Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXIV - NUMERO 228 - FEBBRAIO 2017
Giuliano Ferrari GRAND TOUR
Mirrorless PROFESSIONALI
Piero Gemelli ANNI OTTANTA FRAGIACOMO
OBIETTIVO CAMERA SESSANT’ANNI FRAGIACOMO
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)
Abbonamento a 12 numeri (65,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome
cognome
indirizzo CAP
città
telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO
data
provincia fax
❑ ❑ ❑
Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 1027671617, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito PayPal (Graphia srl)
firma
prima di cominciare STORIA E STORIE. Come spesso annotiamo, una depravazione diffusa e condivisa da molti storici e critici della fotografia, soprattutto italiani, è quella della ripetizione non documentata, non approfondita, di considerazioni già espresse da altri, che, quindi, nella propria malefica duplicazione finiscono per diventare nozioni assolute e accettate. A completa differenza, agiscono coloro i quali verificano e controllano, sia le fonti di informazione, sia i contenuti delle stesse relazioni. Per esempio, come più volte richiamato, là dove è stato necessario e in contesti giustificati, dissentiamo dalla replica passiva di una valutazione originariamente errata, che -mai controllata- ha finito per essere reiterata in troppi resoconti sulle origini della fotografia. Già annotato, e qui ripetiamo: in molte storie si afferma che il (ventitreenne) filosofo, alchimista e commediografo italiano Giovanni Battista della Porta (1535-1615) avrebbe riportato una descrizione della camera obscura nel suo Magiae Naturalis, del 1558, nel quale viene sviluppata la concezione magico-spiritualistica del mondo simile a quella di Paracelso/Paracelsus. In particolare, molti (tutti) affermano che avrebbe descritto il princìpio della camera obscura con foro stenopeico come ausilio al disegno. No! Non è proprio così. In realtà, nel libro IV, capitolo II, con Quomodo in tenebris ea conspicias, quæ foris à Sole illustrantur, & cum suis coloribus, Giovanni Battista della Porta descrive una stanza oscurata, con foro stenopeico verso l’esterno per l’osservazione agevolata di paesaggi assolati (producendo una proiezione simile a quelle fotografate in interno da Abelardo Morell; FOTOgraphia, luglio 2006). Ne abbiamo rintracciato due edizioni esemplari alla Biblioteca Pubblica Bavarese, e abbiamo verificato, per non ripetere l’errore originario. Allo stesso modo, l’Editoriale di questo stesso numero, a pagina sette, esprime un’altra autonomia di pensiero sulla storiografia fotografica. Fatte salve le date ufficiali di annuncio e presentazione (1839), pensiamo che la fotografia così come l’abbiamo sempre intesa nasca cento anni dopo, con la sua riproducibilità tecnica in periodici e libri: ovvero, con la sua effettiva diffusione. Da cui, per quanto possiamo accettare le attribuzioni all’inglese Roger Fenton (18191869), non lo conteggiamo mai come “primo fotografo di guerra”, come viene sempre certificato, ma “primo fotografo capace di esprimere un linguaggio fotografico di documentazione della guerra”... o giù di lì. Infatti, cronologicamente, la missione di Roger Fenton in Crimea, e qui non andiamo oltre, è successiva alla fotografia di guerra del non professionista John McCosh (1805-1855), chirurgo scozzese dell’esercito del Bengala, che in India fu presente sui campi di battaglia del secondo conflitto tra inglesi e Sikh, del 1848-1849.
Quando la fotografia non interroga, si fa complice del potere che la foraggia e l’infila nel letamaio della buona condotta. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66 Oggi, al culmine di un lungo processo, la fotografia mobile è effettivamente mezzo passivo che non interferisce nel processo produttivo e creativo. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 62 Quando si affronta la fotografia di “luoghi” e “città” è più che scontato, spesso ovvio, soprattutto banale, riferirsi a Italo Calvino di Le città invisibili (1972) e Georges Perec di Specie di spazi (in Italia, 1989). mFranti; su questo numero, a pagina 8
Copertina Soggetto di Piero Gemelli, in sintesi degli anni Ottanta del calzaturificio Fragiacomo, che ha celebrato i propri primi sessant’anni anche con sei immagini simboliche delle decadi: a cura dell’Associazione Obiettivo Camera. Ne riferiamo da pagina 42, con approfondimento
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio dal francobollo statunitense illustrato con la celebre fotografia di Joe Rosenthal (Associated Press) della bandiera americana issata sul monte Suribachi, nell’isola giapponese di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945, settantadue anni fa: icona della fotografia e immagine della Storia. Emissione filatelica dell’11 luglio 1945; poi, a seguire, lo stesso soggetto è stato ripetuto in innumerevoli altre emissioni filateliche di tanti paesi, in occasione di anniversari (soprattutto tondi) della fine della Seconda guerra mondiale. Potremmo parlarne
7 Editoriale Il senso della Storia, magari con osservazioni originarie
8 Citarsi addosso Eccessi e abusi di citazioni facili, quanto banali
10 Tutti al cinema Avvincente e convincente gamma di obiettivi Sigma per la ripresa cinematografica professionale. E altro
12 Per fotoricordo Niente di specifico nel film Spite Marriage, del 1929, ma posato dei protagonisti con macchine fotografiche Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
FEBBRAIO 2017
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
14 Ritratto non apprezzato
Anno XXIV - numero 228 - 6,50 euro
Incontro tra colleghi, in un racconto condiviso di Rinaldo Capra
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
17 Quel Confine Sulla personalità espressiva di Marialba Russo di Pio Tarantini
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
22 Fish-eye completo Originariamente per medio formato 6x6cm a pieno fotogramma, con attenzioni tecniche mirate, il fish-eye ucraino Zodiak-8 30mm f/3,5 può essere esteso al grande formato 4x5 pollici, per visioni a tutto tondo
27 Factory Con appassionanti fotografie di Stephen Shore, la consistente monografia Factory: Andy Warhol celebra trent’anni dalla scomparsa dell’artista
34 Mirrorless professionali La soluzione tecnica Mirrorless si sta estendendo e applicando a configurazioni fotografiche di alto profilo di Antonio Bordoni
42 Sei decadi A cura dell’Associazione Obiettivo Camera, sei autori hanno interpretato le decadi del calzaturificio Fragiacomo. In ordine temporale: Gian Paolo Barbieri, Giovanni Gastel, Piero Gemelli, Maurizio Galimberti, Maria Vittoria Backhaus e Simone Nervi di Angelo Galantini
51 (Ferrania)... e non più L’ammirevole Andrea Biscosi ha documentato il Tempo
56 Grand Tour Progetto fotografico del talentuoso Giuliano Ferrari, che tralascia il come per sottolineare il perché. Evviva di Maurizio Rebuzzini
64 José María Lupercio
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Associazione Obiettivo Camera Maria Vittoria Backhaus Gian Paolo Barbieri Pino Bertelli Andrea Biscosi Antonio Bordoni Rinaldo Capra Giuliano Ferrari mFranti Angelo Galantini Maurizio Galimberti Giovanni Gastel Piero Gemelli Simone Nervi Franco Sergio Rebosio Pio Tarantini Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Sguardi sulla fotografia della dignità degli Ultimi di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
www.tipa.com
Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato
di Alessandro Mariconti
via Foppa 40 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it
w w w. p h o t o 4 0 . i t
editoriale S
uggerimento sempre opportuno; addirittura, sostanziosa lezione di Vita. Nel film cult L’attimo fuggente, di Peter Weir, del 1989, con protagonista Robin Williams, proprio il personaggio principale professor John Keating offre una lezione esistenziale ai propri attoniti allievi, ispirandoli. Propone loro di osservare anche da punti di vista diversi da quelli consueti, in modo da ottenere prospettive differenti, persino insolite. Nel fare questo, sale in piedi sulla cattedra, per indicare, per l’appunto, una visuale nuova, rispetto la norma. A parte altri risvolti nel film, rimaniamo sull’avvincente ispirazione, facendola nostra. Tramiamo, senza peraltro complottare, a proposito della Storia della Fotografia, per la cui interpretazione individuiamo «punti di vista diversi da quelli consueti», alla lettera. Certo, non intendiamo alterare date e circostanze ufficiali, ma vorremmo pensarla in altro modo: vorremo ridatare la nascita della fotografia, così come la intendiamo da qualche decennio, e oggi ancora. Ovverosia, ci orientiamo verso l’effettiva diffusione e ricezione della fotografia, che raggiunge il pubblico attraverso la propria pubblicazione in tiratura: di periodico illustrato, piuttosto che monografia specifica e mirata. Ci riferiamo alla possibilità di riproduzione lito/tipografica della fotografia, tralasciando i propri originali, avvicinabili soltanto da una ristretta cerchia di persone certificate. Dunque, possiamo datare al tardo secondo decennio del Novecento la vera nascita della fotografia così come si è offerta al grande pubblico. In effetti, noi stessi conosciamo i precedenti, espressi dal secondo Ottocento, non come stampe originarie, ma per le loro ripetute riproposizioni su libri e riviste. Ragionando in questi termini, cioè dando valore alla riproduzione lito/tipografica della fotografia, consideriamo fondante la nascita di settimanali illustrati, a partire dai tedeschi Berliner Illustrirte Zeitung e Münchner Illustrierte Presse e dal francese Vu (che pubblicò per primo la storica fotografia del miliziano spagnolo colpito a morte, di Robert Capa, sul suo numero del 23 settembre 1936, solitamente ed erroneamente attribuita, in prima pubblicazione, a Life, che sarebbe nato di lì a due mesi esatti). Se a metà Quattrocento, l’orafo di Magonza Johann Gensfleisch von Gutenberg rivoluzionò la diffusione della parola, con l’invenzione dei caratteri mobili e la conseguente stampa in tiratura, all’inizio del Novecento, qualcosa di analogo è successo alla fotografia, quando ha potuto essere riprodotta su periodici e libri. In questo modo, comprendiamo come le lezioni fotografiche avviate negli anni Venti e Trenta del Novecento si siano perentoriamente allungate sulle generazioni successive: dal reportage vero e proprio alla fotografia di documentazione realizzata dagli autori della Farm Security Administration. A questo proposito, è stata straordinaria l’iniziativa della Galleria ExpoWall, di Milano, che lo scorso dicembre ha stampato in fine art una serie di soggetti della FSA e dintorni, per l’appunto, proponendoli a un prezzo di vendita/acquisto più che abbordabile. Sempre e comunque per la diffusione di buona fotografia. Maurizio Rebuzzini
Berenice Abbott: Automat, 977 Eighth Avenue, New York City, 1936. Questa è una delle proposte che la Galleria ExpoWall, di Milano, ha confezionato in stampe fine art 20x25cm, in vendita a soli quindici euro, riprendendo dalla quantità di fotografie liberalizzate dalla Library of Congress, degli Stati Uniti, attraverso la New York Public Library. Straordinaria iniziativa, che sollecita anche una riflessione da un «punto di vista diverso da quelli consueti» sulla Storia della Fotografia, in rilettura dei propri tempi e modi.
7
Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)
I
CITARSI ADDOSSO
In curiosa coincidenza di intenti e pensieri, sia personalmente sia professionalmente -in un continuum senza alcuna soluzione di continuità-, apprezziamo le citazioni che introducono e/o decodificano l’argomento che si sta per trattare. Queste citazioni, prese a prestito e finalizzate ai propri intendimenti, possono essere specifiche al ragionamento, piuttosto che pretesto per considerazioni attinenti e allineate. Un esempio coerente, ripetuto sulle pagine di FOTOgraphia, mese dopo mese, è quello adottato dal clinico Pino Bertelli, che, in consueta chiusura di fogliazione, sovrasta i propri avvincenti Sguardi su con citazioni in sottolineatura di pensiero conduttore. A conti fatti, queste sue introduzioni forniscono anche, ma non soltanto, una chiave di interpretazione e direzione utile e proficua alla lettura dei suoi testi corrosivi e pungenti, che sconfinano nell’erosione di luoghi comuni sulla fotografia. Ancora, sempre rimanendo in casa nostra, ricordiamo l’edizione di Alla Photokina e ritorno, del 2008, ormai lontano nel tempo, ma non nei contenuti, i cui tredici capitoli in consecuzione furono introdotti da altrettante citazioni... a proprio modo chiarificatrici del senso dell’argomento trattato. Da cui, in ripetizione d’obbligo, è ancora oggi opportuno tornare proprio a quell’insieme di citazioni mirate, per approdare poi alla conclusione verso la quale invitiamo. Per l’appunto, riprendiamo dal capitolo conclusivo di Alla Photokina e ritorno, non conteggiato tra quelli nei quali fu scomposto il testo, ma identificato come “più uno” a seguire i tredici canonici. Dunque, da Citarsi addosso (con Woody Allen), che ho firmato, unitamente a Angelo Galantini e Antonio Bordoni (“puntuali alter ego di tutte le stagioni”, dalle dediche): «Appena sotto il proprio titolo, prima di avviarne il testo relativo, ogni
8
capitolo di Alla Photokina e ritorno è introdotto da una citazione, che svolge una funzione presto svelata: oltre il piacere di buone compagnie, che circondano la mia vita quotidiana, ogni citazione va intesa come sottotitolo dichiarato. Alla maniera dei sommarietti dei giornali e delle riviste (FOTOgraphia compresa), ogni citazione decodifica, certifica e, per quanto impossibile, spiega il testo». Ovviamente, qui e ora, non ripetiamo tutto quanto riportato in quel contenitore, ma richiamiamo soltanto le citazioni e le relative fonti, senza alcun altro approfondimento, mantenendone l’ordine originario e il richiamo esplicito. ❯ In introduzione: «Sono un clown, e faccio raccolta di attimi» (Heinrich Böll: da Opinioni di un clown; Mondadori, 1965; traduzione di Amina Pandolfi). ❯ Alla Photokina e ritorno: «Solo a giochi fatti, è ovvio, le ore assumono tutta la loro importanza» (Georges Simenon: da Senza via di scampo; Adelphi, 2008; traduzione di Eliana Vicari Fabbris). ❯ Reflex con contorno: «Tutto ciò che raccontava era in effetti possibile, ma non per questo certo» (Milan Kundera: da Lo scherzo; Adelphi, 1986; traduzione di Giuseppe Dierna [Antonio Barbato]). ❯ Visioni contemporanee: «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso» (Edward Steichen: in occasione del suo novantesimo compleanno, 27 marzo 1969). ❯I sensi della memoria: «La storia non può insegnarci niente se scegliamo di dimenticarla» (Anne Perry: da I peccati di Callander Square; Mondadori, 1983; traduzione di Maddalena Damiani). ❯ La città coinvolta: «Da un pullman di turisti mi sembra che una giapponese stia fotografando» (Georges Perec: da Tentativo di esaurire un luogo parigino; Baskerville, 1989; traduzione di Eileen Romano).
❯E venne il giorno (?): «Che bello! Non avevo mai visto un cane poliziotto». «Non l’hai visto neanche stavolta. Questo è il cane di un poliziotto» (Il bambino Steve Spielberg [Lee H. Montgomery] e il tenente Colombo [Peter Falk]: da L’omicidio del professore; regia di Alf Kjellin; sesto episodio della terza stagione di Colombo; 1974). ❯ E tutto attorno, Colonia: «Arrivata a porta Venezia, Milano finalmente sorride» (Giuseppe Marotta: da A Milano non fa freddo; Bompiani, 1947). ❯ Ricordando Herbert Keppler: «Rivedo un viso mormoro un nome / ma non ricordo quando né come» (da Che cosa resta; traduzione e adattamento di Gesualdo Bufalino di Que reste-t-il de nos amours?, di Charles Trenet, 1942; esecuzione di Franco Battiato, in Fleurs, 1999). ❯ Ciò che dice l’anima: «Come gli aeroplani che si parlano tra di loro / e discutono e non si dicono mai niente» (Enzo Jannacci: da Come gli aeroplani, in Come gli aeroplani, 2001). ❯ Sopra tutto, il dovere: «Io non mi sento italiano / ma per fortuna o purtroppo lo sono» (Giorgio Gaber e Sandro Luporini: da Io non mi sento italiano, in Io non mi sento italiano, 2003). ❯ In forma compatta: «Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l’astuccio a tracolla. E si fotografano» (Italo Calvino: da L’avventura di un fotografo, in Gli amori difficili; Einaudi, 1958). ❯ Tanti auguri a voi: «E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi» (Ray Bradbury: da Fahrenheit 451: gli anni della fenice; Mondadori, 1978 [prima edizione negli Oscar Mondadori, 1966]; traduzione di Giorgio Monicelli). ❯Saluti da Colonia: «La distanza è più questione di tempo che di
spazio» (W. Somerset Maugham: da Acque morte; Adelphi, 2001; traduzione di Franco Salvatorelli). Per certi versi, ci siamo cascati anche noi... sebbene evitando l’ovvio, lo scontato, l’evidente, gli stereotipi di maniera e settore, le convenzioni e i cliché senza capo né coda: abbiamo incluso citazioni da Georges Perec e Italo Calvino. Però, nonostante questo!, invitiamo a stare distanti dalla facilità semplicistica (non soltanto semplificata) alla quale ricorre certa (presunta) critica fotografica italiana, che abusa di richiami previsti e prevedibili: soprattutto quando si riflette su “luoghi” e “città”. Per propri usi e costumi, questa (presunta) critica fotografica affronta sempre la materia con atteggiamento e piglio inutilmente accademico: e pare che a loro non interessi né comunicare né condividere il proprio pensiero con gli altri. In ripetizione d’obbligo: non è mai un problema del sapere (conoscenza?), ma di voglia di condividere. E capacità di farlo. Forse. E poi, sono rare le originalità di visione e analisi. Ma questo ultimo, come tanti altri, è tutto un altro discorso. Quando si affronta la fotografia di “luoghi” e “città” è più che scontato, spesso perfino ovvio (ma c’è chi si accontenta dell’apparenza della citazione dotta), soprattutto banale, riferirsi a Italo Calvino di Le città invisibili (1972) e Georges Perec di Specie di spazi (in originale Espèces d’espaces, 1974). E anche a Tentativo di esaurire un luogo parigino (in originale Tentative d’épuisement d’un lieu parisien, 1982), dello stesso Georges Perec, e L’infanzia berlinese attorno al Millenovecento, di Walter Benjamin (1932, con vicende controverse e rielaborazioni fino al 1938; la stesura definitiva è stata ritrovata, nel 1981, alla Bibliothéque Nationale, di Parigi; nel 2001, Einaudi ne ha pubblicata la prima edizione italiana).
Parliamone Attenzione, non diciamo che le parole di Italo Calvino, Georges Perec e Walter Benjamin non offrano fantastici spunti di riflessione individuale e arricchimento personale. Affermiamo soltanto che vengono usate e abusate (spesso) a sproposito, soltanto per atteggiarsi a intellettualismi inutili e fuori luogo. Da cui, parliamone. Georges Perec (1936-1982) è stato uno scrittore di eccezionale originalità, le cui costruzioni linguistiche si sono spesso basate sull’impiego volontario e consapevole di limitazioni formali. Da cui, la sua partecipazione all’Ouvroir de Littérature Potentielle (Ou LiPo; officina di letteratura potenziale), che annoverò tra le proprie fila anche Raymond Queneau (fondatore) e Italo Calvino, a propria volta inventori di linguaggi paralleli: indispensabili le segnalazioni, rispettivamente, di Esercizi di stile (pubblicato in Italia nella
traduzione di Umberto Eco; Einaudi, 1983) e Le città invisibili. In fotografia, Georges Perec è spesso richiamato in saggi critici su autori, correnti, progetti (e lo stesso possiamo affermare per Le città invisibili, di Italo Calvino, appena richiamate). Soprattutto, ci si riporta a Specie di spazi e Le cose, ma anche a Sono nato e Tentativo di esaurire un luogo parigino: ognuno per sé, e tutti insieme, testi profondi, ricchi di spunti e osservazioni facilmente riconducibili all’azione fotografica. Ovviamente, anche noi abbiamo il nostro Georges Perec di fiducia, diciamola così. È quello di Mi ricordo (Bollati Boringhieri, 1988), dichiaratamente ispirato a I remember, di Joe Brainard (Angel Hair Books, 1970 / in Italia, Mi ricordo; Lindau, 2014, nella traduzione di Thais Siciliano con la collaborazione di Susanna Basso). Di cosa si tratti, è presto detto:
incessante sequenza di quattrocentottanta «mi ricordo», che si susseguono in forma asciutta e diretta (per esempio, «Mi ricordo l’assassinio di Sharon Tate», «Mi ricordo lo yo-yo», «Mi ricordo Zatopek», «Mi ricordo che Shirley McLaine ha debuttato in La congiura degli innocenti di Hitchcock»). Come ha annotato lo stesso George Perec, tutti potrebbero scrivere Mi ricordo, ma nessuno potrebbe evocare gli stessi suoi ricordi. In definitiva, si tratta di un autentico e dichiarato appello alla memoria individuale, i cui tratti ne possono anche formare una collettiva trasversale: per esperienze analoghe, allineamento generazionale, affinità e altro ancora, molti ricordi sono comuni a più persone. Molti, ma non tutti. Ognuno può cimentarsi nel microricordo, che non esige né impone regole precostituite: ricordi liberi, richiami fugaci, riferimenti
sollecitati. Ma anche annotazioni mirate. Si può ricordare con la consapevolezza e coscienza di farlo, come si può arrivare al ricordo inconsciamente, stando a tavola, alla tastiera del proprio computer, con l’occhio al mirino della propria macchina fotografica, osservando -ormai raramente- il vetro smerigliato sul quale l’inquadratura si proietta rovescia. La discriminante non è il ricordo in sé, ma la voglia di annotarlo, per non lasciarlo più sfuggire tra le pieghe delle consecuzioni quotidiane, che sostituiscono continuamente ciascun ricordo con un altro nuovo ricordo, in una concatenazione senza fine e finalità. Cosa diamine mi ricordo dei tempi vissuti in fotografia? Ora è più che mai necessario ricordare, perché in troppi vogliono farci dimenticare! Rimando d’obbligo all’Editoriale di FOTOgraphia, del febbraio 2008. ❖
Mercato di Antonio Bordoni
S
TUTTI AL CINEMA
Subito detto, subito precisato, subito certificato. Per quanto la nostra personale propensione e visione sia rivolta alla Fotografia, qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi, la progettazione ottica per il cinema professionale è tutt’altra questione: definita e stabilita da capitolati e protocolli rigidi e inviolabili, al vertice dei quali si collocano la qualità formale assoluta e la praticità di utilizzo inderogabile. Ciò precisato, e con usuale scarto di significato (ma neppure poi tanto), un conto è disegnare e produrre un obiettivo fotografico, un altro è fare altrettanto per il cinema, che richiede ed esige standard assolutamente selettivi. Da cui e per cui, l’approdo della giapponese Sigma al mondo della cinematografia professionale ha due significati, almeno due. Anzitutto, stabilisce un punto d’arrivo che si proietta in un mondo tecnico-commerciale selettivo, quanto proficuo; quindi, a ridosso, va a elevare di rango e status l’intera propria produzione, certificando come e quanto non si tratti più soltanto di una gamma di obiettivi (per quanto ci riguarda direttamente fotografici) alternativi ai sistemi canonici delle reflex e Mirrorless di rispettivo riferimento, ma di una autentica proposta autonoma e qualificata, sia nella cadenza di focali e configurazioni, sia nella concentrata finalità qualitativa. Quindi, ancor prima di scandire i termini pratici e tangibili che definiscono la proposizione Sigma Cine Lenses, ovvero obiettivi Sigma per la cinematografia professionale, ai quali approderemo inevitabilmente, è opportuno approfondire e sottolineare giusto l’aspetto complementare e sostanziale della vicenda. Se vogliamo vederla e considerarla anche così -e lo vogliamo-, la definizione di una gamma di obiettivi per cinema eleva lo stato giuridico di Sigma verso i vertici qualitativi dell’intero comparto ottico per fotografia. Ovverosia, stabilisce termini inviolabili di un discorso che non si limita alle sole apparenze a tutti visibili (gamma di obiettivi in innesto per reflex e Mirrorless dei nostri giorni), ma lo proietta nell’Olimpo
10
della progettazione e costruzione ottica assoluta. Infatti, e a conti fatti, è anche questo che l’utilizzatore quotidiano deve prendere in considerazione: l’autorevolezza e qualifica dei propri riferimenti operativi, che siano in grado e condizione di assicurare, oltre che garantire, la solidità formale delle prestazioni, sulle quali basare ed edificare la propria (eventuale) capacità creativa. Non si tratta tanto di considerare il perché dell’esercizio fotografico quotidiano, sul quale riflettere in altri tempi e modi, ma di rassicurare il come farlo, ovverosia rinfrancare le fondamenta sulle quali questo si erige. Ufficialmente, Sigma è entrata nel mercato degli obiettivi per cinematografia con il relativo annuncio notificato in occasione della recente Photokina 2016, a Colonia, in Germania, a metà dello scorso settembre (probabilmente l’ultima passerella tecnico-commerciale internazionale, come rilevato in FOTOgraphia, dello scorso novembre: altro discorso). Nel concreto, la linea Sigma Cine Lenses si sta rendendo disponibile in queste prime settimane del 2017, con la presentazione sul mercato dei primi disegni
La prestigiosa e autorevole gamma di obiettivi per cinema professionale Sigma Cine Lenses
afferma sia il proprio valore autonomo, sia il prestigio di una produzione ottica di primo piano... assoluto. Dunque, si devono esprimere sia considerazioni specifiche e mirate, sia valutazioni ad ampio raggio, che certifichino la grande qualità di una intenzione ottica che offre tanto e bene anche (soprattutto?) alla fotografia professionale e non professionale.
ottici specifici, ognuno dei quali definito e identificato da un’alta risoluzione e caratteristiche e prestazioni eccelse, che dal cinema si estendono alla ripresa video altrettanto professionale. Ribadendo princìpi progettuali e produttivi già applicati alla produzione fotografica su larga scala, Sigma offre anche al mondo cine e video la propria solida concezione di prestazioni ottiche elevate, con relativo design compatto. Una prima fase commerciale è stata indirizzata verso i due mercati internazionali leader di mercato, gli Stati Uniti e il Giappone, nei quali sono già stati introdotti due zoom EF e E Mount (18-35mm T2.0 e 50-100mm T2.0); un altro zoom (24-35mm T2.2 FF) e cinque focali fisse (20mm T1.5 FF, 24mm T1.5 FF, 35mm T1.5 FF, 50mm T1.5 FF e 85mm T1.5 FF) arriveranno nel corso del corrente 2017. Quindi, Sigma prevede di estendere l’offerta verso telecamere PL Mount e di completare lo spettro della propria gamma di disegni. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
F
PER FOTORICORDO
Film poco noto e tantomeno proiettato in Italia, anche a causa della sua anagrafe lontana, Spite Marriage, del 1929, è accreditato alla regia di Edward Sedgwick, anche se i cinefili sanno bene che, in realtà, la si dovrebbe attribuire a Buster Keaton, attore principale e produttore. Tradotto in Italia in Io... e l’amore, nelle sue rare proiezioni in cineforum di sostanziosa attenzione, il film è sempre e comunque presentato con il suo titolo originario, che mette in discussione il matrimonio... a dispetto (nonostante altri sinonimi allineati): in chiave umoristica, su soggetto di Ernest Pagano, da lui stesso sceneggiato insieme con Lew Lipton. Ovviamente, la nostra consueta segnalazione dipende e si basa su una inevitabile combinazione fotografica, che definisce il senso e tratto di queste osservazioni giornalistiche a tema. In un posato promozionale del film, i due protagonisti, il già menzionato Buster Keaton (uno dei giganti del cinema muto statunitense di inizio Novecento) e Dorothy Sebastian, sono visualizzati con rispettivi apparecchi fotografici tra le mani. Per entrambi si tratta di apparecchi Kodak popolari e di uso familiare -presumibilmente o certamente-, uno box e l’altro a soffietto. La raffigurazione è affascinante e apprezzata, per diversi motivi. Anzitutto, per la macchina fotografica tra le mani di un attore di primo piano, quale è Buster Keaton; quindi, per una menzione della fotografia adeguatamente datata all’anno di produzione del film. Infatti, quel lontano 1929 (di cinema muto, va ricordato e ribadito) definisce tempi e modi di una fotografia familiare erede di quanto precedentemente stabilito all’indomani della Box Kodak originaria, del 1888: la prima svolta senza ritorno della tecnologia fotografica applicata, che dal proprio contesto, per l’appunto fotografico, si è proiettata sulla società tutta, introducendo parametri sostanziosamente innovativi, anche e ancora sottolineati dalla posa dalla quale oggi prendiamo spunto. Così che, è necessario ribadire questo passo. A parte altre considerazioni
12
di carattere più commerciale, quali la nascita dell’azienda Eastman Kodak e del mercato di sviluppo e stampa conto terzi, che si è disteso sui decenni a seguire, bisogna annotare come la portatile Box Kodak, con pellicola flessibile e autonomia di cento scatti, determinò l’osservazione della vita nel proprio svolgersi, ed è fatto considerevole, e creò i presupposti della fotoricordo familiare, ed è altro fatto altrettanto energetico. In evoluzione, altre configurazioni box seguirono l’interpretazione tecnica originaria; così come arrivarono apparecchi comunque sia portatili, comunque sia con pellicola a rullo (non più precaricata), comunque sia di uso semplice e pratico. Ed è ciò che è visualizzato
A margine e completamento della sceneggiatura del film Spite Marriage, di Edward Sedgwick, del 1929, il nostro punto di osservazione si concentra sul posato dei due protagonisti Buster Keaton e Dorothy Sebastian, ognuno con un apparecchio fotografico tra le mani. In entrambi i casi, si tratta di Kodak popolari, per fotoricordo: box e a soffietto.
in questa avvincente posa del 1929 di Buster Keaton e Dorothy Sebastian. Da qui, per quanto possa servire a completare il richiamo e riferimento cinematografico, ci occupiamo specificamente del film, che è conteggiato come ultima espressione degna della lunga carriera originaria di Buster Keaton, che da lì in poi, con il cinema sonoro (a partire dal primo accreditato come tale: The Jazz Singer / Il cantante di jazz, di Alan Crosland, con Al Jolson, uscito nelle sale statunitensi il 6 ottobre 1927), non avrebbe più giganteggiato, per quanto abbia recitato ancora fino a metà degli anni Sessanta. Insomma, il personaggio da lui creato -caratterizzato da un misto di sprovveduta imperturbabilità, comicità e pathos- è inviolabilmente legato all’assenza di parola recitata (in questo senso, cameo significativo in Viale del tramonto / Sunset Blvd, di Billy Wilder, del 1950, nel ruolo di se stesso). Spite Marriage (più raramente, Io... e l’amore) è presto riassunto. In chiave sostanzialmente comica, non soltanto leggera, caratteristica del personaggio disegnato da Buster Keaton, imperterrito nell’affrontare le più improbabili avversità della vita, Elmer Gantry (per l’appunto, interpretato da Buster Keaton) è innamorato dell’attrice teatrale Tribly Drew (interpretata da Dorothy Sebastian), ma non ricambiato. Per assecondare la propria passione, frequenta assiduamente il teatro nel quale lei recita, vedendo ripetutamente lo spettacolo, soltanto per poterla ammirare. Finalmente, la ragazza si convince e lo sposa... in realtà non per amore, ma per fare uno sgarbo a un collega attore (Lionel Benmore, interpretato da Edward Earle). Quindi, all’indomani del matrimonio, Tribly lascia Elmer, per scappare con Lionel. Alla loro ricerca, Elmer li rintraccia su una nave di contrabbandieri, dove i due sono stati fatti prigionieri. Anche Elmer viene catturato e obbligato a un lavoro forzato. Lieto fine. Dopo tante peripezie e una lotta con i criminali, Elmer salva la ragazza, che torna a vivere con lui perché si è accorta di quanto valga più del rivale. ❖
Incontro tra colleghi di Rinaldo Capra
RITRATTO NON APPREZZATO
U
Un uomo aveva suonato il campanello, ed era entrato nella semioscurità del mio studio. Ne scorgevo solo il braccio teso, che mi porgeva una busta sgualcita, e il bianco degli occhi. Lo invitai ad avvicinarsi; avanzò con la testa china, infossata nelle spalle, per timidezza e timore. Era meravigliato da tutto quello che guardava, e gli occhi roteavano svelti a destra e sinistra. Ora vedevo bene la sua figura: sui trent’anni, alto, una bella figura e nero, nero come l’inchiostro. Negli anni Novanta, i migranti erano ancora merce rara, ne avevo visti pochi, e facevano, per lo più, folklore. Sorrise. Abbassò lo sguardo, venne ancora più vicino e iniziò a togliere fogli e documenti dalla busta, con umiltà, diligenza e rassegnazione. Sembrava un cafone di Ignazio Silone, se non fosse stato per il colore così scuro della pelle. Voleva dimostrami di non essere un clandestino, esibendomi subito i documenti e le referenze. Nigeriano, di nome Blixen, non una parola d’italiano, solo l’inglese, ma con una pronuncia così stretta che non capivo niente. Del resto, il mio inglese non è buono neanche per i ristoranti e, al massimo, ne farfuglio qualche parola sui set di moda con i modelli americani. Piero, il mio assistente, aveva studiato in Inghilterra, e fece da interprete. Cercava lavoro, un lavoro qualsiasi, e intanto continuava a sgranare gli occhi, scrutando flash, stativi, fondali e tutto quello che lo circondava, come un bambino in un negozio di giocattoli o come mia nonna diabetica in pasticceria, inventariando motivi di desideri e pronto a covare altre frustrazioni. «Sono un fotografo, non saprei cosa farti fare, mi spiace...», dissi, fissandolo negli occhi. Il suo volto s’illuminò e -furbo- rispose: «Ah... anch’io! Siamo colleghi... -ed esitando- potrei esserti di grande aiuto». Disse queste ultime parole con un sorriso largo, ruffiano. I denti immacolati e il bianco degli occhi erano come fari accesi, che comunque non riuscivano a illuminare quella faccia dalla sconfinata negritudine. Contagiato da quel sor-
14
Ritratto del nigeriano Blixen, realizzato da Rinaldo Capra a fronte di un incontro nel suo studio di Brescia.
riso scaltro, risi di cuore e decisi di mostrargli lo studio. Gli descrissi le attrezzature e gli presentai alcuni ritratti che avevo scattato a musicisti jazz, mentre lo osservavo per capire se mi stesse raccontando delle balle. Ci volle poco per concludere che Blixen non aveva mai avuto nulla a che fare con la fotografia, se non per la sua “segnaletica” sul passaporto. Non avevo bisogno di lui, cercai di convincerlo nella maniera più garbata possibile, con il tono di voce gentile e, altrettanto dolcemente, Piero, l’assistente, gli tradusse tutto, ma, poiché eravamo colleghi (?), gli proposi di aiutarmi a organizzare un progetto di ritratti del black people per una rivista patinata, naturalmente retribuito. Piero traduceva e Blixen era sempre più sconcertato e smarrito; a
ogni frase, scuoteva la testa. Provai il suo stesso disagio per quella balorda richiesta. Sgomento, si girò indietro per guardare la porta da dove era entrato, poi -di scattosi volse verso di me e mestamente implorò: «Oh... capataz, preferirei lavare i pavimenti. Costo poco. Mi vergogno a chiedere ai miei amici di farsi fotografare. Non è buono per me». «Blixen, ma che razza di fotografo eri, in Niger? Non capisco!». Commento inutile. Ma, riconoscendogli un piccolo compenso, riuscii faticosamente ad accordarmi su una via di mezzo: se mi avesse presentato i suoi amici neri, solo io avrei chiesto loro di posare per il ritratto e non lui. Così il suo onore sarebbe stato salvo, le fotografie scattate
Incontro tra colleghi e il compenso intascato. Semplice, no? Mi faceva pena, ma -in un certo senso- lo sfruttavo, lo avrei sfruttato. Fissammo l’appuntamento per il venerdì seguente, ma non si presentò. Con Piero, rimasi in studio tutto il giorno ad aspettarlo, ma non venne; del resto, non ci avevo contato minimamente, e i soldi li avevo dati per persi nello stesso momento in cui glieli avevo messi in mano. Invece, fu una sorpresa vederlo arrivare il martedì della settimana successiva, con un’aria pimpante e allegra, vestito come il solito: una striminzita giacca a vento, jeans sdruciti e una maglietta, ma stavolta portava con sé anche un borsone gonfio. Gli chiesi se sentiva freddo, viste le temperature di quei giorni; scosse la testa, scoppiò in una sonora risata e bofonchiò qualcosa del tipo: «In Italia, non fa mai freddo... da noi, in Niger, invece...». E continuò: «... Sono qui per i ritratti; io sono pronto, e tu sei pronto?». Insomma, non dovevo fotografare altri neri, ma solo lui, Blixen. Chiesi a Piero di spiegargli che il nostro accordo era diverso: l’avevo pagato solo perché volevo che mi presentasse i suoi compatrioti e amici, perché volevo sentire le loro storie e conoscere il loro mondo, vedere i loro oggetti, le loro case, sapere del loro lavoro e delle loro aspirazioni. Ero seccato. Con l’aria di un imbonitore da fiera di paese, Blixen spiegò che non avevo capito niente, che gli altri neri erano selvaggi e brutti, non in grado di posare per le fotografie di una rivista. Mentre lui, Blixen, sì che era un nero molto bello, istruito e intelligente. Era anche elegante, disse, togliendo dal borsone un vestito e mostrandomelo, era il possessore di un raffinato abito italiano, un doppiopetto blu con tanto di camicia bianca. Peccato avesse dimenticato la cravatta, e poi le scarpe, vere scarpe da sera. Non c’erano dubbi: l’unico nero degno di essere ritratto era lui. Capivo, ma mi aspettavo qualcosa di diverso. Volevo incontrare tanti africani, per farmi un’idea di quel mondo esotico e remoto. Era sorpreso, e gli parevo un marziano; ribadì di essere un uomo moderno, di conoscere la cultura dei bianchi, perché la società tribale non valeva la pena di conoscerla, era inutile, non serviva a nulla: il mondo era solo dei bianchi e non capiva la mia curiosità.
Detto ciò, indossò rapidamente il vestito, la camicia e le sue fantastiche scarpe da sera e si avviò, come un alieno, sul fondale fotografico. Rassegnato e divertito, impugnai la mia Hasselblad; Piero caricò due magazzini con la mia pellicola preferita per i ritratti en format carré, la Tri-X, e cominciai a scattare. Blixen si muoveva sul set con insospettabile disinvoltura, sembrava un modello consumato, con pose energiche, ma ogni tanto la sua ingenuità emergeva e lo tradiva. A tratti, guardava un immaginario orizzonte lontano, poi fissava con determinazione l’obiettivo, mostrava i pugni o sorrideva quasi sereno, toglieva la giacca e la rimetteva, con le mani in tasca o con le dita davanti alla faccia, scimmiottando il gesto dello scatto fotografico. La sua migliore immagine di sé era stata lì, mi era passata davanti, su quel fondale, me l’aveva donata... e sentivo l’immane fatica che gli costava sostenere quella parte. Gli chiesi -se volevadi posare a torso nudo, ma il mio ben riscaldato studio, per lui divenne immediatamente gelido: impossibile spogliarsi, troppo freddo. La paura comparve sul suo volto brufoloso, la fierezza scomparve, l’imbarazzo lo invase... e il suo sguardo triste si rifugiò di nuovo verso l’angolo buio; chissà a cosa stava pensando, forse a casa sua, all’Africa. La pellicola era finita. In quei due rulli, ero certo di avere già l’immagine latente della sua anima; avevo avuto ventiquattro occasioni per catturare tutta la sua essenza vitale, e ne era valsa la pena. Vedendomi che toglievo l’Hasselblad dal treppiedi e spegnevo i flash, si sentì sollevato, sospirò e tornò il vivace Blixen originario. Guardò con un’espressione competente l’Hasselblad, e raccontò che in Niger ne possedeva una uguale, perché era un bravissimo fotografo, ma poi gliela avevano rubata o forse l’aveva persa, non ricordava più bene, del resto era trascorso molto tempo. In fondo, ero stato molto fortunato a incontrarlo, sostenne, e se avessi voluto, avrebbe potuto essermi molto utile, insegnarmi un sacco di trucchi e consigli sulla tecnica di ripresa. Altre bugie; si accorse che stava esagerando. Il suo sguardo assente vagò tra il soffitto e l’angolo buio, di certo non si sentiva a casa e forse non capiva neppure dov’era. Sulla manica della giacca, aveva an-
cora il cartellino del negozio e non ci fu verso di farglielo togliere, perché gli altri dovevano sapere quanto fosse prezioso quell’abito e il cartellino, affermò, lo certificava. Piero insinuò che se lo fosse fatto prestare o preso a nolo, lui si schernì. Pensai che quel completo fosse un disperato investimento, nella speranza di una vita dignitosa e fare parte della nostra società occidentale. Si lamentò del compenso che gli avevo offerto, favoleggiò di iperbolici guadagni che avrei ottenuto vendendo il suo ritratto alle riviste, ma la richiesta fu poco convinta e durò solo il tempo necessario a riporre con estrema cura l’abito nel borsone, senza arrivare a una richiesta concreta. Salutò e se ne andò, con la mia promessa che l’avrei chiamato appena pronte le stampe per regalargliene una. Piero dovette rincorrerlo per chiedergli un recapito, per il quale ci diede il numero di un bar in paese. Qualche giorno dopo, stampai le fotografie, e il mattino seguente, prima ancora che lo avessi avvisato, Blixen già mi aspettava appoggiato alla porta dello studio. Guardò le stampe su carta baritata e grande fu il suo scoramento; cominciò a imprecare, alzare gli occhi al cielo con le mani sulla faccia. Piero fece fatica a tradurre quel che diceva. Sosteneva di non essere lui nel ritratto, perché lui non era così ed io non ero un buon fotografo, altrimenti si sarebbe riconosciuto. Era furioso... se la fosse fatta da sé, la fotografia, si sarebbe riconosciuto di certo, perché lui si sentiva molto più bravo di me e sarebbe riuscito a non far vedere i foruncoli sulle gote e sulla fronte, e poi anche l’abito si sarebbe visto: era prezioso, cosa che in quelle fotografie non si capiva. Inoltre, lui era molto più bello che in quella stampa e non così nero. Ribattei che le fotografie erano belle, ero fiero di quel lavoro e lo avrei difeso in eterno, ma quella era la sua faccia e non ci potevo fare nulla. Se non si riconosceva, era perché non si conosceva. «Non è vero», ringhiò, e gettò a terra la stampa che gli volevo donare: non la voleva, non era lui. Aveva trovato lavoro in un cantiere, disse, andandosene deluso, quindi era posto e non gli serviva più niente. Blixen non si era riconosciuto, l’immagine che avevo prodotto era solo la mia e non la sua. ❖
15
Espressività fotografica di Pio Tarantini
Q
QUEL CONFINE
Quando, alla fine degli anni Settanta, una ammirata sequenza da un reportage realizzato dalla campana Marialba Russo, intitolata Il parto, realizzata durante i riti di Carnevale nella sua regione, fu presentata in numerose rilevanti mostre e pubblicata su molte riviste ci si rese conto che la fotografia sociale stava segnando un passo rinnovato. Nello specifico, stava tornando a interessarsi in modo particolare di quell’aspetto antropologico-sociale che ha caratterizzato molta fotografia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, con tanti considerevoli lavori di fotografi di primo piano, tra i quali si deve ricordare soprattutto la figura di Franco Pinna. In questo ambito della fotografia italiana, si affacciava così una nuova generazione di autori, che trovò il proprio centro di gravità nel Mezzogiorno d’Italia e -in particolare- a Napoli. Nel capoluogo campano agivano fotografi come Mimmo Jodice e, soprattutto per questo ambito, Lello Mazzacane; ai quali andava accostata la più giovane Marialba Russo.
Confine, di Marialba Russo; testi di Luciana Castellina, Marina Giaveri, Roberta Valtorta; Silvana Editoriale, 2015; 105 illustrazioni; 120 pagine 24x28cm; 28,00 euro.
Proprio Marialba Russo cominciò a muoversi con passione e disinvoltura, oltre che con competenza linguistico-fotografica, nella documentazione di riti e miti religiosi e popolari, testimoniando quel temperamento che si stava creando tra un mondo arcaico, contadino e popolare e il resto d’Italia, in pieno sviluppo economico e sociale. I suoi lavori ebbero meritato successo, e quella fase di indagine sociale si chiuse probabilmente nel momento in cui Marialba
Da Confine (2015).
17
Espressività fotografica
Russo si trasferì a Roma, nel 1987, spostando la propria attenzione verso una ricerca fotografica più intima e analitica, dove il paesaggio diventa spesso metafora di riflessioni profonde sull’esistenza umana. Nascono così molti lavori, tra i quali una trilogia ancora da completare, iniziata nel Duemila, e che ha visto, nel 2004, la realizzazione e pubblicazione di una prima parte, L’Incanto (Skira Editore) e, nel 2015, della seconda, Confine (Silvana Editoriale), della quale ci occupiamo in questa riflessione.
18
Da Confine (2015).
EspressivitĂ fotografica
19
Espressività fotografica MARIALBA RUSSO
Dopo studi di arte presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, Marialba Russo (1947), napoletana trasferita a Roma, nel 1987, si avvicina alla fotografia alla fine degli anni Sessanta, interessandosi di antropologia culturale. In questo ambito, negli stessi anni Settanta, realizza notevoli progetti su riti e tradizioni della cultura popolare e religiosa della sua regione, riportando l’attenzione su questo aspetto della fotografia sociale e antropologica un po’ trascurato dopo i reportage storici degli anni Cinquanta Tra i suoi lavori più noti, la registrazione del Carnevale in centri della Campania, da cui la sequenza Il parto è presentata a Venezia ’79. La Fotografia, l’autorevole rassegna che sdoganò anche in Italia la fotografia dalla propria condizione minoritaria all’interno del sistema dell’arte. Successivamente e in proseguo, i suoi interessi si allargano anche verso altri aspetti della documentazione sociale e nuove esperienze figurative. Nel 1989, realizza una retrospettiva presso la Galleria d’Arte Moderna Giorgio Morandi, di Bologna. Dopo di che, si registrano molte altre mostre, affiancate dalle raccolte L’Incanto (2004) e Confine (2015).
Va detto: Confine è un lavoro difficile, nel senso che non concede nulla all’immediatezza della fotografia cosiddetta documentaria. Linguisticamente è lontano dai lavori originari di Marialba Russo degli anni Settanta -tanto quanto gli anni che lo separano-, ma, nello stesso tempo, è a loro paradossalmente vicino, almeno dal punto di vista concettuale. Infatti, se -in quelli- la forza della documentazione antropologica ha colpito con l’immediatezza della fotografia diretta, in Confine ritroviamo una sequenza di immagini da guardare e ripassare con quiete, per capirne il senso e i significati reconditi, muovendoci in un linguaggio che vorrei definire liquido (perdonatemi il termine abusato negli anni più recenti, se pur in altri ambiti). Le fotografie di Confine scorrono dense, cupe, allineando paesaggi con cieli, spesso carichi di nuvole grevi, con prati selvaggi e ambienti, interni ed esterni, fuori dal tempo e dove gli elementi primordiali -la luce, il vento, il freddo, il buio, una natura selvaggia-
dominano completamente la scena. E in questi scenari dal sapore primitivo si muovono animali che rimandano all’Uomo e all’antropizzazione del territorio: cani, pecore e capre. In Confine domina la materia prima plasmata da Marialba Russo, non con la visione analitica del più giovane Antonio Biasiucci -altro autore di spicco, anche lui campano e anche lui attratto da queste stesse tematiche-, ma con una chiave linguistica passionale, nella quale il mosso, lo sfocato, i toni cupi non sono strumentali a effetti stilisticamente suggestivi, ma realizzati in piena sintonia con quelle sensazioni di ritorno agli elementi fondamentali naturali ai quali già accennato. In una natura selvaggia e senza tempo, la fotografa coglie i movimenti degli animali, mentre pochi segni -una staccionata, una stalla, un secchio pieno di sangue sull’aia, altri pochi dettagli accennati- rimandano all’Uomo, in un interrogarsi doloroso e dialettico sulla ❖ nostra presenza nel mondo.
Applicazione arbitraria di Antonio Bordoni
D
Di produzione ucraina, che ai tempi della propria attualità tecnico-commerciale faceva parte dell’Unione Sovietica, il fish-eye Zodiak-8 30mm f/3,5 riprende e replica la sostanza del disegno ottico Carl Zeiss F Distagon T* 30mm f/3,5. Ovviamente, non coincide soltanto la qualifica ufficiale -nella sequenza di lunghezza focale e apertura relativa, rispettivamente cadenzate in 30mm e f/3,5-, ma sono ribaditi i valori fotografici discriminanti e determinanti. È doveroso annotarlo, con ordine. In baionetta Hasselblad e con otturatore centrale Prontor CF, il fisheye Carl Zeiss F Distagon 30mm f/3,5, è definito da una combinazione ottica di otto lenti divise in sette gruppi; la scala dei diaframmi chiude fino a f/22; la copertura completa del fotogramma 6x6cm di riferimento equivale a un angolo di campo di 112 gradi sul lato e 180 gradi sulla diagonale; a fuoco da trenta centimetri, pesa 1,365 chilogrammi, per un ingombro fisico di 117,5mm di lunghezza per 110mm di diametro massimo (alla lente frontale esterna, con proprio paraluce sagomato). In allineamento, l’altrettanto fisheye a copertura completa del fotogramma 6x6cm Zodiak-8 30mm f/3,5, è moderatamente più leggero, nell’ordine di un chilogrammo di peso, perché privo di otturatore centrale (stiamo per riferirne); un identico diametro massimo di 110mm (sempre alla lente frontale esterna, con proprio paraluce sagomato) si abbina a una lunghezza di 97mm; identica la copertura di campo, di 180 gradi sulla diagonale, per 112 gradi sul lato del fotogramma quadrato; anche qui la scala di diaframmi chiude fino a f/22; ed è confermata la messa a fuoco da trenta centimetri; il disegno ottico, infine, è un poco più complesso, con dieci lenti divise in sei gruppi. Ancora: il fish-eye ucraino Zodiak-8 30mm f/3,5 è tuttora in produzione, con finiture moderatamente diverse da quelle che hanno definito le prime linee produttive (sovietiche), spesso con l’identificazione MC Arsat 30mm f/3,5.
22
Per l’arbitrarietà fotografica di impiego del fish-eye ucraino Zodiak-8 30mm f/3,5, disponibile sul mercato (nuovo e usato) anche nella più recente versione MC Arsat, si prevede l’uso di apparecchi grande formato 4x5 pollici (10,2x12,7cm), sia a banco ottico, sia folding, in modo da ottenere un’immagine tonda completa di ottantotto millimetri di diametro, al centro della pellicola piana. Per questo, oltre la collocazione sulla piastra porta obiettivo, bisogna eliminare dalla montatura il paraluce sagomato attorno la lente frontale.
Fish-eye a copertura completa del fotogramma medio formato 6x6cm, con angolo di campo di 180 gradi sulla diagonale e 112 gradi sul lato, l’ucraino Zodiak-8 30mm f/3,5 (e MC Arsat) produce un cerchio immagine completo di ottantotto millimetri di diametro al centro della pellicola piana 4x5 pollici (10,2x12,7cm). Il suo utilizzo con e su apparecchi grande formato è consentito dal generoso tiraggio al piano focale di 74,1mm, proprio della configurazione di origine Kiev 60 (e Pentacon Six e Exakta 66).
ANTONIO BORDONI
FISH-EYE COMPLETO
Allo stesso tempo, il mercato dell’usato (che qui non sconfina nell’antiquariato e collezionismo) ne propone sostanziose quantità -tra le quali eventualmente scegliere-, che non superano mai i centocinquanta euro di costo. Oltre la baionetta originaria per Kiev 60 e 6C (e altri modelli), coincidente con quella Pentacon Six / Exakta 66, sono
disponibili versioni modificate o anelli adattatori (artigianali) per ogni reflex medio formato del mercato fotografico del passato prossimo (con slittamenti verso le attuali configurazioni ad acquisizione digitale di immagini), sia 6x6cm, sia 4,5x6cm: Contax, Mamiya, Pentax... Hasselblad (attenzione alla mancanza di otturatore centrale).
ANGELO GALANTINI
Applicazione arbitraria
Qualità formale a parte, che non possiamo certamente equiparare, né accostare, al giorno d’oggi e in ipotesi di uso arbitrario (stiamo per riferirne), qual è la differenza sostanziosa tra i fish-eye Carl Zeiss F Distagon T* 30mm f/3,5 e Zodiak-8 / MC Arsat 30mm f/3,5? Presto detto: per i centocinquanta euro massimi dell’obiet-
tivo sovietico / ucraino, in casa Carl Zeiss sono disposti a fornire i tappi anteriori e posteriori di protezione (paradosso, ma neppure poi tanto); quindi, sul mercato dell’usato, le quotazioni F Distagon T* 30mm f/3,5 variano da milleduecento a duemilaquattrocento euro, in base alle condizioni fisiche dell’obiettivo.
Copia positiva dal negativo 4x5 pollici presentato sulla pagina accanto: raffigurazione fish-eye circolare, con oltre centottanta gradi di angolo di visione.
A questo punto, un’altra domanda, direttamente conseguente, avvicina la nostra ipotesi arbitraria alla quale stiamo per approdare (ed era ora!). Perché preoccuparsi tanto della reperibilità a un prezzo conveniente, anteponendo questo alle prestazioni fotografiche propriamente tali? Perché suggeriamo un uso arbitrario del
23
ANGELO GALANTINI
Applicazione arbitraria
24
Applicazione arbitraria
fish-eye a copertura completa del fotogramma medio formato 6x6cm! Ovvero, proponiamo -raccomandandolo vivamente- di mettere a frutto l’intera visione fish-eye dello Zodiak-8 / MC Arsat 30mm f/3,5, oltre i confini originari verso i quali è proposto. Nella pratica, considerato che il tiraggio al piano focale di 74,1mm delle medio formato di classe Kiev 60, Pentacon Six e Exakta 66 è sostanzioso, si può predisporre un pratico apparato su base grande formato 4x5 pollici (10,2x12,7cm), a banco ottico piuttosto che folding. Presto detto, altrettanto facilmente realizzabile: l’obiettivo viene montato sulla piastra porta ottica del proprio apparecchio grande formato (Sinar, nel nostro caso, con indirizzo verso la Norma di buona compagnia fotografica), e i 74,1mm di tiraggio non creano alcun disagio nella collocazione del corpo posteriore di formato, meglio se collegato all’anteriore / porta obiettivo tramite soffietto soffice grandangolare. Se possibile, è agevole disporre di un otturatore centrale tra l’obiettivo e il piano focale; altrimenti, si può prevedere di scattare con tempi di otturazione lunghi e prolungati, fa-
Negativo 4x5 pollici (10,2x12,7cm), e relativo positivo, ripreso con fish-eye Zodiak-8 30mm f/3,5 (oggi, anche in versione MC Arsat) montato su Sinar Norma, dotata di otturatore centrale meccanico. In assenza di otturatore, si possono applicare tempi di posa lunghi e prolungati: sia combinando con valori chiusi di diaframma, sia potendo collocare filtri ND all’apposita filettatura posteriore / interna dell’obiettivo. Ancora: se si utilizza carta fotosensibile al posto della pellicola, la sua scarsa sensibilità, attorno i sei Iso, favorisce l’allungamento del tempo di esposizione in condizioni ambientali particolarmente luminose. Niente di più.
cilmente raggiungibili ai valori più chiusi di diaframma (integrabili, al caso, con filtri ND da collocare all’apposita filettatura posteriore / interna dello Zodiak-8 / MC Arsat 30mm f/3,5). Ciò fatto, si ottiene una proiezione tonda fish-eye sulla pellicola 4x5 pollici (o carta fotosensibile delle stesse dimensioni 10,2x12,7cm, che offre anche una bassa sensibilità alla luce, nell’ordine di sei Iso, confortevole nel caso di tempi lunghi di esposizione, in assenza di otturatore). La proiezione tonda è di ottantotto millimetri di diametro e la raffigurazione è autenticamente e inviolabilmente fish-eye oltre centottanta gradi di angolo di visione. Soltanto, ecco il punto, bisogna eliminare preventivamente il paraluce sagomato attorno la lente frontale, per evitare vignettature periferiche ai bordi della circonferenza. Allora: chi ha il coraggio di segare via la montatura di un Carl Zeiss F Distagon T* 30mm f/3,5? Nessuno di coloro i quali -noi tra questi- non si è fatto scrupolo di asportare (far asportare da chi possiede utensili adatti) il paraluce del fish-eye Zodiak-8 / MC Arsat 30mm f/3,5. Questo è tutto. ❖
25
In celebrazione dei trent’anni dalla scomparsa del controverso artista (22 febbraio 19872017), la monografia Factory: Andy Warhol è illustrata con fotografie di Stephen Shore, uno dei più significativi autori contemporanei. Il suo convincente racconto per immagini ripercorre una esperienza unica nell’ambito dell’arte moderna. Comunque la si possa pensare al proposito, un casellario visivo che raffigura un Tempo del quale si deve tenere conto
FACTORY
27
(pagina precedente) Factory: Andy Warhol, fotografie di Stephen Shore; testi di Lynne Tillman; Phaidon Press, 2016; 175 illustrazioni; 192 pagine 26x35,4cm, cartonato; 49,95 euro.
(centro pagina) Andy Warhol con la serigrafia Flowers, esposta per la prima volta alla Leo Castelli Gallery, di New York, nel 1964.
(pagina accanto) Andy Warhol; 1965.
I
ncontro avvincente, incontro imperdibile: il fotografo Stephen Shore e la Factory di Andy Warhol. Questa combinazione è stata realizzata dall’editore Phaidon, sempre attento al mondo della comunicazione visiva, con una monografia di pregio e valore, pubblicata anche in lingua italiana (gradito ritorno, dopo un lungo periodo di assenza dalle traduzioni a noi più fruibili). L’occasione è certificata e annunciata: il prossimo ventidue febbraio ricorrono trent’anni dalla scomparsa del celebrato creativo statunitense, mancato nel 1987, alla soglia dei sessanta anni (era nato il 6 agosto 1928, a Pittsburgh, in Pennsylvania). La consistente e avvincente raccolta di immagini, esplicitamente intitolata Factory: Andy Warhol, è firmata da uno dei più significativi autori contemporanei, capace anche di riflettere sulla materia, magari a partire proprio dalla sua esperienza individuale; a questo proposito, rimandiamo anche alla sua convincente Lezione di fotografia. La natura delle fotografie, considerazioni teoriche pubblicate dallo stesso Phaidon, nel 2009 [FOTOgraphia, luglio 2009], e alla sua direzione del Programma di Fotografia al Bard College, di Annandale-on-Hudson, New York, dal 1982. Così che il suo racconto per immagini ripercorre una esperienza unica nell’ambito dell’arte contemporanea.
© STEPHEN SHORE / 1965-1967 (3)
Andy Warhol sulla scala antincendio della Factory, al 231 East 47th street, di New York City.
di Angelo Galantini
28
La Factory, di Andy Warhol, a New York City, dal 1962 al 1968, al quinto piano del civico 231 East 47th street. Inaugurazione del negozio Paraphernalia (1966); stilista Betsey Johnson, proprietario Paul Young. In primo piano, Ricard, Susan Bottomly, Eric Emerson e donna non identificata; al centro, Mary (Might) Woronov, Andy Warhol e Ronnie Cutrone; sullo sfondo, Paul Morrissey e Edie Sedgwick.
30
© STEPHEN SHORE / 1965-1967 (4)
Quindi, e prima di qualsivoglia nota in presentazione della monografia, prendiamo subito le distanze dalla parabola espressiva di Andy Warhol e soci e fiancheggiatori e protégé, che non ci ha mai entusiasmato più di tanto; quantomeno, non ci ha entusiasmato nelle misure con le quali la critica internazionale ha celebrato. Convinti come siamo che ogni azione d’arte debba contenere anche un’anima e un cuore, e attivare gesti d’amore, abbiamo sempre osservato con diffidenza le attività della Factory, disturbati, infastiditi e tormentati dai suoi eccessi, figli di un tempo e un mondo che speriamo non abbiano tracciato alcun solco permanente nella società tutta, nel proprio insieme e complesso. Comunque, opinione individuale, qui dovuta, ma non necessariamente condivisibile. A ciascuno, i propri pensieri e convincimenti al proposito. Tornando in cronaca, si registra che il bravo e accurato Stephen Shore cominciò a frequentare la Factory, il leggendario studio-laboratorio di Andy Warhol, a New York, a diciotto anni, nel 1965. Per almeno due anni, e poi anche oltre, vi si è recato ogni giorno, o quasi, fotografando tutto quanto vi veniva realizzato: dunque, documentazione partecipe di accadimenti e personaggi che hanno ruotato attorno l’indiscusso padre-padrone. A diretta conseguenza, oggi, trascorsi altri cinquant’anni, l’insieme di queste immagini, raccolte e ordinate in monografia di spessore e valore, ripercorre l’opera e l’universo personale dello stesso Andy Warhol con una cadenza visiva perfettamente agevole, che ha il merito della sintesi e dell’accuratezza... ovverosia del tempo narrativo. Ancora, la frequentazione di quel mondo, con tutti i nostri distinguo del caso, già annotati, fu passo fondamentale della maturazione individuale dello stesso
Il cantante Lou Reed.
(in alto, a sinistra) Provino a contatto dalla prima campagna fotografica di Stephen Shore a L’Avventura; 1965.
31
© STEPHEN SHORE / 1965-1967 (3)
Il compositore John Cale, l’attore Jan Cramer, il regista e sceneggiatore Paul Morrissey, la cantante Nico (Christa Päffgen) e il poeta Gerard Malanga di fronte al World Theater (Nico compare nel film programmato The Sweet Skin ).
Provino a contatto dei Velvet Underground.
(in alto) Billy Name, factotum della Factory, fotografo, autore dell’“argentatura” dei locali.
32
Stephen Shore, che ha esplicitamente ammesso/dichiarato che «Nell’ultimo periodo in cui frequentai la Factory, mi resi conto che il solo fatto di essere a contatto con Andy [Warhol], e di osservarlo, aveva cambiato il mio modo di essere artista. Avevo maggiore consapevolezza di quello che facevo». Dal punto di vista redazionale, che ha il compito di mettere in bell’ordine il materiale presentato, in questo caso il materiale visivo introdotto da pertinenti testi di Lynne Tillman, la monografia Factory: Andy Warhol è scandita per capitoli consequenziali, ognuno relativo a una delle tante personalità che hanno ruotato attorno il laboratorio del caposcuola. Con ordine, dopo la necessaria presentazione dell’epopea della Factory e del fotografo Stephen Shore: Gordon Baldwin, Billy Name, Gerard Malanga. Pat Hartley, John Cale, Maureen Tucker, Donald Lyons, Sterling Morrison, Susan Bottomly / International Velvet, Danny Fields, Paul Morrisey, Henry Geldzahler, Mary Woronov, Jonas Mekas e Sam Green... un autentico casellario dell’arte moderna e contemporanea newyorkese, che si è espressa con cinema, musica, pittura, scultura, poesia e tanto altro ancora. Dunque, e in definitiva, un archivio visivo che raffigura un Tempo del quale si deve tenere conto. In effetti, come ha rilevato Sterling Morrison, chitarrista statunitense, membro fisso e tra i fondatori degli innovatori Velvet Underground, nati e cresciuti nella Factory, al quale è altresì dedicato un capitolo della monografia, «Questo libro ha un senso non perché le persone ritratte siano avvincenti, ma perché lo sono le fotografie». Quindi, in nostra ripetizione d’obbligo, non il soggetto in quanto tale, ma la sua convincente e colta rappresentazione fotografica stabilisce passi, differenze e sostanze. Volente o nolente. ❖
Per quanto, alle proprie origini, la soluzione tecnica Mirrorless (senza specchio) si sia riferita a un comparto tecnico-commerciale di più ampi intendimenti -al quale ha offerto doti e caratteristiche confortevolmente agevoli-, da tempo, questa interpretazione è trasmigrata anche verso finalità professionali, che assolvono intenzioni fotografiche di alto profilo. Lo certificano configurazioni di pregio, che affermano sostanziose personalità autonome, che sono approdate a sensori di acquisizione digitale di immagini in dimensioni medio formato. Una riflessione dovuta
MIRRORLESS P Prossima al suo arrivo sul mercato -si prevede all’inizio del prossimo marzo-, la Mirrorless medio formato Fujifilm GFX 50S si offre e propone come autentico sistema fotografico indirizzato a tutti gli utilizzi propri e caratteristici della fotografia professionale. Nell’ambito del proprio sistema fotografico, stabilisce un passo e una cadenza di vertice assoluto.
34
di Antonio Bordoni
T
orniamo, per un attimo e per introduzione, a una delle considerazioni di accompagnamento all’assegnazione dei prestigiosi e ambìti TIPA Awards 2016, a tutti gli effetti le più qualificate attribuzioni tecnologiche per e della fotografia attuale. Tra tanto altro a presentazione e commento, lo scorso maggio, annotammo che «Rimanendo in territorio di apparecchi fotografici, sono da considerare per se stesse le soluzioni tecnico-commerciali Mirrorless, che l’ufficialità delle definizioni identifica come CSC - Compact System Camera (e, per maggiore chiarezza, l’attribuzione dei TIPA Awards 2016 include entrambe le identificazioni:
compromesso lecito e legittimo), comprensive dei relativi obiettivi intercambiabili in propria cadenza». Ciò annotato, rileviamo che l’attualità tecnologica della fotografia offre e propone soluzioni che scandiscono anche la configurazione di osservazione attraverso l’obiettivo di ripresa, evitando -però- gli ingombri e pesi che sono caratteristici della costruzione reflex classica, con visualizzazione nell’oculare di una “proiezione” diretta (definiamola pure così), derivante dalla combinazione di specchio “reflex” e pentaprisma in vetro di raddrizzamento. Dunque, nello specifico, l’interpretazione “Mirrorless”, alla lettera “senza specchio”, identifica un corpo macchina di dimensioni inferiori a quelle delle reflex tradizionali, con collocazione diretta dell’obiettivo davanti al piano focale / sensore di ac-
Nonostante questo, nella considerazione latente di molti conservatori intransigenti, severi e inflessibili -che a sentir loro tutelerebbero fantomatiche e improbabili “purezze” (diamine, quante/troppe virgolette in queste righe; ahinoi, tutte necessarie)-, l’assenza è, invece, mancanza, con quanto ne potrebbe conseguire a titolo esclusivamente teorico. Così che, nel pensare comune, si è fatta strada una convinzione trasversale, quanto inesatta e ingiusta, che stabilisce una graduatoria di valori e non valori: certe applicazioni nobili della fotografia, in odore “professionale”, non sarebbero alla portata e misura delle Mirrorless, per l’appunto conteggiate in una successione/classifica inferiore alla reflex. Sia chiaro che, come sempre facciamo, neppure qui intendiamo prendere alcuna parte a discapito di altre. Allo stesso tempo, prendiamo le distanze dall’affermazione (sentita!) secondo la quale qualsivoglia “assenza” è soltanto “mancanza” di ciò che dovrebbe esserci: infatti, siamo consapevoli quanto sia gradito quel “less” nella combinazione con “top” (alto / su), da cui,
Conteggiata come prima Mirrorless medio formato, l’Hasselblad X1D fa i propri conti anche (e, forse, soprattutto) con il sistema fotografico di riferimento. Così che, scarta a lato l’ipotesi professionale complessiva, per la quale si segnalano le Hasselblad H6D, da cinquanta e cento Megapixel, e propone un innovativo modo di affrontare e svolgere la fotografia professionale dei nostri giorni.
PROFESSIONALI quisizione di immagini. Diciamo: alla maniera degli apparecchi a telemetro, di minimo tiraggio al piano focale, con mirino ottico esterno di simulazione. Ancora a conseguenza, la linea di obiettivi (e accessori, perfino) si allunga su queste dimensioni ridotte, contribuendo a propria volta a dotazioni fotografiche sistematicamente più confortevoli di quelle reflex, anche a parità di equipaggiamento. Insomma, quel “less” della sigla identificatoria, comunemente adottata (in vece dell’incomprensibile CSC - Compact System Camera, buona soltanto per l’ufficialità dei capitolati commerciali), non sta tanto a significare una “mancanza”, ma una “assenza” congeniale e strategica... alla quale conseguono soprattutto opzioni operative positive e favorevoli.
per l’appunto, “topless”, dei locali nei quali le cameriere sono senza reggiseno e si mostrano in una nudità benaccetta (per quanto, politicamente scorretta). Per cui, come sempre, non si tratta tanto di sposare una visione, piuttosto di un’altra; quanto, più proficuamente, di osservare l’offerta tecnico-commerciale della fotografia, traendone propri benefici operativi personali: all’interno di tante proposte, e senza alcuna soluzione di continuità, ci si rivolga a quelle che meglio consentono di affrontare e svolgere la propria creatività applicata. Tutto qui, nulla di più, nulla di diverso. Ovvero, nelle cadenze del mercato fotografico attuale, non esiste alcune graduatoria plausibile, ma si manifestano diverse interpretazioni da mettere a buon frutto: le Mirrorless, alle quali stiamo per approdare, in appro-
(centro pagina) L’interpretazione tecnica in configurazione Mirrorless prevede l’assenza di specchio reflex, con sensore collocato in prossimità dell’obiettivo di ripresa (nello specifico, Fujifilm GFX 50S). Questa assenza definisce dimensioni e pesi ridotti, con conseguente praticità e agilità di utilizzo: al giorno d’oggi, anche in intenzione professionale.
35
Assolutamente professionali sono le intenzioni della Fujifilm X-T2, evoluzione consequenziale dell’originaria X-T1. Di fatto, sono assolte le attualità della fotografia dei nostri giorni, fino alla registrazione video 4K.
L’aspetto formale delle Mirrorless di vertice Panasonic Lumix DMC-G80 e G85 riprende la costruzione reflex classica, con pentaprisma evidente. Possiamo ipotizzare che in questo modo si introduca un rapporto commerciale diretto con il pubblico potenziale. Ovviamente, pensiamo a quanto sia discriminante il dialogo presso il punto vendita, che stabilisce quella confortevole conoscenza che, giorno dopo giorno, edifica il pensiero comune, che rende attivo l’incontro di visioni ed esperienze.
36
fondimento, così come le reflex, così come certe configurazioni a obiettivo fisso (per lo più grandangolare, con visioni equivalenti ai 35mm e 28mm della fotografia 24x36mm, inviolabile parametro di riferimento) svolgono ciascuna il proprio compito. Sta poi all’intenzione dell’utilizzatore, a volte in veste di autore, declinare a proprio modo e secondo proprie intenzioni.
MIRRORLESS... OGGI Se vogliamo trovare conferma al fatto che, contrariamente ad altre opinioni al proposito, la configurazione fotografica Mirrorless sia autenticamente paritetica con le versatilità di utilizzo dei sistemi reflex, qualsiasi questi siano, possiamo andare a leggere la qualità e quantità dell’attuale offerta tecnico-commerciale della fotografia dei nostri giorni. Quindi, ancora prima di scomodare interpretazioni di profilo più che alto, non confrontabili staticamente alle reflex di analogo indirizzo (anticipiamo: Hasselblad X1D, Leica SL e Fujifilm GFX 50S), rimaniamo in incontro orizzontale. Assolutamente professionali sono le intenzioni della Fujifilm X-T2, evoluzione consequenziale dell’originaria X-T1 di consistente apprezzamento e successo commerciale. Ne abbiamo ampiamente riferito lo scorso ottobre, peraltro in allungo sul portfolio di Angelo Ferrillo, X-Ambassador, certificandone la vocazione inviolabilmente professionale... per l’appunto. In questo senso, per quanto l’intero comparto Fujifilm X proponga e offra soprattutto configurazioni Mirrorless di considerevole efficienza, valore e funzionalità, che -a propria volta- completano l’indirizzo stabilito dagli affascinanti apparecchi
simil-telemetro di nobile genìa (soprattutto, Fujifilm X100T, a obiettivo grandangolare fisso, 35mm equivalente, e sistema X-Pro2, evoluzione della configurazione primigenia X-Pro1), la recente Fujifilm X-T2 è una dotazione tecnica che accoglie, accompagna e risolve sostanziose esigenze e necessità della fotografia professionale, magari a partire da un riferimento sostanziosamente assoluto: pensiamo alla street photography, territorio entro il quale agiscono avvincenti e convincenti autori. In questo senso, sono da sottolineare soprattutto quelle doti di massima operabilità pratica, che si sposano con l’efficacia e qualità delle prestazioni. In parallelo, poi, non si può ignorare come e quanto la Fujifilm X-T2 assolva l’attualità della fotografia dei nostri giorni, supportando anche la registrazione video 4K, peraltro arricchita dalla modalità “Simulazione Pellicola”, propria e caratteristica della ripresa fotografia convinta e consapevole, che può essere applicata anche alla registrazione di filmati di alta qualità formale. Analogamente in considerazioni rivolte e indirizzate anche alla fotografia professionale, la gamma Panasonic si distribuisce per passi cadenzati, magari riferendoci prima di altro alle Lumix DMC-G80 e DMC-G85, presentate alla scorsa Photokina 2016, con aspetto formale che riprende la costruzione reflex classica, con pentaprisma evidente. E, poi, ancora, si afferma la linea Lumix DMC-GX8, che offre prestazioni e caratteristiche di profilo alto: dal sensore di acquisizione di immagini da 20,3 Megapixel alla stabilizzazione di immagine, alla registrazione video 4K. Il tutto con contorno di consistente sistema ottico che scandisce passi cadenzati, in focale fissa e variazione zoom, ivi compresi i disegni
realizzati in collaborazione con Leica. E altro tanto, in una cadenza operativa capace di affrontare e risolvere sostanziose esigenze fotografiche. Per certi versi, l’intenzione tecnico-commerciale di Sony è diversa: frequenta e propone con uguale indirizzo sia la costruzione reflex, fino all’α99 II di vertice, sia la configurazione Mirrorless in proposito professionale. Tra tanto e differenziato, una considerazione specifica per la Sony α7R II, TIPA Award 2016 di categoria (per l’appunto, Mirrorless CSC Professional), che «dispone di un sensore 42,4 Megapixel full frame Exmor RTM Cmos alloggiato all’interno di un corpo pieno in lega di magnesio», come recita la motivazione di assegnazione del prestigioso premio. Ancora: «È dotata di un sistema AF ibrido con trecentonovantanove punti di rilevamento con rilevazione di fase e venticinque punti che permettono la ripresa fino a cinque fotogrammi al secondo. La α7R II è in grado di fornire il video 4K e la registrazione e Full HD (1080p) in NTSC o PAL, utilizzando l’elevato bit-rate formato XAVC S. Offre controlli colore e gamma completamente personalizzabili, tra i quali lo stesso log2 S e le curve S-log3 Gamma disponibili nella fascia alta delle telecamere cinema Sony. La gamma di sensibilità è estesa da 100 a 25.600 Iso equivalenti, estendibile a 50 e 102.400 Iso equivalenti».
MIRRORLESS... CON REFLEX Per certi versi, tutti legittimi e plausibili, oltre che condivisibili, il ragionamento tecnico-commerciale dei due marchi di vertice, Canon e Nikon (per non chiudere gli occhi di fronte alla realtà quotidiana), è adeguatamente diverso. Nello specifico, le rispettive con-
figurazioni Mirrorless non interferiscono con il tragitto professionale dei relativi sistemi reflex di vertice. Così che, sia la gamma Canon Eos M (nei passi M10, M5 e M3), sia il sistema Nikon 1 (al ritmo di J1, V3 e AW1) sono da interpretare come prolungamento in avanti, oltre che in su, delle configurazioni fotografiche compatte (di un altro tempo), che hanno dovuto cedere all’incalzare degli smartphone. Dunque, se volessimo o dovessimo rintracciare un’origine al pensiero Mirrorless subordinato all’efficacia reflex, in una graduatoria/classifica priva di fondamento oggettivo, dalla quale siamo partiti, dovremmo riferirci proprio a questo: all’effettiva scansione di intenzioni dei sistemi fotografici Canon e Nikon, nel proprio insieme e complesso, con tutti i relativi pesi sul pensiero generale. E, in effetti, questa scala (di valori) è in qualche misura perfino ragionevole e verosimile, se si prendono in considerazione soltanto le doti Mirrorless di compattezza e leggerezza, senza tener conto delle loro interpretazioni di profilo alto, che mettono a frutto le proprie prerogative, declinandole verso prestazioni professionali. E qui, e ora, una valutazione sovrastante: molto di quanto accade in assoluto, e dunque altrettanto di quanto accade in fotografia, dipende in consistente misura dalle consuetudini e dalle parole espresse dalle rispettive filiere. Per cui, in fotografia, va tenuto conto del rapporto continuo e costante che gli utilizzatori potenziali (i clienti) coltivano attraverso i punti vendita di riferimento (i negozianti). Quindi, sta ai negozianti contribuire a quella confortevole conoscenza che, giorno dopo giorno, istante dopo istante, edifica il pensiero comune, che rende attivo il dialogo e l’incontro di visioni ed esperienze.
TIPA Award 2016 di categoria (per l’appunto, Mirrorless CSC Professional), la versatile Sony α7R II scandisce il sostanzioso passo tecnico-commerciale di un sistema fotografico cadenzato con avvincenti e convincenti configurazioni professionali, fino alla reflex di vertice Sony α99 II e alla relativa gamma di obiettivi intercambiabili, alcuni dei quali in disegno Carl Zeiss.
(centro pagina) Non esplicitamente professionale, ma tale per caratteristiche e prestazioni di alto profilo, a partire dal sensore di acquisizione di immagini da 20,3 Megapixel e dalla stabilizzazione di immagine, la Panasonic Lumix DMC-GX8 vanta un differenziato sistema ottico, che comprende anche disegni realizzati in collaborazione con Leica (attualità di un dualismo tecnico-commerciale di radici profonde: contrapposizione Leica-Zeiss del passato; contrapposizione Leica-con-Panasonic e Zeiss-con-Sony del presente).
37
Ovviamente, per motivi intuibili, prima che comprensibili e legittimi, sia Nikon sia Canon non frequentano la configurazione tecnica Mirrorless professionale, che, nei rispettivi sistemi, è assolta e risolta da reflex di vertice. Così che, in questa scala di valori, la gamma Canon Eos M (nei passi M3, M5 e M10 -qui accanto-) e il sistema Nikon 1 (al ritmo di J1, V3 e AW1 -in alto-) sono da interpretare come prolungamento in avanti, oltre che in su, delle configurazioni fotografiche compatte (di un altro tempo), che hanno ceduto all’incalzare degli smartphone. Ciò a dire che le Mirrorless Canon e Nikon sottolineano soprattutto le proprie doti di compattezza e leggerezza, senza peraltro allungarsi su interpretazioni di profilo alto.
Se da una parte, meno discriminante di quanto si possa e voglia credere, il costo di vendita/acquisto ha un certo peso su ogni altra considerazione, da altra parte, più selettiva di quanto si possa e voglia credere, è la competenza dei colloqui che può stabilire linee demarcatorie forti e inviolabili, sulle quali edificare quella fidelizzazione al prodotto e all’esercizio che determina stabilità e crescite. Non certo in fondo, ma soprattutto in origine, bisogna sempre tenere conto che il momento di vendita/acquisto, per quanto finale in considerazioni amministrative e commerciali, è iniziale di un processo creativo da parte del cliente. Da parte dell’utilizzatore.
MIRRORLESS... DI VERTICE
(centro pagina) Presentata l’autunno 2015 (con approfondimento tecnico dettagliato, a cura di Stefano Zarpellon, in FOTOgraphia del febbraio 2016), la Leica SL offre e propone una configurazione Mirrorless inderogabilmente professionale: disposizione principale e primaria della gamma di apparecchi fotografici Leica... da cento anni a questa parte!
38
Nell’ambito Mirrorless, un discorso a parte va riservato a una trilogia di configurazioni fotografiche che non ammettono interpretazioni soggettive e parziali. Ciascuna per se stessa e tutte e tre insieme, Hasselblad X1D, Leica SL e Fujifilm GFX 50S sono dotazioni professionali senza dubbi, né equivoci. Delle prime due, abbiamo già riferito in rispettive cronache: lo scorso novembre 2016 e il precedente febbraio, sempre 2016, con valutazioni sul campo espresse dall’autorevole Stefano Zarpellon. La terza, Fujifilm GFX 50S, è stata annunciata nel corso della Photokina 2016, a metà dello scorso settembre, e si attende la sua effettiva presentazione e successiva commercializzazione: ma già sappiamo di cosa si tratta e del profilo che impone. Al solito, con ordine... alternato. In un certo senso e modo complementare al sistema reflex H6D di vertice, in due configurazioni, da cinquanta e cento Megapixel, l’Hasselblad X1D ha
avviato un nuovo comparto tecnico-commerciale: Mirrorless medio formato, con sensore di dimensioni generose e prestazioni avvincenti. Si tratta dello stesso sensore della reflex H6D-50c, del quale vanno sottolineati i parametri operativi: sensore Cmos da 50 Megapixel (8272x6200 pixel), con filtro IR, dimensioni fisiche 43,8x32,9mm, per riprese fotografiche (Raw, 65MB; Tiff, 154MB) e Video HD (1920x1080p). Nella propria configurazione Mirrorless, la X1D può essere definita compatta, a partire dai suoi soli settecentoventicinque grammi (725g), che è metà del peso delle reflex più diffuse. Quindi, si presenta con una livrea che ripropone in termini moderni e contemporanei disegni già incontrati nel sistema Hasselblad senza tempo. Chi ha questa memoria, chi ha questa conoscenza, chi conosce anche il passato tecnologico... non può non tornare con il proprio pensiero alla genìa delle grandangolari SWC, con Carl Zeiss Biogon 38mm f/4,5 fisso. Ideata per gli appassionati di fotografia, siano professionisti o non professionisti, la X1D -che nasce con i primi due obiettivi del sistema ottico dedicato XCD, nelle focali 45mm f/3,5 e 90mm f/3,2- declina l’immediatezza della ripresa a mano libera, con mirino portato all’altezza dell’occhio (stile reflex e telemetro, tanto per intenderci), con il rigore formale del sensore medio formato di acquisizione digitale di immagini. Soprattutto con l’obiettivo XCD 45mm f/3,5, questa combinazione, questo connubio, è a dir poco stupefacente, tanto da dischiudere la porta a un innovativo modo di affrontare, avvicinare e svolgere la fotografia dei nostri giorni, in acquisizione digitale di immagini.
Certo, lo sappiamo bene, e ne siamo consapevoli: ai tempi di fotografia chimica, di pellicola fotosensibile, non sono certo mancate configurazioni fotografiche medio formato a mirino esterno, sia con messa a fuoco a telemetro, sia autofocus, sia a obiettivi intercambiabili, sia a obiettivo fisso. Ne abbiamo avute tante. Però, la personalità dell’Hasselblad X1D è altro, e forse addirittura di più, e forse di più e meglio, perché si esprime in tempi nei quali la tecnologia digitale presenta e offre anche (ma non solo!) retrogusti amari di improvvisazione, disattenzione e altro tanto ancora. Così, in riconoscimento, una medio formato digitale compatta e portatile, persino user-friendly (si dice proprio così), a obiettivi intercambiabili, con sensore da cinquanta Megapixel, avvia un nuovo percorso, indica un nuovo tragitto, coinvolge / può coinvolgere autori di raffinata capacità osservativa e visuale. Il tutto, sia per fotografia, sia in video HD. In un certo modo, molto di questo appena annotato calza anche a misura della imminente Fujifilm GFX 50S, che a propria volta si inserisce nel nuovo comparto Mirrorless medio formato: sensore di acquisizione 43,8x32,9mm da 51,4 Megapixel. Se è necessario rilevarlo, la livrea Fujifilm è più vicina all’identificazione reflex di quanto lo sia quella Hasselblad. Però, ognuna riprende dal proprio sistema, piuttosto che dalla propria storia: Hasselblad, dalla SWC di antica memoria, appena evocata; Fujifilm, dalla fortunata e apprezzata genìa attuale X-T2. Sempre in annuncio e anticipo, il sistema GFX sta per nascere con accompagnamento di sei obiettivi Fujinon GF: Standard Prime Lens GF 63mm f/2,8 R
(con angolo di campo equivalente al 50mm sul formato 24x36mm); zoom grandangolare standard GF 32-64mm f/4 R LM WR (25-51mm equivalente); medio tele macro GF 120mm f/4 Macro R LM OIS WR (95mm equivalente, con rapporto di riproduzione limite 1:0,5); medio tele luminoso GF 110mm f/2 R LM WR (87mm equivalente); grandangolare spinto GF 23mm f/4 R LM WR (18mm equivalente); grandangolare moderato GF 45mm f/2,8 R WR (35mm equivalente). Presentata nell’autunno 2015, la nuova e innovativa Leica SL si offre e propone come Mirrorless a indirizzo professionale: disposizione principale e primaria della gamma di apparecchi fotografici Leica... da cento anni a questa parte! Per la sua analisi tecnica dettagliata, rimandiamo ancora alle prove sul campo realizzate e commentate da Stefano Zarpellon (in FOTOgraphia, del febbraio 2016). Per altre valutazioni, approdiamo a una osservazione personale, che non si esaurisce in alcun individualismo. Oltre tanti altri valori propri, paradossalmente, l’attuale interpretazione fotografica di Leica stabilisce termini di sostanziosi primati di prestazioni (scanditi da una transizione dalla pellicola alla tecnologia digitale sicuramente complessa, ma oggi superlativa). Non ci si limiti alla consistenza della SL, ma si consideri l’intera offerta tecnico-commerciale, che si sposa con proposizioni mercantili di personalità agguerrita. Insomma, a cento anni dalla propria preistoria, Leica è una delle produzioni fotografiche che ancora oggi interpretano con coerenza e fermezza la propria individualità, illuminando l’intero comparto. Con tutto quanto questo possa significare. ❖
In ripetizione e conferma da quanto annotato alle pagine 34 e 35, in apertura di intervento: l’Hasselblad X1D fa i propri conti anche (e, forse, soprattutto) con il sistema fotografico di riferimento; la Fujifilm GFX 50S si offre e propone come autentico sistema fotografico indirizzato a tutti gli utilizzi propri e caratteristici della fotografia professionale. Nell’ambito delle rispettive proposte, le due Mirrorless medio formato completano le singole cadenze tecnico-commerciali.
39
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
marzo 2017
SIMONE SBARAGLIA: PORTRAITS. STRAORDINARIE FOTOGRAFIE DI NATURA. Che arricchiscono
A cura dell’Associazione Obiettivo Camera, quattro fotografi suoi soci fondatori, Gian Paolo Barbieri, Maurizio Galimberti, Giovanni Gastel e Piero Gemelli, ai quali si sono accostati altri due fotografi coinvolti per l’occasione, Maria Vittoria Backhaus e Simone Nervi, hanno interpretato alla propria maniera la cadenza dei sessant’anni del calzaturificio Fragiacomo, una delle eccellenze nazionali. Sei still life di pregio e valore, in ordine... progressivo
SEI DECADI N di Angelo Galantini
Nello specifico, quattro fotografi soci fondatori, Gian Paolo Barbieri, Maurizio Galimberti, Giovanni Gastel e Piero Gemelli, ai quali si sono accostati altri due fotografi coinvolti per l’occasione, Maria Vittoria Backhaus e Simone Nervi, hanno interpretato alla propria maniera le decadi dei sessant’anni. Sei still life di pregio e valore, in questo ordine: Gian Paolo Barbieri, dagli anni Cinquanta ai Sessanta; Giovanni Gastel, gli anni Settanta; Piero Gemelli, gli anni Ottanta; Maurizio Galimberti, gli anni Novanta; Maria Vittoria Backhaus, Duemila; Simone Nervi, la contemporaneità al 2016. Presentati in ingrandimenti di generose dimensioni alla serata celebrativa di metà dicembre, i sei still life sono stati pubblicati nella monografia Fragiacomo. Timeless Italian Luxury, che racconta di questa sostanziosa storia, che appartiene sia al costume sia all’industria nazionale. A cura di Giusi Ferré e Federico Poletti, l’edizione si avvale di un sostanzioso apparato di testi, è arricchito da illustrazioni di Fabrizio Sclavi e completato da fotografie di calzature storiche, realizzate da Stefano Zarpellon (Studio Gian Paolo Barbieri).
eocostituita, l’Associazione Obiettivo Camera, con sede a Milano, si propone di promuovere e diffondere la fotografia in tutte le proprie peculiarità e personalità, sia in senso storico, sia in attualità di espressione [riquadro a pagina 49]. Nell’anno di rodaggio, diciamola così, lo scorso 2016, utile e necessario per stabilire princìpi e prendere misure, sono state avviate e svolte iniziative anticipatrici delle capacità di visione e osservazione, prima che organizzatrici. In particolare, si segnala l’avvio del progetto di mostre personali allestite presso lo Spazio Kryptos, di Milano, che hanno proposto una messa in scena originale, sia per contenuti, sia per forma: progetti di fotografi professionisti -e l’origine necessariamente di mestiere non è stata discriminante, né lo sarà in futuro-, completati dalla presentazione dell’autore, con ulteriori saggi della sua fotografia. A completamento, scorre in loop una intervista video durante la quale l’autore affronta e approfondisce la propria azione creativa. Ancora: la serata inaugurale è concepita come avvincente evento, con combinazioni formali complementari e trasmissione in diretta streaming. Così che, di fatto, non ci sono accavallaTimeless Italian Luxury, menti con altra fotografia in forma di mostra, Fragiacomo. a cura di Giusi Ferré e Federico Poletti; ma è stato elaborato un programma vivace, premessa di Colleen Hill; che ha modo di dare risalto agli specifici progetti saggi di Enrico Maria Albamonte, autoriali presentati e proposti... in forma ade- Flavia Colli Franzone, Fabiana Giacomotti, Giusi Ferré, Giorgia Musci, guatamente innovativa. Federico Poletti e Clara Tosi Pamphili; Dallo scorso autunno, sono stati presentati Ri- illustrazioni di Fabrizio Sclavi; tratti di Maurizio Galimberti, in mosaici originali fotografie di calzature storiche, di tessere polaroid, il progetto Followers, di Marco realizzate da Stefano Zarpellon Onofri, e Sulle strade di New York, dalla street (Studio Gian Paolo Barbieri); photography di Angelo Ferrillo. A seguire, il pro- fotografie celebrative delle decadi Gian Paolo Barbieri (dagli anni Cinquanta gramma 2017, che esordisce il Primo febbraio diai Sessanta), Giovanni Gastel (anni Settanta), con Ri.Tratto, di Mauro Balletti. Piero Gemelli (anni Ottanta),
FRAGIACOMO SESSANTA Oltre a questo, e altre iniziative svolte (incontri, speech e partecipazioni a programmi fotografici), l’Associazione Obiettivo Camera è stata partner di Fragiacomo, storico produttore di calzature di alta qualità, tra le firme di prestigio dell’eccellenza italiana, nella celebrazione di sessant’anni di attività, dal 1956 di origine.
42
Maurizio Galimberti (anni Novanta), Maria Vittoria Backhaus (Duemila) e Simone Nervi (la contemporaneità al 2016); Silvana Editoriale, 2016; bilingue, italiano e inglese; 250 illustrazioni; 336 pagine 23x30cm, cartonato; in edizione standard 49,00 euro; in edizione limitata, con stampa originale di Fabrizio Sclavi 120,00 euro, in esclusiva presso la Libreria Armani, di Milano.
PASSO A PASSO, PER SEI In ogni caso, storicità Fragiacomo a parte, che appartiene a qualcosa d’altro, piuttosto che compresa -nella propria convergenza e concomitanza fotografica qui presentata e sottolineata-, questi sei still life scandiscono passi autoriali di spessore e consistenza. Ciascun fotografo, ciascun autore, ha interpretato la parte richiesta, offrendo al contempo molto di se stesso, della propria personalità, del proprio agire nella creatività visiva. È il caso di approfondire. Straordinario attore della moda, con radici personali che affondano indietro nei decenni, Gian Paolo Barbieri è noto e riconosciuto anche per altri aspetti dell’interpretazione fotografica. Celebri e celebrate sono le sue escursioni etniche, semplifichiamola così, verso le cadenze di vita nei mari del Sud, visualizzate in una modernità e attualità di pensiero (fotografico) rispettoso della Storia. Da cui, le esemplari monografie, che da Silent Portraits (Seychelles), del 1984, si sono allungate (almeno) su Tahiti Tattoos (1989 e 1998), Madagascar (1994 e 1997) e Equator (1999). (continua a pagina 49)
43
GIAN PAOLO BARBIERI: FRAGIACOMO,
DAGLI ANNI
CINQUANTA AI SESSANTA (COURTESY ASSOCIAZIONE OBIETTIVO CAMERA)
45
PIERO GEMELLI: FRAGIACOMO,
GLI ANNI
OTTANTA (COURTESY ASSOCIAZIONE OBIETTIVO CAMERA)
GIOVANNI GASTEL: FRAGIACOMO, GLI ANNI
SETTANTA (COURTESY ASSOCIAZIONE OBIETTIVO CAMERA)
46
MARIA VITTORIA BACKHAUS: FRAGIACOMO, DUEMILA (COURTESY ASSOCIAZIONE OBIETTIVO CAMERA)
MAURIZIO GALIMBERTI: FRAGIACOMO,
GLI ANNI
NOVANTA (COURTESY ASSOCIAZIONE OBIETTIVO CAMERA)
2016 (COURTESY ASSOCIAZIONE OBIETTIVO CAMERA) LA CONTEMPORANEITÀ AL
SIMONE NERVI: FRAGIACOMO,
OBIETTIVO CAMERA
L’Associazione culturale Obiettivo Camera (www.obiettivocamera.it) è stata creata da professionisti del settore, che esprimono la volontà di preservare la Storia della Fotografia in un’epoca che -con le continue evoluzioni tecnologiche e conseguenti trasformazioni sociali- rischia di perdere la propria memoria. In particolare, l’Associazione si propone di valorizzare e promuovere la cultura fotografica, in tutte le proprie espressioni: dall’impulso verso i grandi autori italiani (soprattutto), che si sono espressi nel corso degli anni precedenti, all’individuazione e sostegno di fotografi emergenti (con particolare riguardo nei confronti dei giovani), meritevoli di considerazione. Così agendo, l’Associazione stabilisce riferimenti chiari e autorevoli per il pubblico fotografico. A questo scopo, sono stati costituiti un Comitato Scientifico (garante dei requisiti di qualità e qualifica) e un Team Operativo, che organizza e svolge manifestazioni tangibili. L’attenzione dell’Associazione non si pone limiti, né confini di visione, osservazione e riflessione: dal linguaggio fotografico alla sua socialità, dall’evoluzione tecnologica degli strumenti alla loro attualità, dalla Storia della Fotografia alla contemporaneità e alle ipotesi futuribili, da grandi temi fondanti ad aspetti paralleli
(continua da pagina 42) Ancora, in tempi più recenti, Gian Paolo Barbieri ha rivelato altre due consistenti frequentazioni della fotografia: dal passo esplicitamente erotico di Dark Memories e Skin [rispettivamente, in FOTO graphia del giugno 2013 e ottobre 2015] all’armonia di still life di fiori [FOTOgraphia, marzo 2015]. Per certi versi, in attualità di intenti, la sua visualizzazione Fragiacomo dagli anni Cinquanta ai Sessanta riprende in qualche modo e misura lo stilema espressivo dei fiori, in una interpretazione fotografica edificata sull’azione di una luce doppia, in raffigurazione e rappresentazione intenzionale. Per la visualizzazione degli anni Settanta del calzaturificio Fragiacomo, Giovanni Gastel è tornato alla sua origine fotografica, quando e come esordì con avvincenti e convincenti still life: come ha scandito anche la recente, imponente retrospettiva sui primi quaranta anni di attività, allestita al Palazzo della Ragione, di Milano. In una ovvia e coerente interpretazione attuale, lo still life Fragiacomo di Giovanni Gastel cadenza una texture ritmata con scarpa dorata che si alterna a lingotti, in una composizione finale geometricamente avvicendata, su tre file di due scarpe e quattro lingotti ciascuna... in cambi vicendevoli di posizione. Altrettanto va rilevato per gli anni Ottanta, che Piero Gemelli ha declinato in una combinazione esplicita della sua fotografia professionale, sempre in equilibrio compositivo tra pregevoli still life carichi di tensione e colte raffigurazioni femminili. Anche qui, e a certificazione di percorso individuale, un richiamo recente: alla mostra di Vintage Prints, proposta alla Still Gallery, di Milano, fino allo scorso sei dicembre. Dunque, scarpa indossata, in una coincidenza ed evocazione di stile insieme con un elemento di design che identifica e definisce la stessa decade: intelligenza e capacità di un fotografo con solida formazione in architettura... forse. Avanti verso gli anni Novanta, per i quali l’Instant Artist Maurizio Galimberti ha declinato un lieve bianconero a sviluppo immediato. Per l’occasione, invece di uno dei mosaici per i quali è celebre e celebrato, l’autore ha optato per un proprio allineamento allo spirito complessivo dello still life. Con un apparecchio particolare nella storia Polaroid, Maurizio Galimberti ha inquadrato uno spazio/composizione di dimensioni analoghe a quelle previste dal capitolato tecnico originario. Con la Polaroid Big Shot, che vanta escursioni d’arte tra le mani di Andy Warhol, sopra tutti, ha convertito in delicato
e di costume. Le qualifiche dei soci fondatori garantiscono sia radici ben seminate nel territorio storico della fotografia, sia capacità esplorative attuali e dinamiche. Tra tanto altro, che appartiene alla somma (algebrica, ma non soltanto) delle singole esperienze e visioni, l’Associazione è solidamente edificata su una biblioteca mirata, ricca di oltre diecimila titoli fotografici, sul proposito concreto di collaborare con e affiancarsi a altre istituzioni fotografiche esistenti (Associazioni, Circoli fotografici, operatori tecnici e culturali) e sulla consapevolezza che il patrimonio della fotografia italiana sia tanto vasto e valente da consentire una eterogeneità di proposte innovative a favore della cultura della stessa fotografia. Soci fondatori: Maurizio Rebuzzini (presidente), Gian Paolo Barbieri (presidente onorario), Luca Forti (vicepresidente), Filippo Rebuzzini (segretario), Beppe Bolchi, Giancarlo D’Emilio, Pietro Della Lucia, Maurizio Galimberti, Giovanni Gastel, Piero Gemelli, Marco Lamberto, Emmanuele Randazzo, Orazio Spoto, Roberto Tomesani. Comitato Scientifico: Beppe Bolchi, Mariateresa Cerretelli, Emmanuele Randazzo, Maurizio Rebuzzini, Roberto Tomesani.
still life ciò che, ai propri tempi, fu tecnicamente indirizzato al ritratto fotografico, con tanto di distanza di inquadratura rigidamente preordinata. In questo senso, una sottolineatura è d’obbligo: puoi trasgredire, se e quando conosci le regole. Immancabilmente. Un balzo ancora, verso il Duemila, per il quale la brava e attenta e disciplinata Maria Vittoria Backhaus -straordinaria interprete dell’eleganza, sempre intesa ed espressa con lievità e determinazione creativa- ha composto uno dei suoi teatrini caratteristici, nel quale la calzatura è stata composta all’interno di una situazione edile, identifichiamola così, che le dà assoluto risalto e protagonismo. A questo proposito, ci sono considerazioni da esprimere in merito allo still life fotografico, che affonda le proprie radici compositive indietro nei decenni e traccia sempre e comunque spirito e senso del tempo di propria realizzazione. Dopo cinque autori di fama acquisita nel corso di carriere pluridecennali, autentici veterani della fotografia professionale (a partire dai rispettivi diritti/doveri d’anagrafe), l’ultimo still life della serie dei sei soggetti celebrativi e identificativi di sessant’anni di calzature Fragiacomo è stato affidato al giovane Simone Nervi, che ha al proprio attivo una consistente capacità creativa, spesso declinata in stupefacenti e sbalorditive post produzioni [FOTOgraphia, febbraio 2016]. In questo caso, però, sono stati invertiti i termini dell’equazione fotografica, per un risultato che non cambia: raggiunge l’osservatore con convincente emozione. Dunque, calzatura attuale, in duplice versione -scarpa e stivaletto- inquadrata e composta con lievità, in profilo esplicativo su fondo nero, che dà risalto alla brillantezza delle vivaci cromie in accostamento di intenti. Sulla già menzionata monografia Fragiacomo. Timeless Italian Luxury, i due scatti autonomi di Simone Nervi sono stati accostati, uno sotto l’altro, oppure uno sopra l’altro, fa lo stesso, in un’unica visione, legittimamente certificatrice dell’attuale offerta commerciale di alto profilo. Quindi, ancora in inversione di termini, questa volta rispetto le personalità dei più acclamati fotografi di lunga e luminosa carriera, la scarpa dello still life di Simone Nervi illustra la copertina dell’edizione standard del libro. Bel successo personale per il giovane fotografo. In chiusura, e per quanto riguarda la Fotografia, un sostanzioso esempio di applicazione... con coordinazione dell’Associazione Obiettivo Camera, al suo sostanziale esordio pubblico. Con clamore. ❖
49
TAU Visual si presenta
Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.
Diventare Socio TAU Visual
Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.
Un regalo utile per i lettori di
.
Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica
Per decenni e decenni, lo stabilimento chimico Ferrania è stato una delle eccellenze dell’industria italiana, che ha proiettato nel mondo l’industria fotografica nazionale. Tutto si è concluso in relazione all’avvicendamento tecnologico che ha sostanzialmente e sostanziosamente pensionato la pellicola fotosensibile. L’ammirevole Andrea Biscosi ha agito su questa condizione, andando a registrare con amore ciò che ancora resta, ciò che sta subendo il prestabilito incedere del Tempo, che lentamente, ma inesorabilmente, sta cancellando quanto è esistito
... E NON PIÙ di Antonio Bordoni
S
volte senza ritorno: quante tante ne ha vissute la fotografia, nella sua pur breve Storia, soprattutto quando la si confronta con altre radici millenarie. Tra tutte queste, una deve essere considerata nel momento nel quale si avvicina l’ottimo progetto fotografico dell’attento Andrea Biscosi, che è penetrato nell’area dismessa della fabbrica di pellicole Ferrania, tra le pareti dello stabilimento in provincia di Savona, che deve il proprio nome al comune di locazione.
Queste fotografie in concentrato bianconero si esprimono in base a quell’ordine di contenuto stabilito dal 1888, con la nascita dell’originaria Box Kodak, dalla quale siamo soliti conteggiare una nutrita serie e qualità e quantità di origini. Una sopra tutte: con l’implicita possibilità di osservare la vita nel proprio svolgersi, dopo i primi decenni di sostanziosa autoreferenzialità (da e con 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini), da quel momento, la fotografia smette di essere considerata soltanto per l’apparenza del proprio esercizio, per anteporre anche il proprio soggetto.
51
Ciò rilevato, queste fotografie di Andrea Biscosi sono autenticamente tali, Fotografie, perfino quando e per quanto privilegiano il soggetto raffigurato al gesto creativo di composizione. In cosa consiste la potente e determinante personalità inviolabilmente fotografica del progetto? Nei termini formali della sua esecuzione: inquadratura, composizione, alternanza di luci e contrasti, messa a fuoco e sfocatura di contorno e accompagnamento. Dunque, e per l’appunto, dall’essere prima di tutto linguaggio fotografico e poi, per intenzione d’autore, racconto. Risolto il prologo necessario, e non soltanto sufficiente, si può passare alla riflessione sul progetto, in condivisione di intenti e apprezzamento di svolgimento.
52
Ovviamente, lo stabilimento chimico Ferrania, che per decenni è stato una delle eccellenze dell’industria italiana, stabilendo altresì altrettanta preminenza e sovranità internazionale dell’industria fotografica nazionale, in proiezione mondiale, ha sacrificato la propria ragione d’essere all’incalzare tecnologico della fotografia. Tanto che, per quanto siano in atto iniziative che permettano una residua limitata produzione di pellicole fotografiche, si deve declinare questa fantastica realtà all’inevitabile passato, fosse anche soltanto prossimo. Ed è su questa condizione che ha agito il talentuoso Andrea Biscosi, andando a registrare con amore (va subito rilevato) ciò che ancora resta, ciò che sta subendo il prestabilito incedere
del Tempo, che lentamente, ma inesorabilmente, sta cancellando quanto è esistito, sia in termini industriali fondamentalmente tali -macchinari, fabbricati, uffici-, sia in testimonianze di passaggi che hanno definito una vita ormai esaurita: gradini mille e mille volte calpestati, camici non più necessari, appunti persi nel tempo. Queste rovine si stanno sgretolando, e nessuno si prende la briga di abbattere e sgomberare (per rispetto alla nobile Storia?): comunque, il Tempo sta svolgendo il proprio corso, e lo si lascia fare. Da cui, percorsi disseminati di testimonianze, di emozionanti vestigia del passato. Tra i tanti approcci possibili, che la fotografia offre in una propria estensione di spettro pressoché infinita, Andrea Biscosi ne
ha applicato uno proprio. Non sappiamo nulla di concreto sul suo modo d’agire, e neppure lo vogliamo sapere (tanto che non gli abbiamo chiesto nulla). Ci basta il risultato, la somma delle fotografie che definiscono il suo racconto, che di volta in volta può essere diverso in sequenza di visualizzazione, secondo umori o necessità del momento (tra le quali, la nostra in forma di rivista). Ci basta, perché, comunque le si accostino tra loro, ognuna seguente la precedente e in anticipo sulla seguente, queste fotografie sono sempre e comunque in ordine: ovverosia, scandiscono inevitabilmente i passi narrativi di un racconto sussurrato, di un racconto che nasce dal cuore (dell’autore) per approdare alle emozioni e partecipazioni dell’osservatore.
53
Se serve, se richiesto, il paragone è presto fatto: qual è l’ordine plausibile di un mazzo di carte pronto per la distribuzione ai fini di un qualsivoglia gioco? Quello casuale che garantisce una ripartizione non geometrica, non alfabetica, non graduatoria delle singole carte. Quindi, smazziamole pure queste fotografie di Andrea Biscosi (e altre ce ne sono, oltre quelle qui pubblicate in funzione di presentazione): ogni volta che andremo a distribuirle, comporranno una sequenza lirica sempre plausibile, sempre pertinente, che dall’articolo passa al soggetto, al verbo e al complemento oggetto. La flessibilità dei singoli passi di questo progetto di Andrea Biscosi dipende da una poco comune capacità fotografica di
54
sintesi, che eleva ogni inquadratura oltre se stessa, fino alla propria partecipazione all’insieme. Come dire che nel proprio essere parte-per-il-tutto, ciascuna di queste fotografie è altresì autoconclusiva: una volta specificato il soggetto -che peraltro appare in una composizione, che fa anche tesoro di una messa a fuoco intelligentemente selettiva, con profondità di campo in sfumatura-, ogni fotografia basta a sé, ogni fotografia risolve da sola il progetto, ogni fotografia è ciò che Ferrania è stata... e non sarà più. Ogni fotografia è Storia. Qualsiasi ciò possa significare per ciascuno di noi. In questa specificità, in allineamento e allungo con e dalla gentile anima fotografica di Andrea Biscosi. ❖
CANAZEI, TRENTO
GRAND TOUR
PASSO PORDOI, TRENTO
La fotografia mobile, con smartphone e dintorni, è ciò che intendevano realizzare i Padri Fondatori, avviati verso la natura che si fa di sé medesima pittrice. A distanza di quasi centottanta anni dalle origini, applicando la propria intelligenza e delicatezza, il talentuoso Giuliano Ferrari ha composto un Grand Tour autenticamente “fotografico”: nell’ideologia, nella pratica, nella cadenza e nel risultato. Ha ricondotto la Fotografia al proprio ruolo narrativo formale, necessario per l’accostamento intimo ed emotivo alle immagini
56
di Maurizio Rebuzzini
A
MILANO
nche se può risultare difficile crederlo, soprattutto oggi, alla luce delle cronache quotidiane, c’è stato un tempo nel quale l’Italia è stata meta e destinazione di straordinarie considerazioni geografiche e culturali. Tanto che, a partire dal Diciassettesimo secolo, i giovani aristocratici guardavano all’Italia per perfezionare il proprio sapere. A lungo, con Grand Tour si è inteso un intenso viaggio nell’Europa continentale, solitamente con partenza e arrivo nella medesima città. Altrettanto solitamente, lo svolgersi del viaggio, che poteva durare qualche mese o estendersi su anni, iniziava e si concludeva in Italia. E proprio l’Italia è stata a lungo la meta privilegiata del Grand Tour.
Il richiamo più celebre si riconduce sempre a Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), uno dei più significativi intellettuali dell’Europa di fine Settecento e inizio Ottocento. Nel 1786, a trentasette anni, Goethe intraprende il suo primo viaggio in Italia, durato quasi due anni; a seguire, ci furono altri soggiorni italiani, ma sono le conoscenze acquisite in quel primo lungo itinerario che lo porteranno a scrivere Italienische Reise (per l’appunto, Viaggio in Italia), completato tra il 1813 e il 1817 e pubblicato dal 1829: esperienza di viaggio (in Italia!) indispensabile per l’alta borghesia e la nobiltà del tempo. Oggi, in un clima diverso, ma con intenzioni coincidenti, il talentuoso Giuliano Ferrari ha composto e completato un affascinante e convincente Grand Tour di stretta attualità. Consapevole sia dei più profondi richiami storici, oggi e qui appena accennati (quanto basta), e
58
Tenuto conto del sottile rapporto che lega e collega l’azione fotografica espressiva e creativa ai propri utensili, che ne condizionano e guidano l’apparenza formale, Giuliano Ferrari ha cadenzato il proprio Grand Tour al ritmo della fotografia da smartphone, per la quale il competente e influente Massimo Mussini conia l’espressione di “tempo dell’iPhoneography”. Paradossalmente, siamo allo stesso momento concordi e discordi da questa identificazione, che -comunque siamira al centro esatto del problema, della considerazione. Infatti, valutiamo questa di Giuliano Ferrari come la prima azione (a nostra conoscenza) che allunga la fotografia mobile, come spesso è identificata, sul tragitto/percorso della Storia della Fotografia. Addirittura. (continua a pagina 62)
VENEZIA
altrettanto informato riguardo precedenti fotografici contemporanei, per i quali è inevitabile richiamare il Viaggio in Italia, coordinato da Luigi Ghirri, nel 1984, l’attento autore ha realizzato il proprio Grand Tour, declinato in convinta e consapevole attualità. L’autorevole testo di Massimo Mussini, intimo conoscitore della fotografia maturata in Emilia attorno la figura maestra di Luigi Ghirri (altrove, troppo spesso richiamato a sproposito), che accompagna l’edizione libraria di Grand Tour, di Giuliano Ferrari, è profondo e qualificato: ricuce i fili latenti dell’operazione, inquadrandoli come meritano di essere considerati e riferiti. Da parte nostra, in passaggio più “giornalistico” affrontiamo un altro punto di vista, per connettere questo progetto, proposto in stampe d’arte, a una consecuzione fotografica che qui ci appare a dir poco sfavillante.
59
60
FIRENZE
AREZZO
MATERA
ORVIETO
61
BOLOGNA
REGGIO EMILIA
ROMA
ALBEROBELLO, BARI
SANTA TERESA DI GALLURA OLBIA-TEMPIO
AGRIGENTO
62
SANTA MARIA DI LEUCA, LECCE
(continua da pagina 59) Altrove e in altri momenti abbiamo già osservato come e quanto la fotografia mobile definisca un proprio ramo del grande albero della comunicazione visiva, estraniandosi dal cammino lineare avviato con le date fatidiche del 1839, di annuncio e presentazione ufficiali (sette gennaio e diciannove agosto). Con passo parallelo, questa stessa fotografia mobile è spesso meno fotografia di quanto appaia, esprimendosi più come fenomeno sociale e di costume. Invece, Giuliano Ferrari l’ha declinata secondo i canoni caratteristici della Fotografia, così come l’abbiamo sempre intesa e considerata: soprattutto, inquadratura, composizione e istante significativo. Ancora, Giuliano Ferrari ha tenuto conto dell’attualità visiva della fotografia mobile, facendola rientrare entro norme solitamente svolte da strumenti opportunamente predisposti (che, poi, sono gli stessi del suo professionismo quotidiano, del suo mestiere). Dunque, cosa rivela l’incessante sequenza delle immagini di questo convincente progetto Grand Tour ? Un sogno, un desiderio, una ipotesi, un princìpio. Secondo noi, quando pensarono alla natura che si fa di sé medesima pittrice, i Padri Fondatori vagheggiarono e desiderarono proprio la fotografia mobile, a disposizione di ognuno, in ogni istante della propria vita. Certo, la tecnologia applicata ha via via scandito tempi tecnici adeguati, ma ha sempre declinato presupposti di “semplicità”: in relazione alle rispettive interpretazioni possibili. Solo oggi, al culmine di un lungo processo, la fotografia mobile è effettivamente mezzo passivo che non interferisce nel processo produttivo e creativo. Dunque, a distanza di quasi centottanta anni, Giuliano Ferrari ha composto un Grand Tour autenticamente ottocentesco: nell’ideologia, nella pratica, nella cadenza e nel risultato. Il riferimento temporale, per mille e mille versi provocatorio, è assolutamente e totalmente declinato come valore di merito, pregio e qualità: a certificazione di uno svolgimento superlativo, che ha anteposto il cuore e la mente all’impronta fotografica. Ovverosia, con la sua straordinaria azione, Giuliano Ferrari ha ricondotto la Fotografia al proprio ruolo narrativo formale, necessario per l’accostamento intimo ed emotivo alle immagini. Qui, la Fotografia non è prevaricante, come lo è in molti altri casi (ma non ci sia disputa alcuna). Qui, la Fotografia è abilmente discosta a favore dell’intensità del contenuto. Non immagini a se stanti, in gesto atletico, ma immagini che si accodano ciascuna alle altre, in una cadenza che riempie il cuore e sollecita la mente di ognuno di noi. Sempre e comunque. Così agendo, Giuliano Ferrari ha riportato la Fotografia alla propria missione originaria: quella di anteporre i sentimenti dell’osservatore all’autoreferenzialità dell’autore. In cadenza Grand Tour. ❖
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte settembre 2016)
JOSÉ MARÍA LUPERCIO
A Alessandro Sidari, amico fraterno e fotografo eretico di molte eresie, perché ha compreso che la fotografia non vale nulla se non dice qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno!
Q
Quando la leggenda è migliore della realtà, si fotografa la leggenda! Il grande fotografo si occupa di politica perché lo ritiene giusto, anche sapendo che il proprio princìpio di amore e libertà non può prevalere. L’etica egualitaria del fotografo di strada e randagio contrasta il pregiudizio, la mediocrità, le convenienze della fotografia consumerista, e più di ogni cosa lavora alla figurazione del bene comune. Il fascino della ricchezza, della celebrazione, della sacralità -in fotografia e dappertutto- è la mortificazione dell’intelligenza, e impedisce il conseguimento della bellezza e della giustizia... è una condanna inevitabile all’infelicità. La dignità umana è da un’altra parte! Chiunque non consideri gli Uomini tutti fratelli, tutti uguali e tutti dotati del medesimo diritto alla vita, non è degno di considerazione. È falso ogni discorso politico in favore del popolo che provenga dai partiti (destra, centro e sinistra è sempre la stessa menzogna, vigliaccata e violenza), finché anche una sola persona, da qualche parte del mondo, è tenuta in povertà e viene uccisa dalle bombe di governi rapaci! Non ci sono poteri buoni... occorre respingere con forza la domesticazione sociale messa in atto dai cani da guardia dei partiti -i mass-mediae agire con tutti i mezzi necessari contro le carogne che fanno professione di saccheggiare, reprimere, scannare i popoli impoveriti... riprendersi nelle mani la propria vita, e passare allo smantellamento di un sistema spettacolare improntato sulle guerre, i mercati globali e il cannibalismo della finanza internazionale. E, comunque vada, senza nessun rimorso.
64
Non comprendiamo come la gente possa andare a votare un qualsiasi cretino (poco importa il partito, la chiesa e il bordello dove arraffa quanti più soldi e potere possibili) e poi lamenta che ruba, che è colluso con la mafia, che è
che ieri abbiamo aggredito rispondono oggi alla nostra aggressione» (Michel Onfray: Pensare l’Islam; Ponte alle Grazie, 2016)... alla stessa maniera. La disuguaglianza sociale è un prodotto della politica, dell’economia e delle re-
«La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel princìpio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel princìpio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi» Simone Weil un buffone di corte. Questi cialtroni della politica sono forti solo del consenso che l’elettorato dà loro, in cambio di qualche favore, un po’ di garantismo e la certezza che la polizia sistemi nei porcili i rom, i migranti e quanti fuggono dalla paura, dalla povertà, da guerre e terrorismi che le nazioni ricche hanno provocato e sostenuto.
SULLA BUONA FOTOGRAFIA, SULLE CATTIVITÀ DEL GOVERNO E SULL’URGENZA DI SOPPRIMERE I PARTITI Va detto. Il diritto d’ingerenza permette all’Occidente di proseguire la propria politica imperialista senza darne l’impressione! «Se il pericolo di un terrorismo islamico esiste, e ormai esiste, è perché quelli
ligioni monoteiste. In un mondo sempre più interconnesso, la sociologia del neoliberismo è l’impalcatura, la premessa e la legittimazione della miseria nel pianeta (Ulrich Beck: Disuguaglianza senza confini; Editori Laterza, 2011). Nella civiltà liquida, gli arricchiti diventano sempre più ricchi, gli impoveriti sempre più poveri! Là dove imperversa il peggio, ovvero lo spettacolo della politica, che tutto giustifica e assolve delle connivenze dei politici con il crimine organizzato e le malversazioni della finanza, occorre passare dal rifiuto puro e semplice della politica mercatile e dell’ostaggio alla soppressione dei partiti politici, «tutti, nessuno escluso. Perché, in quanto organizzazioni
verticistiche e inquadrate, sono autoritari e repressivi per definizione. E alcuni, quelli italiani ad esempio, mostrano un totale disinteresse per la Res publica, ma un talento inenarrabile nel sottrarre denaro pubblico alla comunità. Quindi vanno soppressi, per il bene comune» (Simone Weil: Manifesto per la soppressione dei partiti politici; Castelvecchi, 2008). I mezzi sono tutti buoni e, in ogni caso, senza nessun rimpianto. La democrazia senza partiti non è impossibile: «La democrazia parlamentare non riconosce i grandi mutamenti che hanno radicalmente trasformato, durante gli ultimi cento anni, la struttura della società. Essa difende la libertà anche a favore delle forze che tendono a distruggerla. Essa, quindi, non può più dar vita a un ordine sociale giusto, ma tende ormai a diventare il ponte di passaggio verso i regimi che causerebbero nuove dittature» (Adriano Olivetti: Democrazia senza partiti; Edizioni di Comunità, 2013). C’è stato un tempo in Utopia, durante il quale molte cose -le più importanti della vita- erano condivise con la comunità: questo rese gli Uomini certamente migliori, e non li costrinse a combattere gli uni contro gli altri in nome di un dio, una nazione e un potere. Quando il popolo non è più stato sovrano, ed è stato escluso dalla ridistribuzione delle ricchezze del lavoro comune, ecco che non ha perso solo la dignità, ma anche la sapienza della propria Storia. L’utopia è il princìpio di ogni progresso (Zygmunt Bauman: Modus vivendi: Inferno e utopia del mondo liquido; Editori Laterza, 2007), il tentativo di un futuro migliore, più giusto e più umano. Una vita senza utopia non è degna di essere vissuta. Il cafàrnao della storiografia fotografica è pieno di utili idioti. Dentro un’estetica della fotografia radicale e sovversiva, il cui compito
Sguardi su è quello di respingere la stupidità, è difficile non trattenere gli sputi di fronte a tanta superficialità e inconsistenza creativa dispersi nell’apologia dell’arte, non solo fotografica. L’arte, tutta l’arte, è una grande puttana: vale quanto la firma del mercante sull’assegno all’artista. Infatti, diceva Pablo Picasso, senza Leo Castelli e Ambroise Vollard non ci sarebbero stati né Andy Warhol né Picasso stesso, che hanno decuplicato le loro opere quanto il conto in banca con il talento e la disinvoltura eguali alla cura che il boia di Londra metteva nell’insugnare la corda degli impiccati (Alan Jones: Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America; Castelvecchi, 2007). L’arte è il brutto sogno della società spettacolare incatenata e il detonatore che fa saltare la falsa coscienza (ideologica, religiosa, politica, culturale, schizofrenica) della propria epoca. Un’annotazione fuori margine. Lo scorso quindici settembre, l’artista italiano Maurizio Cattelan ha esposto al Guggenheim Museum, di New York, la sua ultima opera, America. Si tratta di un water d’oro (18k), perfettamente funzionante e usabile dai visitatori (c’è comunque una guardia armata fuori la porta, a difesa di qualche miserabile migrante o squinternato terrorista). La chiamano provocazione. Per noi è un’abile operazione commerciale! L’opera di Maurizio Cattelan non ha niente a che fare con la degenerazione dell’arte e la critica al consumismo sfrenato dell’America: è un prodotto della società dello spettacolo, che è l’affermazione dell’apparenza sulla vita quotidiana: «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni di esistenza»(Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979). Tutto vero. L’arte che ha cessato di resistere non vale nulla e sarà sostituita dall’arte che resisterà e passerà alla sovversione non sospetta dell’arte, viatico contro l’estetizzazione della vita politica e af-
fermazione della politicizzazione dell’arte (Walter Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; Einaudi, 1966) come estetica della caduta e aspirazione al sublime. Insomma, si tratta di fare della propria vita in utopia, un’opera d’arte.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA DIGNITÀ DEGLI ULTIMI Nelle dossologie della fotografia insegnata, o più banalmente diffusa nelle riviste specializzate, la fotografia della dignità, di José María Lupercio, è quasi sconosciuta. Pochi ne parlano o si fanno carico di studiare uno dei maggiori fotografi (non solo) della fotografia latino-americana. Quando qualcuno si avvicina alle immagini antropologiche di José María Lupercio (1870-1927), escono definizioni come “pittoresco”, “popolaresco”, “tipologico”; invero, pochi si accorgono che in quelle fotografie del popolo e accanto al popolo si avverte la forza antica di un’anima sensibile tanto all’ingiustizia quanto alla rivoluzione. Non poteva essere altrimenti. José María Lupercio nasce nel 1870 e muore nel 1927. «La rivoluzione messicana fu il movimento armato iniziato nel 1910 per porre fine alla dittatura del generale Porfirio Díaz [José de la Cruz Porfirio Díaz Mory, 18301915, presidente del Messico per due mandati, dal 29 novembre 1876 al 20 novembre 1880 e dal Primo dicembre 1884 al 25 maggio 1911], e terminato ufficialmente con la promulgazione di una nuova costituzione nel 1917, anche se gli scontri armati proseguiranno fino alla fine degli anni Venti. Il movimento ebbe un grande impatto sui circoli di operai, agricoltori e anarchici di tutto il mondo; infatti, la Costituzione Politica degli Stati Uniti Messicani, del 1917, fu la prima costituzione al mondo a riconoscere le garanzie sociali e i diritti ai lavoratori uniti. Oggi si stima che durante il periodo della rivoluzione siano morte più di novecentomila persone, tra civili e militari» (it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_messicana). Però, José María Lupercio non
si occupa in maniera diretta dei moti rivoluzionari, piuttosto si sofferma sulla gente del popolo e costruisce un atlante di fotografia umana di notevole compiutezza estetica ed etica. Riprendiamo qualche noterella su José María Lupercio, dal sito dell’Universidad Jesuita en Guadalajara: José María Lupercio nasce nella città di Guadalajara (Messico), nel 1870. I suoi primi studi sono stati di pittura, nella bottega di Felix Bernardelli, dove conosce Gerardo Murillo (Dr. Atl), Rafael Ponce de León e Jorge Enciso. Dopo un corso di fotografia con Octaviano di Mora, impugna la macchina fotografica e non la lascia fino alla sua scomparsa, nel 1927, a Città del Messico (dove è stato fotografo ufficiale del Museo Nazionale). Per il suo lavoro fotografico, José María Lupercio ha ricevuto premi e riconoscimenti, tra i quali un diploma rilasciato nel 1898 dalla Società Francese di Fotografia, una medaglia d’argento e diploma all’Esposizione Universale del 1900, a Parigi, una medaglia d’argento e diploma alla Pan American Exposition, di Buffalo (New York), del 1901, l’oro e l’argento alla Mostra Jalisciense regionale, nel 1902, diploma d’onore al Concorso prima fotografia, a Madrid, nel 1903, e la medaglia d’oro all’Esposizione universale St. Louis, Missouri, nello stesso 1903. Inoltre, sembra che José María Lupercio si dilettasse nella costruzione di scenari per il teatro e ha organizzato corride. Il corpo di immagini lasciate da questo convincente autore investono l’archeologia, l’entomologia, l’antropologia, la storia del Messico; ci sono anche ritratti di uomini di scienza, della politica, delle arti (Nicolas Leon, Ignacio Marquina, Eduardo Noguera, Manuel Toussaint, Miguel Othón de Mendizábal, Isidro Fabela, Julio Jiménez Rueda, Luis Najera e José Vasconcelos), i murales di Diego Rivera e altri artisti messicani; dal 1921, molte delle sue fotografie furono stampate come cartoline e messe in vendita presso il Museo Nazionale. La Fototeca di Jo-
sé María Lupercio è di un valore culturale/documentario inestimabile; più ancora, contiene il ritratto di una nazione al tempo della speranza e della rivoluzione. Chi si è occupato delle fotografie di José María Lupercio ha sottolineato le scene popolari, i tipi messicani, i paesaggi osservati come lavoro professionale di un artista. Il lavoro professionale c’entra poco, almeno nella ritrattistica popolare che a noi piace trattare: invece, sempre, l’artista è al centro di ogni immagine, e i soggetti vanno a comporre una catenaria di vite sofferte, vissute al limitare della sopravvivenza con bellezza e dignità non comuni. In Messico, nel primo decennio del Novecento, la buona fotografia era ben viva, come si può ricavare nelle immagini dei fotoreporter Armando Morales, Agustín Víctor Casasola, Antonio G. Garduño, Miguel Uribe, Manuel Ramos, Abraham Lupercio, Ezequiel Alvarez Tostado, Gerónimo Hernández y Antonio Carrillo, che documentarono la rivoluzione zapatista con grande presa del reale. Nelle loro fotografie sembra tuonare ancora la frase «Uomini del Sud! È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!» (attribuita Emiliano Zapata). Là dove abbonda la violenza istituzionale, sovrabbonda la rivolta sociale. L’iconografia popolare di José María Lupercio è ammantata di bellezza asciutta e dignità archetipale. Le sue fotografie possiedono insieme intelligenza e passione per il bene, il giusto, il buono, ma non lo gridano: lo disseminano negli sguardi, nei corpi, nelle posture, non importa se sono in studio o nella strada. Il ritratto di José María Lupercio travalica la posa e accende una visione dell’esistenza ancora tutta da inventare (e non dimenticare). L’odissea della coscienza messicana è tutta qui, sui volti di guerrieri sconfitti, mai vinti, forti ancora delle proprie radici culturali, della terra dei padri consegnata alle speranze cadute della rivoluzione, che guardano nella macchina fotografica e lasciano le loro gesta, i loro mezzi sorrisi
65
Sguardi su
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA
049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it
e le loro lacrime agli annali della Storia del Messico. Nella cartografia fotografica di José María Lupercio ci sono immagini di gruppo in chiesa, venditori ambulanti di vasi, anziani e anziane intabarrati in mantelli e vesti di lino, bambini davanti a misere capanne, mendicanti, violinisti, fabbri, pescatori, lavandaie, ragazze e ragazzi che si lasciano andare di fronte al fotografo, quasi a mostrare che all’interno di una comunità che soffre c’è anche un desiderio di libertà irrinunciabile. Sotto un certo taglio architetturale, queste immagini rimandano a una ricerca della felicità e al tentativo di una vivenza senza guinzagli: restare testimoni di un tempo smarrito che qualche volta la fotografia riesce a cogliere e fissare nell’eternità. Le ingenuità fotografiche di José María Lupercio non sono poche: i quadretti della vita rurale dei messicani sono un po’ troppo dolcificanti, meno documentari di quanto hanno scritto, e spesso restano scenette che celano la miseria profonda nella quale il popolo era tenuto dalla chiesa, dai latifondisti e dai governi d’occasione. Quando la fotografia non interroga, si fa complice del po-
66
tere che la foraggia e l’infila nel letamaio della buona condotta. La politica della fotografia è sempre in difesa delle cause perse, ed è nella fermezza dello stile che non spaventa, né annienta, chi vede e legge. È la fotografia della dignità che si fa parola, gesto, azione, e disvela, denuncia e incrimina il potere costituito. Sempre. I ritratti di José María Lupercio sono più compiuti, estranianti, anche. Non sempre le persone fotografate guardano verso la macchina fotografica; sovente il loro sguardo esce dall’inquadratura, come se volassero al di là del momento fotografico e acciuffassero l’inclemenza della Storia. I loro abiti, le scarpe, i cappelli, gli ornamenti, cinture, archi, frecce contengono la seduzione del perduto e -al contempo- riconquistano un’armonia figurale che riporta in luce la verità e il bene comune. Sono volti di un popolo che non aspira alla ricchezza, né alla potenza, ma alla dignità di tutti gli Uomini: e la dignità non si concede, la si prende! Costi quel costi! Dannato chi non ha più nulla oltre la propria Storia. Basta entrare nelle pieghe poetiche di due fotografie di José María Lupercio per comprendere che
economia e destino significano la stessa cosa... per chi non ha volto né voce, s’intende! Nella lettura del Niño vendedor de periódicos (Guadalajara, Jalisco; 1905) non può sfuggire che l’improntitudine dignitaria del bambino s’intreccia alla delicatezza costruttiva del fotografo: José María Lupercio lo eterna a mezzo busto; il Niño guarda alla sinistra del fotografo, ha la bocca un po’ aperta, bella, allenata a mangiare solo patate e bere acqua di pozzo, tiene sotto il braccio i giornali da vendere (la mano in tasca gli conferisce una certa sicurezza acerba), le dita dell’altra mano afferrano con grazia il bordo dei giornali, un cappellaccio di paglia sfondato è calato appena sulla testa e i pantaloni sono un po’ stracciati. È l’effigie di una decenza arcaica che rimanda all’innocenza violata da quanti, in ogni parte della Terra, costringono i ragazzi a una vita di dolore. La fame non è ereditaria, è opera di un covo di serpi che fuoriescono dagli scranni dei governi. Il Niño vendedor de periódicos è un’icona della dignità degli Ultimi, che accusa la crudeltà e l’efferatezza del potere, perché «La dignità umana è inviolabile, ed è un valore che non ha prezzo. Non può esistere dignità sociale o collettiva senza esistere dignità della persona, così come non esistere dignità della persona senza dignità sociale» (Moni Ovadia: Madre dignità; Einaudi, 2012). Ricordiamolo. La grandi rivoluzioni della storia sono nate da movimenti politicosociali che avevano fra i propri desideri da realizzare, quello di restituire dignità individuale e sociale agli umili, gli esclusi e agli oppressi. Il Niño vendedor de periódicos, di José María Lupercio, dice questo e molto altro ancora: ad esempio, che solo quando la società sarà composta da persone in armonia fra tutti, e nessuno sarà costretto a piegare la testa nei confronti dei ricchi, dei governanti, dei generali e dei preti... allora questa società potrà definirsi buona. In un’altra immagine di José María Lupercio, i soggetti in ritratto sono una donna (forse, ma non cambierebbe nulla se fosse
un uomo) e un bambino: madre e figlio guardano diretti in macchina (fotografica); il bambino tiene la mano della madre, leggermente, e buca l’istante fotografico scippato alla Storia; la madre fissa lo sguardo, altera, nella medesima direzione, e figura la bellezza e l’orgoglio degli esclusi come poche volte succede nelle scritture fotografiche. I cappelli di paglia sono portati come aureole di povertà: quello della madre è legato sotto il mento, quello del figlio quasi scivola dalla testa e scopre due occhi fulminanti, specchio di una realtà feroce, ma affrontata con la dignità di chi sa come vivere e morire. I vestiti sono modesti: quello del bambino è nero, aperto sul collo; quello della madre, chiaro, un po’ sdrucito, delle collane pendono sull’abito della madre e sottolineano una bellezza spuria da ogni ricerca dell’esibito. Si vede che non si sentono sudditi di nessuno, e anche se le circostanze della vita sono state avverse per loro, come per il loro popolo, ciò che esprimono con la propria smisurata fierezza è un frammento di vera umanità. L’essenziale per un fotografo della dignità calpestata non è il rovesciamento della visione ordinaria dell’immaginario... bensì il fatto che -nel rovesciamento di prospettiva di una realtà brutale- il fotografo porta alla luce ciò che è umiliato dalla disuguaglianza senza confini, dove i dominatori si avvalgono del consenso di quelli che sono loro sottomessi. La libertà dei servi e dei sudditi non è libertà, è rassegnazione e complicità con l’ordine dei saprofiti. La filosofia della libertà che sorge dalla fotografia della dignità degli Ultimi è una dimensione etica del fare-fotografia e si situa al di là di ogni comandamento. Là dove la libertà subisce limitazioni ad opera della civiltà spettacolare e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano gli impoveriti della Terra, la rivolta dei popoli che ne consegue è l’atto decisivo per la conquista di una società più giusta e più umana. Amen! e così è. ❖