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ANNO XXIII - NUMERO 221 - MAGGIO 2016
Tipa Awards 2016 AL VERTICE TECNOLOGICO
Isaac Asimov NOVE VOLTE SETTE
ANDREA BOYER ETERNITÀ DEI GIORNI
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firma
prima di cominciare
CIAO, FABIO. Per cadenza anagrafica e relativi diritti/doveri, apparteniamo a una generazione che si è avvicinata alla fotografia agendo in coincidenza di intenti sia nell’analisi dei suoi strumenti, sia nell’approfondimento della sua storia e del suo linguaggio. Così facendo, alcuni di noi hanno evoluto l’interesse originario privato in professione: è il caso del mio approdo alla redazione del mensile Clic Fotografiamo, nell’autunno 1972. Per quanto casuale, questo avvio definì il cammino successivamente intrapreso; agire all’interno di uno staff giornalistico indirizzato, mi offrì anche un punto di osservazione privilegiato proprio sulla realizzazione delle riviste (per quanto di settore). Così, curiosamente, la figura di Fabio Amodeo -che leggevo sulle pagine del mensile Photo 13 (per un intero anno, addirittura quindicinale), diretto da Ando Gilardi e Roberta Clerici- assunse connotati inattesi, tanto quanto improvvise e repentine erano le sue riflessioni fotografiche. Le distanze tra noi si azzerarono, e divenimmo colleghi: fu come per un ragazzo appassionato di calcio poter giocare accanto a suo eroe. Addirittura, i nostri destini si incrociarono ancora di più quando, nell’estate 1973, Fabio Amodeo lasciò la redazione di Photo 13, per tornare verso casa, dove entrò nello staff di Il Piccolo, quotidiano di Trieste, del quale, in seguito, divenne caporedattore, carica che dal 1985 al 1989 occupò anche all’Alto Adige, quotidiano di Bolzano. Ecco qui: all’inizio di settembre, mi offrii di sostituirlo a Photo 13. Ovviamente, il cambio di redattore non fu paritetico, perché la professionalità e le capacità di Fabio Amodeo erano ben superiori alle mie... e sempre lo sono state, decennio dopo decennio. Fabio Amodeo è mancato lo scorso sei aprile, all’età di settantuno anni, spezzato da una lunga malattia. Lo rimpiangiamo, così come possiamo soffrire la scomparsa di un compagno di strada che è stato faro e insegnante per molti di noi, io compreso. Ci mancherà il conforto del suo punto di vista fotografico, che approdò alla fatidica e delicata combinazione con il mondo dell’arte, perché ogni sua valutazione e ogni suo ragionamento sono sempre stati sottili e perspicaci, oltre che puntuali e lungimiranti. Come non tornare, con il pensiero, a un autunno di qualche anno fa, quando, nel corso di un dibattito altrimenti spoglio e improduttivo sul collezionismo della fotografia, svolto da altri senza alcuna originalità di pensiero, improvvisamente, si fece tutto chiaro alla luce di sue pertinenti precisazioni? Come non ripercorrere indietro il tempo, fino ai suoi mirabili Faccia a Faccia, che su Photo 13 confrontavano tra loro sistemi fotografici analoghi? Come non sentirsi un poco più poveri? M.R.
Non si può fare fotografia documentaria senza lacrime e senza riso. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Avremo sempre più fotografie ben esposte con tutto a fuoco, oppure resisteranno i canoni lessicali di un dizionario che sta alla base dell’idioma, della lingua e del modo di esprimersi della Fotografia (in Maiuscola volontaria e consapevole)? Oppure, perderemo tutto per strada, fino a dimenticarci delle origini? mFranti; su questo numero, a pagina 8 Qualsiasi questo possa significare, cos’è l’arte in forma fotografica? Da e con Giacomo Leopardi: «L’anima s’immagina quello che non vede». Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 40 La fotografia è la ricostruzione materiale dell’illusione mercantile; il carattere fondamentale della fotografia deriva dal fatto che i suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo. È il sole della merce che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66
Copertina Ovvio, fino a essere scontato. Il richiamo che recita Eternità dei giorni, in presentazione di un ottimo progetto fotografico del colto Andrea Boyer (da pagina trentaquattro), è derivato dal titolo del terzo capitolo dell’entusiasmante trilogia del Novecento, di Ken Follett: I giorni dell’eternità, che conclude il lungo percorso (1220 pagine, dopo le precedenti 1576 e 1640, di L’inverno del mondo e La caduta dei giganti ). Analogamente... quest’altra Eternità eleva e sottolinea il senso e valore della Fotografia. In Maiuscola
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) celebrativo di ottocento anni della Fiera di Lipsia (1165-1965), emesso il 2 settembre 1965. In una serie di tre valori, richiamo esplicito alla fotografia: le reflex Praktica 2 e Praktisix II, di produzione nazionale
7 Editoriale Pausa? Forse che sì... forse che no! Incoerenze (?) combinate “tra noi”: fotografia e in abbonamento
8 Oggi, oggi... e domani Dalla fantascienza, un oscuro futuro: perdita di memoria. Con l’inquietante Nove volte sette, di Isaac Asimov
MAGGIO 2016
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
12 In distribuzione Hasselblad torna da Fowa, Tenba si accasa da Rinowa
Anno XXIII - numero 221 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
14 Yuhu Rintin!
IMPAGINAZIONE
Anni Cinquanta: Rin Tin Tin (con macchina fotografica), per richiamare l’attualità dell’illusione della fotografia
REDAZIONE
17 Una mossa sbagliata Presenza della fotografia nella serie televisiva Colombo: casellario e riflessione specifica su un episodio Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
24 Al vertice tecnologico Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, gli autorevoli e ambìti TIPA Awards 2016: quaranta categorie, ventuno produttori e commenti d’intorno di Antonio Bordoni
34 Eternità dei giorni Il bravo Andrea Boyer non fa mistero di raffigurare qualcosa di indispensabile con l’esplicita intenzione di rappresentare oltre il soggetto palese e manifesto. Così che, sai com’è... missione della fotografia di Maurizio Rebuzzini
45 Lui ama l’Italia In mostra, ad Aosta, cento fotografie d’autore a tema esplicito e dichiarato: Leonard Freed. Io amo l’Italia di Angelo Galantini
51 Via Emilia (o Route 66?) Esplorazioni dell’archivio. Fotografia della Via Emilia si accoda e fa da corte a Fotografia Europea 2016: a Parma, in selezione dalle raccolte custodite al CSAC
58 Ambiguità romantica La serie Fucking New York, di Nikola Tamindzic, fa respirare l’utopia di chi si sente libero e risolto di Elisa Contessotto
65 Cristina García Rodero
Maria Marasciuolo Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Isaac Asimov Pino Bertelli Antonio Bordoni Andrea Boyer Pietro Citati Elisa Contessotto mFranti Angelo Galantini Douglas Kirkland Alberto Meomartini Franco Sergio Rebosio Nikola Tamindzic Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Sguardi su una interprete della fotografia documentaria di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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editoriale P
rima di tutto, prima di altro, chiariamoci tra noi (che siamo proprio “tra noi”, e stiamo per rifletterne). Ovunque sia indirizzata, una rivista distribuita solo in abbonamento -come è questa, che così recita e si presenta- non è solo una contraddizione in termini, ma -addirittura!- una sconvenienza. Chiariamoci, al proposito: mentre la diffusione di opinioni procede spesso per caso, andando a raggiungere destinatari anche inattesi, l’accordo preventivo su una rivista -tramite la sottoscrizione dell’abbonamento- è in qualche misura complice e anticipato. Non si è raggiunti da considerazioni inattese, come capita comperando un qualsiasi giornale, ma da consecuzioni in qualche modo e misura preordinate. A partire dalla complicità “fotografica”, che comunque compone già i tratti di un indirizzo specifico, per continuare con la fidelizzazione alla testata, si potrebbe finire per girare su se stessi, in tondo. Lo sappiamo bene, ne siamo consapevoli, ne teniamo conto: infatti, e a tutti gli effetti, FOTOgraphia affronta la materia istituzionale della “fotografia” frequentando argomenti e segnalando vicende quantomeno particolari, se non altro fuori dal coro, come minimo di assoluta personalità. Una volta riscontrato questo, riconosciamo che -probabilmente- non basta, non è sufficiente. Da cui e per cui, oltre il peccato originale di una cadenza redazionale che vale soprattutto per i testi (?), a volte a dispetto delle immagini, ne dobbiamo registrare un altro: per l’appunto, quello di non essere aperti a quella casualità di esistenza capace di comporre i tratti di autentiche differenze. Infatti, se è vero, come è proprio vero, che il modello urbano è quello che favorisce lo scambio di idee e visioni e l’avvicinamento a esperienze diverse dalle nostre proprie, è altrettanto vero che la monolitica concentrazione “tra noi” corre il pericolo della siccità, destinata a non generare figli. Senza dubbio, e per riconoscenze che ci sono state anche attribuite, la messa in pagina di ciascun numero di FOTOgraphia, e la sequenza temporale di un mese dopo l’altro, lascia spazio a una eterogeneità di considerazioni che non dipende soltanto dalla curiosità e dal princìpio di intendere la fotografia come fantastico s-punto di partenza verso evoluzioni individuali e proprie (non arido punto di arrivo). Ovvero, a una varietà a tutto tondo che parte dalla fotografia, ma non si conclude con la fotografia: che mira alla fotografia, per raccontare altro... forse, la Vita. Ammesso e concesso tutto questo, persiste e si afferma -comunque- l’origine malsana di accoppiare assieme due confini concentrici: anzitutto, la materia prestabilita “tra noi” (la “fotografia”) e poi il nostro indirizzo distributivo ancor più “tra noi” (in “abbonamento”). Dunque, una domanda si affaccia: Che fare? Non c’è risposta certa e univoca; quantomeno, non l’abbiamo noi. Però, alla luce di tanto e tanto, forse è sostanziosamente inutile quello che stiamo dicendo “tra noi”. Forse, la fotografia non è effettivamente così importante e meritevole. ??? Maurizio Rebuzzini
Da maggio 1994 (mille anni fa, altri tempi, altre convinzioni, altro spirito... forse, altra Fotografia), duecentoventuno numeri di FOTOgraphia. E... poi? E... poi?
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Del doman non v’è certezza di Maurizio Rebuzzini (Franti)
OGGI, OGGI... E DOMANI
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Più spesso di quanto possiamo immaginare, la fantascienza ha anticipato ciò che -in tempi successivi- la scienza ha effettivamente raggiunto. Visioni oniriche si sono concretizzate grazie alle scoperte dell’Uomo, tanto che -proprio su e da queste pagine, con riferimenti via via mirati- siamo soliti affermare che «Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parliamo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza». In questo senso è altresì emblematica una profezia di Arthur C. Clarke (1917-2008), scienziato e scrittore di fantascienza inglese, autore del racconto La sentinella, del 1948, sul quale si è basata la sceneggiatura di 2001: Odissea nello spazio (e il relativo romanzo coevo), firmata assieme al regista Stanley Kubrick [ FOTOgraphia, dicembre 2014]. In una intervista per la rete televisiva statunitense Abc, nel 1974 (nel 1974!, chi può, rievochi quei momenti lontani), Arthur C. Clarke anticipò che secondo lui, nel 2001, in ogni casa ci sarebbe stato un personal computer connesso in una rete glo-
bale! Diciamo che ha anticipato di qualche stagione ciò che è effettivamente successo! Ma non è solo questo, per quanto già tanto. Altrettanto spesso, la fantascienza ha puntato il dito sui retrogusti della scienza, della tecnologia, del ricordo. Così che è inevitabile pensare all’evoluzione dei mezzi della fotografia non soltanto nel senso della crescita esponenziale, e persino rapida, dei propri parametri, quanto nel senso coabitante della perdita di memoria, soppiantata dall’applicazione acritica di automatismi completi. Ovviamente, non ci riferiamo alla fotografia quotidiana e privata, persino familiare, che ha ottenuto e incassato straordinari benefici nel gesto liberato dello scatto. Invece, pensiamo a quella Fotografia volontaria e cosciente che ha scritto nobili capitoli del e con il proprio lessico, e ancora tanti altri ne ha da compilare. Dunque... la cancellazione proditoria di tanti criteri e princìpi, che dalla propria base tecnica si proiettano sul linguaggio, definendo una grammatica espressiva, cosa sta per produrre? Avremo sempre più fotografie ben esposte con tutto a fuoco, oppure resisteranno i canoni lessicali di un dizionario che sta alla base dell’idioma, della lingua e del modo di esprimersi della Fotografia (sempre in Maiuscola vo-
Nove volte sette di Isaac Asimov (traduzione di Carlo Fruttero) Prima pubblicazione statunitense: If, febbraio 1958 Prima pubblicazione italiana: in Le meraviglie del possibile; Giulio Einaudi editore, 1959
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Jehan Shuman era abituato a trattare con gli uomini che da molti anni dirigevano lo sforzo bellico terrestre. Non era un militare, Shuman, ma a lui facevano capo tutti i laboratori di ricerche incaricati di progettare i cervelli elettronici e gli automi impiegati nel conflitto. Di conseguenza, i generali gli prestavano ascolto. E lo stavano a sentire perfino i capi delle commissioni parlamentari. C’erano due esemplari di entrambe queste specie nella saletta
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lontaria, prima ancora che consapevole)? Oppure, perderemo tutto per strada, fino a dimenticarci delle origini? In metafora, attingiamo dalla fantascienza, e da un autore statunitense a dir poco leggendario, conosciuto da tutto il pubblico generico e non solo dalla schiera di appassionati. Il racconto Nove volte sette, di Isaac Asimov (1920-1992), è stato pubblicato per la prima volta nel numero di febbraio 1958 della rivista statunitense If: con il titolo originario di Feeling of Power. Successivamente, è stato incluso in diverse raccolte e in numerose antologie. In Italia, la sua prima apparizione è nella fantastica selezione Le meraviglie del possibile, in edizione Einaudi, dal 1959, nella traduzione di Carlo Fruttero, curatore di questa antologia della fantascienza insieme a Sergio Solmi. Sempre in Italia, in altre edizioni, è apparso con titoli diversi da Nove volte sette, che ci pare più idoneo: comunque, Il senso del potere, in traduzione letterale dall’originario statunitense, e Ragazzi, ricordate le tabelline?, in orrida declinazione “scolastica” (oltre che banalizzata e banalizzante). In metafora con il quesito fotografico che ci siamo appena posti, in Nove volte sette, Isaac Asimov prefigura un lontano fu-
turo nel quale la società è mantenuta da computer... e tutti hanno dimenticato le basi della matematica, a partire dalla capacità di contare... e, forse, addirittura scrivere. In una condizione di stallo nella guerra che la Terra (ovviamente, la Federazione Terrestre) sta conducendo contro il pianeta Daneb, altrettanto computerizzato, si affaccia un umile tecnico che arriva a fare l’autentica differenza grazie alla sua capacità di calcolo manuale. Addirittura, e con sfrontatezza massima (?, ma umiltà remissiva), Myron Aub, per l’appunto il tecnico di basso livello, teorizza che i computer derivano da calcoli che in un lontano passato venivano eseguiti a mano. In ripetizione d’obbligo: perdita delle origini, stravolgimento tecnologico ingiustificato, passo indietro della società (qualsiasi cosa questo possa significare). Al contrario di una lezione storica fondamentale per la consapevolezza individuale e collettiva. In ogni caso, metafora a parte o metafora compresa (a ciascuno, il proprio), il racconto è incalzante, come tutta la scrittura del celebrato Isaac Asimov. Così che ne deriva una lettura gradevole e appassionante. Questo, per la forma. Per il contenuto implicito ed esplicito... dovremmo parlarne? ❖
del Nuovo Pentagono. Il generale Weider aveva il volto bruciato dagli spazi e la bocca molto piccola, quasi sempre atteggiata in una smorfia. Il deputato Brant aveva guance tonde, lisce, e occhi chiari. Fumava tabacco denebiano con l’indifferenza di un uomo il cui patriottismo è notorio e che può quindi permettersi certe libertà. Shuman, alto, elegante, e Programmatore di prima classe, li affrontò senza esitazione. Disse: – Signori, questo è Myron Aub. – Sarebbe lui l’individuo dotato di speciali capacità, che avete scoperto per caso? – disse il deputato Brant, senza scomporsi. – Bene! – Con bonaria curiosità squadrò l’omettino calvo, con la testa a uovo. L’ometto reagì intrecciando nervosamente le dita. Non era mai
Del doman non v’è certezza stato a contatto di persone così importanti in vita sua. Era un Tecnico d’infimo rango, già abbastanza avanti negli anni, che dopo aver fallito tutte le prove di selezione destinate a individuare i cervelli umani meglio dotati, s’era ormai rassegnato da anni a un lavoro oscuro e monotono. Ma poi il Grande Programmatore aveva scoperto il suo hobby e l’aveva trascinato qui. Il generale Weider disse: – Questa atmosfera di mistero mi sembra puerile. – Un minuto di pazienza – disse Shuman – e vedrà che cambierà idea. Si tratta di una cosa che non va assolutamente divulgata... Aub! – Pronunziò il nome monosillabico come se fosse un comando militare, ma era un Primo Programmatore e parlava a un semplice Tecnico. – Aub! Quanto fa nove volte sette? Aub esitò un istante. I suoi occhi smorti ebbero un fioco lampo di ansietà. – Sessantatré – disse. Il deputato Brant inarcò le sopracciglia. – È giusto? – Controlli lei stesso, onorevole. Il deputato trasse la sua calcolatrice tascabile, ne sfiorò con le dita due volte il bordo zigrinato, guardò il quadrante e la ripose in tasca. Disse: – E sarebbe questo il fenomeno che lei ci ha chiamato qui ad ammirare? Un illusionista? – Molto di più, onorevole. Aub ha mandato a memoria alcune operazioni e sa calcolare sulla carta. – Una calcolatrice di carta? – disse il generale. Sembrava deluso. – No, generale – disse Shuman, paziente. – Non è una calcolatrice di carta. Semplicemente un foglio di carta. Generale, vuol essere così gentile da proporre un numero qualsiasi? – Diciassette – disse il generale. – E lei, onorevole? – Ventitré. – Bene! Aub, moltiplichi questi due numeri e faccia vedere a questi signori in che modo esegue l’operazione. – Sissignore – disse Aub, chinando il capo. Trasse un taccuino da una tasca della camicia e una sottile matita da pittore dall’altra. La sua fronte era tutta aggrottata mentre tracciava faticosamente sulla carta dei piccoli segni. Il generale Weider lo interruppe in tono asciutto. – Mi faccia vedere. Aub gli porse il taccuino e Weider commentò: – Be’, sembra il numero diciassette. Il deputato Brant annuì e disse: – Proprio così, ma è chiaro che chiunque può copiare dei numeri da una calcolatrice. Io stesso, credo, sarei capace di disegnare un diciassette passabile, anche senza esercizio. – Se i signori non hanno nulla in contrario, Aub potrebbe continuare – intervenne soavemente Shuman. Aub continuò, la mano un po’ tremante. Infine disse a bassa voce: – La risposta è trecentonovantuno. Il deputato Brant consultò una seconda volta la sua calcolatrice tascabile. – Perdio, è esatto. Come ha fatto a indovinare? – Non ha indovinato, onorevole – disse Shuman. – Ha calcolato il risultato. L’ha fatto su questo foglietto di carta. – Storie – disse il generale con impazienza. – Una calcolatrice è una cosa e dei segni sulla carta un’altra. – Spieghi lei, Aub – disse Shuman. – Sissignore... Ecco, signori, io scrivo diciassette e subito sotto scrivo ventitré. Poi mi dico: sette volte tre... Il deputato lo interruppe pacatamente. – Attento, Aub, il problema è diciassette volte ventitré. – Sì, lo so, lo so – Sì affrettò a spiegare il piccolo Tecnico – ma io
comincio col dire sette volte tre perché è così che funziona. Ora, sette volte tre fa ventuno. – E come lo sa lei? – chiese il deputato. – Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L’ho controllato innumerevoli volte. – Questo non significa che lo darà sempre, però – disse il deputato. – Forse no – balbettò Aub. – Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati sono sempre esatti. – Vada avanti. – Sette volte tre fa ventuno, e io scrivo ventuno. Poi tre per uno fa tre, così io scrivo tre sotto il due di ventuno. – Perché sotto il due? – chiese il deputato Brant, secco. – Perché... – Aub lanciò un’occhiata implorante al suo superiore. – È difficile da spiegare. Shuman intervenne: – Direi che per il momento convenga accettare per buono il suo metodo e lasciare i particolari ai matematici. Brant si arrese. Aub proseguì: – Tre più due fa cinque, e perciò il ventuno diventa un cinquantuno. Ora, lasciamo stare per un momento questo numero e cominciamo da capo. Si moltiplica sette per due, che ci dà quattordici, e uno per due che ci dà due. Li scriviamo così e la somma ci dà trentaquattro. Ora se mettiamo il trentaquattro sotto il cinquantuno in questo modo, sommandoli otteniamo trecentonovantuno, che è il risultato finale. Vi fu un istante di silenzio e il generale Weider disse: – Non ci credo. È una bellissima filastrocca e tutto questo giochetto di numeri sommati e moltiplicati mi ha divertito molto, ma non ci credo. È troppo complicato per non essere una ciarlatanata. – Oh, no, signore – disse Aub, tutto sudato. – Sembra complicato perché lei non è abituato al meccanismo. Ma in realtà le regole sono semplicissime e funzionano con qualsiasi numero. – Qualsiasi numero, eh? – disse il generale. – Allora vediamo. – Trasse di tasca la sua calcolatrice (un severo modello militare) e la toccò a caso. – Scriva sul suo taccuino cinque sette tre e otto. Cioè cinquemilasettecentotrentotto. – Sissignore – disse Aub staccando un nuovo foglio di carta. – Ora – toccò di nuovo a caso la calcolatrice – sette due tre e nove. Settemiladuecentotrentanove. – Sissignore. – E adesso moltiplichi questi due numeri. – Ci vorrà un po’ di tempo – balbettò Aub. – Non abbiamo fretta – disse il generale. – Cominci pure Aub – disse Shuman, tagliente. Aub cominciò a lavorare tutto chino. Staccò un secondo foglio di carta, poi un terzo. Finalmente il generale trasse di tasca l’orologio e lo considerò con impazienza. – Allora, ha finito coi suoi esercizi di magia? – Ci sono quasi arrivato, signore... Ecco il prodotto, signore. Quarantun milioni, cinquecentotrentasettemilatrecentottantadue. – Mostrò la cifra scarabocchiata in fondo all’ultimo foglio. Il generale Weider sorrise condiscendente. Premette il pulsante di moltiplicazione sulla sua calcolatrice e attese che il ronzio dei meccanismi tacesse. Poi guardò il quadrante della minuscola macchina e disse con voce rauca dallo stupore: – Grande Galassia, l’ha azzeccato in pieno. Il Presidente della Federazione Terrestre stentava ormai a mascherare, in pubblico, la tensione che lo rodeva e, in privato già permetteva che un’ombra di malinconia velasse i suoi lineamenti delicati, di uomo sensibilissimo. La guerra denebiana, dopo l’entusiasmo e l’unanime slancio dei primi anni, s’era rattrappita a un gioco inane di manovre e contromanovre. Sulla Terra lo scontento
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Del doman non v’è certezza cresceva ogni giorno e cresceva forse anche su Deneb. E ora il deputato Brant, capo dell’importantissima Commissione Parlamentare sull’Organizzazione della Difesa, stava allegramente e placidamente dissipando la sua mezz’ora di colloquio in chiacchiere inutili. – Calcolare senza una calcolatrice – osservò il presidente con impazienza – È una contraddizione in termini. – Calcolare – disse il deputato – È soltanto un sistema per elaborare dei dati. Può farlo una macchina come può farlo il cervello umano. Permetta che le dia un esempio. – E, servendosi delle capacità da poco acquisite, prese a calcolare somme e prodotti finché il presidente suo malgrado sentì nascere un certo interesse. – E funziona sempre? – Infallibilmente, signor Presidente. Non sbaglia un colpo. – È difficile da imparare? – Mi ci è voluta una settimana per impadronirmi perfettamente del sistema. Ma immagino che lei... – Effettivamente – disse il presidente, pensoso – È un giochetto molto interessante. Ma a che cosa serve? – A che cosa serve un neonato, signor Presidente? Sul momento non serve a nulla, ma non vede che questo è il primo passo verso la liberazione dalle macchine? Consideri, signor Presidente – il deputato si alzò e la sua voce profonda prese automaticamente le cadenze dei discorsi parlamentari – che la guerra denebiana è una guerra di calcolatrici contro calcolatrici. Le calcolatrici nemiche formano uno scudo impenetrabile di contro–missili che fermano i nostri missili, e le nostre bloccano i loro nello stesso modo. Ogni volta che noi perfezioniamo le nostre calcolatrici, i Denebiani fanno lo stesso, e ormai da cinque anni si è creato un precario e inutile equilibrio di forze. Ora noi siamo in possesso di un metodo che ci permetterà di vincere le calcolatrici, di scavalcarle, di attraversarle. Potremo combinare la meccanica del calcolo automatico con il pensiero umano, avremo per così dire delle calcolatrici intelligenti; a miliardi. Non posso prevedere esattamente quali saranno le conseguenze; ma è chiaro che questa innovazione avrà una portata incalcolabile. E se Deneb ci arriva prima di noi, sarebbe una vera catastrofe. Con aria preoccupata il presidente disse: – Che cosa dovrei fare secondo lei? – Conceda il pieno appoggio del governo a un piano segreto per lo sviluppo del calcolo umano. Lo chiami Progetto 63, se vuole. Io rispondo della mia commissione, ma avrò bisogno del sostegno del governo.– Ma fin dove può arrivare il calcolo umano? – Non c’è limite. Secondo il Programmatore Shuman, che mi ha parlato per primo di questa scoperta... – Sì, ho sentito parlare di lui. – Bene, il dottor Shuman mi dice che in teoria tutto ciò che sa fare una calcolatrice lo può fare anche una mente umana. In sostanza la calcolatrice non fa altro che prendere un numero finito di dati ed eseguire con essi un numero finito di operazioni. La mente umana è perfettamente in grado di ripetere il procedimento. Il presidente rifletté per qualche istante. Infine disse: – Se lo dice Shuman, non ho motivo di dubitarne... Sarà verissimo. Almeno in teoria. Ma in pratica com’è possibile sapere in che modo lavora una calcolatrice? Brant sorrise affabilmente. – Le dirò, signor Presidente; gli ho fatto la stessa domanda. E sembra che un tempo le calcolatrici venissero progettate e disegnate direttamente dagli esseri umani. Si trattava naturalmente di macchine molto rudimentali, dato che ciò avveniva prima che si fosse affermato il principio, ben più razionale, di affidare alle stesse calcolatrici la progettazione di calcolatrici ancor più perfezionate. – Sì, sì. Continui. – Il Tecnico Aub aveva uno strano hobby: si divertiva a ricostruire queste macchine arcaiche e così facendo ebbe modo di studiare il loro
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funzionamento e scoprì che poteva imitarle. La moltiplicazione che ho eseguito poco fa è un’imitazione del funzionamento di una calcolatrice. – Straordinario! – Il deputato tossì leggermente. – E c’è un’altra cosa che vorrei farle presente, signor Presidente... quanto più riusciremo a sviluppare e ad estendere questo nostro progetto, con le sue infinite applicazioni, tanto maggiore sarà la percentuale di investimenti federali che potremo distogliere dalla produzione e dalla manutenzione delle calcolatrici. Via via che il cervello umano si sostituisce alla macchina, una parte crescente delle nostre energie o delle nostre risorse può essere dedicata a impieghi pacifici e in tal modo il peso della guerra sull’uomo comune andrà decrescendo progressivamente. Ed è inutile dire quanto un fatto simile favorisca il partito al potere. – Ah – disse il presidente. – Capisco ciò che lei intende. Bene, si accomodi, onorevole, si accomodi. Ho bisogno di riflettere sulla sua proposta... Ma intanto, mi faccia ancora vedere quel trucchetto della moltiplicazione. Vediamo se riesco a capire come funziona. Il Programmatore Shuman non tentò di affrettare le cose. Loesser era un conservatore, un uomo molto legato alla tradizione, e aveva per le calcolatrici la stessa passione che aveva animato suo padre e suo nonno prima di lui. Controllava tutta la rete di calcolatrici dell’Europa occidentale, e ottenere il suo pieno appoggio al Progetto 63 avrebbe rappresentato un passo avanti di notevole importanza. Ma Loesser esitava ancora. Disse: – Non vedo troppo di buon occhio quest’idea di mettere in secondo piano le calcolatrici. La mente umana è capricciosa. Una calcolatrice ci dà infallibilmente la stessa soluzione allo stesso problema, ogni volta. Chi ci garantisce che la mente umana sappia fare altrettanto? – La mente umana, Calcolatore Loesser, non fa che manipolare dei dati. E allora non ha importanza se ad eseguire l’operazione è la mente umana o la macchina. L’una e l’altra sono semplicemente degli strumenti, dei mezzi. – D’accordo, d’accordo. Ho studiato a fondo la sua ingegnosa dimostrazione e mi rendo conto che la mente è in grado di ripetere esattamente i procedimenti della macchina. Ma mi sembra lo stesso una cosa campata in aria. Anche ammettendo la validità della teoria, che ragioni abbiamo per credere che la teoria si possa applicare in pratica? – Ritengo che vi siano ragioni molto valide. Gli uomini non si sono sempre serviti delle calcolatrici. Gli abitanti delle caverne, con le loro triremi, le loro scuri di pietra e le loro ferrovie, non avevano calcolatrici. – E probabilmente non calcolavano nulla. – Lei sa bene che non è così. Perfino la costruzione di una strada ferrata o di una ziggurat richiedeva dei calcoli, sia pure elementari, e questi calcoli venivano evidentemente eseguiti senza macchine. – Lei intende dire che gli antichi calcolavano col metodo che lei mi ha dimostrato? – Probabilmente no. È un fatto che questo metodo (a proposito, noi l’abbiamo battezzato “grafitica”, dalla vecchia parola europea “grafo”, cioè “scrivere”) deriva direttamente dalle calcolatrici, e dunque non può essere anteriore. Tuttavia i cavernicoli dovevano pur avere un loro metodo, no? – Arti perdute! Se lei mi vuol parlare delle arti perdute... – No, no, io non sono un fanatico delle arti perdute, anche se non posso escludere che ce ne siano state. Dopo tutto, l’uomo mangiava grano anche prima dell’idroponica, e se i primitivi mangiavano grano dovevano per forza coltivarlo nel suolo. Che altro sistema potevano avere? – Non lo so, ma crederò nella coltura in terra quando vedrò del grano crescere direttamente dal suolo. E crederò che si possa ottenere il fuoco strofinando due schegge di pietra quando lo vedrò fare sotto i miei occhi.
Del doman non v’è certezza Shuman divenne suadente. – Comunque sia, torniamo alla grafitica. Secondo me, va considerata un aspetto del generale processo di eterealizzazione. Il trasporto mediante veicoli più o meno ingombranti sta cedendo il posto al trasferimento diretto. I mezzi di comunicazione tradizionali diventano sempre più maneggevoli ed efficienti. Provi per esempio a confrontare la sua calcolatrice tascabile con gli enormi cervelli elettronici di mille anni fa. Perché non dovremmo fare l’ultimo passo su questa via, ed eliminare completamente le calcolatrici? Andiamo, il Progetto 63 è già in corso di realizzazione; già si registrano notevoli progressi. Ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Se il patriottismo non basta a farle prendere una decisione, consideri la prodigiosa avventura intellettuale che ci sta di fronte. Loesser disse in tono scettico: – Che progressi? Che potete fare oltre la moltiplicazione? Potete integrare una funzione trascendentale? – Col tempo arriveremo anche a questo. Durante il mese scorso ho imparato ad eseguire le divisioni. Sono in grado di determinare con assoluta precisione quozienti interi e quozienti decimali. – Quozienti decimali? Con quanti decimali? Il Programmatore Shuman si sforzò di dare alla sua voce un tono indifferente. – Non ci sono limiti. Loesser lo guardò sbalordito. – Senza calcolatrice? – Mi ponga lei stesso un problema. – Provi a dividere ventisette per tredici. Con sei decimali. Cinque minuti dopo Shuman disse: – Due virgola zero sette sei nove due tre. Loesser controllò il risultato. – Ma è straordinario. Le moltiplicazioni non mi avevano impressionato gran che, perché, insomma, comportano solo dei numeri interi, e avevo l’impressione che potesse trattarsi di un trucco. Ma i decimali... – E questo non è tutto. Stiamo lavorando in una direzione che fino a questo momento è ancora segretissima e che, a rigore, non dovrei rivelare a nessuno. Comunque... Stiamo per aprire una breccia nel fronte della radice quadrata. – La radice quadrata? – La cosa comporta naturalmente alcuni passaggi difficilissimi e ancora non disponiamo di tutti gli elementi, ma il Tecnico Aub, l’uomo che ha inventato la nuova scienza e che è dotato di una intuizione stupefacente, in questo campo, afferma di aver quasi risolto il problema. Ed è soltanto un Tecnico. Un uomo come lei, un matematico espertissimo e con un’intelligenza superiore, non dovrebbe trovare nessuna difficoltà. – Radici quadrate – mormorò affascinato Loesser. – Anche cubiche. Allora, possiamo considerarla dei nostri? Loesser gli tese di scatto la mano. – D’accordo. Il generale Weider camminava avanti e indietro a un’estremità del lungo salone, rivolgendosi ai suoi ascoltatori con i modi di un insegnante severo che ha di fronte una classe indisciplinata. Al generale non faceva né caldo né freddo che il suo pubblico fosse composto dagli scienziati civili che dirigevano il Progetto 63. Egli era il supervisore, la massima autorità, e tale si considerava in ogni attimo della sua giornata. Disse: – Le radici quadrate sono una bellissima cosa. Personalmente, non sono capace ad estrarle e neppure capisco le operazioni relative, ma sono certamente una bellissima cosa. Tuttavia, il governo non può permettere che il Progetto si perda appresso a quelli che alcuni di voi chiamano gli aspetti fondamentali del problema. Sarete liberi di giocare con la grafitica e adoperarla in tutti i modi che vorrete quando la guerra sarà finita; ma adesso abbiamo da risolvere dei problemi pratici della massima importanza. In un angolo il Tecnico Aub ascoltava con dolorosa attenzione. Non era più, naturalmente, un Tecnico; lo avevano sollevato dalle
sue vecchie funzioni, e destinato al progetto, con un titolo altisonante e un lauto stipendio. Ma le differenze sociali restavano, e gli scienziati d’alto rango non avevano mai accondisceso ad ammetterlo nelle loro file su un piede di parità. Né, per rendere giustizia ad Aub, egli lo desiderava. Con loro si sentiva a disagio come loro con lui. Il generale diceva: – Il nostro obiettivo è semplice, signori; sostituire la calcolatrice. Un’astronave che può navigare nello spazio senza avere a bordo un cervello elettronico può essere costruita in un tempo inferiore di cinque volte, e con una spesa inferiore di dieci volte, a una nave munita di calcolatrice. Se potessimo eliminare le calcolatrici saremmo in condizione di costruire delle flotte cinque, dieci volte più numerose di quelle di Deneb. E al di là di questo primo grande passo, io intravedo qualcosa di ancor più rivoluzionario; un sogno, per ora; ma in futuro io vedo il missile guidato dall’uomo! Tra il pubblico si diffuse un lungo mormorio. Il generale proseguì. – Attualmente, la nostra più grave “strozzatura” è data dal fatto che i missili dispongono di una intelligenza limitata. La calcolatrice che li guida può non superare certe dimensioni e un certo peso, ed è per questo che trovandosi in una situazione imprevista, di fronte a un nuovo tipo di sbarramento anti–missile, i nostri apparecchi danno risultati così mediocri. Pochissimi, come sapete, raggiungono gli obiettivi, e la guerra missilistica è ormai una continua elisione; infatti il nemico è fortunatamente nelle stesse condizioni nostre. Mentre un missile avente a bordo uno o due uomini, in grado di dirigere il volo mediante la grafitica, sarebbe molto più leggero, più mobile, più intelligente. Ci darebbe quel margine di superiorità che ci porterà alla vittoria. Inoltre, signori, le esigenze della guerra ci obbligano a tener presente anche un altro punto. Un uomo è uno strumento infinitamente più economico di una calcolatrice. I missili con equipaggio umano potrebbero essere lanciati in numero tale e in tali circostanze quali nessun generale sano di mente oserebbe mai prendere in considerazione se avesse a sua disposizione soltanto dei missili automatici... Disse ancora molte altre cose, ma il Tecnico Aub aveva sentito abbastanza. Nell’intimità della sua stanza, il Tecnico Aub passò molto tempo a correggere e ricorreggere la lettera che intendeva lasciare. Il testo definitivo, quando lo rilesse, suonava così: Quando cominciai a studiare la scienza che oggi si chiama grafitica, la consideravo alla stregua di un passatempo privato. Non vedevo, in essa, altro che un divertimento stimolante, un esercizio mentale. Quando il Progetto 63 venne istituito, io ritenevo che i miei superiori vedessero più lontano di me; che la grafitica potesse essere messa al servizio dell’umanità, potesse contribuire, per esempio, alla realizzazione di congegni veramente pratici per il trasporto individuale. Ma ora capisco che sarà usata solo per spargere morte e distruzione. Non posso sopravvivere alla responsabilità di aver inventato la grafitica. Lentamente, diresse verso se stesso un depolarizzatore delle proteine e, senza provare alcun dolore, cadde istantaneamente fulminato. Erano tutti raccolti, sull’attenti, intorno alla tomba del piccolo Tecnico, mentre veniva reso omaggio alla grandezza della sua scoperta. Il Programmatore Shuman chinò solennemente il capo insieme agli altri, ma non era commosso. Il Tecnico aveva fatto la sua parte, e ormai non c’era più bisogno di lui. Certo, era stato lui a inventare la grafitica, ma ora che la nuova scienza aveva messo le ali, avrebbe continuato da sola, di trionfo in trionfo, fino al giorno in cui i missili avrebbero solcato gli spazi guidati dall’uomo. E oltre ancora. Nove volte sette, pensò Shuman con profonda contentezza, fa sessantatré, e non ho bisogno che me lo venga a dire una calcolatrice. La calcolatrice ce l’ho nella testa. E questo gli dava un senso di potenza davvero esaltante. ❖
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Mercato di Antonio Bordoni
IN DISTRIBUZIONE
PHILIPPE HALSMAN
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Da una parte, registriamo che la svedese Hasselblad, le cui linee produttive sono rientrate in patria, è tornata presso il distributore che per decenni ne ha edificato il consistente successo commerciale italiano: Fowa, di Moncalieri, alle porte di Torino (via Vittime di Piazza Fontana 52bis, 10024 Moncalieri TO; www.fowa.it). Dall’altra, appuntiamo che la prestigiosa, autorevole e versatile gamma di borse fotografiche Tenba, prodotte a Brooklyn (New York City), che diedero origine alla stagione della costruzione in cordura, sono ora distribuite da Rinowa, di Bagno a Ripoli, nel circondario toscano di Firenze (via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it). Con ordine. Erede di una lunga storia, avviata nel 1948, con la 1600 F originaria, l’attuale doppia versione Hasselblad H6D è proposta con dorsi di acquisizione da cinquanta e cento Megapixel di risoluzione. Ovviamente, le opzioni dei rispettivi sensori Cmos si estendono a quanto definisce l’attualità della fotografia dei nostri giorni, con estensione a riprese video HD (H6D-50c) e UHD / 4K (H6D-100c). È previsto un rinnovato sistema ottico, con il quale si approda alla velocità massima di otturazione di 1/2000 di secondo.
Victor Hasselblad, in un ritratto di Philippe Halsman, del 1968, con l’Hasselblad 500C che ha definito stagioni successive della fotografia professionale medio formato: un classico della Storia della Fotografia (dal punto di vista degli apparecchi). L’attualità Hasselblad è oggi definita dalle configurazioni H6D, da cinquanta e cento Megapixel (distribuzione Fowa).
Bob Weinreb a New York City, alla fine degli anni Settanta, quando avviò la produzione di borse Tenba, ancora oggi, soprattutto oggi, sinonimo di qualità assoluta (distribuzione Rinowa).
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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Dipende un poco tutto da come si conteggia e valuta il commercio fotografico, che -come sappiamo tutti- è scandito da passi consequenziali: produzione, esportazione, distribuzione, negozio e cliente/utilizzatore. In linea di massima, i due estremi compongono i tratti dell’essenziale, che dalla fabbrica, passo dopo passo, arriva all’utente, che può anche essere disinformato sulle personalità -diciamo così- di transito. Se non che, eccoci qui, per quanto dietro-le-quinte, con le proprie particolarità e soggettività commerciali, ciascun distributore esprime caratteri individuali, che alla resa dei conti garantiscono l’intero iter, oltre che l’efficace assistenza di vendita e post vendita: dipende dagli oggetti presi in considerazione. A conseguenza diretta, oltre che fondante, qui e ora, è opportuno annotare e commentare due passi di distribuzione fotografica che hanno (possono avere) sostanziosi significati per coloro i quali frequentano la fotografia tecnica, sia acquistando e usando apparecchi fotografici (nello specifico odierno, di profilo alto), sia facendo tesoro di quegli accessori che semplificano o rendono duttili le proprie dotazioni principali e di riferimento assoluto.
Gli stessi dorsi di acquisizione digitale di immagini sono disponibili per l’impiego con altri sistemi fotografici medio formato, sia a costruzione rigida sia a corpi mobili, derivati da configurazioni grande formato. Su un piano tecnico-commerciale differente, la gamma di borse Tenba si concretizza in attualità di dimensioni e configurazioni. Per quanto in successioni temporali a noi più vicine, anche qui è il caso di sottolineare la radicata presenza del marchio all’interno dell’offerta fotografica attuale, con esordio alla fine degli anni Settanta, quando il fotografo naturalista newyorkese Bob Weinreb approdò alla linea originaria di Tenba in cordura, estremamente più agili e versatili delle precedenti proposte fotografiche “a bauletto”. Con questa soluzione, pratica, robusta ed efficace, nacque il concetto moderno di borsa fotografica, successivamente interpretato in tante varianti e altrettante proposte tecnico-commerciali. Se non che... Tenba rimane Tenba, con la sua gamma: ricca in quantità e suggestiva per qualità. A proposito: l’identificazione Tenba nasce dal termine tibetano di “robustezza”. Si deve a Chamba, la moglie tibetana di Bob Weinreb. ❖
Che dire di più e ancora della Canon EOS-1D X Mark II, della quale si sono sentiti giudizi che più lusinghieri non ce ne sono e per la quale sono state espresse considerazioni di straordinaria soddisfazione fotografica! Che dire di più e ancora della Canon EOS-1D X Mark II, le cui caratteristiche tecniche sottolineano prestazioni di utilizzo che ne definiscono l’alta qualità formale, peraltro certificata e sottolineata anche dall’assegnazione del TIPA Award 2016 di categoria (Best Photo/Video Professional Camera), che fa esplicito riferimento alla sua capacità di scatto rapido fino a 14 fotogrammi al secondo, con Tracking AF/AE completo, oppure fino a 16 fotogrammi al secondo in modalità Live View. Certamente, oltre e in abbinamento al doppio processore DIGIC 6+, si deve considerare il nuovo e autorevole controllo dello specchio reflex (tecnologia proprietaria). Da cui, la Canon EOS-1D X Mark II è in grado e condizione di operare in scatto rapido continuo fino a 170 immagini grezze RAW, da 14 bit. Sia la rapidità d’azione, sia l’assolvimento delle più consuete condizioni ambientali della fotografia dei nostri giorni, soprattutto professionale, ma anche non professionale (in atteggiamento fotografico convinto e consapevole), possono contare su un punto di forza autenticamente discriminante: il sensore CMOS di acquisizione digitale di immagini da 20,2 Megapixel effettivi, in dimensioni full-frame (35,9x23,9mm).
L’accuratezza della messa a fuoco automatica si basa su 61 punti AF, fino a 41 dei quali a croce e 5 a croce doppia (a f/2,8), ognuno selezionabile singolarmente. La sensibilità nativa, estesa da 100 a 51.200 ISO equivalenti, può essere espansa fino a 50 (Lo) e a 409.600 ISO equivalenti (H3). La selezione di modalità di misurazione esposimetrica consente il più adeguato allineamento della Canon EOS-1D X Mark II con ogni condizione ambientale della ripresa fotografica. Si passa dalla lettura media valutativa collegata a tutti i punti AF alla misurazione parziale (circa il 6,2% del campo inquadrato, al centro), alla lettura spot in tre opzioni (al centro del mirino, circa l’1,5%; spot collegata al punto AF; multi-spot), alla misurazione media ponderata al centro. Per correzioni parziali/individuali è preordinata una possibile compensazione di esposizione +/-5 EV, in incrementi di 1/3 o 1/2 di stop, combinabile con i tre scatti programmati Auto Exposure Bracketing (AEB). L’otturatore va da 30 secondi pieni a 1/8000 di secondo, con incrementi di 1/2 o 1/3 di stop, con sincronizzazione flash a 1/250 di secondo. Definizione cinematografica di alta qualità. La potente risoluzione 4K definisce le prerogative video della Canon EOS-1D X Mark II: fino a 60p o in Full HD fino a 120p, in creatività slow motion.
EOS-1D X Mark II: niente è meglio! Prestazioni ad alta velocità stabiliscono il primato fotografico della Canon EOS-1D X Mark II, che non teme confronti.
Anni Cinquanta di Angelo Galantini
Avvicinata in un mercatino antiquario, di quelli che sono proliferati sul territorio nazionale, la fotografia che qui presentiamo è... generazionale. Ovviamente, il nostro interesse primario, se non già specifico, dipende ed è dipeso dalla presenza di un apparecchio fotografico su treppiedi, evocativo dell’Ottocento. Quindi, dato il peso dell’anagrafe, abbiamo subito riconosciuto i due soggetti, che danno valore e spessore all’immagine. Non riveliamo ancora, anche se qualcuno può averli già riconosciuti, per raccontare, per l’appunto, l’aneddoto generazionale. Mostrata da due giovani, entrambi figli di direttori di riviste fotografiche con decenni di presenza nell’editoria di settore, ha ottenuto risposte in una qualche misura pertinenti, per quanto lontane dall’essere esatte. In base alla propria visione e intuìto che si trattasse di personaggi televisivi/cinematografici, uno dei due giovani -valutata una certa “antichità” della posa, della stampa e dell’insieme- ha sottolineato l’epoca (anni Cinquanta e contorni): il cane Lassie, serie televisiva dal 1954, sulla base di fortunati film degli anni precedenti. Ma Lassie è un cane Collie, pastore scozzese, e non un lupo. In combinazione, il secondo intervistato ha colpito direttamente sul cane, ipotizzando il lupo tedesco della serie moderna del Commissario Rex. Accostando insieme le due risposte, una corretta per l’epoca, l’altra per la razza del cane, arriviamo alla generazione che può sapere a colpo d’occhio: il cane è Rin Tin Tin, che ha definito la serie televisiva statunitense delle Avventure di Rin Tin Tin, avviata nel 1954 e allungatasi per centosessantaquattro episodi, fino al 1959. Dunque, il piccolo soldato è il caporale Rusty (nell’interpretazione del giovane Lee Aaker, che poi fece poco d’altro, recitando soltanto in serie televisive). Nel telefilm -allora si diceva così-, faceva cast con le caratterizzazioni del tenente Rip Masters (l’attore James Brown) e del sergente Bif O’Hara (l’attore Joe Sawyer), agendo da un fortino di frontiera, in un Far West di cartone e suppellettili.
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
A
YUHU RINTIN!
Fotografia promozionale (da ufficio stampa) della serie televisiva statunitense Le avventure di Rin Tin Tin, avviata nel 1954 e arrivata in Italia a fine decennio. Il cane lupo protagonista, Rin Tin Tin, è con il caporale Rusty; per quanto ci riguarda, il richiamo fotografico è predominante: secondo Ottocento, in tempi di nordisti e nativi americani.
Per la generazione di ragazzi (bambini) della fine degli anni Cinquanta, Rin Tin Tin fu un appuntamento inviolabile di un pomeriggio alla settimana: quando la Rai aveva un solo canale, poi raddoppiato, che cominciava alle cinque del pomeriggio, con la Tv dei ragazzi, per poi cadenzare orari in progressione, fino alla chiusura entro le undici di sera. Si guardava Rin Tin Tin, per poi ripeterne le avventure nei giochi: con archi e frecce auto costruiti e fucili di improbabile manifattura. Per i cavalli dei nordisti non c’erano problemi: bastava accelerare il passo e procedere in cadenza di camminata, simulando l’illusione con la propria sola immaginazione. In questo senso, e riallacciandoci a quanto oggi noi pensiamo della fotografia, quei giochi sono stati in qualche modo anticipatori della concreta ipotesi di illusione che la fotografia stessa evoca con e nel suo linguaggio
e lessico. Allora, sapevamo bene che i nostri giochi erano estranei alla realtà quotidiana che ci circondava, tanto che declinavamo all’imperfetto (io ero, tu eri...); oggi, con analoga consapevolezza, sappiamo altrettanto bene che la fotografia non è realtà, ma sua raffigurazione e rappresentazione. In chiusura, e riprendendo il soggetto della fotografia ritrovata, annotatevi che queste stampe hanno solo valore sentimentale. Non sono mai fotografie d’autore, ma da ufficio stampa delle quali si sono liberati archivi di giornali. Va bene acquistarle per cifre lievi... diffidate di coloro i quali vogliono indorare l’ipotesi vintage, elevando queste copie a considerazioni mercantili e collezionistiche. Rin Tin Tin: richiamo nostalgico, anche se -siamo onesti- la nostalgia non è più quella di un tempo. Ma non lo è neanche la memoria. Yuhu Rintin! ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
UNA MOSSA SBAGLIATA
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Serie televisiva poliziesca degli anni Settanta (addirittura!), quando si diceva “telefilm”, con successivi allunghi avanti nel tempo, Colombo -e poi Il ritorno di Colombo- è stata sistematicamente replicata da numerose emittenti televisive, e ancora oggi si possono incontrare repliche e repliche e repliche nelle programmazioni riempitive. Avviata negli Stati Uniti il 15 settembre 1971, la serie è approdata alla traduzione italiana alla fine del 1974 (Capodistria), per poi essere acquisita da Rai 2, dall’estate 1977. Subito una nota di costume e cinema: il primo episodio, Un giallo da manuale (dall’originario Murder by the Book), è stato diretto da Steven Spielberg, in anticipo sul suo film di esordio ufficiale Duel. A proposito di Colombo -che nelle proprie sceneggiature ha stravolto la consuetudine della cinematografia poliziesca, rivelando subito l’assassino, e, dunque, svolgendosi nella sua individuazione da parte del trasandato tenente della quadra omicidi della polizia di Los Angeles- si possono definire molte particolarità che compongono i tratti evidenti della sua indiscutibile personalità. Anzitutto, tutti gli assassini agiscono per pura avidità: già ricchi di proprio, vogliono proteggere i propri privilegi, piuttosto che acquisirne di altri. In secondo luogo, in diretto subordine, vengono smascherati dall’insospettabile acume di un investigatore di origine italiana, totalmente estraneo al loro mondo elitario. Quindi, la stragrande maggioranza delle prove a loro carico dipende da una condizione “tecnologica” (in riferimento ai tempi), alla quale il tenente Colombo approda con curiosità da ignorante e neofita della materia: segreterie telefoniche, fax, nastri di macchine per scrivere elettriche, telefoni programmabili, umidificatori di vino prezioso... macchine fotografiche (ed è qui che approderemo). Ancora, e poi basta, anche se altro si potrebbe/dovrebbe annotare, la produzione è antecedente all’attuale epoca “politicamente corretta”: in nessun episodio appare un personaggio afroamericano... neanche a pagarli, non ce ne sono proprio!
L’episodio Una mossa sbagliata ( Negative Reaction), della serie televisiva Colombo (secondo della quarta stagione, del 1974), introduce subito l’azione del fotografo omicida, che in camera oscura prepara una richiesta di riscatto per la propria moglie, che intende uccidere: «Signor Galesko, abbiamo sua moglie. Non chiami la polizia. Ci metteremo in contatto». Il coprotagonista -accanto al tenente, caratterizzato da Peter Falkè Dick Van Dyke.
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Cinema levisivamente. Comunque, a certificazione del suo valore, ricordiamo anche ottime regie e altrettanto straordinarie partecipazione di attori-amici di altissimo livello interpretativo.
CON LA FOTOGRAFIA
Personalmente, consideriamo la tranquillità e calma del tenente Colombo -perfettamente caratterizzato da uno straordinario Peter Falk, in una interpretazione che gli calza come un abito su misura- nostra scuola di pensiero. Ma non è questo che conta, quantomeno non qui, quantomeno non ora. Soltanto, replica dopo replica e dopo replica e -ancora- dopo replica, vantiamo una capacità della quale andiamo fieri e orgogliosi: saper individuare l’episodio in trasmissione, entro tre secondi di visione, in qualsiasi momento ci capiti di sintonizzarci te-
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Però, nella concretezza di queste note redazionali (che non ambiscono ad alcun “giornalismo”), non ci occupiamo della sinopsi di questa amata serie televisiva, che compete ad altri e ad altre testate, altrimenti indirizzate. Ovviamente, dal nostro punto di vista, siamo vincolati alla combinazione con la fotografia, che nel caso di Colombo si estende dalla sceneggiatura alla sola scenografia: in ammirevole e apprezzata alternanza di intenti e presenze. Prima ancora di arrivare alla sostanza di un episodio nel quale l’assassino è un fotografo, e che -per questo- si profila come soggetto portante di queste considerazioni, è bene liquidare altri attraversamenti fotografici trasversali. In ordine progressivo, registriamo cinque episodi con presenza fotografica in qualche modo e misura significante. In Mio caro nipote (Short Fuse), del 19 gennaio 1972 (negli Stati Uniti), sesto episodio della prima stagione, diretto da Edward M. Abroms, l’assassino Roger Stanford, interpretato da Roddy McDowall, è un chimico appassionato di fotografia. Uccide lo zio alterando una sua scatola di sigari, che certamente verrà aperta al momento opportuno, innescando un’esplosione. Per tutto l’episodio, ha una Nikon F al collo, e continua a scattare fotografie. Niente di più, né diverso, con siparietto anche in camera oscura. In Scacco matto a Scotland Yard (Dagger of the Mind ), del 26 novembre 1972, quarto episodio della seconda stagione, diretto da Richard Quine, il tenente Colombo, in visita alla polizia di Londra, è turista compulsivo con una Argus C, probabilmente una C2 o C3, prestatagli dall’immancabile cugino (attenzione: è macchina fotografica analoga alla Argus C2, forse, usata dalla giornalista Polly Perkins, interpretata dall’attrice Gwyneth Paltrow, in Sky Captain and the World of Tomorrow, di Kerry Conran, del 2004 [ FOTOgraphia, dicembre 2005], e all’altrettanto Argus che compare nella scenografia del recente Carol, di Todd Haynes, del 2015).
(a sinistra) Portata l’opprimente moglie Frances in un casolare in vendita, il fotografo Paul Galesko prepara la scena del rapimento: d’obbligo la polaroid con inquadrato l’orologio da tavolo fissato alle quattordici, che gli fornirà un alibi temporale. Per la cronaca: con Polaroid Model 800 e rollfilm Type 40.
(pagina accanto) Peter Falk negli inconfondibili panni del tenente Colombo, fortunata serie televisiva avviata nel lontano 1971, con un primo episodio Murder by the Book, in Italia Un giallo da manuale, diretto da Steven Spielberg. Questo ritratto è uno degli ufficiali realizzati da Douglas Kirkland, che ne ha cortesemente concesso l’uso.
Insoddisfatto della prima polaroid, Paul Galesko ne esegue una seconda, che invierà a se stesso con la richiesta di riscatto; quindi, uccide la moglie, raccoglie la copia polaroid di scarto e la getta nel caminetto spento.
Cinema PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO
L’estate scorsa, la televisione italiana ci ha offerto un dono inconsueto. Nelle sere di sabato e di domenica, alle 19,35, cominciava la proiezione di un film della serie del Tenente Colombo, che accompagna da molti anni la nostra vita. Confesso di avere una passione infantile per le vicende del piccolo tenente spiegazzato: passione che Federico Fellini condivideva. Qualsiasi cosa accadesse, qualsiasi invito allettante mi venisse rivolto, non abbandonavo la poltrona o la seggiola davanti alla televisione, sebbene avessi visto dieci volte quel film e mi ricordassi quasi a memoria ogni particolare. [...] Tutti conoscono la trovata fondamentale dell’intera serie. Gli sceneggiatori del Tenente Colombo, tra i quali si nasconde una mente sottilissima, hanno capovolto la struttura del giallo tradizionale. Se in un testo di Conan Doyle o di Agatha Christie o su Nero Wolfe la scoperta del colpevole avviene puntualmente alla fine del libro, qui, pochi minuti dopo l’inizio, il mistero è già rivelato: sappiamo chi è la vittima e chi il colpevole, e per quali ragioni e in quali circostanze la vittima è stata uccisa. Suppongo che, nei primi tempi, questo capovolgimento abbia turbato il mondo degli appassionati. Se il mistero era rivelato subito, rischiava di venire abolito. Ma la straordinaria bravura degli sceneggiatori del Tenente Colombo, ha fatto sì che questo pericolo venisse cancellato. Non ho quasi mai seguito un giallo con tanta partecipazione e tensione. Le vicende del tenente Colombo, il suo sospetto improvviso, i minimi indizi, le oscure certezze, le nebbie, le sorprese, le distrazioni, le convinzioni rafforzate, i suoi inganni, le sue finte ingenuità, le sue astuzie, le sue truffe, producono a volte una suspense quasi insostenibile. Nei gialli di tipo “matematico”, ai quali la serie del Tenente Colombo appartiene, il protagonista è di solito avvolto da un profumo alto-borghese, o intellettuale, o lievemente snobistico. Coltissimo e squisitissimo, Sherlock Holmes ha modi alla Oscar Wilde. Anche in Miss Marple, per non dire in Hercule Poirot, si avverte una buona famiglia e ottimi studi. Invece, il tenente Colombo, italo-americano, fa parte di una razza lungamente vilipesa e talvolta calunniata. La sua famiglia è modestissima: ha frequentato una scuola di infimo ordine; la sua cultura deriva dalla televisione popolare. Ha visto qualche musical con un biglietto omaggio. I ricchi protagonisti-colpevoli guardano con disprezzo il suo impermeabile stazzonato, a volte sovrapposto a un mediocre vestito da sera, la camicia e i vestiti di cattiva qualità, la cravatta sfilacciata e male annodata [...], le scarpe sformate, la vecchia automobile scoppiettante, il cane sgraziato, la passione per il popolarissimo chili, l’incapacità di bere e mangiare con eleganza. Appena egli entra in una casa ricca o nel negozio di un grande sarto, rivela la sua natura di paria. I salotti, gli specchi, le porte decorate, gli armadi sontuosi, gli enormi mazzi di fiori o l’enorme apparecchio televisivo, l’educata pelouse suscitano la sua candida ammirazione infantile, a volte ostentata con nascosta ironia. Gli appassionati dei gialli sostengono che uno scrittore o un regista non deve mai ripetere le proprie trovate perché annoia il pubblico. Anche qui, l’occulto responsabile della serie del Tenente Colombo ha capovolto ogni abitudine. Tutto, nella figura del piccolo tenente, è ripetizione. In ogni film, ripete i suoi tic. Fa la parte del tonto, finge di non capire, è troppo umile, permette che il ricco colpevole lo disprezzi o lo insulti, si meraviglia, guida la solita vecchissima macchina, si occupa con amore del grosso cane, ammira sciocchi libri alla moda, segue i successi musicali, allude di continuo a una signora Colombo che non vedremo mai,
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finge continuamente di avere dimenticato una domanda (la più importante), per ricomparire subito dopo dietro una porta suscitando sospetto e inquietudine, fruga nelle tasche alla ricerca di un importantissimo biglietto perduto... [...] Nulla, in lui, sembra imprevisto. Ma questa serie incessante di ripetizioni è divertentissima. Ci affezioniamo alle sue abitudini. Se osasse cambiare impermeabile, ci offenderemmo, come se ognuno dei suoi tic contenesse un segreto straordinario. Malgrado le apparenze, il tenente Colombo è un genio. Cinque minuti dopo essere arrivato sulla scena, comprende chi è il colpevole. Parlare di istinto, o di abilità o di consuetudine poliziesca, è troppo poco. Egli possiede una specie di intuito medianico, che gli rivela l’assassino. [...] Quando ha accumulato una quantità sufficiente di dettagli (qualche volta basta uno solo), il colpevole gli cade tra le braccia, come se non potesse resistere al fascino del suo seduttore. Il tenente Colombo sembra buonissimo. Non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano o lo trattano male. Non si offende. Non alza la voce. Non si dà arie. Se cattura il colpevole, lo fa per obbedire al suo dovere di poliziotto [...]. Quanto alla sua vita famigliare, di cui non sappiamo quasi nulla, immaginiamo che sia un marito eccellente e pieno d’attenzioni. Forse è un po’ succube della moglie. Con la sua vasta parentela italo-americana, è certo tollerantissimo. Eppure, qualcosa ci induce in sospetto. Con i suoi piccoli tocchi, con le sue microscopiche invenzioni egli irretisce i colpevoli. E chi irretisce, se dobbiamo ascoltare il nostro sentimento profondo, non è mai del tutto innocente. Così, alla fine, abbiamo la sensazione che il colpevole, per quanto coperto di crimini, sia la vittima: la mosca o il topo, caduti nella rete del ragno-Colombo o nelle grinfie del gatto-Colombo. Se ci identifichiamo con lui, sia pure con cautela, affondiamo in quella parte occulta della nostra anima, che ha bisogno del male, coltiva il male, e mentre lo circuisce e lo avvolge, si immerge nella tenebra dell’universo. Sembra contento di sé. È povero, ma non gli dispiace di esserlo. Non lo sorprendiamo mai a sognare promozioni: se diventasse colonnello di polizia, dovrebbe abbandonare le sue care indagini, con tutti quei bellissimi particolari, dove ficca voluttuosamente le mani. È tenente, e vuole restare tenente per tutta la vita. Non desidera possedere le ricche case e i giardini che intravede, ogni volta che il delitto lo introduce nel mondo della ricchezza: l’unico dove il delitto prospera con gioia ed orgoglio. Quando va nei ristoranti alla moda, con il suo patetico cravattino a farfalla, rimpiange le modeste trattorie, i bar, il piatto di chili e le uova sode. Nessuno potrebbe attribuirgli melanconie e inquietudini. Forse non prova sentimenti: forse la moglie, che non si vede mai, non esiste affatto [...]. Davanti al tenente Colombo, tutti i colpevoli, persino i più astuti e malvagi, sono indifesi [...]. Se accettano il suo gioco teatrale, se credono che egli sia ingenuo come finge di essere, oppure si rivolgono alla autorità suprema [...], allora sono perduti senza rimedio. Le fauci apertissime del gatto-Colombo li attendono. Ma non sono sicuri nemmeno se comprendono che è un avversario pericolosissimo. Come salvarsi da lui? Come proteggersi da qualcuno che combina l’istinto medianico con la raffinatezza razionale, che gioca con la sopraragione, o l’antiragione, e la ragione? Il povero colpevole si nasconde in un angolo; e finalmente capisce che il piccolo elfo italiano ha giocato con lui, con inimitabile grazia, la parte terribile del destino. Pietro Citati (in La Repubblica, 9 gennaio 2008)
Cinema Per certi versi è “fotografico” l’alibi dell’assassino Hugh Creighton, interpretato dal bravo Dabney Coleman, che ha ucciso la moglie, ex cantante rock, per gelosia: sua maschera fotografica sul volto della segretaria complice, che si fa riprendere da un autovelox all’ora dell’omicidio. Terzo episodio della decima stagione, quando ormai la serie era Il ritorno di Colombo (24 aprile 1991, negli Stati Uniti), che dall’originale Columbo and the Murder of a Rock Star è diventato Colonna sonora con omicidio, in Italia. La scenografia del primo episodio dell’undicesima stagione, l’ultima (e poi ci sono anche episodi speciali), è attraversata da una reflex Pentax, di proprietà del giovane Freddy Brower, misteriosamente ucciso. Il tenente Colombo sospetta lo zio Leon Lamarr (l’eclettico attore Rip Torn), ma gli manca l’elemento decisivo, che provi che l’omicidio è stato perpetuato per impossessarsi del biglietto vincente di una lotteria plurimilionaria: ben trenta milioni di dollari, che Leon Lamarr reclama per se stesso. In casa degli amici che celebrano lo scomparso, in una serata evocativa, a Colombo viene richiesta una fotoricordo, da realizzare con la Pentax di Freddy. Dovrebbe solo inquadrare e scattare, ma l’occhio gli cade sulla scala dei diaframmi, incisa sull’obiettivo: capisce che il biglietto vincente della lotteria apparteneva a Freddy, perché i numeri giocati sono stati ricavati... dalla sequenza di cifre 2,8 4 5,6 11 16! In originale, Death Hits the Jackpot (negli Stati Uniti, il 15 dicembre 1991); in Italia, Misteriose impronte digitali. Infine, c’è un poco di fotografia anche in Non c’è tempo per morire (dall’originario No Time to Die, negli Stati Uniti il 15 marzo 1992; secondo episodio dell’undicesima stagione), sceneggiato da un racconto di Evan Hunter, pseudonimo di Salvatore Albert Lombino, che con un altro suo pseudonimo, Ed McBain, ha firmato numerosi romanzi polizieschi (tra i quali la serie dell’Ottantasettesimo distretto, modello di tutti i film e telefilm ambientati in una stazione di polizia) e ha scritto eccellenti sceneggiature cinematografiche, tra le quali Gli uccelli, di Alfred Hitchcock, del 1963. Nulla di particolare, se non che il rapitore della nipote di Colombo, durante il suo matrimonio, è il fotografo
della cerimonia: Alex Varrick, interpretato dall’attore Daniel Davis. Tutto qui.
GIÀ, MOSSA SBAGLIATA Per quanto trasversale anche ad altre sceneggiature e scenografie di Colombo -come abbiamo appena censito-, la fotografia è autentica protagonista di Una mossa sbagliata (Negative Reaction), del 1974, secondo episodio della quarta stagione, che si è altresì aggiudicata l’Emmy Award 1975, ventiseiesimo dall’origine. Diretta da Alf Kjellin, su sceneggiatura di Peter S. Fischer, la vicenda verte attorno l’omicidio commesso da un fotografo professionista: Paul Galesko, interpretato dal bravo Dick Van Dyke, che uccide la propria moglie Frances, dopo averne inscenato un finto rapimento. La mossa sbagliata del titolo, corrispondente all’originaria Negative Reaction, è giusto quella che commette l’assassino, che si smaschera e rivela alla fine dell’avventura, quando, tra tanti reperti di prova archiviati nell’apposita sala, individua e indica la macchina fotografica con la quale è stata scattata la fotografia della donna rapita. Per la cronaca, si tratta di una ele-
Due siparietti fotografici: la sala di posa di Paul Galesko e lo stesso fotografo in una sessione fotografica in esterni, con Nikon F Photomic.
Il tenente Colombo contesta l’alibi di Paul Galesko, fortemente sospettato per l’uccisione della moglie Frances, verso il quale l’indagine è avviata proprio dalla polaroid scartata, trovata sul luogo del delitto: l’orologio non segna le due del pomeriggio, ma le dieci del mattino. Ovviamente, Colombo ha invertito destra-sinistra l’ingrandimento dalla polaroid originaria.
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Cinema gante Polaroid Model 800 delle origini, erede della genìa avviata con la prima Polaroid 95, per rollfilm Type 40, in produzione dal 1957 al 1962. Ma non è questo il punto, quantomeno oggi, quantomeno qui. Invece, affondando fino ad altra pro-
fondità (di pensiero e concetto), oggi sottolineiamo qualcosa di diverso, che esula dalla combinazione cinematografica con apparecchi fotografici, che ha caratterizzato, fino a definirle, altre precedenti considerazioni in merito, puntualmente presentate su queste
Curiosità e coincidenza singolare. Nel 1974 dell’episodio Una mossa sbagliata ( Negative Reaction) della serie televisiva Colombo, il coprotagonista Dick Van Dyke, nei panni del fotografo Paul Galesko, che viene smascherato per una sua polaroid, era attore-testimonial degli apparecchi per fotografia a sviluppo immediato Kodak Instant. A complemento, ricordiamo che lo stesso Dick Van Dyke (che ha compiuto novant’anni lo scorso tredici dicembre), è professionalmente vincolato all’interpretazione del leggendario spazzacamino Bert del cinematografico Mary Poppins, del 1964, accanto a Julie Andrews.
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Messo alle strette dal tenente Colombo, Paul Galesko rivendica che la prova contro di lui altro non è che un ingrandimento rovesciato destra-sinistra: «Prenda la foto originale e le confronti. Si accorgerà dell’errore che ha fatto». «L’originale? -risponde ColomboBeh... purtroppo c’è un guaio, perché mentre ero lì nella camera oscura, e lavoravo col tecnico del laboratorio, cercando di aiutarlo, ho fatto cadere per sbaglio la foto in una bacinella di acido. E, così, non c’è più l’originale». Paul Galesko va al contrattacco e prende la Polaroid Model 800 tra una serie di apparecchi analoghi conservati nella stanza dei reperti: «Mi spiace deludervi, ma la prova della mia innocenza c’è. Nonostante tutto, non c’è bisogno della foto originaria: il negativo è sufficiente a dimostrarlo. Guardi il negativo nella parte posteriore della macchina e se ne accorgerà». Eccola qui, la mossa sbagliata: «Lei si è autoaccusato, scegliendo quella macchina -conclude Colombo-. Perché è la macchina con la quale è stata fatta la fotografia di sua moglie, ma lei non poteva assolutamente saperlo. Non poteva sapere che il negativo si doveva trovare nel retro di questo apparecchio, se non avesse fatto lei stesso la foto».
pagine e imperiosamente riunite in avvincenti mostre a tema, tutte a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini (responsabili anche delle corrispondenti segnalazioni redazionali di FOTOgraphia); tra queste, ne ricordiamo ancora tre in particolare: Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, alla Galleria Grazia Neri, di Milano, all’inizio del 2007 (FOTOgraphia, dicembre 2006 e maggio 2007); Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, al LuccaDigitalPhotoFest 2008 ( FOTOgraphia, novembre 2008); e la selezione tematica Nikon sul grande schermo, che il distributore Nital ha allestito nel proprio stand al PhotoShow della primavera 2009 ( FOTOgraphia, marzo 2009). Cosa porta il tenente Colombo sulle tracce del marito assassino? Il fatto che sul luogo del delitto recupera una polaroid di scarto, alla quale ha poi fatto seguito quella che ha accompagnato la falsa richiesta di riscatto. Ancora: cosa lo insospettisce e indirizza? Il fatto che questa precedente polaroid è stata scartata perché imperfetta nell’inquadratura e composizione, come peraltro sottolinea lo stesso fotografo-assassino, cadendo nella prima delle numerose trappole che l’imperturbabile tenente confeziona a misura di presunzione e insolente arroganza (da professionista). Non un rapitore, ma un fotografo, annota Colombo, può avere una tale accortezza, un così alto amor proprio. Ed ecco qui, la nostra riflessione. La sceneggiatura fa declinare una osservazione fotografica a un tempo consistente e profonda a un “personaggio comune”, non a un esperto di fotografia. Questa combinazione è impensabile in una sceneggiatura italiana che, traendo altrettanta ispirazione dalla vita quotidiana, non approderebbe mai a tanto. Alla resa dei conti, l’inganno del tenente Colombo, che induce l’assassino Paul Galesko (nell’interpretazione di Dick Van Dyke), si basa proprio su una sua consapevole alterazione di un ingrandimento fotografico rovesciato destra-sinistra, che fa indicare all’orologio nell’inquadratura un’ora diversa (speculare), per la quale non c’è alibi... e poi, per l’appunto, la mossa sbagliata, per recuperare il negativo-matrice dal dorso della Polaroid Model 800 custodita, insieme a tante altre simili, nella stanza dei reperti. ❖
AL VERTICE
All’Assemblea Generale TIPA 2016, a San Francisco, in California, negli Stati Uniti, durante la quale sono stati assegnati i TIPA Awards 2016, hanno partecipato rappresentanti di ventisette riviste internazionali di fotografia aderenti alla Technical Image Press Association (TIPA). Tradizionale, il gruppo fotografico (senza ordine rispetto l’immagine, ma in ordine per nazioni): Paul Burrows ( Camera, Australia), Mozart Mesquita ( FHOX, Basile), Guy Langevin ( Photo Life, Canada), Zheng Yingnan ( Chinese Photography, Cina), Jean-Christophe Béchet ( Fisheye, Francia), Renaud Marot ( Réponses Photo, Francia), Holger Hagedorn ( Foto Hits, Germania), Henning Gerwers ( Inpho Imaging & Business, Germania), Thomas Gerwers ( ProfiFoto, Germania), Wolfgang Heinen ( Photo Presse, Germania),
Frank Späth ( Photographie, Germania), Makoto Suzuki (Camera Journal Press Club, Giappone), Dimitrios Tzimas ( Photo Business, Grecia), Panagiotis Kaldis ( Photographos, Grecia), Shridhar Kunte ( Better Photography, India), Jonathan Adams ( Digital Photo, Inghilterra), Roger Payne ( Professional Photographer, Inghilterra), Ben Hawkins ( Practical Photography, Inghilterra), Giulio Forti ( Fotografia Reflex, Italia), Maurizio Rebuzzini ( FOTOgraphia, Italia), Johan Elzenga ( Fotografie e FotoVisie, Olanda), Daimon Xanthopoulos ( P/F, Olanda), Alfonso Del Barrio ( FV/Foto-Video Actualidad, Spagna), Louise Donald ( PiX Magazine, Sudafrica), George Schaub ( Shutterbug, Usa) e András Bánkuti ( Digitális Fotó Magazin, Ungheria).
Assegnati dall’autorevole giuria formata da direttori e redattori di ventisette riviste internazionali di fotografia, aderenti alla accreditata Technical Image Press Association, gli ambìti e prestigiosi TIPA Awards 2016 ribadiscono e confermano il proprio ruolo, che da ventisei anni a questa parte, dal 1991 di origine, riconosce e certifica i migliori prodotti fotografici presentati sul mercato durante la stagione precedente. Scomposti in quaranta categorie di riferimento, i premi sottolineano l’attualità tecnologica del presente, in proiezione futuribile 24
TECNOLOGICO di Antonio Bordoni
ome sempre annotiamo in presentazione e commento dell’assegnazione annuale dei prestigiosi e ambìti TIPA Awards, in trasversalità di tesi, l’insieme dei singoli premi, come anche le loro personalità individuali, identificano componenti essenziali e discriminanti dell’attuale panorama tecnico-commerciale della fotografia. Di fatto, e ufficialmente, i TIPA Awards accertano i migliori prodotti fotografici, tra quanti sono arrivati sul mercato nell’arco dell’ultimo anno. Allo stesso momento, andando oltre la sola elencazione dei TIPA Awards, che pure ha senso e significato (in sintesi, a pagina 26), si ricava un autentico specchio dei tempi tecnologici della fotografia. Per quanto sia legittima, la visione e minuta moltiplicazione e scomposizione delle categorie sta a certificare, non solo suggerire, la radicale trasformazione della gestione fotografica individuale, sia professionale sia non professionale, che oggi si allarga a tutto il processo nel proprio insieme, più e diversamente di quanto non sia mai successo con la consecuzione della pellicola e relativo trattamento. Dunque, al di là di qualsivoglia filosofia di fondo, sollecitata proprio da momenti particolari e caratteristici, la qualificata e autorevole sintesi dei TIPA Awards rappresenta un concentrato momento focale della tecnologia fotografica attuale e futuribile. Per propria natura e personalità professionale, i direttori e redattori delle ventisette riviste fotografiche internazionali che compongono la qualificata e autorevole Technical Image Press Association (TIPA) -alla quale, nel frattempo, hanno aderito altre tre testate (due statunitensi, una canadese)- sono allo stesso momento
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AWARDS 2016
al vertice e alla coda del mercato. Al vertice, quando e per quanto debbono intuire le evoluzioni tecnologiche in divenire; alla coda, quando e per quanto registrano, annotandole e motivandole, le personalità del mercato: comunque questo si esprima. Dunque, per conseguenza, i qualificati TIPA Awards sono frutto di una competente analisi complessiva del mercato fotografico. Alla resa dei conti, la combinazione di riviste fotografiche tra loro diverse ed eterogenee, sia per intendimento e finalità, sia per osservazione geografica del mercato (quindici nazioni, cinque continenti), finisce per rappresentare una adeguata media planetaria. Ciascuna rivista è portavoce di propri punti di vista e osservazioni nazionali, oltre che di realtà commerciali determinate da particolari equilibri geografici e sociali; quindi, nel proprio insieme, la valutazione TIPA esprime sempre e comunque la più concreta e realistica essenza del mercato fotografico mondiale.
TIPA AWARDS 2016 / 1 Da cui e per cui, in ottemperanza con l’identificazione dei tempi, in rapida trasformazione tecnologica, che anno dopo anno impone richiami commerciali adeguati, la giuria dei TIPA Awards 2016 -alla quale hanno partecipato i direttori delle riviste italiane Fotografia Reflex e FOTOgraphia, nelle persone di Giulio Forti e Maurizio Rebuzzini- sono stati scanditi da una cadenza che rileva, rivela e sottolinea concetti di stretta attualità. Con ordine, le nostre considerazioni al proposito: quaranta premi attribuiti a ventuno aziende del settore. Considerata l’efficace diversificazione dell’attuale offerta di reflex (digitali... non serve più la specifica, ma: DSLR / Digital Single-Lens Reflex), in attenzione tecnico-commerciale adeguata, sono state individuate sei categorie entro le quali collocare assegnazioni che riflettano personalità significative e indicative per il pubblico potenziale. Allo stesso momento, la minuziosa scomposizione sottolinea anche (e, forse, soprattutto) prerogative di utilizzo che deliberano individualità, carattere, soggettività e particolarità certificate. Ovviamente, entrando in merito, non è il caso delle categorie, diciamo così, inevitabili, che si ripropongono per se stesse, anno dopo anno: soprattutto, Best DSLR Entry Level (Sony α68). Rispetto lo scorso anno, in occasione dei precedenti TIPA Awards 2015, del venticinquesimo [FOTOgraphia, giugno 2015], un doveroso raddoppio: Best APS-C DSLR Expert (Nikon D500) e Best Full Frame DSLR Expert (Pentax K-1), per sottolineare come ormai la quantità/qualità di reflex con diverso sensore di acquisizione digitale di immagini esiga ed imponga proprio considerazioni autonome tra l’un indirizzo tecnico e l’altro. Ancora di più e ancora più adeguatamente, non si possono più accomunare tutte le reflex professionali in un contenitore unico e inviolabile, ma sono richiesti e dovuti passi cadenzati che -in ripetizione d’obbligo- «deliberino individualità, carattere, soggettività e particolarità certificate». Da cui, in tre cadenze distinte: Best DSLR Professional / Action (Nikon D5), Best DSLR Professional / High Resolution (Canon Eos 5DS R) e Best Photo/Video Professional Camera (Canon Eos-1D X Mark II). Ancora in ripetizione, le suddivisioni in cadenza di tre reflex professionali -Action, High Resolution e Photo/Video Camera- specificano una scomposizione concettuale di impiego e utilizzo che può indirizzare le scelte individuali di acquisto.
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A queste reflex derivate dalla tecnologia 35mm di riferimento e prosecuzione ideale, fa quindi da legittimo corollario la Best Medium Format Camera (Phase One XF 100MP), che completa il panorama della fotografia professionale conservando e mantenendo quell’indirizzo medio formato, con sensore di acquisizione digitale in conseguenza e allineamento, che ha sempre stabilito propri valori e meriti autonomi: diversi dall’agilità e praticità della fotografia dinamica e sul campo, ma di opportuna personalità dove e quando la fotografia in sala di posa conserva il proprio carattere... senza tempo. Prosecuzione verso gli obiettivi, con cinque passi per le reflex attuali: Best Entry Level DSLR Lens (Tamron 18-200mm f/3,5-6,3 Di II VC), Best DSLR Telephoto Zoom Lens (Sigma 50-100mm f/1,8 DC HSM / Art), Best DSLR Wide Angle Zoom Lens (Sigma 24-35mm f/2 DG HSM / Art), Best DSLR Prime Lens (Tamron SP 35mm f/1,8 Di VC USD) e Best Professional DSLR Lens (Sigma 20mm f/1,4 DG HSM / Art). Anche qui, considerazioni complementari.
Anzitutto, rileviamo la presenza di soli obiettivi universali, laddove, in precedenza, nei primi venticinque anni di TIPA Awards, non erano mai mancati obiettivi dei sistemi reflex... a ciascuno, il proprio. Soprattutto, questa condizione sottolinea come e quanto i produttori di obiettivi universali stiano imponendo la qualità formale dei propri progetti: un tempo a sola “imitazione” delle produzioni statutarie, oggi con cammino autonomo e interpretazioni ottiche di pregio e prestigio, sia nell’offerta di focali, sia nelle prestazioni fotografiche. Quindi, nello specifico dei TIPA Awards 2016, è necessario far notare il doppio passo degli zoom, con due categorie che si completano l’un l’altra: una ad escursione grandangolare, l’altra con focali tele. Bella idea, che affronta lo spinoso argomento della variazione focale con concentrazione e mira opportune, in due categorie che poco hanno in comune tra loro, oltre l’efficacia formale delle proprie rispettive e relative prestazioni fotografiche. (continua a pagina 31)
TIPA AWARDS 2016: PREMI E VINCITORI
DSLR Entry Level ..................................................................... Sony α68 APS-C DSLR Expert .......................................................... Nikon D500 Full Frame DSLR Expert ....................................................... Pentax K-1 DSLR Professional / Action ..................................................... Nikon D5 DSLR Professional / High Resolution ...................... Canon Eos 5DS R Photo/Video Professional Camera .............. Canon Eos-1D X Mark II Entry Level DSLR Lens ........ Tamron 18-200mm f/3,5-6,3 Di II VC DSLR Telephoto Zoom Lens .......................... Sigma 50-100mm f/1,8 DC HSM - Art DSLR Wide Angle Zoom Lens ............................ Sigma 24-35mm f/2 DG HSM - Art DSLR Prime Lens ....................... Tamron SP 35mm f/1,8 Di VC USD Professional DSLR Lens .............. Sigma 20mm f/1,4 DG HSM - Art Medium Format Camera .................................... Phase One XF 100MP Mirrorless CSC Entry Level ............................................ Fujifilm X-T10 Mirrorless CSC Advanced ................ Olympus OM-D E-M10 Mark II Mirrorless CSC Expert .................................................. Fujifilm X-Pro2 Mirrorless CSC Professional ............................................... Sony α7R II CSC Entry Level Lens ........... Panasonic Lumix G 25mm f/1,7 Asph CSC Telephoto Zoom Lens ............................ Fujinon XF 100-400mm f/4,5-5,6 R LM OIS WR CSC Wide Angle Zoom Lens ................ Olympus M.Zuiko Digital ED 7-14mm f/2,8 Pro CSC Prime Lens ............................................ Sony FE 85mm f/1,4 GM Easy Compact Camera ........................................... Canon Ixus 285 HS Expert Compact Camera ................................. Canon PowerShot G5 X Full Frame Compact Camera ...................... Sony Cyber-shot RX1R II Superzoom Camera .............................. Panasonic Lumix DMC-FZ300 Rugged Camera .................................. Olympus Stylus Tough TG-870 Premium Camera ........................................................................ Leica SL Camcorder ......................................................... Panasonic HC-WXF991 Photo Printer ....................................... Canon imagePrograf Pro-1000 Inkjet Photo Paper .............. Ilford Galerie Prestige Gold Fibre Gloss Imaging Software .................................................. Serif Affinity Photo Tripod ................................................. Manfrotto 190Go! Carbon Fiber Storage Media .................................... Toshiba TransferJet SDHC Card Professional Flash System ......... Phottix Indra360 TTL Studio Light Portable Flash ........................................................................ Nissin i60A Photo Monitor ............................................................. BenQ SW2700PT Mobile Imaging Device ............................................................. DxO One Camera Drone ............................................. Yuneec Typhoon Q500 4K Actioncam ..................................................................... Sony HDR-AS50 Imaging Innovation .................................................. Nikon SnapBridge Design ................................................................................. Ricoh Theta S
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BenQ SW2700PT ............................................................. Photo Monitor Canon Eos 5DS R ...................... DSLR Professional / High Resolution Canon Eos-1D X Mark II .............. Photo/Video Professional Camera Canon Ixus 285 HS ........................................... Easy Compact Camera Canon PowerShot G5 X ................................ Expert Compact Camera Canon imagePrograf Pro-1000 ...................................... Photo Printer DxO One ............................................................. Mobile Imaging Device Fujifilm X-Pro2 .................................................. Mirrorless CSC Expert Fujifilm X-T10 ........................................... Mirrorless CSC Entry Level Fujinon XF 100-400mm f/4,5-5,6 R LM OIS WR ...................... CSC Telephoto Zoom Lens Ilford Galerie Prestige Gold Fibre Gloss .............. Inkjet Photo Paper Leica SL ........................................................................ Premium Camera Manfrotto 190Go! Carbon Fiber ................................................. Tripod Nikon D5 ..................................................... DSLR Professional / Action Nikon D500 ............................................................. APS-C DSLR Expert Nikon SnapBridge .................................................. Imaging Innovation Nissin i60A ....................................................................... Portable Flash Olympus OM-D E-M10 Mark II ................ Mirrorless CSC Advanced Olympus M.Zuiko Digital ED 7-14mm f/2,8 Pro ........................... CSC Wide Angle Zoom Lens Olympus Stylus Tough TG-870 .................................. Rugged Camera Panasonic Lumix DMC-FZ300 ............................. Superzoom Camera Panasonic Lumix G 25mm f/1,7 Asph ........... CSC Entry Level Lens Panasonic HC-WXF991 ......................................................... Camcorder Pentax K-1 ....................................................... Full Frame DSLR Expert Phase One XF 100MP .................................... Medium Format Camera Phottix Indra360 TTL Studio Light ......... Professional Flash System Ricoh Theta S ................................................................................. Design Serif Affinity Photo .................................................. Imaging Software Sigma 24-35mm f/2 DG HSM - Art ................................ DSLR Wide Angle Zoom Lens Sigma 50-100mm f/1,8 DC HSM - Art .................................... DSLR Telephoto Zoom Lens Sigma 20mm f/1,4 DG HSM - Art .............. Professional DSLR Lens Sony α68 ..................................................................... DSLR Entry Level Sony α7R II ............................................... Mirrorless CSC Professional Sony FE 85mm f/1,4 GM ............................................ CSC Prime Lens Sony Cyber-shot RX1R II ...................... Full Frame Compact Camera Sony HDR-AS50 .................................................................... Actioncam Tamron 18-200mm f/3,5-6,3 Di II VC ........ Entry Level DSLR Lens Tamron SP 35mm f/1,8 Di VC USD ....................... DSLR Prime Lens Toshiba TransferJet SDHC Card .................................... Storage Media Yuneec Typhoon Q500 4K ............................................. Camera Drone
TIPA AWARDS 2016 CANON BEST DSLR PROFESSIONAL / HIGH RESOLUTION: CANON EOS 5DS R Rivaleggiando con la risoluzione delle configurazioni digitali “medio formato”, il sensore full frame Cmos da 50,6 Megapixel della Canon Eos 5DS R (e Eos 5DS) fornisce fotografie a cinque fotogrammi al secondo a piena risoluzione e video Full HD 1080p a 30 fotogrammi al secondo. Le due reflex sono dotate di processore Dual Digic 6 e di un sistema di controllo delle vibrazioni dello specchio di nuova concezione, per limitare ulteriormente le vibrazioni. Monitor LCD ClearView II da 3,2 pollici e 1,04 milioni di pixel, con copertura di circa il cento percento del campo inquadrato, e sensore di misurazione RGB-IR da 150.000 pixel. Sensore AF reticolare ad alta densità con sessantuno punti iTR Canon, che utilizza le informazioni fornite dal sensore di misurazione.
BEST EASY COMPACT CAMERA: CANON IXUS 285 HS Canon continua a produrre e offrire compatte tascabili full optional, che includono molte più modalità e una qualità fotografica più elevata rispetto agli smartphone. L’Ixus 285 HS vanta un monitor LCD da tre pollici e uno zoom ottico 12x, con stabilizzatore di immagine incorporato. È facile restare collegati, con il pulsante dedicato Wi-Fi e NFC. Il sensore Cmos da 20,2 Megapixel e il processore di immagine Digic 4+ garantiscono un’eccellente qualità, anche in condizioni di scarsa luminosità. Inoltre, è in grado di riprendere video Full HD 1080p, con la possibilità di creare “in camera” un filmato con i momenti salienti.
BEST PHOTO PRINTER: CANON IMAGEPROGRAF PRO-1000 Combinando la praticità di una stampante desktop a fogli singoli, fino al formato A2, con caratteristiche dei modelli professionali Canon di fascia alta, imagePrograf Pro-1000 utilizza inchiostri a dodici colori Lucia Pro (più Chroma Optimizer). Gli inchiostri sono disposti tramite una testina di stampa Fine, con sistema di distribuzione tubolare, che si traduce in una maggiore velocità di stampa e risultati stabili di alta qualità. Grazie a un inchiostro nero fotografico, di nuova formulazione, sia il nero fotografico sia il nero opaco hanno canali indipendenti; di conseguenza, non è necessario cambiare l’inchiostro quando seleziona il tipo di carta (di supporto).
BEST EXPERT COMPACT CAMERA: CANON POWERSHOT G5 X G5 X è una compatta da 20,2 Megapixel, con sensore Cmos ad alta sensibilità da un pollice e processore Digic 6, capace di fornire immagini fotografiche a quasi sei fotogrammi al secondo e video Full HD. Lo zoom integrato 24-100mm (equivalente) ha un’apertura massima di f/1,8, che si riduce solo a f/2,8 alla massima focale tele, un diaframma a nove lamelle e messa a fuoco minima da circa 5cm. Il mirino elettronico EVF, da 2,36 milioni di pixel e copertura del cento percento, ha una frequenza di refresh fino a centoventi fotogrammi al secondo. Un sensore incorporato seleziona automaticamente l’EVF o il touchscreen LCD da tre pollici ad angolazione variabile.
BEST PHOTO/VIDEO PROFESSIONAL CAMERA: CANON EOS-1D X MARK II Con il nuovo sensore Cmos full frame, da 20,2 Megapixel, la Eos-1D X Mark II offre una velocità di scatto continuo fino a quattordici fotogrammi al secondo e fino a sedici fotogrammi al secondo in modalità Live View. Il processore Dual Digic 6+ assicura un trasferimento ad alta velocità: fino a centosettanta immagini grezze Raw e una quantità illimitata di file compressi Jpeg per raffica. La reflex è anche in grado di riprendere video 4K DCI 60p e Full HD 120p con Dual Pixel Cmos AF. Le notevoli prestazioni della messa a fuoco sono state perfezionate grazie al nuovo sistema a sessantuno punti AF e all’algoritmo AF predittivo AI Servo III+ potenziato, che garantisce una migliore precisione.
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TIPA AWARDS 2016 NIKON BEST DSLR PROFESSIONAL / ACTION: NIKON D5 Il processore Nikon Expeed 5 della D5 garantisce basso rumore, ma alta velocità di elaborazione necessaria per il video 4K UHD e per immagini ad alta definizione. La reflex può scattare fino a dodici fotogrammi al secondo in AE e AF, con un buffer potente in grado di acquisire fino a duecento fotogrammi di dati grezzi Raw (Nef) a 14-bit, senza perdita di file. La D5 utilizza il primo processore Nikon AF dedicato, mentre il modulo sensore Multi-CAM 20K AF adotta centocinquantatré punti AF, novantanove dei quali a croce. La D5 può anche registrare video 4K in time-lapse e consente di estrarre immagini a otto Megabyte dai video. La reflex ha una gamma di sensibilità nativa da 100 a 102.400 Iso equivalenti e il suo sistema AF può lavorare quasi al buio, in condizioni estreme di bassa luminosità (EV-4).
BEST APS-C DSLR EXPERT: NIKON D500 Questa Nikon formato DX dispone di un sensore Cmos da 20,9 Megapixel, in coppia con il processore Expeed 5 proprietario. La gamma di sensibilità da 100 a 51.200 Iso equivalenti è espandibile fino a 50-1.640.000 Iso equivalenti. La D500 consente fino a dieci scatti al secondo, con AF e AE, con un buffer maggiorato per un massimo di settantanove scatti non compressi Raw (Nef). Oltre agli scatti singoli, la D500 fornisce video 4K UHD, fino a 30p, e Full HD, con diversi frame rate selezionabili. Per una pratica visualizzazione e inquadratura, c’è il monitor ruotabile LCD touch screen da 3,2 pollici 2,359K pixel. La reflex può registrare le immagini sia sugli slot XQD ed è compatibile con la app Nikon SnapBridge [altro TIPA Award 2016 di categoria, qui sotto], per il trasferimento e la condivisione delle immagini.
BEST IMAGING INNOVATION: NIKON SNAPBRIDGE Spesso, una connettività facile e veloce per gli apparecchi fotografici ha disilluso i produttori. A differenza, e all’opposto, la versatile efficacia dell’innovativa app SnapBridge, finalizzata a tutti gli apparecchi fotografici Nikon, offre l’installazione della connessione Bluetooth Low Energy a basso consumo. Ancora: consente il trasferimento continuo e immediato delle immagini dalla macchina fotografica
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a un massimo di cinque dispositivi mobili collegati al momento dello scatto, senza escludere la connettività mobile durante il trasferimento. Le immagini vengono trasferite a dispositivi intelligenti come immagini da due Megapixel (Full HD) in formato JPEG, con la possibilità di includere due tipi di informazioni incorporate, incluso il copyright. Inoltre, la funzione di scatto remoto dell’app può essere utilizzata come mirino e -con certe dotazioni- pannello di controllo per le impostazioni.
TIPA AWARDS 2016 RICOH E PENTAX BEST DESIGN: RICOH THETA S Il design sottile di Ricoh Theta S si adatta al suo modo originale di acquisizione di immagini. Theta S ha un sensore-processore di quattordici Megapixel, da 1:2,3 di pollice, che produce immagini fisse e video a trecentosessanta gradi sferici (panoramica completa orizzontale e verticale). Può registrare video Full HD fino a venticinque minuti e offre il controllo manuale della velocità di scatto per impostazioni fino a sessanta secondi. La capace memoria incorporata può contenere otto Giga di immagini (fotografiche e/o video). Facile la condivisione con il Wi-Fi incorporato, e utilizzabile anche per affascinanti riprese live streaming.
BEST FULL FRAME DSLR EXPERT: PENTAX K-1 Pentax è entrata nel segmento delle reflex full frame con la K-1, impermeabile e resistente alla polvere, con sensore Cmos da 36,4 Megapixel dotato di un filtro anti-aliasing “simulato”, ottenuto con micro vibrazioni dello stesso sensore. Inoltre, il sensore di acquisizione digitale di immagini supporta il sistema Ricoh Pixel Shift Resolution. La K-1 dispone di stabilizzazione di immagine su cinque assi, con lo spostamento del sensore; mirino ottico con copertura prossima al cento percento e sistema AF a trentatré punti, venticinque dei quali a croce. Il display LCD posteriore, di 3,2 pollici a 1,04 milioni di pixel, è molto pratico e permette i movimenti verticale, orizzontale e diagonale. Gli obiettivi correnti di Pentax (APS-C) possono essere utilizzati con la modalità Crop della K-1 (riduzione di formato), che rileva il tipo di obiettivo montato e imposta il formato corretto di conseguenza.
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TIPA AWARDS 2016 SIGMA
BEST DSLR TELEPHOTO ZOOM LENS: SIGMA 50-100mm f/1,8 DC HSM - ART Efficace zoom ad apertura costante, per sensori digitali in dimensioni APS-C, esprime una focale equivalente 75-150mm: tre elementi a basso indice di dispersione FLD (“F” Low Dispersion) e una lente a basso indice di dispersione speciale SLD (Special Low Dispersion), per un totale di ventuno lenti divise in quindici gruppi,
che si abbinano a un motore Hyper Sonic migliorato, per un autofocus preciso e veloce. Lo zoom ha un diaframma a nove lamelle e può mettere a fuoco da un metro circa. Come tutti gli obiettivi Sigma SGV, anche questo viene testato individualmente prima di lasciare la fabbrica. È predisposto per lavorare con il Sigma USB Dock, che permette l’aggiornamento del firmware e la calibrazione personalizzata.
BEST PROFESSIONAL DSLR LENS: SIGMA 20mm f/1,4 DG HSM - ART Il grandangolare Sigma 20mm f/1,4 full frame è stato progettato per fare emergere tutto il potenziale delle reflex con Megapixel molto elevati. Incorpora due lenti in vetro FLD (“F” Low Dispersion) e cinque in vetro SLD (Special Low Dispersion), con schema di quindici elementi divisi in undici gruppi. Il design minimizza l’aberrazione cromatica assiale e laterale, mentre il Super Multi-Layer Coating riduce l’effetto controluce. Ha un algoritmo AF finalizzato alla massima precisione e al corretto funzionamento autofocus. Inoltre, utilizza materiali compositi per garantire la stabilità termica anche alle temperature estreme. L’obiettivo ha un diaframma a nove lamelle, per una chiusura circolare. L’innesto a baionetta in ottone garantisce robustezza a lungo termine.
BEST DSLR WILDE ANGLE ZOOM LENS: SIGMA 24-35mm f/2 DG HSM - ART Come primo zoom al mondo per full frame con apertura costante f/2, il Sigma 24-35mm F/2 DG HSM / Art è definito da uno schema ottico basato su diciotto elementi suddivisi in tredici gruppi, un diaframma a nove lamelle e una lente in vetro ottico a basso indice di dispersione FLD (“F” Low Dispersion), sette lenti a dispersione speciale SLD, due delle quali asferiche. L’apertura minima è f/16, con una distanza minima di messa a fuoco da 28cm. Un algoritmo di nuova concezione assicura una messa a fuoco automatica AF veloce, silenziosa e precisa. Il trattamento Super Multi-Layer Coating garantisce il controllo dei riflessi interni e delle immagini fantasma. Malgrado il diametro filtri di 82mm, lo zoom è straordinariamente compatto: 87,6x12,7mm.
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TIPA AWARDS 2016 FUJIFILM BEST CSC TELEPHOTO ZOOM LENS: FUJINON XF 100-400mm f/4,5-5,6 R LM OIS WR Il lungo e potente zoom Fujinon XF 100-400mm f/4,5-5,6 R LM OIS WR è costruito con ventuno elementi divisi in quattordici gruppi e comprende cinque lenti ED e una lente Super ED. Resistente all’acqua e alla polvere, un rivestimento al fluoro è stato aggiunto per ulteriore protezione in condizioni di ripresa in esterni. È progettato per utilizzo a mano libera, con stabilizzazione dell’immagine su cinque stop. Diaframma a nove lamelle.
BEST MIRRORLESS CSC EXPERT: FUJIFILM X-PRO2 Configurazione stile telemetro, la Fujifilm X-Pro2 è dotata di un mirino avanzato Multi Hybrid, che permette di passare dalla visione ottica a quella elettronica. Prima di tutto, si annota che è dotata di un nuovo sensore Cmos III X-Trans, da 24,3 Megapixel, e nuovo X-Processor Pro, per fornire una sensibilità fino a 12.800 Iso equivalenti, estendibile da 100 a 25.600 / 51.200 Iso equivalenti. La X-Pro2 ha un corpo resistente agli spruzzi e polvere, con più di sessantuno punti di tropicalizzazione. In funzione video, registra in Full HD 1080p a 60fps, con un bit rate di 36 Mbps, più altre cadenze per gli effetti speciali e la compatibilità in tutto il mondo. Ancora: AF a rilevazione di fase e aiuti di previsione AF nella modalità in scatto continuo, fino a otto fotogrammi al secondo.
(continua da pagina 26)
TIPA AWARDS 2016 / 2
Rimanendo in territorio di apparecchi fotografici, sono da considerare per se stesse le soluzioni tecnico-commerciali Mirrorless, che l’ufficialità delle definizioni identifica come CSC - Compact System Camera (e, per maggiore chiarezza, l’attribuzione dei TIPA Awards 2016 comprende entrambe le identificazioni: compromesso lecito e legittimo), comprensive dei relativi obiettivi intercambiabili in propria cadenza, e le compatte che ancora animano il comparto mercantile della fotografia dei nostri giorni. Ecco quindi, quattro passi attraverso la quantità e qualità di Mirrorless: Best Mirrorless CSC Entry Level (Fujifilm X-T10), Best Mirrorless CSC Advanced (Olympus OM-D E-M10 Mark II), Best Mirrorless CSC Expert (Fujifilm X-Pro2) e Best Mirrorless CSC Professional (Sony α7R II). A questo proposito, un solo dubbio: personalmente, per nostra formazione e nostre predilezioni, provenendo da esperienze “a telemetro” siamo ideologicamente più vicini alla configurazione Fujifilm X-Pro2, evoluzione consequenziale della X-Pro1 originaria. Per cui, fatta salva l’accettazione di qualsivoglia sentenza di giuria, nel nostro cuore, invertiamo le categorie Expert con Professional. Ma l’ufficialità rimane: il cuore è nostro e solo nostro. La vita, fosse anche solo tecnica e commerciale, è scandita altrimenti. In collegamento diretto, attenzione alla gamma degli obiettivi che accompagnano le dotazioni Mirrorless / CSC - Compact System Camera, in altrettante quattro categorie: Best CSC Entry Level Lens (Panasonic Lumix G 25mm f/1,7 Asph), Best CSC Telephoto Zoom Lens (Fujinon XF 100-400mm f/4,5-5,6 R LM OIS WR), Best CSC Wide Angle Zoom Lens (Olympus M.Zuiko Digital ED 7-14mm f/2,8 Pro) e Best CSC Prime Lens (Sony FE 85mm f/1,4 GM). In ripetizione a quanto già riferito per le reflex, scomposizione in due categorie zoom: una per l’escursione tele, l’altra per quella grandangolare.
BEST MIRRORLESS CSC ENTRY LEVEL: FUJIFILM X-T10 Con molte delle caratteristiche delle configurazioni della serie Fujifilm X di fascia alta, la X-T10 è una valida opzione per appassionati e fotografi creativi che puntano a immagini di qualità e a un’ampia gamma di obiettivi a un prezzo accessibile. Con un corpo in lega di magnesio, la X-T10 ha un sensore X-Trans Cmos APS-C II da sedici Megapixel, combinato con il processore Fujifilm EXR II e la sensibilità nativa di 200-6400 Iso equivalenti, espandibile a 100-51.200 Iso equivalenti. Le opzioni di inquadratura includono un mirino Oled elettronico da 2,36 milioni di pixel e un display LCD orientabile da tre pollici, per 920K pixel. Registra video Full HD, disponendo di un microfono stereo integrato, oltre a connettività Wi-Fi e l’opzione per il comando a distanza da smartphone o tablet, di stretta attualità tecnologica.
A seguire, una considerazione sovrastante, ma doverosa. Per quanto le compatte abbiano smarrito per strada il proprio vigore commerciale originario, soppiantato dalla diffusione capillare di smartphone, che assolvono bene e in modo versatile le esigenze basilari della fotografia, è indispensabile annotare come e quanto l’offerta rimanga vivace, magari nelle proprie proiezioni di più alta fascia commerciale. Quindi, oltre l’inevitabile Best Easy Compact Camera (Canon Ixus 285 HS), altre quattro indicazioni opportune, in doverosa cadenza tecnica: Best Expert Compact Camera (Canon PowerShot G5 X), Best Full Frame Compact Camera (Sony Cybershot RX 1R II), Best Superzoom Camera (Panasonic Lumix DMCFZ300) e Best Rugged Camera (Olympus Stylus Tough TG-870). Discorso a parte per la prestigiosa Best Premium Camera (Leica SL), che fa corsa a sé, nel momento nel quale -comunque- dovrebbe essere riferita al comparto Mirrorless. In effetti, tale è... ma è anche tanto e tanto di più. Classificazione a parte, è una effettiva dotazione professionale che si offre e propone per proprie sostanziose prerogative tecniche e di impiego [FOTOgraphia, febbraio 2016]. Probabilmente, sono mancati coraggio e determinazione per una identificazione di questo tipo. Altrettanto probabilmente, è legittimo isolarla a sé e non conteggiarla in un comparto a cadenza dall’Entry Level all’Advanced, al Professional. Allo stesso momento, restano sospese due domande: per la prima, potremmo lasciare perdere; per la seconda, non intendiamo farlo. Sempre nel rispetto delle valutazioni della giuria, della quale facciamo anche parte, perché non è stata identificata Best Rugged Camera la Leica X-U? (poco male... forse); ma, soprattutto, perché è stata ignorata la fantastica Leica Q? Volendolo, nella sua derivazione palese dal sistema M, è una fantastica Full Frame Compact Camera [FOTOgraphia, luglio 2015]. Di certo, Rugged a parte, le interpretazioni slittano su valori in qualche modo e misura soggettivi. Poco male... forse.
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TIPA AWARDS 2016 NISSIN
BEST PORTABLE FLASH: NISSIN i60A L’efficace flash elettronico Nissin i60A è disponibile in dotazioni dedicate a apparecchi fotografici e camcorder Canon, Fujifilm, Nikon e Sony. Dispone di un ricevitore radio a 2,4 GHz, compatibile con il sistema Nissin Air System e Air1 Radio Commander. L’i60A ha un Numero Guida 60 e può coprire una gamma di focali estesa da 24mm a 200mm. Sul retro, un display LCD colorato e due manopole di controllo guidano le sue regolazioni. Il Nissin i60A ha anche una modalità TTL Optic Slave e otto canali disponibili in gruppi A / B / C.
TIPA AWARDS 2016 / 3 FINE
Per finire, nell’ambito dei prestigiosi TIPA Awards 2016 si incontrano altre dotazioni fotografiche di ripresa, circa: Best Imaging Innovation (Nikon SnapBridge) e Best Design (Ricoh Theta S), ognuna delle quali coniuga l’efficacia di prestazioni con valori formali che influiscono sulla sostanza. Personalmente, abbiamo poco da considerare sui premi che scandiscono tempi e modi dettagliati della gestione digitale di immagini. Certamente, le aggiudicazioni dell’autorevole giuria, formata da direttori e redattori di ventisette riviste internazionali aderenti alla Technical Image Press Association -tra le quali le italiane Fotografia Reflex e FOTOgraphia-, sono competenti e qualificate: e di questo garantiamo. Per questo, rileviamo la nostra adesione ai giudizi altrui, non considerandoci noi idonei e preparati sulle materie in esame e giudizio. Però, non ci tiriamo indietro e sottoscriviamo: Best Camcorder (Panasonic HC-WXF991), Best Photo Printer (Canon imagePrograf Pro-1000), Best Inkjet Photo Paper (Ilford Galerie Prestige Gold Fibre Gloss), Best Imaging Software (Serif Affinity Photo), Best Storage Media (Toshiba TransferJet SDHC Card), Best Photo Monitor (BenQ SW2700PT), Best Mobile Imaging Device (DxO One) e Best Actioncam (Sony HDR-AS50). Quindi, confermiamo una opinione già espressa, che qui ribadiamo: «L’insieme dei singoli TIPA Award, come anche le loro personalità individuali, identificano componenti essenziali e discriminanti dell’attuale panorama tecnico-commerciale della fotografia. Allo stesso momento, in trasversalità, andando oltre la sola elencazione si ricava un autentico specchio dei tempi tecnologici della fotografia». A testimonianza e convalida, rispetto edizioni passate, la continua evoluzione della gestione digitale delle immagini ha fatto accantonare gli scanner (per ora, almeno) e non sono stati scanditi tempi differenziati per le stampanti (ancora per ora, almeno). Però, si è
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aggiunta una novità assoluta, una novità dovuta, una novità dei nostri giorni: Best Camera Drone (Yuneec Typhoon Q500 4K). Infine, registriamo la sottolineatura di una certa fotografia senza tempo, se vogliamo dirla così, che si esprime con gli accessori d’uso e gli utensili “universali” e trasversali: Best Tripod (Manfrotto 190Go! Carbon Fiber), Best Professional Flash System (Phottix Indra360 TTL Studio Light) e Best Portable Flash (Nissin i60A). È tutto, per le quanto riguarda le assegnazioni degli ambìti e prestigiosi TIPA Awards 2016. Ancora, e poi basta. Nella sessione giudicatrice, le discussioni tra i giurati nazionali, rappresentanti ventisette riviste di fotografia, di quindici paesi, manifestano ed esprimono quella vitalità che dà lustro al mercato. L’affermazione finale arriva al culmine di un processo severo e approfondito. Nulla è lasciato al caso o sottovalutato. Come già annotato, svolgendo con doverosa serietà e adeguato scrupolo il proprio ruolo, intermediario tra le realizzazioni dell’industria e le aspettative del pubblico, ogni anno la giuria dei TIPA Awards osserva il presente, tenendo gli occhi aperti anche sul possibile e potenziale futuro: avendo ben chiaro che ciò che conta non sono tanto le soluzioni che si risolvono in se stesse, seppur genialmente, quanto le intuizioni che sanno anche dare spessore generale all’intero mercato fotografico. Dall’aggiudicazione, alla quale fa seguito la cerimonia ufficiale della consegna dei premi (a settembre, in occasione della Photokina, di Colonia), per un anno, fino alla prossima primavera 2017, le aziende produttrici e distributrici possono combinare la presentazione dei relativi vincitori di categoria con l’identificazione ufficiale dei TIPA Awards 2016. Da cui, attenzione: quando il marchio dei TIPA Awards appare in un annuncio pubblicitario, un pieghevole o sulla confezione di un prodotto, potete esser certi che è stato meritato. I TIPA Awards sono un motivo di orgoglio per chi li attribuisce e per coloro che li ricevono. ❖
ETERNITÀ DEI GIORNI P di Maurizio Rebuzzini
er educazione scolastica e per consuetudine di vita, sappiamo valutare le parole che leggiamo e ascoltiamo (dovremmo saperle valutare). Comprendiamo i testi, comprendiamo i ragionamenti, comprendiamo il fine e il filo celato tra le parole: siamo formati e guidati dalle nostre esperienze. Diversamente, a parte percorsi scolastici mirati, con le espressioni visive non siamo altrettanto composti. Per lo più, di fronte a un’opera d’arte, sia tradizionale e radicata nei secoli, sia di più attuale rivelazione, ci nascondiamo dietro il filo del generico e dell’ovvio: mi piace, diciamo, oppure -all’opposto- non mi piace. Punto e basta: infatti, pochi possiedono i termini della comprensione del progetto dell’autore. Per certi versi, e per quanto marginalmente sufficiente per il cinema, che presenta in forma di spettacolo altre riflessioni in profondità (e a questo aspetto a tutti evidente ci si può limitare), la sintesi mi piace / non mi piace, senza giudizio intimo effettivo e senza partecipazione, non avrebbe diritto di alcuna ospitalità. Tutto questo, per introdurre il senso e valore dei progetti fotografici di Andrea Boyer, in immagini lievi e solenni, che si presentano con diverse apparenze (a tutti visibili), ma che -nonostante queste dissomiglianze esteriori- rispondono a un medesimo pensiero, a un identico intento: quello di declinare il linguaggio visivo della fotografia per ciò che è realmente, per quanto di autonomo esprime. Subito detto, non soltanto presto. L’azione fotografica di Andrea Boyer -della quale qui e ora presentiamo opere da uno solo dei suoi tanti progetti: quello dei Tempi sospesi- non dipende da nessun altro obbligo, che quello della rivelazione di sentimenti e emozioni. Altra fotografia, scomposta in contenitori assai più ampi di quelli che generalmente si intuiscono (la fotografia è tanta e tale, con mille e mille sfaccettature e indirizzi specifici), raggiunge immediatamente e inequivocabilmente l’osservatore: per esempio, richiamiamo il fotogiornalismo, che racconta accadimenti e svolgimenti esistenziali; per altro esempio, convochiamo la pubblicità, che presenta e promuove prodotti tangibili; per ulteriore esempio, indichiamo la sintesi esplicita dei cataloghi (sempre meno cartacei e più dalla Rete), che rendono visibili proposte commerciali. A differenza, quella di Andrea Boyer è una fotografia che non assolve nulla, oltre il desiderio d’autore di coinvolgere nelle proprie emozioni, di allineare l’osservatore sulla propria intenzione espressiva: raffigurativa per mandato (nel senso che esige e richiede un soggetto esplicito, sia naturale e reale, sia costruito), la fotografia è rappresentativa per intenzione d’autore, per intenzione consapevole e volontaria. Così che, eccoci, le fotografie di Andrea Boyer, che si presentano con (almeno) doppio passo formale -da una parte, affascinanti composizioni ricreate; dall’altra, fittizie realtà individuate e isolate con princìpio- compongono i tratti di un unico discorso. Diciamolo a chiare lettere, pur nel pudore dei termini: sono fo-
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VILLA “COLLINA”, PONTELUNGO - PISTOIA
Tra ciò che è stato e quanto ci sarà. In apparenza visiva, a tutti palese, ambienti in ristrutturazione edilizia e/o trasloco. In sostanza di contenuti, oltre la forma strettamente volontaria, il senso del Tempo, dell’Attesa, della Vita e di tanto altro ancora (a ciascuno, il suo), affrontato e risolto con lessico strettamente e inviolabilmente fotografico, per quanto hanno stabilito decenni di formazione ed evoluzione espressiva. Andrea Boyer non fa mistero di raffigurare qualcosa di indispensabile (davanti all’obiettivo e in proiezione compositiva sul supporto ricevente, qualunque questo sia) con l’esplicita intenzione di rappresentare oltre il soggetto palese e manifesto. Sai com’è... missione della fotografia
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VILLA “COLLINA”, PONTELUNGO - PISTOIA (3)
tografie d’arte, che evocano più di quanto mostrino, che coinvolgono più di quanto raffigurano, che scandiscono la cadenza di una rappresentazione colta e coinvolgente. E qui, il discorso si fa affascinante, e richiede un richiamo storico, del quale devono essere informati coloro i quali osservano l’espressione fotografica, che per propria personalità non appartiene al pensiero generico delle nostre esistenze. Nel secondo Ottocento, dopo l’invenzione della fotografia, una quantità e (scarsa) qualità di autori (scarsa, in giudizio personale) ambirono al mondo dell’arte propriamente considerata. Così, per assecondare voci critiche che volevano tenere a debita distanza la fotografia, alterarono volontariamente i princìpi base della ripresa fotografica, per aderire a formalismi e contenuti pittorici: copie prive di nitidezza, composizioni sciroppose. In un certo senso, costoro rispondevano a posizioni di personalità autorevoli, a partire dal poeta Charles Baudelaire (che, comunque, amava tanto se stesso da frequentare con partecipazione il ritratto fotografico, negli studi parigini di Nadar e Étienne Carjat). Citazione d’obbligo per il secondo capitolo del suo pamphlet Salon de 1859
(in Révue Française, Parigi, 10 giugno - 20 luglio 1859), esplicitamente intitolato Il pubblico moderno e la fotografia. Per quanto il testo meriti una ri-lettura approfondita, alla fine della quale si potrebbe addirittura dissentire dalle tante/troppe stroncature dei critici e storici fotografici del secondo Novecento (soprattutto italiani), che lo hanno bollato di infamia, il testo contiene affermazioni che hanno condizionato l’approccio alla fotografia delle origini. Testuali, alcuni estratti significativi: «L’occhio della macchina fotografica è puramente ricevente»; «È nata una nuova industria [la fotografia], che ha contribuito non poco a confermare la stoltezza della sua fede [cioè del pubblico che vuole essere stupito con mezzi estranei all’arte]»; «Un Dio vendicatore ha esaudito i voti di questa moltitudine»; «L’industria fotografica è diventata il rifugio di tutti i pittori mancati, mal dotati, o troppo pigri per completare i loro studi [e qui, siamo lontani, tanto lontani, dalla personalità espressiva di Andrea Boyer, anche affascinante e convincente pittore]»; «La poesia e il progresso sono due ambiziosi che si odiano di un odio (continua a pagina 40)
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LUGANO
(continua da pagina 37) istintivo [...]; quando si incontrano, uno dei due deve servire l’altro»; «Se permetteremo alla fotografia di sostituire l’arte in alcune delle sue funzioni, tra breve l’avrà soppiantata o completamente corrotta, grazie all’alleanza naturale che troverà nella stoltezza della folla. Bisogna, dunque, che essa si limiti al suo vero dovere, che è quello di essere la serva delle scienze e delle arti, ma l’umilissima serva, come la stampa e la stenografia, che non hanno creato né sostituito la letteratura»; «Ma se le sarà permesso di sconfinare nel regno dell’impalpabile e dell’immaginario, in tutto quello che vale solo per ciò che l’uomo vi mette della sua anima, allora guai a noi!». A conseguenza, i Pittorialisti europei e statunitensi della seconda metà dell’Ottocento risposero per le rime: anche noi possiamo realizzare immagini prive di nitidezza; anche noi siamo capaci di comporre figure evocative; anche noi abbiamo un’anima. Vero niente! Tradendo il linguaggio e lo stilema della fotografia, costoro intendevano solo calcare il palcoscenico dell’arte, raggiungendolo di soppiatto, accedendovi per la porta di servizio.
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In questa luce, dopo la digressione necessaria, l’artisticità di Andrea Boyer è assolutamente certificata: agisce con la fotografia, conservandone i relativi princìpi lessicali e applicando un talento a dir poco superlativo. Fotografia è (anche) luce, composizione, inquadratura, prospettiva e punto di vista. Tutti elementi che l’autore controlla e domina, per approdare alla propria riflessione, verso la quale invita e sollecita l’osservatore. Attenzione e in ripetizione dovuta: quella di Andrea Boyer è fotografia, non altro. È fotografia che si indirizza al cuore di ciascuno di noi, affinché le commozioni individuali proseguano verso la mente. Oppure, e con tragitto inverso, secondo disposizioni proprie (nell’equilibrio tra irrazionale e razionale, in doppio senso di marcia), è fotografia che si indirizza alla mente di ciascuno di noi, affinché le palpitazioni individuali proseguano verso la il cuore. Qualsiasi questo possa significare, cos’è l’arte in forma fotografica? Da e con Giacomo Leopardi: «L’anima s’immagina quello che non vede». E, allora, L’infinito: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il
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STUDIO BERNABEI, FIRENZE
HOTEL REGIS, FIRENZE (2)
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HOTEL REGIS, FIRENZE MONTEPULCIANO
PIAZZA SORDELLO, MANTOVA
guardo esclude. / [...] Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare. Dunque, non ci si limiti alla raffigurazione fotografica di Andrea Boyer, ma si approfondiscano le relative rappresentazioni d’autore. Ben realizzato, ben disposto, ben presentato, il soggetto esplicito è pretesto di traslazione, di rimandi. In questa intenzione, qui svolta con una maestria che ha pochi eguali, Andrea Boyer dà spazio e consistenza a una delle missioni fondanti della fotografia, così come l’ha espressa uno degli interpreti principali del primo Novecento: «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso» (Edward Steichen; 1969, in occasione del suo novantesimo compleanno). Da qui, il percorso è indicato. Cosa attira la nostra attenzione fotografica? Parecchi elementi; nessuno dei quali è significativo di per sé, ma tutti sommati hanno ed esprimono senso. Per paradosso, la fotografia può anche essere considerata esercizio inutile, e superfluo alla vita... come la musica di Mozart! Quindi, corre l’obbligo di domandarsi quale sarebbe la nostra comprensione
del mondo se non ci fosse la fotografia, se mancassero le fotografie (autentico linguaggio visivo dal Novecento). La fotografia di Andrea Boyer è d’autore. E, allora, c’è di che riflettere. C’è di che discutere. Cosa sarebbe più la nostra vita senza fotografia? Cosa sarebbe la nostra mente, senza fotografie d’autore? La nostra percezione della realtà ne rimarrebbe mortificata. La nostra esperienza, impoverita. Il nostro sapere, modesto. Siamo tutti sollecitati da queste fotografie di Andrea Boyer (in ripetizione d’obbligo, lievi e solenni), in base alle quali ognuno richiama ricordi personali. Senza gesti forti, senza scippi o strappi, come sollecita il garbo fotografico dell’autore, ci impossessiamo di queste visioni per farle nostre, per lasciare andare le nostre menti là dove l’efficacia visiva di Andrea Boyer ci ha condotti. Guardatele bene, queste fotografie. Come intenzione originaria, potrebbero anche non dirci niente dell’autore che le ha realizzate e proposte. Ma se le guardate bene, una dopo l’altra e tutte nel proprio insieme rivelano molto di noi stessi... a noi stessi. Missione della Fotografia. ❖
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di Angelo Galantini
© LEONARD FREED - MAGNUM PHOTOS / BRIGITTE FREED
A
ttenta curatrice di mostre ed eventi fotografici, tra tanti che ne ha, in nome proprio e della sua agenzia Admira, Enrica Viganò vanta un merito assoluto e inviolabile: quello di avere l’Italia tra i suoi soggetti principali di considerazione. Detta così, detta in semplificazione (consapevole), l’annotazione avrebbe un valore relativo e, forse, scontato. Ma non è vero: infatti, a ben guardare, sono rare le persone che -in fotografia, almeno e perlomeno- operano con una chiarezza di intenti tale e tanta. Da una parte, forte dei propri contatti internazionali, che finalizza con convinzione, Enrica Viganò propone e promuove nel mondo una identificata fotografia italiana, a partire dalle fantastiche stagioni attorno ai Cinquanta, tanto considerate altrove; da un’altra, è capace di individuare coloro i quali hanno elevato il nostro paese a soggetto delle proprie riflessioni. In questo secondo senso, complementare al primo, ma non svincolato da questo, registriamo che Enrica Viganò ha curato l’ottima e convincente e avvincente selezione Leonard Freed. Io amo l’Italia, proposta dal ventuno maggio fino al venti settembre al Centro SaintBénin, di Aosta: ben quattro mesi di tempo, per avvicinarsi a questo sostanzioso corpus di cento opere, omaggio alla fotografia internazionale d’autore. Attenzione, e chiariamolo subito, non abbiamo alcuna intenzione di presentare chi sia Leonard Freed e quale peso e valore abbia avuto nella storia della fotografia contemporanea: chi ne fosse all’oscuro, con gli attuali mezzi tecnologici a disposizione, oggigiorno può avvicinare e approfondire in un nanosecondo. Dunque, punto! Ovviamente, l’allestimento scenico ed espositivo e culturale non tradisce il titolo esplicito della mostra. Con l’inevitabile supporto dell’Assessorato dell’Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta (benedette siano le istituzioni italiane svincolate dai poteri centrali), la ricca selezione di immagini si concentra su fotografie del celeberrimo autore statunitense, membro della leggendaria agenzia Magnum Photos: dalle città simbolo e inevitabili, tra le quali, manco a dirlo, Firenze, Milano, Napoli, Roma e Venezia, a località minori, ma non per questo meno significative, uno sguardo che si è esteso lungo i decenni, dall’immediato secondo dopoguerra alle soglie del nuovo secolo e millennio. Come esige una certa convenzione fotografica, mai scritta, ma sempre accettata, oltre che pretesa, il rapporto tra Leonard Freed e l’Italia -che ha amato profondamente e che lo ha ospitato per oltre quarantacinque soggiorni- è scandito al ritmo di immagini in bianconero: volente o nolente, autentico stilema visivo proprio e autonomo del fotogiornalismo e della documentazione senza tempo, né compromessi, né distrazioni (fosse solo cromatiche). Come sottolineano le note di presentazione, che condividiamo (caso raro), da queste fotografie dello statunitense Leonard Freed, «colme di sentimento, emerge una colossale forza che si scorge nei volti e nelle inquadrature, ritratti in maniera realistica e liberi da stereotipi, ma dotati di grande sensibilità e umanità».
LUI AMA L’ITALIA A cura di Enrica Viganò, l’ottima e convincente e avvincente selezione Leonard Freed. Io amo l’Italia è proposta fino al venti settembre al Centro Saint-Bénin, di Aosta. Cento opere di pregio, omaggio alla fotografia internazionale d’autore, che scandiscono i tratti di una autentica “storia d’amore” avviata nei primi anni Cinquanta, che si è allungata nei decenni fino alla fine del Novecento, alle soglie del Duemila. Spaccato di Storia, attraverso volti, espressioni e passioni
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Leonard Freed: Napoli, 1956; modern print, 50,5x40,5cm.
(centro pagina, in alto) Leonard Freed: Sicilia, 1975; stampa digitale, Epson print / archival paper, 33x48,3cm.
(pagina precedente) Leonard Freed: Napoli, 1956; modern print, 50,5x40,5cm.
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La condivisione con l’Italia, la “storia d’amore”, così come lo stesso autore l’ha definita, ha inizio nel 1952, quando, mosso dall’interesse per l’arte, programmò e svolse i primi viaggi in Europa. Qui, attratto dallo studio della natura umana, dei comportamenti, dei caratteri, Leonard Freed comprese presto le peculiarità del nostro paese e della sua gente, peraltro proiettate nella vita senza confini né tempo della Little Italy, di New York, dove si trasferì nel 1954. Già, la gente... i volti e le espressioni e le passioni, che surclassano tutto, fino a far passare in secondo piano i paesaggi, l’arte, l’architettura, la politica, che -comunque- compongono i tratti sui quali si è edificata la sua personale analisi fotografica della società. La fotografia di Leonard Freed, autore dai mille e mille meriti, sensibile all’antropologia culturale e all’indagine etnografica, scaturisce dalla necessità di ritrovare il senso delle proprie origini attraverso lo studio di comunità tradizionali. Ne deriva il suo esser affascinato dalla vita della gente comune, dal calore e dalla spontaneità che si osserva nelle immagini che raffigurano lavoratori siciliani, persone che passeggiano, bambini che giocano e vanno a scuola, uomini e donne che compiono i gesti tipici della propria quotidianità, soldati, aristocratici veneziani e romani. La sua analisi trasversale della società offre uno spaccato di cinquanta anni di Storia, durante i quali sono evidenti i cambiamenti e le differenze socio-economiche legati al trascorrere dei decenni. Ma non soltanto: in comunione di intenti, si percepisce una continuità gestuale che esula dal passare del tempo. Gli atteggiamenti, le espressioni, i gesti appaiono come cristallizzati in un passato che diviene presente. Qui e ora, è doveroso riprendere e ripetere dal testo introduttivo della curatrice Enrica Viganò, che offre una chiave di lettura e avvicinamento a dir poco indispensabile. In estratto.
Leonard Freed si poneva molte domande; nei suoi diari fitti fitti, appuntava la profonda ricerca che stava svolgendo sull’esistenza e sulle motivazioni del vivere umano. Il suo strumento era la macchina fotografica, il suo talento era la comprensione istintiva delle forme visive, il suo impegno era tutto dedicato alle persone e, di conseguenza, alla madre di tutte le domande: chi siamo? [...] «Ciò che sto cercando di mettere nelle mie fotografie è l’elemento del tempo. Il tempo passa e noi abbiamo bisogno di esserne consapevoli. La foto-
© LEONARD FREED - MAGNUM PHOTOS / BRIGITTE FREED (4)
Leonard Freed: Roma, 1958; unique later print, 49,9x40cm.
grafia ci può dare questa consapevolezza». [...] Il suo amore [per l’Italia], testimoniato da più di quarantacinque viaggi nel nostro paese ed espresso in migliaia di negativi, è una love story con la gente che popola la penisola e che rendeva ogni sua visita un’esperienza unica e irripetibile. Il suo pellegrinaggio italico, durato a più riprese quasi cinquanta anni, era per lui fonte di vita, arricchiva il suo spirito e gli dava infinita materia per il suo studio puntuale della natura umana, di cui gli italiani, secondo lui, ne rappresentavano una delle migliori manifestazioni.
Quindi, nel proprio suggestivo percorso espositivo, Leonard Freed. Io amo l’Italia offre una minuziosa descrizione della popolazione italiana, dove a scene di uomini che spingono carretti di legno -per il trasporto di frutta nella Little Italy, di New York, degli anni Cinquanta o nel frettoloso spostamento di un enorme pesce nell’assolata Sicilia degli anni Settanta- si alternano scene di semplice rilassatezza. Lo si scorge nelle inquadrature con persone sedute davanti alla propria abitazione e nell’immagine di un uomo intento ad offrire prodotti tipici, secondo i costumi dell’ospitalità mediterranea. Spiccano opere dal gusto vivace e ironico, nelle quali i sacerdoti giocano a tirarsi palle di neve in piazza San Pietro, o dove tre cani attendono di entrare in una Farmacia o, ancora, una movimentata panoramica su un gruppo di ragazzini, divertiti dall’esplosione di petardi. Del rapporto con la fotografia e con i suoi soggetti, Leonard Freed (1929-2006) ha avuto un’idea molto chiara: «Sono come uno studente curioso, che vuole imparare. Per poter fotografare, devi prima avere un’opinione, devi prendere una decisione. Poi, quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare ciò che lui pensa, essere sempre molto amichevole e neutrale». E ancora: «Voglio una fotografia che si possa estrapolare dal contesto e appendere in parete per essere letta come un poema». In ogni caso, lui ha amato l’Italia. Chi altri può affermare altrettanto? ❖
(centro pagina, in centro) Leonard Freed: Sicilia, 1974; later print, 27,9x35,2cm.
Leonard Freed. Io amo l’Italia, a cura di Enrica Viganò; in collaborazione con Leonard Freed Archive (New York) e Admira (Milano). Centro Saint-Bénin, via Festaz 27, 11100 Aosta (0165-272687; www.regione.vda.it, u-mostre@regione.vda.it); dal 21 maggio al 20 settembre; tutti i giorni 9,00-19,00. ❯ Volume-catalogo omonimo, edito da Admira Edizioni, con testi in italiano e inglese; in mostra, 34,00 euro.
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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
giugno 2016
GIO BARTO: NARCISO. IN GRADO DI DISTINGUERE IL RIFLESSO DAL REALE. Ritratto allo specchio
COURTESY CSAC UNIVERSITÀ
DI
PARMA / GUIDO GUIDI
Non possiamo definire “collettiva” la rassegna Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia, esposta a Parma fino all’inizio del prossimo ottobre. Neppure vogliamo farlo: più concretamente, la mostra si offre e propone come raccolta di punti di vista autonomi di una qualificata serie di celebrati fotografi-autori che hanno osservato il soggetto esplicito, la via Emilia, partendo da quei progetti di metà degli anni Ottanta del Novecento, ai quali si sono altresì riferite generazioni successive della fotografia italiana contemporanea. Uno sguardo indietro, con l’intenzione (?) di andare avanti. Con accompagnamenti storici
VIA EMILIA (O ROUTE 66?)
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(pagina precedente) Rimini Nord, guardando verso Ovest 15/3. Fotografia di Guido Guidi, 1991; 24x30,1cm.
di Antonio Bordoni
S
icuramente, altre lingue sono foneticamente più evocative e accattivanti dell’italiano (e qualche straniero potrebbe pensare il contrario, ma -si sa- il giardino del vicino...). Per esempio, l’inglese si presta a contrazioni che conservano il proprio significato esplicito, addirittura estendendolo: “topless” (senza parte superiore, senza reggiseno, riferito ai vestiti) è la nudità del busto femminile, generalmente esibito in luoghi
CSAC UNIVERSITÀ
DI
PARMA / EREDI GHIRRI
Modena, 1973. Fotografia di Luigi Ghirri, 1973; 15,3x25,8cm.
(pagina accanto) Montagnana, 1986 [dettaglio da]. Fotografia di Olivo Barbieri; C-print, 29,8x39,7cm.
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COURTESY CSAC UNIVERSITÀ
DI
PARMA / GIOVANNI CHIARAMONTE
S.t. (da Attraverso le pianure). Fotografia di Giovanni Chiaramonte, 2004; 30x40cm.
pubblici; da cui, l’indizio esplicito sui relativi locali di strip-tease e dintorni. Per esempio, il francese si presta a raffinatezze e gentilezze, oltre che ad evocazioni: “lingerie” è molto meglio di “mutande”. In questo senso, e in proseguo di pensiero e ipotesi (mica tanto ipotesi), sulla stessa lunghezza d’onda, quando Francesco Guccini introduce l’esecuzione di Statale 17, nei suoi concerti, è solito dire che -rispetto la nostra geografia- gli americani sono avvantaggiati. Testuale, circa: «Sulla strada, di Kerouac, era molto bello letto in italiano con i nomi americani: “Quella
sera, partimmo John, Dean ed io sulla vecchia Pontiac del Cinquantacinque del padre di Dean, e facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson”; porco cane! E, poi, lo traduci in italiano e dici “Quella sera partimmo sulla vecchia Fiat 1100 del babbo di Giuseppe e facemmo tutta una tirata, da Piumazzo a Sant’Anna Pelago”. Non è la stessa cosa, gli americani ci fregano con la lingua. Non è la stessa cosa». Ancora, e poi basta. In analogo riferimento/richiamo toponomastico, tra le tante leggende statunitensi registriamo anche la beatificazione della mitica Route 66, ufficialmente una highway federale che originariamente collegava il nord al sud del paese: da Chicago (Illinois) alla spiaggia di Santa Monica, attraverso Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona e California, in un tragitto di quasi quattromila chilometri (2448 miglia, pari a 3755km). Certo e sì: è vero. In Italia, nazione e non continente, non abbiamo nulla di analogo, né per epopea, né per lunghezza. A poco servono i richiami, anche letterari e musicali, al Passo della Cisa (Piero Chiara: Saluti notturni dal Passo della Cisa ), alla scalinatella napoletane (Roberto Murolo: Scalinatella ), alla via Lomellina, di Milano (Enzo Jannacci: E io ho visto un uomo ), alla genovese via del Campo (Fabrizio de André: Via del Campo), agli stadi del calcio (Roberto Vecchioni: Luci a san Siro). E basta... ma!
CSAC... IN BREVE
Fondato nel 1968 da Arturo Carlo Quintavalle e situato nell’Abbazia cistercense di Valserena, il CSAC - Centro Archivio e Studi della Comunicazione dell’Università di Parma raccoglie e conserva materiali originali della comunicazione visiva, della ricerca artistica e progettuale italiana a partire dai primi decenni del Novecento. Un patrimonio di oltre dodici milioni di pezzi, suddivisi in cinque sezioni: Arte (oltre millesettecento dipinti, trecento sculture, diciassettemila disegni), Fotografia (oltre trecento fondi e più di nove milioni di immagini), Media (settemila bozzetti di manifesti, duemila manifesti cinematografici, undicimila disegni di satira e fumetto e tremila disegni per illustrazione), Progetto (un milione e mezzo di disegni, ottocento maquette, duemila oggetti e circa settantamila pezzi tra figurini, disegni, schizzi, abiti e riviste di moda) e Spettacolo (cento film originali, quattromila videotape e numerosi apparecchi cinematografici antichi). Il CSAC è uno spazio multifunzionale, nel quale si integrano un Archivio, un Museo e un Centro di Ricerca e Didattica. Una formula unica in Italia, che mantiene e potenzia le attività fino a ora condotte di consulenza e supporto all’istruzione universitaria (con seminari, workshop e tirocini), di organizzazione di mostre e pubblicazione dei rispettivi cataloghi (oltre centoventi, dal 1969) e di prestito e supporto a esposizioni in altri musei.
VIA EMILIA Ma una certa fotografia italiana, esordita con il richiamo obbligatorio (qui, più che altrove, in ambiti entro i quali si sta esagerando) all’esperienza originaria di Luigi Ghirri, ha dato senso, vita e scopo visivo e interpretativo alla via Emilia, elevata a luogo privilegiato di indagine, do-
COURTESY CSAC UNIVERSITÀ
DI
PARMA / SEZIONE FOTOGRAFIA
CSAC - Centro Archivio e Studi della Comunicazione dell’Università di Parma, Abbazia di Valserena, Strada Viazza di Paradigna 1, 43122 Parma; 0521-033652, www.csacparma.it, info@csacparma.it.
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PARMA / MARIO CRESCI
cumentazione, riflessione e tanto tanto altro ancora. Così che, in stretto ordine temporale, registriamo che dall’inizio di maggio e fino al prossimo due ottobre, in un arco di tempo esteso su ben cinque mesi pieni, nella suggestiva cornice dell’Abbazia di Valserena, alle porte di Parma, è allestita l’imponente rassegna Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia, che i curatori Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta hanno selezionato tra l’imponente quantità e qualità di fotografie (a tema) custodite dal CSAC Centro Archivio e Studi della Comunicazione dell’Università di Parma. Per quanto moderatamente decentrata rispetto le sedi espositive centrali e di riferimento, la mostra è inserita nel consistente programma dell’attuale edizione 2016 di Fotografia Europea, dal titolo (per l’appunto) La via Emilia. Strade, viaggi, confini, distribuita in spazi pubblici e privati di Reggio Emilia dal sei maggio al dieci luglio. Oltre i contenuti, di eccellente spessore e valore autoriale, il solido e robusto passo di Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia scandisce anche termini quantitativi di decifrazione del fenomeno fotografico che si è manifestato e svolto lungo quelle/queste strade, tra quei/questi luoghi, con quelle/queste persone (per il vero poche, considerato lo stilema espressivo di una fotografia italiana di territorio che ha sempre preferito gli spazi alla gente: ma non importa... forse). In consistenza numerica a tutti chiara ed esplicita, la “selezione” è partita da un corpus di nove milioni di immagini fotografiche custodite dal CSAC, in collegamento ideale al progetto originario Esplorazioni sulla via Emilia, condotto esattamente trent’anni fa, nel 1986, da fotografi-autori protagonisti di una stagione e intenzione che allora definì visioni e interpretazioni pionieristiche e di assoluta avanguardia.
PASSO INDIETRO (IN AVANTI) Allora, nel ricordato 1986, Esplorazioni sulla via Emilia fu un progetto fotografico pienamente e interamente innovativo, il cui passo ha poi guidato e indirizzato la fotografia italiana di paesaggio negli anni e decenni successivi. Per gli autori che si sono affacciati in seguito sono state fondanti le linee guida stabilite dalla cadenza originaria di Luigi Ghirri, Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Nino Criscenti, Vittore Fossati, Omar Galliani, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Klaus Kinold, Claude Nori, Cuchi White e Manfred Willmann. In ripetizione d’obbligo: una modulazione e intonazione di descrizione articolata e multidisciplinare che, attraverso contributi letterari e scientifici, rappresentò un fantastico punto di partenza. Per poi imporsi, come appena annotato, come rilevante riferimento per le riflessioni sul paesaggio immediatamente successive. In questo processo, come certamente in altri percorsi individuali e collettivi, con la propria funzione e azione di raccolta e conservazione e visualizzazione, il Centro Archivio e Studi della Comunicazione dell’Università di Parma ha svolto un ruolo basilare e sostanziale nell’elaborazione del modello di racconto di Esplorazioni sulla via Emilia, che fu allestito due anni dopo il Viaggio in Italia, del 1984,coordinato da Luigi
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CSAC UNIVERSITÀ
DI
Basilicata (da Sui segni del paesaggio), 1988 [dettaglio da] Fotografia di Mario Cresci; 30,4x30,3cm.
Ghirri (ai tempi componente del Comitato Esecutivo della Sezione Fotografia CSAC): inviolabile momento focale della fotografia italiana contemporanea. A distanza di trenta e trentadue anni da quelle luminose stagioni, oggi, l’allestimento espositivo di Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia sottolinea ruoli e valori degli autori che si sono espressi allora, e che hanno maggiormente caratterizzato e influenzato la fotografia italiana dell’ultimo quarto del Novecento: ognuno è presente in mostra in una modulazione consequenziale di proprie monografie minime. Ancora. In dialogo e antitesi a queste stesse monografie, la Sala delle Colonne del medesimo spazio espositivo ospita un corpus di fotografie dell’Ottocento realizzate dagli staff di operatori Alinari, Brogi e Poppi, che documentano il paesaggio emiliano postunitario (dal 1861), in un istante nel quale l’identità nazionale è costruita attraverso iconografie di architetture e monumenti isolati dal contesto. In un certo modo, la presenza di questo nucleo di fotografie storiche (antiche, per quanto lo possa essere il tempo fotografico, che ha da poco
compiuto centosettantacinque anni) è fondamentale. Se possiamo vederla e dirla così, serve anche per introdurre e decifrare la ricerca espressiva che autori contemporanei (come Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Mario Cresci, Guido Guidi e Olivo Barbieri) hanno condotto a metà degli anni Ottanta del Novecento, in un momento nel quale fu improrogabile rendere visibile l’ordinario e l’anti-monumentale anche in contrapposizione alla tradizione classica della veduta canonica ottocentesca. Non è certo un caso che l’acquisizione da parte del CSAC di molte di queste fotografie sia stata suggerita, tra gli anni Settanta e Ottanta, proprio da alcuni di questi autori contemporanei. In proseguimento espositivo, si registra che Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia comprende un secondo nucleo di fotografie del Novecento, a propria volta individuate all’interno dell’Archivio. Nello specifico, cinque passi di illustre personalità, un per l’altro e tutti assieme, in attuale comunione di intenti. Uno: fotografie dell’Atelier Vasari, di Roma, eseguite per conto dell’Anas (dall’acronimo originario Azienda
A CONTORNO E INTEGRAZIONE
Durante i cinque mesi di allestimento espositivo di Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia, negli stessi spazi dell’Abbazia di Valserena, alle porte di Parma, si articola una serie di incontri che approfondiscono il tema della mostra, mettendo a confronto esperienze di segno diverso di scrittori, fotografi, archivisti, scienziati, geografi e linguisti. ❯ 21 maggio: lezione magistrale di Giovanni Chiaramonte, uno dei protagonisti dell’impresa storica Esplorazioni sulla via Emilia, del 1986, e figura legata alle vicende del CSAC. ❯ 28 maggio: la storica della fotografia Raffaella Perna si confronta con il curatore Paolo Barbaro. ❯ 18 giugno: il fotografo Mario Cresci dialoga con il geografo Davide Papotti. ❯ 10 settembre: incontro tra lo studioso di letterature comparate Giulio Iacoli e lo scrittore Vittorio Ferorelli. ❯ 17 settembre: confronto tra il neuroscienziato Vittorio Gallese e il docente di Visual Studies Michele Cometa. ❯ 24 settembre: l’architetto Carlo Quintelli intervista l’artista Franco Guerzoni. ❯ Primo ottobre: incontro tra le curatrici e storiche della fotografia Roberta Valtorta e Cristina Casero.
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PARMA / SEZIONE FOTOGRAFIA (5) DI
COURTESY CSAC UNIVERSITÀ
Provino 1538, di Bruno Stefani, Emilia Romagna, 1949-1953; da rullino negativi 24x36mm.
Piacenza: Palazzo Comunale. Fotografia dell’Emilia Bologna, 1880-1890; 20,2x26cm.
(centro pagina, dall’alto) Documentazione Anas ante 1949: la via Emilia a Ponte Taro (Parma). Atelier Vasari, Roma; da negativo 13x18cm. Documentazione Anas ante 1949: la via Emilia. Atelier Vasari, Roma; da negativo 13x18cm. Mille Miglia 1949: passaggio a Piacenza. Publifoto, Milano; da negativo 6x6cm.
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Nazionale Autonoma delle Strade), tra il 1946 e il 1948, per documentare la ricostruzione delle strade emiliane. Due: narrazioni di viaggio scattate dal milanese Bruno Stefani (1901-1978) per illustrare volumi del Touring Club Italiano, tra il 1935 e il 1960, che restituiscono sequenze e scorci del paesaggio attraverso una composizione di texture e monografie. Tre: esperienza fotografica del parmigiano Bruno Vaghi (1913-1972) che, tra ripresa aerea e immagine commerciale di committenza, ha stabilito parametri dovuti di decenni a cavallo della Seconda guerra mondiale. Quattro: stampe da lastre rigorosamente grande formato (negativi bianconero) dell’Atelier Villani, di Bologna, che documentano l’industria nazionale, dalla Mostra dell’Agricoltura del 1935 alla ricostruzione da parte di enti di istruzione e assistenza. Cinque: fotografia di sport della leggendaria agenzia Publifoto, che scarta a lato ogni altra seriosità di intenti per sottolineare un uso differente degli spazi e dei paesaggi della via Emilia. Infine, per non smentire l’imprinting “concettuale”
dell’intero programma espositivo di Fotografia Europea, di Reggio Emilia, al quale Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia, a Parma, fa da corte e al quale si accosta (inserendosi a pieno titolo nella proposta 2016 di La via Emilia. Strade, viaggi, confini ), nella Sala Polivalente dello stesso spazio espositivo è allestita l’esposizione Habitare la via Emilia. Presenze e luoghi di rifondazione insediativa, coordinata da Carlo Quintelli e dedicata al pubblico paesaggio: «Esito di una ricerca che, attraverso un rilievo topo-fotografico puntuale, riflette su struttura e componenti del divenire della strada consolare quale strumento di continua rigenerazione dell’insediamento antropico emiliano». Testuale. Sempre sulla via Emilia. ❖ Esplorazioni dell’archivio. Fotografie della Via Emilia, a cura di Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta, in selezione da fotografie (a tema) custodite dal CSAC - Centro Archivio e Studi della Comunicazione dell’Università di Parma. Abbazia di Valserena, Strada Viazza di Paradigna 1, 43122 Parma; dal 7 maggio al 2 ottobre; martedì-venerdì 10,00-15,00, sabato e domenica 10,00-20,00; 0521-607791, www.csacparma.it, www.fotografiaeuropea.it.
AMBIGUITÀ ROMANTICA In linea con la propria visione e creatività, la serie fotografica Fucking New York, di Nikola Tamindzic, si esprime per strati sovrapposti: più che l’infelicità di una relazione impossibile, si respira l’utopia di chi si sente libero e cerca nella linfa drogata della città un modo per trascendere dal legame con la materialità. In sogno
di Elisa Contessotto
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ikola Tamindzic è un ritrattista e fotografo di moda di New York. Nato e cresciuto nell’ex Jugoslavia, si è trasferito a Manhattan, affermandosi in breve tempo come fotografo professionista per il portale Gawker. Grazie a una straordinaria capacità di disarmare soggetti e spettatori -tramite i suoi ritratti-, con la fotografia, Nikola Tamindzic cerca, raccoglie e sottolinea le contraddizioni dell’essere umano. Per sua dichiarazione esplicita, cammina sulla scia di Helmut Newton, Guy Bourdin e Terry Richardson. Nella fotografia di Nikola Tamindzic (www.nikolatamindzic.com), la moda si arricchisce di toni formali e prospettici, nei quali il soggetto umano all’interno dell’inquadratura è solo uno degli elementi
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che compongono l’immagine. La visione è silenziosa, intoccabile, ma proprio per questo estremamente intima e romantica. È una fotografia di contrasti, la sua: quando la protagonista stessa delle storie è New York, forse non potrebbe essere diversamente. Lo sguardo d’insieme porta a scoprire il gusto per una composizione simmetrica, equilibrata. È nei dettagli, invece, che le convinzioni si mettono in discussione e la figura umana, con i propri conflitti, approda a una narrazione deliziosamente ambigua e in divenire. Nel contrasto tra macro e micro c’è una violenza implicita. La recente serie Fucking New York, di Nicola Tamindzic, della quale presentiamo una rapida campionatura, esplora le passioni, il desiderio, l’ilarità e la malinconia della vita nella città stereotipata: metropoli ricca di storie, molte delle quali fondano le proprie
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radici sul sogno di possedere qualcosa più grande di se stessi. Molti modi di dire riguardano l’amore che i newyorkesi hanno (avrebbero) per la loro città: spesso, si dice che quando si vive a New York, New York è la relazione più importante nella propria vita. Le fotografie realizzate da Nicola Tamindzic sono “distanti dalla realtà”, intangibili, quasi architettoniche. Esprimono la propria sensualità in modo silente, spesso interrotto da elementi contrastanti, quasi come in un gioco umoristico. Ne emergono le contraddizioni dell’essere umano, spoglio di fronte alla capacità del fotografo di affascinare soggetti e spettatori. Rivelazione diretta: «La definizione della serie fotografica si può leggere “fucking”, come verbo che significa “fare sesso con New York”. Ma si può anche prendere come aggettivo, come grido frustrato di un uomo che -piangendo- rivela “Oh man,
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fucking New York”. Mi piace l’arte che non si nasconde dietro le parole che le si possono cucire attorno. Invece di dare a questo progetto un pretenzioso nome latino, ho preferito dargliene uno stupido. Lo volevo stupido, quanto può essere stupida una canzone dei Ramones. Ovvero, perfetto». In Fucking New York, più che l’infelicità di una relazione impossibile, si respira l’utopia di chi si sente libero e cerca nella linfa drogata della città un modo per trascendere dal legame con la materialità. La connessione con le immagini è forte, ma lo sguardo dell’autore tiene sempre le distanze da ciò che ha di fronte. Non c’è alcun intento voyeuristico. Si percepisce più una volontà di raccontare la città nel modo in cui è idealizzata (e stereotipata). Al solito. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 28 volte aprile 2016)
CRISTINA GARCÍA RODERO
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Ouverture sull’inverno dei nostri scontenti. Nel cimitero splendente della fotografia parassitaria riposano i codici e le formule... e il cappio del boia, anche. La fotografia parassitaria si erge su un universo privo di qualificazioni, e il successo e il consenso che la suscita è anche ciò che la divora. Al tempo dell’imperialismo rampante, la fotografia (che sia argentica o numerica poco importa) è parte integrante del capitalismo, che è in sostanza un sistema parassitario. «Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l’ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza» (Zygmunt Bauman: Il capitalismo parassitario; Laterza, dal 2001). Sotto questo cielo si può morire strozzati da una cravatta o per rapacità finanziaria. I fotografi lo sanno bene... tutti... come i santi e i buffoni sono grandi perversi e non sanno che trasformare la fotografia nel vizio dell’indifferenza o della celebrazione di sé. Del resto, i piaceri dell’imbecillità abitano i castelli, come le capanne: e ciascuno è all’altezza della propria nullità... qualcuno del proprio valore. Ebbe l’orgoglio di non governare mai, di non disporre di niente e di nessuno. Senza servi e senza padroni, non diede, né ricevette, ordini... diceva: era marinaio su navi mercantili, teatrante itinerante, poi fotografo di strada e morì di fame (si dice) su un pianerottolo di Parigi (Eugène Atget). Solo dopo Atget, la fotografia si rivolge agli Uomini: prima di lui, si intratteneva soltanto nei salotti dove pascolava Dio. La fotografia documentaria diserta l’immaginario parassitario, e -qualche volta- rivendica la propria caduta. La fotografia documentaria è magica, quanto mi-
steriosa; è un’interpretazione del reale contro lo sbadiglio universale. All’infuori della fotografia del bello, del giusto, del buono e del disvelamento del mondo così com’è, tutte le iniziative fotografiche sono senza valore! Non si può fare fotografia documentaria senza lacrime e senza riso. Quando, in ogni fede, in ogni politica, in ogni merce e in tutta l’arte dei narcisi un fotografo vede la sozzura, l’imbroglio e la vigliaccheria non ha
serviti in salsa piccante, Pasolini diceva. La fotografia parassitaria brucia la conoscenza, e solo la conoscenza ridestata uccide l’arroganza del falso. Il vero fotografo si distingue a malapena dal folle, ma la sua follia è regale, è ammessa insieme alle sue utopie scevre di qualsiasi chiesa, stato o setta: e qualsiasi fotografo che non accetta la propria follia è un malato di mente! Ogni fotografo che alberga nella garrotta delle
«La buona fotografia non ha cambiato il mondo, la brutta fotografia sì!» Maurizio Rebuzzini (forse) più diritto di attendere: deve passare alla profanazione dell’esistente e fare della fotografia uno strumento di ribellione contro le costellazioni dell’istituito. Quando la fotografia è scellerata tocca gli estremi di tutte le coscienze infatuate del brutto incensato e va incontro al pericolo di essere compresa. Steve McCurry, avendo scelto la saggezza dell’imbecille e l’ottusità del maestro senza qualità, è un fulgido esempio di banalità garantita: non perché cancella pali, colora bambini, mette denti ai vecchi, abbellisce il tragico... ma perché la sua visione da portinaio, smerciata come eroica, manca della grazia necessaria a fare uscire la fotografia dal marcitoio delle certezze. Solo i ciarlatani a corto di trucchi incantano ancora: l’innocenza dello stupore, in fotografia e dappertutto, è la sola scabbia dell’autentico che si chiama vita. Il fatto è che non c’è fotografia se non nell’indignazione alla vita. Le verità (non solo in fotografia) cominciano dalla denuncia di un conflitto e finiscono nelle migliori gallerie, insieme al consenso della polizia. Tutto quello che so, l’ho imparato dalle lacrime dei bambini cresciuti nella fame e nelle guerre: i maestri vanno cotti e
“buone intenzioni” di ogni potere non può che arrossire vergogna per i sospiri estremi dell’umanità o alzare il tiro.
DELLA FOTOGRAFIA PARASSITARIA Nell’anomalia della fotografia documentaria, Cristina García Rodero esprime una lezione di umiltà e -al contempo- un invito alla conoscenza di un altrove che danza ai margini dell’esistente: «Ho cercato di fotografare l’anima misteriosa, vera e magica della Spagna popolare in tutta la sua passione, amore, umorismo, tenerezza, rabbia e dolore, in tutta la sua verità, raccontando i momenti pieni e intensi nella vita di personaggi così semplici e irresistibili, come fosse una sfida personale nella quale ho investito tutto il mio cuore». Tutto vero. La fotografa spagnola ha compreso bene che tutte le umiliazioni degli esclusi provengono dal fatto che rifiutano di morire di fame o di fede, e la sua ritrattistica popolare “intaglia” la necessità di sopravvivenza al di là di riti, miti e simulacri che istillano il terrore del domani. Dicono le note su Cristina García Rodero: nasce a Puertollano (Ciudad Real), nella comunità au-
tonoma di Castiglia - La Mancia, il 14 ottobre 1949. Inizia una formazione accademica come pittrice, studia Belle Arti presso l’Università Complutense di Madrid, poi riversa la sua creatività nella fotografia documentaria. Nel 1973, le viene assegnata una borsa di studio dalla Fundación Juan March, per documentare le tradizioni popolari in Spagna, che pubblica nel volume España oculta, edito da Lundwerg nel 1989: premio al miglior libro fotografico alla Ventesima edizione dei Rencontres internationales de la photographie d’Arles, in Francia. Il suo lavoro diventa un riferimento obbligatorio nel mondo della fotografia documentaristica (e per molti artistica); le vengono conferiti altri riconoscimenti di prestigio, tra i quali Premio Nacional de Fotografía, nel 1996, e Premio Godó de Fotoperiodismo, nel 2000. È la prima spagnola a fare parte dell’agenzia Magnum Photos: dal 2009, è membro permanente (e questo non sempre è un merito, visto che nell’elencario dell’Agenzia fotografica più blasonata del mondo ci sono fotografi molto più adatti ai Calendari Pirelli o Lavazza e al servizio di sarti per signore della “buona borghesia” che fotogiornalisti secondo lo spirito delle origini, tracciate nel 1947). Nell’opera di Cristina García Rodero si mischiano concetti antropologici con riferimenti letterari e artistici. Attraverso la ricerca delle radici del popolo e la catalogazione di riti e rituali religiosi, la fotografa spagnola mette in luce tracce antiche, magiche, misteriose, epifaniche dei popoli, e li àncora nelle differenze del loro ambiente. Il suo linguaggio visuale è potente, quanto affascinante, curioso: mostra con tenerezza le stranezze e le assurdità della vita quotidiana, e -in contesti culturali che potrebbero sembrare lontani- rappresenta le radici dell’umano.
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Sguardi su A partire dal 1995, Cristina García Rodero documenta la spiritualità popolare nei paesi mediterranei e l’intreccio di carnalità e spiritualità che caratterizza i riti in Africa e America Latina. Il racconto sul culto di Maria Lionza, in Venezuela (1999), e le emozionanti fotografie dei pellegrini haitiani (1999) sono di una bellezza architetturale bruciante. In molte delle immagini di Cristina García Rodero, raccolte tra il 1974 e il 1989, c’è un percorso artistico/politico che porta a riflettere sulla transizione dal fascismo di Franco ai successivi elementi di democrazia. Ciò che incuriosisce della sua fotografia non è la nascita di un capolavoro, ma la compiutezza della fisionomia e della memoria storica raccontata fuori da ogni restaurazione: l’epica della lucidità che sborda dalle sue immagini si pone al di qua del circuito delle merci, e sembra dire che non c’è salvezza fuori dalla bava delle proprie radici. Una società muore quando recide verità che la escludono.
SULLA MAGIA DELLA FOTOGRAFIA DOCUMENTARIA Rondò allegro, ma non troppo. La scrittura fotografica di Cristina García Rodero è una cartografia del coraggio e dell’aurora della fotografia spuria da ogni conformismo. La sua scrittura fotografica esprime l’essenza di ciò che si riesce a restituire alla storia degli Ultimi... a far riemergere che tra fotografia e potere l’incompatibilità è totale. L’obbedienza della fotografia al massacro dei migranti (nel Mediterraneo e ovunque le persone fuggono da guerre, soprusi, miserie infinite, in cerca di un mondo meno feroce) è mostruosa, e i fotografi premiati per la falsa denuncia di questo genocidio accettato da tutte le nazioni andrebbero passati per le armi, o disciolti nell’acido della dimenticanza. La fotografia ha adorato soltanto coloro che l’hanno fatta perire. Come nel caso di Cristina García Rodero, qualche volta, la fotografia è restituita alla malinconia del vero, e punta dritto alla coscienza degli Uomini: per dire loro che non
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sono le tombe degli eroi a ricordare il passato dei popoli, ma il sangue degli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali. La fotografia concepita come un almanacco impoverisce l’intelligenza nel regno della stupidità. Nemmeno la stoltezza della croce riesce a superare l’ossario di sciocchezze fotografiche che arricchiscono l’industria delle immagini; solo nel disinganno della rivolta si può disprezzare un’epoca che ha legittimato le carneficine sugli altari dello spettacolo. «E lo spettacolo è il discorso che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza» (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, dal 1967): per l’appunto, la fotografia è uno degli spettacoli principali di produzione della società fluida. La fotografia è la ricostruzione materiale dell’illusione mercantile; il carattere fondamentale della fotografia deriva dal fatto che i suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo. È il sole della merce che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. La fotografia documentaria di Cristina García Rodero entra nelle pieghe del reale con quel tanto di surrealtà che trasporta il rito -quale che sia- nella centralità del vivere comune: Uomini, Donne, Bambini si situano al culmine della razionalità filosofica occidentale e non rappresentano -come nella maggior parte della fotografia dominante- una copia degradata dell’Anima, ma i gocciolamenti emozionali del primato della Coscienza sulla Storia. L’immaginale di Cristina García Rodero fa da ponte tra pensiero oggettivo e pensiero soggettivo, e in questa relazione figurativa emerge l’espressione della mondità (desacralizzata) costitutiva dell’esistenza umana. Mondo e poesia sono intrecciati, e la sfera culturale nella quale debuttano non è altro che specchio del magico che si rovescia sulla datità della politica istituzionale. Non ci sono norme che regolino le molteplicità dell’agire in ogni rituale, ma una condizione
comune di ossessioni che riprendono la memoria dei Popoli e la rovesciano nella Storia. A vedere i volti scarnificati, i corpi martoriati, gli atteggiamenti di donne incappucciate in nero, uomini che portano sulle spalle croci pesanti, sacrifici mimati di intenso erotismo (dove la donna è oggetto di profanazione)... accostarsi alle allegorie di danze sensuali, di nudi che rivelano il mistero di un sapere antico, fallocratico, anche... di falsi dei, di false iniziazioni, di false liberazioni sessuali, di dolori e gioie rivendicate da riti secolari... si riconoscono le ossessioni e i sintomi di una forza metafisica che compenetra le dimensioni plurali dell’esistenza. La teatralità prende il posto della congettura totemica, tabuistica e la verità del mondo filtra attraverso piani espressivi nei quali il pensiero fotografato è anche possibilità di risarcimento o risentimento contro ogni forma d’ingerenza evangelica o pagana. Specie nelle immagini dei riti, delle feste, del gioco come rottura dei privilegi, Cristina García Rodero prende congedo dal cronachismo dei mezzi di comunicazione di massa e figura una tensione culturale tra fotografia e politica. È un fare-fotografia al servizio di una conoscenza più ampia, tesa a comprendere più che ha denunciare qualcosa che ha a che fare con la protezione della dignità e della bellezza degli Ultimi: una creatività linguistica disingannata, addolorata, anche, una specie di amore verso i ritrattati presi fuori da ogni condizionamento dottrinario o politico. È una lingua materna e un pensiero plurale che sfugge al pensiero comune. Ogni «creatività linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua» (Hannah Arendt: La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, a cura di Alessandro Dal Lago; Mimesis, 2005). L’affabulazione estetica della fotografia documentaria si realizza sempre in relazione al mondo. Lo sguardo poetico di Cristina García Rodero va oltre l’occasionalità del rito e dell’evento: è un’escavazione di corpi, una ricerca di anime, una visione austera dell’in-
quietudine che attraversa ogni immagine fino a trasformarsi in icona. A vedere bene, il suo immaginale contiene lo spirito libertario che trionfa su ogni mito: la donna lascia il posto alla fotografa, e si prende il diritto di ricordare che al fondo di ogni rituale si cela l’ombra guerriera della liberazione. Il portolano delle sue fotografie (ovunque siano realizzate) si richiama a una società libera, senza classi e senza stati, senza patrie né bandiere che giustificano la violenza, la confessione e l’assoluzione. I vinti non si calpestano, si amano, e basta! La fotografia in utopia di Cristina García Rodero -vogliamo ribadirlo- si definisce in ciò che ancora non stato realizzato, ma che è possibile realizzare. Il bianconero forte, l’inquadratura audace, il taglio passionale delle sue fotografie denunciano un’umanità falsamente pacificata e riannodano la vita quotidiana degli Umili, dei Battuti, degli Offesi a forme di solidarietà nelle quali non c’è bisogno di fucilazioni, né di patiboli, per raggiungere lo “stato di grazia” di chi non ha Volto né Parola. La fraternità non si porta avanti con i sermoni dei politici e dei preti, ma con la resistenza sociale che si rovescia in decostruzione di ogni autoritarismo. La catenaria fotografica di Cristina García Rodero non lo dice così... certo... ma le finalità delle sue immagini si librano nella bellezza, nella libertà e nella giustizia sociale. La fotografia non esiste, e non esiste né colpa né punizione, né vizio né virtù. Non esistono fotografi ottimisti, né pessimisti, ma soltanto imbecilli allegri e imbecilli tristi! In ogni fotografo sonnecchia un cretino, e quando impugna una macchina fotografica c’è un po’ più male nel mondo. Come i dementi meravigliati, i fotografi si sorprendono della propria capacità tecnologica e cercano invano di dargli un nome. La fotografia dello stupore nemmeno li sfiora: è un vangelo apocrifo che rappresenta, vuole rappresentare, la dissoluzione della storia del potere per restituire dignità e amore alla Vita. ❖