FOTOgraphia 225 ottobre 2016

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ANNO XXIII - NUMERO 225 - OTTOBRE 2016

Angelo Ferrillo NEW YORK

Toni Thorimbert SEDUZIONE DELLA FOTOGRAFIA

Dal cinema LA MACCHINA AMMAZZACATTIVI


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prima di cominciare MAGNIFICA ILLUSIONE. Ottanta anni fa, alle elezioni politiche francesi del 3 maggio 1936, il Front populaire si impose con trecentottantasei seggi, sui seicentootto disponibili (386 su 608, pari alla maggioranza assoluta). Formato da una coalizione di partiti di sinistra, composta dal Partito Comunista Francese, Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (Sfio), e dai partiti Repubblicano, Radicale e Radicale Socialista, fu al governo fino al 1938, con la guida di Léon Blum, leggendario leader comunista. Clamorosamente, in un tempo nel quale le donne non avevano diritto al voto, il suo governo fu il primo ad avere donne ministro, tre in totale. Sotto questo governo furono firmati i definiti Accordi di Matignon, che riconoscevano il diritto di associazione e l’aumento degli stipendi del dodici percento. Poco dopo, furono varate anche una legge che istituì i primi quindici giorni di ferie pagate (congés payés) e un’altra che portò a quaranta ore la durata della settimana lavorativa (prima erano quarantotto ore la settimana). Da cui, la Francia tutta è solita identificare queste innovazioni come l’illusione, che -ahinoi- precedette di qualche effimera stagione la tragedia della Seconda guerra mondiale, che si sarebbe abbattuta sull’Europa, prima, e sull’intero pianeta dal settembre 1939. La scorsa estate, la stampa francese ha rievocato l’ottantesimo anniversario da quei giorni, sottolineandone lo spirito innovativo e democratico, che per la prima volta al mondo stabilì parametri di condizioni collettive comprensive di sostanziosa tutela dei lavoratori, ovverosia della classe sociale più vulnerabile e, quantomeno fino allora (ma anche in seguito), meno protetta.

La fotografia dal volto umano o nomade non si insegna... si vive. La grande fotografia è ciò che disvela o denuda e contribuisce alla riconoscenza e al rispetto dei diritti umani calpestati dalle democrazie consumeriste e dai regimi totalitari. Fotografare è cercare la bellezza e la verità... si tratta di cambiare se stessi per cambiare l’ordine del mondo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Siamo persone che non sappiamo davvero cosa pensiamo, finché non lo scriviamo. [Forse]. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 24 La fotografia educa alla comprensione del diverso, qualsiasi questo sia. Almeno, dovrebbe essere così. mFranti; su questo numero, a pagina 11 La vita non cambia. La malvagità sembra inestirpabile... il confine tra bene e male è molto sottile. E, comunque, non si può ottenere il bene facendo il male. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 22

Copertina Inquadratura parziale dalla composizione originaria di Don Gutoski, primo premio assoluto Wildlife Photographer of the Year 2015 (la fotografia completa, in orizzontale, a pagina 40, dopo la nostra anticipazione dello scorso luglio): una volpe rossa trascina la carcassa di una volpe artica, nel Wapusk National Park, in Canada. Considerazioni sul Wpoty 2015, da pagina 40

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una cartolina emessa in Unione Sovietica, il 4 ottobre 1961, con illustrazione della Kiev 4, telemetro 35mm di derivazione Contax

7 Editoriale Due testate in particolare hanno sottolineato il clima e le speranze avviate in quel 1936 di Front populaire: uno speciale di Historia ha titolato Été 36: La parenthèse enchantée (Estate 36: La parentesi incantata), e La Nouvelle Revue d’Histoire, di luglioagosto, ha richiamato 1936: Illusions et tragédie (1936: Illusioni e tragedia). In entrambi i casi, capillare rievocazione storica, abbondantemente illustrata. E, tra l’altro, sottolineiamo la presenza della fotografia, in quanto tale, sulla copertina di Historia, con raffigurazione di un imponente fotografo in riva al mare, ripreso dal ricordo di “tempi felici”.

Ne faremmo volentieri a meno, ma l’attualità della fotografia italiana è frequentata da una nuova orda di personaggi privi di qualsivoglia etica, esperienza e garbo (non necessariamente in questo ordine). Un’orda di parvenus, arroganti quanto sono ignoranti

10 Fotografia x bene Ammirevole e lodevole iniziativa del fotografo cesenate Marco Onofri, che ha organizzato e svolto un’asta benefica a favore delle popolazioni terremotate

12 Inviolabilmente... X Al vertice del proprio sistema fotografico, la Fujifilm X-T2 conferma una vocazione di efficienza assoluta


OTTOBRE 2016

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

14 Reinterpretazioni d’autore

Anno XXIII - numero 225 - 6,50 euro

Convincente e coinvolgente mostra di Gianluigi Colin, la cui No News, Good News indaga il sistema dei media di Pio Tarantini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

18 Soltanto per i buoni Film poco conosciuto, e ancor meno citato, l’intrigante La macchina ammazzacattivi, di Roberto Rossellini, presenta un aspetto affascinante della fotografia. Forse Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

24 Al giorno d’oggi Tutto cambia, tutto si trasforma... la vita contemporanea

26 Sulle strade di New York Serena declinazione fotografica del bravo Angelo Ferrillo, che non intende raffigurare la Storia, ma raccontare storie da condividere, in un rapporto di dare e ricevere di Maurizio Rebuzzini

34 Seduzione della fotografia Convinto e consapevole progetto fotografico del talentuoso Toni Thorimbert, capace di riflettere sulla fotografia con una lucidità che approda presto ai contenuti impliciti di Elisa Contessotto

40 Obiettivo Natura Considerazioni dal Wildlife Photographer of the Year 2015, autorevole concorso per la fotografia di natura di Lello Piazza

51 Una città immaginata Fantastica progettazione creativa, in forma stenopeica di Laura Sassi

56 In bolla! Le livelle hanno accompagnato i cicli degli apparecchi grande formato, a banco ottico oppure folding di Antonio Bordoni

64 Maria Di Pietro

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Elisa Contessotto Angelo Ferrillo mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Gan Paolo Randazzo Franco Sergio Rebosio Laura Sassi Pio Tarantini Toni Thorimbert Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi su una fotografa nomade (dal volto umano) di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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di Alessandro Mariconti

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editoriale P

recisiamolo subito, non soltanto presto. Come annotato in tante occasioni -là dove e quando è stato necessario e/o doveroso farlo-, la fotografia è spesso maltrattata, soprattutto quando viene affrontata dall’esterno dei propri confini istituzionali e competenti. E questo potremmo anche sopportarlo, nella convinzione che tanta superficialità, persino giornalistica, soprattutto giornalistica, sia endemica nel nostro paese, tanto da non riguardare la sola fotografia -e ci mancherebbe altro-, ma da estendersi trasversalmente a ogni materia specifica, disciplina, arte, espressione e singolarità. Però, un conto è il dilettantismo “giornalistico” (fatti loro), un altro quello caratteristico di settore e parte in causa, ovverosia -per ciò che ci interessa e premedella fotografia affrontata e sostenuta dal proprio interno. A questo punto, e da questo punto di vista e osservazione mirata, da qualche tempo la fotografia italiana è frequentata da autentici parvenus (plurale di parvenu, trascrizione italiana dell’originario parvënü’, participio passato del verbo parvenir / pervenire, arrivare, con femminile parvenue... statisticamente più consono alle nostre attuali rilevazioni, da declinare -ahinoi, per l’appunto- soprattutto al femminile): persone che si sono rapidamente elevate a una condizione sociale superiore, senza averne tuttavia acquisito i codici, le maniere, lo stile e la cultura che converrebbero al nuovo stato (ne conosciamo nomi e cognomi: ma non qui, ma non ora). Certo, occuparsi di fotografia senza averne competenze maturate ed esperienza adeguata non fa male a niente e nessuno, lo riconosciamo; peggio, molto peggio, sarebbe occuparsi analogamente (che so...) di medicina, laddove i danni sarebbero consistenti. Rasentando spesso il grottesco, fino a frequentarlo con imperiosa determinazione, siamo stati invasi da “curatori” che sono approdati alla fotografia in quanto facile territorio di conquista e affermazione individuale. Tanto che, oggigiorno, proliferano le dizioni “a cura di” prive di qualsivoglia contenuto e spessore. Per cui, va precisata / andrebbe precisata la sottile, ma consistente, linea di demarcazione che distingue, o dovrebbe farlo, il critico dal curatore, entrambi in competenza di intenti. Per dirla in semplicità, che comunque corrisponde al vero, critico è colui il quale decifra l’opera, l’insieme delle opere, offrendone chiave di lettura e interpretazione, sia rivolgendosi agli addetti, sia riferendosi al pubblico ampio e generico. Invece, curatore è colui il quale assiste l’autore nel proprio percorso, avendo il coraggio e la forza (dati dalla competenza) di indirizzarne il tragitto e consigliarne il passo; addirittura, a volte, il curatore deve censurare iniziative dell’autore che divergono dal suo cammino espressivo e visivo, fino a comprometterlo. Volendola annotare, ci sarebbe anche un’altra distinzione specifica: per il proprio lavoro, il critico dovrebbe essere compensato da “altri”, qualsiasi questi siano (case editrici, istituzioni, gallerie ospitanti), mentre il curatore è a carico dell’autore, con negoziazioni private. Quindi, in aggiunta, i due ruoli possono essere svolti dalla stessa persona, in momenti diversi e propri e distinti.

Competenza con consapevolezza di quanto rivelare per far comprendere l’argomento presentato, senza aggiunte dispersive: da quanto (tanto?) si sa, si deve sempre estrarre l’essenza. Per esempio, lo scorso settembre, rilevando la presenza di fotografia nella miniserie televisiva 22.11.63, abbiamo ritenuto di omettere dettagli forvianti. Comunque, eccoli qui: Lee Harvey Oswald, ritenuto l’assassino del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, comprò il fucile Carcano 6,5mm, conosciuto anche come Mannlicher-Carcano, per corrispondenza, nel negozio di articoli sportivi Klein’s, di Chicago. Sua moglie Marina lo fotografò in posa, nel giardino della loro abitazione al 214 West Neely street, di Dallas, in Texas, domenica 31 marzo 1963, otto mesi prima dell’attentato al presidente JFK.

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Etica e dintorni: da FOTOgraphia, luglio 2016. Il fotogiornalista Massimo Sestini ha avvicinato la Ricoh Theta originaria, che ha utilizzato anche per l’immagine in copertina (in versione Theta S), domenica ventinove novembre, durante una colazione conviviale che ha riunito partecipanti al Photolux Festival 2015, di Lucca: Filippo Rebuzzini, Enrico Ratto, Benedetta Donato e Maurizio Galimberti.

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Eccoci qui, in un panorama italiano attualmente molto confuso, con spostamenti di ruolo ma non di intenzioni e declinazioni. Addirittura, con curatori arroganti, oltre che inconsapevoli della tempistica del proprio compito e ignari di ciò che è (fondamentalmente) etica, morale, galateo, garbo, eleganza, gratitudine, riconoscenza, tatto... e tanto altro ancora. Per fortuna, però, in contraltare avvistiamo l’arrivo di forme pubbliche di fotografia brillanti e attuali, sganciate da percorsi storici e radicati, capaci di organizzare, allestire e svolgere eventi in ordine con i nostri tempi, così particolari e specifici: non mostre in senso classico, che -per l’appunto- presuppongono competenze tenaci e consolidate, ma coinvolgimenti declinati sull’onda della socialità dei nostri giorni, che si misura, si deve misurare, sul (controverso) territorio “social”. Non siamo lontani dal vero, sappiamo di non esserlo, quando riconosciamo che il contenitore fotografia presuppone oggi tante e tante sfaccettature, impensabili in tempi (ormai) passati. Così che sappiamo accettare il nuovo, quando questo è effettivamente e consapevolmente tale. Ma, allo stesso momento, non concepiamo il tradizionale, se e quando e per quanto, questo si presenta senza i connotati che dovrebbero definirlo e identificarlo. Infatti, da una parte individuiamo un cammino coerente, che dalle origini -addirittura!- è stato cadenzato nel riconoscimento e rispetto di un tragitto compatto, costante e fedele; dall’altra, accettiamo esperienze ed espressioni che nascono in deviazione, cogliendo più lo spirito dei nostri tempi che il percorso storico ed espressivo della fotografia. Una volta identificata questa coabitazione, che, tra l’altro, è ignorata perfino dal mondo commerciale italiano della fotografia -che confonde tra loro i singoli termini e le singole caratteristiche, non riuscendo altresì a individuare e riconoscere lo scorrere del tempo-, è giocoforza declinare con passi conseguenti e consequenziali ogni personalità e ogni istante proposti al pubblico, offerti alla partecipazione collettiva. Infatti, un conto è salire sul treno della Storia, con tutte le proprie peculiarità e proprietà irrinunciabili -perché scritte, perché stabilite, perché dovute, perché sacrosante-, un altro è affiancarsi alla socialità odierna, della quale e dalla quale sottolineare una innovativa cadenza in chiave fotografica: non più radicale e consolidata, ma fresca e vitale, ma dinamica e comprensibile in territori ampi, che superano la stretta cerchia degli addetti di sempre. Eccoci qui, dunque, in conclusione e ripresa dell’incipit, nello sconforto di un mondo fotografico frequentato senza alcuna consapevolezza e seguìto senza alcuna competenza. Ma, allo stesso momento, praticato con colpevole maleducazione. Infatti, qualsiasi sia l’intenzione fotografica di ciascuno di noi, dovrebbero essere chiare alcune condizioni di base, per la loro maggior parte irrinunciabili. Oltre la nostra convinzione sempre sottolineata, che interpreta e abita la fotografia non come arido punto di arrivo, ma fantastico e privilegiato s-punto di partenza, rimangono altri valori: la fotografia è sempre e comunque un atto d’amore; con la fotografia tutta, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso: la fotografia educa alla comprensione del diverso, qualsiasi questo sia; solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante; ciascuno detiene il coraggio di ciò che veramente sa, o è solo poca cosa di fronte all’inavvertenza di tutte le cose; il fascino estraniante e stregato della fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla violenza esasperante della quotidianità mai affrontata; ciascuno diventa colui che la vita non gli ha consentito di essere. Fine. Maurizio Rebuzzini



Così sia

di Maurizio Rebuzzini (Franti)

FOTOGRAFIA X BENE

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Dalle 17,00 di giovedì otto settembre, con una diretta streaming/Facebook di sette ore, l’asta benefica Fotografia x bene, organizzata e svolta a cura del professionista cesenate Marco Onofri [del quale, lo scorso giugno, abbiamo presentato il fantastico progetto Followers, successivamente esposto allo Spazio Kryptos, di Milano, dall’inizio di ottobre], ha raccolto oltre trentunomila euro a favore delle popolazioni terremotate del centro Italia. Per l’esattezza, la cifra totale originaria è stata 31.280,00 euro, che si è poi incrementata con l’allungo d’asta online, fino al sedici settembre, raggiungendo la cifra complessiva di 38.450,00 euro, arrivati a destinazione attraverso la rete della Croce Rossa. Bene! E proprio... per bene, come da capitolato. All’iniziativa benefica lanciata da Marco Onofri hanno aderito centocinquantadue fotografi, che hanno offerto proprie opere, per l’appunto collocate nella sessione originaria d’asta e nella propria immediata appendice. Così agendo, anche il mondo fotografico ha partecipato da par suo a una solidarietà che rivela come e quanto i sentimenti individuali siano sostanziosamente superiori all’aridità politica del nostro paese, che tanto parla (soprattutto di se stessa, per se stessa e la propria conservazione) e poco agisce. In questo senso, personalmente, siamo anche noi alleati e concordi con la filiera di solidarietà concreta, non prima di aver sottolineato l’amarezza di doversi sostituire allo Stato in una delle proprie funzioni fondamentali: quella di essere sempre e comunque dalla parte della popolazione, soprattutto in momenti di tragedia collettiva. Ma questo, come altri del resto, è un altro discorso: non ne approfondiamo qui, non lo facciamo ora, anche perché non siamo statutariamente preposti a doverlo fare. Invece, dal nostro punto di vista mirato, che spesso sconfina nel viziato, non possiamo che approvare, lodare e condividere quanto si manifesta a partire dal territorio a noi comune della fotografia: una volta ancora, una di più, e mai una di troppo, non arido

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GIAN PAOLO RANDAZZO (3)

Così sia

punto di arrivo, ma fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Questa volta in propria concreta e tangibile proiezione sociale. Nel farlo, elogiamo tutti i protagonisti della vicenda: dai fotografi, che hanno donato proprie opere, agli acquirenti, che le hanno comperate, più per spirito sostenitore e compartecipe che per altre motivazioni egoistiche e individuali. Addirittura, c’è stato chi (Maurizio Galimberti, va rivelato), sull’onda della propria convinzione solidale, ha interpretato entrambi i ruoli: oltre aver offerto un proprio ritratto a mosaico da eseguire [le nostre più recenti considerazioni al proposito, in FOTOgraphia dello scorso settembre], ha infiammato l’asta con rialzi e acquisti. Addirittura, c’è stato ancora chi (i fotografi Chico De Luigi e Toni Thorimbert) ha offerto la propria credibilità professionale, maturata in decenni e decenni di etica senza compromessi, gestendo l’intensa e faticosa sessione d’asta originaria: non soltanto battitori anonimi, ma figure esposte in prima persona, in forma e dimensione garanti.

Giovedì otto settembre si è svolta l’asta benefica Fotografia x bene, organizzata a cura del professionista Marco Onofri. In sette ore di sessione di aggiudicazione, realizzata in diretta streaming/Facebook, animata dai fotografi Chico De Luigi e Toni Thorimbert, sono stati raccolti 31.280,00 euro a favore delle popolazioni terremotate del centro Italia. A seguire, in allungo d’asta online, fino al sedici settembre, si è raggiunta la cifra di 38.450,00 euro, arrivati a destinazione tramite la rete della Croce Rossa.

Addirittura c’è stato chi, operando dietro le quinte, oltre le luci della ribalta, ha reso possibile tutto, con un impegno pratico e un lavoro senza sosta: oltre Marco Onofri, ispiratore e organizzatore, hanno agito anche, e forse soprattutto, Michele Lugaresi (regia della diretta streaming), Lucia Alessandri (alla registrazione delle offerte e aggiudicazioni), Nicola Dalmo (in collegamento costante e continuo con i vincitori d’asta), Yari Boschetti (che ha tenuto i contatti con la Croce Rossa), Cristina Onofri (che ha seguito l’iter dei bonifici bancari intestati direttamente alla Croce Rossa e inviato le opere aggiudicate) e Filippo Rebuzzini (trasversale a tutte le azioni pratiche, dalla raccolta di opere all’allestimento dell’asta, a ogni fase infrastrutturale). Addirittura, al momento in cui scriviamo, è in post produzione il video dell’iniziativa, che dovrebbe essere in Rete al momento in cui la rivista sarà in propria distribuzione: per ogni aggiornamento, riferirsi agli indirizzi social di Marco Onofri, a partire dal suo sito www.marconofri.com.

In conclusione. Anzitutto, grande merito tangibile, quantificato negli oltre trentottomila euro che il mondo della fotografia italiana ha raccolto in forma ufficiale a favore dei terremotati (38.450,00 euro). Quindi, straordinaria dimostrazione di una energia che non si limita all’assolvimento (spesso tiepido, frequentemente sterile) di propri compiti istituzionali. Dunque, rivelazione di una grandezza emotiva capace di declinare la Fotografia, in Maiuscola volontaria e consapevole, per ciò che principalmente è: un inviolabile atto d’amore. Lo scriviamo spesso, e ovunque sia necessario, e ancora lo ripetiamo in questo stesso numero. In ulteriore conferma: con la fotografia tutta, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. Infatti, la fotografia educa alla comprensione del diverso, qualsiasi questo sia. Almeno, dovrebbe essere così. ❖

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Sulla strada (e oltre) di Antonio Bordoni

INVIOLABILMENTE... X

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Passo dopo passo, accantonate direzioni tecniche che si sono esaurite in se stesse, alcune delle quali soppiantate dalla prepotenza tecnologica degli smartphone e dintorni (leggi: compatte), la proposta fotografica Fujifilm X ha scandito passi consequenziali di sostanziosa efficacia. In massima semplificazione, perché altro c’è, si segnalano indirizzi fondamentali, che interpretano l’attualità della fotografia con piglio e decisione, proponendo perfino livree che riprendono configurazioni storiche, che hanno scritto inviolabili capitoli del linguaggio fotografico, anno dopo anno, decennio dopo decennio (leggi, soprattutto: Fujifilm X100S e X100T, a obiettivo grandangolare fisso, e sistema X-Pro2, evoluzione consequenziale della futuristica X-Pro1 originaria): se serve, ne abbiamo riflettuto nell’aprile 2012, all’indomani della presentazione della Fujifilm X-Pro1 (marzo 2012). Ciò sottolineato, va rilevato come e quanto l’intero comparto Fujifilm X proponga e offra soprattutto configurazioni Mirrorless (CSC - Compact System Camera) di considerevole efficienza, valore e funzionalità, che -a propria volta- completano l’indirizzo stabilito dagli apparecchi simil-telemetro, appena evocati. Tra tanto che si può annotare, e che stiamo per riferire all’attualità della recente Fujifilm X-T2, progresso tecnologico della X-T1 di partenza, si tratta di dotazioni tecniche che accolgono, accompagnano e risolvono le esigenze e necessità della street photography, territorio entro il quale agiscono avvincenti e convincenti autori: tra i quali, richiamo d’obbligo per Angelo Ferrillo, tra tanto altro anche X-Ambassador, che presentiamo su questo stesso numero, da pagina 26. In questo senso, sono da sottolineare soprattutto quelle doti di massima operabilità pratica, che si sposano con l’efficacia e qualità delle prestazioni. In parallelo, poi, non si può ignorare come e quanto la Fujifilm X-T2 assolva l’attualità della fotografia dei nostri giorni, supportando anche la registrazione video 4K, peraltro arricchita dalla modalità “Simulazione Pellicola”, propria

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Evoluzione consequenziale della X-T1 originaria, l’attuale configurazione Fujifilm X-T2 presenta e offre una sostanziosa quantità e qualità di prestazioni e caratteristiche incrementate. Con un sensore X-Trans Cmos III in dimensioni APS-C (23,6x15,6mm), da 24,3 Megapixel, è definita da una eccellente velocità di risposta: dal tempo d’avvio all’intervallo tra gli scatti, al ritardo allo scatto.

e caratteristica della ripresa fotografia convinta e consapevole, che può essere applicata anche alla registrazione di filmati di altra qualità formale. Il design della Fujifilm X-T2 -Mirrorless da 24,3 Megapixel effettivi, con sensore X-Trans Cmos III in dimensioni APS-C (23,6x15,6mm, con filtro a colori primari)-, è modellato sullo stile del “mirino centrale” con ingrandimento 0,77x, già proprio e caratteristico della X-T1 originaria. Ne consegue un corpo macchina ergonomico, con selettori di guida e comando disposti esattamente dove sono necessari, per un’operabilità eccellente e intuitiva. Ancora, utilizzando l’impugnatura opzionale, si ottiene un perfetto equilibrio, soprattutto quando si scatta con teleobiettivi di sostanziose dimensioni. Ovviamente, da un punto di vista tecnico-commerciale, l’attuale Fujifilm X-T2 si colloca al vertice della Serie X, dove affianca la X-Pro2, configurazione fotografica “stile-telemetro” dotata di mirino Hybrid Multi. Ognuna per sé, ed entrambe in comunione di intenti, le due dotazioni top di gamma offrono eccellenti prestazioni fotografiche, declinate con personalità. In semplificazione (non colpevole, ma mirata), la X-T2 sottolinea propri valori finalizzati alla fotografia di ritratto, na-

tura e sport; mentre la X-Pro2 è ideale per la fotografia documentaristica e giornalistica. In ripetizione: entrambe sono ideali nella street photography. Tra tutte le sue specifiche tecniche, che si traducono in opportunità operative, e che sono adeguatamente riassunte nelle informazioni ufficiali Fujifilm (soprattutto, in Rete), concentriamo la nostra attuale intenzione alla risposta rapida della X-T2, idonea e ideale per registrare il momento decisivo con ogni tipo di soggetto. Ovviamente, rispetto dotazioni precedenti, sono stati perfezionati e tanti valori: tra i quali, per l’appunto, quelli relativi ai tempi di risposta. Un tempo di avvio di 0,3 secondi, intervallo tra gli scatti di 0,17 secondi e ritardo allo scatto di 0,045 secondi sono tempi di riposta che garantiscono il funzionamento dinamico della X-T2. Il tutto, in combinazione con prestazioni finalizzate dell’autofocus: dai precedenti quarantanove punti di messa a fuoco si è passati a novantuno. Circa il quaranta percento della superficie dell’immagine (area centrale contenente quarantanove punti di messa a fuoco) è coperto dall’AF, con pixel a ri-


Sulla strada (e oltre)

levamento di fase per formare un’area autofocus veloce e precisa, finalizzabile in un’ampia varietà di situazioni. La potenza di elaborazione a velocità elevata e l’impiego di un algo-

ritmo perfezionato consentono la messa a fuoco con maggiore frequenza in modalità Live View, permettendo quindi un AF predittivo avanzato e preciso.

La versatile Fujifilm X-T2 è definita da una confortevole ergonomia di utilizzo.

L’efficace mirino elettronico Organic EL ad alta risoluzione della Fujifilm X-T2, da 2,36 Megapixel, con rapporto di ingrandimento 0,77x, vanta un tempo di ritardo alla visualizzazione di soli 0,005 secondi. La sua luminosità massima è raddoppiata rispetto ai modelli precedenti; il mirino dispone della conveniente funzione “Regolazione Automatica della Luminosità”, per essere facilmente visibile anche in forte controluce. Il mirino EVF ha una velocità di refresh di 60 fotogrammi al secondo o di 100 fotogrammi al secondo, in modalità Boost, per offrire un’accurata visualizzazione dei movimenti. È possibile la visualizzazione di un soggetto in movimento senza interruzione. Il rapido tasso di refresh dell’immagine è mantenuto anche in condizioni di scarsa illuminazione, per una facile inquadratura durante le riprese notturne. (Fujifilm Italia, Strada Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it). ❖


Progettualità di Pio Tarantini

REINTERPRETAZIONI D’AUTORE

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Da decenni, Gianluigi Colin -artista che si serve della fotografia per realizzare opere di confine con altri linguaggi visivi e performativi- conduce e approfondisce una ricerca ormai consolidata sul sistema dei media, in particolare quelli legati al suo mondo professionale, il giornalismo, che ha praticato nell’impegnativo ruolo di art director del quotidiano Corriere della Sera, di Milano, fino alla scorsa primavera. La sua attuale mostra No News, Good News, in corso a Catanzaro, presso il Museo Marca (Museo delle Arti Catanzaro), fino a fine ottobre, segna una tappa significativa di questa ricerca: in continuazione da quanto appena annotato, si tratta di una antologica che ripercorre i recenti trent’anni del lavoro artistico che Gianluigi Colin ha dedicato e riservato alla riflessione sul sistema dei media. Come un archeologo del presente, l’autore preleva immagini e stralci di carta stampata, per manipolarli fisicamente e modificarli dando loro nuova vita e significati innovativi. Il procedimento di manipolazione è diversificato e allusivo del messaggio che trasmette: una volta prelevato il materiale cartaceo selezionato -in genere, fotografie circondate da brandelli di titoli e testi, riprodotte su giornali e riviste-, lo accartoccia per fotografarne gli “stropicciamenti”, realizzando così immagini che poi stampa su carta di giornale, a propria volta applicata su supporti cartacei, sui quali, con gesto finale, interviene ancora con le mani, per ulteriori piegature. I diversi passaggi e le impegnative insistenze nella trasformazione di questo materiale sottolineano la meticolosa applicazione nel testimoniare -attraverso il procedimento operativo e stilistico- la manipolazione delle coscienze che avviene attraverso i media. Ne risultano opere di diverse dimensioni, piccole e grandi, multimediali, al confine tra immagine visiva, scultura e installazione. Perché, poi, altro elemento rilevante nei progetti e nelle mostre di Gianluigi Colin sono le installazioni sceniche, che coprono spesso intere pareti, e a volte anche i pavimenti dei luoghi espositivi, rivestite fittamente di opere, quasi a determinare una im-

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In God’s name (carta su tela e cenere; particolare di un trittico; 2010).

(pagina accanto) Where is God (2013).

Sulla censura del nudo sulle statue.



Progettualità

mersione totale del visitatore, portato a una sorta di smarrimento... non solo visivo, ma soprattutto intellettivo. Per usare un termine ormai caro alla riflessione teorica sul ruolo dell’arte, la “perturbanza” che ne scaturisce viene ancora più accentuata quando, in una serie di opere riunite in una stessa ricerca, le fotografie giornalistiche d’origine delle manipolazioni dell’artista quasi spariscono in un procedimento di rarefazione grafica, coloristica e formale, che vira verso l’astrattismo. Nell’arco del medesimo progetto, pare assistere a una sintesi visiva di alcune tappe dell’arte contemporanea, dalle esperienze delle avanguardie storiche a una sorta di post-espressionismo, dall’informale all’astrattismo. Il lavoro artistico di Gianluigi Colin è dimostrazione evidente di come i linguaggi espressivi ormai si intreccino e sovrappongano, così che i confini tra fotografia “pura”, grafica e altre modalità stilistiche sono sempre più labili, rispecchiando così la multimedialità e la contaminazione tipiche dell’arte attuale. ❖ Mousetrap (2009).

(a sinistra) I tuoi occhi, i miei occhi. (a destra) Pollock (1983).

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Gianluigi Colin: No News, Good News, a cura di Arturo Carlo Quintavalle. Museo Marca, via Alessandro Turco 63, 88100 Catanzaro; www.museomarca.info. Fino al 30 ottobre; martedì-domenica, 9,30-13,00 - 16,30-21,00 (fino al 20 ottobre), 9,30-13,00 - 15,30-20,00 (dal 21 ottobre). ❯ Oltre la riproduzione delle opere in mostra, il catalogo pubblicato da Rizzoli propone interventi critici e riflessioni: un saggio di John Berger; una conversazione di Gianluigi Colin con Gillo Dorfles e Aldo Colonetti; testi di Valerio Magrelli, Gianni Riotta, Barbara Rose, Vincenzo Trione, Ignacio Ramonet e Nicola Saldutti.



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

SOLTANTO PER I BUONI

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Titolo poco noto della filmografia di Roberto Rossellini, La macchina ammazzacattivi, del 1952, al quale ci avviciniamo soprattutto (soltanto?) per la propria componente fortemente fotografica, è tornato a una certa ribalta nel corso della rassegna FermoImmagine, organizzata e svolta a Brescia dal MA.CO.f / Centro della Fotografia Italiana, da fine settembre. In una cadenza di cinque proiezioni, in martedì sera consecutivi, dal venti settembre al diciotto ottobre, sono state programmate le visioni con commento di BlowUp (del 1966), Sotto tiro (del 1983), Smoke (del 1995), La macchina ammazzacattivi (del 1952, per l’appunto) e Flags of Our Fathers (del 2006). In questo elenco essenziale, ma adeguatamente policromo, proprio La macchina ammazzacattivi rappresenta una sorta di sorpresa: sia per l’indifferenza della critica di Roberto Rossellini regista, sempre ricordato per altre pellicole (da Roma città aperta, del 1945, Paisà, del 1946, Stromboli, del 1950, a Il generale Della Rovere, del 1959, fino... al rapporto privato con l’attrice Ingrid Bergman), sia per la sua (colpevole) assenza da ogni filmografia che sottolinei la presenza della fotografia nella sceneggiatura e/o scenografia. A questo disinteresse, magari condito di non conoscenza, ha risposto con competenza Tatiana Agliani, autorevole osservatrice della fotografia, della quale ricordiamo almeno la recente analisi a quattro mani (con Uliano Lucas) del qualificato La realtà e lo sguardo - Storia del fotogiornalismo in Italia, pubblicato da Giulio Einaudi Editore [FOTOgraphia, marzo 2016]. Nel suo ruolo di co-curatrice della mostra fotografica di accompagnamento introduttiva di FermoImmagine (insieme con Filippo e Maurizio Rebuzzini), di venti film sintetizzati in trentuno fotogrammi ciascuno, ha rilevato che «La macchina ammazzacattivi è una deliziosa commedia del 1952, di Roberto Rossellini, legata alla vena del realismo magico, che sottende una percezione molto forte del rapporto tra la fotografia, il tempo e la morte: la visione che Roland Barthes ha lucidamente con-

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Il gradevole film La macchina ammazzacattivi, di Roberto Rossellini, del 1952, è uno dei meno noti e ricordati del celebre regista. Però, la critica cinematografica dovrebbe tenerne conto in quanto ponte tra un linguaggio visivo precedente e uno successivo, come ha annotato Renzo Rossellini, figlio del regista. Dal nostro punto di vista mirato e viziato, ci concentriamo sull’allineamento “fotografico” della sceneggiatura fantastica, nella quale una certa macchina fotografica può decidere la vita o la morte delle persone inquadrate.


Cinema

segnato al suo libro La camera chiara, nel 1980: “Dandomi il passato assoluto della posa, la fotografia mi dice la morte al futuro”, scrive Barthes. E credo che questa scelta della fotografia come principale espediente narrativo del film/lettura della fotografia da parte di Rossellini e degli sceneggiatori del film (Sergio Amidei, Franco Brusati, Giancarlo Vigorelli, Liana Ferri) sia un punto su cui fermarsi a ragionare, visti i forti legami tra fotografia e cinema nell’Italia del dopoguerra».

GENESI Commedia fantastica di ottanta minuti, La macchina ammazzacattivi fu iniziata nel 1948 e conclusa nel 1951, a causa di molteplici interruzioni. Finito presto nel dimenticatoio, il film è stato riproposto all’Hotel Principe di Piemonte, di Viareggio, in provincia di Lucca, nell’inverno 2011, in occasione della consegna a Renzo Rossellini, figlio del regista, del Premio Carriera Viareggio EuropaCinema. In simultanea, Flamingo Video ne ha realizzato un riversamento Dvd.

Con l’occasione, Marta Ajò ha rievocato le vicende del film proprio con Renzo Rossellini -riportate sul sito Via DelleDonne-, domandandogli anzitutto come mai, a distanza di sessant’anni, il Festival Viareggio EuropaCinema abbia presentato questo film, praticamente sconosciuto, come film di culto. Ancora: se la scarsa conoscenza della sua esistenza fosse dovuta al volere suo padre, che poteva averlo ritenuto opera mal riuscita o altro. «Assolutamente no», ha risposto Renzo Rossellini. «Per mio padre, questo film ha segnato un momento fondamentale del suo impegno di regista: rappresenta il confine tra il neorealismo di prima maniera e la fase successiva, alla quale si dedicò con altrettanta passione e altrettanto impegno. Era importante, però, per mio padre, affacciarsi alla fase successiva del suo lavoro senza sbattere la porta troppo violentemente; era necessario prendere tempo, per far maturare questo passaggio. Mio padre era un ramo nato dalla grande quercia-cinema, alla quale aveva dedicato la sua

Il film La macchina ammazzacattivi, di Roberto Rossellini, del 1952, racconta di Celestino Esposito, fotografo di un piccolo paese della costiera amalfitana (interpretato da Gennaro Pisano), che può uccidere i malvagi con un semplice scatto fotografico. Attenzione, però, il confine tra bene e male è molto sottile. E, comunque, non si può ottenere il bene facendo il male. Alla fine di questa sceneggiatura favolistica, tratta da un testo di Eduardo De Filippo, trionfa la Vita.

arte nella fase del neorealismo, non poteva tagliare la grande radice che lo legava alle origini. Aveva bisogno di tempo. Il cinema diventava adulto, bisognava guardarlo senza copiarlo. Bisognava pensare a progetti nuovi. «Per questo ha realizzato La macchina ammazzacattivi, una favola di pura fantasia tratta da un testo di Eduardo De Filippo: un film che non dovesse necessariamente trovare volti umani, come nel neorealismo; un lavoro metaforico senza il quale probabilmente non avrebbe lavorato ad altri soggetti». Da cui, il film: acuta riflessione sul labile confine tra buoni e cattivi.

TRAMA In La macchina ammazzacattivi si racconta di Celestino Esposito, fotografo di un piccolo paese della costiera amalfitana (interpretato da Gennaro Pisano), uomo semplice, amante della giustizia, devoto a sant’Andrea, che incontra un curioso viandante -che si presenta come sant’Andrea-, che lo dota di poteri sovrannaturali: attraverso (continua a pagina 22)

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Cinema VITA, MORTE E FUTURO

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Allungo a partire dal film La macchina ammazzacattivi, di Roberto Rossellini, attuale argomento portante. Senza andare troppo nel sottile, cioè senza richiamare teorie di spessore, ma rimanendo in superficie, ricordiamo che -tra i valori che caratterizzano il linguaggio fotografico- un posto d’onore spetta alla registrazione di fatti e avvenimenti che si proiettano al futuro. Diciamo che la fotografia ferma il tempo. Da qui, una certa fantasia ha elaborato affascinanti visioni parallele, che modificano questa condizione, interpretandola in modo quantomeno stravagante. Di fatto, queste fantasie hanno ipotizzato la macchina fotografica che non c’è e che, siamo sinceri, non potrà mai esserci: la macchina fotografica che vede e registra il futuro. È un gioco, ovviamente, che scarta a lato ogni concreta ipotesi tecnologica del presente-futuribile, e apre le porte di un territorio completamente diverso. Non quello della realtà, ma del sogno. In questo senso, apriamo con un episodio della antica serie televisiva Ai confini della realtà: Un’insolita macchina fotografica, decimo della seconda stagione (1960-1961), che racconta di una vecchia e inutile macchina fotografica a cassetta, con una curiosa etichetta “Dix a la proprietarie”. Alla maniera degli apparecchi Polaroid autosviluppanti (nati con l’originaria SX-70, del 1972), la macchina fotografica espelle la copia bianconero, che -a sorpresa- non raffigura

ciò che l’obiettivo ha puntato, ma qualcosa di diverso, rivelando, infatti, ciò che si svolge/rà cinque minuti dopo. Proseguiamo con la narrativa. Nella traduzione dal russo del compianto Emilio Frisia, non dimenticato fotografo e cultore della fotografia, nel dicembre 2006, abbiamo proposto un passaggio da un racconto dello scrittore russo Vadim Sergeevich Schefner (1915-2002), Un eroe troppo modesto (ovvero Un viaggio dietro la propria schiena), mai pubblicato in Italia, nel quale si racconta di una Fed -trentacinque millimetri a telemetro su base Leicadotata di obiettivo che permette di fotografare nel futuro. «Metti a fuoco l’obiettivo sul riquadro di spazio che vuoi fotografare e di cui vuoi sapere come sarà il futuro, e poi schiacci il bottone. Il congegno è ancora molto rudimentale; si può fotografare solo con tre anni di anticipo; più in là non si riesce ad arrivare», rivela Sergej a Ljusja. Quindi, realizza un ritratto della sua ragazza, che, una volta sviluppato, rivela che un anno dopo sulla fotografia c’è un’altra persona... e il loro amore finisce lì. Analogamente, la stessa fotografia del futuro è tema di due romanzi della collana per ragazzi Piccoli brividi, dell’editore Mondadori. In sequenza algebrica, Foto dal futuro e Foto dal futuro n° 2, dello statunitense Robert Lawrence Stine, sono racconti nei quali le fotografie (ancora in stile polaroid, a sviluppo immediato ed espulsione istantanea) sono premonitrici di qualcosa che avverrà.

Fotogrammi consequenziali da Un’insolita macchina fotografica, decimo episodio della seconda stagione di Ai confini della realtà (1960-1961). Una coppia di ladri scopre di aver rubato una macchina fotografica particolare

e unica, che mostra immagini cinque minuti avanti nel futuro. Finalizzano questa anticipazione per puntare su cavalli vincenti, avendo fotografato il tabellone degli arrivi, e poi incorrono in inevitabili guai: la legge del contrappasso.

Protagonista dell’omonima serie di fumetti di Akira Toriyama, il Dottor Slump ha inventato la «macchina [fotografica] che fotografa

il futuro». Oltre le dotazioni consuete, dispone di un regolatore degli anni in avanti e del relativo contatore abbinato.


Cinema La declinazione è assolutamente e volontariamente avventurosa, visto e considerato che la collana promette ai propri giovani lettori viaggi «Nel mondo della paura»: testuale nelle promozioni. Sempre nell’ambito della letteratura per ragazzi, nella collana dedicata Il giallo dei ragazzi, ancora Mondadori Editore, c’è un romanzo di Giulia Sarno a sfondo fotografico: per l’appunto, Il fotogramma rivelatore. In questo caso non si tratta di fantasia, né fantascienza, ma di qualcosa che ha eventuali debiti di riconoscenza con le sceneggiature del cinematografico Blow-Up, di Michelangelo Antonioni (1966), e del fumetto Ciao Valentina, di Guido Crepax (1966, cronologicamente anteriore al film; ribattezzato Ciao, Valentina!, nel giugno 1972, nella reimpaginazione per il terzo titolo dei libri di linus), nei quali dettagli casualmente involontariamente compresi nei secondi piani di inquadrature fotografiche, defilati rispetto il soggetto, svelano e rivelano un delitto. Quindi, leggendario nell’ambito della cultura dei fumetti giapponesi, Dottor Slump & Arale è una delle più note e fortunate serie disegnate da Akira Toriyama, affermato autore proiettato nell’olimpo internazionale, ampiamente conosciuto in Italia. Nel dicembre 1996, la specializzata Star Comics, di Bosco, in provincia di Perugia, ha pubblicato l’avventura Verso il domani, basata sulle fantastiche possibilità di una macchina fotografica che penetra il futuro. Senza alcun limite, un regolatore di tempo,

non di sola otturazione, permette di vedere avanti negli anni e nei decenni. Inevitabile rilevare i disagi che questo provoca nei protagonisti, che si fotografano l’un l’altro, ottenendo proprie raffigurazioni in età cronologicamente a seguire, con relativa accentuazione di acciacchi fisici e deperimenti vari. Invece, scartando un poco a lato, la Polaroid Onix di Terrore dall’infinito, sessantunesimo fascicolo della fortunata collana di Dylan Dog, di Sergio Bonelli Editore (ottobre 1991), annota non tanto in avanti nel tempo, quanto annulla qualcosa che si vede (?) a occhio nudo. A parte la colta e raffinata citazione della Onyx, la Polaroid con livrea trasparente, che lascia intravedere i propri ordinati dispositivi interni, annotiamo che sulle copie a sviluppo immediato scompaiono gli alieni, presenti nella scena in una dimensione (mentale) diversa da quella registrabile dalla pellicola fotosensibile. Ancora Dylan Dog (recentemente approdato ai propri trent’anni) arriva a una fantascientifica situazione fotografica nell’episodio Safarà: numero 182, del novembre 2001. Anche qui, non c’entra il futuro, bensì i poteri di un particolare obiettivo, applicato a una biottica di fantasia, che trasformano i soggetti inquadrati in assatanati assassini. Così siamo tornati a vita e morte, a buoni e cattivi, tema fondante del film La macchina ammazzacattivi, di Roberto Rossellini.

Sulla propria copia colore, la Polaroid Onyx di Dylan Dog / Terrore dall’infinito non registra la presenza dell’astronave aliena.

Foto dal futuro e Foto dal futuro n° 2, di Robert Lawrence Stine (collana Piccoli brividi), sono racconti nei quali le fotografie sono premonitrici di qualcosa che avverrà.

Chi viene fotografato con la biottica dotata di obiettivo malefico si trasforma in assatanato assassino, come l’aspirante modella Tippy, che infierisce sui propri genitori (da Safarà, avventura numero centottantadue di Dylan Dog ).

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Cinema

Il ciclo di proiezioni di FermoImmagine, al MA.CO.f / Centro della Fotografia Italiana, di Brescia, è introdotto e accompagnato da una esposizione di venti pannelli, di grandi dimensioni, che presentano film con consistente presenza fotografica: a cura di Tatiana Agliani, Filippo e Maurizio Rebuzzini. Se fosse necessario, ci sarebbe molto da dibattere a proposito della presenza consapevole e convinta e convincente della fotografia al cinema, all’interno di sue sceneggiature, piuttosto che a contorno, in sue scenografie. Prima di tutto, si dovrebbe stabilire un princìpio, sistema di misura e considerazione: per scandire i passi di quei film che elevano la stessa fotografia a considerazione e riflessione propria e autonoma (per esempio, il francese L’œil de l’autre, di John Lvoff, del 2004, mai approdato alla sua traduzione italiana [ FOTOgraphia, aprile 2015]), distinguendoli da quelli che, invece, finalizzano la cadenza fotografica alla sottolineatura di altri riverberi (per esempio, a condimento di una appassionante storia d’amore, in I ponti di Madison County, di e con Clint Eastwood, del 1995, dal romanzo omonimo di Robert James Waller [ FOTOgraphia, luglio 2012]). Poi, a complemento, ci sono anche presenze quantitativamente contenute, ma scenograficamente gradite, che si affiancano alla sceneggiatura, offrendole caratteri visivi accattivanti. Questa scomposizione, se così vogliamo intenderla, è stata considerata nella preparazione e confezione di questi venti pannelli introduttivi al programma FermoImmagine, di film a tema, con commento propedeutico. Quindi, subito svelato, non si tratta necessariamente dei venti film più significativi

(continua da pagina 19) la sua macchina fotografica, può decidere la vita o la morte delle persone inquadrate. Con questo, potendo uccidere i malvagi con un semplice scatto (fotografico), Celestino avrebbe potuto demolire la corruzione e cattiveria che, in paese, come in tanti altri luoghi, rovinano la vita della brava gente. L’azione del fotografo è infallibile. In paese, tutti sono debitori di Donna Amalia, una vecchia strozzina. Il buon

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della presenza della fotografia nel cinema, qualsiasi cosa ciò significhi e possa significare per ciascuno di noi, ma di venti film visivamente seducenti e attraenti. Ovvero: la forma prima della sostanza, e -addirittura- in sua vece. Comunque, un avvertimento: non date troppa importanza a questi pannelli, il cui scopo non sconfina dall’arredamento di uno spazio introduttivo alla sala di proiezione dei film a tema del programma FermoImmagine, autentici protagonisti della vicenda, in comunione di intenti con le relative presentazioni argomentate. Però, allo stesso momento, se vi garba farlo, apprezzate la lievità con la quale i fotogrammi sono stati accostati tra loro, in similitudine o contrasto di situazioni e toni. Ancora, e poi basta, non fermatevi all’apparenza e visibilità di questi colori (con qualche bianconero in accompagnamento), ma considerate questa modesta segnalazione come base individuale, come indicazione di partenza, per un proprio cammino lungo un territorio ricco e affascinante: la raffigurazione e rappresentazione della fotografia al cinema. Personaggi, riflessioni e altro ancora. In menzione alfabetica (quindi, casuale), i venti pannelli illustrano fotogrammi da: Backbeat - Tutti hanno bisogno d’amore [qui sopra, a sinistra], Blow-Up, City of God, Era mio padre, Flags of Our Fathers, Fur - Un ritratto immaginario di Diane Arbus, I ponti di Madison County, Il favoloso mondo di Amélie, La dolce vita, La finestra sul cortile, Memento, One Hour Photo, Pretty Baby, Salvador, Sky Captain and the World of Tomorrow, Smoke, Sotto tiro [qui sopra, a destra], Triage, Vicky Cristina Barcelona, We Where Soldiers. Tutti film, o quasi, presentati e commentati in FOTOgraphia, mese dopo mese.

Celestino comincia con lei la sua opera di eliminazione. Quindi, quando si scopre che, nel testamento, la donna ha nominato eredi del proprio patrimonio i tre poveri più miserabili del paese, si accende la lotta per distruggere il documento. Intanto, sono arrivati alcuni americani, interessati a costruire un grande albergo ai margini del paese. Tutti subiscono il fascino del dollaro; soprattutto il sindaco, che cerca di entrare nell’affare.

Mentre le trame degli imbrogli si arruffano, con la sua portentosa macchina fotografica, Celestino uccide uno a uno i malvagi e gli approfittatori. Ma la vita non cambia. La malvagità sembra inestirpabile... il confine tra bene e male è molto sottile. E, comunque, non si può ottenere il bene facendo il male. Celestino si riscuote: è stato solo uno strano sogno. Le sue presunte vittime sono tutte vive e vegete. Dunque, trionfa la Vita. ❖



Attorno a noi di Angelo Galantini

AL GIORNO D’OGGI

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Certamente, siamo antichi. Altrettanto certamente, questa condizione anagrafica ci consente di ricordare altri tempi precedenti, durante i quali erano stabilite regole e consuetudini comportamentali distese sul vivere quotidiano. Per esempio, in assenza di telefoni mobili, individuali, ricordiamo quando c’era una fascia oraria per chiamarsi; tra tanto altro, non si telefonava mai la sera, dopo una certa ora -per lo più, le sette di sera-, considerando conclusa la giornata operativa. Tanto che, ne siamo consapevoli, se il telefono di casa squillava nella sera, o nella notte -addirittura-, era solo portatore di cattive notizie, di notizie spesso tragiche, che non avrebbero potuto attendere l’indomani. Ovviamente, oggi tutto è cambiato. Ovviamente, la diffusione capillare di tecnologie applicate, molte delle quali facenti capo proprio allo smartphone e dintorni, ha alterato ogni precedente consuetudine. Non è il caso di contestare lo stato di cose, anche a partire dalle considerazioni -coabitanti e forse conseguenti- secondo le quali il tempo e la storia vanno avanti comunque, con o senza di noi, e le tecnologie applicate sono sempre utili e proficue allo svolgimento delle esistenze (nel senso di né angeli, né demoni, ma, casomai, modi di agire individuali sconsiderati). Tanto è. Così, non ci meravigliamo, quando leggiamo una nota giornalistica che sottolinea una certa sostanziosa diversità tra passato (anche prossimo) e presente (in proiezione futuribile): è stato riscontrato che per la frequentazione di ristoranti, la qualità del cibo e del servizio, un tempo condizioni assolute e inderogabili, sia ormai passata in secondo piano, dopo la necessità impellente e irrinunciabile di frequentare locali connessi Wi-Fi. Infatti, se ci guardiamo attorno, e ci scrutiamo in proprio, non possiamo non aver rilevato la quantità di dispositivi mobili presenti anche negli incontri conviviali: dallo smartphone al computer, senza alcuna soluzione di continuità. Ciò sta anche a significare che non ci sono più tempi statici scom-

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Il settimanale rosa Chi, con data di copertina trentuno agosto, ha lanciato il proprio giornalismo sulla figura del primo ministro Matteo Renzi: «Quando il premier va in vacanza»... con computer sulle gambe. Sostanzialmente, ci piaccia o meno, così è diventata la nostra esistenza contemporanea. Forse.

posti tra pubblico e privato, tra svolgimento di mestiere e vita individuale, ma la giornata di ciascuno di noi (nel mondo occidentale e in condizioni socio-economiche conseguenti) si distende e articola senza alcuna soluzione di continuità, con le proprie attenzioni individuali di professione e/o informazione in tempo reale. Ecco, dunque, che non ci ha stupiti la copertina del settimanale rosa Chi, con data trentuno agosto, che ha lanciato il proprio giornalismo sulla figura del primo ministro Matteo Renzi: «Quando il premier va in vacanza». Ovviamente, per esplicita e dichiarata posizione aprioristica, la posa del capo di governo è adeguatamente irriverente, con tanto di sbadiglio a pieni polmoni. Altrettanto ovviamente, sulle gambe di Matteo Renzi, in costume da bagno, su una sdraio, al sole, è

collocato l’ormai irrinunciabile computer: presente e attivo e attivato anche in un momento di relax. Così è, ci piaccia o meno. Così è diventata la nostra esistenza contemporanea, ci piaccia o meno. Tanto che sembra che sia passato molto, moltissimo tempo da quando stavamo seduti al bar (in osteria) a chiacchierare tra noi. E non c’è niente di strano: lo sappiamo bene che, per essere un elemento tanto inesorabile, il tempo ha una propria malleabilità. Per esempio, questa appena annotata. Quindi, in chiusura di nota, rispondiamo alla domanda che può essere sorta spontanea a molti... e che può accompagnare altri nostri interventi redazionali. Risposta: siamo persone che non sappiamo davvero cosa pensiamo, finché non lo scriviamo. Ecco qui. Tutto qui. ❖



di Maurizio Rebuzzini

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empre alla ricerca di etichette, di identificazioni facilitate, entro le quali considerare l’esercizio della fotografia, da qualche tempo si abusa spesso -troppo spesso- di un riconoscimento comodo per tanto: street photography. Però, i confini certi di questo indirizzo, il lessico sicuro di questa visione, il linguaggio accertato di questa fotografia non sono altrettanto garantiti e inequivocabili. A dispetto della enunciazione, non basta agire lungo la strada, per realizzare street photography, anche se questa condizione logistica ne è origine e capitolato; soprattutto, bisogna avere la capacità individuale di vedere, oltre il semplice guardare, e -più ancora- si deve attivare un’empatia con la vita nel proprio svolgersi, per quanto le sue manifestazioni siano caratteristiche e significative. Chiarito questo, è doveroso identificare una certa fotografia di Angelo Ferrillo, indirizzata entro l’ampio contenitore del racconto fotogiornalistico (con tutto quanto questo significa), proprio nella street photography, interpretata con piglio vigoroso e intenzioni riconoscibili. Oltre a questo, e tra tanti suoi progetti, all’autore va riconosciuto l’intrepido coraggio di essersi cimentato con New York (quantomeno per quanto riguarda la selezione oggi in passerella), a tutti gli effetti luogo illusorio e ingannevole, la cui personalità potrebbe sovrastare l’applicazione fotografica di sua osservazione. Distribuita nel tempo, la serie fotografica con la quale Angelo Ferrillo celebra a proprio modo lo svolgimento delle esistenze che danno vita alle contraddizioni di New York City, concentrandosi su propri incontri per la strada, ha un valore fuori dall’ordinario, che va subito sottolineato. La sua fotografia è autenticamente e inviolabilmente tale -fotografia-, e non declinazione in chiave visiva di altri linguaggi di racconto. (continua a pagina 32)

Al cospetto della serena declinazione diretta della fotografia di Angelo Ferrillo, che non intende raffigurare la Storia, ma raccontare storie da condividere, è soprattutto il caso di congratularsi con l’autore. È soprattutto il caso di esprimere quella gratitudine che si riserva a coloro i quali -fotografi e non solo- non salgono in cattedra, ma hanno l’umiltà di stare accanto e al fianco dei propri osservatori, che accompagnano in percorsi comuni. Nessuno è maestro, nessun altro allievo, e tutti insieme godiamo nel dare (uno) e ricevere (gli altri) 26


SULLE STRADE DI NEW YORK

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(continua da pagina 26) Da cui, l’osservazione originaria va rimarcata e specificata: raccolta e riunita in una affascinante galleria fotografica, questa New York, di Angelo Ferrillo, è tanto lontana e estranea da qualsivoglia compiacenza. Questa sua fotografia non ammicca, perché l’autore rispetta la dignità e personalità del soggetto raffigurato, appunto rappresentato in educata forma fotografica. A proprio modo, ognuna per sé, e tutte insieme nell’incessante sequenza di immagini, ciascuna fotografia afferma una inviolata dignità e personalità. Così che questo racconto arriva a disegnare e definire un mondo autentico, magari addirittura parallelo e coabitante con la nostra stessa vita, che si svolge da sé e che è costellato di piccoli o grandi riti dell’esistenza individuale. Certamente, non è più un mondo propriamente naturale, ma un mondo che deve fare i conti esistenziali con il proprio contenitore: ovvero con l’inevitabile rapporto che lega e collega le necessità di ciascuno, e ne guida i comportamenti. Lo sguardo dell’autore si rivolge e sofferma proprio in questa direzione: Angelo Ferrillo mette la propria fotografia a servizio. Tutto sommato, non esprime giudizi di merito, anche se l’apprezzamento dei momenti e la complicità con le singole esistenze è manifesta e palese. Invece, e più concretamente, l’autore registra, documenta, incasella e mette in ordine. Fino a che la cadenza originaria delle sue tante fotografie definisce un ritmo di visione in una certa misura accompagnatorio. Fotografo nel momento attivo della propria azione visiva, Angelo Ferrillo diviene garbata guida nei tempi successivi della visione. In ripetizione d’obbligo, questo è lo spirito, senso e spessore della sua fotografia, che è autenticamente tale, appunto fotografia, per quel naturale racconto di vita che esprime applicando il proprio linguaggio specifico: colpo d’occhio, punto di vista, composizione e geometria all’interno dello spazio definito dell’inquadratura. Non scomodiamo qui inutili e superflue note critiche, che dal concreto della nostra osservazione potrebbero anche partire per effimeri

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voli tangenti, quelli delle parole vuote che significano nulla, non soltanto poco. Al cospetto di questa serena declinazione diretta della fotografia, che non intende raffigurare la Storia, ma raccontare storie da condividere, è soprattutto il caso di congratularsi con l’autore. È soprattutto il caso di esprimere quella gratitudine che si riserva a coloro i quali -fotografi e non solo- non salgono in cattedra, ma hanno l’umiltà di stare accanto e al fianco dei propri osservatori, che accompagnano in percorsi comuni. Nessuno è maestro, nessun altro allievo, e tutti insieme godiamo nel dare (uno) e ricevere (gli altri). Stiamo con Angelo Ferrillo, nel rispetto della sua fotografia. Del resto, una volta ancora, una di più, mai una di troppo, prima di tutto è obbligatorio (oltre che perentorio) stabilire un parametro, un valore, un assioma: come e quanto la fotografia influenza la nostra vita. Autentico linguaggio del Novecento, non soltanto visivo, la fotografia appartiene tanto alla vita quotidiana attuale, da suggestionarla: dalle pagine dei giornali, come anche dalle affissioni pubblicitarie lungo la strada, e perfino dall’avvicinamento a progetti mirati, quale è questo attuale di Angelo Ferrillo. Con Paul Valéry, da Scritti sull’arte - La conquista dell’ubiquità (1934): «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Questo è il grande valore della fotografia di Angelo Ferrillo, che comunica all’esterno con la leggerezza, ma consistenza, di chi finge di non volerlo fare, di chi finge di percorrere un territorio solitario. Ma, attenzione, non si vada troppo in fretta. Ogni fotografia è parte di un insieme, che aiuta a comporre, ma è diversa dall’altra. Rallentare. Questo è il consiglio. Sapete com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi. ❖ Angelo Ferrillo: Sulle strade di New York. Spazio Kryptos, via Panfilo Castaldi 26, 20124 Milano; 02-91705085; www.kryptosmateria.it, spazio@kryptosmateria.it. Dal 27 ottobre all’11 novembre; lunedì-venerdì 15,00-19,30.



SEDUZIONE DELL

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LLA FOTOGRAFIA

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Convinto e consapevole progetto di Toni Thorimbert, capace di riflettere sulla fotografia, oltre a realizzarla con diversi indirizzi. In forma di monografia, racconto di storie... di attrazioni che trovano la propria essenza al di fuori del soggetto e dell’autore. L’innamoramento ora è in noi, che osserviamo, e che -a nostra volta- diventiamo parte del momento fotografico di Elisa Contessotto

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ccade spesso che il gesto fotografico sia alimentato da una tensione che non è soltanto quella che permette di premere sul pulsante di scatto. È un’energia passionale, passionevole... un’energia che diventa necessità. Nell’istante in cui tutto si fissa, un amore nasce. Cresce. Muore. E questo accade. Continuamente. Ed è così che nella ricerca Seduction of Photography, di stretta attualità, scopriamo un Toni Thorimbert innamorato. In questo susseguirsi di scintille, incontriamo quello che forse è uno degli aspetti più romantici della fotografia. Infatti, la fotografia ha questo grande potere di sedurre. In pochi istanti, permette di creare uno spazio atemporale di scambio, di conoscenza di sé e dell’altro. E la cosa meravigliosa è che tutto ciò che non si riesce a descrivere a parole, la fotografia lo coglie. E gli dà luce. La seduzione è nel gesto: in quella condivisione in divenire e allo stesso tempo in atto. In quella rincorsa verso l’unità che è ambiguamente mediata da un gioco di specchi nel quale la scena viene contesa, desiderata, rubata. Le storie che racconta Toni Thorimbert -a un tempo, e allo stesso tempo, seppure in momenti distinti, reporter, ritrattista, affermato fotografo di moda e art director- nel progetto-monografia Seduction of Photography sono attrazioni che trovano la propria essenza al di fuori del soggetto e dell’autore stesso. L’innamoramento ora è in noi, che osserviamo, e che -a nostra volta- diventiamo parte del momento fotografico. E, in fondo, non è quello che succede ogni volta che viene realizzata una fotografia?

Non è l’istante bressioniano, il momento decisivo, che Toni Thorimbert raccoglie e sottolinea nella propria ricerca, non è nemmeno la partecipazione teorizzata da Susan Sontag nel controverso saggio Sulla fotografia, spesso citato, altrettanto frequentemente preso a campione ed esempio. Ciò che incontriamo tra le pagine create dal fotografo è un desiderio di una vita accelerata, è la capacità di scoprire in ogni aspetto della realtà quel battito di cuore e quel sospiro sospeso che danno il ritmo a chi vive la Fotografia come una modalità di espressione, di comunicazione. Tra le immagini del progetto-monografia Seduction of Photography ho la fortuna di essere presente anche io. Ma quella che lì appare non è la mia storia. Non sono io la protagonista, e non è nemmeno l’autore Toni Thorimbert ad aver raccontato se stesso. In questa finzione apparente, oltre che consapevole, emerge soltanto quello che c’è di vero nella fotografia: quell’innamoramento che un fotografo vive e al quale dà vita, in ogni istante che vale la pena di essere raccontato, visualizzato e condiviso. Perché, sia convenuto: la seduzione è tutto quello che accade un attimo prima dello scatto. ❖ Toni Thorimbert: Seduction of Photography, in due edizioni, 2016. ❯ 300 copie numerate e firmate; ventisette fotografie (diciotto in bianconero, nove a colori); stampa Nava Press, Milano, con Indigo 7800 su carta Magno Natural da 120 grammi; 76 pagine 19,7x26,2cm; 40,00 euro. ❯ 25 copie, numerate da 275 a 300, in box di plexiglas, con una stampa 20x26,5cm in carta baritata, numerata da 1 a 25 e firmata dall’autore; ventisette fotografie (diciotto in bianconero, nove a colori); stampa Nava Press, Milano, con Indigo 7800 su carta Magno Natural da 120 grammi; 76 pagine 19,7x26,2cm, in box 27,6x21x3,7cm; 300,00 euro.

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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

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novembre 2016

GIORGIO CRAVERO MASTER HASSELBLAD: STRAORDINARIO STILL LIFE COME MESTIERE. E, poi... X1D


Don Gutoski (Canada; fotografo non professionista): A tale of two foxes (La fiaba delle due volpi). Primo premio assoluto Wildlife Photographer of the Year 2015. Una volpe rossa trascina la carcassa di una volpe artica, nel Wapusk National Park,

in Canada. Fotografia veramente straordinaria, una delle piĂš incredibili mai premiate. Canon Eos-1D X, Canon 200-400mm f/4L IS USM con Extender 1,4x a 784mm; 640 Iso equivalenti, 1/1000 di secondo a f/8.

OBIETTIVO NATURA Cinquantunesima edizione dell’autorevole concorso BBC Wildlife Photographer of the Year, esordito nel 1965. Come tradizione da qualche stagione, la mostra delle fotografie vincitrici e segnalate -suddivise in categorie- viene presentata anche in Italia, se proprio vogliamo, paese che non tiene in adeguata considerazione la fotografia di natura svolta e risolta con impegno e concentrazione senza compromessi. In ogni caso, va confermato come e quanto il qualificato concorso ribadisca sempre il proprio consistente ruolo, sia nell’ambito del panorama dei concorsi fotografici di livello e prestigio, sia nei confronti della materia istituzionale

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Ondřej Pelánek (Repubblica Ceca; quattordici anni): Young Wildlife Photographer of the Year 2015 (fino a diciassette anni). Battaglia tra due maschi di combattente ( Philomachus pugnax)

di Lello Piazza

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ppuntamento da segnare in agenda: con il patrocinio del Comune di Milano e grazie all’Associazione culturale Radicediunopercento, presieduta da Roberto Di Leo (www.radicediunopercento.it), dal Primo ottobre al quattro dicembre prossimi, le immagini premiate e segnalate alla cinquantunesima edizione del BBC Wildlife Photographer of the Year sono allestite in mostra presso la Fondazione Luciana Matalon, in Foro Buonaparte 67, nel centro di Milano (www.fondazionematalon.org). Si tratta di un sostanzioso appuntamento annuale, durante il quale gli appassionati di fotografia e di natura (anche in combinazione... di fotografia di natura) possono godersi immagini a tema di alto valore, realizzate nel corso del 2014, giudicate da una giuria nel 2015 e veicolate nel corso del corrente 2016. La selezione è stata animata da una folla di fotografi professionisti e non professionisti. Una autentica folla!: al BBC Wildlife Photographer of the Year 2015 hanno partecipato quarantaduemila immagini, provenienti da novantasei paesi. Di fatto, una quantità e qualità che ha impegnato la giuria in una valutazione non certo facile, per approdare all’indicazione delle fotografie “più belle”. A margine, onore al merito, sottolineiamo che al giudizio ha partecipato anche l’ottimo fotografo naturalista italiano Bruno D’Amicis (www.brunodamicis.com). (continua a pagina 49)

per il controllo del territorio, cioè delle femmine. Nikon D800, AF-S Nikkor 300mm f/2,8 ED VR II con AF-S Teleconverter TC-20E III; 4000 Iso equivalenti, 1/500 di secondo a f/7,1 (-1 EV).

Precisazione d’obbligo, in introduzione e accompagnamento dovuto. Ogni volta che FOTOgraphia pubblica fotografie di natura (e/o fiori e dintorni), riceviamo note divertite e canzonatorie, perfino: si prospetta una sorta di “conversione”, oppure passaggio. Infatti, e questa va detta, chi mi conosce sa che il peggiore oltraggio che mi si possa fare è quello di invitarmi a un’escursione in Natura. Per mia risolutezza (determinazione? volontà? proposito? tenacia?), solitamente, la mia concezione esistenziale non sconfina dai limiti delle città. In Natura, sono a disagio e in imbarazzo. Però! Però, so apprezzare la fotografia e riconoscere la sua missione di «spiegare l’Uomo all’Uomo» (da e con Edward Steichen). Quindi, so individuare il bello (qualsiasi cosa ciò possa significare e identificare). Ignorata dalla Storia della Fotografia, indirizzata verso altre visioni, la fotografia naturalistica è più che straordinaria: per quanto mi riguarda, indipendentemente dal mio rapporto personale con il soggetto. Grazie all’impegno e capacità di autori eccezionali, la fotografia naturalistica rivela quanto nessuno -non solo io!- è in grado di osservare dal vivo. Ancora: fedele al proprio mandato “menzognero” e “illusorio” (e sono valori positivi e meritati, sia chiaro), questa fotografia interpreta il vero come nessun occhio fisiologico può mai percepire. Ancora, e poi basta, i fotografi naturalistici sono singolari anche nello svolgimento dei propri progetti, perseguiti con amore e dedizione che non hanno eguali in alcuna altra manifestazione espressiva, creativa o -semplicemente?- documentativa. Onore e merito a loro. Autonomamente dalle rispettive redditività professionali, che sono altro, sia chiaro che, indipendentemente dal soggetto, con la fotografia tutta, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. M.R. Insomma, sappiamo riconoscere l’amore... quando lo incontriamo.

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Richard Peters, (Gran Bretagna): Shadow walker (L’ombra del viandante). Vincitore categoria Urban (Animali in città). Richard Peters sente un rumore in giardino, accende una torcia per vedere di cosa si tratti, passa l’ombra di una volpe sul muro. Allora, pensa a trasformare quello che ha appena visto in una fotografia. Sistema la reflex con fotocellula, posiziona il flash e compone l’inquadratura in modo che, se la volpe fosse ripassata, avrebbe lasciato sul muro solo la propria ombra.

Nikon D810, AF-S Nikkor 18-35mm f/3,5-4,5G ED a 32mm; 1250 Iso equivalenti; 30 secondi a f/8; flash Nikon Speedlite SB-800; treppiedi e fotocellula Camtraptions PIR Motion Sensor. Richard Peters (www.richardpeters.co.uk) si appassiona alla natura grazie ai documentari della BBC, che vede da bambino. Professionista, rappresentato dalla agenzia Stock Photo Library, Nikon Ambassador, studia e realizza immagini con particolari effetti di luce, soprattutto nella fotografia naturalistica.

LA FOTOGRAFIA NATURALISTICA NON È CENERENTOLA

Quando cominciai a occuparmi professionalmente di fotografia, in stagioni lontane, sacerdoti e vestali della Cupola Fotografica Milanese -ma anche critici, galleristi, storici- vedevano e consideravano soltanto il fotogiornalismo in bianconero, il reportage sociologico in bianconero, la fotografia politica in bianconero. Simultaneamente, nei circoli fotografici c’erano immagini di nudo in bianconero, ritratti in bianconero, fotografia di ricerca artistica in bianconero. Ho ripetuto ossessivamente “bianconero” perché attraverso questa ossessività sto tentando di dare l’idea di quanto fosse opprimente per me quella situazione. L’ingresso sul mercato della diapositiva Ektachrome, nel 1959, e -soprattutto- del leggendario Kodachrome, nel 1961 [FOTOgraphia, dicembre 2005 e dicembre 2010], rese possibili reportage a colori di incredibile bellezza. Ma la fotografia che amavo, quella che mi godevo dalle pagine del National Geographic Magazine, era bollata come il risultato di una visione del mondo attraverso lenti rosa: testuale. E i fotografi naturalisti erano giudicati come singolari dilettanti che avevano poco da fare e -in particolare- meno da dire. Vivevo, talebanamente, quei giudizi come blasfemia. Ma come? Conoscevo fotografi naturalisti che erano delle star all’estero, da Eric Hosking, l’inglese super esperto di flash che aveva perso un occhio per fotografare un gufo al nido, a Ernst Haas, membro Magnum Photos dal 1949, che nel 1971 aveva pubblicato la straordinaria monografia The Creation, anche in edizione italiana La Creazione (Garzanti, 1977). Nel 1965, ho visto nascere il concorso BBC dedicato alla fotografia naturalistica (l’attuale BBC Wildlife Photographer of the Year, del quale, da anni, riferisco da queste pagine). Poi, c’era il libro In Wildness is the Preservation of the World, che Eliot Porter pubblicò nel 1962, con testi di Henry David Thoreau.

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Eliot Porter, che lavorava a Harvard come biochimico, dal 1940 collaborò con Eastman Kodak al progetto Kodachrome. È il classico esempio di un “amatore” che diventerà professionista proprio dopo il 1962. Ma già nel 1938, Alfred Stieglitz aveva visto in lui un fotografo di talento e aveva esposto una selezione di sue fotografie bianconero riprese con una Linhof 4x5 pollici nella sua galleria fotografica newyorkese An American Place. La monografia pubblicata nel 1962 (a cura dell’associazione protezionistica Sierra Club) ha un’importanza rilevante. Infatti, è stampata in quadricromia, ed è dedicata ai colori del New England (una regione che comprende gli stati americani del Massachusetts, New Hampshire e Maine, Vermont, Connecticut e Rhode Island). In ripetizione d’obbligo, per le didascalie furono utilizzati pensieri di Henry David Thoreau, considerato l’iniziatore e fondatore dell’Ambientalismo Moderno. In Italia, l’atteggiamento del pubblico nei confronti della fotografia della natura cominciò a cambiare con la nascita della Società Italiana di Caccia Fotografica, nel 1974, ma -soprattutto- con il successo del mensile Airone (formula originaria), il cui primo numero è nelle edicole nel maggio 1981. Ma devo tornare al BBC Wildlife Photographer of the Year. Vi prego di interpretare questa perorazione come un piccolo sfogo che si riferisce agli inizi della mia passione fotografica, diventata in seguito una professione. Un “pistolotto” che ha la presunzione di sottolineare, magari dimostrandolo addirittura, che anche la fotografia naturalistica ha un proprio blasonato pedigree. Questo detto, segnalo che le immagini che presentiamo, selezionate tra quelle premiate all’edizione 2015 del concorso, sono state scelte secondo il mio personale giudizio. I commenti alle immagini sono quasi esclusivamente di natura tecnica. Evito, quindi, valutazioni che riguardano il loro valore estetico. L.P.


Carlos Perez Naval (Spagna): Summer days (Giorni d’estate). Vincitore nella categoria 10 Years and Under (fino a dieci anni). Ai non esperti, questa immagine di una coppia di gruccioni, uccelli parzialmente migratori che nidificano anche in Italia, può sembrare banale. Tutt’altro. Le specifiche tecniche rivelano che è stata scattata con un lungo teleobiettivo da dentro un capanno. Per dare l’idea di quanto difficile sia lo scatto, precisiamo che l’autore, dopo giorni di osservazione con il binocolo, ha individuato un certo ramo, scelto come posatoio abituale dai gruccioni: e lì ha sistemato il proprio capanno. Ma anche nascondersi in un capanno non garantisce successo. Ricordo l’esperienza che ho vissuto con il mio compagno di teleobiettivo, Oliviero Dolci, a un nido di gruccioni in una bella parete di sabbia lungo il Ticino (dove, dentro un tunnel scavato con il becco, i gruccioni fanno il nido), molti anni fa, in tempi di mio grande impegno fotografico. Nonostante avessimo addirittura rinunciato al capanno, nascondendoci in una buca e coprendoci con un asse trovato lì per terra, niente, gli uccelli smisero di venire al nido per le imbeccate. Fummo costretti a rinunciare, per non compromettere la nidiata. Prima di andarcene, spiando con il binocolo da oltre un chilometro, verificammo, come era infinitamente probabile, che i gruccioni avevano ricominciato a scendere al nido per imbeccare. Nikon D7100, AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II con AF-S Teleconverter TC-14E III; 500 Iso equivalenti, 1/1250 di secondo a f/5,6; treppiedi e capanno. Carlos Perez Naval (www.carlospereznaval.wordpress.com) fotografa dall’età di cinque anni. È stato nominato Young Wildlife Photographer of the Year 2014 [qui sotto] e ha vinto premi in concorsi in Francia, Spagna e Italia (dove gli è stato assegnato il Premio Internazionale Giuseppe Sciacca 2015, per giovani eccellenze italiane e straniere). Ama profondamente la natura e le dedica tutto il proprio tempo libero, fotografando l’ambiente intorno a casa.

Per questa fotografia, intitolata Stinger in the sun (Pungiglione al sole), Carlos Perez Naval è stato nominato Young Wildlife Photographer of the Year 2014; quest’anno, ha bissato la sua prima affermazione con l’attuale primo posto nella categoria 10 Years and Under (fino a dieci anni) dello stesso Wildlife Photographer of the Year. Se vogliamo... attestazione di grande merito. Carlos Perez Naval ha trovato questo scorpione che si riscaldava al sole vicino a casa, e la luce del tardo pomeriggio emanava un bagliore così affascinante che l’ha indotto a condurre esperimenti con una doppia esposizione.

Juan Tapia (Spagna): Life comes to art (La vita si avvicina all’arte); ma preferisco il titolo che l’autore dà a questo scatto sul suo sito web: Las alas de mi imaginación (Le ali della mia immaginazione). Vincitore nella categoria Impressions (Impressioni). Agricoltore di professione, quindi non professionista dal punto di vista fotografico, l’autore rivela una capacità tecnica da professionista e una creatività che lo avvicina più alla pittura che non alla fotografia (ammessa e non concessa la distinzione, soltanto formale). Questa sua immagine confonde chi guarda: in quale strano mondo, vola la rondine? Per realizzarla, Juan Tapia ha -dapprimaindividuato il nido della rondine all’interno di un magazzino agricolo. Poi, ha verificato che il suo percorso verso il nido passasse sempre attraverso una certa finestra. Quindi, ha preso una vecchia tela a olio con uno strappo -trovata in cantina- e l’ha usata per chiudere la finestra. Dopo essersi assicurato che l’allestimento non disturbasse la rondine, ha installato l’attrezzatura (fondamentali due flash, per evitare ombre sgradevoli), e ha cominciato a fotografare. Nella eccezionalità dell’inquadratura e composizione voglio ricordare che quella banale piccola rondine, che viene in Europa per accoppiarsi e generare, sverna con elevata probabilità in Sudafrica, percorrendo ogni anno una rotta di diverse migliaia di chilometri attraverso il Mediterraneo e il Sahara. Canon Eos 7D, Canon EF 70-200mm f/2,8L USM a 150mm; 400 Iso equivalenti; 1/250 di secondo a f/14; due flash (Canon Speedlite 580EX II e Metz Mecablitz 58 AF-2 Digital) con due fotocellule Metz; treppiedi e scatto a distanza Godox. Juan Tapia (www.juantapiafotografia.com) è un fotografo naturalista sui geneneris: attratto più da risultati creativi che non da testimonianze dirette dal mondo naturale. Ha cominciato a fotografare la natura nel 2002, con una reflex analogica, per poi passare -quattro anni dopo, nel 2006al digitale, che gli consente un margine di intervento maggiore.

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Marina Cano (Spagna): Heaven on Earth (Paradiso in Terra). Finalista nella categoria Mammals (Mammiferi). Quando ho guardato per la prima volta questa fotografia, ripresa nell’Etosha National Park, in Namibia, nei pressi di una pozza d’acqua (che costituisce una specie di No War Zone, un Paradiso Terrestre, per gli animali e -entro certi limitisi potrà vedere la giraffa bere accanto alla leonessa), non riuscivo assolutamente a capire come diavolo fosse stata scattata. Allora, ho chiamato l’autrice Marina Cano, che mi ha spiegato che, per capire, basta capovolgere l’immagine. «Ma tu hai mandato al concorso un’immagine rovesciandola in gambe per aria?», ho chiesto; «Sì», è stata la risposta. Allora si è aperto un altro capitolo. I regolamenti dei concorsi, in particolare dei concorsi come il BBC Wildlife Photographer of the Year, non accettano immagini troppo ritoccate con Photoshop. Ma un’immagine in gambe per aria? Ovviamente, penso che ribaltare un’immagine faccia parte dei diritti dell’autore. Se il risultato è tanto valido da essere premiato, ancora meglio. Ma, allora, perché la giuria, e anche il catalogo con le fotografie premiate e segnalate, non ha sottolineato il fatto di aver coraggiosamente premiato una fotografia in gambe per aria? Ho contattato Lewis Blackwell, presidente della giuria, perché mi spiegasse. «Caro Lello, sono felice di commentare la nostra scelta dell’immagine upside down. Si tratta di un’immagine singolare, che presenta elevate qualità, sia tecniche sia artistiche. Sarebbe stata meritevole anche se non fosse stata capovolta.

Comunque, ribaltandola, l’autrice ha fatto qualcosa di sorprendente. Anche rovesciata, non perde la propria leggibilità, perché sono immediatamente riconoscibili le silhouette delle giraffe e del rinoceronte. Ma, così capovolta, la fotografia diventa eversiva e acquista una maggiore profondità. La giuria ha subito avuto un rapporto emotivo con questa immagine, soprassedendo su quanto succede nello scatto e quanto è successo allo stesso scatto. D’altra parte, non si può dire che l’immagine sia stata manipolata (perché in questo caso avrebbe dovuto essere squalificata). Al contrario, in un certo senso, siamo stati noi che la guardiamo a essere stati manipolati da questa visione e interpretazione, che documenta benissimo il mondo naturale reale, e che ci ha costretti a chiederci cosa significhi veramente guardare, vedere, leggere, interpretare una fotografia». Bene, d’accordo, plaudo a questa decisione che trovo pienamente convincente. Avrei fatto soltanto in modo che la vicenda fosse resa più esplicita al grande pubblico. Canon Eos-1D X, Canon EF 16-35mm f/2,8L II USM a 30mm; 1000 Iso equivalenti; 1/160 di secondo a f5/,6. Marina Cano (www.marinacano.com) ha iniziato a fotografare la natura in giovane età, ed è diventata professionista a diciassette anni. Ha pubblicato diverse monografie -tra le quali Cabarcéno (2009) Drama&Intimacy (2012) e Babies of the Wild (2014)-, e il suo lavoro è stato esposto in Sudafrica, Spagna, Inghilterra, Corea e Cuba. Dal 2015, è Canon Ambassador Team e Canon Explorer in Wildlife.


Paul Mckenzie (Irlanda e Hong Kong): Flamingo doodles (Scarabocchi dei fenicotteri). Finalista nella categoria Black and White (Bianconero). Meno famoso del lago Nakuru, in Kenya, diventato celebre per le fotografie di fenicotteri scattate dal cielo dal celebrato Yann Arthus-Bertrand (per mille e mille ragioni, tutte plausibili e condivisibili, considerato il più autorevole interprete della fotografia dall’alto), che lo ha sorvolato quasi trent’anni fa con un ULM, il lago Natron, in Tanzania, è comunque uno dei luoghi più affascinanti del continente africano. Situato nella Rift Valley, ai piedi del vulcano Gelai, a un’altitudine di 1754 metri sopra il livello del mare, all’interno del Parco nazionale a lui intitolato, il lago Nakuru arriva malapena a tre metri di profondità. Durante la stagione asciutta, l’intensa evaporazione permette l’enorme sviluppo di colonie di cianobatteri, che contengono un pigmento rosso e che lo trasformano in uno scenario scarlatto, striato di bianche strisce di sodio. Uno spettacolo unico al mondo. Qui possono vivere solo i fenicotteri e i cianobatteri. I fenicotteri del Natron sono stati fotografati a colori -l’opzione più naturalemigliaia di volte. Preferire, invece, il bianconero è imprevisto e straordinario. Per me, questa avrebbe dovuto essere la vincitrice 2015 della sezione Black and White.

Pere Soler (Spagna): The art of algae (L’arte in un mare di alghe). Vincitore nella categoria From the Sky (Dal cielo). Gli acquitrini che circondano la città spagnola di Cadice sono noti a tutti gli appassionati della fotografia dal cielo. A partire dalla primavera, con il riscaldarsi delle acque, miliardi di microorganismi si riproducono e continuano a cangiare colore, dal verde al marrone, dall’arancio al rosso, e al bianco dei depositi di sale. Il periodo dai colori più intensi va dai primi di maggio alla fine di giugno. Canon Eos 5D Mark III, Canon EF 70-200mm f/2,8L USM a 70mm; 200 Iso equivalenti; 1/1000 di secondo a f/5,6. Pere Soler (www.peresoler.smugmug.com) si definisce fotografo di viaggio e natura. Ha scattato in molti paesi, dall’Islanda al Kenya, dall’Italia alla Turchia, dalla Scozia all’Egitto. Negli ultimi anni, ha lavorato soprattutto sul paesaggio.

Canon Eos 5D Mark III, Canon EF 24-105mm f/4L IS USM a 60mm; 800 Iso equivalenti; 1/4000 di secondo a f/4. Paul Mckenzie (www.wildencounters.net) ha una storia molto particolare. Nato in Kenya da genitori irlandesi, la sua famiglia si trasferisce a Hong Kong quando ha quattro anni. A sette anni, va a studiare in Irlanda e a scuola impara a lavorare con il bianconero in camera oscura. Dopo la laurea, inizia una carriera nel mondo della finanza. Nel 1990, compera una Nikonos per fotografia subacquea, ma -per sua stessa ammissione- non gli riesce mai di scattare una fotografia decente. Ciononostante, dopo un safari in Kenya, nel 1997, rivolge parte della sua vita professionale alla fotografia naturalistica. Nel 2001, durante un viaggio alle Galapagos, conosce la sua compagna Paveena. Pur avendo lavorato per anni nello stesso grattacielo di Hong Kong, non si erano mai incontrati prima. Anche Paveena è appassionata di fotografia naturalistica e insieme costituiscono una coppia perfetta, che sposa il gusto artistico di lei alle capacità tecniche di lui. Oggi, mentre Paveena continua la propria professione (dirige la sezione Yoga della più grande compagnia asiatica di fitness, la Pure International), Paul Mckenzie sta per abbandonare la propria attività come esperto di finanza, per dedicarsi interamente alla fotografia.

Vincenzo Mazza (Italia): Battling the storm (Balenare in burrasca, come avrebbe tradotto il poeta Vincenzo Cardarelli). Finalista nella categoria Birds (Uccelli). Immagine di mirabolante bellezza, scattata durante una tempesta in una laguna della costa islandese. Incredibili le teste dei cigni, che spuntano appena in mezzo alle onde, e altri tre cigni, in controluce, nel cielo. Per quanto possa valere (tutto sommato... molto), la mia opinione è perentoria: per me, questa avrebbe dovuto essere la vincitrice della categoria Birds. Canon Eos 5D Mark III, Canon EF 70-200mm f/2,8L USM a 163mm; 500 Iso equivalenti; 1/800 di secondo a f/5,6. Vincenzo Mazza (www.vincenzomazza.net) fotografa il paesaggio, soprattutto in Italia e Islanda, paese dove ora vive. È un autore apprezzato e considerato; è stato premiato in numerosi concorsi a livello internazionale.

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Fabien Michenet (Francia): It came from the deep (Venuto dagli abissi). Finalista nella categoria Under Water (Subacquea). Fotografare sott’acqua è un’impresa che esige molta attenzione, perché si rischia la vita. Per esempio, scendere a quaranta-cinquanta metri di profondità richiede la conoscenza di inviolabili e irrinunciabili tecniche di decompressione: da quelle profondità, non si può salire come missili, perché si corre il rischio di rimanere vittime di un’embolia. Inoltre, fotografie come questa che presentiamo, realizzata

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di notte nelle acque dell’isola di Tahiti, nascondono un altro rischio: quello di essere trascinati dalle correnti e sparire, senza scampo, nell’immensità dell’Oceano Pacifico. Passando alla tecnica di ripresa, per avere immagini di qualità occorre indossare un Gav (giubbetto ad assetto variabile), che permette di rimanere stabili e quasi immobili al momento dello scatto, a qualunque profondità. Inoltre, la reflex va scafandrata e munita di flash, indispensabile nella fotografia notturna, ma anche in quella diurna, perché già a meno cinque metri scompare il rosso, a meno sette


l’arancio, a meno dieci il giallo, a meno venti il verde, a meno venticinque il blu. Quindi, se si vogliono riprodurre colori naturali, anche di giorno, occorre usare il flash. In questa fotografia, poi, c’è qualcosa in più. Piccoli di polipo (la cui lunghezza è di circa due centimetri), con il corpo in via di formazione e ancora semitrasparente, vivono a profondità dove un sub non può avventurarsi. Ma la notte risalgono fin quasi alla superficie, in cerca di cibo. Fabien Michenet ha incrociato la rotta di uno di questi polipi, e scattato. Il risultato è incredibile. Un essere degli abissi, del quale

il novanta percento degli uomini non sospettano neppure l’esistenza, riempie di meraviglia il nostro cuore. È bello, questo polpo, quasi come una galassia lontana. Nikon D800, AF Micro-Nikkor 60mm f/2,8; 200 Iso equivalenti; 1/320 di secondo a f/18; custodia scafandrata Nauticam; due flash Inon Z-240. Fabien Michenet (www.nuditahiti.com) è un fotografo subacqueo che da sei anni vive a Tahiti. Recentemente, ha portato a termine un progetto fotografico che ha illustrato la diversità tra la fauna marina notturna e diurna.

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Marc Albiac (Spagna): A genet feat of a leap (Salto acrobatico di una genetta). Finalista nella categoria 15-17 Years Old (Da 15 a 17 anni). La genetta ( Genetta genetta) è un mammifero simile al gatto. Durante il Medio Evo, nell’Europa Occidentale, fu proprio il gatto a sostituire la genetta, come cacciatore di topi presso gli umani, e a provocarne il declino numerico. È però ancora abbastanza comune nei boschi della Penisola Iberica. Realizzare questa fotografia richiede almeno due abilità: uno, essere esperti nella tecnica della ripresa con flash; due, sapere con elevata probabilità dove passerà il mammifero. Fotografare con il flash gli uccelli al nido è molto meno complicato, perché gli uccelli al nido

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ci devono andare/venire per imbeccare i piccoli. E si può stare nascosti in un capanno, perché gli uccelli non hanno l’olfatto e -se non vedono il fotografo- non possono, quasi mai, percepirne la presenza. Invece, i mammiferi l’olfatto ce l’hanno. Però, nel caso di questa fotografia, nell’arco di quattro mesi, Marc Albiac, suo padre e due amici hanno offerto cibo a una genetta fino a creare con lei una certa familiarità e cancellando la sua paura naturale. Il cibo era disposto in modo che l’animale dovesse fare un salto per raggiungerlo. Tutto questo immenso lavoro rappresenta la parte più importante delle difficoltà da superare per realizzare una fotografia nella quale si veda la genetta che esegue un salto davanti


(continua da pagina 41) A proposito del rilevante contributo che possono dare alla fotografia naturalistica gli amatori (identificazione a noi sgradita, ma, purtroppo, in linea con il lessico comune), rileviamo subito che il vincitore assoluto di questa edizione BBC Wildlife Photographer of the Year 2015 è un non professionista, il medico canadese Don Gutoski, che si è imposto con l’immagine di una volpe rossa che trascina la carcassa di una volpe artica, nel Wapusk National Park, in Canada [anticipata lo scorso luglio e a pagina 40]. Questa del Wildlife Photographer of the Year 2015 è una fotografia veramente straordinaria, una delle più incredibili mai premiate -almeno secondo il mio giudizio-, che il suo autore ha intitolato A tale of two foxes (La fiaba delle due volpi). Quindi, non ignoriamo anche il valore del Young Wildlife Photographer of the Year 2015 (fino a diciassette anni). Si tratta del quattordicenne Ondrˇej Pelánek, della Repubblica Ceca, che ritrae la battaglia tra due maschi di combattente (Philomachus pugnax) per il controllo del territorio, cioè delle femmine [a pagina 41]. Avanti ancora, non ci sono solo i vincitori assoluti. Ognuna delle venti categorie previste scandisce i tempi del vincitore relativo e dei finalisti. Come sempre, i fotografi naturalisti italiani si sono ben distinti. Con la fotografia Butterfly in Crystal (Farfalla nel ghiaccio), Ugo Mellone si è imposto nella categoria Invertebrates (Invertebrati); quindi, un’altra sua immagine, The Tunnel of Spring (La galleria della primavera), è risultata finalista nella categoria Land (Paesaggio). Altri finalisti italiani: Vincenzo Mazza, con la stupefacente fotografia Battling the Storm (Combattere con la tempesta) [a pagina 45], nella categoria Birds (Uccelli), e Hugo Wassermann, con Ice Design (Disegni sulla neve), nella categoria Impressions (Impressioni). Tutte le immagini premiate si possono vedere nell’apposita Galleria, pubblicata all’indirizzo www.nhm.ac.uk/visit/wpy/gal lery/2015/index.html. Quindi, in conclusione, segnaliamo che le iscrizioni per l’edizione BBC Wildlife Photographer of the Year 2016, per fotografie scattate nel 2015, si sono chiuse lo scorso venticinque febbraio, mentre le iscrizioni per l’edizione BBC Wildlife Photographer of the Year 2017, per fotografie realizzate nel corrente 2016, si aprono il prossimo ventiquattro ottobre, per chiudersi il successivo quindici dicembre. Doverosa nota conclusiva. Oltre la considerazione secondo da quale le cifre di partecipazione al BBC Wildlife Photographer of the Year e la qualità delle fotografie premiate contribuiscono ad accrescere la presenza della fotografia naturalistica all’interno della Storia della Fotografia... le immagini del concorso concorrono a rafforzare il lavoro delle organizzazioni protezionistiche, per aiutarle a proteggere animali e territorio. Ed è anche questo che conta. ❖

all’obiettivo, illuminata in controluce, ma con una sottoesposizione di un paio di diaframmi, e anche di fronte. E poi ci sono le stelle dello sfondo, ottenute con una seconda esposizione senza la genetta e solo con il cielo. Canon Eos 5D Mark III, Canon EF 17-40 mm f/4L USM; 1600 Iso equivalenti; 15 secondi a f/4; treppiedi e quattro flash. Marc Albiac (www.marcalbiac.blogspot.com.es) ha cominciato a fotografare la natura, soprattutto mammiferi, quando aveva sette anni. Predilige la macro e la fotografia di paesaggio. Per coltivare la propria passione, ha visitato parchi nazionali di Irlanda, Italia, Inghilterra e Francia.

Wildlife Photographer of the Year 2015. Fondazione Luciana Matalon, Foro Buonaparte 67, 20121 Milano; 02-878781; www.fondazionematalon.org; www.radicediunopercento.it. Dal Primo ottobre al 4 dicembre; martedì-domenica 10,00-19,00, giovedì e venerdì 10,00-22,00. ❯ Visite guidate con il fotografo naturalista Marco Colombo, vincitore nella categoria Ritratti Animali al Wildlife Photographer of the Year 2011 (www.calosoma.it): giovedì 6 ottobre, venerdì 14 ottobre, venerdì 21 ottobre, venerdì 28 ottobre, giovedì 3 novembre, venerdì 11 novembre, venerdì 18 novembre, venerdì 25 novembre, venerdì 2 dicembre, dalle 19,30 (ingresso 5,00 euro). ❯ Durante il periodo della mostra, presso la propria sede in via Stresa 13, a Milano, l’Associazione culturale Radicediunopercento organizza, workshop tenuti dai fotografi Marco Urso e Marco Colombo: domenica 16 ottobre, corso base; a seguire, corsi di specializzazione in Fotografia naturalistica, Reportage, Fotografia di viaggio e street art, Fotografia subacquea, Fotografia Macro (www.radicediunopercento.it). ❯ Volume-catalogo Wildlife Photographer of the Year Portfolio 25, con tutte le immagini premiate e segnalate; a cura di Rosamund Kidman Cox; in inglese; The Natural History Museum, 2016; 160 pagine 25,5x25cm; 35,00 euro.

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TAU Visual si presenta

Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.

Diventare Socio TAU Visual

Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.

Un regalo utile per i lettori di

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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica


UNA CITTÀ IMMAGINATA

LAURA SASSI

Il progetto Itinerari per una città da immaginare, realizzato a Reggio Emilia, è nato e si è svolto con la coordinazione di Elisa Pellacani, illustratrice, fotografa e piccola editrice, e Laura Sassi, fotografa con una vasta e consolidata esperienza di camera oscura e bianconero. Il convincente e coinvolgente pensiero è maturato in un incontro conviviale, in un sereno pomeriggio primaverile; quindi, è stata avviata una ricerca “spericolata” sull’immagine e sulla progettazione creativa di libri, alla quale sono state coinvolte interpreti reggiane

di Laura Sassi

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isquisizioni, voli pindarici... il desiderio (forse) un poco ingenuo -ma, certamente, non nostalgico- di un ritorno allo stato di purezza fotografica. Nella sincerità, schiettezza e spontaneità di pensieri e azioni individuali, persino intimi, un grado Zero della visione, per volersi ricollegare allo stupore del momento della scoperta della fotografia. Dell’imma-

gine che si crea (quasi) da sé, lungo il luminoso tragitto avviato con le indagini e i pionierismi della fatidica natura che si fa di sé medesima pittrice. Gli strumenti per sperimentare sono presto individuati: una semplice scatola a tenuta di luce, dotata di un piccolo foro, un foglio di carta fotografica sensibile positiva e una camera oscura. Quindi, per la forma finale ricercata: carta, cartoncini, materiali diversi utili e necessari per costruire poi un libro. (continua a pagina 54)

Collocazione stenopeica, con “apparecchio” autocostruito con materiali di recupero, utilizzata nell’ambito del convincente e coinvolgente progetto Itinerari per una città da immaginare, svoltosi a Reggio Emilia, a partire dal 2014.

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Interpretazione stenopeica di Annarita Mantovani.

(pagina accanto, a destra) Visione e composizione fortemente e volontariamente verticale di Barbara Avagliano.

Con scatole stenopeiche autocostruite la collocazione della carta sensibile segue e accompagna l’involucro, determinando copie positive estranee alla consueta squadratura: interpretazione di Lucia Levrini.

(pagina accanto, al centro) Altra collocazione stenopeica, con un barattolo del caffè.

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ILARIA ARPAIA


LAURA SASSI (4)

Svoltosi a Reggio Emilia, il progetto Itinerari per una città da immaginare, sollecitato e coordinato da Elisa Pellacani e Laura Sassi, si è materializzato in libri individuali, nei quali sono state impaginate le fotografie stenopeiche. Oltre la sperimentazione e creatività della ripresa, svolta con scatole di ogni tipo e foggia (in alto, a destra), una ulteriore ricerca sui materiali cartacei e la loro confezione ha completato l’iter progettuale. Due esempi, tra quanti realizzati, di Annarita Mantovani e Ilaria Arpaia.

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(continua da pagina 51) Quello del piccolo foro che proietta un’immagine, che sta alla base della formazione della stessa immagine, è il mondo “stenopeico”: micro/macrocosmo di sperimentatori appassionati, di regole e combinazioni algebriche raffinate. Ci si sarebbe potuti informare da Internet, magari per avere vita (relativamente) facile. Invece, e forse all’opposto, l’imperativo è stato un altro: dato per certo il princìpio fisico della camera obscura... sperimentare! L’avventura è iniziata nel maggio 2014, con le prime costruzioni di rudimentali “macchine fotografiche”: una scatola (qualunque) dipinta di nero (opaco) all’interno e un minuscolo foro su di un lato. Dopo alcuni infruttuosi e deludenti esperimenti, immagini assolutamente bianche o nere, scatole guardate con sospetto dai passanti, fino a qualcuno che le ha prese a calci, non capendo di cosa si trattasse, ecco arrivare le prime sembianze di immagini. A questo punto, grande euforia e il desiderio di coinvolgere nella ricerca una quantità più ampia di amici: ecco la formazione del gruppo Stenopeiche, al femminile, perché -anche qui, casualmente- formato da otto intrepide ragazze. Durante gli incontri, si è elaborato un tema collettivo, Il territorio e la città. Considerata la nebulosità delle immagini ottenute, soprattutto rispetto i risultati con utensili fotografici contemporanei, l’approssimazione dell’inquadratura è diventata l’autentico itinerario della Città da immaginare.

Poi, il progetto ha previsto l’editing delle immagini e la conseguente auto-costruzione di un libro, che, nel formato e nei materiali, rispecchiasse la “storia” suggerita dalle fotografie. Il lavoro del gruppo è iniziato nell’ottobre 2014, per terminare nell’aprile successivo. Sono state usate scatole di ogni tipo e foggia, dai barattoli del caffè (ottimi) a scatole di cioccolatini, dalle scatole da scarpe (buone) a minuscole custodie cinesi. Ogni scatola ha viaggiato molto, avanti e indietro, tra la strada e la camera oscura, tra momenti di incredula gioia e attimi di tetra delusione. Una volta raccolte le immagini, ogni autrice ha elaborato il proprio progetto personale e costruito materialmente il proprio libro, affiancando a quella in camera oscura una nuova ricerca sui materiali da usare, di nuovo con prove e idee da sperimentare e modificare. Una Città da immaginare, perché le autrici coinvolte nel progetto hanno dovuto giusto immaginare, ancora prima di partire; hanno lasciato da parte tecniche sofisticate e spesso alienanti e hanno “proceduto di pancia”, aggiustando tempi e metodi in corso d’opera. Il risultato è paradossalmente nuovo: otto libri unici e una piccola tiratura editata, che raccoglie le immagini di backstage, riunita anche in una mostra che ha sottolineato il valore e senso del progetto e la bellezza interiore delle fotografie originarie. Alla fine del percorso, che ora prosegue con rinnovate e insperate ricerche, ci siamo trovati tutti d’accordo su una incrollabile certezza: la luce scrive! ❖



ANTONIO BORDONI (2)

Sui corpi mobili degli apparecchi grande formato (in questo caso Linhof Technikardan), le bolle cilindriche sono disposte in modo da poter essere sempre osservate dalla posizione operativa della ripresa.

di Antonio Bordoni

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ome siamo soliti osservare e rilevare, e come spesso scriviamo e sottoscriviamo: a ciascuno, la sua. Soltanto che qui e ora -in una visione moderatamente attuale e imperiosamente (tra)passata- intendiamo qualcosa di specifico, e non generico/filosofico; in questo caso, a ciascuno... la sua bolla. Accessorio opzionale, oppure elemento complementare della propria dotazione fotografica (apparecchio oppure treppiedi), la bolla serve per controllare la planarità dell’inquadratura quando, dove e per quanto la stessa planarità sia condizione necessaria alla ripresa.

Ormai incorporate / attivabili in tutti gli apparecchi ad acquisizione digitale di immagini della nostra attuale stagione, ovviamente in forma elettronica (e guai alle configurazioni che non ne prevedono l’inclusione), le livelle meccaniche, a osservazione diretta a occhio, hanno accompagnato i cicli degli apparecchi grande formato, con costruzione a banco ottico oppure a base ribaltabile (folding). Ancora, sono strategicamente collocate nelle più prestigiose teste per treppiedi e disponibili come accessori opzionali. In ogni caso, le “bolle” sono indispensabili per controllare la corretta planarità della ripresa. Oggi, come ieri, come sempre 56


IN BOLLA!


ANTONIO BORDONI (4)

Una delle condizioni basilari di certa fotografia (!) è la conservazione verticale del piano immagine: da cui, collocazione strategica di bolle per verificare la corretta disposizione del dorso (Horseman LX). (passante tra le pagine) Essenziale, la Sinar Norma originaria è stata un banco ottico modulare con opportune livelle cilindriche alloggiate sui sostegni verticali e alla base dei singoli corpi. (pagina accanto) Parata di bolle circolari: decentrabile Silvestri SLV 6x7/6x9cm, panoramica Horizon 202 (visibile anche attraverso il mirino) e panoramica a 360 gradi RoundShot 35/35.

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Prima di commentare i casi specifici, e oltre le fotografie esemplificative e illustrative che accompagnano queste pagine, andando soprattutto ad attingere a istanti trascorsi, ma ancora palpitanti (per esempio, nel nostro cuore, laddove consideriamo ancora compagnie fotografiche che arrivano da lontano) è indispensabile una precisazione. Genericamente, nell’uso comune e gergale dei termini fotografici, intendiamo con “bolla” le livelle a bolla d’aria (ecco la semplificazione) formate da un contenitore a tubo, oppure circolare, con riferimenti centrali. E di livelle ora parliamo.

LIVELLE (DAL PASSATO) Ovviamente, liquidiamo subito, e non soltanto in rapidità, la funzione della livella che può essere attivata nei mirini e monitor degli attuali apparecchi ad acquisizione digitale di immagini, sia in configurazione reflex, sia Mirrorless (oppure, CSC - Compact System Camera), sia compatta. Si tratta di quel segmento orizzontale, per lo più verde, che indica la planarità della collocazione, sia in inquadratura orizzontale, sia in composizione verticale. Segmento che cambia colore, e non è più verde, quando e per quanto l’apparecchio è fuori

bolla. E poi ricordiamo anche l’apposita app per smartphone, coerente con il giroscopio di rotazione. Quindi, a diretta conseguenza, oltre che per considerazione storica e piacere dell’illustrazione concretamente energica, ci occupiamo soprattutto delle livelle (e bolle) fisicamente tali: tangibili, corporee, concrete e palpabili. Così facendo -la confessione è d’obbligo-, appaghiamo anche un senso tattile, che sconfina nel feticismo: in dimensione sana e gratificante. E perché non dovremmo farlo? Le livelle cilindriche si riferiscono a un solo piano orizzontale (oppure ortogonalmente verticale). Il contenitore a tubo trasparente e sigillato, un tempo di vetro e oggi di plastica, è riempito di alcool, in modo da formare una bolla d’aria interna. Con la livella cilindrica in posizione orizzontale, la bolla d’aria si colloca al centro, in mezzo alle consuete tacche di riferimento appositamente tracciate al momento della taratura della stessa livella. Se inclinata nel senso della propria lunghezza, la bolla d’aria si muove verso l’estremità superiore oppure inferiore della livella. Oltre alle dotazioni fotografiche standardizzate, e sostanzialmente semplificate, esistono livelle di grande precisione con riferimenti graduati che


MAURIZIO REBUZZINI

quantificano anche l’eventuale inclinazione del piano sul quale si sta effettuando il riscontro. Ancora, e riferendoci ai nostri tempi, non possiamo ignorare, e neppure sottovalutare, le livelle digitali professionali, originariamente rivolte e indirizzate verso utilizzi in ambiti lavorativi concreti (non che la fotografia non lo sia, ma la differenza balza subito all’occhio). Si tratta di utensili di alta precisione, appartenenti all’area di misura professionale. In generale, sfruttano la tecnologia Mems (Sistemi Micro Elettro-Meccanici), per la diagnostica della planarità delle superfici e l’esatta inclinazione degli angoli, con rilevazioni numeriche oggettive, assai più precise e pertinenti delle valutazioni a occhio della livella a spirito. La livella meccanica, che è quella che più ci affascina, anche se altre precisioni sono più opportune, è un dispositivo sensibile a qualunque inclinazione, e dunque la sua rilevazione è sostanziosamente esatta, soprattutto se si ha l’accortezza di leggere la sua indicazione in modo corretto: con un solo occhio e da un punto di vista centrale che annulli la prospettiva delle tacche di riferimento, che devono apparire come due linee nette e non come ovali (a pagina 60-61).

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ANTONIO BORDONI (6)

Oltre le livelle incorporate negli apparecchi fotografici, sono disponibili livelle incrociate universali per la slitta porta accessori. (centro pagina, in alto) Solitamente, la planarità dei piani degli apparecchi grande formato è riscontrabile mediante la lettura di livelle cilindriche incrociate (questa è la culla di base della Sinar p2). (centro pagina, al centro) Oltre a illustrare la livella cilindrica inserita in un utensile da carpentiere, visualizziamo anche la corretta lettura: con un solo occhio e da un punto di vista centrale, che annulla la prospettiva delle tacche di riferimento, che devono apparire come due linee nette.

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Quando si deve controllare la planarità ortogonale nei due sensi, ovvero avanti-indietro e destra-sinistra, si usano due livelle incrociate: opportunamente collocate sul dorso degli apparecchi grande formato, sulla piastra di appoggio di teste fotografiche di alto livello o disponibili come accessori opzionali da fissare sulla slitta porta accessori. In questo caso, la regolazione dell’allineamento orizzontale viene effettuata con due movimenti successivi indipendenti: uno per la planarità avanti-indietro, uno per quella destra-sinistra. Al caso, in situazioni particolari, per l’allineamento verticale del dorso grande formato, indispensabile al controllo prospettico delle riprese fotografiche di still life dall’alto verso il basso e di architettura dal basso verso l’alto (come abbiamo annotato in diverse occasioni, richiamando anche l’ipotesi di consapevole Ritorno al grande formato), si può ricorrere anche a livelle a bolla d’aria incorporate in strumenti esterni, come squadre o righe da carpentiere che assicurano un preciso angolo di 90 gradi tra i due lati. Invece, la livella a bolla d’aria circolare è alternativa alla doppia livella incrociata. La sua indicazione è complessiva e si riferisce a tutto il piano orizzontale della col-

locazione fotografica: avanti-indietro, destra-sinistra e posizioni intermedie. Se la disposizione dell’apparecchio è perfettamente piana, la bolla d’aria della livella circolare si trova al centro di un cerchio di riferimento inciso sulla superficie superiore della stessa livella. Come abbiamo appena annotato, questo sistema di controllo, magari più difficoltoso rispetto alla doppia livella cilindrica incrociata, consente di rilevare gli spostamenti in tutte le direzione e non solo lungo assi prestabiliti e preordinati.

SUL CAMPO A parte la ripresa fotografica a mano libera, con i relativi accorgimenti visivi per controllare attraverso il mirino o sul vetro smerigliato medio formato la pertinente inquadratura senza fastidiose linee cadenti (ottime le livelle dei mirini e monitor digitali), l’uso delle livelle meccaniche è indispensabile in molti casi. Nella fotografia di still life in sala di posa e in quella di architettura, sia d’interni sia in esterni, consente di verificare e aggiustare il parametro base fondamentale del controllo prospettico: il piano immagine è parallelo agli spigoli verticali del soggetto quando il dorso è analogamente verticale, ovverosia in bolla.


Con qualsiasi sistema fotografico, è proprio la condizione del parallelismo del piano immagine con il soggetto che determina la sua corretta resa prospettica. Nel caso degli apparecchi a corpi mobili, per lo più grande formato, tutto si risolve -appunto- con la corretta collocazione del piano immagine e con il relativo recupero dell’inquadratura mediante gli accomodamenti dell’obiettivo rispetto al dorso: sincronizzati e coordinati tra loro, i movimenti lineari di decentramento e rotatori di basculaggio servono proprio a questo, come sottolineato in tante occasioni, tutte le volte che abbiamo analizzato e approfondito la fotografia grande formato. Per fare lo stesso, i sistemi fotografici a corpi rigidi hanno bisogno di obiettivi decentrabili, che permettano di regolare l’inquadratura e di mantenere, allo stesso tempo, il piano immagine in verticale (e la corretta posizione si controlla con le immancabili livelle). Gli obiettivi decentrabili servono principalmente per correggere la prospettiva del soggetto. Soprattutto, nel caso della fotografia di architettura permettono di raddrizzare le linee cadenti degli edifici inquadrati dal basso verso l’alto. La lezione è semplice, e starebbe alla base dell’intera applicazione fotografica: oltre la

distanza di ripresa, e dopo di questa, la prospettiva è determinata dalla disposizione del piano immagine/piano focale rispetto al soggetto. In assoluto, quando il piano immagine è parallelo al soggetto, la ripresa fotografica rispetta le sue geometrie originali: e per il perfetto controllo della sistemazione dell’apparecchio fotografico, ovverosia del piano immagine in verticale, sono indispensabili le livelle. Quando il piano immagine è angolato, si ottengono convergenze più o meno accentuate, in stretta relazione all’inclinazione dello stesso piano immagine rispetto al soggetto. Dunque, è il princìpio base del sistema Silvestri, nato con l’originaria SLV, degli anni Ottanta, ed evolutosi in attualità per dorsi ad acquisizione digitale di immagini: soprattutto, BiCam e FlexiCam.

ALTRI MOVIMENTI Ecco, quindi, che tra gli apparecchi a corpi mobili, per lo più grande formato, e gli obiettivi decentrabili, esiste il territorio intermedio degli apparecchi decentrabili a obiettivi intercambiabili. Per la fotografia grande formato 4x5 pollici, segnaliamo le dotazioni (del passato prossimo e remoto) Cambo Wide e Sinar Handy e tante

Quando il piano di riscontro riferito alla livella cilindrica è inclinato, la bolla d’aria non appare al centro delle tacche di riferimento, ma si muove verso l’estremità della livella che sta più in alto.

(in alto) Le livelle a bolla d’aria circolari consentono di rilevare gli spostamenti in tutte le direzioni, e non solo lungo assi prestabiliti e preordinati. Qui due esempi storici e di culto: le livelle circolari delle teste panoramiche Rolleiflex di generazioni tecniche successive.

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Come annotato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, che poi illustra con combinazioni tecniche che appartengono e provengono da stagioni lontane della fotografia (mai troppo lontane... perché appartengono al tragitto personale di molti di noi), tutti gli apparecchi fotografici attuali, ad acquisizione digitale di immagini, offrono la modalità di attivazione della livella all’interno dei propri mirini e dal monitor esterno. In genere, si tratta di un segmento orizzontale, per lo più verde, che indica la planarità della collocazione, sia in inquadratura orizzontale, sia in composizione verticale (in alto, a sinistra). Segmento che cambia colore, e non è più verde, quando e per quanto l’apparecchio è fuori bolla. Quindi, va segnalata l’apposita analoga app per smartphone. Ancora, e riferendoci ai nostri tempi, non possiamo ignorare, e neppure sottovalutare, le livelle digitali professionali, originariamente rivolte e indirizzate verso utilizzi in ambiti lavorativi concreti (non che la fotografia non lo sia, ma la differenza balza subito all’occhio). Si tratta di utensili di alta precisione, appartenenti all’area di misura professionale. In generale, sfruttano la tecnologia Mems (Sistemi Micro Elettro-Meccanici), per la diagnostica della planarità delle superfici e l’esatta inclinazione degli angoli, con rilevazioni numeriche oggettive, assai più precise e pertinenti delle valutazioni a occhio della livella a spirito. Qui illustriamo con tre modelli Ullmann Digi-Pas, individuati all’interno di una vasta e variegata offerta tecnico-commerciale che scandisce passi consequenziali, magari utili anche alla fotografia.

La doppia livella incrociata da collocare tra la testa del treppiedi e l’apparecchio fotografico è stato un efficiente accessorio universale proposto qualche decennio fa dalla newyorkese Globuscope, produzione artigianale della quale si conoscono anche interpretazioni grandangolari 4x5 pollici e panoramiche a obiettivo rotante.

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altre configurazioni artigianali, anche italiane. Per il medio formato 6x7/6x9cm c’è il sistema Silvestri, che ha la possibilità di estendersi all’inquadratura panorama 6x12cm e al grande formato 4x5 pollici, e che ora è proiettato anche verso l’acquisizione digitale di immagini: come abbiamo appena rilevato e annotato. Invece, Hasselblad ha offerto tre soluzioni differenti. Anzitutto, si segnala il dispositivo originario PC Mutar T 1,4x, utilizzabile con tutti gli obiettivi fino alla lunghezza focale 100mm, e particolarmente raccomandato per la sua combinazione con il Carl Zeiss Distagon T* 40mm f/4. È un moltiplicatore di focale (1,4x il rapporto) provvisto di un movimento micrometrico di decentramento di 16mm nei due sensi. Abbinato al PC Mutar, il grandangolare Distagon T* 40mm diventa un 59,5mm f/5,8 che produce un ampio cerchio immagine di 106mm, appunto sfruttato per il decentramento all’interno del formato 6x6cm (diagonale circa 80mm). Dopo di che, in tempi successivi sono arrivate le configurazioni FlexBody e ArcBody [per quanto possa servire, rispettivamente: FOTOgraphia, ottobre 1995 e marzo 1998], i cui ampi intendimenti fotografici, estesi so-

prattutto verso l’impiego di dorsi ad acquisizione digitale, comprendono anche la flessibilità dei corpi mobili, in relazione al proprio formato. Il princìpio del cerchio immagine più ampio di quello strettamente necessario alla copertura del formato, che sta alla base della fotografia a corpi mobili e di quella con obiettivo decentrabile -appunto caratterizzato da un cerchio di immagine adeguatamente ampio-, è stato ben sfruttato dagli italiani Massimo Benatti e Giancarlo Gardin per il proprio Free Eye [FOTOgraphia, luglio 1998], disponibile in versioni 24x36mm, medio e grande formato fotografico. Infine, rimanendo nel passato remoto/prossimo, è doveroso ricordare che il corpo macchina Fuji GX680 III Professional [FOTOgraphia, ottobre 1998] è dotato di propri movimenti di decentramento e basculaggio che consentono significativi accomodamenti degli obiettivi rispetto al piano immagine 6x8cm. E in tutte queste configurazioni non mancano le immancabili livelle cilindriche e/o circolari, gergalmente definite bolle. E così semplifichiamo, e così continuiamo ad esprimerci... forse. Parola d’ordine: in bolla! ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 24 volte luglio 2016)

L

MARIA DI PIETRO

La fotografia che non è in difesa delle cause perse, non vale nulla. Avendo scelto la spettacolarità degli imbecilli e la volgarità dei santi, i fotografi, al loro meglio, confondono la secolarizzazione delle lacrime con il cimitero delle definizioni, ma ciò che conta -è evidente- è soltanto la firma sugli assegni di qualche gallerista con la faccia da assassino gentile. C’è un cretino in ogni martire, un criminale in ogni eroe e un demente in ogni fotografo che non conosce la meraviglia né lo stupore del Vero. Sotto la carnevalata della fotografia mercantile trionfa una primavera di carogne. In ogni uomo si cela un profeta, un dittatore o un criminale: al momento opportuno, si fa saltare in aria, diventa un capo di stato o -peggio ancora- fondatore di una banca. Nelle mani lorde di sangue di questi divi planetari è la sorte dei popoli impoveriti. I media (internet usata come vogliono i suoi “padrini”), la polizia, le banche, i preti, i sindacati, gli imprenditori, gli operai morti nell’inedia e nella paura, i sarti per dive che fanno la rivoluzione col merletto e i cuochi che decantano l’arte culinaria per ebeti televisivi e finiscono sulla cartellonistica pubblicitaria delle patatine fritte... sono i cani da guardia dell’organizzazione neoliberista della civiltà dello spettacolo. Si cambia idea come si cambia la corda del boia, giacché ogni idea e ogni merce viene confezionata per la domesticazione dell’immaginario collettivo.

SULLA FOTOGRAFIA DAL VOLTO UMANO

La fotografia dal volto umano o nomade non si insegna... si vive. La grande fotografia è ciò che disvela o denuda e contribuisce alla riconoscenza e al rispetto dei diritti umani calpestati dalle democrazie consumeriste e dai regimi totalitari. Fotografare è cercare la bellezza e la verità... si tratta di cambiare se stessi per cambiare l’or-

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dine del mondo. Le fotoscritture che fuoriescono da questa pedagogia libertaria del comunicare affermano che ogni autoritarismo è illegittimo, perché reprime il dissenso di quanti si richiamano alla conquista del bene comune. Ai nostri giorni, ci sono insegnanti di fotografia industriale, ma non fotografi. La tecnica fotografica s’impara in due giorni (specie se si è felicemente ubriachi, in una taverna di porto, o si è fatto l’amore su una spiaggia d’inverno e buttato la macchina fotografica sulla sabbia a far compagnia ai granchi); invece, per conoscere il senso della luce e la tenerezza del cuore non basta una vita.

s’accosta all’assertorio dei vessati e rifiuta l’apodittica della civiltà spettacolare. Nella religione mercantile del progresso si consumano i sorrisi nelle bare di chi non ha voce, né volto; la vita è sottomessa ai dogmi della ragione imposta, lo “splendore” della miseria si rinnova ogni mattino e apre le carceri al dissidio. Gli impoveriti, le minoranze etniche, le persone di colore, i migranti e fuoriusciti da guerre insensate (provocate dai grandi interessi finanziari/politici) conoscono sulla propria pelle (sulle proprie morti) l’acido ipocrita delle democrazie, e Mark Twain -da qualche parte- ci ricorda che «Per bontà divina, nel nostro pae-

«Se vogliamo, un aspetto che ritengo molto importante è l’idea di risveglio presente nel marxismo. Risveglio del proletariato, Risveglio del popolo. Oggi, negli Stati Uniti [come in Italia, del resto], vediamo, invece, gli schiavi votare per i padroni! E li vediamo considerare questa una forma di libertà e democrazia. Votano, quando lo fanno, a favore del sistema che li reprime» James Hillman Prima degli schiavi di Spartaco in rivolta, i filosofi (Epicuro, non Platone) avevano compreso che la fotografia (la filosofia) che conta s’illumina al fuoco delle idee scatenate dall’immaginale dal vero:

se abbiamo tre cose indicibilmente preziose: libertà di parola, libertà di coscienza e l’accortezza di non praticarle mai». I buffoni della fatalità democratica (specie di sinistra) sanno bene che il popolo

conta solo il giorno delle elezioni, poi si fanno portatori d’infelicità senza rimedio. Gli uomini arroccati al potere muoiono a causa di ciò che aveva assicurato il loro successo: lo stile da cenciaioli. Quando il paradosso che governa è messo al bando, non si evita la forca se non con il suicidio o la fuga nelle fogne. Ogni sopruso è indelicato e la sommatoria dei soprusi è il letamaio dell’umanità. La liquidazione dei partiti deve comportare quella dello stile (del linguaggio) con il quale hanno degradato individualità e memorie storiche. Le parole, le immagini, i suoni, perfino le bestemmie subiscono lo stesso destino degli imperi... si disgregano nell’affettazione della menzogna, e i rettori della menzogna prolungata -responsabili dei nostri eccessi- sono destinati alle esuberanze insorte del giudizio plebeo (senza dimenticare mai che a un dio che crolla succede un altro dio che lo sostituisce). Il disinganno sta nell’indignazione. Coloro che hanno trovato certezze e risposte a tutto, accettano con gioia gli effetti della tirannide sulla fatalità. Una realtà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione che sgretolano l’indecenza di esistere.

ED ORA, MARIA DI PIETRO Le scritture fotografiche di Maria Di Pietro (non importa siano argentiche, numeriche o polaroid) sono tutte attraversate da una malinconia poetica che le deposita in ciò che è autentico, dove l’unico tribunale è il sorriso di un bambino, e il sorriso di un bambino non si può comprare. Nelle proprie differenze estetiche e nervosità di studi accademici mai definitivamente abbandonati, i viaggi, i reportage, gli haiku, i volti, i bambini Rom della fotografa napoletana esprimono un viaggio interiore e un percorso artistico verso le regioni della realtà, s’intrecciano


Sguardi su a categorie sociali, etiche, morali e rappresentano l’Uomo / la Donna in relazione al potere economico e politico che li sovrasta. Nelle sue immagini c’è sempre una sensazione di inadeguatezza e sofferta fraternità, che la fotografa ricompone nelle inquadrature (anche slabbrate): e mostra che le umiliazioni sono vincenti quando si tratta di eliminare i più deboli. Ma il diritto all’identità non può essere compiutamente soppresso... quando le persone si sostituiscono alle maschere, si brucia il sipario e la commedia è finita. Questa scrittrice di immagini scrive di sé: «Mi laureo in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, discutendo una tesi in fotografia con lo storico e critico d’arte Ennery Taramelli. La mia passione per la fotografia è una “necessità”; fondamentali gli incontri, prima con Sergio De Benedettis e poi con Pino Bertelli. Un’assetata ricerca tra il teatro della vita e il fotogiornalismo, al quale mi sono dedica in anni recenti, collaborando con agenzie di news che mi hanno offerto la possibilità di immettermi nel circuito professionale, pubblicando su riviste nazionali e internazionali. Realizzo varie mostre, partecipo a stage e workshop professionali, tra i quali un seminario con il fotografo della Magnum Photos René Burri. «Nel 2005, partecipo nella sezione teatro alla XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, a Napoli. Nel 2009, al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli / Buenos Aires, nella categoria Eyes wide shut con il mio racconto Napoli Nomade: vengo premiata dal fotografo Pino Bertelli. Fotografo di continuo e d’istinto, uno scatto immediato; il mio è un “approccio che viene da dentro, un’istintività viscerale che mi consente di afferrare quell’attimo del quale avevo intuito la presenza”. «Collaboro costantemente per la realizzazione di storie che pongono l’attenzione sui diritti umani. La mia è una fotografia sociale, documentaria, ma inevitabilmente cedo a una ricerca artistica, magma della vita. Freelance per vo-

cazione, fedele alla mia passione e libera da padroni, preferisco stare sempre dalla parte degli “ultimi”. Giornalista pubblicista, attualmente mi dedico all’insegnamento dell’arte fotografica nelle scuole e con associazioni culturali. Sempre viva la mia personale ricerca di una fotografia poco “rumorosa” volta al paesaggio e ai segni che l’Uomo lascia, a quella bellezza insita nella quotidianità dello sguardo... attraverso ogni strada che abbia luce. M’interrogo continuamente. La fotografia è la mia vita, la mia poesia». Sbrigate le faccende domestiche, è bene addentrarci nel fare-fotografia di Maria Di Pietro. E questo significa andare a comprendere che l’educazione alla fotografia di strada comincia nel reparto degli incurabili, nella cultura del disturbo cronico (détournamento, da James Hillman: Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino; Adelphi, 1996), che implica il sovvertimento dei valori dati e restituisce all’amore verso l’altro il principio o il risveglio del rimosso e del dimenticato, che sono al fondo di tutte le disuguaglianze sociali. Nelle foto-sequenze di Maria Di Pietro c’è sempre il sogno di qualcosa che incrina l’ingiustizia e l’oppressione; e tutti coloro che l’intossicazione informatica “dipinge” come brutti, sporchi e cattivi riemergono dalle tenebre del fanatismo, razzismo, terrorismo della benevolenza e dell’ideologia e ritornano ad essere persone. In un’epoca dominata dalle grandi falsità, il compito della fotografia che vale è quello di denunciare le verità celate. Soltanto le fotografie del vero diventano a un tratto sacre... tutto quello che so, l’ho imparato dagli svantaggiati, dai folli, dai bambini con gli occhi curiosi che tiravano i sassi alla luna in un Maggio fantastico... ogni dolore è una vicinanza, e solo una cultura dell’inclusione e una politica dei diritti umani possono sconfiggere il disprezzo e l’indifferenza delle teste di legno che albergano nei parlamenti. Chi uccide la bellezza odia la vita, e l’arte di gioire è al-

l’inizio di ogni sovranità popolare. La fotografia dal volto umano o nomade fuoriesce dal disagio dell’indefinito, dato che anche le immagini dei nomadi/gitani finiti nei campi di sterminio nazisti sono sotterrate insieme alle loro culture e anche nelle giornate della memoria i nomadi sono relegati a poche note di costume. Del resto, insieme agli omosessuali, le loro famiglie non sono mai state risarcite e l’industria dell’olocausto si è dimostrata prodiga con il popolo ebraico. Truffatori, venditori e storia si confondono negli affari illeciti e, come diceva Rabbi Arnold Jacob Wolf (Yale University): «A me sembra che l’Olocausto venga più venduto, che insegnato» (Norman G. Finkelstein: L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei; Rizzoli, 2002). Sotto cumuli di convenzioni e certezze indegne si snodano entusiasmi ereditari. All’infuori della costruzione di nuove costellazioni del vivere insieme e della decostruzione del mondo dell’apparenza, tutte le preghiere, i precetti e programmi istituzionali sono senza valore. I momenti storici più fertili furono quelli di rivolte improvvise... misero fine al cabaret dello Stato e al lezzo delle Chiese... permisero ai popoli di lavorare alla propria biografia e (non importa per quanto tempo) mostrarono che Epicuro, Eschilo e Don Chisciotte erano al fondo di ogni coscienza ridestata. La dissoluzione di tutte le morali è il primo passo per raggiungere l’uguaglianza tra gli Uomini.

SULLA FOTOGRAFIA NOMADE La fotografia nomade, va detto, è una cartografia del tempo storico che si lacera... è la rivelazione del margine, non del marginale... è una creazione di valori destituiti dal mercato e l’improntitudine di quelle passioni eversive che sostengono e inventano la vita. Gli edifici delle lusinghe sono parte del cafarnao della fotografia incensata. La fotografia onorevole fa a meno della vocazione apparenziale della munificenza artistica. I lupanari dell’arte sono pieni di annientazioni dell’anima creativa e fanno parte di fa-

stose parate dell’idiozia culturale (con fanfare al seguito). La cattiva fotografia soffoca la poesia che contiene, e il viaggio estetico/etico muore nell’attività profetica (religiosa, morale, politica) che è l’apoteosi del mercato! Poiché la fotografia imperante (con molti dell’agenzia Magnum Photos dentro...) è soltanto un ritornello che scivola sul dolore degli altri, non resta che concepire la sedizione della rivolta come critica radicale dell’esistenza. A un certo grado di bellezza e verità, ogni fotografia diventa indecente! La fotografia sarebbe orribile senza l’eresia utopica che la nega o la brucia. La fotografia nomade o dei diritti umani di Maria Di Pietro (quella che più ci attanaglia studiare) agisce ai bordi dell’infelicità: più ancora, infonde alla sofferenza senza via d’uscita il respingimento della rassegnazione. Il suo immaginale si misura nel valore della persona e dal numero dei suoi disaccordi con valori e codici istituiti. Poiché la miseria non è un destino e nemmeno l’esclusione un’eredità, la sua catenaria di immagini rompe le vetrine dell’illusione, mostra le emorragie spettacolari della società consumerista e sostiene (senza tanti fraseggi estetici) che l’avvenire appartiene alle periferie della Terra. A entrare nelle fotografie in bianconero dei bambini Rom di Napoli (Giugliano in Campania) e affacciarsi alla finestra a colori sulle strade di Buenos Aires... possiamo leggere momenti nei quali la precarietà, la paura, l’ingiustizia e le chiacchiere sullo “Stato sociale” sono aboliti. La fotografa si accosta ai bambini Rom in punta di cuore, senza un’ombra di sociologismo o di scoop giornalistico. Il campo Rom di Giugliano in Campania, dato alle fiamme da solerti cittadini dell’ordine mafioso (che fa buoni affari con i rappresentanti dello Stato), è visto sotto traccia e sono i volti/corpi dei bambini che fuoriescono con forza dalle miserie di un delitto annunciato. L’ambientazione è occasionale, minore della ritrattistica infantile e dei gesti, sguardi, atteg-

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Sguardi su

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giamenti che questi bambini portano addosso. C’è dolore eterno e anche felicità possibile in questa iconografia dell’accoglienza. I bambini dietro il vetro, i piedi nudi, sporchi, accanto a un martello e un volantino, la bambina bionda, scalza, che attraversa una pozza d’acqua, la forza degli occhi di un bambino / una bambina buttati contro il cielo... restano a testimoniare che la verità non può mai essere quella dei linguaggi dominanti, ma il conseguimento dell’imprigionamento delle lacrime. Il bello, come il giusto, è qualcosa di scomodo, e quando il bello si riconosce nei lamenti umani, c’è un po’ più amore nel mondo. Forse, l’odore del vero che sborda dalle fotografie di Buenos Aires è meno avvincente della visione dei Rom a Napoli. Rimanda, credo, ai lavori elaborati sull’inquinamento delle terre napoletane, fabbriche deserte, case abbandonate, frammenti di muri, passaggi dell’Uomo nel mondo (non esenti da piccoli compiacimenti estetici). Tuttavia, nelle strade di Buenos Aires, la fotografa riesce a cogliere con grazia la quotidianità dell’ordinario... non è poco. In quella radiosa calma si

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coglie la tempesta che c’è sullo sfondo. I bambini che giocano nelle strade, i panni stesi alle finestre di case popolari, i segni dell’amarezza di un popolo ancora scosso da dittature e costrizioni, la forza della ragione contro il diritto della forza delle Madri di Plaza de Mayo... fotografati con colori accesi rosso/blu... lasciano presagire che ogni potere si regge o crolla quando crede di risolvere il proprio declino con la diplomazia dei fucili e delle galere. Le inquadrature inclinate, le sfocature, le allusioni al desiderio di esistere sparse nel reportage di Maria Di Pietro parlano del bene comune da conquistare. La fotografia così fatta porta in sé la nobiltà del comunicare e si accompagna al romanzo autobiografico che ne consegue (come l’ombra della fotografa stagliata su un palazzo rosso, dice). Solo se volgiamo lo sguardo della scatola magica al nostro interno possiamo scoprire la libertà, il giusto, il bello e il buono che ci circonda. Le fotografie di vita comune di Buenos Aires sono messaggeri di speranze mai sopite e convergono verso la risoluzione di un tempo condiviso, che appartiene agli ultimi di

ogni società. In queste immagini nude, fin troppo semplici, il richiamo a una vivenza più giusta comincia a muoversi, il presente e il passato si intrecciano... e anche i morti (desaparecidos) per la libertà di un popolo riaffiorano nella nostra immaginazione. Non si discute la fotografia, la si esprime. Più di altri, il ritratto di Alda Merini è sentito; e per noi, che l’abbiamo conosciuta e amata, restituisce alla storia non solo la grandezza della sua poesia, ma anche la sensibilità di una donna avversa a ogni potere e a ogni autorità che non sia quella dell’amore, della passione, della bellezza, e che della politica comprende solo una cosa: la rivolta (a cura di Pino Bertelli: Fuori da quelle mura. Poesie e prose inedite; Massari Editore, 2012 Qui abbiano scritto: «La sovranità della poesia liberata da Alda Merini induce all’accoglienza e permette di disimparare a far male agli altri... mostra che ogni piacere vuole il colpo di coltello della coscienza insorta e dipana una filosofia del rispetto che porta alla riconciliazione dell’esistenza più dura, più estrema, più marginalizzata con l’innocenza del divenire»). Alda Merini è colta nell’intimità della propria tenerezza, nel riassunto di un’anima fragile, nella dignità conquistata e nel volto addolorato mostra tutto l’accaduto (e il non accaduto) del suo stupore in pericolo. La disperazione non c’entra, è cosa per letterati ubriachi di successo. La follia non si cura, si accetta: e una volta iniziata, non finisce più. Le persone libere volano, quelle addomesticate sognano di volare. A ritroso. L’avvenire della catastrofe è già qui. La barbarie è accessibile a chiunque. Ci apprestiamo allegramente a disfare secoli di civiltà: eretici di ogni eresia non si diventa né per risoluzione, né per decreto. L’eretico è un incendiario dell’immaginario, non crede che un sistema religioso, economico e politico valga la pena di essere rinnovato, va abbattuto: «Porsi al centro di una rottura è tutto ciò che chiede. Odiando l’equilibrio e il torpore delle istituzioni, le scuote per affrettarne la fine» (E.M. Cioran:

La tentazione di esistere; Adelphi, 1984). Tutto vero. I momenti comunitari di raffinatezza nascondono un princìpio di vita: niente è più forte della bellezza, della giustizia e della dignità... la distruzione degli impostori della religione, della finanza, della politica e dei saperi porta in sé anche quella dei pregiudizi. Ai terrori di prima qualità preferiamo tutte le forme di disobbedienza civile. Più si entra in intimità con gli Ultimi, gli Esclusi, i “quasi adatti”... più ci si allontana dai lebbrosari della partitocrazia. Verità, giustizia, bellezza sono sconosciuti alla politica predominante. Buona è la società che agevola l’espansione culturale, politica, religiosa; cattiva quella che ostacola, reprime, violenta la bellezza di vivere in fraternità. La storia di un popolo si riassume nell’incapacità a comprendere le necessità reali delle persone. Invece di celebrare i fasti di profeti, ciarlatani, pagliacci dei mercati globali (conniventi con politiche e mafie finanziarie), ai quali importa solo la manifestazione della propria potenza, si dovrebbe dare inizio alla liquidazione delle pene e dei delitti dell’ordine costituito. Lao Tzu, che leggeva pochissimo, aveva tuttavia compreso che le profondità del giusto, del buono, del bello sono indipendenti dal sapere: «Chiunque voglia portare la luce, deve conoscere le tenebre che sta per rischiarare» (Lao Tzu: Il libro della virtù e della via; SE, 1993). Il filosofo cinese, vissuto forse nel IV secolo aC, tra i fondatori del taoismo (le leggende dicono che la madre rimase incinta contemplando una stella cadente) amava dire: «Più le leggi e l’ordine vengono resi prominenti, più ci saranno ladri e mascalzoni». Tutto vero. Davanti al tribunale del giusto, del buono, del bello, soltanto gli angeli ribelli sarebbero assolti. La forza interiore deriva dagli eterni conflitti che manteniamo vivi in noi. La storia dell’Uomo in libertà è tutta ancora da scrivere o da inventare. C’è un tempo per seminare, c’è un tempo per raccogliere... e il tempo per vivere tra liberi e uguali. Dopo l’uragano. ❖




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