. Settimio Benedusi: nato il 22 maggio 1962.

DA RICORDARE Soprattutto, la pratica professionale è uno dei criteri con i quali raggiungere il senso della realtà e della verità, ovvero l’autentica conoscenza del mondo esterno. Però, ciascuno di noi riceve conferma della verità della propria conoscenza solo dopo che -nel corso del processo esistenziale materiale- ha raggiunto i risultati previsti. Da cui e per cui, il fotografo professionista riconduce alla stessa Fotografia anche propri riverberi intimi. Eccoci qui con Es_senza, di Settimio Benedusi, già presentata dall’autorevole trimestrale di analisi fotografica EyesOpen!, diretto da Barbara Silbe, nel fascicolo dedicato all’Assenza, e allestita in mostra alla Leica Gallerie, di Milano, lo scorso dicembre. Quindi, in imminente riproposizione al Mia Fair 2016, a fine aprile. La forma apparente dei dittici predisposti da Settimio Benedusi, con testo introduttivo (che proponiamo qui sopra), rivela subito, non soltanto presto, di cosa concretamente si tratti: di fotoricordo che lo raffigurano bambino con suo padre, che poi è stato cancellato in post produzione, per sottolinearne l’assenza dopo la sua scomparsa. Facile: come realizzare un simil Mondrian per le pareti di casa propria.

La sostanza dell’operazione, tanto intima quanto partecipata, condotta sul filo della memoria, del ricordo, della rielaborazione individuale, è da sottolineare. E lo facciamo a partire dall’accompagnamento di una riflessione di Gian Paolo Barbieri, altro professionista che vive proprie intimità in forma fotografica, che ha introdotto sia la mostra citata, sia la pubblicazione ricordata. Oltre la sua evidenza, a pagina quarantaquattro, in ripetizione, sul concetto di Presenza dell’assenza : «È la presenza di qualcosa che non esiste più a dare la più grande sofferenza, ciò che il tempo avrebbe poi fatto. Infatti, è la perdita ciò che fa più soffrire. Il piccolo Settimio non ha più il sostegno del padre. Le parti annullate hanno un sapore di mistero. E polvere ritornerai». Nel suo fondamentale La camera chiara, anche il celebre Roland Barthes ha riflettuto a lungo e profondamente sul rapporto/legame tra memoria e fotografia, a partire proprio e giusto dalla fotoricordo personale, sulla quale ha agito in cancellazione Settimio Benedusi, rappresentando in questo modo non tanto l’assenza, che -comunque- è fisicamente tale, e così non può che percepirla intimamente, quanto l’idea sovrastante della solitudine. (continua a pagina 47)

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«È la presenza di qualcosa che non esiste più a dare la più grande sofferenza, ciò che il tempo avrebbe poi fatto. Infatti, è la perdita ciò che fa più soffrire. Il piccolo Settimio non ha più il sostegno del padre. Le parti annullate hanno un sapore di mistero. E polvere ritornerai» Gian Paolo Barbieri


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(continua da pagina 43) L’azione è stata condotta su trama fotografica, perché e per quanto Settimio Benedusi è un fotografo: che non frequenta in misura saltuaria, ma pensa e agisce con impegno assoluto e inderogabile, indipendentemente dalle ore fisicamente dedicate allo svolgimento del mestiere. Settimio Benedusi fotografo ha condotto i propri pensieri con la stessa materia con la quale vive la propria esistenza (gli statunitensi hanno una sigla, per definire questo assoluto: 365/7... sette giorni la settimana, per trecentosessantacinque giorni l’anno). Consentitemi un parallelo, che qui è d’obbligo, e che ribadiamo in altra parte della rivista, su questo stesso numero, da pagina otto. Io stesso, che faccio mestiere della scrittura, per quanto riferita esclusivamente alla fotografia (non principalmente, proprio esclusivamente), ho celebrato mio padre con parole: nel centenario dalla nascita, la notte di Natale del 1908 [FOTOgraphia, dicembre 2008]. Dunque Es_senza, in senso e misura di assenza (ma anche presenza latente). Come già annotato, facile svolgimento... a patto di conoscerne il risultato formale, e poterlo ripetere pedissequamente. Quindi... svolgimento intenso e lancinante, se dalla forma apparente ci spostiamo sui contenuti impliciti. Cos’è di magico la fotoricordo, con le serenità e i tormenti che possono accompagnarla, avanti nel tempo? Non è tanto certificazione di esistenza, che l’acuto Settimio Benedusi ha esplicitamente annullato volontariamente, ma è qualcosa di più. Sicuramente, qualcosa di meglio. Da e con Seymour “Sy” Parish, protagonista del film One Hour Photo, di Mark Romanek,

del 2002, nell’interpretazione di Robin Williams; dopo aver annotato che «Quando guardiamo i nostri album fotografici, vediamo soltanto momenti felici; nessuno scatta fotografie dei momenti che vuole dimenticare», c’è un’altra considerazione che qui calza a pennello: «Quanto sono straordinari i ritratti familiari. Rivelano molto della vita delle persone. Significano che c’è stato chi ti ha amato tanto... da fotografarti». Eccoci qui, con la commovente Es_senza, di Settimio Benedusi, fotografo: quanto è straordinaria la sua azione in sottrazione formale! Rivela molto della sua vita. Significa che ha amato tanto... da rielaborare fotograficamente il proprio dolore. L’appagato rapporto di Settimio Benedusi con i genitori, certificato dalla serenità originaria di fotoricordo con lui bambino, è la materia biografica di cui è intriso questo progetto fotografico. La cognizione del dolore (da e con Carlo Emilio Gadda) assume consistenza nella cancellazione, che nei dittici di Es_senza diventa sottolineatura e ricordo: in conseguenza del quale, la serie fotografica allude a una sorta di consapevolezza che tutto ciò che inizia... avrà una fine. E qualche fine porta con sé il dolore di chi resta. E il tempo lenisce il dolore. E il ricordo si fa sempre più trasparente e luminoso. E la rielaborazione celebra le commozioni individuali. E Es_senza si aggiunge all’album familiare di Settimio Benedusi (e della mamma Renza). E «quando guardiamo i nostri album fotografici, vediamo soltanto momenti felici; nessuno scatta fotografie dei momenti che vuole dimenticare». Nessuno fotografa momenti che vuole dimenticare. Tanto meno Settimio Benedusi. ❖

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SENZA TITOLO (GEIGY, BASILEA; 1953) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER

FABBRICHE 1933-1953

Fedele al proprio compito statutario, la Fondazione Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), dà rilievo e spessore alla fotografia industriale, troppo spesso non considerata dai racconti storici di evoluzione del linguaggio visivo (ahinoi!). In comunione di intenti, le fotografie di Fabrik 1933-1953 (Poetica e impronta espressionistica nelle immagini industriali) e le fotografie e proiezioni di Nuits de Bal 1934-1950 (I balli nell’alta società elvetica e il lavoro invisibile) presentano una delle più alte personalità fotografiche di metà Novecento: lo svizzero Jakob Tuggener (1904-1988), tra i dieci fotografi industriali di maggior spicco di tutti i tempi. Visioni sorprendenti e accattivanti 49


di Angelo Galantini

IN CALDAIA (NEL

LAVORO

SENZA TITOLO (TORNOS, MOUTIER; 1942) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER

OERLIKON (1934) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER NELLA FABBRICA DI COSTRUZIONI MECCANICHE

INGRESSO

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PASSO D’UOMO ; 1935) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER

D

efinendolo perentoriamente Il fenomeno Jakob Tuggener, Urs Stahel, accreditato curatore della Photogallery Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), lo conteggia tra i dieci fotografi industriali di maggior spicco di tutti i tempi, in una classifica purtroppo estranea al racconto comune della Storia della Fotografia: «Il suo libro Fabrik, pubblicato nel 1943, è un saggio fotografico, unico nel suo genere, sulla relazione che lega l’uomo al mondo sempre più temibile delle macchine. Quest’opera è considerata una pietra miliare nella storia del libro fotografico, paragonabile a Paris de nuit, di Brassaï, del 1933, e a The English at Home, di Bill Brandt, del 1936. «Il talento fotografico di Jacob Tuggener era inoltre così versatile da consentirgli di catturare con uguale intensità il mondo dell’industria in tutte le proprie sfaccettature e gli sfarzosi balli dell’alta società, in un connubio di “seta e macchine”, per usare una definizione da lui stesso coniata. Il tratto distintivo della sua opera è rappresentato da uno sguardo penetrante sulle persone e sugli oggetti del mondo così ravvicinato e attento -come se volesse sorprenderli- unito a una grande padronanza del gioco di luci e ombre. Le sue immagini cesellate nell’oscurità neroargentea si stagliano con tale potenza da conferire alla loro poesia una marcata valenza espressionistica». L’attuale mostra Fabrik 1933-1953, allestita nella Photogallery del Mast, fino al diciassette aprile, presenta oltre centocinquanta stampe vintage del lavoro di Jakob Tuggener: la gran parte fa parte della monografia del 1943, appena menzionata; altre immagini riguardano momenti del lavoro nel suo paese di origine, la Svizzera. In simultanea, come certifica l’identificazione esplicita, le fotografie e proiezioni Nuits de Bal 19341950 presentano immagini di balli e altre occasioni mondane.



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LABORATORIO (1943) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER ELETTRICO

FUOCHISTA ADDETTO AL FORNO

STECKBORN (1938) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER SETIFICIO ARTIFICIALE

FISCHIO A VAPORE;

OERLIKON (1941) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER DELLE COSTRUZIONI MECCANICHE

OERLIKON (1937) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER UFFICI DELLE COSTRUZIONI MECCANICHE

NEGLI

E questo è un complemento significativo, oltre che indispensabile, tenuto conto che il bravo e attento Jakob Tuggener era affascinato dall’atmosfera spumeggiante delle feste dell’alta società, che aveva iniziato a fotografare a Berlino; ma è a Zurigo e St Moritz che -indossando lo smoking di circostanza- ha potuto puntare la sua Leica su dame eleganti e i loro abiti di seta, raccogliendo misteriose sfaccettature delle di questi riti mondani. Ancora: è consistente la registrazione fotografica del “lavoro invisibile” di musicisti, camerieri, cuochi, valletti, e maître, che attraversano silenti il mondo festoso e autoreferenziale degli incuranti ospiti. «È stato soprattutto il contrasto tra la luminosa sala da ballo e il buio capannone industriale a caratterizzare la percezione della sua opera artistica -annota in introduzione/presentazione il cocuratore Martin Gasser (insieme a Urs Stahel)-. Affermando “Seta e macchine, questo è Tuggener”, il fotografo stesso si collocava tra questi due estremi. Di fatto, amava entrambi: il lusso sfrenato e le mani sporche dal lavoro, le donne seducenti e gli operai sudati. Li riteneva di egual valore artistico e rifiutava di essere classificato come un critico della società che contrapponeva due mondi antitetici. Al contrario, gli opposti rientravano appieno nella sua concezione della vita: amava vivere intensamente gli estremi, senza tralasciare le sfumature più tenui tra i due poli». Quindi, nel momento nel quale riconosciamo al Mast il grande merito di aver acceso le luci della ribalta fotografica su un autore colpevolmente dimenticato, addirittura ignorato, persino escluso da tutte le retrovisioni accreditate, ci si può domandare perché tanta e tale personalità non ha mai ottenuti i consensi pubblici che avrebbe meritato. Risponde il co-curatore Urs Stahel (insieme a Martin Gasser), che è anche curatore della Photogallery Mast. La sua risposta è articolata; e, dal nostro punto di vista, già anticipiamo che l’ultimo dei tre punti sottolineati ci pare fondante. Conosciamo bene la condizione richiamata, che consi-



FELSENEGG (ADLISWIL; 1951) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER DAL

FACCIATA DELLA FABBRICA DI

COSTRUZIONI MECCANICHE

OERLIKON (1936) / © JAKOB TUGGENER FOUNDATION, USTER

TESSITORIA HENNENBERG,

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deriamo nell’identica maniera. Ed è anche su intenzioni mirate che conteggiamo i valori delle iniziative fotografiche che incontriamo: nello specifico, in riferimento alla presentazione della fotografia di Jakob Tuggener al Mast, di Bologna. Testuale (circa) dalla presentazione di Urs Stahel: « Eppure, a dispetto delle sue innegabili qualità, Jakob Tuggener resta un enigma, un illustre sconosciuto, una star apprezzata solo dai fotografi e dai professionisti del settore. Per tre motivi fondamentali: anzitutto, l’artista era così caparbio ed estraneo al compromesso, da scoraggiare le collaborazioni con musei e case editrici. Inoltre, le annose controversie legali seguite alla sua morte, per lungo tempo, hanno reso la sua opera praticamente inaccessibile al grande pubblico. Infine, le sue origini, nella piccola Svizzera, lo hanno tagliato fuori dalla superpotenza degli Stati Uniti in ambito fotografico. E la storia dell’immagine, oggi come un tempo, è scritta dalle grandi nazioni». Sì... la Storia della Fotografia è scritta dalle grandi nazioni; così come tutta la Storia è scritta dai vincitori. Dunque, con il nostro costante e continuo lavoro quotidiano a favore degli autori di valore dimenticati, contiamo di contribuire a invertire il senso di marcia, per approdare a un racconto storico che sia sempre meno parziale, sempre meno condizionato geograficamente, sempre meno americanocentrico. Con onestà intellettuale. ❖ Jakob Tuggener. Fabrik 1933-1953 - Poetica e impronta espressionistica nelle immagini industriali, a cura di Martin Gasser e Urs Stahel; organizzazione Fondazione Mast, in collaborazione con Fondazione Jakob Tuggener, Uster, e Fondazione Svizzera per la fotografia, Winterthur. Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 40133 Bologna; www.mast.org. Fino al 17 aprile; martedì-domenica, 10,00-19,00. ❯ Proiezioni Nuits de Bal 1934-1950 - I balli nell’alta società elvetica e il lavoro invisibile. ❯ Proiezioni industriali: Meeting Aereo (1937; sei minuti); Il polso dei tempi nuovi (1937; dodici minuti); Il mulino del lago (1944; cinque minuti); L’era della macchina (1938-70; trenta minuti).



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CHE GUARDA

L’UOMO DA

BACKSTAGE

SGUARDO LIBERO

(1994)

TINTO BRASS

DURANTE UN CASTING

L’allestimento espositivo di Tinto Brass. Uno sguardo libero, realizzato con fotografie di scena del valente Gianfranco Salis rivela una capacità interpretativa fuori dall’ordinario: fino al punto che l’autore svela fantastici dietro-le-quinte. Il tema annunciato (ed esplicito) del cinema di Tinto Brass è svolto con testimonianza di affascinanti avventure, che si propongono come tramite che racconta emozioni, ma anche nel proprio concentrato valore progettuale e applicazione fotografica. In conseguenza diretta... una mostra a dir poco esemplare



di Maurizio Rebuzzini ianfranco Salis è uno dei più valenti fotografi di scena tra quanti hanno seguìto e documentato il cinema italiano nel proprio svolgersi. Quindi, in prosecuzione diretta da questo, è un eccellente ritrattista, che ha presentato e proposto un proprio stile inconfondibile, attraverso il quale ha visualizzato i protagonisti del cinema italiano in una galleria di ritratti di rara efficacia e avvincente definizione delle rispettive personalità. Così agendo, proietta la preziosità della sua fotografia oltre i confini originari dei soggetti affrontati: sia in registrazione e documentazione dei set scenografici, sia nella posa consapevole del ritratto. Nello svolgimento professionale della sua fotografia di scena, tra i tanti film e registi con i quali ha agito, in fantastica comunione di intenti, Gianfranco Salis è stato sempre particolarmente vicino al cinema di Tinto Brass, regista italiano che ha frequentato l’erotismo visivo, offrendone interpretazioni particolari, quanto valide: sceneggiature accurate e declinazioni attente... per quanto svolte entro i confini espliciti dell’erotismo dichiarato e lampante. Senza sottintesi di sorta. Proprio questa intensa collaborazione ha dato vita a una avvincente mostra, programmata a Roma, al Complesso Vittoriano / Ala Brasini, fino al prossimo ventitré marzo: Tinto Brass. Uno sguardo libero. In seducente allestimento scenico, sono scanditi i tempi e modi del cinema del celebre regista, puntualmente registrati con maestria da Gianfranco Salis. A questo proposito, ricordiamo che -in tempi antecedentici siamo già occupati del valente autore in tre occasioni (principali, più altri richiami cadenzati su ritmi conseguenti): nel marzo 2003, presentammo e commentammo i ritratti allestiti nell’ambito dell’intenso programma espositivo Photofestival, a Milano, modulati sull’ipotesi portante Fuori scena, a certificare che si trattava comunque di personaggi del cinema e dello spettacolo; nel marzo 2006, con lancio dalla copertina, in occasione di una prestigiosa esposizione romana, fu la volta di una galleria di ritratti di Ilona Staller (per l’appunto Ilona Renaissance), realizzati da Gianfranco Salis con i connotati di una particolare interpretazione creativa, che definisce e qualifica il suo stile espressivo; ancora, con declinazione visiva analoga, e perfino coincidente, nel febbraio 2010, richiamammo un’altra mostra, in esposizione a Bologna, che celebrò il mito di Moana Pozzi: Moana casta diva, con lancio dalla copertina. Ora, l’allestimento scenico di Tinto Brass. Uno sguardo libero richiede ed esige un altro passo, integrativo di quanto affermato per i ritratti di Gianfranco Salis. Infatti, il punto focale e la prospettiva sono diversi da quelli del ritratto posato. E stabiliscono un altro passo fotografico del valente autore. Adempiendo un compito istituzionale e concordato, con la sua fotografia di scena, Gianfranco Salis svela fantastici dietro-le-quinte della definita fabbrica dei sogni. Il tema annunciato (ed esplicito) del cinema di Tinto Brass è svolto con testimonianza di affascinanti avventure, che si propongono come tramite che racconta emozioni, ma anche nel proprio concentrato valore progettuale e applicazione fotografica. In conseguenza diretta... una mostra a dir poco esemplare. A questo punto, una domanda è perfino lecita: in che modo e misura si può puntualizzare la personalità fotografica di questo straordinario autore, che agisce lontano dalle luci della ribalta, pur lavorando sotto quei riflettori cinematografici accesi sull’incantevole e meravigliosa fabbrica di sogni (in ripetizione d’obbligo)? Tante e convincenti sono le risposte, che alla fine

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POSATO

DI

STEFANIA SANDRELLI

PER

LA CHIAVE (1983)

G


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POSATO

DI

TINTO BRASS

INQUADRATURA DA SENSO ’45 (2002)


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MONELLA (1998) PER

ANNA AMMIRATI DI

POSATO

sintetizzeremo, in riferimento diretto al binomio ultradecennale Gianfranco Salis (fotografo) - Tinto Brass (regista). Il regista Pasquale Squitieri ha osservato che «Il fotografo di scena è il testimone unico dell’avventura di un film. Il suo lavoro paziente documenta emozioni, disagi, magie, amori e discordie. Spesso, quei documenti resteranno il solo ricordo di quei giorni, di quegli uomini e donne, di quella storia da raccontare». La trascrizione fotografica è emblematica e simbolica, oltre che ricca di significati propri autonomi, come ha annotato il montatore Roberto Perpignani: «Ogni volta che ci disponiamo a definire qualcosa, dovremmo essere consapevoli di rischiare di cadere in una trappola. Come si può descrivere qualcosa, come la fotografia di scena, che appare così contraddittoria nei termini stessi attraverso i quali si cerca di nominarla? La fotografia è nata all’insegna della cattura del reale, e ha sempre giocato sul valore prevalente, sino a divenire sinonimo di testimonianza oggettiva. La scena è il luogo della rappresentazione, della proiezione di se stessi prendendo a pretesto delle forme condivisibili. Combinare questo strabismo in una dote professionale sembra paradossale ma, come tutte le sfide, è misterioso e attraente». Al proposito, il critico Morando Morandini è esplicito, nella propria puntualizzazione. Riflettendo sulla figura del fotografo di scena, rileva che «A poco a poco, mi resi conto che le centinaia di fotografie di film che in allegro e calcolato disordine si erano accumulate nel mio archivio pativano -come dire?- di ambiguità genetica: erano riproduzioni di fotogrammi di film, come avevo sempre creduto, oppure fotografie di scena, cioè scattate subito dopo la ripresa di un inquadratura o di una scena dal punto di vista della macchina da presa?». Qui sta una delle discriminanti. Infatti, Morando Morandini prosegue affermando che proprio questa questione «Fu l’inizio di una serie di domande: che differenza c’è o può esserci tra un fotogramma e la fotografia di scena che gli corrisponde? quante delle illustrazioni che sono comprese nei libri di cinema sono fotogrammi e quante fotografie di scena? si fanno ancora i “si gira”, cioè le fotografie di lavorazione, nelle quali il campo ripreso è più ampio della corrispondente inquadratura del film? in quali casi il fotografo di scena può ottenere dall’operatore una modifica all’illuminazione di una scena affinché la fotografia risulti migliore o, comunque, più illuminata? nel proprio lavoro, qual è il margine di creatività possibile per un fotografo di scena? Hanno compiti diversi, in fondo: un cineoperatore lavora sul movimento, mentre la fotografia è statica: deve cogliere l’attimo fuggente». In un certo senso, risponde il direttore della fotografia Ennio Guarnieri, quando rileva che «Nella fotografia, a volte, un solo fotogramma può contenere un’immagine piena di vita; nel cinema, molto spesso, migliaia di fotogrammi racchiudono il nulla». L’osservazione non va intesa nella propria apparente drasticità, quanto, più opportunamente, nell’allegro paradosso che introduce e sul quale attira l’attenzione. L’approfondimento tocca a Elisabetta Bruscolini, responsabile della Fototeca della Scuola Nazionale di Cinema: «Sono queste immagini che, più di ogni parola o saggio critico, rendono giustizia al lavoro del fotografo di scena, mostrando a un osservatore attento quanto la fotografia si discosti dalla ripresa e si conquisti una propria autonomia, lontano dall’essere una banale riproduzione di quello che il direttore della fotografia ha illuminato, il regista deciso, gli attori interpretato. Alcune fotografie sono vere e proprie opere artistiche, poiché il fotografo ha impresso nello scatto una propria particolare sensibilità nel riprodurre l’atmosfera di quel particolare film, lo spirito di una inquadratura, l’anima segreta di uno scorcio. La “realtà” scenica che il fotografo rap-


«La mia collaborazione con Gianfranco Salis è ormai di lunga data, ultra trentennale; il che ha permesso il consolidamento di una sintonia d’intenti e intuizioni tale da favorire la nascita di immagini dall’inconfondibile e icastica cifra stilistica brassalissiana o salisbrassiana, che dir si voglia. Non è poco, nell’universo mediatico sempre più invaso dal pressapochismo e analfabetismo estetico»

INQUADRATURA DA PAPRIKA (1991)

Tinto Brass

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INQUADRATURA DA FALLO! (2003)

INQUADRATURA DA FERMO POSTA

TINTO BRASS (1995)


TINTO BRASS DI

POSATO

presenta è frutto di una creatività, che riesce a essere in sintonia con il lavoro del regista e dell’operatore e al contempo a infondere alla fotografia un che di unico e personale». Il regista Ferzan Özpetek è lapidario e assoluto, oltre che rivelatore: «I fotografi di scena, ovviamente se sono bravi, forse sono gli unici che riescono a leggere l’anima del film. Io ho avuto la fortuna di avere bravi fotografi di scena, che mi hanno suggerito tante volte anche le inquadrature». In conclusione, la testimonianza dei registi fratelli Paolo e Vittorio Taviani; parole partecipi, attestato di stima, apprezzamento incondizionato: «Abbiamo un amico segreto sul set, un amico che sta nell’ombra, ma sappiamo che i suoi occhi sono puntati sulla scena che stiamo dirigendo: è lui che deve coglierne in sintesi il senso. Questo collaboratore silenzioso e nascosto negli angoli è il fotografo di scena. Quando, per vari motivi tecnici, non ha la possibilità di scattare durante le riprese, deve ricostruire la scena. Occorre energia e creatività, anche perché deve imporsi alla troupe, agli attori e soprattutto alla produzione, che spesso è costretta a vedere il cinema come una corsa contro il tempo. Il suo lavoro è prima di tutto documentazione, è anche un racconto “a fumetti”, alcune volte è una reinvenzione luministica di un volto, di un oggetto. La nostra gratitudine per questo collaboratore si rinnova quando nelle pubblicazioni sul nostro cinema la forza delle immagini da lui scattate riesce a restituire anche sulla pagina il senso della nostra ricerca». Quindi, nello specifico, ricaviamo la risposta assoluta e inviolabile della fotografia di scena di Gianfranco Salis, in accordo creativo e in complicità di intenti con il regista Tinto Brass: da cui, Uno sguardo libero. Gianfranco Salis è «testimone unico dell’avventura di un film. Il suo lavoro paziente documenta emozioni, disagi, magie, amori e discordie» (da Pasquale Squitieri). Gianfranco Salis è maestro nel «combinare lo strabismo della scena (luogo di rappresentazione) in una dote professionale» (da Roberto Perpignani). Gianfranco Salis è consapevole della particolarità della sua presenza sul set cinematografico, dove «il cineoperatore lavora sul movimento, mentre la fotografia è statica: deve cogliere l’attimo fuggente» (da Morando Morandini). Gianfranco Salis sa vedere l’apice di un’azione, perché «nella fotografia, a volte, un solo fotogramma può contenere un’immagine piena di vita; nel cinema, molto spesso, migliaia di fotogrammi racchiudono il nulla» (da Ennio Guarnieri). Gianfranco Salis accompagna il cinema, esprimendo una «fotografia che si discosta dalla ripresa e conquista una propria autonomia, lontana dall’essere una banale riproduzione di quello che il direttore della fotografia ha illuminato, il regista deciso, gli attori interpretato» (da Elisabetta Bruscolini). Gianfranco Salis adempie il proprio compito, in base al princìpio secondo il quale «I fotografi di scena, ovviamente se sono bravi, forse sono gli unici che riescono a leggere l’anima del film» (da Ferzan Özpetek). Infine, ma non alla fine, Gianfranco Salis è «un amico segreto sul set, un amico che sta nell’ombra, ma i suoi occhi sono puntati sulla scena: è lui che deve coglierne in sintesi il senso» (da Paolo e Vittorio Taviani). Da cui e per cui, l’attuale allestimento scenico Tinto Brass. Uno sguardo libero. Autorevole! ❖ Gianfranco Salis: Tinto Brass. Uno sguardo libero. Complesso del Vittoriano / Ala Brasini, piazza Venezia, 00186 Roma; 06-6780664. Fino al 23 marzo; lunedì-giovedì 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30.

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 28 volte novembre 2015)

FOTOGRAFIA DELLA POVERTÀ Sedici punti conseguenti e collegati Sulla fotografia della povertà al tempo della paura: e tanti altri ce ne sarebbero, ce ne starebbero.

UNO

L

La fotografia della povertà al tempo della paura planetaria contiene una disperata vitalità che si manifesta nei ritrattati per amore della vita. La fotografia della povertà non ha uno stile, perché li contiene tutti e tutti li viola... è una sorta di pastiche visuale che intreccia archetipi, forme e linguaggi della fotografia insegnata e schiude l’immaginario liberato all’impossibile... esprime il diritto alla differenza, e -come un laboratorio di falegnameria, metallurgia, calzoleria, tessitura, edilizia (...)- affabula una ritrattistica del desiderio, delle passioni, della fine del calcolo egoista di una minoranza di saprofiti col vezzo della frusta, del bastone e del fucile, e invita a conquistare una vita più libera, più giusta e più umana attraverso una filosofia libertaria della scrittura fotografica in forma di utopia.

DUE La fotografia della povertà si oppone alla pedagogia autoritaria che autorizza la coercizione economica, poliziesca e religiosa. È l’elogio di uno stile di vita che impara a vivere nel superamento della predazione finanziaria, terrorista, militare che avvolge il mondo. Denuda l’impostura dei profeti, dei tiranni, dei capi di stato e assalta il nichilismo e il cinismo delle mafie multinazionali connaturate con le partitocrazie e il crimine organizzato. I fotografi della povertà lavorano per la solidarietà verso gli ultimi, gli sfruttati, i massacrati dall’ordine dell’ineguaglianza per la ricerca della felicità di ciascuno e di tutti. L’anatema (separato e maledetto) dell’immagine povera denuncia il totalitarismo delle religioni, la crudeltà dei governi e dei regimi

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“comunisti”, e fa della compassione, della pietà laica, del rispetto, il princìpio di eguaglianza in ogni “persona fotografata”. L’odio consolida le gogne dei carnefici, l’amore il diritto di avere diritti.

dell’idiota che vede in se stesso il riflesso di un simulacro. La conoscenza della fotografia autentica ridesta la coscienza, la sua mercificazione servile l’uccide.

TRE

In fotografia e dappertutto, l’entusiasmo degli imbecilli (specie di sinistra) è deleterio: non hanno ancora compreso che la differenza tra intelligenza e stupidità risiede nella maniera di maneggiare l’arma della Verità (anche con la Fotografia). La distruzione pura e semplice degli idoli porta con sé quella dei pregiudizi (la lotta al ter-

QUATTRO La fotografia mercantile è un sommario di decomposizione, una sfilata di bruttezze inconfessabili, una successione di banalità assolute, un avvilimento dello spirito legato a un formulario di idiozie che passano nelle gallerie, musei, riviste, libri, video, scuole, calendari. La cartografia dell’in-

In ricordo di Aziz, un bambino burkinabè morto di stenti tra mie braccia. Intanto, una multinazionale canadese scavava l’oro nel suo villaggio, dopo averlo distrutto... «Ciò non toglie che l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità resti una tra le più belle che mai siano state concepite» Emil M. Cioran dustria fotografica è una dossologia di mediocrità truccate ad arte, che si disfano nel delirio, nella trivialità e nella noia. Sovente, in ogni fotografo -specie italiano- si cela un imbecille fulminato dalla fotografia sulla strada del mercato: la fascinazione del mito incatena al proprio oggetto d’arte, anziché liberarsene. Le vigliaccate della fotografia consumerista sono tutte conosciute e deliberate nel consenso e nel successo; l’euforia è quella

rorismo dell’Isis è lo spettacolo dei poteri istituiti, per continuare a dominare il mondo che alimentano nel terrore: gli uni e gli altri fanno parte della stessa delinquenza, e la paura che fanno colare dai media serve a innalzare i dividendi delle borse internazionali attraverso l’economia di guerra). Gli affari sono affari: i “potentati” dominano il petrolio, il gas, i diamanti, l’oro, la droga, l’acqua. E a New York come a Mosca, a Parigi come a Berlino, a Bagh-

dad come a Roma... un barile di petrolio vale più di mille bambini affogati nel Mediterraneo, ammazzati dalle bombe della “democrazia esportata” e da quelle dell’idolatria terrorista. L’odio contro la vita è lo stesso: la rapina, il saccheggio, il genocidio sono le ultime “fatalità” che giustificano una civiltà che si spegne.

CINQUE La fotografia della povertà -quella che fanno i popoli in rivolta e i bracconieri d’immagini del giusto, del buono, del bello- non è quasi mai raccontata dai fotoreporter dei grandi tele/giornali, proni a tutte le genuflessioni. La fotografia della povertà -quella che disvela la violenza per interdirla- porta a riflettere sulla ferocia della casta al potere... denuncia le vie della crudeltà che i politici sono pronti a percorrere, per non perdere i privilegi che gli elettori hanno conferito alle loro menzogne elettorali: stupidi e contenti che una tale razza di serpi abbia fatto del cinismo il proprio consolidato dominio. Darei tutte le immagini del mondo per un attimo di autentica libertà e vedere impiccati ai cancelli dei giardini, nell’ora del tè, i responsabili di una vita quotidiana inumana. Fedi, ideali, promesse di felicità sono le forche della prossima peste finanziaria; e la paura, il terrore, la violenza impongono a tutti di tremare a ogni caduta o impennata della Borsa. L’alienazione dominante è l’ideologia della santità economica, e l’inumanità ordinaria nasce dallo snaturamento dell’uomo trascolorato in merce.

SEI L’immaginario della povertà non si articola su false corone di spine e facce da pagliaccio del circo parlamentare. È un rizomario di aggressioni, torture, uccisioni: e interroga i mandanti dei funesti teatri


Sguardi su di guerra, che gli stati chiamano legittimità... i poveri massacro. La partitocrazia fa cantare la libertà sul filo della mannaia; l’armatura insanguinata delle banche, dei partiti, delle chiese, dei mercati (e la clemenza delle rivolte generazionali) assicura il profitto ai crimini del potere. L’umanesimo consumerista ha sostituito i canti delle insurrezioni popolari, favorito i lacchè dei partiti e la manchevolezza degli schiavi incapaci di ostacolare la giustizia dei burocrati, dei ladri, degli affaristi. Liquidare una dittatura (con tutti gli strumenti necessari, non solo con la fotografia) non è cancellare una sacra effigie, ma eliminare una dottrina.

SETTE L’istituzione teatralizzata dei poteri forti e dei terrorismi religiosi va processata per crimini commessi contro l’umanità. Le guerre alzano i dividendi delle borse internazionali e tutti i governi giocano sporco. La società mercantile detta le proprie leggi e i diritti più elementari degli uomini sono sepolti sotto cumuli di cadaveri ad ogni angolo della Terra. I virtuosi dell’assassinio legalizzato (i capi di Stato dei governi ricchi, dei regimi “comunisti” e dei fanatismi profetici) hanno elevato il macello a livello di spettacolo e i popoli inebetiti nel terrore urbanizzato plaudono o temono la paura in bella uniformità. Il libero profitto allarga i ceppi di improbabili libertà e le mafie del petrolio, del gas, del mercato delle armi, dei media promettono a tutti “pulizie etniche” che preservano il capitalismo parassitario... e i beni di consumo sostituiscono la gioia di vivere.

OTTO La pace si fa con la pace! I paradisi sono tutti sulla Terra, come gli inferni. Destituite le mitologie sul “buon governo” e sconfitto il martirio terrorista (che è il sottoprodotto di visioni messianiche e prolungamento di macchinazioni finanziarie internazionali), le illusioni e le seduzioni dell’ordine costituito franano sui loro stessi escrementi.

Nella partitocrazia, la pratica della verità è ridotta a un esercizio da confessionale e -alla macerazione del giusto che ne consegue- cancella il rimpianto di un’antica felicità. Ogni tirannia è divina. I privilegiati mantengono il sorriso delle iene nei salotti televisivi e sulle ceneri delle costituzioni: determinano divieti, sopraffazioni e accessi alla clemenza delle istituzioni, che assicura le ruberie alle cosche dei partiti.

La fotografia così fatta considera utile insegnare la propria arte dispensando a chi lo vuole la ricchezza delle proprie conoscenze. Elimina l’oppressione, aprendosi alla vita. Contiene l’allegro disprezzo di François Rabelais, Emil M. Cioran e Pier Paolo Pasolini nei confronti della pedanteria intellettuale e tende a liberare la coscienza sociale dall’influenza che la civiltà consumerista promana nella corruzione nel profitto.

NOVE

UNDICI

La fotografia della povertà accusa la ferocia predominante e invita all’accoglienza del vivente per amore della vita. Nella fotografia corrente, la stupidità si riproduce per inerzia e incensa la crudeltà dei mezzi d’informazione che nessuna educazione all’amore si è impegnata ad allevare. Il riconoscimento economico rovina il progresso dell’umano e la fotografia diventa la menzogna che dissimula se stessa. Una puttanella nuda viene fotografata alla medesima maniera di una donna profanata da solerti soldati e poi squartata e data ai corvi. Un divo del calcio, della televisione, del cinema, della moda, della canzone (e, perfino, uno chef) sono immortalati nell’immaginario collettivo nello stesso modo di un bombardamento aereo su popoli impoveriti. Terroristi e terrorizzati si confondo nei telegiornali e sulla carta stampata. La paura è planetaria, e a generare la paura sono il fanatismo religioso, dei mercati e dei partiti: tutti stanno al gioco, e anche gli operai giocano in borsa. I dividendi delle banche salgono col numero di carneficine santificate dal disordine pianificato dei centri di potere. La follia dei miserabili non conosce frontiere: ogni morte ha propri spettacoli che si richiamano a un dio e a uno stato fondati sul dolore secolare dei popoli.

Il rimbecillimento mediatico esibisce il criminale per meglio dissimulare il boia che ha contribuito a creare. Se la verità ha un senso, è proprio quello di promuovere la bellezza, la giustizia e abbattere i dispotismi dei predatori d’ogni casta: «Lo spettacolo delle commemorazioni è solo la messa in scena di una memoria morta» (Raoul Vaneigem). La fotografia della povertà scava a fondo il marcio delle politiche imposte, riporta alla luce i fatti occultati, respinge i linguaggi della paura che sono l’autarchia della delinquenza istituzionale. Il terrorismo è una vendetta che nasce dall’odio e chi sa solo odiare non potrà mai competere con l’odio profondo che la civiltà dello spettacolo ha istituito contro gli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali. La giustizia dei tribuni, dei burocrati, dei populisti, dei terroristi è sempre iniqua... bugiarda... spregiativa… e va sconfitta. Forse è giunto il momento d’imparare che a volte basta solo un soffio di profonde rivolte sociali per abbattere muri, califfati, palazzi eretti per durare in eterno.

DIECI La fotografia della povertà non è povera... è un rizomario di desideri, di passioni, di lacrime umiliate dalla storia degli esclusi, dei violati, degli scartati.

DODICI Va detto. Il ricorso alle guerre, alle repressioni, alla macellazione di popoli inermi maschera la “buona coscienza” degli assassini. Anche i terrorismi sono parte dell’allevamento concentrazionario dei poteri in armi e dietro ogni mitra e bombardamento a tappeto c’è un bel vestito Armani e un’automobile con tutti in comfort necessari per la famiglia.

La critica radicale della vessazione spettacolare comincia là dove si conquista la vita e impedisce a ogni potere l’edificazione della realtà sulla paura. La misoginia islamista, come l’ipocrisia capitalista, ha offerto il fianco agli sgherri in formato grande. I condannati all’esclusione, alla disperazione, alla miseria delle periferie sono la rogna terrorista che giustifica la “pulizia etnica” in atto. Rompere il circolo vizioso del giudizio e della colpa significa eliminare le malversazioni e le rivalità tra poteri. Ogni barbarie è una barbarie di troppo e sono sempre i poveri a pagare per la cupidigia del branco di “mangiamerda” di Wall Street. L’indignazione a viso scoperto deterge il cretinismo delle religioni, delle ideologie, della violenza suicida, dell’oblio consumerista: e alla repressione poliziesca, religiosa e dei mercati oppone l’insurrezione della bellezza, della giustizia, della vita buona e la rifioritura del genere umano nella pace.

TREDICI La fotografia della povertà non incita all’insubordinazione generalizzata. Meglio: lavora per dissuadere gli uomini e le donne del libero spirito a non affidare, né delegare, il bene pubblico a criminali, corrotti, ruffiani, imbecilli a tutto campo. Ancora: avverte che la partitocrazia è un corollario di effetti speciali con i quali assecondare le inclinazioni dei cittadini verso emozioni indotte, più che verso verità politiche. La giustizia dei ricchi non è la giustizia dei popoli; l’onore dei capi di Stato è sempre stato il disonore di una nazione; e la spada, l’aspersorio e il fucile sono stati gli strumenti di Mosè, Cristo e Maometto per sottomettere le folle nel letargo delle anime. Guerrieri, mercanti e criminali sono avvolti nella magnanimità di ogni potere arricchito con saccheggi, spoliazioni, violenze. I fanatismi esprimono la brutalità dell’uomo con i concetti di castigo divino, decadenza, caduta, colpa e libero arbitrio. L’uomo non è mai nato libero da nessuna parte, ma ovunque è tenuto a catena.

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Sguardi su QUATTORDICI La fotografia della povertà (ancora) è una visione dell’esistenza che si emancipa sull’universo libero, egualitario, fraterno dell’umanità: crea situazioni poetiche e politiche che impediscono qualsiasi arretramento di fronte alla disumanità della domesticazione sociale. La fotografia della povertà (in conferma) contrasta le sciocchezze edulcorate che la negano. Respinge l’alienazione dominante e la servitù volontaria. La fotografia celebrata cede il posto alla sua immagine e s’innalza a oggetto di spettacolo e -come sappiamo- «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo e l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza» (Guy Debord).

Fotografare il sangue dei giorni significa sommuovere i bassifondi dell’animo: creare e trasmettere le proprie sofferenze, volere che altri vi si immergano e le assumano su di sé, le rifondano, le rivivano, le disperdano nei cieli svaligiati dell’utopia e fare della propria esistenza un’opera d’arte.

QUINDICI La disumanità del passato si riflette sulla disumanità del presente che la società mercantile coltiva nella criminosità. Non si tratta di far saltare in aria statue, torri, monumenti o falcidiare persone innocenti: occorre che i popoli mettano fine all’impostura che li governa. L’indignazione delle genti deve innalzarsi contro le mafie degli affari (i signori della guerra) e destituire le belve terroriste sulla scacchiera dei mercati mondiali (i terroristi sono pedine di uno

schema truccato e ogni mossa -anche la più imprevedibile- è istigata, se non manovrata, dall’ordine economico/politico che governa il mondo). Il diritto della forza va combattuto con la forza del diritto e respingere l’intolleranza di qualsiasi atto disumano non è un atto di coraggio, ma una necessità che implica il “ritorno di fiamma” e il passaggio da una civiltà impaurita a una civiltà umana.

SEDICI Né vittime né eroi, né vendetta né perdono: l’odio consolida la catena degli aguzzini della libertà, che solo la solidarietà sociale può sconfiggere. Si tratta di «Riprendere la sana abitudine di ribaltare la prospettiva dominante, di passare dalla logica della morte all’esuberanza dialettica della vita» (Raoul Vaneigem) e impedire la prolifera-

zione degli Ogm, del nucleare, del petrolio, della deforestazione, del saccheggio della biosfera, dell’inquinamento climatico, delle pratiche terroristiche rese normali dalle politiche finanziarie. Ovvero, denunciare la violenza... per interdirla! E fare dell’affarismo internazionale della miseria un cumulo di spazzatura. Non si tratta né di punire, né di perdonare, ci mancherebbe altro. La lotta per l’emancipazione sociale va combattuta con armi che non sono quelle della barbarie, ma quelle dell’accoglienza, della fratellanza, del riconoscimento del diverso da sé. La conquista di un universo libero e fraterno passa là dove le genti faranno dell’amore, della pace, dell’eguaglianza l’Athanòr della comunità prodiga che viene. Motto di spirito. A cosa serve la fotografia della povertà? A niente, come la musica di Mozart! ❖




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