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ANNO XXIII - NUMERO 223 - LUGLIO 2016
Muhammad Ali IN RICORDO Ricoh Theta S CHE FOTOGRAMMI!
MASSIMO SESTINI ORIZZONTI D’ITALIA... SUD NORD
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
prima di cominciare COMPLEMENTO OGGETTO E INTEGRAZIONE (FORSE). Immagini significative ai fini di argomenti affrontati su questo numero non hanno avuto modo di essere pubblicate nei rispettivi ambiti. Superflue nelle sedi redazionali preposte, trovano adeguato spazio qui, in introduzione generale. Forse. Ci riferiamo alla celebrazione di Muhammad Ali, da pagina ventisette, e al consistente cammino declinato a partire dalla definita carta ritagliata cinese, da pagina cinquantadue. In tre passaggi consequenziali.
A pagina ventisette, visualizziamo l’edizione dell’imponente monografia Greatest of All Time A Tribute to Muhammad Ali (Taschen Verlag), ribadendo altresì il valore della fotografia di copertina, realizzata da Neil Leifer: knock out con il quale Muhammad Ali ha sconfitto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, il 25 maggio 1965. Qui, proponiamo un’altra fotografia (bianconero) dello stesso momento, di John Rooney, che compare nella scenografia della serie televisiva Ncis - Unità anticrimine, nell’arredamento dell’ufficio del direttore Leon Vance, interpretato dall’attore Rocky Carroll. A pagina trenta, proponiamo un ritratto di Muhammad Ali, del 1967, realizzato da Carl Fischer, ispirato al Martirio di San Sebastiano, interpretato da numerosi pittori, a partire dal Perugino (affresco del 1505, nella chiesa di San Sebastiano, a Panicale, in provincia di Perugia). Questo stesso ritratto è stato pubblicato da Esquire, nell’aprile 1968, quando Muhammad Ali venne privato dei suoi titoli pugilistici per aver rifiutato di prestare servizio militare nella guerra in Vietnam, in relazione a proprie convinzioni religiose.
E non lasciamo che i sentimenti se ne vadano. Se ne possano andare. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 31 L’estensione quantitativa dei pionieri della natura che si fa di sé medesima pittrice obbliga a sottolineare come e quanto la fotografia non sia stata invenzione di un qualsiasi singolo uomo: più persone, tutte all’oscuro degli altri sperimentatori, agirono nella medesima direzione, nello stesso momento. Insomma, la “fotografia” era nell’aria. mFranti; su questo numero, a pagina 8 La Ricoh Theta S è una dotazione che non risolve nulla, ma assolve tanto. La differenza verso la ri-soluzione e determinazione fotografica espressiva (nella propria capacità documentativa) non è compito suo (né dell’industria produttrice, in generale e assoluto), ma della capacità dell’utilizzatore: in coerente passaggio da consumer a professional. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 25
Copertina Autoscatto (in forma si selfie?) di Massimo Sestini in equilibrio sui pattini esterni di un elicottero AugustaWestland AW 139 del 1° Reparto Volo della Polizia di Stato (sul Colosseo, a Roma, al crepuscolo dello scorso quindici marzo): inquadratura verticale dal fotogramma orizzontale completo estrapolato da un video sferico di trecentosessanta gradi ripreso con Ricoh Theta S. Di questa combinazione, e altro, riferiamo da pagina 23; il progetto Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato è presentato, commentato e lodato da pagina 32. In questo ordine, con considerazioni differenti: rapporto con gli utensili, diciamola così, e lessico della fotografia. In questo ordine
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un chiudibusta (errinofilia) ungherese del 1908, emesso in occasione di una esposizione fieristica (tecnica, forse) svoltasi dal ventiquattro maggio al diciotto giugno, a Budapest
7 Editoriale
ANTONIO BORDONI
Tra tanto altro, la Ricoh Theta S, richiamata a proposito, interpreta un mandato statutario della tecnica fotografica: l’apparecchio assolve, l’autore risolve. Diamine
In accompagnamento alla Seagull da terrazza in legno, a pagina sessantuno, riprendiamo la presentazione dei direttori di Foto-Notiziario Professionale (Bruno Palazzi e Maurizio Rebuzzini)... in controcampo.
8 Al proprio tempo Sir Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, è stato anche esperto di fotografia: riflessioni, considerazioni, svarioni e raccolta di suoi scritti a tema
LUGLIO 2016
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
12 Joker: dal fumetto
Anno XXIII - numero 223 - 6,50 euro
Film di animazione ripreso da uno degli album fondanti della saga: Batman: The Killing Joke. Con reflex Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
16 Ritratti marchigiani Bella e buona, la retrovisione di Vincenzo Marzocchini sugli interpreti originari di un genere fotografico di punta
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
20 La vita di Vivian Maier Un albo ottimamente illustrato da Cinzia Ghigliano scandisce i termini di una fotografa della quale si sta parlando molto (forse troppo e a sproposito). Ma di Antonio Bordoni
23 Theta S: a tutto tondo Dietro le quinte degli Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato, di Massimo Sestini (da pagina 32), e genesi dell’autoritratto in copertina. La nostra di Angelo Galantini
27 Il più grande! Greatest of all Time - A Tribute to Muhammad Ali in ricordo del Campione, recentemente scomparso
32 Orizzonti d’Italia Fotografia di Massimo Sestini dall’alto, in costruzione visiva affascinante e ammaliante. Dal Sud al Nord del nostro paese, all’alba e al tramonto. Perentorio di Maurizio Rebuzzini
45 Imago Serie fotografica del bravo Pio Tarantini, che si offre e propone come un’apparizione. Lirismo e mistero di Roberto Mutti
52 Ritagli in carta Arte popolare cinese in chiave di propaganda (anni Sessanta)... con richiami e risvolti fotografici
65 Maurizio Galimberti
HANNO
COLLABORATO
Sergio Alessandri Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Roberto Mutti Enrica Peracin Enrico Ratto (Maledetti Fotografi) Franco Sergio Rebosio Massimo Sestini Pio Tarantini Wei Yuzhang Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
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editoriale MAURIZIO REBUZZINI
T
utti quanti, prima o poi, siamo costretti a guardarci nello specchio, per vedere -e forse capire- chi siamo realmente. A parte tanti e tanti richiami letterari, alcuni dei quali assolutamente fantastici (a partire da Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, di Lewis Carroll, del 1871, seguito delle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie), la figura riflessa è sempre stata fonte di considerazioni che approdano a tante e tante considerazioni: molte delle quali comportamentali, fino all’analisi psicologica della personalità... e dintorni. Qui e ora, rimanendo entro i confini prestabiliti della nostra materia ispiratrice, che rimane la Fotografia -qualsiasi significato abbia per ciascuno di noi-, non ignoriamo il senso e valore dell’autoscatto, che appartiene alla Storia. E, allora, ospitalità d’onore per il primo autoritratto fotografico della nostra Storia, realizzato nel 1840, agli albori, da Hippolyte Bayard (1801-1887), pioniere allora ignorato dalla nomenklatura, in posa da annegato, che di fatto -e senza alcuna intenzione in proposito- sottolineò subito l’illusione stessa della fotografia: autoritratto oggettivamente irrealizzabile da un affogato-suicida; dunque, autoritratto simbolico della discrepanza tra realtà e sua raffigurazione/rappresentazione fotografica. Tra quell’autoritratto originario e l’evoluzione del genere sono state cadenzate tante e tante fotografie di sostanza. Non occorre richiamarle in questa sede, ma è necessario tenerne conto, per declinare e scandire un concetto che ci è particolarmente caro: la tecnica fotografica -spesso portatrice di significati impliciti ed espliciti- assolve, e l’autore risolve. Al proposito, la copertina di questo stesso numero di FOTOgraphia è esplicita nella propria raffigurazione, peraltro ripresa e commentata anche da pagina ventitré, in appoggio al portfolio di Orizzonti d’Italia, di Massimo Sestini, cadenzato da pagina trentadue. Come annotato, l’autoritratto in equilibrio sui pattini di un elicottero in volo è un fotogramma ricavato da un video a trecentosessanta gradi sferici ripreso con Ricoh Theta S: dunque, con le proprie prestazioni peculiari, l’utensile assolve e, con la propria intelligenza e capacità, l’autore risolve. Harvey Keitel recita bene questo passaggio. Nel film Smoke, più volte richiamato sulle nostre pagine, nei panni del tabaccaio Auggie Wren, annota che spesso non si capiscono le fotografie, perché si va troppo in fretta: «Questo è il mio consiglio. Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi» (Macbeth, di William Shakespeare, Atto V, Scena V: «Domani, e poi domani, e poi domani, / il tempo striscia, un giorno dopo l’altro»). Allora? Allora, in affermazione imperitura, onore e merito alla Ricoh Theta S, anche per quanto è latente, ma non certo latitante, nella propria proposizione tecnica, capace di sintetizzare l’attualità della raffigurazione visiva con un piglio che lascia tanti e tanti margini individuali di intervento e interpretazione. Dall’assoluzione alla risoluzione del lessico fotografico passa la stessa linea ideologica che c’è tra la realtà e la propria raffigurazione. Magia e sortilegio della Fotografia. Anche a partire dall’autoritratto... o fingendo di averlo fatto. Maurizio Rebuzzini
Per certi versi, che ci sono chiari ed espliciti, la Ricoh Theta S, in commercio per una cifra sostanziosamente risibile, entro i quattrocento euro, è una dotazione fotografica e video, oppure video e fotografica, simbolica del sottile rapporto che collega la mediazione tecnica al linguaggio espressivo. Come molto, forse tutto, è latente (ma non latitante) e passiva. La trasformazione tra ciò che assolve e quanto consente di risolvere con la ripresa fotografica (e video) sta all’intelligenza e capacità dell’autore. Dunque, questa configurazione definisce e disegna ciò che dobbiamo intendere per applicazione fotografica individuale, capace di interpretare e definire i passi visivi necessari alla grammatica. Alla Fotografia.
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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)
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AL PROPRIO TEMPO
Lo sappiamo bene, forse. Date ufficiali a parte, con certificazioni al 1839, si può conteggiare e considerare che l’era della fotografia sia iniziata nel 1827 (o 1826), con una immagine prodotta utilizzando una lastra ricoperta di bitume, che ha richiesto otto ore di esposizione: l’eliografia Veduta dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833), che è conteggiata e classificata come la prima fotografia in assoluto della Storia (ritrovata nel 1952 da Helmut Gernsheim, è stata donata alla University of Texas, di Austin, dove è ora conservata in una cornice 25,8x29cm). Lo sappiamo altrettanto bene, e ne abbiamo già riferito in tante e tante occasioni, ma qui la ripetizione è necessaria. L’annuncio del 7 gennaio 1839, con il quale l’accademico François Jean Dominique Arago offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale dell’invenzione (della natura che si fa di sé medesima pittrice), in forma di dagherrotipo, sollecitò altre richieste/pretese di paternità: William Henry Fox Talbot (1800-1877), dall’Inghilterra, e Hippolyte Bayard (1807-1887), dalla stessa Parigi di Daguerre. E, poi, è necessario ricordare anche Hércules Florence (Antoine Hércules Romuald Florence; 1804-1879), pittore e sperimentatore franco-brasiliano. Gli si attribuiscono risultati ottimali, dal 1832, in anticipo temporale sulle date ufficiali del 1839. Estraneo a qualsivoglia equilibrio socio-politico, è rimasto ignorato per un secolo e mezzo, fino al 1976, quando il fotografo brasiliano e storico Boris Kossoy (nato nel 1941) ritrovò i suoi diari e le sue note tecniche, compresa una definizione di “fotografia” (?), datata 1834. Comunque, prima di altre considerazioni, l’estensione quantitativa dei pionieri della natura che si fa di sé medesima pittrice obbliga a sottolineare come e quanto la fotografia non sia stata invenzione di un qualsiasi singolo uomo: più persone, tutte all’oscuro degli altri sperimentatori, agirono nella medesima direzione, nello stesso momento. Insomma, la “fotografia” era nell’aria.
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Parliamone
E altri tanti predecessori si registrano alla fine del Settecento, quando -ignorando il concetto di fissaggio dell’immagine- l’azione della luce proseguiva fino ad annerire completamente le loro prove. Ricordiamolo ancora: la svolta si deve a sir John Frederick William Herschel (1792-1871; astronomo, matematico e chimico). Nel 1819, scopre che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento non colpiti dalla luce. È la folgorazione e l’impulso definitivo, che consente di fissare stabilmente le copie “fotografiche”. Con ciò, rileviamo come e quanto tutti gli sperimentatori e pionieri (Joseph Nicéphore Niépce, Louis Jacques Mandé Daguerre, Hippolyte Bayard e Hércules Florence, limitandoci a quelli che ce l’hanno fatta!) fossero figli del proprio tempo e del relativo clima sociale. Infatti, coniando l’espressione che ci è cara, e che spesso ripetiamo, che chiama in causa la natura che si fa di sé medesima pittrice, sottolineiamo come ciascuno di loro fosse alla ricerca di un nuovo mezzo di registrazione delle immagini, forse -addirittura- di una nuova espressione artistica. Ciascuno per sé, e tutti in comunione di intenti, ognuno di loro ha studiato ed è approdato a una tecnica figurativa di massa, rapida, economica e... rispettosa dello spirito dell’era della borghesia interessata al realismo. Ecco qui perché il pensiero della “fotografia”, i cui princìpi fisici e chimici erano noti da secoli e secoli (formazione dell’immagine e azione della luce), maturò all’inizio dell’Ottocento, e non cento anni prima, duecento anni prima: ancora, era del realismo, immediatamente successiva alla apertura illuministica del pensiero.
Peter O’Toole nei panni di sir Arthur Conan Doyle, nel film FairyTale: A True Story (in Italia, Favole), di Charles Sturridge, del 1997, che narra la vicenda delle fate di Cottingley. Sherlock Holmes e la fotografia. Fotogramma dal film Sherlock Holmes and The Case of The Silk Stocking (Sherlock Holmes e il caso della calza di seta), di Simon Cellan Jones, del 2004, con Rupert Everett nei panni del celebre investigatore. (in alto, a destra) Al giorno d’oggi, la residenza londinese di Sherlock Holmes, al 221b di Baker street, ospita il Museo dedicato.
(pagina accanto) Elsie Wright (1901-1988) e Frances Griffiths (1907-1986): Una fata offre fiori a Iris; 1916. Sir Arthur Conan Doyle ha certificato l’autenticità della presenza di una fata nell’inquadratura.
Insomma: al proprio tempo. Tanto che, in visione derivata, e forse persino traslata, anche gli investigatori seriali della letteratura, e oggi delle serie televisive, sono tutti inviolabilmente figli del proprio tempo: da cui le caratteristiche formali che li definiscono. Per esempio, chi si ricorda ancora il Tenente Colombo, degli anni Settanta, perfettamente caratterizzato da Peter Falk (con relativo incontro della fotografia, in almeno quattro episodi, uno sostanziale, gli altri complementari [FOTOgraphia, maggio 2009 e maggio 2016]), non può non aver rilevato come ogni indagine si sia basata sul suo candido e ingenuo stupore per tecnologie allora nuove e innovative: dal fax alle segreterie telefoniche programmabili, alla macchina per scrivere elettrica con nastro in politene. In questo senso, figlio del proprio tempo, Sherlock Holmes, personaggio creato da sir Arthur Conan Doyle (1859-1930), alla fine dell’Ottocento, è un investigatore assetato di cono-
scenza, che spazia in lungo e largo attraverso le scienze, che applica ragionamenti deduttivi basati su osservazioni certe: spirito e logica di un tempo di eccellenti curiosità scientifiche. Ma perché ci interessa Sherlock Holmes? Presto detto: perché il suo ideatore e scrittore sir Arthur Conan Doyle, la cui parabola letteraria è vampirizzata dalla notorietà del personaggio, era un esperto di fotografia. Tra tanto, lo certifica anche una raccolta di suoi articoli a tema, pubblicata più di trenta anni fa: Essays on Photography: The Unknown Conan Doyle, a cura di John Michael Gibson e Richard Lancelyn Green; Secker & Warburg, 1982; 128 pagine 13x21,5cm, cartonato con sovraccoperta [a pagina 10]. Dunque, in un certo senso, la personalità di Sherlock Holmes, la sua curiosità, ha sostanziosi debiti di riconoscenza con la fotografia. Tanto che la sua residenza londinese, al 221b di Baker street (dove oggi ha
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sede il Museo dedicato) è ubicata nella strada di Reading lungo la quale William Henry Fox Talbot, l’autentico inventore della fotografia così come l’abbiamo sempre intesa e considerata (negativo-matrice stampabile in un illimitato numero di copie, oggi file digitale), aveva avviato il proprio studio fotografico, nel 1844. Però, a proposito dell’animo fotografico di sir Arthur Conan Doyle, va rilevato un suo clamoroso e macroscopico errore. La vicenda è nota, ed è stata anche rievocata in un film che la racconta bene: FairyTale: A True Story (in Italia, Favole), di Charles Sturridge, del 1997, con Peter O’ Toole nei panni di sir Arthur Conan Doyle e Harvey Keitel in quelli di Harry Houdini, altrettanto coinvolto. Nel 1916, la fotografia Una fata offre fiori a Iris, delle cuginette Elsie Wright (1901-1988) e Frances Griffiths (1907-1986), di sedici e dieci anni, sollecitò dibattiti sull’esistenza degli esseri soprannaturali che sostenevano di incontrare nelle loro passeggiate [FOTOgraphia, maggio 2011]. Al momento di sviluppare la pellicola, la famiglia constatò con stupore e meraviglia la presenza delle fate. Esperto di fotografia, ma soprattutto appassionato di spiritismo, sir Arthur Conan Doyle si entusiasmò immediatamente per queste immagini. Convinto della loro autenticità (perché voleva crederci!) e sostenuto da una lunga indagine, pubblicò le fotografie
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Parliamone
Essays on Photography: The Unknown Conan Doyle, a cura di John Michael Gibson e Richard Lancelyn Green; Secker & Warburg, 1982; 128 pagine 13x21,5cm, cartonato con sovraccoperta. Autentica rarità bibliografica, della quale andiamo fieri e orgogliosi, avendola nella nostra biblioteca personale, questa raccolta riunisce quattordici saggi fotografici scritti da sir Arthur Conan Doyle tra il 1881 e il 1885, che rivelano la sua competenza in materia.
che provocarono un tale effetto che le fate di Cottingley assunsero rilevanza nazionale (pubblicazione su Strand Magazine, del novembre 1920, con il titolo Fairies photographed - an epoch making event / Fate fotografate - un evento epocale). La polemica sarebbe durata per diversi decenni. All’età di ottantatré anni, Elsie dichiarò che lei e la cugina avevano costruito le fate con figure ritagliate in un libro (e ci mancherebbe altro!). Invece, Frances non confermò mai la dichiarazione della cugina e rimase fedele alla propria versione fino alla fine dei suoi giorni. Comunque, rileviamo ancora, e così concludiamo, che la propensione fotografica di sir Arthur Conan Doyle, a volte offuscata dalla sua passione per l’occultismo (comunque sia, a propria volta, figlia del tempo: come certificano le false fotografie di fantasmi, proliferate a fine Ottocento), è tuttora argomento di studio. A questo proposito, citiamo una relazione adeguatamente recente: Sir Arthur Conan Doyle et les esprits photographiés (e gli spiriti fotografati), di Antoine Faivre, storico dell’esoterismo e ricercatore francese, direttore di studi emerito all’École Pratique des Hautes Études, di Parigi, pubblicata sul numero di ottobre-dicembre 2003 di Ethnologie française, edito dall’autorevole Presses Universitaires de France. Ovvero, dal proprio tempo ai giorni nostri. Forse e circa. ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
È ufficiale, è annunciato: il prossimo lunedì venticinque luglio, negli Stati Uniti, arriverà nelle sale la trasposizione cinematografica animata del fumetto Batman: The Killing Joke, diretta da Sam Liu, per la serie DC Universe Animated Original (settantadue minuti). Il giorno dopo, martedì ventisei luglio, è prevista la liberalizzazione in internet; e il relativo Dvd / Blu-ray sarà disponibile dal successivo due agosto. Ovviamente, le date che contano sono proprio queste aggiuntive, perché escludiamo che il film d’animazione, per l’appunto sceneggiato da una avventura originaria a fumetti, possa sperare in un qualsivoglia seguito nelle sale cinematografiche. In definitiva, si tratta di argomento trasversale al cinema in quanto tale, appetibile soprattutto (ma, forse, soltanto!) al pubblico dei comics. Il nostro attuale interesse redazionale, collocato all’interno del contenitore che scandisce termini e modi della presenza della fotografia nel cinema, sia nella consistenza di sceneggiature, sia nella trasversalità di scenografie, si basa sulle illustrazioni di copertina che hanno scandito la cadenza di questa avventura a fumetti, passata dagli albi originari statunitensi alle conseguenti traduzioni italiane. Ancora, va rilevato che anche la trasposizione cinematografica ha ripreso l’illustrazione primigenia (iniziale), in proprio adattamento. Allora: copertina dopo copertina (e stiamo per riferirne, attingendo al nostro archivio tematico), fino al richiamo cinematografico attuale, il Joker richiama con sorriso malefico che spunta dietro una reflex 35mm di fantasia, impugnata per l’inquadratura verticale. Ovviamente, la sollecitazione originaria Smile, degli album statunitensi, diventa Sorridi (e, anche, Sorridi!), nelle edizioni italiane. Tutto qui, e niente di più... per quanto riguarda l’allineamento con la fotografia, nostra materia ufficialmente istituzionale, che si concretizza nel gesto dello scatto e nella stilizzazione di una reflex 35mm. Soltanto, in aggiunta, rileviamo e quantifichiamo che il valore e la fama di questa
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A fine luglio, il celebre fumetto Batman: The Killing Joke diventa film di animazione, per DC Universe Animated Original.
avventura, e del relativo richiamo, sono tanti e tali che la stessa stilizzazione ha dato vita a una moltiplicazione quantitativamente significativa di interpretazioni, omaggi, parodie, personalizzazioni, citazioni a tema. Basta ricercare sul web, per incontrare una miriade di versioni derivate.
(pagina accanto) Prima edizione statunitense di Batman: The Killing Joke, del 1988.
DI SORRISO IN SORRISO A questo punto, è giocoforza richiamare i termini identificativi e qualificanti del fumetto in questione, in essere.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
È
JOKER: DAL FUMETTO
Cinema
SINOSSI La storia di Batman: The Killing Joke, che sta per dare vita a una trascrizione animata in formato cinematografico, esamina il rapporto contorto tra l’eroe ideato da Bob Kane e il suo nemico storico, il Joker, che compare fin dal primo numero del celebre fumetto DC Comics, del 1940, che nelle trasposizioni cinematografiche ha avuto numerosi volti: dal primo, interpretato da Cesar Romero, per i diciotto episodi della serie televisiva Batman, a Jack Nicholson, nel film Batman, diretto da Tim Burton, nel 1989, che fu preferito ai papabili Tim Curry, Willem Dafoe, David Bowie e James Woods.
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Dopo l’edizione originaria, in albo DC Comics, del 1988, ai tempi venduto a 3,50 dollari, e oggi altrimenti quotato nel mercato antiquario dei fumetti, Batman: The Killing Joke è stato pubblicato anche in versioni librarie di spessore. Tra le tante, citiamo questa Deluxe Edition dell’inglese Titan Books, del 2008, accompagnata da testi introduttivi e a commento.
Due le edizioni italiane dell’avventura a fumetti Batman: The Killing Joke, sceneggiata da Alan Moore e disegnata da Brian Bolland (con colorazioni di John Higgins, lettering di Richard Starkings e redazione di Denny O’Neil): la prima, del gennaio 1990, in albo allegato al numero Settantasei del mensile Corto Maltese, edito da Rizzoli; la seconda, del 1997, per Play Press. Entrambi gli albi hanno replicato gli stessi dati tecnici di produzione dell’originario statunitense del 1988 (pagina precedente).
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
Batman: The Killing Joke è una avventura a fumetti che riprende il personaggio creato da Bob Kane. Sceneggiata da Alan Moore e disegnata da Brian Bolland (con colorazioni di John Higgins, lettering di Richard Starkings e redazione di Denny O’ Neil), è stata originariamente pubblicata da DC Comics, nel 1988: la copertina della prima edizione si distingue per il colore verde chiaro del titolo [sulla pagina precedente], che poi divenne giallo nelle edizioni successive. L’albo originario, in fascicolo unico autoconclusivo, del 1988, di quarantotto pagine 16,8x25,8cm, è stato anche accompagnato da ulteriori edizioni librarie di altro impegno bibliografico. Tra le tante, va soprattutto ricordata The Deluxe Edition pubblicata dall’inglese Titan Books, nel 2008, accompagnata da testi introduttivi e a commento: sessantaquattro pagine 17,5x27,5cm, cartonato con sovraccoperta [qui accanto]. Nota parallela: nel corso degli anni, le edizioni DC Comics sono passate da 3,50 dollari di costo, l’originaria del 1988, a 4,95 dollari, la decima di una mezza dozzina di stagioni dopo; a queste ufficialità fanno seguito e contorno quotazioni antiquarie, che sfuggono da qualsivoglia cadenza razionale. La prima pubblicazione italiana di Batman: The Killing Joke data al gennaio 1990, in un albo allegato al numero Settantasei del mensile Corto Maltese, edito da Rizzoli: stessi dati tecnici dell’originario statunitense [qui accanto]. A seguire, nell’aprile 1997, le Edizioni Play Press hanno replicato la versione italiana, ancora coerente con quella di origine [ancora, qui accanto].
Nella sceneggiatura di Alan Moore si approda a una delle possibili origini del personaggio e si approfondiscono momenti esistenziali precedentemente sconosciuti. La storia inizia con l’ennesima fuga del Joker dall’Arkham Asylum. Dopo aver preso possesso di un Luna Park abbandonato, il perfido personaggio
si presenta a casa dell’ispettore James Gordon, dove ferisce la figlia adottiva Barbara (ex Batgirl), costringendola su una sedia a rotelle. Questo accanimento e il rapimento dello stesso ispettore inducono Batman a intervenire... alla sua maniera. E avanti, su questo passo, tra colpi di scena e soluzioni. ❖
Storia della fotografia di Angelo Galantini
RITRATTI MARCHIGIANI
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Comprensiva di una illuminante introduzione di Diego Mormorio, personalità di spicco della riflessione fotografica, la raccolta/retrospettiva Ritratti al plurale, curata da Vincenzo Marzocchini, attento osservatore capace di coniugare il passato al presente, è una convincente retrovisione che sottolinea i passi originari della proposizione promessa e anticipata: per l’appunto, il ritratto fotografico posato, con svolgimento professionale. Dunque, subito chiarito: il punto di vista esclude l’istantanea e altre proiezioni (che pure hanno merito e valore, ma non qui, ma non in questo excursus). Ovvero, il punto di vista osserva, analizza e approfondisce la fotografia d’atelier, la professione del fotografo, concentrando la propria attenzione sui primordi della storia della fotografia, presa in considerazione a partire da Ancona, città di riferimento dell’autore marchigiano, che ha attinto a un consistente apparato relativo a documenti d’epoca. Da cui, titolo e sottotitolo chiarificatore: Ritratti al plurale. Fotografi anconetani tra ’800 e ’900. Di fatto, e nella propria essenza bibliografica, si tratta della prima ricerca sui fotografi marchigiani, e gli studi fotografici anconetani in particolare, dalle origini, all’indomani delle fatidiche date del 1839, fino ai primi decenni del Novecento. Allo stesso tempo, possiamo anche conteggiare questo Ritratti al plurale, di Vincenzo Marzocchini, come concreta riflessione di partenza sulla storia italiana della fotografia (piuttosto che sulla storia della fotografia italiana), estranea e lontana da quegli accademismi di maniera che troppe volte allontanano l’attenzione piuttosto che sollecitarla. Infatti, a sostanziosa differenza di analoghe retrospettive, appesantite da pedanti approcci cattedratici, questa attuale trattazione offre una lievità di svolgimento che non circoscrive l’argomento entro angusti confini di una élite di addetti, ma lo proietta con brillantezza verso il più ampio pubblico possibile e potenziale. Certo, lo intuiamo, la
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Ritratti al plurale. Fotografi anconetani tra ’800 e ’900, di Vincenzo Marzocchini; introduzione di Diego Mormorio; Polyrama Edizioni, 2015 (via Giardini 476n, 41124 Modena; 0593-40533); 144 pagine 22x22cm; 18,00 euro.
(pagina accanto) Stampa autovirante al Platino; primi del Novecento. Soggetto ovale 12,6x8,9cm su cartoncino Rudolf 19,7x14,8cm.
Stabilimento Fotografico - Zincotipia Alfredo Tassini, di Ascoli Piceno: verso (o retro) dei cartoncini.
Storia della fotografia B. Castracane Staccoli, di Urbino (dilettante): albumina in formato carte de visite, fronte e verso; 1860 circa (Archivio Fototeca Comune Civitanova Marche).
G. S. Vidau, Ancona: carte de visite al collodio; primi del Novecento.
geografia marchigiana (di Ritratti al plurale. Fotografi anconetani tra ’800 e ’900) è privilegiata rispetto altri avvicinamenti: nel senso che, per questo studio, è presumibile un maggiore interesse locale, magari sollecitato proprio da una affinità ambientale di primo riferimento. Ma, sia chiaro e lampante, limitare a questo l’intero studio sarebbe tragico e colpevole. Da una parte, dobbiamo lodare la tenacia e caparbietà dell’autore Vincenzo Marzocchini, che dischiude le porte di un richiamo/riferimento geografico e sociale ancora non affrontato -per l’appunto, quello delle Marche, a partire dal capoluogo Ancona-; da un’altra, dobbiamo lodare ancora e
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imperiosamente lo stesso autore per aver saputo allargare le frontiere di spazio, luogo e tempo, appianando le proprie riflessioni e considerazioni in proiezione ampia e complessiva. Nella concretezza dei fatti -oltre l’incorporea superbia della kultura ufficiale e accreditata e vantata e avvalorata e complice (con iniziale “k” volontariamente denigratoria e ingiuriosa)-, l’argomento del ritratto fotografico è da considerarsi come il principale e discriminante del lungo e tortuoso cammino della Fotografia: è legittimo e ammirevole che Vincenzo Marzocchini lo abbia elevato a soggetto di visione e racconto. Infatti, se accettiamo per plausibile,
ammissibile e ragionevole la teoria espressa da più fonti, secondo la quale la stessa Fotografia avrebbe innescato anche un processo di democratizzazione della raffigurazione visiva e dell’espressione visiva (con la tesi in sociologia dibattuta da Gisèle Freund, alla Sorbona di Parigi, nel 1936, con il docente Theodor W. Adorno, successivamente pubblicata in edizioni librarie -in Italia, Fotografia e società, nella collana Piccola Biblioteca Einaudi- a fare da apripista), non possiamo che considerare il ritratto posato, il ritratto professionale come maggiore espressione di questo stesso corso. Vincenzo Marzocchini non tocca questa trasversalità, ma nel suo Ri-
Storia della fotografia
tratti al plurale. Fotografi anconetani tra ’800 e ’900 rimane ancorato al punto di vista proposto e promesso, dal quale non avvia considerazioni trasversali e/o dedotte, e sul quale concentra la propria osservazione razionale e tangibile: nei nomi e nelle esperienze, nei fatti e nelle vicende di contorno. Ragion per cui, è proprio questa concentrazione che dà ulteriore peso e valore alla retrovisione tutta: perché concede al lettore di rimanere ben saldo sulla propria poltrona, senza dover -di volta in voltacambiare spazi e riferimenti di lettura. Poi, ciascuno per sé, volendolo fare, ognuno ha a disposizione tanti altri testi sui quali avvicinare ulteriori con-
siderazioni sociali e/o creative. Essendo questi testi presenti in quantità e qualità nell’attuale casellario bibliografico sulla fotografia e dalla fotografia e per la fotografia, ha fatto bene Vincenzo Marzocchini a non aggiungere la propria eventuale nota al coro, già corposo, già esaustivo. Un poco ancora, e poi chiudiamo. Sia chiaro che l’autore conosce bene le problematiche che dal ritratto fotografico si proiettano altrimenti e in avanti: tanto è vero che non evita di sfiorare considerazioni pertinenti. Ma sia altrettanto chiaro che la sua laicità di visione e scrittura è talmente etica da non fargli superare confini di chiarezza: indipendentemente da questo
G. S. Vidau, Ancona e Macerata: stampa in gelatina ai sali d’argento, in formato Secession, montata su cartoncino Marvel; primi del Novecento.
(in alto, a sinistra) A. Diotallevi: albumina colorata a mano, in formato carte de visite; 1870 circa.
attuale richiamo/riferimento specifico, in assoluto, nella vita, quando si svolgono due mansioni simultaneamente, quando si compiono due gesti simultaneamente, se ne conducono sempre due male. E poi, dopo tanto parlare di ritratti e ritrattisti, Vincenzo Marzocchini cede il passo a considerazioni di Carlo Agostinelli, che fa il punto anche sulle infrastrutture tecniche, tra valutazioni di ingrandimento e presentazione e apparati tecnici d’epoca. Insomma, racconto avvincente, oltre che convincente, incontro da avvicinare con la stessa intraprendente serenità di intenti che ne qualifica e definisce lo stile. Belle parole e belle immagini. ❖
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In illustrazione di Antonio Bordoni
LA VITA DI VIVIAN MAIER
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Scomposizione e precisazione d’obbligo. Un conto è il fascino della favola esistenziale di Vivian Maier [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia dell’aprile 2014], così come è stata abilmente confezionata da coloro i quali hanno tanti e tutti propri interessi tangibili; un altro è la sua effettiva personalità fotografica. Ciò annotato, registriamo la legittimità di approcci e atteggiamenti distinti: da una parte, l’interesse di coloro i quali osservano la Fotografia, stando discosti dall’approfondimento del suo dibattito; dall’altra, le considerazioni di quanti della stessa Fotografia fanno mestiere, ragion di vivere (forse) e specificità di analisi. Da cui e per cui, accogliamo con piacere, sommo piacere, gli apprezzamenti che arrivano dall’esterno del mondo propriamente di addetti, a partire -se proprio vogliamo stabilire una data italiana certa di avvio- dall’ottima presentazione dell’accreditato Alessandro Barricco, in La Repubblica di domenica 9 marzo 2014: tre pagine, con lancio dalla prima (!... La storia straordinaria della tata con la Rolleiflex). Diversamente, prendiamo le distanze da taluni eccessi “interni”, che non tengono in alcun conto la regia mercantile di tutta l’operazione statunitense. Allo stesso momento, discordiamo dal processo di beatificazione in corso -ribadiamo- tutto abilmente orchestrato. Dunque, in percorso annunciato, e con e per la stessa onestà intellettuale (tutto sommato, la nostra di sempre), stimiamo senza condizionamento alcuno quanto approda alla fotografia di Vivian Maier nascendo al di fuori dagli stretti confini del dibattito interiore della/sulla Fotografia. In stretto ordine temporale -datiamola anche così-, è il caso recente di una biografia illustrata, pubblicata da Occhio Acerbo Editore, lo scorso marzo: Lei. Vivian Maier, della talentuosa Cinzia Ghigliano, illustratrice e disegnatrice di fumetti dai mille e mille meriti. Tra l’altro, se servissero opinioni autorevoli (certamente più delle nostre... modeste), il titolo ha vinto il Premio Andersen 2016 -il più ambìto riconoscimento attribuito a libri per ragazzi, ai ri-
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Lei. Vivian Maier, illustrazioni di Cinzia Ghigliano; Orecchio Acerbo Editore, 2016 (via Aurelio Saffi 54, 00152 Roma; www.orecchioacerbo.com); 32 pagine 21x29,7cm, cartonato; 15,00 euro.
Vivian Maier: Autoritratto; senza data.
spettivi autori, illustratori ed editori-, nella categoria Miglior libro fatto ad arte: «Per l’intensa e raffinata bellezza delle sue illustrazioni. Per la loro capacità evocativa che dà voce al singolare lavoro di questa misconosciuta fotografa. Per l’indubbia originalità di una soluzione narrativa che ci restituisce appieno il talento di una grande illustratrice e disegnatrice di fumetti». Ovviamente, le trentadue pagine di generose dimensioni (21x29,7cm) scandiscono tempi e modi della fo-
Tre tavole (illustrazioni) da Lei. Vivian Maier, di Cinzia Ghigliano. In tutte, è tangibile la presenza dell’autrice-fotografa, in autoritratto (alla maniera delle lezioni di Lee Friedlander [ FOTOgraphia, dicembre 2011 e richiamo, lo scorso giugno, a margine delle riflessioni sulla fotografia di Garry Winogrand]).
(in questa pagina, in alto, da sinistra) Autoritratti di Vivian Maier, l’ultimo in ombra: del 1953, del 18 ottobre 1953 (a New York City) e senza data.
tografia di Vivian Maier, dando tempo e fiato alla compulsione dell’autrice verso l’autoritratto, soprattutto in riflesso di vetrate e specchi. Così che la si incontra spesso all’interno di proprie inquadrature, al momento dello scatto. I testi, brevi ma opportuni, completano il racconto per illustrazioni, senza interferire con la natura e la forza (non soltanto visiva) del disegno. Un ottimo albo, ufficialmente indirizzato ai più giovani, dai nove anni di età, ma ufficialmente proficuo anche al mondo fotografico propriamente tale, confortato da una presentazione/raffigurazione di pregio e prestigio, che ben si integra con la natura “fotografica” del tema, al quale offre l’efficacia dell’illustrazione: che per tanti versi, personalmente, consideriamo spesso più efficace dei chiaroscuri e cromatismi della fotografia (da discuterne, ma non qui, ma non ora). Conclusione d’obbligo: per quanto distanti e (persino) avversi alla beatificazione di Vivian Maier (è troppo!: buona fotografa, ma non caposcuola, ma non interprete di spicco, ma niente di più di una diligenza ben riposta e frequentata), consideriamo questa sua storia illustrata da Cinzia Ghigliano come uno straordinario punto di vista, capace di aggiungere qualcosa di effettivamente utile/necessario alle tante/troppe parole inutili che sono state scritte sul personaggio. Senza dubbio, ottimo libro. ❖
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Dietro le quinte di Angelo Galantini
THETA S: A TUTTO TONDO
CARLO FOLGOSO / MASSIMO SESTINI (2)
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Da pagina trentadue, su questo stesso numero della rivista, presentiamo e commentiamo (e lodiamo) un avvincente e convincente progetto fotografico del talentuoso Massimo Sestini, che identifichiamo come grande-grande-grande fotogiornalista dei nostri tempi, capace di fare linguaggio delle proprie intuizioni visive: nello specifico, fotografia dall’alto, da elicotteri in volo. Ribadiamo, confermandolo, che il progetto Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato si concretizza in trenta visioni del nostro paese, alternativamente realizzate all’alba e al tramonto: nella luce che precede il giorno e in quella che lo conclude. Ancora, la serie è stata allestita in forma di imponente e perentoria mostra fotografica composta da ingrandimenti di grandi dimensioni, un metro e venticinque centimetri per due metri, in materiale trasparente retroilluminato: uno spettacolo formale in ordine con la commedia dei contenuti, allestito nelle sontuose sale del Quirinale, a Roma, dal venti maggio al dodici giugno scorsi, e inaugurato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Oggi, in stretto ordine redazionale (nostro), questi affascinanti e coinvolgenti Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato, di Massimo Sestini, sono introdotti in lancio dalla copertina, che riprende, riproponendola in taglio verticale di necessità (crop?), l’immagine completa orizzontale che -come consuetudine- lo scorso giugno ha anticipato l’argomento (ribadita in accompagnamento a questo intervento giornalistico). Da qui partiamo. La fotografia, per ora rimaniamo a questa identificazione certa e inequivocabile, è un autoritratto, in forma di “autoscatto” (selfie?). È stata realizzata dallo stesso Massimo Sestini, in equilibrio sui pattini dell’elicottero, fuori dalla sua cabina, con un sistema che ha dello stupefacente. La camera -che lasciamo ancora per un poco ignotaè fissata su un lungo braccio di sostegno, che si estende per sette metri al di fuori dell’elicottero: ovviamente, prima di tanto altro, questa collocazione ha richiesto e imposto attenzioni
in volo, per riequilibrare l’elicottero sospeso in aria; e di questo si sono presi carico sia Massimo Sestini, alla luce di proprie precedenti esperienze analoghe, sia l’equipaggio della Polizia di Stato responsabile del mezzo. Quindi, eccoci qui!, non si tratta di uno scatto fotografico propriamente tale, con proprio tempo di otturazione e apertura di diaframma, ma di un fo-
Esposta nelle sontuose sale del Quirinale, a Roma, la mostra Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato, di Massimo Sestini, è stata inaugurata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
togramma estratto dal video a trecentosessanta gradi sferici (a tutto tondo) ripreso con la Ricoh Theta S, configurazione fotografica nota e riconosciuta da chi sa osservare l’attualità tecnologica dell’imaging (invece di perdere tempo sulla sua pretestuosa contestazione ideologica e generazionale). Però, diamine, forse vale riflettere giusto sulla tecnologia dei nostri giorni,
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MASSIMO SESTINI (5)
Dietro le quinte
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MAURIZIO REBUZZINI (3)
Dietro le quinte
Massimo Sestini ha avvicinato la Ricoh Theta originaria, non ancora Theta S, domenica ventinove novembre, durante una colazione conviviale che ha riunito partecipanti al Photolux Festival 2015, di Lucca (in alto, a sinistra: Filippo Rebuzzini, Enrico Ratto, Elisabetta Donato, Maurizio Galimberti e Massimo Sestini): rituale video a tavola, e ripetizione, in cerchio, davanti alla Basilica di San Frediano (in alto, a destra, con Ricoh Theta su treppiedi Bilora nerazzurro: Filippo Rebuzzini, Massimo Sestini, Veronica Gaido, Benedetta Donato, Enrico Ratto, Maurizio Galimberti e Giancarlo D’Emilio). Subito, la sua intelligenza ne ha tradotte le potenzialità, per un impiego immediato: riprese video, dall’alto, nel corso della presentazione del suo Calendario 2016 della Polizia di Stato [ FOTOgraphia, dicembre 2015], il successivo martedì Primo dicembre, nelle sontuose sale romane di La Lanterna, la struttura in vetro e acciaio progettata dall’architetto Massimiliano Fuksas. E poi, il cammino Sestini-Theta S si è allungato, abbinandosi alle sue escursioni in elicottero.
prendendo spunto proprio dalla Ricoh Theta S. Ricordiamo di cosa si tratta. Evoluzione di un princìpio imaging esordito con la Theta originaria (altrove, Theta m15), la Theta S ribadisce i canoni della ripresa video a trecentosessanta gradi sferici, interpretandoli con sostanziosi incrementi tecnici di uso. Soprattutto, conferma la propria perentoria proposta tecnico-commerciale che dall’intenzione consumer si evolve presto e agilmente in professional (come certifica e testimonia l’intelligenza applicativa di Massimo Sestini). Venduta a un prezzo per mille versi abbordabile, se non addirittura risibile, alla soglia dei quattrocento euro!, per-
fettamente tascabile, con design minimale e ottima maneggevolezza (parallelepipedo di tredici centimetri di altezza, quattro di larghezza e poco più di uno e mezzo di spessore, per centotrentacinque grammi di peso), la Ricoh Theta S è una dotazione che non risolve nulla, ma assolve tanto. La differenza verso la ri-soluzione e determinazione fotografica espressiva (nella propria capacità documentativa) non è compito suo (né dell’industria produttrice, in generale e assoluto), ma della capacità dell’utilizzatore: in coerente passaggio da consumer a professional. Qui e ora, non entriamo in alcun dettaglio operativo, che riguarda l’acqui-
(pagina accanto) Una volta ancora, ripetizione dell’autoscatto di Massimo Sestini, in equilibrio sui pattini esterni di un elicottero AugustaWestland AW 139 del 1° Reparto Volo (sul Colosseo, a Roma, al crepuscolo del 15 marzo 2016). Come commentiamo nel corpo centrale di questo intervento redazionale, si tratta di un fotogramma estrapolato da un video sferico di trecentosessanta gradi ripreso con Ricoh Theta S, il cui Full HD originario consente di estrapolare immagini fisse di (sostanziosi) quattordici Megapixel, riproducibili litograficamente sul formato UNI A3 (doppia pagina di FOTOgraphia [giugno 2016] e, in taglio verticale, sulla copertina di questo stesso numero).
(pagina accanto, dal centro e da sinistra) Calabria, in volo, al crepuscolo, con un elicottero AugustaWestland AW 139, del 5° Reparto Volo della Polizia di Stato; piloti e specialisti della Polizia di Stato; il pilota Mario Vitale ai comandi di un elicottero dell’8° Reparto Volo della Polizia di Stato di Reggio Calabria; piloti e specialisti in volo con un elicottero del 2° Reparto Volo della Polizia di Stato, sull’aereoporto Malpensa, di Milano (e Torino, Varese, Como... e altre città di riferimento certo).
sizione dei video e la loro successiva gestione (informazione a comoda portata di tutti). Invece, sottolineiamo prontamente le potenzialità latenti della Ricoh Theta S: due obiettivi fish-eye contrapposti, allineati e sintonizzati, di eccellente luminosità f/2, si combinano con un doppio sensore Cmos da 1/2,3 di pollice, a cui conseguono riprese video a trecentosessanta gradi sferici Full HD (1920x1080 pixel) a trenta frame al secondo, per registrazioni fino a venticinque minuti consecutivi (memoria interna di otto Gigabyte), con audio abbinato. In conseguenza diretta, fotogrammi singoli estrapolabili, da quattordici Megapixel. Ribadiamo, per circa quattrocento euro di costo-acquisto! Massimo Sestini ha avvicinato la Ricoh Theta originaria, non ancora Theta S, domenica ventinove novembre, durante una colazione conviviale che ha riunito partecipanti al Photolux Festival 2015, di Lucca: rituale video a tavola, e ripetizione, in cerchio, davanti alla Basilica di San Frediano. Subito, la sua intelligenza ne ha tradotte le potenzialità, per un impiego immediato: riprese video immersive, dall’alto, nel corso della presentazione ufficiale del suo Calendario 2016 della Polizia di Stato [FOTOgraphia, dicembre 2015], il successivo martedì Primo dicembre, nelle sontuose sale romane di La Lanterna, la struttura in vetro e acciaio progettata dall’architetto Massimiliano Fuksas. E poi, il cammino Sestini-Theta S si è allungato, abbinandosi alle sue escursioni in elicottero. Tra queste, concludendo a dovere, il fotogramma autoscatto estrapolato da un video sferico di trecentosessanta gradi in qualità adeguata all’ingrandimento litografico su doppia pagina (di FOTOgraphia), lo scorso giugno, in ritaglio verticale sull’attuale copertina e ripetizione, in dimensioni litografiche ridotte, sulla pagina accanto. Non siamo lontani dal vero, quando sottolineiamo che si tratta di una prima volta, a dir poco suggestiva e coinvolgente, che la dice lunga sia sulle proprietà implicite (ma non esplicite: a ciascuno, il suo) della Ricoh Theta S e sulle capacità esplicite (prima che implicite: a ciascuno, il suo) di Massimo Sestini, «grande-grande-grande fotogiornalista dei nostri tempi, capace di fare linguaggio delle proprie intuizioni visive» (in ripetizione d’obbligo). Ed eccoci qui. ❖
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IL PIÙ GRANDE! T di Maurizio Rebuzzini
redici anni fa, riferendosi all’edizione originaria Goat - Gratest of all Time, l’autorevole settimanale tedesco Der Spiegel attestò: «Questo non è un libro. È un monumento sulla carta. Il libro più imponente nella storia della civiltà, il più grande, più pesante, il più luminoso mai stampato. È l’ultima vittoria di Ali». Incontestabile, incontestato; ammirevole, ammirato; condivisibile, condiviso; sottoscrivibile, sottoscritto; approvabile, approvato. A seguire, nel 2010, Taschen Verlag, editore dai mille e mille meriti, ha declinato quella elitaria Collector’s Edition -ai tempi proposta in novemila copie numerate e firmate- per e verso un pubblico numericamente più ampio: Greatest of all Time - A Tribute to Muhammad Ali ha ripetuto e confermato / ripete e conferma il proprio tributo, in un consistente volume di seicentocinquantadue pagine quadrate, lato trentatré centimetri, due delle quali si dispiegano su quattro facciate, per tre chili e seicento grammi di peso fisico, per un carico non misurabile di emozioni e coinvolgimenti. Come spesso sollecitiamo: a ciascuno, il proprio, i propri.
Dall’articolato progetto Behind Photographs, del californiano Tim Mantoani [ FOTOgraphia, ottobre 2010]: Neil Leifer, straordinario fotografo di sport [ FOTOgraphia, maggio 2010], con il knock out con il quale Muhammad Ali ha sconfitto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, nel Maine, il 25 maggio 1965, che è copertina della fantastica monografia Greatest of All Time - A Tribute to Muhammad Ali.
Il Campione ci ha lasciati. Muhammad Ali, il più grande pugile di tutti i tempi, uno dei simboli dello sport e della Vita (non soltanto la sua), è mancato lo scorso tre giugno: messo definitivamente al tappeto dal male che da anni ne aveva minato il fisico. Lo ricordiamo qui e ora attraverso la cadenza di pagine di una fantastica e appassionante monografia illustrata, pubblicata dall’attento e coraggioso Taschen Verlag una mezza dozzina di anni fa. Pagine e pagine, parole e parole, fotografie e fotografie che ripercorrono la sua luminosa carriera. Esplicito e autorevole: Greatest of all Time - A Tribute to Muhammad Ali. Tra gesti atletici -tanti e indimenticabili- e inderogabili scelte esistenziali, un simbolo dei tempi, un esempio di coerenza e volontà (chi non le ha seguite in cronaca, per propria anagrafe, si informi). Un incontro che può fare la differenza nella vita. Complice accertata la Fotografia, il racconto di un’epopea 27
(pagina precedente) Greatest of all Time A Tribute to Muhammad Ali, a cura di Benedikt Taschen; Taschen Verlag, 2010; 652 pagine 33x33cm, cartonato con sovraccoperta, due gatefolds; 99,99 euro.
FLIP SCHULKE
Un giovane Muhammad Ali, ancora Cassius Clay, all’indomani delle Olimpiadi vinte a Roma, nel 1960, al Miami Beach Fifth Street Gym, nel 1961.
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Oggi, a distanza di altre stagioni individuali, Muhammad Ali ha ottenuto quei riconoscimenti planetari che gli erano dovuti. La sua scomparsa, lo scorso tre giugno, abbattuto dal male che da decenni ne stava minando il fisico, ha innescato una sequenza di celebrazioni e ricordi che non hanno molti precedenti nel costume e nella società dei nostri tempi, andando così a delineare tratti di autentica Storia. Sarà anche un caso, ma certamente non lo è: onore all’afroamericano... morto, onore all’ingombrante guascone... morto, onore al nemico... morto. Ma non noi: onore, merito e valore alla grandezza senza confini di Muhammad Ali; onore e merito alla sua vita senza compromessi. Universalmente acclamato come il più grande atleta dell’era moderna -capace di allineare la propria disciplina dello sport con inflessibili coerenze esistenziali, condotte ben oltre le convenienze alle quali tutto il mondo ormai si piega (leggiamo, impariamo, cambiamo il nostro quotidiano: sarebbe ora!)-, Muhammad Ali non è stato grande soltanto sul ring, dove pure lo è stato, eccome, ma grande in tutti i sensi: un esempio. Lo ripeto, ribadendolo: chi, per propria anagrafe, non ne ha seguìto l’esistenza in cronaca, si informi. Ne vale la pena: facendolo, incontra un simbolo dei tempi, un esempio di coerenza e volontà. Un incontro che può fare la differenza nella vita. Complice accertata la fotografia, il racconto di un’epopea.
NEIL LEIFER
Houston Astrodome, 14 novembre 1966: Muhammad Ali esulta dopo il knock out con il quale ha steso Cleveland Williams.
HOWARD L. BINGHAM CARL FISCHER
Alle Olimpiadi di Roma, del 1960, dove conquistò la medaglia d’oro di categoria, fu una folgorazione. Negli anni a seguire, il suo impegno civile fu un esempio. Con piglio editoriale fuori dal comune (etica del capitalismo), Taschen Verlag, sui cui meriti potremmo compilare pagine e pagine di lodi, ha onorato questa autentica leggenda (ai tempi di pubblicazione, vivente) con una edizione libraria che accresce la biblioteca di chi frequenta e vive la fotografia, arricchendone al contempo il cuore: combinazione non sempre realizzabile, meno frequente di quanto si possa supporre. Greatest of all Time - A Tribute to Muhammad Ali, curato dallo stesso editore Benedikt Taschen in prima persona, è una potente monografia illustrata (tante le firme dei fotografi coinvolti), un libro epico: vibrante, tanto quanto lo è stato, nella propria vita, il grande Ali, il più grande di tutti. Pagina dopo pagina, questo imponente volume rivela il coraggio, la profondità, la creatività e l’energia abbagliante di un uomo straordinario. Proprio la fotografia scandisce il ritmo della narrazione: migliaia di immagini, di oltre cento professionisti, raccontano sia i momenti pubblici sia quelli privati di un autentico eroe del nostro tempo. A completamento,
sia chiaro “a completamento”, perché è la fotografia l’autentica protagonista del volume, saggi originari, interviste e altri testi chiudono il cerchio. In chiusura, due annotazioni d’obbligo. Una, la prima, riguarda la tristezza delle gerarchie con le quali l’intellighenzia fotografica etichetta le immagini, distinguendole in categorie meritevoli e meno meritevoli (?). Oltre la documentazione e certificazione del proprio soggetto esplicito, lo sport non è mai preso in considerazione: errore, orrore! A parte tanti personalismi (io ho i miei, tutti abbiamo i nostri), e a parte l’eleganza e fantastica bellezza di tanti gesti atletici, c’è una fotografia di sport che ha lo stesso contenuto emotivo di tutta la Fotografia: racconto di vita, osservazione di esistenze, sintesi di commozioni che non si esauriscono in cronaca. La seconda è in conseguenza, di conseguenza. La bellezza della Fotografia è tanta e tale che merita (meriterebbe) di non dipendere da barriere e steccati. La Fotografia, tutta la Fotografia, senza soluzione di continuità, racconta il Tempo, la Vita, l’Esistenza, trasmigrando e distribuendo emozioni e sentimenti. E non lasciamo che i sentimenti se ne vadano. Se ne possano andare. ❖
Benedikt Taschen, editore e curatore della monografia Greatest of all Time A Tribute to Muhammad Ali, incontra Muhammad Ali negli uffici della filiale Tashen Verlag / California.
(pagina accanto) Ritratto di Muhammad Ali, del 1967, ispirato al Martirio di San Sebastiano, interpretato da numerosi pittori, a partire dal Perugino. Ritratto pubblicato in copertina, da Esquire, nell’aprile 1968, quando Muhammad Ali venne privato dei suoi titoli pugilistici per aver rifiutato di prestare servizio militare nella guerra in Vietnam, in relazione a proprie convinzioni religiose [a pagina 4, in avvio].
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Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, fotografia di Massimo Sestini dall’alto, in costruzione visiva a dir poco affascinante e ammaliante. Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato -questa è l’identificazione completa e ufficiale del più recente progetto del diligente fotogiornalista fiorentino- si concretizza in una incessante sequenza di trenta visioni del nostro paese, in viaggio da Sud a Nord, realizzate alle prime luci dell’alba e alle ultime luci del tramonto. Dominio assoluto della mediazione tecnica, indispensabile ma mai sufficiente, per un racconto che non si esaurisce nel solo ambito fotografico, ma si orienta e dirige verso utenti e consumatori senza sovrastrati di pensiero e interesse e opinione. Con altri percorsi, dopo le perentorie intenzioni originarie. Al solito... missione della fotografia
MASSIMO SESTINI: AUTORITRATTO
SU UN ELICOTTERO
AUGUSTAWESTLAND AW 139
DEL
1° REPARTO VOLO (SUL COLOSSEO, A ROMA, AL CREPUSCOLO
DEL
15
MARZO
2016)
ORIZZONTI D’ITALIA
di Maurizio Rebuzzini iunti al punto, giunti a questo... le considerazioni al proposito sono inevitabili. Scritte addirittura. Alla luce dello svolgimento del consistente e vibrante progetto Orizzonti d’Italia, di Massimo Sestini, la consecuzione è certa e fatale: senza ombra di dubbio, l’autore è da considerare come il fotogiornalista più attento, diligente e concentrato tra quanti operano riferendosi in modo particolare alla cronaca... in proiezione storica. Di Massimo Sestini abbiamo riferito in occasioni precedenti; queste stesse opinioni sono già state sottolineate. Per quanto diffidenti e timorosi nell’attribuzione di “assoluti” inderogabili, oggi l’aggiornamento è necessario: perché, con Orizzonti d’Italia, Massimo Sestini conferma la propria capacità (rara, fino a definirsi unica) di trasformare il necessario in indispensabile, la parola scorrevole in testo imperituro. Dunque, qui scandiamo un ulteriore ritmo di considerazioni, che si aggiungono alle nostre passate, completandole: fatti salvi richiami rapidi, magari in complemento ad altri argomenti, con continuità, ecco sintetizzato il passo cadenzato di precedenti riflessioni sulla fotografia di Massimo Sestini, osservata nel dicembre 2015, a proposito del suo calendario 2016 della Polizia di Stato, in illustrazione zenitale, nel giugno 2015, con lancio dalla copertina, a commento della splendida documentazione della migrazione verso l’Italia (Secondo Premio General News Singles al World Press Photo 2015), nel settembre 2008, per una avvincente retrospettiva allestita alla Galleria Grazia Neri, di Milano, e nel maggio 2005, a testimonianza delle sue fotografie dei funerali di papa Wojtyła, riprese da un elicottero della Polizia di Stato. Torniamo in attualità Realizzato nel corso di un paio di stagioni, a margine di altri incarichi fotogiornalistici svolti a bordo di elicotteri della Polizia di Stato, con applicazione di un linguaggio visivo maturo e concentrato, il consistente progetto Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato si manifesta in trenta visioni del nostro paese, alternativamente realizzate all’alba e al tramonto: nella luce che precede il giorno e in quella che lo conclude. Nell’obbligo di dati certi ai quali fare riferimento sicuro, la serie è stata allestita (continua a pagina 41)
FERRAZZANO (CAMPOBASSO):
IL BORGO E IL CAPOLUOGO, AL CREPUSCOLO
(14
MARZO
2016)
G
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MILANO:
LA NUOVA AREA URBANA DI
PORTA NUOVA, AL CREPUSCOLO (30 APRILE 2015)
BOLOGNA:
CENTRO STORICO CON LE DUE
TORRI (GARISENDA E
DEGLI
ASINELLI), AL CREPUSCOLO (4 APRILE 2016)
FIRENZE:
LA CITTÀ IN VEDUTA FINO ALLE
ALPI APUANE, AL CREPUSCOLO (7 APRILE 2015)
TORINO:
LA CITTÀ IN VEDUTA FINO ALLE
ALPI, AL CREPUSCOLO (PRIMO APRILE 2015)
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VENEZIA:
LA CITTÀ E LA LAGUNA AVVOLTE NELLA NEBBIA, ALL’AURORA
(30 GENNAIO
2016) RIVA DEL GARDA (TRENTO): VERSO IL
LAGO DI
GARDA,
CON I RILIEVI TRENTINI, AL CREPUSCOLO
(PRIMO APRILE 2016)
DOLOMITI
E MONTE
CRISTALLO: A CORTINA D’AMPEZZO, AL CREPUSCOLO (30
GENNAIO
2016)
(continua da pagina 34) in forma di imponente mostra fotografica composta da ingrandimenti di grandi dimensioni, un metro e venticinque centimetri per due metri, in materiale trasparente retroilluminato: uno spettacolo formale in ordine con la commedia dei contenuti. La prima solenne presentazione della mostra è avvenuta nelle sontuose sale romane del Quirinale, dal venti maggio scorso al successivo dodici giugno. A seguire, l’esposizione pubblica di Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato verrà replicata in altre sedi, che a propria maniera ripercorreranno l’intero territorio nazionale, che Massimo Sestini ha raccontato, dal Sud di Lampedusa al Nord di Cortina d’Ampezzo e delle Dolomiti. In riferimento ai contenuti di questa fotografia, di questo modo di fotografare, dopo assolvimenti logistici e burocratici, riprendiamo dall’avvio, ribadendo e confermando: Massimo Sestini «è da considerare come il fotogiornalista più attento, diligente e concentrato tra quanti operano riferendosi in modo particolare alla cronaca... in proiezione storica». In questo senso -che si distacca dalla consuetudine italiana, edificata su un concetto culturale (kulturale?) di formazione crociana, entro il quale non trovano domicilio, né ospitalità, premesse di altro tipo-, evitiamo la tradizione critica (routine?), per elevare di rango e ruolo quello che per Massimo Sestini ha origine nel “mestiere”, e relativo svolgimento. Completamente estraneo a pensieri e presupposti teorici di altro tipo, pur proponendo poi le sue visioni in ambito d’arte e collezione (semplifichiamola così), il bravo fotogiornalista fiorentino ha chiaro in mente il proprio princìpio: quello di documentare e raccontare -ora per ora, giorno per giorno- la vita nel proprio svolgersi... a partire dalla sua cronaca. Elaborando con cura e perizia questo mandato, Massimo Sestini assolve simultaneamente due condizioni: quella originaria è presto seguìta dalla consecuzione in forma perenne. Ovvero, e detto meglio (forse): una volta assolti i propri compiti originari, le sue fotografie proseguono spesso un tragitto solido e allungato nel tempo: verso la Storia, e non soltanto della fotografia. Anzi, paradossalmente, il suo gesto fortemente fotografico -che fa tesoro e linguaggio di condizioni e consecuzioni tecniche consapevoli e governate- è meno riferito al proprio ambito circoscritto e più referente ad acquisizioni di più ampio respiro
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SCILLA (REGGIO CALABRIA):
LA CITTÀ E IL LITORALE, AL CREPUSCOLO
(11 MARZO
2016)
TRIESTE: PIAZZA
UNITÀ D’ITALIA E
IL PORTO, AL CREPUSCOLO
(9 MARZO
2016)
2014) LUGLIO
ISOLA DI LAMPEDUSA (AGRIGENTO): AL CREPUSCOLO (5
generale. Insomma, fotografie che raccontano con il proprio lessico specifico (latente e mai sovrastante) e che arrivano al pubblico senza alcun filtro selettivo. Altri autori agiscono prima di tutto per “arte”, per esprimere “concetti”, per elaborare “pensieri”... fatti loro... fotografia fine a se stessa, che raramente attira la nostra attenzione (opinione personale, che qui e ora non approfondiamo). A differenza, a sostanziosa differenza, Massimo Sestini antepone a tutto la propria mansione (etica, funzione e responsabilità), per svolgerla al meglio possibile, in termini di documentazione comprensibile. Poi, a bocce ferme, in altri istanti successivi, molto di questo può procedere oltre, può imprimersi nel Tempo e nella Storia. Personalmente, è questa la fotografia che preferiamo. Ovvero, la fotografia che agisce gomito a gomito con i propri utenti e consumatori, facendo stilema del proprio ruolo infrastrutturale che non impone altre sovrapposizioni, che quella di una declinazione lineare e diretta, lieve e profonda, convincente e morale (non moralistica, che è altro: atteggiamento, e non deontologia). Personalmente, siamo complici della fotografia che non rifiuta di essere tale, ma si impone proprio in quanto tale. Straordinaria combinazione di passi certi e accostamenti arbitrari, la fotografia già dispone di tanta e tanta grammatica, che non sentiamo il bisogno di prescriverle altre frequentazioni e intenti. Massimo Sestini è un fotogiornalista di tale e tanta statura che non ha bisogno di altro che di se stesso e della propria abilità narrativa. Lo si capisce bene e va sottolineato: anche in questa particolare cadenza dell’osservazione dall’alto, sia zenitale sia prospettica (come è il caso degli attuali Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato), si individuano padronanze delle condizioni originarie della fotografia, che dipendono dal capace impiego di propri utensili e a questi fa capo: tutto sembra facile, semplice e spontaneo. Meraviglia: l’infrastruttura è tutt’altro, ma non deve scavalcare il senso e la concretezza dell’immagine. Da e con altre capacità di sintesi verbale: fare sforzi, senza far percepire la fatica. Essere fotografi, senza imporre a nessuno di esserlo... fotografi: dal Sud al Nord del nostro paese, in visione dall’alto, in raffigurazione avvolgente, in rappresentazione epocale. Con gli Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato, di Massimo Sestini. ❖
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Avvincente serie fotografica del bravo Pio Tarantini, che si presenta come un’apparizione. Ancora: costruisce un percorso che avanza per analogie, richiami, corrispondenze. Ancora, ancora: un tragitto che si sofferma sui particolari, per inserirli come elementi irrinunciabili di un piÚ ampio contesto dove lirismo e mistero si intrecciano e confondono. Con garbo
IMAGO
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di Roberto Mutti
U
na cosa colpisce subito nelle immagini di Pio Tarantini -qui in richiamo della sua serie Imago-, ed è l’atmosfera sospesa che ci sanno trasmettere. Niente è come appare, perché la realtà qui si articola in una voluta ricerca di solo apparenti contraddizioni: l’immaginazione e l’oggettività, l’astrazione del pensiero che ci attraversa la mente e la concretezza del terreno che il nostro piede calpesta, la pienezza di quanto ci circonda e il vuoto che la contiene, l’orizzonte oltre il quale si intravede la sagoma azzurra di lontane montagne e
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lo spazio ristretto di un giardinetto cittadino dove la natura è ricostruita, il continuo permutare delle cose e la loro sostanziale immutabilità. Lungo il complesso percorso che caratterizza da anni la sua ricerca, Pio Tarantini si è mosso in diversi luoghi, rivisitando quelli della sua gioventù e interpretando quelli dove ha in seguito vissuto, ma solo apparentemente il suo obiettivo era interessato a cogliere il mondo esterno essendo semmai tutto concentrato su una interiorità forte con cui quotidianamente fare i conti. Imago propone alcune delle fotografie più recenti, dove la figura assume un ruolo centrale, sia quando occupa da protagonista l’intero spazio della nostra percezione, sia quando dialoga volutamente con
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la natura all’interno della quale si muove. Autore lontano dalla logica puramente descrittiva, Pio Tarantini usa con grande padronanza la tecnica fotografica, evitando ogni compiacimento estetizzante come anche ogni ricerca fine a se stessa: da qui nascono i suoi riconoscibili toni cromatici particolarmente delicati come anche il modo molto personale di ricorrere al mosso così da lasciare tracce che sembrano pennellate di luce. Talvolta, tutto converge in un unico punto, quello composto all’interno di una sola fotografia dove ogni elemento si ritrova; in altri casi l’immagine si moltiplica allargandosi in composizioni multiple -dittici o trittici- che assecondano il movimento, cogliendolo però in singoli frammenti di una sequenza. Imago si pre-
senta come un’apparizione, costruisce un percorso che avanza per analogie, richiami, corrispondenze, si sofferma infine sui particolari (un termosifone, un’agave, la testata di legno antico di un letto), per inserirli come elementi irrinunciabili di un più ampio contesto dove lirismo e mistero si intrecciano e confondono. Sta a noi osservatori, coscienti di essere di fronte a un discorso compiuto, cercare il filo rosso che collega queste immagini fino a dare loro un senso. Una cosa, però, è certa: nella poetica di Pio Tarantini, tutto si risolve nell’accostamento dialettico fra la fluida lievità che si ritrova nelle immagini e la solidità che caratterizza ciò da cui provengono: la memoria. ❖
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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
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ALBERTOALICATA RIPERCORRE STORIE FOTOGRAFICHE, IN COMPAGNIA DI BARBIE. Iconic B, con arte
DA ICONIC B : HELMUT NEWTON, CROCODILE EATING BALLERINA ; 1983
settembre 2016
di Maurizio Rebuzzini
Sia chiarito subito, non soltanto presto: anche se, in qualche misura e un certo ottimismo di maniera, ipotizziamo un allineamento alla Fotografia, propriamente tale, le dodici pagine che stiamo dedicando alla carta ritagliata cinese non hanno alcuna attinenza con la materia istituzionale della quale dovremmo occuparci (forse sì). Però, con la curiosità di sempre, sollecitiamo agli s-punti di riflessione: del resto, non si capirebbe il mondo attuale, ignorandone il passato. Così come non si può capire e percepire certa fotografia statunitense degli anni Sessanta e Settanta, senza conoscere la poesia di Lawrence Ferlinghetti, la tragedia del Vietnam e, ancora, le canzoni di Bob Dylan e Joan Baez. Quindi... fate voi
S
ubito una nota in avvertimento e avviso. Oltre quanto ne sappiamo personalmente (in una competenza che fa capo a stagioni lontane della nostra vita), per questa annotazione redazionale abbiamo consistentemente attinto da fonti individuate in Rete, laddove altrui perizie e preparazioni hanno potuto stabilire confini certi e identificazioni garantite. In ogni modo, consideriamo comunque farina del nostro sacco quanto stiamo per osservare e rilevare: infatti, oltre le considerazioni accreditate e sicure, quello che sempre conta è l’anima, la partecipazione e lo spirito. Come spesso annotiamo, sia nell’occuparsi individualmente di fotografia, sia nel frequentarla, sia nel realizzarla, sia nel commentarla, quello che conta è sempre lo spirito vitale che guida ciascuna intenzione personale. Qui la fotografia conta poco, e la facciamo rientrare di traverso e in margine. Ma la lezione rimane inviolata: compartecipazione e adesione a ciò che si va facendo. Attingendo da una raccolta individuale composta nel tempo, e avviata in momenti di intenso fervore politico e sociale, abbiamo isolato da una consistente quantità di carte ritagliate cinesi due serie di soggetti significativi. Una riguarda la propaganda politica di momenti culminanti della definita Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, lanciata nella Repubblica popolare cinese da Mao Zedong, nel 1966 (che, per tanti e tanti versi, sta anche alla radice del Sessantotto occidentale), e si divide in due tematiche: quella di apostolato vero e proprio, ovverosia di autentico proselitismo (propaganda senza altre sottigliezze), e quella del culto di Mao, in coincidenza di intenti. L’altra serie giustifica (per modo di dire!) l’ospitalità su queste pagine: essendo carte ritagliate a uso fotografico. Con ordine, dal principio.
Le traduzioni dalle iscrizioni originarie cinesi sulle carte ritagliate politiche sono di Enrica Peracin e Wei Yuzhang. (in attraversamento di doppia pagina). Soggetto datato agli anni della Grande Rivoluzione Culturale (dal 1966), che ha influenzato tutto il mondo del proprio tempo. Lavoratori (operai), contadini e soldati: «Prepararsi per la guerra, prepararsi per la carestia, per il popolo» (Mao Zedong). [In origine: 6,47x10cm].
CARTE RITAGLIATE
ANTONIO BORDONI
La carta ritagliata cinese, in originale Jianzhi -spesso declinata in Italia come “fiori di carta”-, è estremamente delicata e fragile: supporto di carta estremamente sottile e leggera, quasi impalpabile.
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Definita Jianzhi, la carta ritagliata cinese -spesso declinata in Italia come “fiori di carta”- è un’arte popolare millenaria. L’origine non è certa, sia perché è difficile che la fragilità della carta resista alle inclemenze del tempo e del clima, sia perché è sempre stata considerata minore e non degna di attenzione, e nulla è stato fatto per studiarla, preservarla e conservarla in modi consoni e opportuni. Comunque, si presume che la sua nascita sia immediatamente susseguente alla creazione della carta, databile all’anno 105. In ogni caso, i reperti cinesi più antichi risalgono al Sesto secolo. Raffinati esemplari in carta di riso, ritrovati, nel 1959, a Gaochang, nella regione autonoma Uygura, del Xinjiang, a nord-ovest del paese, sono stati datati alla prima metà del Cinquecento. Il loro alto livello tecnico e la loro raffinata esecuzione fanno supporre che, in quel periodo, l’arte della carta ritagliata fosse già in fase di completa maturazione e consapevolezza.
Nella successiva epoca Tang (618-907), in occasione della Festa di Primavera, gli imperatori ricevevano i cortigiani che portavano bandiere di seta con emblemi d’oro e argento ritagliati a forma di caratteri cinesi e fiori. Poiché -a quei tempi- la carta e la seta erano indifferentemente usate per la scrittura e la pittura, si può ipotizzare anche che le prime “carte” ritagliate fossero in seta. Ancora, si pensa che i ritagli in seta fossero usati per adornare palazzi e case ricche. A seguire, quando la materia cartacea divenne di uso più corrente, le carte ritagliate fecero la propria comparsa nelle case della gente comune, diventando rapidamente un’arte popolare, capace di esprime un vigore diretto, primitivo e una intensa gioia di vivere.
RITAGLI IN CARTA
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Definita Jianzhi, la carta ritagliata cinese -spesso declinata in Italia come “fiori di carta”è un’arte popolare millenaria. Oggi e qui, individuiamo e presentiamo due serie di soggetti significativi: uno di lontana/antica propaganda politica, con appendice di ritratti di Mao Zedong (evidente culto della personalità); l’altro, in qualche misura di applicazione fotografica, giustifica l’ospitalità su queste pagine (forse). Eccoci qui. Una volta ancora
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Culto della personalità! Inevitabile celebrazione, glorificazione, magnificazione ed esaltazione della direzione politica di Mao Zedong, padre della Rivoluzione Culturale (Proletaria): «Viva il percorso rivoluzionario del presidente Mao». [In origine: 11,3x8,6cm].
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Le carte ritagliate sono usate per decorare interni ed esterni; quelle incollate ai vetri delle finestre sono chiamate “Fiori di finestra”. Analogamente, “Fiori di soffitto” sono le carte ritagliate preparate per decorare i soffitti; e “Pendenti della fortuna” quelle che servono a decorare gli architravi delle porte o vengono incollate sulle porte e alle pareti. Collocate all’inizio della Festa di Primavera (il Capodanno Lunare Cinese), queste decorazioni rimangono sul posto per un anno, e vengono sostituite solo poco prima dell’inizio della successiva Festa di Primavera. Il carattere effimero è tipico delle carte ritagliate: piccoli quadri facilmente sostituibili, poiché poco costosi, che possono essere realizzati anche in proprio, con pochi utensili: un paio di forbici, a volte
un bulino, una tavoletta in legno tenero come supporto e... carta sottilissima (impalpabile). In origine, i temi tradizionali delle carte ritagliate erano legati a superstizioni religiose ed erano soprattutto simbolici e mitologici. Come pure simbolici erano i colori, che esprimevano collera o gioia, e identificavano i personaggi buoni, distinguendoli dai cattivi. Per esempio, in epoche lontane, il rosso ha configurato il sole, la verità e la gioia. Oggi, ogni simbolismo di colore è quasi totalmente scomparso. Dagli anni della Repubblica popolare, proclamata il Primo ottobre 1949, l’arte della carta ritagliata ha subìto cambiamenti profondi, sia nella tecnica, sia nei temi. In osservanza e conformità ai princìpi indicati dal presidente Mao Zedong (in particolare, «Gettando
ciò che è compiuto, si crea il nuovo»), sono stati rivisti tempi e modi. Durante la Rivoluzione Culturale (affascinante in teoria, ma orrenda nello svolgimento), e negli anni immediatamente seguenti, le carte ritagliate non servirono solamente a decorare finestre, regali e lanterne, ma anche a educare le masse popolari alle idee socialiste. Al pari dei manifesti propagandistici [FOTOgraphia, marzo 1999 e marzo 2009], anche le carte ritagliate si adeguarono al nuovo corso: così, i temi trattati non riguardarono più soltanto scene idilliache teoriche e classiche, ma si estesero alla lotta di operai, contadini e soldati, al lavoro produttivo, all’abbondanza delle colture agricole, alla prosperità degli allevamenti... insomma tutti gli ideali e le aspirazioni del popolo lavoratore.
Le carte ritagliate cinesi sono realizzate con due diversi metodi: la tecnica del ritaglio a forbice e quella dell’intaglio con una lama. Il ritaglio a forbice è adatto per la realizzazione di uno o al massimo due pezzi per volta: è il preferito dai maestri artigiani e dalle donne di casa, che realizzano carte ritagliate per uso domestico. Le forbici tracciano una linea continua e ininterrotta, sia all’interno sia sul contorno della carta. Le forbici tradizionali cinesi hanno manici larghi quasi ovali, lame corte e affilatissime, la punta è usata esclusivamente per le rifiniture più delicate. Il vero artista ritaglia senza un modello preconfezionato e l’ausilio di un disegno guida. L’intaglio con lama è quello usato per la produzione in quantità. Infatti, anche sessanta-settanta fogli di
Ancora dalla Rivoluzione Culturale, lanciata da Mao Zedong, nel 1966, un soggetto a carattere internazionalista: «Appoggiare la lotta dei neri in America, contro la violenza». Tante e tante le parole d’ordine di quegli anni, che poi avremmo riconosciuto come meno splendenti della loro apparenza originaria. [In origine: 9,6x9,6cm].
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Realizzate e proposte da un’azienda fotografica di Tianjin (spesso italianizzata in Tiensin), una delle quattro municipalità della Repubblica popolare cinese, indirizzata verso prodotti da e per camera oscura, le carte ritagliate da abbinare a negativi medio formato, per copie fotografiche “sagomate”, propongono soggetti classici entro i quali “contornare” ritratti e/o panorami, soprattutto. Ovviamente, rispetto la carta ritagliata tradizionale, il supporto cartaceo è di maggiore consistenza, in modo da sopportare usi prolungati. Altrettanto ovviamente, questa interpretazione fotografica, che ci permettiamo di considerare perlomeno orrenda (databile anche agli anni Cinquanta occidentali), è proposta come “belle arti, sviluppo di fotografie e disegno di fantasia”. Per quanto ci riguarda oggi, è il legame più diretto tra la carta ritagliata cinese e la fotografia propriamente tale. Con nostra buona intenzione (ma non fine).
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da non ignorare, degna di attenzione fotografica: soprattutto oggi, in un tempo nel quale questa ingenuità lontana nel tempo, questo candore senza imbarazzo, questa semplicità allarmante e questa affascinante innocenza fanno ricordare che ci sono stati momenti nei quali... tutto era spontaneo e volonteroso, senza tasti da digitare, opzioni da selezionare, applicazioni da mettere a frutto. I supporti di queste carte ritagliate per camera oscura sono di sei centimetri di base/lato. Quindi, ritorniamo alla fotografia cinese di quaranta anni fa, dominata dalla genia delle biottica 6x6cm Seagull 4 e Pearl River, accompagnate dalla Seagull 203 a soffietto, per esposizioni 6x6cm o 4,5x6cm, sempre e comunque su rullo 120. Ribadiamo, confermandolo: mille e mille e mille anni fa.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (13)
RITAGLI PER CAMERA OSCURA
Negli anni Settanta, in un’epoca nella quale la tecnica della fotografia era assai più austera di come e quanto la conosciamo oggi, si registrò una curiosa trasmigrazione della carta ritagliata cinese... da usare in camera oscura. Personalmente, testimoniamo per tre serie di dodici soggetti ciascuna, che qui presentiamo in selezione limitata. In una confezione di supporti di carta neri, dodici soggetti semplici si presentano “al negativo”. Abbinato al negativo fotografico da ingrandire su carta, rinchiudono il soggetto all’interno di una sagomatura di fantasia (di terribile fantasia, questo va detto), che esprime e vanta intenzioni di ricercata “artisticità” di contorno. Sì, è proprio una combinazione orrenda nel risultato (che lasciamo all’intuizione individuale di ciascuno), ma si tratta di una curiosità
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
carta sottilissima possono essere intagliati contemporaneamente. Nello specifico, il pacco di fogli di carta è collocato all’interno di una cornice di legno il cui fondo è ricoperto da una sostanza composta di oli vegetali e resina, al fine di predisporre una base flessibile per l’intaglio; una volta indurita, la base dura per anni e impedisce ai coltelli di spuntarsi. Sulla pila di fogli di carta è posto il modello, e l’intero pacco, prima di iniziare l’intaglio, è fissato alla base con dei chiodi. In questo modo possono essere riprodotti molti modelli con una sola operazione. Ancora, si distinguono generalmente due stili di carte ritagliate: quelle del nord / nord-ovest, e quelle del sud. A nord, il disegno è più vigoroso, le linee più marcate. Al sud, le linee sono più fini, morbide e li-
bere. La composizione è più complicata e movimentata. Ciò crea delle carte ritagliate vivide e delicate al tempo stesso. Però, col trascorrere del tempo, l’unificazione della Cina e i contatti più frequenti tra queste due parti del paese hanno assottigliato le differenze. I centri principali di realizzazione restano Yangzhou, Foshan, Shanghai, Nanchino e Yan’an.
Da una delle parole d’ordine fondanti della rivoluzione socialista, una affermazione perentoria: «I proletari di tutto il mondo si uniscono» (quando mai?). [In origine: 10x8cm].
SOPRATTUTTO PROPAGANDA
(prossima doppia pagina) Raffigurazione dei Padri: Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao... in sequenza. Da cui e per cui: «Viva il marxismo-leninismo e il Pensiero di Mao Zedong». [In origine: 18,5x26,8cm].
Come anticipato, per illustrare le carte ritagliate cinesi abbiamo isolato dalla nostra capace raccolta -ricca di migliaia di esemplari- due serie di soggetti politici della stagione dei secondi anni Sessanta, all’indomani della Rivoluzione Culturale, che rimandano il nostro (continua a pagina 62)
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C’ERA UNA VOLTA UN’ALTRA CINA...
A questo proposito, configurazioni fotografiche quotidiane a parte, che si sono espresse soprattutto nel medio formato 6x6cm, con interpretazioni a soffietto (Seagull 203) e biottica (Seagull e Pearl River), fino a tutti gli anni Ottanta, e magari perfino oltre, il professionismo fotografico cinese ha potuto disporre di apparecchi grande formato Seagull stile primi del Novecento: non apparecchi fotografici agili e portatili, tipo i banchi ottici e le folding allora imperanti in occidente e in Giappone, ma autentici apparecchi da terrazza, rigidi e inamovibili. Soprattutto due furono le Seagull grande formato cinesi, entrambe per dimensioni di lastre (negativi) non usate in occidente, vicine al 13x18cm (peraltro riducibile con apposite maschere in dotazione): una in legno e l’altra metallica. Qui certifichiamo con le copertine delle rispettive istruzioni d’uso, che accompagniamo con le istruzioni coeve dei bromografi per stampe a contatto di negativi di dimensioni sei / otto pollici e dodici pollici. E con testimonianze d’uso, datate al settembre 1979 e febbraio 1982. Che in questo caso significano (in ripetizione d’obbligo) mille e mille e mille anni fa. Non uno di meno.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
C’era una volta un’altra Cina... fotografica... antecedente l’attualità di produzioni tecnologicamente odierne (anche, conto terzi). I tempi che qui raccontiamo -sia riferendoci alla carta ritagliata cinese tradizionale, sia illustrando con esempi propagandistici della Rivoluzione Culturale (ufficialmente, Grande Rivoluzione Culturale Proletaria: nobile in teoria, tragica nella pratica), sia approdando alla carta ritagliata da adoperare in camera oscura, per stampe bianconero inserite in cornici sagomate (di gusto terribile) [a pagina 56]- identificano una Cina di mille e mille anni fa. Completamente lontana, estranea e avulsa dalla personalità commerciale cinese dei nostri giorni: grande potenza economica, che compete sui mercati finanziari internazionali. Anche dal solo punto di vista fotografico, nostro territorio di osservazione e microcosmo significativo del macrocosmo, la Cina che raccontiamo non ha alcun rapporto di contatto, né affiliazione, con la Cina dei nostri giorni: quella della quale leggiamo sugli organi di stampa. È una Cina che affonda le proprie radici indietro nei decenni, e che si muove in termini antichi, rispetto i traguardi già raggiunti dal mondo occidentale.
Istruzioni d’uso delle Seagull grande formato, circa 13x18cm (ma, in realtà, dimensioni di lastra in vetro estranee agli standard occidentali delle pellicole piane): una in legno e l’altra in metallo. Prodotte fino alle soglie del Duemila, entrambe riprendono configurazioni fotografiche dei primi del secolo, definite “da terrazza”. Istruzioni d’uso del bromografo cinese in legno, per stampe a contatto da negativi sei / otto pollici. Nell’offerta tecnica della Cina del secondo Novecento, in tempi e modi di autentica e convinta Repubblica popolare (lasciamo perdere), ci fu anche una versione di dimensioni superiori, per stampe a contatto da negativi di dodici pollici. Curiosità: la spia luminosa rossa di certificazione di contatto elettrico evidenziava una stella ideologica al proprio centro. (pagina accanto, in alto) Pechino, settembre 1979: testimonianza di utilizzo della Seagull grande formato in metallo, nella nevralgica piazza Tienanmen, per fotoricordo davanti all’ingresso della Città Proibita (con ritratto di Mao). (pagina accanto, in basso) Ancora mille anni fa: 24 febbraio 1982, con Bruno Palazzi -mancato nell’autunno 2006-, per la presentazione del bimestrale Foto-Notiziario Professionale, derivato dal settimanale per negozianti. In posa accanto la Seagull da terrazza in legno, per simboleggiare il mestiere (forse).
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ANTONIO BORDONI
MAURIZIO REBUZZINI
Diciotto dei trentasei soggetti totali di ritratti di Mao Zedong, realizzati in carta ritagliata. Ricordiamo qui la preziosa edizione Franco Maria Ricci, numerata e in cofanetto, del 1978, intitolata Mao Tse-tung. 36 fiori di carta, con trentasei poesie tradotte da Renata Pisu, alla quale ha fatto seguito, nel 1980, una edizione corrente. Quindi, nel 1998, Mondadori Editore ha replicato il contenuto nella collana I Miti Poesia. [In origine: 15x9,5cm].
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(continua da pagina 57) commosso ricordo all’amico Domenico Strangio -mancato prematuramente-, con il quale abbiamo condiviso straordinarie stagioni di speranze e illusioni, che hanno arricchito le nostre rispettive esistenze. Consistenti sono i temi della propaganda spicciola, che evoca gli splendori (?) della lotta di classe all’interno di una Repubblica popolare ideologicamente indirizzata. Oltre le proprie intenzioni originarie, in una lettura attuale, mille e mille anni lontana dal clima nativo, sono affascinanti le raffigurazioni del presidente Mao Zedong, parte consistente di quel culto della personalità che ha ispirato e guidato i tormentati giorni della Rivoluzione Culturale. Indipendentemente dalla nostra riproduzione lito-
grafica, con messa in pagina allineata alle esigenze redazionali e guidata da princìpi di visualizzazione grafica, un per l’altro, i soggetti propagandistici, in immancabile rosso, sono di piccole dimensioni, mai superiori ai dieci-undici centimetri. I ritratti di Mao Zedong sono un poco più grandi, quindici centimetri. Ancora, va annotato che nel 1978, Franco Maria Ricci realizzò una preziosa edizione in cofanetto, intitolata Mao Tse-tung. 36 fiori di carta (centottantotto pagine in folio grande, 35x50cm, stampate in serigrafia su carta a mano di Fabriano; settecento copie numerate e firmate): ovviamente, trentasei poesie, tradotte da Renata Pisu, accompagnate dalla riproduzione di trentasei ritratti di Mao Zedong dai soggetti in carta ritagliata dei quali stiamo riferendo. Due anni
DOMENICO STRANGIO (18) DI
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA - DONAZIONE FIUME GIALLO,
dopo, nel 1980, venne pubblicata anche una edizione corrente, di novantantotto pagine 23x24,5cm, sempre cartonata e in cofanetto. Successivamente, nel 1998, Mondadori ha replicato il contenuto in un volumetto della collana I Miti Poesia (12,5x15,5cm). A questo proposito, e a completamento, va annotato un curioso precedente, declinato sul filo delle nostre attuali considerazioni. Nel 1958, gli Editori Riuniti, casa editrice dipendente dall’allora Partito comunista, pubblicarono una raccolta di poesie di Mao Tsê Tung (grafia in corso in quei tempi), intitolata Diecimila fiumi e mille montagne. In preziosa veste editoriale (di settantadue pagine 11x16,8cm, con custodia), le diciotto poesie -riprese dalla rivista letteraria Shih K’an (Poesia), di Pechino, del gennaio 1957- fu-
rono pubblicate per conto del settimanale Vie Nuove, altrettanto dipendente dallo stesso Partito comunista. In anticipo sul culto della personalità, che sarebbe stato avviato con la Rivoluzione Culturale, del 1966, l’edizione non fu illustrata con carte ritagliate di Mao, come ha fatto, in seguito, Franco Maria Ricci, ma con carte ritagliate della tradizione classica cinese: insomma, ancora e comunque, con carte ritagliate. E questo è quanto, in una digressione consapevole e volontaria dalla fotografia, nostro territorio statutario di incontro e condivisione. Ma, come spesso annotiamo, mai pensarla -la Fotografiacome arido punto di arrivo, ma intenderla sempre e comunque come fantastico s-punto di partenza. E questo è quanto. ❖
Dopo avergli chiesto scusa per molto e molto e molto, meno male non per tutto, dedico a Domenico Strangio, scomparso prematuramente, allineandomi una volta ancora, una di più, mai una di troppo, all’intensità dell’affetto della compagna Elisabetta (Monti), che onora la sua memoria con mirabili versi di Li Po: Sempre ti penso a Chang’an dove il grillo domestico d’autunno stride.
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Intervista
di Enrico Ratto (Maledetti Fotografi), 27 aprile 2015
MAURIZIO GALIMBERTI
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Maurizio Galimberti, la tua Milano non ha nulla di descrittivo, né di immobile: è istintiva, ritmica e l’hai fatta tua. Quanto tempo hai dedicato al libro su Milano? «Ho lavorato a Milano by Maurizio Galimberti per cinque anni -almeno per quanto riguarda i mosaici-, mentre le immagini singole nascono ancora prima. Questo libro va sfogliato come un catalogo d’arte che raffigura un insieme di pezzi, ogni mosaico va letto per conto proprio». [Nota aggiuntiva, attuale: a cura di Matteo Parigi Bini, con testi di Dario Fo, Piero Lissoni e Davide Oldani, Milano by Maurizio Galimberti è stato pubblicato nella primavera 2015, da Gruppo Editoriale; nel frattempo, da fine luglio, è in distribuzione libraria la monografia Maurizio Galimberti. Portraits, a cura di Benedetta Donato, edita da Silvana Editoriale; da metà settembre, in selezione espositiva alla Galleria KryptoS, di Milano, a cura di Filippo e Maurizio Rebuzzini]. Quante opere contiene la raccolta, il libro? «Sono circa settanta immagini. È un progetto nato nel 2010 con Fulvio Frigerio, di Monomilano; poi, StarHotels ha prodotto il libro. È un omaggio a Milano nei mesi dell’Expo. In realtà, non ho mai visto bene Milano, finché -nel 2010- non ci sono venuto a vivere, e mi è piaciuta subito. A Milano, il bello c’è. L’Italia e Milano rappresentano il bello del vivere in questo momento». Perché i tuoi grattacieli si muovono? «I grattacieli devono muoversi, perché il concetto è suonare la musica, salire e scendere, è muoversi nel ritmo. Non sono David Hockney, che taglia la realtà in una forbice [ma il parallelo con David Hockney, spesso evocato alla luce dei mosaici di Maurizio Galimberti, è sempre fuori
luogo: oltre l’apparenza simile, le rispettive interpretazioni visive sono tra loro assolutamente distanti; per esempio, la fotografia di Maurizio Galimberti introduce il movimento, là dove l’immagine sarebbe per proprio mandato statica... e altro tanto ancora]. «Io agisco portando la realtà in una dimensione che sta tra il Futurismo e Duchamp. Nella mia realtà, vado da un punto all’altro, e quando mi muovo c’è sempre un salire e scendere, un ritmo». Il sette maggio, inaugurerai una mostra alla DaDAEast Gallery, di Milano, dal titolo Metamorfosi. La città che sale, nella quale verranno esposti mosaici, polaroid maxiformato e ready-made inediti su Milano. «Sì, perché questa è la Milano che vedo io, e in genere è così che vedo la città. Nelle mie fotografie di Milano (o di New York) c’è lo stesso movimento che trovi nella Città che sale, di Umberto Boccioni. È una danza... mi piace far ballare i grattacieli».
Penso che la tua fotografia sia molto fisica. Tu fotografi in movimento; allo stesso momento, le tue gambe sono il tuo grandangolare e il tuo teleobiettivo. «Quando realizzo ritratti in mosaico mi appoggio addirittura alla persona, al soggetto; quando rappresento le architetture, scatto rapidamente, sempre in sequenza, e il movimento che applico diventa una sorta di danza per fotografare». Anche l’incisione sulle polaroid singole è fisico. «Questa sorta di incisione rende unica la polaroid. Qui le mie contaminazioni sono più legate al cinema, a Michelangelo Antonioni e Roberto Rossellini, ma anche a Wim Wenders e Aki Kaurismäki. «Il fatto di manipolare e incidere le superfici, durante le fasi di sviluppo, è una sorta di pranzo che faccio con l’opera: scatto la fotografia e poi cerco di mangiarla con la mia manipolazione. Cerco sempre di entrare nella fotografia con la mia energia e fantasia».
Tu guardi e controlli sistematicamente ciò che hai scattato, o continui a scattare finché non credi di aver ottenuto ciò che immaginavi? «Se sono a New York e realizzo dieci mosaici, cerco di guardarli tutti, perché questo mi permette di capire qual è la mia visione della città in quel giorno. Diventa quindi un work in progress mentale: realizzo un mosaico, e poi ne affronto un altro di conseguenza, e poi un altro ancora sulla base del mio stato d’animo e del mio pensiero sui precedenti». Il pubblico che osserva l’opera legge questo percorso? «Sì. Si può vedere che la produzione è stata realizzata nello stesso giorno. In base all’umore della giornata, i mosaici hanno più o meno ritmo, sono più o meno grandi e articolati». Ti capita di sapere già che cosa andrai a fotografare? «Non puoi mai decidere prima che cosa fare. Quando sono sul campo, scatto. Anche Robert Frank, quando è entrato all’Icp, di New York, diceva che non riusciva a decidere il giorno prima che cosa fotografare l’indomani». Butti via molte fotografie? «Raramente mi capita di buttare via i lavori; in tutta la mia vita, avrò eliminato dieci o quindici mosaici in tutto. Quando affronto un progetto, raramente sono insoddisfatto del risultato». Ti ispiri a Robert Frank, lo hai appena citato, un fotografo che ha lavorato prevalentemente sul reportage e sui simboli di una nazione. Il tuo lavoro è diverso. «Mi ispiro a livello di intenzioni progettuali. Quando Robert Frank ha realizzato la serie The Americans, ciò che ha trovato è stato diverso da ciò che pensava di incontrare. Non posso pensare oggi ciò che voglio fotografare domani, altrimenti non fotografo la realtà, ma i suoi preconcetti».
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Intervista È un approccio che va poco d’accordo con la fotografia su commissione. Probabilmente, è per questo che sei l’unico fotografo a cui viene chiesto di reinterpretare il brand, non solo di valorizzarlo o collaborare a una campagna. Esprimi sempre qualcosa di tuo. «Lo penso anch’io. L’altro giorno, ho fotografato una borsa per Vionnet, inserendola in un manifesto che sta tra Braque e Picasso: così, l’ho definita il mio tributo a Braque e Picasso. «Se il cliente avesse voluto la borsa in still life non si sarebbe certo rivolto a me. Insomma, mi si chiede sempre di essere me stesso; per cui, porto gli oggetti verso la mia visione. Tutto è utile e buono, per entrare nella mia pancia». Torni a fotografare luoghi che hai già fotografato? «Ci sono luoghi che sono la mia palestra, in cui torno, come il Flatiron Building e il Guggenheim Museum, a New York. Sono luoghi verso i quali -quando ti approcci- sai sempre che, in seguito, tornerai per migliorare e perfezionare la tua progettualità». Perché realizzi spesso tributi a fotografi e artisti? «Il tributo è far capire che interagisci con la progettualità e la visione di un artista. Fai capire che quell’artista ti ha contaminato, in qualche misura. Sicuramente, i miei tributi agli artisti si riconoscono nell’estetica; mentre i miei tributi ai fotografi si esprimono più nella progettualità». Parliamo delle tue identificazioni alle fotografie. Al di là di quelle finalizzate all’archiviazione, pensi che siano parte della tua opera? «Ci sono identificazioni che, anche nel titolo, trasmettono la mia sinergia con l’opera. È come se l’opera fosse una caramella che bisogna avvolgere nella propria carta protettiva. Curo molto l’identificazione, anche da un punto di vista grafico». Le tue fotografie potrebbero vivere anche senza identificazioni specifiche? «Sì. Certo che sì».
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Dal tuo progetto con le pellicole Impossibile sono nate scansioni (e ingrandimenti) in cui hai valorizzato un difetto di produzione originario. «Quelle fotografie hanno una storia molto interessante. Alle sue origini industriali, Impossible era ripartita a proporre anche il bianconero. In un momento nel quale non c’erano più emulsioni Polaroid, la fotografia a sviluppo immediato stava ripartendo da zero: dai bianconero slavati, dalle patine di giallo, dai toni più leggeri. «È come se mi fossi ritrovato io stesso all’inizio della storia della fotografia: stavo cercando un percorso progettuale, sperimentando per trovarlo, ma -nello sguardopotevo far tesoro di miei trent’anni di esperienza visiva e creativa». Dai un grande valore al pensiero, allo stato d’animo, all’istinto e poco al mezzo. Tuttavia, il tuo lavoro non può prescindere dalle macchine fotografiche che usi. «Il dialogo con l’utensile è fondamentale. La macchina fotografica si piega a me e io mi piego alla fisicità del mezzo. Quella polaroid è sempre stata una pellicola molto sensibile ai fattori esterni; per esempio, a Parigi, quando faceva freddo, nascevano meravigliosi blu e viola... quindi, cercavo situazioni più evocative, adatte a questo slittamento cromatico.
«Quando lavori in polaroid, l’occhio impara a vivere in simbiosi con il mezzo fotografico, e viceversa, ed entrambi contribuiscono ad evidenziare ciò che hai dentro. Ancora, il fatto che la copia polaroid cambi nello scorrere tempo rende l’opera un oggetto prezioso, da cullare e coccolare». Quando realizzi ritratti, come individui il dettaglio più significativo di una persona? «Nel suo silenzio interiore. «Quando i miei soggetti cercano di ridere, di impostare una posa, quando -all’inizio- si danno un contegno artificioso, non mi interessa... infatti, spesso inizio a fotografare dai capelli. Poi, quando restano in silenzio, allora si rivela il loro animo. «Io non parlo molto con i soggetti che fotografo, non devo scrivere un articolo su di loro; per fotografarli, mi sintonizzo con il loro silenzio. Questo discorso del silenzio interiore è molto importante, ma l’ho scoperto negli anni. «Quando ho fotografato Mario Giacomelli, ventidue anni fa, non avevo ancora chiaro il concetto del silenzio, e -probabilmentese lo avessi saputo, avrei ottenuto un altro risultato». Ti concentri su dettagli che spesso sono oggetti, un orologio, un paio di orecchini... «I miei sono ritratti della Memoria: mentre il soggetto cambia, l’oggetto resta. Tutti noi cambiamo, e
Riprendiamo dalla serie/quantità/qualità di interviste realizzate da Enrico Ratto per il suo contenitore Maledetti Fotografi, magazine on line, arricchito sistematicamente: www.maledettifotografi.it. Recentemente, selezioni di queste interviste sono state raccolte in monografie librarie, rispettivamente con le interviste del 2014 e del 2015 (alcune precedenti, ma pubblicate negli anni di riferimento). ❯ Maledetti Fotografi / 2014 (128 pagine 15,3x22,8cm; 9,00 euro e Kindle): Arianna Arcara e Luca Santese (Cesura), Christoph Bangert, Gianni Berengo Gardin, Stuart Franklin, Kate Garner, Mario Giacomelli, Guido Harari, Henryk Hetflaisz, Frank Horvat, Mattia Insolera, Hua Kiem, Don McCullin, Steve McCurry, Sarah Moon, Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Dominique Tarlé, Long Thanh, Riccardo Venturi, Wolfgang Volz, George Woodman. ❯ Maledetti Fotografi / 2015 (148 pagine 15,3x22,8cm; 9,00 euro e Kindle): Gian Paolo Barbieri, Settimio Benedusi, Valerio Bispuri, Francesco Bosso, Szymon Brodziak, Daniele Cametti Aspri, Romano Cagnoni, Francesco Cito, Giovanni Gastel, Maurizio Galimberti, Josef Koudelka, Frank Kunert, Giuseppe Mastromatteo, Giovanni Presutti, Marc Riboud, Massimo Sestini, Massimo Vitali, Joel-Peter Witkin.
gli oggetti che ci accompagnano restano sempre uguali. Sono gli oggetti di affezione che accompagnano la vita di ciascuno e che restano immobili, ed è questo interessa la memoria delle persone». Ogni fotografo, ogni artista, ha una disciplina di riferimento laterale che lo guida, e che non è la fotografia. Qual è la tua? «Innanzitutto, il mio star bene fisico. Poi, sicuramente, la mia musicalità interiore, il mio ritmo. E poi, ancora, il feeling con il mezzo, con la Polaroid appunto. «Lo shooting è un momento meccanico, ma è la bellezza del mezzo che ti coinvolge. Tra i mosaici realizzati con Polaroid e quelli fatti con apparecchi Fujifilm, altrettanto a sviluppo immediato, puoi vedere differenze non solo estetiche, ma anche di ritmo, perché Polaroid ha un ritmo diverso da Fujifilm». Quando guardi una tua fotografia per la prima volta, che cosa osservi? «Non guardo il soggetto, cerco di vedere se mi dà emozione. A ogni fotografia è legato un ricordo, un viaggio, una situazione, una persona. Invece, se guardo la stessa fotografia dopo vent’anni, cerco di capire se mi piace ancora». Nel tuo lavoro c’è molta progettualità, ma anche tanta estetica. «Assolutamente, sì. Il contenuto deve viaggiare in sintonia con la forma, e tutti e due devono viaggiare assieme all’estetica. «È stato detto che Picasso sarebbe stato un anti-esteta, ma nel tempo si è rivelato che Picasso era il re dell’estetica. La sua leggerezza e il suo equilibrio erano estetica. Nelle mie fotografie c’è un forte rigore estetico». Sei istintivo e coerente da trent’anni. Riesci a far convivere istinto e coerenza? «Ho molto rigore, un rigore progettuale. Chiaramente, negli anni, in dipendenza del mio umore, a seconda del mio stato d’animo, il mio lavoro si è modificato, ma la progettualità è coerente. «Io per primo mi devo riconoscere: cerco la coerenza». ❖