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ANNO XXIII - NUMERO 220 - APRILE 2016
Giorgio Galimberti TRACCE URBANE
Fuji X-T1 FACENTE FUNZIONI
Frankie hi-nrg mc METRAPOLIS
PHOTOCHROMES ALLE ORIGINI DEL COLORE
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prima di cominciare ALTRE PAROLE. L’Editoriale di questo numero di FOTOgraphia, a pagina sette, rileva e rivendica il valore della fotografia che racconta la Vita nel proprio svolgersi. I richiami a questa nobile missione affondano le proprie radici indietro nei decenni, fino alla fotografia umanista, che -a cavallo del Novecento- fu anticipazione di un fotogiornalismo etico e morale che sarebbe arrivato e maturato qualche decennio dopo. Subito, l’Editoriale pone un quesito, al quale risponde in un certo modo, e che qui è il caso di affrontare in altra maniera, apparentemente estranea al percorso fotografico lineare, ma altrettanto prossima all’osservazione della Vita nel proprio svolgersi. Domanda perentoria: «Possiamo occuparci di Fotografia, nostro territorio comune e nostro mandato statutario, senza considerare quanto accade nel mondo, attorno a noi?». Per quanto lì, l’idea di “Parola”, richiamata in un gioco di lettere combinate che si nasconde tra le pieghe del testo, approdi alla assimilazione “ParolaFotografia”, qui e ora, rimaniamo concentrati solo su questa... sulla “Parola”. Per conto nostro, le parole sarebbero pietre: solide e da usare con consapevolezza e coerenza. Invece, nella vita quotidiana, nella Vita nel proprio svolgersi, la “Parola” è sempre più usata in maniera sensazionalistica e a propria convenienza. In questo senso, attiriamo l’attenzione sulle speculazioni avviate all’indomani degli attentati terroristici di Bruxelles. Risolta la legittima condanna universale, alla quale ci accodiamo, annotiamo come la politica italiana abbia cavalcato i fatti, per continuare a esercitare il proprio pre-concetto latente. Personalmente, oseremmo sperare in una politica di parole e dialoghi per comprensione... però dobbiamo subire la politica delle urla, degli anatemi e dell’ignoranza che caratterizza l’attualità. Per esempio, ci sono stati esponenti politici italiani che hanno lanciato l’ipotesi che i luoghi di culto musulmani siano utilizzati per proselitismo al terrore islamico. Da cui, e per cui, la bizzarra proposta che, cerimonia religiosa a parte, le prediche vengano espresse in lingua italiana, perché la celebrazione avviene sul nostro territorio nazionale. E la predica in italiano potrebbe essere controllata dalle forze di polizia. Lingua italiana? In un paese dove il governo promuove leggi definite “Jobs Act” (riforma al diritto al lavoro) e “Stepchild Adoption” (adozione di bambini per coppie di fatto, anche omosessuali) e che preferisce l’enunciazione di Ministero del Welfare all’ufficialità di Ministero del lavoro e delle politiche sociali? Lingua italiana? In un paese dove una certa componente sociale organizza e svolge il “Family Day”? In risposta all’“I care” (mi faccio carico, me ne preoccupo) del congresso 2000 dei Democratici di Sinistra, di Walter Veltroni? Ma?! mFranti
È fondamentale rendersi conto che tanto la fotografia espressiva (detta anche creativa) quanto quella di documentazione non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 36 Non c’è fotografia che non sia dell’anima. La fotografia autentica è diserzione dall’ordine istituito. La fotografia (quasi tutta) è un’immagine della quale si servono i codardi per tenere in soggezione i deboli di spirito. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Del resto, la fotografia, che si offre come straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, esprime anche differenze espressive immortali. mFranti; su questo numero, a pagina 9 Dunque, l’apparecchio assolve e il fotografo risolve. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 22
Copertina Dall’ottima, convincente e coinvolgente retrospettiva storica Un tour du monde en Photochromes, allestita nei padiglioni espositivi dell’autorevole e qualificato Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, il faro Eddystone, a Plumouth, nel 1889-1911. Approfondimento delle origini del colore da pagina 50
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo francese emesso il 5 dicembre 1977 (altre fonti datano al quattordici novembre). Nell’ambito di personaggi famosi, Charles Cros (1842-1888), spesso indicato come padre della fotografia a colori, in processo tricomatico: in attuale allineamento alla Fotocromia
7 Editoriale In riconoscenza di quei fotografi che, osservando la Vita nel proprio svolgersi, visualizzano e preservano aspetti dell’esistenza che -altrimenti- non avremmo modo di conoscere e avvicinare. Parola e parole per tutti loro
8 Fotografia nell’anima Tommaso Galimberti, detto Tommy, cinque anni di età, è incamminato verso una terza generazione di fotografia, tracciata dal nonno Maurizio e dal padre Giorgio (del quale ci occupiamo, su questo numero, da pagina 34)
10 Anticipazioni Le quaranta categorie dei TIPA Awards 2016
APRILE 2016
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
13 Oltre il sorriso Semplice pretesto per altre considerazioni di carattere generale, il film statunitense Mona Lisa Smile, del 2003, propone comunque un paio di siparietti fotografici Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XXIII - numero 220 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
16 Il funambolo Concentrata riflessione fotografica attorno il ritratto (e dintorni e contorni), con considerazioni che dal proprio intimo si proiettano in avanti... molto in avanti di Rinaldo Capra
21 X-T1... facente funzioni A partire da un richiamo esplicito del rapper italiano Frankie hi-nrg mc, “diversamente fotografo” protagonista delle pagine immediatamente a seguire, evocazione del rapporto che intercorre con gli utensili della fotografia: nello specifico... l’efficace Mirrorless Fujifilm X-T1
24 Metrapolis Progetto fotografico del rapper italiano Frankie hi-nrg mc, che da tempo frequenta la comunicazione visiva scandendo termini e passi di una fotografia consapevole della potenza espressiva dell’immagine
34 Tracce urbane L’attento Giorgio Galimberti assolve una condizione base della Fotografia: osservare, piuttosto che giudicare, per condividere e partecipare. In confronto di visioni, fotografie con le quali confrontarsi. Per se stessi di Maurizio Rebuzzini
43 Con garbo, con amore Davide Furia agisce nella fotografia delicatamente al femminile come e per quanto la sua sensibilità gli impone di fare. Fotografia convincente e avvincente di Angelo Galantini
50 Alle origini del colore Un tour de monde en Photochromes, all’autorevole Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey di Antonio Bordoni
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Rinaldo Capra mFranti Frankie hi-nrg mc Davide Furia Angelo Galantini Giorgio Galimberti Tommaso Galimberti Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 Tradizione... in doppio Ottimo manuale, il Trattato fondamentale di fotografia, di Sergio Marcelli, offre efficaci considerazioni tecniche
65 Dmitrij Baltemants Sguardi sulla fotografia del nostro scontento di Pino Bertelli
www.tipa.com
Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato
di Alessandro Mariconti
via Foppa 40 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it
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editoriale P
ossiamo occuparci di Fotografia, nostro territorio comune e nostro mandato statutario, senza considerare quanto accade nel mondo, attorno a noi? Probabilmente, sì. Se e per quanto dovessimo anteporre la sequenza di Megapixel in crescita costante; se e per quanto dovessimo dare peso e valore soltanto alla meta degli Iso equivalenti; se e per quanto l’emozione di una funzione e/o applicazione riempisse adeguatamente i nostri cuori. C’è chi lo fa... e lo fa bene. Da queste imprevedibili pagine di FOTOgraphia, noi non siamo capaci di tanto, e permettiamo alla Vita nel proprio svolgersi di intrecciarsi ai nostri interessi fotografici specifici. Nessuna graduatoria, sia chiaro, nessun giudizio di merito/demerito: ma una considerazione sola e a sé stante. Punto. Attorno a noi, giorno dopo giorno, istante dopo istante, la Vita si rivela, palesando tutte le proprie manifestazioni, in felicità, piuttosto che dolore. Quindi, a diretta conseguenza, consideriamo il soggetto Fotografia come s-punto privilegiato di osservazione e riflessione. Detta altrimenti, forse detta meglio: come e quanto la Fotografia influisce (ha influito) sulle nostre vite (e, poi, il Cinema e la Televisione, in analoga considerazione). Ragionevolmente, e nel concreto, siamo riconoscenti a quei fotografi che, osservando la Vita nel proprio svolgersi, hanno realizzato mirabili immagini sulle quali e con l’aiuto delle quali possiamo riflettere e migliorare il nostro pensiero. Sì, ne siamo convinti, nessuna fotografia ha influito sui grandi temi ed equilibri della Vita (oppure, poche soltanto lo hanno fatto, lo hanno saputo fare), ma tutte, nel proprio insieme e complesso, hanno influenzato i nostri pensieri, le nostre coscienze. Ospitando su queste pagine le mirabili riflessioni di Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione di ogni numero di FOTOgraphia, sottolineiamo come e quanto il pensiero fotografico non si esaurisca alla sola propria teoria, ma possa partire per altri tragitti, per allungarsi su considerazioni e riflessioni sostanziali e sostanziose. Lo abbiamo già rivelato, e qui ripetiamo: siamo spesso in disaccordo con le considerazioni di Pino Bertelli, amico di strada, ma siamo convinti del suo diritto di esprimersi e del nostro dovere di offrire un palcoscenico per le sue straordinarie parole. Per esempio: «La missione di ciascuno (anche senza macchina fotografica) è portare a buon fine la bellezza, la fraternità, l’accoglienza del diverso da sé: nell’animo di un fotografo (come di qualsiasi uomo) alberga un imbecille o un poeta». Lezioni fondamentali, le sue. E speriamo che a volte siano altrettanto le nostre, sicuramente più modeste, probabilmente meno pregnanti. Ma! Ma tutti, qui tra noi -ognuno con i propri percorsi e le proprie convinzioni-, sono convinti che -pur avendo opinioni diverse su ciò che è degno di memoria- se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. Allora: onore e merito ai fotografi che, osservando la Vita nel proprio svolgersi, visualizzano e preservano aspetti dell’esistenza che -altrimenti- non avremmo modo di conoscere e avvicinare. Maurizio Rebuzzini
La Vita nel proprio svolgersi. Dall’alto: Edward Sheriff Curtis, La razza che sta scomparendo (Navajo; 1904); Jacob A. Riis, Bambini dormono in Mulberry street (New York City; 1890); Roman Vishniac, Sara a letto (Varsavia; 1935-1937).
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Terza generazione di Maurizio Rebuzzini (Franti)
FOTOGRAFIA NELL’ANIMA
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Detto Tommy, Tommaso Galimberti è figlio di Giorgio e nipote di Maurizio. Ha cinque anni, e vive respirando fotografia. Nonno Maurizio è uno dei più apprezzati fotografi italiani contemporanei, che ha elevato la fotografia a sviluppo immediato ad autentico linguaggio visivo autonomo e rilevante. La sua fama non ha bisogno di presentazione, e soltanto richiamiamo il nostro più recente approfondimento della sua progettualità, riman-
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Fotografia di Tommaso Galimberti: L.O.V.E., di Maurizio Cattelan, collocata in piazza degli Affari, a Milano, rivolta al prospicente Palazzo della Borsa. È la sua prima stampa, su carta comune, dedicata al nonno Maurizio (Galimberti).
dando a FOTOgraphia dello scorso maggio 2015, quando e dove presentammo la serie Marrakech, realizzata con pellicola Fujifilm Instax. Papà Giorgio si è affacciato alla fotografia d’autore, esprimendo un’autonomia visiva e una concentrazione creativa degna di nota e ammirazione [su questo stesso numero, da pagina 34]. In un certo modo e in una certa misura “condizionato” da quanto lo circonda, oltre che dalle parole che accompagnano le personalità espressive della famiglia, Tommy ha acquisito spontaneamente la cadenza fotografica che accompagna, oppure può accompagnare, le singole esistenze. Non considera la fotografia come qualcosa di saltuario e accidentale, ma la percepisce come elemento naturale e indiscutibile. Tanto che, invece di stare con uno di quei monitor che ormai guidano e scortano la vita dei nostri giorni (basta guardarsi attorno, su un mezzo pubblico, in un bar e, persino, per strada), si accompagna con apparecchi fotografici. Tanto che, ancora, il suo dialogo è coerente: per esempio, interloquisce chiedendo il 120mm, consapevole della inquadratura che ricava dalla Mirrorless in uso. Oltre l’aneddotica, che comunque accompagna qualsivoglia passo e cammino, anche quello fotografico, sia chiaro, cosa significa tutto questo? A nostro modo di vedere, nella consecuzione delle generazioni, l’approccio fotografico convinto e naturale di Tommy inverte addirittura il flusso generazionale, che -nello specifico- parte da lui, per proiettarsi indietro e proseguire a passo capovolto (ma non stravolto) verso il padre Giorgio e il nonno Maurizio. È questa la convinzione che ricaviamo dalla lezione incontrata: a Tommy è stato trasmesso qualcosa che non si esaurisce nella propria apparenza, a tutti evidente, ma affonda le proprie radici nella sostanza. Ovverosia, in una sostanza di amore e serenità, di affetto e quiete. A conti fatti, la fotografia di Tommy nobilita, conferisce dignità ed eleva addirittura quella dei suoi legami familiari inversi. Attenzione, però. Non ce ne sarebbe bisogno e non è richiesto, perché l’autorevolezza fotografica di nonno Maurizio e l’esordio autoriale di papà Giorgio sono al di sopra di ogni sospetto, sono più che assodati. Ma! Ma questa continuità generazionale
GIORGIO GALIMBERTI
Terza generazione
va oltre l’aspetto pubblico e sottolinea una profondità di altro spessore, di altro valore. Da e con Pino Bertelli, caustico censore della fotografia, che solitamente conclude la fogliazione della nostra rivista: «Solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante». Quindi, in consecuzione diretta, intravediamo una trasversalità d’amore che si allunga con cadenza fotografica da Maurizio a Giorgio a Tommaso Galimberti. Da Maurizio a Giorgio a Tommaso Galimberti, tutti in straordinaria comunità di intenti (spontanea e non costruita artificiosamente), ognuno di loro -ciascuno con proprie intenzioni e altrettanto propri svolgimenti- frequenta la fotografia sottolineandone un proprio fascino estraniante: quello che rimanda alla parola non detta, alla quotidianità affrontata, all’osservazione lieve, senza giudizi preconcetti. Del resto, la fotografia, che si offre e propone come straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, esprime anche differenze espressive immortali: dalla consapevolezza
Tommaso Galimberti (Tommy), cinque anni, al treppiedi, con occhio al mirino della sua Mirrorless, in una posa di ritratto.
di Maurizio e Giorgio Galimberti alla naturalezza e spontaneità di Tommy. E, poi, in conseguenza, e ripetizione, la fotografia è un gesto/atto d’amore: l’amore è sempre dove non si guarda, l’amore ama nascondersi tra le pieghe di apparenze esistenziali, l’amore lascia sempre tracce profonde e indelebili nell’anima. Ancora, e poi basta: l’amore si accorda con quella situazione di verità che restituisce alla vita la bellezza che le è propria. E la fotografia... anche. Qui, accompagniamo queste note con una fotografia di Tommy (Tommaso Galimberti), che rivela un apprezzato senso di osservazione e costruzione compositiva. La riproduzione rivela sporchi di lavorazione e imperfezioni formali. Non si tratta di copia da file originario, ma di scansione da una stampa su carta comune (da cui le tracce imperfette, soprattutto sui toni più scuri). È la prima stampa che Tommy ha realizzato in proprio, senza coinvolgere nessun altro. Come certificato, l’ha dedicata a nonno Maurizio. E la vita continua. ❖
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TIPA Awards 2016 di Antonio Bordoni
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ANTICIPAZIONI
Sul prossimo numero di maggio, relazioneremo attorno l’assegnazione dei prestigiosi e ambìti TIPA Awards 2016, conferiti dalla qualificata giuria composta da direttori e redattori di ventisette riviste fotografiche internazionali, tra le quali le italiane FOTOgraphia e Fotografia Reflex, aderenti alla autorevole Technical Image Press Association. Come sempre sottolineato, da ventisei anni a questa parte (da ventitré, per quanto riguarda la nostra edizione), i premi identificano i migliori prodotti fotografici, tra quanti sono arrivati sul mercato nell’arco dell’ultimo anno. Dunque, le quaranta categorie con le quali e nelle quali si esprimono i qualificati e ambìti TIPA Awards 2016 identificano componenti essenziali e discriminanti dell’attuale panorama tecnico-commerciale della fotografia. In un certo senso, si ricava un autentico specchio dei tempi tecnologici della fotografia. La visione e minuta moltiplicazione e scomposizione delle categorie sta a certificare, non solo suggerire, la radicale trasformazione della gestione fotografica individuale, sia professionale sia non professionale, che oggi si allarga a tutto il processo nel proprio insieme, più e diversamente di quanto non sia mai successo con le consecuzioni della pellicola. Al di là delle filosofie di fondo, sollecitate proprio da momenti particolari, come lo è la qualificata e autorevole sintesi dei TIPA Awards, in se stessi i premi rappresentano un concentrato momento focale della tecnologia fotografica attuale e futuribile. Per propria natura e personalità professionale, i direttori e redattori delle ventisette riviste fotografiche internazionali che compongono la Technical Image Press Association (TIPA) sono allo stesso momento al vertice e alla coda del mercato. Al vertice, quando e per quanto debbono intuire le evoluzioni tecnologiche in divenire; alla coda, quando e per quanto registrano, annotandole e motivandole, le personalità del mercato: comunque questo si esprima. Dunque, per conseguenza, i qualificati TIPA Awards sono frutto di una
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TIPA Awards 2016, in quaranta categorie: DSLR Entry Level, APS-C DSLR Expert, Full Frame DSLR Expert, DSLR Professional / Action, DSLR Professional / High Resolution, Photo/Video Professional Camera, Entry Level DSLR Lens, DSLR Telephoto Zoom Lens, DSLR Wide Angle Zoom Lens, DSLR Prime Lens, Professional DSLR Lens, Medium Format Camera, Mirrorless CSC Entry Level, Mirrorless CSC Advanced, Mirrorless CSC Expert, Mirrorless CSC Professional, CSC Entry Level Lens, CSC Telephoto Zoom Lens, CSC Wide Angle Zoom Lens, CSC Prime Lens, Easy Compact Camera, Expert Compact Camera, Full Frame Compact Camera, Superzoom Camera, Rugged Camera, Premium Camera, Camcorder, Photo Printer, Inkjet Photo Paper, Imaging Software, Tripod, Storage Media, Professional Flash System, Portable Flash, Photo Monitor, Mobile Imaging Device, Camera Drone, Actioncam, Imaging Innovation e Design.
competente analisi complessiva del mercato fotografico. Alla resa dei conti, la combinazione di riviste fotografiche tra loro diverse ed eterogenee, sia per intendimento e finalità, sia per osservazione geografica del mercato, finisce per rappresentare una adeguata media planetaria. Ciascuna rivista è portavoce di propri punti di vista e osservazioni nazionali, oltre che di realtà commerciali determinate da particolari equilibri geografici e sociali; quindi, nel proprio insieme, la valutazione TIPA esprime sempre e comunque la più concreta e realistica essenza del mercato fotografico mondiale. Da cui e per cui, in ottemperanza con l’identificazione dei tempi, in rapida trasformazione tecnica e tecnologica, che anno dopo anno impone richiami commerciali adeguati, i TIPA Awards 2016 sono scanditi da una cadenza che rileva, rivela e sottolinea valori e concetti di stretta attualità. Con ordine. Sei categorie per le reflex dei nostri giorni (DSLR / Digital Single-Lens Reflex): Best DSLR Entry Level, Best APSC DSLR Expert, Best Full Frame DSLR Expert, Best DSLR Professional / Action, Best DSLR Professional / High Resolution e Best Photo/Video Professional Camera. Giocoforza evidenziare la cadenza di tre reflex professionali, che individuano una scomposizione concettuale di impiego e utilizzo che può indirizzare le scelte individuali di acquisto. A queste reflex, fa quindi da legittimo corollario la Best Medium Format Camera, che completa il panorama della fotografia professionale. Dagli apparecchi agli obiettivi, con cinque passi per le attuali reflex digitali di provenienza 35mm: Best Entry Level DSLR Lens, Best DSLR Telephoto Zoom Lens, Best DSLR Wide Angle Zoom Lens, Best DSLR Prime Lens e Best Professional DSLR Lens. Poco da aggiungere, se non dare risalto al raddoppiamento zoom, con considerazioni autonome per quelli ad escursione tele e quelli ad escursione grandangolare. Bella idea! Quatto passi attraverso la quantità e qualità di Mirrorless, che l’ufficialità commerciale vorrebbe identificare co-
me CSC - Compact System Camera (ma le assegnazioni TIPA hanno ripreso il gergale “Mirrorless” di comprensione comune, in abbinamento: compromesso lecito): Best Mirrorless CSC Entry Level, Best Mirrorless CSC Advanced, Best Mirrorless CSC Expert e Best Mirrorless CSC Professional. Anche qui attenzione per la gamma degli obiettivi, in altrettanto quattro categorie autonome: Best CSC Entry Level Lens, Best CSC Telephoto Zoom Lens, Best CSC Wide Angle Zoom Lens e Best CSC Prime Lens. Per quanto le compatte abbiano smarrito per strada il proprio vigore commerciale originario, è indispensabile annotare come e quanto l’offerta rimanga vivace, magari nelle proprie proiezioni di più alta fascia commerciale. Quindi, oltre l’inevitabile Best Easy Compact Camera, altre cinque indicazioni opportune: Best Expert Compact Camera, Best Full Frame Compact Camera, Best Superzoom Camera, Best Rugged Camera e Best Premium Camera. E qui, “Rugged” a parte, le interpretazioni slittano su valori in qualche modo e misura soggettivi. Poco male. A seguire, la gestione digitale delle immagini è in continua evoluzione, tanto che sono stati accantonati gli scanner (per ora, almeno), e non si sono scanditi tempi differenziati per le stampanti (ancora per ora, almeno). In sequenza: Best Camcorder, Best Photo Printer, Best Inkjet Photo Paper, Best Imaging Software, Best Storage Media, Best Photo Monitor, Best Mobile Imaging Device e Best Actioncam. Una certa fotografia senza tempo, se vogliamo dirla in questo modo si esprime con gli accessori d’uso: Best Tripod, Best Professional Flash System e Best Portable Flash. A cui si aggiunge una novità assoluta, una novità dovuta, una novità dei nostri giorni: Best Camera Drone. Immancabile! Per finire, Best Imaging Innovation e Best Design coniugano l’efficacia di prestazioni con valori formali che influiscono sulla sostanza. È tutto: per le assegnazioni, rinnoviamo l’appuntamento al prossimo numero di maggio. ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
OLTRE IL SORRISO
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Contravvenendo a qualsivoglia regola di giornalismo, oppure consuetudine di giornalismo -che fa lo stesso-, la prendo larga e, tutto sommato, prevarico il soggetto ispiratore di queste note. Ufficialmente, dovremmo occuparci della presenza della fotografia all’interno della scenografia di un film statunitense della fine del 2003 (in Italia, dal diciannove dicembre): Mona Lisa Smile, di Mike Newell, su sceneggiatura di Lawrence Konner e Mark Rosenthal, con protagonista Julia Roberts, star hollywoodiana di richiamo certo. Ufficiosamente, ma concretamente, ci muoviamo di traverso, finalizzando il film ad altre considerazioni
Dal film Mona Lisa Smile, di Mike Newell, del 2003, sequenza nella quale la sciropposa studentessa Betty Warren (l’attrice Kirsten Dunst), perfida nemica della professoressa libertaria di Storia dell’Arte al collegio femminile di Wellesley (Katherine Ann Watson, interpretata da Julia Roberts), convoca una amica con macchina fotografica per documentare la felicità della sua vita di moglie. Per la cronaca, biottica 6x6cm Rolleiflex.
che ci appartengono. Comunque, la matrice fotografica c’è... e giustifica, pur senza motivarle, queste nostre note redazionali, ospitate negli spazi che riserviamo sempre alla presenza cinematografica della fotografia. La trama, dalla quale traiamo ispirazioni altre è presto riassunta, e altrettanto presto risolta. Negli Stati Uniti del 1953, in piena guerra fredda e maccartismo di caccia alle streghe (comunisti), con l’integrazione razziale ancora da venire (tutto il movimento politico sarebbe sorto all’alba degli anni Sessanta, con Martin Luther King e Malcom X), la trentenne nubile Katherine Ann Watson (per l’appun-
to, interpretata da Julia Roberts, anche fotografa Anna Cameron, in Closer, di Mike Nichols, del 2004 [FOTOgraphia, ottobre 2006]) approda in California, nel prestigioso collegio femminile di Wellesley, come docente di Storia dell’Arte. In realtà, l’istituto non è orientato ad alcuna effettiva crescita culturale, ma si propone di preparare le studentesse al loro ruolo stereotipato nella società: mogli perfette e madri devote alla famiglia. Dissidente da questo punto di vista, femminista ante litteram, la professoressa sposta l’equilibrio delle proprie lezioni in una chiave completamente diversa: non più una Storia dell’Arte
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Cinema asettica, vuota e autoreferenziale, ma una partecipazione che offra visioni e sollecitazioni rinnovate, proprio a partire dall’arte [e, sullo stesso piano, sulla stessa lunghezza d’onda, segnalo lo svolgimento della mia docenza di Storia della Fotografia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia: come e quanto la Fotografia ha influito e influisce sulla Vita; ancora, la Fotografia come inviolabile s-punto privilegiato di osservazione e riflessione, per la Vita, verso la Vita]. In questa sua azione, la brillante professoressa Katherine Ann Watson è osteggiata dalla studentessa Betty Warren (interpretata dall’attrice Kirsten Dunst), che l’attacca sistematicamente sul giornale della scuola con articoli diffamatori, soprattutto della personalità, ma anche sull’insegnamento; in epoca di maccartismo, le
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si rimprovera un’attività sovversiva indirizzata a minare i ruoli per i quali le donne sono nate: casa e famiglia, niente di più, né di diverso. In questo senso, ecco qui la nostra considerazione sovrastante. Al giorno d’oggi, abbiamo come l’impressione che si debba considerare il cinema, nel proprio insieme e complesso, oltre il proprio compito originario e statutario di svago. Certo, è soprattutto questo: è spettacolo. Altrettanto certo, se qualche spettatore intende andare oltre, le sceneggiature attuali offrono e propongono anche ulteriori s-punti di riflessione. Sia chiaro che ciascuno ha il diritto/dovere di agire come meglio crede, ma sia altrettanto palese che il cinema è oggi una forma popolare di divulgazione di idee e opinioni e considerazioni: a disposizione di milioni di utenti, di milioni di ascoltatori. Quindi,
Ancora fotografia nella scenografia del film Mona Lisa Smile, in completa trasversalità: Speed Graphic 4x5 pollici di derivazione fotogiornalistica per la cerimonia di matrimonio della studentessa Betty Warren e per la rituale fotoricordo in posa [della presenza di Speed Graphic nel cinema, soprattutto statunitense, abbiamo approfondito lo scorso maggio 2015].
al pari di tanto altro cinema, che nel caso statunitense non viene meno al mandato originario di spettacolo, anche Mona Lisa Smile si presenta come spaccato sociale per osservare e valutare una società che, all’alba degli anni Cinquanta, non aveva affatto intuito la trasformazione che fermentava sottotraccia, per esplodere poi con tutto quanto ha definito e caratterizzato il decennio successivo, che nel caso degli Stati Uniti ha compreso anche la tragica ferita della sanguinosa e rovinosa guerra in Vietnam. Per quanto l’intenzione scolastica del collegio femminile di Wellesley viene dipinta nella propria proiezione a un passato accomodante (e sconcertante), le metamorfosi erano lì in agguato, pronte a farsi valere, pronte ad esplodere: e lo stesso, possiamo riferire alla sceneggiatura del noto e apprezzato L’attimo fuggente, di Peter Weir, del 1989, con il docente di letteratura John Keating (straordinariamente caratterizzato dall’attore Robin Williams). Tutte le fragili certezze di quei tempi furono presto spazzate via da nuove ondate. E la sceneggiatura di Mona Lisa Smile è lì, sull’orlo del baratro, che si sta aprendo: anni Cinquanta, un’epoca nella quale ciò che è stato sceneggiato ha fatto parte di un più generale clima di speranze e allegria. All’indomani del buio di un devastante conflitto mondiale, il dopoguerra portò con sé uno stile di vita e una narrativa positivi. Lo stato d’animo era ottimista; le automobili, i primi elettrodomestici per la casa e perfino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione della guerra, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo, la visione di una esistenza solida e tranquilla si concretizzò nelle menti di tutti: ogni ipotesi e ogni conclusione parevano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. Infine, approdando alla presenza della fotografia nella scenografia di Mona Lisa Smile, sottolineiamo la sequenza nella quale la studentessa Betty Warren, perfida nemica della professoressa libertaria di Storia dell’Arte, convoca una amica con macchina fotografica (biottica 6x6cm Rolleiflex) per documentare la felicità della sua vita di moglie: con il marito e accanto gli elettrodomestici simbolo. Come al solito, come sempre, e come spesso annotiamo e sottolineiamo, il resto è mancia. ❖
Riflessione di Rinaldo Capra
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IL FUNAMBOLO
Uno. Le linee d’intersezione dei piani di pavimento, parete e soffitto, nel mio studio non esistono. Ogni piano è raccordato da ampie e morbide curve che uniscono in un’illusoria continuità il verticale con l’orizzontale, il sopra con il sotto, in un falso sconfinato unico piano, apparentemente piatto, senza fine, senza tempo, quantomeno su tre delle quattro pareti della grande stanza, dove realizzo ritratti fotografici, disintegro due delle quattro dimensioni. Il senso dimensionale è controllato dall’illuminazione, che -con ombre o riflessi- può rivelare la mancanza di angoli del cosiddetto limbo (una specie di enorme interno d’uovo), lasciare una sensazione di piano d’appoggio e un’ipotesi d’azimuth, oppure -con sapiente scienza dell’illuminazione- annientare completamente ogni relazione geometrica con il mondo di qualsiasi soggetto, in un bianco abbacinante o in un nero sconfortante, tranciando ogni legame con la miserabile realtà naturale di forma, luogo e tempo, ricreandola in sole due dimensioni, con la possente e tenebrosa nebulizzazione dell’arte fotografica, nella luce della mia personale interpretazione dell’essere in sé. Gli attori o automi di ogni ritratto sono -in realtà- spettatori inconsapevoli di un rito magico, circolare e a loro incomprensibile, del quale io sono padrone assoluto poiché ne conosco codici e caratteri, che credono, loro, di poter spiegare e tradurre nel linguaggio rettilineo del raziocinio e della didascalia. Nel vano tentativo di immaginare l’immagine prodotta dall’apparato mi osservano mentre posiziono le luci e li inquadro, ma non ci riescono, e -come dice Vilém Flusser- ogni spiegazione logica si frappone tra loro e l’immagine che verrà prodotta, perché essa -l’immagine- è sempre simbolica e -non affrancandosi
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dalla necessità del pensiero concettuale- cadono nella testolatria smarrendo la magia. Con loro stessi, i soggetti del ritratto portano l’immagine alterata che hanno sempre di sé e credono di poterla interpretare e contrabbandare meglio se aiutati dall’esoterica e indulgente capacità del ritrattista, che alla fine -sperano-, li farà riconoscere per ciò che vogliono e narrano di essere e mai sono. Le distorsioni e aberrazioni di questa società istituzionalmente ignorante, materiale, priva di ogni forma di sensibilità artistica e umana, sono magistralmente e pateticamente interpretate, nei tentativi di dare un’imma-
gine di sé iconograficamente accettabile nell’immaginario collettivo, da parte di questi spettatori aspiranti attori durante una seduta di ritratto. Incapaci di guardare dentro e cercando solo fuori, invocano la magìa della produzione di una loro immagine seppur cartacea: il ritratto. Da automi, me ne danno mandato, e -secondo un programma necessariamente stabilito- iniziano a muoversi secondo il caso, di fronte a quel giocattolo simulatore di pensieri che è la macchina fotografica, convinti che la ridondanza di informazioni, che mi esibiscono, li avvicini a un’illusoria possibilità di
«Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra» Thomas Bernard
riconoscersi ed essere riconosciuti, accettarsi ed essere accettati, in quel sentiero che sta tra loro e la morte: la realtà. Parlano, mi sommergono di metacodici, per spiegarmi la loro immagine in potenza e chiedendomi di agire da funzionario della macchina fotografica, come se essa avesse già in sé tutto il programma del loro ritratto. Ma ciò non è mai possibile. Li osservo avvicinarsi al set... preoccupati, deboli, in cerca di un mio consenso, come bambini insicuri, con i visi spesso tesi in risatine sardoniche d’incertezza, pudori caustici o esibizionismi isterici, ma con un unico incubo: riuscire a interpretare se stessi ed averne di riflesso un’immagine riconoscibile al mondo per ciò che vogliono credere di essere. Per la propria immagine personale inseguono sempre un modello stereotipato, preconcetto: quello della loro cultura visiva e sociale. Anche i timidi e ritrosi, quelli che non vogliono farsi ritrarre, gli eterni traccheggianti, un piede su e uno giù dal set fotografico, con i loro piagnistei, sono sempre così lontani dall’idea di loro stessi e accomunati a tutti gli altri dall’insostenibile orrore e meraviglia di non riconoscersi, di non esser riconosciuti e quindi di non essere. Tuttavia, sono loro stessi che senza nessuna ironia vengono vestiti di falsità, tradendo la loro intima essenza, lontani dall’anima. Nessuno sa più farsi ritrarre con disinvoltura. Difficile trovare qualcuno che abbia un’intima e sensibile immagine di sé. Nessuno è disinvoltamente lontano dal suo aspetto corporeo e vicino a ciò che veramente è, per ciò che ora è, che poi-dopo la morte- non sarà. Loro stessi negano la propria esistenza, in quanto esseri incapaci della minima trascendenza, come fossero già morti, sospesi sul mio limbo, tra terra e cielo
Riflessione ideale. Allora, di fronte a quell’agglomerato informe di pensieri e volontà, dopo un attento studio dei sintomi, produco l’automa, che secondo il mio programma, e l’aiuto degli apparati fotografici -alla fine del rito-, potrà diventare un’immagine, un ritratto. Come il dotto rabbino Bezhael Low, nella Praga di Rodolfo, impastò l’argilla con cui creò il Golem, darò vita con l’inserimento dello Shem, il tassello d’osso sul quale è scritto il magico, segreto e impronunciabile nome di Dio. In camera oscura, poi, lo ridurrò cartaceo e inanimato, in una stampa -il mio Golem-, seppellendolo in fondo a un cassetto dell’archivio per dimenticarlo... ma che forse un giorno riaprirò per rinnovare lo stesso potente stupore. La leggenda dice che il Rabbi Low, per stanchezza, dimenticò di togliere lo Shem dal Golem, per il riposo del sabato, e questi distrusse l’intero ghetto di Praga, uccidendo migliaia di innocenti. Con uno stratagemma, Rabbi riuscì a neutralizzarlo, togliendogli lo Shem; il Golem cadde a terra, impotente e privo di vita, e fu nascosto in una stanza magicamente inaccessibile nella sinagoga Vecchio-Nuova, dove tutt’oggi giace inanimato; ma se qualcuno, che conosce la combinazione di caratteri magici dello Shem, lo ritrovasse, potrebbe riportarlo alla vita con il suo devastante potere. Due. Ricordo che da bambino fui portato da mio nonno per il primo ritratto fotografico della mia vita. Il nonno, vecchio radicale socialista, eroe della Prima guerra mondiale, viveva con enorme tensione il momento di creare un’immagine tecnica di sé, il suo sembiante cartaceo bidimensionale. Il fotografo, amico suo e compagno di partito, aveva lo studio a poche centinaia di metri dalla casa del nonno; ciò nonostante, i preparativi furono complessi e laboriosi, come per un lungo viaggio. Dapprima, bisognava comunicare ufficialmente il progetto a mia madre, che lavorava da sarta in casa, lontana e disattenta
«Mi chiedo se l’arte, o l’artista, ha mai fatto altro se non isolare, rivelare, animare dare forza e accentuare l’individualità del singolo oggetto, percepito nell’abbondanza del mondo visuale» Thomas Mann a qualsiasi problema che non fosse economico. Così, si presentò sull’uscio di casa, impettito, e -con aria severa e di circostanLessico Apparato Automa
za- disse a mia madre, china sulla macchina per cucire, che era ora che lui ed io avessimo un ritratto ufficiale assieme, visto che ero l’u-
giocattolo che simula il pensiero apparato che funziona necessariamente secondo un programma dato Carattere segno scritto Codice sistema di segni ordinati secondo regole Concetto elemento costitutivo di un testo Entropia tendenza verso configurazioni verosimili Fotografia immagine tipo manifestino, distribuita dagli apparati Fotografo colui che tenta di realizzare fotografie con informazioni estranee alla macchina fotografica Funzionario colui che gioca con e in funzione di un apparato Gioco attività che è il suo fine Giocattolo oggetto con cui giocare Idolatria incapacità di decifrare idee immaginifiche; quindi, adorazione dell’immagine Immaginazione capacità di produrre e decifrare immagini Immagine superficie significante con gli elementi costitutivi in relazione magica Informare produrre configurazioni improbabili Magìa esistenza in un mondo dell’eterno ritorno Oggetto qualcosa che sta tra i piedi Oggetto culturale oggetto informato Produzione attività che trasporta nella cultura elementi naturali Programma gioco di combinazioni chiare e distinte Ridondanza informazione ripetuta; quindi, probabile Rito comportamento proprio dell’esistenza magica Scansione movimento circolare che decifra una situazione Segno fenomeno che indica un altro fenomeno Situazione configurazione nella quale ha significato la relazione tra gli elementi e non gli elementi stessi Strumento simulazione di un organo umano che lavora davvero Testo una o più linee di caratteri Testolatria incapacità di tradurre concetti significati da caratteri; quindi, adorazione del testo Tradurre muovere da codice a codice; quindi, passare da un universo all’altro Trascendere elevarsi oltre Universo totalità delle combinazioni dei codici possibili e totalità dei significati di queste combinazioni Valore ciò che dovrebbe essere
nico nipote che aveva e che lui -il nonno-, ormai in avanzata età, voleva essere ricordato da me ancora valido, nella sua stupefacente forza fisica e morale, prima dell’immancabile, ma -per me bambino- impossibile decadimento. Mia madre, abituata al tono marziale e un po’ pedante del nonno, alla sua richiesta, non sollevò neppure lo sguardo; disse solo «E chi paga?». Il nonno assicurò che il pagamento del fotografo, compagno fotografo dovrei dire, sarebbe stato totalmente a suo carico, e ricevette da mia madre uno stralunato cenno d’assenso: e così, il nonno dette l’avvio all’operazione ritratto. Anzitutto, stabilì che quella notte avrei dormito da lui, anche se la distanza tra le due case era irrisoria, perché dovevamo prepararci al particolare momento che ci attendeva con solennità e come, diceva lui, rango. L’indomani, ci aspettava un ritratto, un vero ritratto, non una di quelle stupide fotografie che servivano solo agli sbirri per riconoscerti e sbatterti dentro dopo uno sciopero, o per appiccicarle su un documento, dove tutti i proletari erano rappresentati nella brutalità della propria condizione infame, e avevano delle facce da scemo, diceva, come quelle pubblicate su un libro di teorie lombrosiane, che poi mi avrebbe fatto vedere. Un ritratto intenso, studiato, che avrebbe dato dignità alla nostra condizione di intellettuali rivoluzionari e illuminati, che affrontano a viso aperto, con arte e poesia, l’ostilità di un mondo orrendo e ingiusto. Naturalmente, ero emozionato e felice di essere coinvolto dal nonno in una vicenda che riteneva così seria e importante, e di essere io stesso messo sul suo stesso piano di rivoluzionario. In famiglia, al meglio, si ridacchiava delle idee del nonno, senza mai prenderle sul serio. Le si attribuiva a una ferita di baionetta alla testa durante la guerra, sull’Isonzo, che -oltre aver lasciato una vasta cicatrice vicino all’orecchio-, si diceva, avesse accen-
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Riflessione tuato il già eccentrico carattere. Giunti nella sua officina -come definiva uno scantinato sotto casa, nella quale faceva un po’ di falegnameria e si rifugiava a leggere i suoi libri ordinati in un’ampia libreria di noce, da lui stesso costruita-, avvisò la nonna che sarei rimasto a cena e a dormire, e subito cominciò la preparazione al ritratto. Iniziò immediatamente a sfogliare vecchie riviste e libri di storia, facendomi vedere ritratti di re e generali, che quantunque da aborrire come simbolo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, avevano comunque cultura e sapienza: erano -come diceva- proprietari dei mezzi di produzione industriali e intellettuali, ed era significativo -quindi- come posassero in quei ritratti, per dare alla storia la possibilità di conservarne una loro immagine significativa. Mi faceva notare come tutti stessero attenti a rendere vivace l’occhio, il viso sereno, ma inflessibile, nel rigore morale dell’atteggiamento, serio, ma mai altero e come il sobrio decoro regnasse nei loro abiti. Mostrò anche fotografie di anarchici e rivoluzionari, dei quali elogiò la fierezza dello sguardo, ma criticò lo scarso rispetto per le convenzioni correnti di abbigliamento, concludendo che chi non ha rispetto per il proprio aspetto, non può pretendere di essere rispettato. La dignità del proprio aspetto esteriore non è una vacuità borghese; infatti, con queste teorie sciatte -diceva-, la rivoluzione non si era ancora fatta. Convinto di avermi illustrato esaustivamente i miei doveri di essere umano libero, rispetto alla fotografia, onde essere eternamente trasparente al mondo, passò a cercare, nella sua vecchia cassa da soldato della Prima guerra mondiale, oggetti e simboli da portare con sé per il ritratto; mentre lo faceva, mi parlò di un suo amico che aveva combattuto nelle guerre d’Africa, che gli aveva raccontato che quei poveri esseri -gli africani-, totalmente superstiziosi e ignoranti, capaci persino di adorare un pezzo di legno o d’osso, avevano paura
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«Nella Storia dell’Umanità, la Fotografia per prima (e unica... con cinema in appendice) ha reso permanente ciò che avrebbe dovuto rimanere transitorio. È stata una devianza colpevole? Ne sono responsabili coloro i quali -fotografil’hanno frequentata?» Maurizio Rebuzzini a farsi fotografare, temendo gli fosse rubata l’anima. Il mattino successivo, andammo dal fotografo. Fui subito affascinato dagli apparati tecnici, mi divertii molto e non ricordo quasi nulla delle discussioni etiche che si protrassero per ore, fino a mezzogiorno, prima nello studio fotografico e poi all’osteria, sulla pretesa del nonno di avere davanti a sé -mentre si posava per il ritratto- uno specchio, per controllare la propria espressione ed essere cosciente dell’aspetto omogeneo e unico che voleva offrire e -quindi- essere. Lui voleva essere quel che voleva apparire, autenticamente, intimamente e senza la menzogna di mediazioni culturali: così era! Conservo ancora quella fotografia... anche nel mio cuore. Tre. Ogni volta che finisco un ritratto, sento il bisogno di sedermi al centro del limbo e smarrirmi. Rivolto in modo da avere tre lati senza spigoli, che mi avvolgono su tutto l’arco visivo, sistemo l’illuminazione con un riflesso esattamente a metà della mia visuale, per sentirmi galleggiare in un piatto e nebbioso paesaggio padano, nel quale la linea dell’orizzonte non è altro che un lieve bagliore all’incontro tra cielo biancastro e terra grigiastra... e tutto è immobile. Guardo il ritratto, respiro e penso alla morte.
Piano piano, mi avvicino con lo sguardo alla pupilla riprodotta sulla stampa e mi accorgo che è un terrificante pozzo scuro, nel quale precipito sgomento, con orrore, nel tentativo di attraversarla come un acrobata che cammina sul filo, spaventato perché non ancora morto, perché sconfitto dallo paura. L’acrobata deve essere già morto prima di salire sul filo, per liberarsi dalla paura, affidarsi alla sensibilità dei suoi piedi e armato solo della forza delle mani che stringono il lungo e pesante bilanciere e attraversare il pozzo, senza provare la vertigine letale, quando -a metà percorso- il suo sguardo incontrerà la sua immagine in bilico, che si riflette nelle gelide e tenebrose acque di cui è colmo il fondo. Ogni pupilla di ogni ritratto -seppur diverso per espressione e intensità, seppur diverso per tecnica di ripresa- è sempre e comunque un pozzo scuro, nel fondo del quale, ancor più inquietante per l’aberrazione della prospettiva sferica, si riflette la mia immagine di acrobata terrorizzato in spettacolo. Immagine avvinghiata all’apparato, persona viva e meravigliata davanti a uno stòlido pubblico composto di una sola persona che non resiste alla vertigine dello specchiarsi, e precipita infrangendosi nel proprio riflesso nel fondo nero che
doveva vincere e attraversare. L’incontro inaspettato con la propria immagine è insostenibile. Del resto, da molto tempo -nella mia casa e nel mio studiosono stati banditi tutti gli specchi. Ogni volta che mi trovavo davanti a uno specchio, scrutavo il mio occhio con intensità estenuante, cercavo nell’iride, nella pupilla e nella purezza del bianco del bulbo anche il più piccolo segno di identità peculiare e personale o di cambiamento. Era sufficiente uno sguardo, e l’accessorio domestico denominato specchio si attivava con perversa efficacia, rimandandomi un altro me stesso sconosciuto; per quanto facessi sforzi per orientarmi, mi smarrivo nell’angoscia agorafobica dell’immenso vuoto che trovavo nella mia pupilla. Enormemente rassicurante... cominciare a esplorare le pupille altrui, trasformarmi in ritrattista fotografico e speculare, ignorando di specularmi nelle pupille degli automi fotografici ai quali avevo dato vita e identità, seppur bidimensionale, a mia discrezione e vivendo emozioni per procura, come fossi un terzo escluso. Nella mia anabasi, certo della mia identità verso me stesso e Dio, al punto da non aver bisogno di avere un’immagine mentale di me, ma solo dei miei automi ritratti, mi scontro con l’involontario specchiarmi in ogni occhio che ho fotografato, diventando il terrorizzato acrobata che precipita in ogni pozzo buio che tenta di attraversare, sfracellandosi nella tenebra che fa da specchio. Ne ho terrore. È straziante la sensazione di caduta in quest’occhio. Mi procura dolore e tensione insostenibili, e incredibilmente non ho alcuna voglia di fuggire e sottrarmi a questa sofferenza, ma di attraversarla, sentendola fino in fondo, per l’orrore e l’incertezza che mi spettano per nascita e che sono il mio io. Non mi resta altro che smettere di fotografare estranei e comprarmi uno specchio, oltretutto quel che vedrò sarà il solito e non una novità. ❖
Parliamone di Antonio Bordoni
X-T1... FACENTE FUNZIONI
S
Su questo stesso numero, da pagina 24, presentiamo una consistente serie fotografica realizzata dal rapper italiano Frankie hi-nrg mc, con il quale ci incontriamo per scandire passi e termini della sua attenzione visiva e della sua curiosità all’immagine. In quell’ambito, è sottolineato anche (ma non soltanto) il suo utilizzo di una Mirrorless Fujifilm X-T1, alla quale è approdato in miglioramento della spontaneità fotografica degli smartphone. Attenzione, e subito chiarito: anche con questa dotazione fotograficamente più impegnativa, fotograficamente completa e conclusa, per le proprie escursioni, Frankie hi-nrg mc conferma l’immediatezza, l’istintività e la naturalezza della propria azione, del proprio intento fotografico. Punto, a capo.
Premio di categoria agli ambìti e autorevoli TIPA Awards 2014 (Best CSC Expert) la Fujifilm X-T1 è una assoluta e inviolabile interpretazione fotografica dei nostri giorni, completa di quanto serve e ripulita da quanto non è espressamente necessario alla ripresa fotografica più concentrata.
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Parliamone
Senza farci prendere la mano da tecnicismi (qui) inutili, non soltanto superflui, il richiamo e l’occasione sono opportuni per considerazioni sulla Fujifilm X-T1, che non si esauriscano nella sola elencazione alfabetica delle relative caratteristiche e prestazioni -che sono tutte di profilo alto-, ma nell’approfondimento consapevole del delicato rapporto che, in fotografia, collega l’azione visiva al proprio strumento di registrazione. Abbandonata da tempo e per tempo la successione di compatte, che sul mercato hanno subìto la prepotente avanzata degli smartphone, con il relativo carico di eccellenti opzioni fotografiche, Fujifilm ha scomposto la propria intenzione tecnico-commerciale in due indirizzi... e mezzo. Anzitutto, verso un sistema di Mirrorless (CSC - Compact System Camera, per definizione ufficiale, quanto forviante), nel quale la X-T1 di attuale pretesto occupa una posizione di rilievo assoluto; quindi, nella direzione di un sistema professionale con derivazione dalle configurazioni a telemetro che hanno contribuito a scrivere capitoli significativi dell’evoluzione del mezzo, con l’attualità della nuova X-Pro2, progressione tecnologica della X-Pro1 di origine. Poi, per la frazione appena rilevata, con l’efficace X100T, erede della genìa X100 e X100S, sempre con obiettivo grandangolare fisso, equivalente all’inquadratura della focale 35mm sul formato fotografico 24x36mm, di inevitabile riferimento d’obbligo.
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Ancora, e a contorno e corredo, altre configurazioni a obiettivi intercambiabili o a obiettivo fisso fanno da corte a queste dotazioni top di gamma: ma non qui, ma non ora. Cosa hanno in comune tutte queste interpretazioni fotografiche Fujifilm, che si sono ritagliate consistenti quote di mercato e hanno guadagnato considerevoli apprezzamenti da parte del pubblico utilizzatore? Oltre l’insieme delle proprie prestazioni di utilizzo, ognuna per sé in declinazione alta di funzioni, va soprattutto segnalata anche l’efficacia di corpi macchina funzionali e agevoli, di menu di impostazione immediati e pertinenti, di dimensioni adeguatamente contenute. Ne consegue una gamma di apparecchi fotografici fortemente apprezzabili nella pratica quotidiana, quando e per quanto assolvono e risolvono senza interferire con la linearità del processo creativo dell’inquadratura e della composizione. Se proprio vogliamo aggiungere altro, non dimentichiamo la soddisfazione di quel sano feticismo individuale, che interpreta il mezzo fotografico con la gradevolezza di forme che appartengono al più nobile ed efficace cammino fotografico. Abbiamo già approfondito, nell’aprile 2012, e non ripetiamo; comunque sia... forma per il contenuto. In questo senso, non possiamo ignorare quanto la fotografia sia in rapporto stretto con il proprio utensile. Da una parte, va rilevato, una volta
La Fujifilm X-T1, Mirrorless a obiettivi intercambiabili, è dotata di mirino elettronico Oled e sensore di acquisizione digitale di immagini X-Trans Cmos II APS-C da 16,3 Megapixel. Il monitor LCD da tre pollici ha 1.040.000 pixel di risoluzione ed è realizzato in vetro temperato per ulteriore protezione. Integrati nel sensore, ci sono i pixel per la rilevazione di fase, che permettono di utilizzare la funzione “Digital Split Image”, per l’aiuto nella messa a fuoco, aumentando la precisione nelle riprese a tutta apertura e in quelle macro.
ancora, una di più, e mai una di troppo, come la Fotografia sia l’unica forma espressiva che si basa su uno strumento (per l’appunto, la macchina fotografica) che assolve per intero la sua realizzazione. Semplicemente premendo il pulsante di scatto, l’opera è realizzata. Poi, ovviamente, il valore dell’immagine dipende non dal mezzo, ma dall’autore. Dunque, l’apparecchio assolve e il fotografo risolve. Però, in conferma, il rapporto stretto con il proprio utensile favorisce quell’empatia individuale che accompagna, o forse -addirittura- conduce il gesto fotografico: nello specifico della Fujifilm X-T1 capiamo benissimo la sua capacità di favorire immediatamente lo stato d’animo adatto, offrendo altresì la propria partecipazione emotiva (per quanto ufficialmente passiva). Lo capiamo benissimo, e siamo concordi nel considerare che per la fotografia di Frankie hi-nrg mc l’allineamento operativo con questa Mirrorless stia alla base di una applicazione nella quale la sua spontaneità d’azione non è stata minimamente intralciata. Molto probabilmente, è stata assecondata e favorita. Annotando questo, non possiamo non riferirci anche a noi stessi, al nostro compiacimento nell’uso della Fujifilm X100S, che ci ha lasciato annullare tante sue opzioni, per configurarsi alla maniera degli apparecchi a telemetro, sempre con grandangolare moderato 35mm, della nostra vita. Ancora: forma per il contenuto. Del resto, in allungo musicale metaforico, indipendente dalla personalità rapper di Frankie hi-nrg mc, oggi e qui “diversamente fotografo”, non possiamo ignorare che l’apprezzamento di certi interpreti e certi generi sia sostanziosamente indipendente dagli strumenti suonati. Però, allo stesso momento e all’atto pratico, citando due autori che ci sono cari, non sottovalutiamo che il rock “n” roll di Chuck Berry si è espresso con una chitarra Gibson acustica, mentre il Pop di Jimi Hendrix si è basato su una chitarra Fender Stratocaster. Ovvero, e in chiusura, senza andare ancora oltre, né più lontano: rapporto individuale con gli strumenti, gli oggetti e i complementi. Sia in fotografia, nostro territorio di incontro organizzato e volontario, sia nella vita di tutti i giorni. Ne siamo convinti. ❖
(FOTOGRAFIA DI CAROLINA GALBIGNANI) HI-NRG MC
FRANKIE
di Maurizio Rebuzzini
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apper italiano seguìto da una generazione vivace, Frankie hi-nrg mc si è segnalato all’attenzione generale nel 1997, con l’eccellente brano Quelli che benpensano, dal suo secondo album La morte dei miracoli, successivo a quello di esordio, Verba manent, del 1993. Universalmente considerato “senza tempo”, tanto da essere ancora oggi di stretta attualità sociale, Quelli che ben pensano (premio Canzone dell’Anno, di Musica!, di La Repubblica; riquadro a pagina 28) è stato ripreso anche dalla cantante Fiorella Mannoia, che lo ha pubblicato come apripista del suo album dal vivo, Sud il tour, dell’autunno 2012: rivisitazione in duetto, proprio con Frankie hi-nrg mc. Autodefinitosi “diversamente fotografo”, da tempo il celebre rapper frequenta la comunicazione visiva scandendo termini e passi di una fotografia consapevole della potenza espressiva dell’immagine. Nella spontaneità dell’azione, la resa fotografica di Frankie hi-nrg mc è matura e caratterizzata da una convincente progettualità che attinge a differenti espressività: ritratto, street photography, panorama, spazi architettonici. Così che, approfondendo oltre l’apparenza a tutti visibile, ogni fotografia sottolinea i valori di una storia scritta con una inquadratura/composizione indirizzata alla lettura e critica del pubblico. In questo senso, è stato eloquente ed efficace l’allestimento scenico della sua Metrapolis, a Milano, a cavallo dell’anno, allo Spazio 22, con la fattiva collaborazione di Fujifilm Italia. Si tratta di un progetto realizzato durante un soggiorno a New York di sei settimane, durante le quali Frankie hi-nrg mc ha esplorato il tessuto urbano e umano, raccontandone contrasti e paradossi. Il neologismo di riferimento -per l’appunto, Metrapolis- identifica in un unico termine (esplicito!) due concetti idealmente contrapposti: libertà d’espressione e spazio delimitato da sbarre ideali composte di regole e costrizioni, entro le quali è concessa questa stessa libertà... fotografica. Le immagini in mostra, che
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METRAPOLIS
Incontro con il rapper italiano Frankie hi-nrg mc, che da tempo frequenta la comunicazione visiva scandendo termini e passi di una fotografia consapevole della potenza espressiva dell’immagine. Nella spontaneità dell’azione, la sua resa fotografica è matura e caratterizzata da una convincente progettualità che attinge a differenti espressività, che rende proprie 25
qui riprendiamo in selezione redazionale, sottolineano situazioni nelle quali i soggetti raffigurati/rappresentati si esprimono “liberamente” all’interno di una gabbia che li imprigiona, ma che non sembra soffocarli. Quello della libertà concessa entro-certi-limiti è il vero tema di questa fotografia. Da qui, come dovere, nasce la domanda legittima: come mai, perché e quando un rapper, che usa le parole per esprimere concetti e sentimenti, trasmigra al linguaggio visivo della fotografia? Risponde Frankie hi-nrg mc: «A parte precedenti esperienze casuali, che appartengono al percorso di ciascuno di noi, in termini diversi dall’autentica passione e applicazione, e oltre alla curiosità che mi sollecitò mio padre anni fa, l’arrivo sul mercato di apparecchi fotografici semplificati nell’uso [con acquisizione digitale di immagini] ha risvegliato un interesse latente. Dagli smartphone originari, ho fatto il salto di qualità, approdando a quanto potesse concedermi maggiore versatilità di osservazione e registrazione. «Ho acquistato una Mirrorless, una Fujifilm X-T1, che mi ha accompagnato in un primo viaggio in Zambia [fotografie esposte in due sedi newyorkesi, una permanente]. Dunque, sono estraneo al cammino tradizionale dell’interesse fotografico, e finalizzo l’immagine all’assolvimento della mia curiosità quotidiana».
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In ripetizione d’obbligo, Frankie hi-nrg mc si definisce “fotografo diverso”, nel senso che la sua fotografia è finalizzata al proprio desiderio di vedere e conoscere, e non rappresenta una sovrastruttura: al caso, è una infrastruttura necessaria, più che sufficiente. Nonostante questo, ci domandiamo se esistono e si manifestano autori di richiamo e riferimento? «No, agisco spontaneamente -rileva Frankie hi-nrg mc-. Per avere riferimenti, occorre l’ambizione di emularli. Nonostante stimi tantissimo Diane Arbus e molti altri fotografi, manco mi sogno minimamente di accostarmi al loro linguaggio: sono loro e basta. «È un pochettino come con la musica. Se c’è qualcosa da dire, ci sono molti strumenti per esprimersi in qualsiasi lingua. Se a qualcuno piace un particolare dialetto o una particolare griglia, fa bene a studiare e approfondire. Io non sono di questo avviso. Mi piacciono le cose belle, mi piace creare una strada mia». Allora, la fotografia di Frankie hi-nrg mc integra e si aggiunge alla sua personalità musicale, senza altre intenzioni: «Beh, non è che uno pensa di diventare il fotografo più importante al mondo; così come, in campo musicale, non si può sognare di aprire a tutti quanti la propria mente. No. Sono azioni che si compiono, si fanno e si propongono: se piacciono, bene; se non piacciono... (continua a pagina 30)
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QUELLI CHE BEN PENSANO (DI FRANKIE HI-NRG MC; 1997)
FRANKIE
HI-NRG MC
(FOTOGRAFIA DI CAROLINA GALBIGNANI)
Sono intorno a noi, in mezzo a noi in molti casi siamo noi a far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo il fine è solo l’utile, il mezzo ogni possibile la posta in gioco è massima, l’imperativo è vincere e non far partecipare nessun altro nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro niente scrupoli o rispetto verso i propri simili perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili Sono tanti, arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti sono replicanti, sono tutti identici, guardali stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere Come lucertole s’arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno spendono, spandono e sono quel che hanno Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio E come le supposte abitano in blisters full-optional con cani oltre i 120 decibels e nani manco fosse Disneyland vivon col timore di poter sembrare poveri quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano poi lo comprano, in costante escalation col vicino costruiscono parton dal pratino e vanno fino in cielo han più parabole sul tetto che san Marco nel Vangelo Sono quelli che di sabato lavano automobili che alla sera sfrecciano tra l’asfalto e i pargoli medi come i ceti cui appartengono terra-terra come i missili cui assomigliano
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Tiratissimi, s’infarinano s’alcolizzano e poi s’impastano su un albero - boom! Nasi bianchi come Fruit of the Loom che diventano più rossi d’un livello di Doom Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Ognun per sé, Dio per sé mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano Mani che poi firman petizioni per lo sgombero mani lisce come olio di ricino, mani che brandiscon manganelli che farciscono gioielli, che si alzano alle spalle dei fratelli Quelli che la notte non si può girare più quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan la tv che fanno i boss, che compran Class che son sofisticati da chiamare i NAS, incubi di plastica che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara ma l’unica che accendono è quella che da loro l’elemosina ogni sera quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio Sono intorno a me, ma non parlano con me Sono come me, ma si sentono meglio
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(continua da pagina 27) bene uguale. Anche questo è un segnale positivo, magari per correggere la rotta, o per insistere ancora di più, perché non è il momento giusto. «Comunque, non avendo un’attività principale, non metto da parte nulla in favore di altro. Poi, non è una mia ambizione essere un grande fotografo, così come non mi interessa essere un grande rapper. Se, incidentalmente, i casi della vita mi porteranno ad esserlo, ne sarò felice. Ma non è la mia missione». Le fotografie di Frankie hi-nrg mc rivelano sollecitazioni sia da combinazioni cromatiche e geometriche, sia da condizioni di vita. Nella spontaneità dell’azione, esiste -comunque- un disegno precostituito? «Nessun pensiero precostituito. Nella fotografia di strada, reagisco all’estemporaneità dell’istante. Non ho altre intenzioni che quelle di passeggiare per la strada con la macchina fotografica al collo. Ovviamente, mi porto appresso anche tutte le informazioni e formazioni della mia cultura, della mia storia, della mia tradizione: è su questo che agisce l’ambiente circostante, per incuriosirmi ed emozionarmi. «Non ho mai pensato di realizzare una fotografia in particolare (per esempio, mi piacerebbe fotografare un cavallo che sta saltando, piuttosto che costruire un ritratto con una luce particolare
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e preparata). No. Agisco sempre spontaneamente con quanto incontro. Esattamente come nelle canzoni: nei miei brani, parlo di qualcosa che esiste e ho incontrato, non invento situazioni inesistenti che giustifichino qualche pensiero a monte». A questo punto, ci domandiamo come la doppia personalità pubblica di Frankie hi-nrg mc, almeno doppia, concili la sola individualità fotografica. Esplicito: «Sinceramente, spero che il pubblico venga a vedere e per vedere le mie immagini, indipendentemente al fatto che io sia un rapper, anche se non possiamo escludere una certa curiosità in questo senso. «Quindi, come in tutto, anche nelle mie mostre, rilevo che ci sono immagini preferite, rispetto ad altre: magari, per caratteristiche compositive forti ed evidenti, ma anche per esperienze e propensioni individuali». Conclusione d’obbligo: la semplificazione formale delle attuali tecnologie aiuta la realizzazione di immagini colte al volo, in base ai propri sentimenti e alle proprie emozioni? «In un certo senso, potrebbe anche essere vero, se non che non trovo tante differenze con la Zeiss a telemetro di mio padre, che ho usato in passato». Prossimi progetti? «Nessuno in particolare, ma sto partendo per il Mozambico... e -certamente- qualcosa ne nascerà». Rimaniamo in attesa. ❖
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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
maggio 2016
ANDREA BOYER: TEMPI SOSPESI, CANTIERI DIVITA E DISSENSI, TRA PASSATO E FUTURO. Assoluto e imperfetto
TRACCE di Maurizio Rebuzzini
iorgio Galimberti è approdato a una fotografia sua, autenticamente sua, avendo sempre respirato altre espressioni creative. Per contrasto (forse), si è indirizzato alla registrazione in bianconero, con limitate escursioni nel colore: comunque sia, un colore lontano dai cromatismi reali e naturali... un colore che è soltanto intonazione allineata al proprio bianconero. Questa personalità va riferita e subito richiamata, perché non è soltanto “tecnica” -come pure è-, ma compone i tratti di uno stile che l’autore ha fatto proprio e ha elevato a ordine e forma necessaria alla propria visione. E qui, come spesso accade, si impone una precisazione d’obbligo: per propria natura raffigurativa, nel senso che ha sempre bisogno di un soggetto che si presenti davanti all’obiettivo (sia reale, sia costruito), la fotografia è rappresentativa per intenzione e volontà dell’autore. Quando si parla e scrive di fotografia, spesso si commette un errore macroscopico: la si declina come un assoluto inviolabile, senza considerare la consecuzione raffigurazione-rappresentazione, che -invece!- ne dirige i termini espressivi. Così che le notazioni appena richiamate non si limitano alla forma esteriore, a tutti evidente, ma alla sostanza del lessico frequentato e applicato da Giorgio Galimberti, che è arrivato alla propria fotografia, avendone conosciute e avvicinate tante altre. Dunque, quando ha pre-stabilito i termini formali del proprio impegno, Giorgio Galimberti ha altresì deliberato il valore del contenuto della sua fotografia. Infatti, il suo è un bianconero assolutamente distante dall’alternanza dei toni che compone la realtà che fotografa; diversamente, e con piglio e personalità d’autore autorevole (e convinto di esserlo), Giorgio Galimberti sposta la scala tonale per approdare a un bianconero evocativo e non documentativo: la differenza è di sostanza, visto e considerato che non intende affatto frequentare la fotografia che registra la vita nel proprio svolgersi, ma piega la realtà che osserva verso altre intenzioni creative. Nella fotografia di Giorgio Galimberti non contano tanto i soggetti presi a pretesto, che -nonostante l’apparenza- non centrano nulla con la definita street photography (di analoga sembianza superficiale), ma è fondamentale il rapporto che l’autore sollecita con l’osservatore: al quale chiede (impone, addirittura) di trovare qualcosa dentro di sé: missione della fotografia d’autore, svincolata da altre necessità e utilità contingenti.
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Fotografie con le quali confrontarsi. Dotato di sentimento gentile, formato in parti uguali di approfondimento fotografico e istinto, Giorgio Galimberti assolve una condizione base della Fotografia: osservare, piuttosto che giudicare, per condividere e partecipare 34
URBANE
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Dotato di sentimento gentile e raffinato, formato in parti uguali di approfondimento fotografico e istinto, Giorgio Galimberti assolve la condizione basilare della Fotografia (maiuscola volontaria e consapevole), quella di osservare, piuttosto che giudicare, per condividere e partecipare: sia all’atto del fotografare sia nei tempi della circolazione e veicolazione delle immagini. Autore cosciente e scrupoloso, applica una grammatica-linguaggio che manifesta una avvincente combinazione di regole logiche e acquisite (relative soprattutto alla costruzione compositiva) e usi arbitrari, che scandiscono un tempo e ritmo che accompagnano l’osservazione, invitandola ad allineare l’irrazionale con il razionale, e viceversa: dalla mente al cuore, ma anche dal cuore alla mente. Prima ancora di aver realizzato ognuna delle sue fotografie, averle pensate o sognate, anche per un solo istante, questo rende l’autore diverso da tutti coloro che hanno guardato (non visto) le medesime situazioni. Per sempre. Va ripetuto, dopo averlo già annotato. Nessuno di questi soggetti raffigura se stesso: ognuno rappresenta qualcosa d’altro e di diverso, sia preso da solo, sia inserito nella magistrale combinazione di tante immagini, una accanto all’altra, una dietro l’altra. Non sono luoghi, né situazioni, ma “fotografie di luoghi e situazioni”: tra la realtà e la loro raffigurazione/rappresentazione ci sta la mediazione di un autore, che risponde a una propria intenzione ed esperienza esistenziale, che mette cortesemente a disposizione. È fondamentale rendersi conto che tanto la fotografia espressiva (detta anche creativa) quanto quella di documentazione non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. Grammaticalinguaggio: il fotografo-autore, che percepisce determinati valori del soggetto, li definisce nella composizione-inquadratura e li duplica sulla stampa. Se lo desidera, può simulare l’apparenza in termini di valori di densità riflessa, oppure può restituirlo ricorrendo ad altri termini, basati sull’impatto emotivo. Ancora, grammatica-linguaggio: a dispetto della loro apparenze, le fotografie di Giorgio Galimberti non appartengono alla categoria delle “fotografie realistiche”; quanto offrono di reale risiede solo nella precisione dell’immagine ottica; i loro valori sono invece decisamente “distaccati dalla realtà”. L’osservatore può accettarli come realistici, in quanto l’effetto visivo può essere plausibile, ma se fosse possibile metterli direttamente a confronto con i soggetti reali le differenze risulterebbero sorprendenti. Infatti, dipendono dal fatto che tra la realtà e la sua raffigurazione ci sta il passaggio fondamentale attraverso una mediazione etica e morale. Se vogliamo vederla con un paradosso, che tale è soltanto in apparenza, potremmo anche ipotizzare una sorta di (benevola) bugia. Infatti, come tutti i fotografi -artisti che esprimono la propria espressività da centosettant’anni abbondanti (da quel fatidico 1839, nel quale è cominciato tutto)-, anche Giorgio Galimberti è un inguaribile bugiardo. Lo è perché e per quanto controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Così come un bravo narratore mente per far comprendere il proprio racconto, omettendo qui, sottolineando là, soprassedendo a destra e allungandosi a sinistra, anche il bravo fotografo mente per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio racconto. Per cui, anche individuando i luoghi, gli spazi, i tempi, i climi fotografati da Giorgio Galimberti, a pretesto del suo narrare per immagini, non si percepiranno le stesse emozioni che, invece!, trasmettono le sue immagini. In ripetizione, una volta ancora, mai una di troppo, la realtà è una cosa, la sua rappresentazione un’altra. Ciò detto, è necessario ribadire la prepotente personalità linguistica della fotografia, che è raffigurativa per necessità (per forza di cose, deve rivolgersi a un soggetto effettivo, naturale o costruito che sia), e rappresentativa per scelta e volontà: non necessariamente ciò che mostra è quello che vediamo, dobbiamo vedere, possiamo comprendere. (continua a pagina 41)
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(continua da pagina 36) Dove sta la bugia di Giorgio Galimberti? Paradossalmente, nella sua sincerità di intenti ed esecuzione. Offre una sua lettura e interpretazione della Vita, affinché ciascuno di noi, alla presenza delle sue fotografie, possa esprimere pensieri suoi autonomi, partire per viaggi individuali. Ancora, dove sta, allora, la sua bugia? Nel raccontare con perizia e cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, ma imbocchi con decisione il proprio cammino, che può coincidere con quello delle sue intenzioni d’autore, ma anche distaccarsene. Mettiamola così: con la qualità delle sue fotografie (e non ci riferiamo a quella formale che dall’accurata inquadratura passa attraverso una confortevole composizione, per presentarsi, infine, in stampe bianconero ottimamente eseguite), con la qualità dei contenuti delle sue fotografie, eccoci, Giorgio Galimberti scandisce i tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta. Non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni pacate (e il riposo che l’osservazione ne guadagna non è valore da poco, né da sottovalutare), che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione con altri. Soltanto, non si cerchi la sintonia con l’autore: si è già espresso con le proprie immagini, e nulla altro ha da aggiungere. Quindi, ognuno parta da queste fotografie, da queste folgorazioni, da questi squarci nel buio per comporre i tratti del proprio percorso, che sarà avvincente per almeno due motivi: perché proprio, anzitutto, e perché sollecitato da una fotografia di alto profilo. La fotografia è magica e magia giusto per questo. Non necessariamente racconta dei propri soggetti, spesso invitati a richiamare altre intimità che non la loro apparenza a tutti manifesta. Ma rivela sempre qualcosa dell’autore, che coinvolge tutti nella sua visione. Alla fin fine, è esattamente questo il senso di ogni fotografia. Se la osservate attentamente, e vi allineate con il suo spirito, vi può rivelare molto su voi stessi. ❖ Giorgio Galimberti: Tracce urbane. Galleria Expowall, via Curtatone 4, 20122 Milano; 02-87287961; www.expowallgallery.com, info@expowall.com. Dal 4 al 13 maggio; martedì-venerdì 10,00-18,00; Gallery Talk con l’autore e il curatore (Maurizio Rebuzzini), dodici maggio, 18,30.
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CON GARBO A volte, Davide Furia seziona l’oppressiva oggettività della mediazione fotografica introducendo una sequenza di interventi personali... per lo più accostamenti visivi esplicativi. Altrimenti, le sue composizioni non si discostano dalla fedeltà tonale e cromatica che sottolinea le sue stesse intenzioni. Di fatto, agisce come e per quanto la sua sensibilità gli impone di fare, quando interpreta l’essenza fotografica per la propria (di lui) capacità di rappresentazione
CON AMORE
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di Angelo Galantini
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onsiderazione di oggi e storia scandita nel tempo, con radici che affondano indietro e indietro nei decenni. Indipendentemente dall’annoso e irrisolvibile dibattito sulla presunta artisticità della fotografia, in toto (e qui il discorso si farebbe lungo, oltre che articolato), bisogna prendere atto che esistono e si moltiplicano autori che usano il mezzo fotografico per ottenere forme espressive di grande ed efficace personalità. In tale senso, è curioso osservare come e quanto queste opere siano a un tempo fotografiche, nell’accezione universalmente accettata, e non fotografiche, in relazione a parametri che cambiano e si trasformano di volta in volta. Spieghiamolo.
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La loro natura squisitamente e oggettivamente fotografica dipende proprio dalla mediazione del mezzo e dei materiali che qualificano e definiscono, appunto, l’esercizio fotografico: apparecchi e obiettivi; quindi, ieri, pellicole, supporti sensibili e prodotti chimici dedicati; oggi, acquisizione e gestione digitale delle immagini. È questo l’insieme che trasforma, non per magia, ma per capacità creativa e interpretativa, la raffigurazione in rappresentazione. La storia è antica e si ripete giorno dopo giorno, scatto dopo scatto (in assoluto): la fotografia è per propria natura raffigurativa, visto che dipende da una presenza fisica oggettiva di un soggetto presunto; allo stesso tempo, la fotografia è per propria scelta rappresentativa, considerato che l’autore interviene sulla definizione dello spazio e del tempo che racchiude nella compo-
sizione. Questo è il lessico della fotografia, definito da una infinita serie di equilibri e di combinazioni visive. Dopo di che, la fotografia d’autore non è tale -cioè non è fotografia, paradossalmente- perché respinge alcuni dei suoi assiomi: a volte, quello della replica all’infinito del soggetto rappresentato, appunto moltiplicabile a partire dal negativo o dalla matrice originale (quindi, spesso la fotografia d’autore è in copia unica, non ripetibile); altre volte, quelli della descrizione univoca del soggetto. Il bravo Davide Furia si inserisce nell’eterogeneo filone della fotografia d’autore con una ricerca espressiva scandita su un ritmo a tre tempi, distinti e coincidenti. Il sottile filo che unisce le rappresentazioni (mai soltanto raffigurazioni) di figure femminili, per lo più provocatorie nello scarso abbigliamento e nella proposizione,
è costituito da uno stilema squisitamente fotografico. Lo sveliamo, perché costituisce la paternità di stile che distingue e qualifica Davide Furia, autore di piglio e accesa personalità. Così come al critico cinematografico è richiesta l’interpretazione del film a partire dalla trama presa a pretesto della narrazione, quando si commenta la fotografia la chiave operativa serve a sezionare la forma apparente per rivelare il contenuto espressivo. Davide Furia approda alla fotografia d’autore provenendo dalla grande palestra della fotografia professionale, che svolge nel completo rispetto delle relative esigenze imprenditoriali. Dunque, nel suo caso, gli strumenti e i materiali caratteristici sono stati coltivati nel mestiere quotidiano, costruito per sovrapposizione di mille attenzioni e mille dettagli. In questo senso, l’attenzione compositiva
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e la combinazione di luci adeguate e idonee rivela la sua dimestichezza con la sala di posa. Come abbiamo osservato, la sapiente costruzione davanti all’obiettivo e la abile disposizione dell’apparecchio e delle luci sono ereditate dalla professione, che in questo caso sposa la fotografia estetica, d’autore ed espressiva mediante la volontaria alterazione dei mezzi. Dopo aver scattato secondo princìpi inviolabili, a volte, Davide Furia seziona l’oppressiva oggettività della mediazione fotografica introducendo una sequenza di interventi personali... per lo più accostamenti visivi esplicativi. Senza abbandonare la via della fedeltà tonale e cromatica, elabora inquadrature e composizioni che sottolineano le sue stesse intenzioni. Insomma, agisce come e per quanto la sua sensibilità gli impone di fare, quando interpreta l’essenza fo-
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tografica per la propria (di lui) capacità di rappresentazione. Qual è il gesto di Davide Furia? Alternativamente in composizioni rigorose e pertinenti e in accostamenti di soggetti, di fatto consegna all’osservatore una autentica eliminazione di segni, che inducono l’osservatore a sognare. È più che incredibile, singolare addirittura, ma alla fine le sue fotografie impongono la riflessione personale. Quella di Davide Furia non è certo una fotografia che può essere definita erotica, oggi che per erotismo si intende l’inutile e insolente raffigurazione di anatomie esplicite. Però è una fotografia di sogno e rimando e richiamo: affascinanti sono i suoi corpi veri (!) offerti con solare complicità. Che bello poter amare queste donne, prese dalla vita di tutti i giorni e offerte alla dimensione onirica della speranza. ❖
Presentata dall’autorevole e qualificato Musée suisse de l’appareil photographique, che a differenza di altre istituzioni analoghe (italiane, soprattutto) parla poco e agisce molto, la mostra storica Un tour du monde en Photochromes è esattamente ciò che il titolo promette: per l’appunto, Giro del mondo in Fotocromie. In selezione da una consistente collezione
ALLE ORIGINI
di oltre cinquecento stampe a colori fotocromatiche, provenienti dai fondi Gerhard Honegger e Thomas Ganz, l’allestimento scenico offre e propone soggetti di carattere geografico, che documentano capillarmente località europee e propongono anche e ancora visioni del Nord Africa, degli Stati Uniti e dell’Asia. In un tragitto che alterna spazi a tempi. Dal passato
DEL COLORE
(doppia pagina precedente) Siria: sosta nel deserto (Fotografia di Félix Bonfils; 1895).
Il Cremlino di Mosca (1889-1911). Il vecchio Porto di Marsiglia (1889-1911).
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di Antonio Bordoni
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rima di tutto, prima di altro, bisogna intendersi, bisogna stabilire degli accordi. Per frequentare il mondo della fotografia, per valutarne significati e valori, occorre conoscerne il percorso storico? Ovvero, la comprensione dei suoi parametri e delle sue sintassi, che si sono evolute e trasformate decade dopo decade, è necessaria per poterne valutare peso e virtù (ammesso che queste ci siano), oltre che contenuti? Con onestà, non soltanto di intenti, c’è stato un tempo durante il quale avremmo avuto risposta certa: sì... assolutamente, sì. Da qualche tempo, però, molti dubbi si sono affacciati alla mente, hanno invaso nostre precedenti convinzioni. Tanto che, a onor del vero, oggi come oggi, non siamo più tanto certi del merito della conoscenza, non siamo più tanto convinti che la cultura fotografica abbia modo, o tempo, per scandire differenze, per stabilire parametri di richiamo e riferimento. Per come si sta sfaldando tutto, non solo molto, è probabile che si possa anche fare a meno di apprendimenti e padronanze, che si possa riferirsi al quotidiano fotografico, senza altre pre-informazioni al merito. Disinteressandosi del lungo e nobile tragitto, fino a noi. Ovvero, si possono anche lasciar perdere la Storia e l’evoluzione del linguaggio fotografico e il dibattito sul peso sociale della fotografia, per occuparsi del solo presente, in forma autonoma e asettica: senza ulteriori richiami e/o riferimenti. Dopo di che, e in coincidenza temporale di presenza fisica e dibattito, sta a ciascuno di noi fare i conti con se stesso, il proprio impegno e le proprie inclinazioni. La nostra, nonostante tutto, rimane quella che antepone il sapere a ogni altra apparenza di sorta, che prepone la curiosità senza confini a qualsivoglia altra sembianza. In fondo in fondo, rimaniamo fedeli al nostro credo che ci fa considerare utile, e -a volte- persino necessaria, la consapevolezza di tutta la fotografia, anche se non è consequenziale che ogni conoscenza sia necessariamente traducibile e proiettabile nel tragitto quotidiano. Ma! Ma ogni competenza fotografica è latente in noi, pronta per uscire allo scoperto quando e per quanto la sua lezione ha modo e tempo di tornare utile. Tutto qui, alla luce di una avvincente e convincente esposizione fotografica storica organizzata e svolta dall’autorevole Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey. Presentare e commentare la rassegna Un tour du monde en Photochromes, ovverosia Giro del mondo in Fotocromie, offre poco da spendere immediatamente nel proprio percorso fotografico individuale, qualsiasi questo sia (oltre lo specifico degli addetti alla Storia), ma il suo avvicinamento va ben oltre la sola e semplice contemplazione e ammirazione di immagini di raro fascino e ammaliante seduzione: in base a parametri di conoscenza che abbiamo appena annotato, significa anche prendere atto di un passaggio storico degno di attenzione, meritevole di considerazione. Al solito, e come spesso annotiamo: a ciascuno, il proprio.
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PHOTOCHROME
Come appena annotato, la consistente mostra Un tour du monde en Photochromes (Giro del mondo in Fotocromie) è allestita all’accreditato Musée suisse de l’appareil photographique: Grande Place 99, CH-1800 Vevey, Svizzera (www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch). Inaugurata lo scorso diciassette febbraio, è in cartellone fino al prossimo ventuno agosto. Evocata nel titolo, la rassegna dà spazio e visibilità concreta al processo di stampa a colori della fotografia elaborato nel 1880 dal litografo Hans Jakob Schmid (1856-1924), di Zurigo: per l’appunto, la Fotocromia (Photochrome). In anticipo su procedimenti fotografici autenticamente a colori, che sarebbero arrivati in seguito, con data di esordio dal 17 dicembre 1903 -quando i fratelli Auguste Marie Louis Nicolas Lumière (1862-1954) e Louis Jean Lumière (1864-1948), già inventori del cinema, nel 1895, depositarono il brevetto del proprio procedimento Autochrome (Autocromia)-, la Fotocromia si basa sulla “conversione” di negativi bianconero, trasferiti su pietre litografiche finalizzate alla restituzione del colore nella stampa finale. Ovviamente, e tra parentesi, la storia della fotografia a colori deve anche riferirsi agli studi del fisico francese Louis Ducos du Hauron (1837-1920), che nel 1868 inventò un procedimento fotografico a colori basato sulla sintesi sottrattiva tricromatica, e del poeta, scrittore e inventore (ancora francese) Charles Cros (18421888; evocazione filatelica, su questo stesso numero, a pagina tre), che viene spesso indicato come padre della fotografia a colori: in una disputa che prevede pre-concetti e pre-disposizioni individuali. In ogni caso, sperimentazioni a parte, l’Autochrome dei fratelli Lumière si registra come primo processo fotografico a colori a disposizione del pubblico, con relativa commercializzazione attraverso canali ufficiali. Quindi, rientrando in argomento Photochrome, che è poi soggetto esplicito di queste note, va registrato che la stamperia Orell Füssli, di Zurigo, presso la quale operava Hans Jakob Schmid, brevettò il processo il 4 gennaio 1888, per renderlo poi disponibile dal successivo 1889 attraverso l’azienda Photochrome Co (oppure, Photochrome Zürich), che dal 1895 cambiò la propria denominazione in Photoglob Zürich. Photochrome Co / Photoglob Zürich ha stampato per fotografi di fine Ottocento, del calibro di Félix Bonfils (1831-1885), William Henry Jackson (18431942), Polycarpe Joaillier (1843-1904), Felix-Jacques Antoine Moulin (1802-1875) e Jean-Pascal Sebah (1823-1886). Questo ricaviamo dalle note ufficiali di presentazione della mostra... a seguito delle quali possiamo esprimere qualche perplessità riguardo la presenza di fotografi mancati prima delle date ufficiali d’azione: considerata l’attendibilità della certificazione accreditata, estendiamo all’azione degli eredi.
Lucerna e il Monte Pilate (1889-1902).
NEL DETTAGLIO L’affascinante e suggestivo percorso espositivo di Un tour du monde en Photochromes (Giro del mondo in Fotocromie) propone una coinvolgente varietà di formati, dal 12x17cm fino al 48x91cm: stampe in forma isolata e propria, oppure provenienti da album a tema.
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Uscita del tunnel ferroviario del Gottardo, a Göschenen (marzo 1901).
Questa eterogeneità formale si incontra e accompagna con una altrettanta diversità di soggetti, che per quanto riconducibili al senso geografico di testimonianza visiva del mondo (missione di certa e tanta fotografia del secondo Ottocento)- certificano un successo di lavorazione che è andato oltre i confini immaginati dai pionieri-inventori... forse: se accettiamo per realistica la quantificazione (accertata?) di oltre diecimila copie prodotte nel lontano 1911 (lontano da noi, e dall’attuale concezione e considerazione della Fotografia, in tutti i propri aspetti di forma e contenuti, ma adeguatamente prossimo ai tempi di proposta della stampa in fotocromia). Per quanto (tanto!) la qualità e il realismo delle copie colore siano state all’origine di questo successo, come sempre, dobbiamo contestualizzare temporalmente (nella nostra assoluta convinzione che poco accada fortuitamente). Così non si può non tener conto di una certa crescita esponenziale del turismo, che alla fine del Diciannovesimo secolo ha fattivamente contribuito alla diffusione della fotografia geografica. Da cui, in conseguenza diretta, si registrano le diramazioni produttive, che hanno affiancato l’originaria localizzazione svizzera: nel 1896, fu creata la filiale Photochrome Co Ltd, di Londra; e nel 1898, fu avviata la filiale Detroit Photographic Company (DPC), negli Stati Uniti, che nel 1905 divenne Detroit Publishing Company. A seguire, due fatti immediatamente successivi decretarono l’esaurimento della stampa fotografica a colori Photochrome: come annotato, dal 1904, circa, divenne disponibile il procedimento industriale Autochrome, dei fratelli Lumière, e nel 1914 scoppia la Grande guerra, che poi conteggeremo come Prima.
AL MUSEO L’autorevole e qualificato Musée suisse de l’appareil photographique, che a differenza di altre istituzioni analoghe (italiane, soprattutto) parla poco e agisce molto, custodisce una consistente collezione di oltre cinquecento stampe a colori fotocromatiche, provenienti dai fondi Gerhard Honegger e Thomas Ganz, rispettivamente acquisiti nel 2006 e 2008. I soggetti, tutti di carattere geografico, documentano capillarmente località europee e propongono anche e ancora visioni del Nord Africa, degli Stati Uniti e dell’Asia. In conseguenza diretta, l’attuale allestimento in mostra Un tour du monde en Photochromes mantiene la promessa implicita nel proprio titolo: per l’appunto, Giro del mondo in Fotocromie, con tragitto che alterna spazi a tempi. E qui, in conclusione, si impone un aggancio all’apertura. Non sappiamo quando, non sappiamo per quanto, non sappiamo dove... ma ogni conoscenza e competenza fotografica arricchisce quel bagaglio individuale che porta ciascuno di noi verso atteggiamenti e azioni -comunque sia- migliori: in Fotografia, nello specifico (e sarebbe questione di poco conto, di valore marginale), ma soprattutto nella propria Vita. Ed è questo che vale. Sia chiaro! Quindi, una riflessione sull’idea e concetto di fotografia geografica, a partire da questa attuale esperienza storica, senza peraltro circoscrivere le considerazioni (continua a pagina 61)
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CHE BEL MUSEO!
All’interno di un edificio del Diciottesimo secolo, una architettura assolutamente contemporanea ospita una straordinaria collezione di apparecchi fotografici. Quattro piani di esposizione permanente coprono l’intera storia della fotografia, con la testimonianza di apparecchi, materiali e accessori. Dalla camera obscura originaria, il percorso del Musée suisse de l’appareil photographique porta fino all’immagine digitale del presente-futuro. Video interattivi, ma anche simulazioni al computer, spettacoli audiovisivi e iniziative di volta in volta diversificate accompagnano ogni visita alle esposizioni, sia temporanee sia permanenti.
Dal successo di una retrospettiva che Vevey, amabile cittadina sul lago Lemano, dedicò, nel 1971, alla storia della fotografia osservata dal punto di vista della famosa collezione di Michel Auer, raccolta anche in prestigiose monografie, nacque l’idea e l’intenzione di dare vita proprio a un autentico Museo, che fu quindi realizzato e fondato da Claude-Henry Fourney, nel 1979. Dopo una prima sede provvisoria, dal 1989 il Musée suisse de l’appareil photographique ha sede definitiva nell’antico palazzo appena ricordato, appositamente ristrutturato dall’architetto Hugo Fovanna, ed è diretto da Pascale e Jean-Marc Bonnard Yersin.
Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99 (ruelle des Anciens-Fossés 6), CH-1800 Vevey, Svizzera; 0041-21-9253480; www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch; martedì-domenica 11,00-17,30.
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Doppel-Sport del 1910, replicata nel 1980.
Sony Mavica MVC-FD7; 1998.
Ricostruzione di un atelier fotografico del secondo Ottocento, indirizzato al ritratto.
Photo-cravate di Edmond Bloch; Parigi, 1890 circa.
Pinascop di Johannes Ganz; Zurigo, 1872-1898.
Escalopette di Albert Darier; Ginevra, 1888.
Apparecchio di Arthur Chevalier; Parigi, 1860 circa.
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(continua da pagina 56) soltanto a questa: ma proiettandole vero la formazione personale di ciascuno di noi. Nessuno escluso. Riallacciandoci a quell’idea di fotoricordo, le cui origini si possono ricondurre alla Box Kodak, del 1888, per quanto spesso popolari e a volte banalizzate (non sempre), le visioni turistiche hanno debiti di riconoscenza con la posa ragionata più che con l’istantanea colta al volo. Quindi, non possiamo non richiamare il dibattito su come “fotografare la città” (e la “geografia”), sul quale molti si sono già espressi. In particolare, entrando nello specifico, sollecitato appunto dalla rassegna espositiva Un tour du monde en Photochromes, al Musée suisse de l’appareil photographique, fino a fine agosto, torniamo a un testo esemplare: Metamorphoses des Regards Photographiques sur “La Ville”, di Jean-Claude Lemagny, nel catalogo di La Ville, mostra allestita nel 1993 al Centre Georges Pompidou, di Parigi, le cui considerazioni sul modo di fotografare le città sono a dir poco esemplari. Testuale. «Riconosciamo prima di tutto il posto relativamente modesto che occupano le fotografie che rinnovano il nostro sguardo sul mondo. Salvo, forse,
tra gli anni Trenta e Cinquanta durante il periodo della “fotografia umanistica”». Lemagny si interroga, non a torto, su «la paura di ricadere nei clichés dei monumenti e dei quartieri turistici» da parte dei fotografi. Detto questo, presenta tuttavia con grande intelligenza i lavori di Robert Frank, Bernard Plossu, Gabriele Basilico, Josef Sudek, Gabriel Liess, Mimmo Jodice, JeanPhilippe Charbonnier, Lee Friedlander e altri ancora. A integrazione, non bisogna dimenticare, e va considerato, che a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento la prepotente crescita dell’industria turistica ha creato e condizionato un mercato della fotografia geografica tesa a “vendere” vacanze, a vendere “sogni di vacanze”, a usare le città non come vissuto ma come “prodotto da consumare”, nello spirito “Avere e non Essere”. Ma siamo oltre. Rientriamo nella Storia di Un tour du monde en Photochromes. E basta. ❖ Un tour du monde en Photochromes. Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99, CH-1800 Vevey, Svizzera; 0041-21-9253480; www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch. Fino al 21 agosto; martedì-domenica 11,00-17,30.
Cucina in strada, a Napoli (1889-1911).
Il faro Eddystone, a Plymouth (1889-1911).
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Efficace manuale di Antonio Bordoni
TRADIZIONE... IN DOPPIO
L
L’ottimo manuale Trattato fondamentale di fotografia, compilato dal capace e attento Sergio Marcelli e pubblicato da Hoepli, assolve e risolve simultaneamente due condizioni classiche della letteratura tecnica. Anzitutto, ripercorre il nobile cammino delle guide all’uso, che nello specifico fotografico è ricco di straordinari titoli e altrettanto eccezionali trattati, che si sono susseguiti, gli uni a ridosso degli altri, dall’inizio del Novecento, dopo le timide apparizioni all’indomani dell’invenzione: nel fatidico 1839 di nascita (e, per inciso, anche il testo primigenio, Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il dagherrotipo -nella sua traduzione italiana, dall’originale francese- è di fatto un manuale di uso [anastatica a cura di Photographica, di Perugia; FOTOgraphia, ottobre 2003 e giugno 2007]). Quindi, a propria volta e in combinazione, l’edizione Hoepli ricalca e ribadisce la propria vocazione di guide pratiche: molte delle quali riferite alla fotografia (con richiamo d’obbligo per il leggendario Fotografia senza obiettivo, di Luigi Sassi, del 1905, testo fondante per l’applicazione stenopeica). Nell’attualità, il Trattato fondamentale di fotografia, di Sergio Marcelli, si offre e propone come rivelazione convinta e consapevole di quel dietro-le-quinte tecnico sul quale si basa il linguaggio esplicito della fotografia. Compilata in questi tormentati giorni di grande confusione, nei quali la materia si manifesta in mille e mille modi, molti contrastanti tra loro, la trattazione del diligente Sergio Marcelli rivela doti delle quali stavamo per perdere traccia: soprattutto, l’autore divulga nozioni che spaziano da condizioni latenti (per esempio, quanto basta e serve per considerazioni di percezione e rappresentazione/raffigurazione fotografica) a sostanziosi requisiti e presupposti pratici. In questo senso, e con cadenza ragionevolmente corretta e opportuna, Sergio Marcelli distribuisce la propria conoscenza pratica muovendosi agilmente, e senza preconcetto alcuno, tra le condizioni ormai coabitanti di esposizione di pellicola fotosensibile
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Trattato fondamentale di fotografia, di Sergio Marcelli; Editore Ulrico Hoepli, 2016 (www.hoepli.it); 326 pagine 24x17cm; 29,90 euro.
e acquisizione digitale di immagini, con tutti i relativi carichi di gestione e stampa dei negativi e coordinazione del flusso di lavoro digitale: dallo scatto vero e proprio alla amministrazione dei file immagine, con software di cura del risultato finale. Insomma, per dirla direttamente: sa di cosa parla, sa come farlo e, soprattutto, ha doti didattiche delle quali fare prezioso tesoro. È ovvio che la competenza di Sergio Marcelli non è soltanto teorica,
ma si basa su almeno tre condizioni pratiche della sua personalità fotografica: professionista per mestiere, sperimentatore per interesse e docente per missione. Oltre a colmare un vuoto colpevole, che dipende da tanti (troppi) fraintendimenti dei nostri tormentati giorni, durante i quali si può credere (e far credere) che i fondamentali tecnici non siano più necessari alla fotografia, questo Trattato fondamentale di fotografia
Efficace manuale stabilisce anche una misura di pensiero, che non può essere ignorata da coloro i quali frequentano la fotografia con consapevolezza e concentrazione. Dunque, indipendentemente dall’utilità pratica che se ne ricava seguendo passo a passo i consigli e le opinioni dell’autore, la lievità della sua trattazione sarebbe benefica anche a coloro i quali, estranei all’esercizio fotografico, ne commentano il linguaggio e l’espressività. Infatti, non è possibile (non sarebbe possibile) analizzare la fotografia se si è all’oscuro dei suoi connotati tecnici che guidano e dirigono il suo stesso linguaggio, il suo lessico: dall’inquadratura/composizione alla messa a fuoco, e relativa sfocatura ragionata, dall’interpretazione tonale e cromatica alla prospettiva, dal punto di vista alle proprietà visive degli obiettivi (oltre l’angolo di campo, la cadenza dei piani in fuga). La metafora ci è facile, e la riprendiamo dalla docenza di Storia della Fotografia presso la Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore del nostro direttore Maurizio Rebuzzini [le cui lezioni sono accessibili al sito della stessa Università, www.unicatt.it, seguendo il tragitto verso la sua aula virtuale; FOTOgraphia, luglio 2011]. Trattare di Fotografia, dalla Storia al Linguaggio, ignorandone la base tecnica equivale all’occuparsi di cucina senza conoscere gli ingredienti e i tegami. Capito? A conseguenza di questo, ma non soltanto a conseguenza di questo, il Trattato fondamentale di fotografia, di Sergio Marcelli può anche essere inteso come testo propedeutico capace di dischiudere le porte di una vicenda creativa ed espressiva, oppuresia di solo e semplice svago -a ciascuno, il proprio-, che qui è affrontata con benefica concentrazione. Per cui, va annotato anche che Sergio Marcelli possiede una dote rara, una dote opportuna, una dote provvidenziale. Non sale in cattedra, ma dialoga con i propri lettori da pari a pari, accom-
pagnando ciascuno lungo un tragitto adeguatamente semplificato. Altra metafora, in conclusione. Per sottolineare come e quanto la tecnica fotografica sia elementare, ovvia e palese, riprendiamo dalla vita quotidiana (sia chiaro che tutta la tecnica fotografica è elementare: persino quella che governa e guida il corretto e proficuo impiego di apparecchi fotografici a corpi mobili, sia a banco ottico, sia folding; ancora in tempi recenti, ne stiamo scrivendo [per esempio, rimandiamo alle condizioni di basculaggio, approfondite lo scorso novembre 2015]). Allacciarsi le stringhe delle scarpe è facile, ma se qualcuno volesse spiegarci con ampollosità come farlo, rimarremmo sconcertati e saremmo stravolti... tanto da passare immediatamente ai mocassini. Invece, Sergio Marcelli non pontifica, ma racconta e spiega con chiarezza. Sorprendente valore e merito del suo Trattato fondamentale di fotografia, in edizione Hoepli. ❖
TAU Visual si presenta
Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.
Diventare Socio TAU Visual
Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.
Un regalo utile per i lettori di
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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 4 volte febbraio 2016)
DMITRIJ BALTERMANTS
N
Non c’è fotografia che non sia dell’anima. La fotografia autentica è diserzione dall’ordine istituito. La fotografia (quasi tutta) è un’immagine della quale si servono i codardi per tenere in soggezione i deboli di spirito. La fotografia libertaria è -al contempo- l’anima nera dell’Uomo spezzato dalle istituzioni e odissea d’insurrezione e forza creatrice di una comunità. La fotografia libertaria discerne la verità dalla realtà e la rovescia in realtà della verità. L’immaginario libertario della fotografia è un vedere/affabulare/dissentire contro lo splendore astratto dei macellai che aspirano a possedere, dominare, costringere e sottomettere... è la fusione tra esperienza e pensiero, tra vita e riflessione, tra decostruzione e rottura della peste istituzionale, culturale, religiosa, mercantile. La vera opera d’arte, non solo fotografica, è quella che dice meno di sé e si erge a pieno diritto contro la civiltà della menzogna.
SULL’IMMAGINARIO LIBERTARIO DELLA FOTOGRAFIA
La fotografia libertaria sostiene che il potere non si trova fuori, ma dentro noi stessi; ancora, che è il nostro consenso (non solo elettorale) a fondarlo, legittimarlo, mantenerlo e a dargli forza. Mostrare le efferatezze del potere significa fomentare la disobbedienza civile e dare fuoco agli inginocchiatoi della storia: «L’uomo in rivolta è colui che resiste, che partecipa alla resistenza» (Albert Camus). Si tratta di non acconsentire, non collaborare... ma combattere con tutti gli strumenti necessari per la liberazione dei popoli oltraggiati dalle gogne dei mercati globali, dalle guerre, dalle banche, dai partiti, che sono all’origine di tutte le sopraffazioni del genere umano. La fotografia mercantile consolida l’autorità in piena gloria del sacro, ed è una catenaria di sfu-
mature criminali, dove il senso delle convenienze si confonde con l’arte del raggiro. Non c’è papa, capo di stato, generale, mercante e politico che non apprezzi il fotografo in formato grande: quello che si adatta a tutti i mutamenti del sistema economico/politico e ne arricchisce le malversazioni. Del resto, una fotografia senza coglioni sarebbe altrettanto noiosa quanto un parlamento senza stupidi.
proprie e le rivivano nella critica radicale dell’esistenza. Ci sono stati (e ci sono) fotografi che non hanno temuto di fissare lo straordinario nell’ordinario, e qualche volta sono riusciti a farsi testimoni di imprese mai dimenticate; altri che hanno seguito il lirismo, la concisione, la freddezza a scapito dello scatenamento della gioia o della scapigliatura libertaria: come Dmitrij Baltermants, un maestro ricono-
«Non aspettare la rivoluzione: quelli che promettono la rivoluzione sono buffoni come gli altri. Fai tu stesso la tua rivoluzione. Essere uomini liberi, vivere da compagni» Jules Bonnot La fotografia che non si oppone alla riduzione dell’Uomo a puro soggetto di bisogni è una fotografia dell’implorazione, che dissimula l’arte e nega la critica del giudizio e dell’azione innovativa, quindi rivoluzionaria, «nei termini del principio della libertà pubblica, dello spirito pubblico e della pubblica felicità» (Hannah Arendt). Prendere delle “belle fotografie” è facile, ci riescono tutti, perfino il nazista che ha fotografato il bambino con le mani alzate, impietrito di paura, durante la liquidazione degli insorti nel ghetto di Varsavia (1943) [FOTOgraphia, dicembre 2015]. In compenso, assumere esplicitamente la fotografia come colpo di coltello inesorabile inflitto alla vita offesa è un’impresa insolita. Fotografare l’impudenza della storia significa trasmettere le proprie sofferenze, significa volere che gli altri vi si immergano e le assumano su di sé, le facciano
sciuto della fotografia sociale, espressa -va detto- all’ombra di carnefici della libertà (da Stalin a Krusciov; per Gorbaciov, la perversione del potere è più manichea, non meno feroce). Le fotografie di Dmitrij Baltermants lasciano trasparire la vicinanza con fragilità dei miserabili, senza tuttavia rinunciare all’imbalsamazione dei dittatori. Dmitrij Baltermants nasce a Varsavia (al tempo parte dell’Impero russo), nel 1912; muore a Mosca, nel 1990. Si avvicina alla fotografia a soli quattordici anni. Si laurea in matematica e insegna per un po’ in una scuola militare. Dal 1940 al 1945 è corrispondente di guerra per Izvestija Sovetov Deputatov Trudjaš ichsja SSSR (Notizie dei soviet dei deputati dei lavoratori dell’URSS) e Na Razgrom Varaga. Documenta l’assedio di Mosca e Sebastopoli, la battaglia di Stalingrado e la caduta di Berlino. Le
sue fotografie restarono chiuse negli archivi del Partito comunista fino agli anni Sessanta. Nel 1969, le immagini in bianconero scattate sui teatri di guerra sono esposte a Londra, e finiscono sulle pagine di Life, Stern, Paris Match: il fotografo sovietico raggiunge consensi di critica e la notorietà internazionale. Al di là del valore storico e documentale, in qualche modo, il realismo sociale di Dmitrij Baltermants testimonia la tragedia (e la stupidità) della guerra. A ritroso. Nel 1949, Dmitrij Baltermants diventa fotografo ufficiale del Cremlino, con il battesimo di Stalin. Il capitano nell’Armata rossa celebra l’imponenza e la produttività di un impero, più ancora, la felicità degli uomini (una farsa) sui quali si reggeva. Intanto, sembra non accorgersi dei milioni di comunisti dissidenti, trotzkisti, anarchici, deportati nei lager della Siberia e trucidati in nome del popolo e dello Stato “comunista”. Dopo la morte di Stalin, si arrocca al potere un ometto con la faccia da contadino beota, Nikita Sergeevič Chruščëv (in occidente, semplificato in Krusciov). Dmitrij Baltermants inizia a viaggiare in Cina, India, Vietnam; alla caduta di Chrušč ëv, si occupa dei mutamenti sociali del paese, dei successi degli atleti sovietici ai Giochi olimpici, di ritratti ufficiali di politici... poco a poco le sue fotografie sono sempre meno identitarie e si spengono sul tramonto degli oracoli.
L’OCCHIO DELLA NAZIONE RUSSA Una delle peggiori qualità nei fotografi, come nei governanti, è la viltà... la mancanza di talento smerciato come arte della mediazione. I grandi randagi della fotografia -non dimentichiamolo- hanno messo in pericolo la loro vita (e qualche volta sono stati uccisi) per difendere la dignità de-
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Sguardi su
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA
049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it
gli Uomini, e la loro prima/unica finalità era la ricerca del bene comune. Ci hanno lasciato in sorte la filosofia libertaria del nostro scontento: in fotografia -come nella vita-, chiunque non riconosca gli Uomini tutti uguali, tutti fratelli, tutti degni di vivere fuori da ogni vassallaggio non è degno di nessuna considerazione. L’indecenza è mostrarsi devoti tanto a un dio, quanto a uno stato; ma finché anche un solo Uomo è tenuto in povertà, in catene o muore in fuga dalle guerre nessun Uomo può dire di essere libero. Le fotoscritture di Dmitrij Baltermants, dal secondo conflitto mondiale alla restaurazione socialista (si fa per dire), fino alla sua scomparsa, esprimono un ottimismo da allucinati. Meglio ancora, un deposito visivo di tutte le “verità del comunismo” al potere, e contengono una dolcezza sacerdotale che non gronda nemmeno dalla mediocrità dei Vangeli. È una fotografia istituzionale che non teme l’inganno, né l’ingiustizia... una fotografia che celebra i fasti dei vincitori, assolti dai loro crimini. In fotografia, come in tutto, ci si realizza solo sulle forche dell’ottimismo e il tradimento della verità.
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Le immagini di guerra di Dmitrij Baltermants fuoriescono da una raffigurazione geometrica della realtà. Il fotografo dell’Armata rossa intreccia forza figurativa e tenerezza, essenzialità e confusione, disperazione e opportunismo. C’è anche la tragicità dell’inumanità di tutte le guerre; tuttavia, i genocidi e le menzogne dell’autocrazia staliniana sono ben riposte sul cattivo gusto del “comunismo” al potere, e chi si concilia con il potere glorifica l’intolleranza del boia. Dmitrij Baltermants, l’occhio della nazione russa (che non è certo un merito!), fotografa assalti dei soldati, madri che piangano i propri morti, bambini uccisi e gettati in fosse comuni, attacchi dei carri armati, soldati che suonano il piano in edifici bombardati, soldati morti sulla strada, soldati che esultano alla vittoria. La sua scrittura fotografica è intensa, eloquente, sentimentale... contiene quella pietà laica e eccedenza di vitalità che lo proiettano oltre il cinismo di cronaca, e molte immagini si possono leggere (con un po’ di fatica) anche come dossologia del fanatismo guerrafondaio. Il
fotografo si accosta ai soggetti con semplicità... sta loro addosso... lascia emergere l’ambiente attraverso la gestualità, il movimento, la composizione. Tutto è intagliato nella tragicità del momento: comunque, in ogni fotografia c’è sempre un qualcosa che rimanda più alla lode di Stato che al dolore dell’Umanità. Non si capisce nulla della storia e della fotografia se non si crede che lo statuto dei tiranni non sia il pane quotidiano dei servi, e la paura non rappresenti la frenesia di obbedire, fino alle farneticazioni di crocifissioni collettive. Ogni dottrina politica, come ogni fotografia della convenienza, è fondata sulla rinuncia e la rassegnazione. Solo una rottura feconda contro l’istituto dei saperi può portare a un eccesso di lucidità che svergogna i miti del potere, prima di procedere alla liquidazione dell’ordine stabilito. Nelle fotografie di propaganda dell’Unione Sovietica (anche a colori), Dmitrij Baltermants si lascia andare. I soldati dell’Armata rossa abbracciano i pescatori, il segretario Brèžnev è incollato al volto di Lenin, Mao balla in una festa di palazzo, Fidel Castro e una delegazione sovietica parlano della fine del capitalismo, le donne del popolo rendono omaggio alla bara di Brèžnev con le lacrime agli occhi, Chruščëv saluta la folla col cappello buono, il maresciallo Tito pontifica il “socialismo dei Balcani” sulla barca da pesca, i politici si baciano sulla bocca... la bandiera rossa sventola dappertutto... la gente operosa prende il tram, giovani marinai posano per la storia, ragazze gioiose sfilano nelle strade di Mosca (come in una stopposa pubblicità per dentifrici), ragazzi con lo sguardo volto verso l’avvenire (della Coca-Cola), sono (come ovunque nel mondo) oggetto della civiltà consumerista. Insomma, l’allegria del popolo “comunista” è fissata nell’immaginario (peraltro falso) della dittatura del proletariato: peccato che mancano i milioni di condannati nei campi di concentramento, per chiudere con senti-
mento la perfezione incompiuta di un grande fotografo. La fotografia della genuflessione di Dmitrij Baltermants si configura nell’umore politico del proprio tempo. In ogni immagine c’è quel qualcosa di sacro che rende il “comunismo” impenetrabile alle masse e una formidabile arma di distruzione dei diritti più elementari dell’Uomo. L’idea pura e semplice del paradiso comunista ci fa vomitare: l’Uomo e la Donna saranno veramente liberi quando nessuno sarà costretto a piegare la schiena nei confronti dei ricchi, dei potenti, dei preti, dei governanti... allora, e solo allora, la società potrà definirsi buona. Se poi gli Uomini e le Donne sapranno ripartire e mettere in comune le ricchezze della Terra, in modo che tutti avranno il necessario per vivere senza sfruttare, né essere sfruttati... allora, e solo allora, tale società potrà definirsi ottima o anarchica. Gli Uomini hanno diritto alla felicità, ma non si può rinunciare alla verità per una felicità apparente o collusa con gli apparati mafiosi dei governi. Quando la fotografia affonda nelle pieghe della storia è riconducibile a un crimine di leso linguaggio, ed è proscritta ed equiparata a un delitto contro tutti i poteri. Ed è perfino vero. In un’epoca ben altrimenti disingannata, l’interrogazione della fotografia del nostro scontento disorienta ammiratori e detrattori della tolleranza come patibolo di ogni passione, diversità, libertà... non incorre nella sventura di non essere capita: rompe con ogni autorità consolidata nella tradizione, nella morale, nel rigore e nella rivolta che ne consegue, denuncia, contesta, brucia l’onnipotenza macellaia dei dominatori. In forma di confessione: fotografare significa disfarsi dei propri rimpianti e dei propri timori e -costi quel che costi- dirigere i propri rancori, indignazioni e insorgenze (mai disarmate) contro i parassiti di ogni potere. In ogni caso, senza nessun rimorso. Fine... forse. ❖