FOTOgraphia 229 marzo 2017

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ANNO XXIV - NUMERO 229 - MARZO 2017

Grande formato ESTREMAMENTE RAVVICINATO Mirrorless FUJIFILM GFX 50S Massimo De Gennaro LA DANZA DEGLI ULIVI

SIMONE SBARAGLIA PORTRAITS CONDIVISI


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prima di cominciare

DA UN MONDO ALL’ALTRO. Quando raccontiamo di realizzazioni e prodotti, nel nostro specifico riferiti alla fotografia, ci limitiamo sempre alla loro sostanza, a tutti visibile e da tutti usufruibile. Poi, in molti casi, e per identificate personalità, accadimenti paralleli ci impongono di approdare alle persone che hanno sognato e disegnato un presente, originariamente tecnologico, che ha finito per influenzare tutto e tutti, senza alcuna soluzione di continuità verso l’intera collettività, nel proprio insieme e complesso. Un caso, sopra tutti, per Steve Jobs / Apple. È questo il senso attraverso il quale l’analisi storiografica e sociale di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, compilata e pubblicata a cura della nostra casa editrice, ha individuato e sottolineato “Quattro svolte senza ritorno”, che si sono proiettate in avanti, a partire dai rispettivi passi fotografici di origine. Strani eventi, che si sono permessi il lusso di accadere: dopo le origini della fotografia, con le date ufficiali del 1839, la Box Kodak (1888), la Leica (1913-1925), la fotografia a sviluppo immediato (Polaroid, 1947 e 1948) e l’acquisizione digitale di immagini (1981). In identica sequenza, abbiamo anteposto le personalità che hanno realizzato tutto questo: George Eastman, Oskar Barnack, Edwin H. Land e Akio Morita. Ora, in altro tempo fotografico, un doveroso complemento alla presentazione della innovativa Fujifilm GFX 50S, su questo stesso numero, da pagina 43. Sottolineiamo come e quanto la stessa Fujifilm sia la sola azienda storica della fotografia chimica che è stata capace di sopravvivere e proliferare ancora nel passaggio alla tecnologia digitale. Anche qui lo si deve, soprattutto, a una persona: il presidente e Ceo della Fujifilm Holdings Corporation Shigetaka Komori, che ha scandito i tempi e modi della sua lungimiranza e azione in un saggio di straordinario valore. Le pagine di Innovating Out of Crisis, che sottotitola esplicitamente How Fujifilm Survived (and Thrived) As Its Core Business Was Vanishing (Come Fujifilm è sopravvissuta -e ha prosperato- quando il suo core business stava svanendo) sono folgoranti e illuminanti; purtroppo, per ora, disponibili in sola edizione inglese originaria: Stone Bridge Press, 2015; 216 pagine 12,7x20,6cm; 24,95 dollari.

La fame ha radici più profonde di ogni sorriso, ma nessuno può comprare un sorriso. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Caro Giancarlo, caro amico, eccomi qui a scriverti, non potendo più parlare con te, come abbiamo regolarmente fatto tutte le mattine, negli ultimi tempi. Ora sei da qualche altra parte, e non più qui. mFranti; su questo numero, a pagina 9 Non si cerchi necessariamente la sintonia con l’autore: si è già espresso con le proprie immagini, e nulla altro ha da aggiungere. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 31 Ma come è possibile che una pletora di fotografi continui a sostenere il mercato delle immagini, senza nemmeno avere un filo di pudore dell’Umanità che fotografano (certi reporter di guerra inclusi)? Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64

Copertina Assiolo, o Assiuolo (Otus scops, classificato da Carl Nilsson Linnaeus / Carl von Linné, nel 1758): dopo la civetta nana, il più piccolo strigide europeo, famiglia di uccelli rapaci dell’ordine Strigiformes. Affascinante ritratto del bravo Simone Sbaraglia: a pagina 34, l’inquadratura completa, orizzontale, in avvio al suo convincente portfolio, intitolato Portraits, per sottolineare il coinvolgimento della sua bella fotografia

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un francobollo della Repubblica Federale Tedesca (DDR, prima della riunificazione, del 3 ottobre 1990), emesso il 2 settembre 1965. Da una serie di tre valori celebrativi del giubileo 1165-1965 della Fiera di Lipsia d’autunno, un soggetto che commemora la produzione fotografica della Germania Est: reflex 35mm Praktica e reflex 6x6cm Praktisix II... poi Pentacon Six

7 Editoriale Domenica cinque febbraio è mancato Lino Manfrotto

8 Giancarlo D’Emilio In ricordo di un amico, eccellente personalità del dibattito fotografico dalle molteplici sfaccettature

10 Dal pianeta Terra A completamento del portfolio, da pagina 34, il Calendario Lav 2017, illustrato da Simone Sbaraglia


MARZO 2017

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

12 Ossessione irrisolta

Anno XXIV - numero 229 - 6,50 euro

Ritorno su un film fotografico, appesantito dallo scorrere del Tempo. Fur è poca biografia di Diane Arbus: è altro Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

16 Un’estate fa Quando la fotografia è partecipazione e commozione: ottimo progetto di Fabio Gubellini alla ricerca del Tempo di Elisa Contessotto

REDAZIONE

Filippo Rebuzzini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

20 Fotogrammi di lavoro Al Mast, di Bologna, una selezione di videoinstallazioni sul tema del Lavoro in movimento. Con considerazioni

24 La danza degli ulivi Con la qualità delle sue fotografie, Massimo De Gennaro scandisce tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Induce in tentazione... di pensare

34 Portraits Ritratti di animali e visioni di ecosistemi in fotografie realizzate dal talentuoso Simone Sbaraglia. Fotografia che rivela un amore senza confini, prontamente diviso e condiviso con l’osservatore di Maurizio Rebuzzini

43 Sostanzioso passo avanti La Fujifilm GFX 50S definisce uno standard fotografico innovativo: Mirrorless medio formato. Con conseguenze di Antonio Bordoni

48 Teleobiettivo d’annata Auguste Vautier-Dufour et le Téléphot, in mostra al Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey di Angelo Galantini

54 Grande, grande Oltre l’esercizio atletico, una certa “estetica” della fotografia a distanza estremamente ravvicinata

64 Dorothea Lange

COLLABORATO

Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Elisa Contessotto Giancarlo D’Emilio Massimo De Gennaro mFranti Angelo Galantini Fabio Gubellini Altin Manaf Ilario Piatti Franco Sergio Rebosio Simone Sbaraglia Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Sguardi sulla fotografia del disinganno di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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editoriale MAURIZIO REBUZZINI

L

ungo il cammino delle esistenze individuali si fanno molti e molti incontri. La memoria, poi, li seleziona e immagazzina. Secondo disposizioni personali -a ciascuno, la propria-, si può dare rilievo a quelli positivi, che hanno arricchito il quotidiano di ognuno di noi, contribuendo persino a edificare personalità e visioni; oppure, all’opposto, a quelli negativi, verso i quali coltivare il proprio rancore. Per quanto consapevoli di andare controcorrente, soprattutto oggi in epoca di livore e malanimo riversato sulla Rete (palestra più di ruggini e animosità che di sollecitazioni e spunti al dialogo), noi apparteniamo alla prima categoria: sia per predisposizione personale, sia per egoistico stanziamento di tempo prezioso. Dunque, a diretta conseguenza, siamo sempre molto grati a tutti coloro i quali, nel bene (e sono tanti, mai troppi), ci hanno consentito di essere quello che siamo. Incontrato Lino Manfrotto, nel 1978, all’avvio della sua attività produttiva per fotografia, dopo gli anni del suo professionismo in forma di mestiere, per un lungo periodo abbiamo camminato accanto. Siamo coscienti e consapevoli di aver ricevuto molto da lui, in una forma lieve, ma tangibile, che scarta a lato qualsivoglia convenienza momentanea. Allo stesso tempo, saremmo gratificati dal sapere che il nostro è stato un tragitto a doppio senso, in andata-e-ritorno: così, speriamo di avere -a nostra volta- offerto qualcosa a lui, alla sua esistenza. Naturalmente, date le rispettive identità professionali, con tratti in parallelo, molto di quanto abbiamo condiviso è esordito all’interno dell’ampio contenitore della fotografia, via via intesa e svolta con manifestazioni proprie e caratteristiche: il suo progettare e produrre, il nostro osservare e commentare anche le manifestazioni tecnico-commerciali del mondo fotografico. Però, attenzione, non è stato soltanto questo. Infatti, una volta assolta l’ufficialità dei ruoli, spesso, con Lino Manfrotto abbiamo slittato oltre e superato il confine istituzionale. Oggi sarebbe facile vantare una comunione di intenti e complicità di visioni: nessuno è più qui a smentirci. Però, in verità, non è quasi mai stato così. Le nostre posizioni sono sempre state opposte, ma mai contrarie: ovvero, siamo sempre stati liberi di esporci per quanto abbiamo inteso farlo. E proprio qui, soprattutto qui, sta lo spessore del nostro incontro, eticamente edificato sul rispetto altrui, sull’accettazione delle nostre differenze: in semplificazione, la sua concretezza e le nostre fantasie nei confronti della vita a tutto tondo. Ovviamente, questa riflessione è richiesta dal momento, dall’accadimento. Per cui, lasciamo ad altri rievocazioni a volo alto, basate sull’evidenza di fatti ufficiali e a tutti noti (o quasi), per richiamare le dispute durante viaggi in auto e a tavola. Riprendiamo anche il senso e valore del suo rigore senza compromessi e della sua inflessibilità. Così come continuiamo ad apprezzare le nostre differenze, rispettandole come meritano di essere onorate. Oggi lo dobbiamo fare, perché il nostro incontro si è concluso. Lino Manfrotto è mancato domenica cinque febbraio. Punto. Maurizio Rebuzzini

Lino Manfrotto è mancato lo scorso cinque febbraio.

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In ricordo di Maurizio Rebuzzini (Franti)

GIANCARLO D’EMILIO

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MAURIZIO REBUZZINI

V

Venerdì diciassette febbraio, sono andato a letto, la sera, sapendo di essere più solo. Nel tardo pomeriggio, si è spento Giancarlo D’Emilio, un caro amico con il quale ho condiviso un significativo tragitto comune. Entrambi siamo stati transfughi della vita: fotografi, ma -allo stesso momento- non fotografi; docenti, ma anche non docenti; interessati all’immagine e alla comunicazione visiva almeno tanto quanto ne siamo stati distanti; attratti dagli strumenti della fotografia, restando immuni dalle loro trappole. La sua figura e personalità è stata più volte richiamata su queste stesse pagine, soprattutto in relazione al progetto comune, che elaborammo attorno l’idea di Ritorno al grande formato, confezionata in forma di workshop [ancora, su questo numero, da pagina 54]. Per circostanze a lui avverse, all’indomani di uno svolgimento pilota a Pistoia, sua città di residenza, nel settembre 2014 [con relazione immediatamente successiva, l’ottobre seguente, dalle pagine di FOTOgraphia], interrompemmo il nostro intento, sperando di poterlo riprendere al più presto. Purtroppo, non ce n’è stato modo, e ora, a seguito anche di ulteriori nostri interventi redazionali a tema, casomai, proseguirò da solo, avendolo -comunque- lì, accanto a me. Tra tanto altro, Giancarlo D’Emilio è stato socio fondatore dell’Associazione Obiettivo Camera, che ha mosso i suoi primi passi nello scorrere dello scorso Duemilasedici [e ne abbiamo riferito giusto un mese fa, a febbraio, richiamando la combinazione fotografica con il sessantesimo del calzaturificio Fragiacomo]. In questa sua adesione, ha rilanciato lo spirito di una visione della materia che lui ha scandito su almeno tre momenti coincidenti e coabitanti: formazione, eventi e attrezzature, che ha maturato nel corso della sua esistenza. Parliamone Da tempo, tra le sue molteplici personalità in fotografia, Giancarlo D’Emilio aveva avviato anche un’attività commerciale nell’ambito degli utensili fotografici. Partecipava a mercatini antiquari, allestendo una offerta a dir


BEPPE BOLCHI

ALTIN MANAF

In ricordo

poco particolare, che si è distinta e qualificata nel pur variegato panorama che definisce ogni appuntamento specifico, nelle tante sedi nei quali si svolgono questi convegni mirati. In particolare, la sua proposizione commerciale non ha mai puntato tanto sulla quantità di proposte, come molti altri fanno (e, comunque, ognuno faccia ciò che crede di dover fare: a ciascuno, il proprio), quanto sull’intelligente selezione di strumenti fotografici. Senza scontrarsi su terreni sovrani dell’antiquariato fotografico, a partire da Leica, Giancarlo D’Emilio si è orientato verso la camera oscura, le attrezzature per il medio e grande formato fotografico e la fotografia creativa a sviluppo immediato. In questo ambito, nelle sue consultazioni con clienti potenziali, ha sempre rivelato una sostanziosa competenza, che approdava alla completa soddisfazione dell’utente, qualsiasi questo sia stato, una volta compreso le sue intenzioni latenti. Tanto è vero che, di fronte alla latitanza di talune attrezzature, che altre logiche hanno ac-

cantonato, abbandonando a se stessi i fruitori possibili e potenziali, Giancarlo D’Emilio si è addirittura impegnato a produrre in proprio e affrontare discorsi anche individuali: restauro di apparecchi in legno, riconvertiti all’applicazione odierna di antichi processi chimici della fotografia (a partire dal collodio umido, al quale si stanno avvicinando intelligenti comunità di giovani sperimentatori), progettazione di vasche di lavaggio per copie bianconero, realizzazione di efficaci bromografi a luce Led, per la stampa a contatto di negativi bianconero di dimensioni generose (magari con indirizzo a processi raffinati: per esempio, al selettivo Platino/Palladio e dintorni). Quindi, in prosecuzione di intenti e capacità, Giancarlo D’Emilio ha svolto incontri formativi, per i quali ha espresso doti didattiche fuori dal comune. A differenza di molti, la sua scienza di insegnamento non ha mai espresso perizie teoriche che creano distacco, ma rivelato una concreta autorità di esperienze immediatamente percepite e acquisite dall’interlocutore. Detta

Sessione pilota del workshop Ritorno al grande formato, svolta da Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini, a Pistoia, il 27 e 28 settembre 2014. Giancarlo D’Emilio e Maurizio Rebuzzini con Gianni Berengo Gardin, ospite di prestigio e valore (qui sopra). Giancarlo D’Emilio al banco ottico 4x5 pollici, in spiegazione didattica, in esterni (in alto).

Giancarlo D’Emilio è prematuramente mancato venerdì diciasette febbraio, dopo aver compiuto sessantuno anni, il precedente ventotto dicembre.

meglio: usciti da altri incontri del tipo, i partecipanti sono più carichi di dubbi e incomunicabilità del dovuto. Al contrario, usciti dai suoi incontri, i partecipanti sono stati arricchiti di certezze e sicurezze che hanno potuto essere tradotte immediatamente nei rispettivi percorsi fotografici individuali. Ciò detto, si devono considerare anche gli eventi che Giancarlo D’Emilio ha proposto, organizzato e svolto con visione trasversale. Ne è stato esempio il ciclo, assolutamente fuori dall’ordinario, non soltanto fotografico, di incontri Alla fotografia chiediamo solo sessanta minuti, in cartellone alla Biblioteca San Giorgio, di Pistoia, nell’autunno 2014. Ora, tutto questo appartiene al passato, e non restano che i ricordi e gli insegnamenti. Noi ne facciamo tesoro. Da cui, un saluto in forma personale. Caro Giancarlo, caro amico, eccomi qui a scriverti, non potendo più parlare con te, come abbiamo regolarmente fatto tutte le mattine, negli ultimi tempi. Ora sei da qualche altra parte, e non più qui. Hai combattuto tenacemente, hai resistito fino all’impossibile, ma -alla fine- hai dovuto cedere, lasciando libero di agire quanto ti ha corroso il corpo, fino allo sfinimento. Le nostre chiamate mattutine, come prima azione della giornata, non cesseranno con la tua scomparsa, caro amico: la mia è una promessa che ti è dovuta, che è dovuta a quel senso di fratellanza che ci ha fatto percorrere tratti comuni di strada. Continuerò a dialogare con te, raccontandoti con lievità del clima -perché no?-, ma, sopra ogni altra urgenza, delle speranze e delusioni, che già abbiamo condivise tra noi. Soltanto, caro amico, non mi risponderai, lasciando che la memoria richiami la tua voce, la tua inflessione toscana, il tuo buonumore, che non ti è mai venuto meno, neppure nei momenti più bui dei tuoi ultimi passi. E, poi, quanti e quanti ricordi comuni mi lasci, mi hai lasciato; quanto arricchimento hai offerto alla mia esistenza! Sì, caro amico, anche questi momenti torneranno nei nostri dialoghi (monologhi), dei quali e per i quali mi faccio dovere e diritto. Mi è di conforto ciò che tu hai trovato. Mi parlavi di luce o buio, tanto o niente. Comunque, sappi, che qui hai lasciato tanta luce e tante lezioni. Ciao, Giancarlo. ❖

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Parliamone di Angelo Galantini

E

DAL PIANETA TERRA

Eccoci qui, in integrazione a quanto accompagna il portfolio di fotografie di animali attraverso le quali presentiamo l’essenza dei progetti di natura del talentuoso Simone Sbaraglia, su questo stesso numero, da pagina trentaquattro. Eccoci qui, riprendendo dal titolo di una sua avvincente monografia, pubblicata nel 2014: Immagini dal Pianeta Terra. Con questo, scartiamo un poco a lato, ma neppure poi tanto, dal nostro intento di commentare le sue dodici tavole del corrente Calendario Lav 2017, che conteggia i quaranta anni della nobile Lega Anti Vivisezione, che protegge gli animali, salvandoli spesso da situazioni tragiche (e lo stesso vorremmo esistesse anche a tutela e protezione di quelle che la collettività ha marchiato come “diversità” sociali... colpevolmente tenute a imbarazzante e sgradita distanza). Dunque, Dal pianeta Terra per sottolineare il valore implicito della fotografia di Simone Sbaraglia, a proposito della quale una osservazione è obbligatoria e dovuta: qui, a supplemento del suo portfolio. A questo proposito, nell’attuale/ulteriore sede redazionale, va rilevato quanto tale fotografia, svolta con intenti solidali e di partecipazione, non si limiti a se stessa e alle proprie prerogative implicite, che pure ci sono e sono di notevole livello, ma prosegua nel disegno progettuale. In nobiltà di riferimento, seppure nella delicatezza del richiamo, fatti salvi i relativi “pesi” universali, siamo al cospetto di una declinazione attuale della blasonata lezione della fotografia umanista di fine Ottocento, realizzata la quale la stessa fotografia ha smesso la propria sola autoreferenzialità formale, per indurre alla contemplazione dei contenuti. Analogamente, le dodici tavole dell’attuale Calendario Lav 2017 inducono alla riflessione. Da una parte, possiamo accettarle e considerarle per se stesse, nella delicatezza della raffinata e colta rappresentazione fotografica di Simone Sbaraglia; da un’altra, è plausibile segnare un passo in avanti, che non si limita alla superficie visibile -evidente e manifesta-, per approdare

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alla sostanza, che si esprime sottotraccia. Attraverso l’intera operazione editoriale, con i propri momenti pubblici di contorno, l’invito alla riflessione è dichiarato e lampante: non esercizio del solo passo fotografico necessario, ma profondità delle sue intenzioni. In questo senso, anche qui in appello alto (dal film di Vittorio De Sica, del 1943: I bambini ci guardano, sceneggiato dal romanzo Pricò, di Cesare Giulio Viola), la sequenza e l’insieme delle dodici tavole del Calendario Lav 2017 sono state spesso richiamate all’idea secondo la quale Gli animali ci guardano: sguardi intensi, penetranti e teneri degli animali salvati dalla Lav, in dodici storie straordinarie che ne testimoniano l’impegno civile per il diritto di ogni singolo animale a libertà, dignità e vita. Tra le tante iniziative che, alla fine dello scorso anno, hanno cadenzato tempi e modi di presentazioni pubbliche, merita particolare attenzione quanto svolto presso ExpoWall Gallery, di Milano, alla quale abbiamo già

Per il Calendario Lav 2017, nel quarantesimo della nobile Lega Anti Vivisezione, che protegge gli animali, salvandoli da situazioni tragiche, Simone Sbaraglia (portfolio da pagina 34) ha fotografato dodici animali esotici e selvatici accolti nel Centro di Recupero di Semproniano, in Maremma, in provincia di Grosseto. Una avvincente mostra di stampe originali ha accompagnato il lancio del Calendario, alla autorevole ExpoWall Gallery, di Milano, lo scorso novembre. Valore e significato del progetto, oltre l’apparenza delle immagini.

attribuito meriti in resoconto dell’iniziativa America America, relativa all’edizione di fotografie della Farm Security Administration [FOTOgraphia, febbraio 2017]: da martedì otto novembre, al successivo sabato dodici, in abbinamento a un temporary shop di Quagga, storico brand italiano, aderente al progetto Animal Free Fashion di Lav. In veste di autore delle fotografie e curatore del Calendario, Simone Sbaraglia è stato esplicito: «L’idea di fotografare gli animali accolti nel Centro di Recupero di Semproniano mi è subito sembrata sfida irrinunciabile. Nei loro occhi è ancora vivo il ricordo della sofferenza, ma ho rappresentato la bellezza della rinascita che per questi animali è iniziata il giorno che Lav li ha liberati e portati lì». Gli ha fatto eco Alberto Meomartini, fondatore di ExpoWall Gallery, la cui direzione è curata da Pamela Campaner: «Il linguaggio della fotografia di qualità è oggi particolarmente importante, perché è in grado di comunicare a tutti, con immediatezza e insieme profondità, il concetto di rispetto della natura e degli animali.». Sempre oltre la sola apparenza della fotografia di Simone Sbaraglia, e in sottolineatura del progetto sociale che sostiene, rileviamo che il ricavato dalla vendita del Calendario, e della Agenda Lav 2017, è stato devoluto alla cura e mantenimento degli animali protagonisti delle dodici immagini, ospiti del Centro di Recupero per animali esotici e animali selvatici di Semproniano, in Maremma, in provincia di Grosseto; e lo stesso è stato per le stampe originarie vendute nel corso della mostra presso ExpoWall Gallery. A completamento, rileviamo che tutti gli animali fotografati sono stati salvati -sequestrati e confiscati da maltrattamenti- da circhi, dal traffico di specie protette e da detenzione illegale, e ora sono ospiti dello stesso Centro di Recupero, dove, dopo tanta sofferenza, sono accuditi e curati da personale specializzato, in ricoveri progettati con tecniche innovative, e possono finalmente vivere in un ambiente sicuro e sereno. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

OSSESSIONE IRRISOLTA

A

A volte, i film vanno rivisti. A distanza di tempo dalle rispettive attualità, alcuni conservano inalterato il proprio valore originario: appartengono a questo grado, i capolavori del cinema, ai quali il Tempo nulla toglie... casomai, è giusto vero il contrario. Alla stessa distanza di tempo dalla propria attualità, altri film appassiscono, fino quasi a morire. Dal nostro osservatorio mirato, oltre che viziato, che ci fa considerare la presenza della fotografia al cinema, in proprie sceneggiature piuttosto che in rapidi passaggi scenografici, sono stati classificati titoli discriminanti e selettivi, soprattutto utili per stabilire connotati certi, accreditati e inviolabili, attorno i quali e partendo dai quali stendere analisi in approfondimento. Però, oltre le doti e i meriti sovrastanti, è opportuno rimanere ben saldi a quell’onestà intellettuale che consente di osservare e valutare senza pre-giudizi di maniera, senza innamoramenti aprioristici. Così, tanto per essere chiari, è oltremodo doloroso rivedere oggi il mitico Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, per mille e mille motivi (tutti legittimi) film “fotografico” per eccellenza e raffigurazione spartiacque della fotografia al cinema (tanti i nostri interventi redazionali al proposito): se mai lo ha avuto, il film ha perso per strada il proprio smalto originario, fino a rivelarsi, oggi, noioso e superficiale, perfino inguardabile. Così, motivati da questa considerazione, che siamo anche disposti a dibattere, là dove e quando dovesse risultare necessario, abbiamo rivisto il più recente Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, sempre e comunque conteggiato tra i titoli considerevoli ed energetici della presenza della fotografia al cinema. Dieci anni fa, ne abbiamo riferito in cronaca, nel novembre 2006, prima di riprenderne aspetti trasversali, relativi alla gestualità della biottica Rolleiflex (e, marginalmente, anche della Sinar Norma), nel giugno 2010. Ora, le considerazioni sono diverse, magari complementari ai nostri primi due ragionamenti al proposito.

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Dieci anni fa abbondanti, nell’autunno 2016, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus fu presentato e lanciato con grande clamore, tanto da inaugurare il Primo Festival del Cinema di Roma, venerdì tredici ottobre, una settimana prima di arrivare ufficialmente nelle sale, dal venti ottobre (e nel frattempo, l’appuntamento romano si è consolidato, attestandosi tra le più rilevanti manifestazioni cinematografiche del mondo: al solito, e allineandoci con il caustico Pino Bertelli, i cui Sguardi su concludono solitamente la fogliazione della rivista, potere e dominio della Società dello spettacolo, da e con Guy Debord). Al momento della propria campagna promozionale, Fur richiamò l’attenzione giornalistica prima di altro, e soprattutto, per la protagonista Nicole Kidman, attrice da prima pagina nella cronaca rosa internazionale. Su altra lunghezza d’onda, il mondo fotografico fu invece attirato dalla trama annunciata, peraltro sottolineata nel titolo completo, che, come appena annotato, specifica Un ritratto immaginario di Diane Arbus: a tutti gli effetti, una delle figure prevalenti e predominanti della fotografia contemporanea, da qualsiasi punto di vista la si voglia considerare [nel dicembre 2008, abbiamo approfondito, con l’occasione di una nuova edizione italiana di una sua monografia fondamentale; il precedente ottobre 2001, pubblicammo lo Sguardo su, di Pino Bertelli]. Morta suicida il 26 luglio 1971 (con i polsi tagliati, nella vasca da bagno vuota), Diane Arbus è certamente una autrice con la quale ogni possibile Storia della Fotografia deve fare i propri conti, condividendone la visione ossessiva, oppure prendendone le distanze, ma mai ignorandola. Come la sua vita, anche la morte di propria mano è stata controversa. Tra le tante annotazioni che sono state riferite, attribuite ad amici e fotografi a lei vicini (avanti tutti, Richard Avedon), c’è sempre la mancanza di messaggio di addio o spiegazione, fatto salvo un biglietto che la fotografa Lisette Model, che le fu accanto negli

Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus è un film diretto da Steven Shainberg, nel 2006. Già discutibile in propria attualità, dieci anni dopo è clamorosamente privo di alcun senso.

Unico riscontro certo della sceneggiatura di Fur è l’approdo di Diane Arbus alla propria ricerca espressiva (pagina accanto, in alto), dopo gli anni in sala di posa commerciale con il marito Allan (pagina accanto, in basso).

ultimi momenti, asserisce di aver ricevuto, e del quale si è sempre rifiutata di divulgarne il contenuto. Prima fotografa (statunitense) ad aver varcato i confini che, quaranta anni, fa tenevano la fotografia distante e separata dall’espressione dell’arte, con una personale allestita alla (allora) selettiva Biennale di Venezia, dove, nel 1972, rappresentò (postuma) il proprio paese, Diane Arbus si impose all’attenzione internazionale nel 1967, partecipando con trenta immagini alla fantastica selezione New Documents, presentata al Museum of Modern Art, di New York, con la quale il curatore John Szarkowski stabilì i termini della nuova fotografia contemporanea (nella collettiva a tre, anche Lee Friedlander e Garry Winogrand). Secondo Patricia Bosworth, che ha compilato una approfondita bio-


Cinema

grafia -appunto Diane Arbus. Una biografia (alla quale stiamo per riferirci, a proposito del cinematografico Fur; Serra e Riva Editori, 1987)-, quella esposizione fu «un trionfo, che rese celebre Diane Arbus, ma ne accelerò anche il declino emotivo; l’artista temeva che la propria opera fosse fraintesa e, soprattutto, soffriva le nuove aspettative che il successo generava intorno a lei» (come stiamo per vedere, in quanto a fraintendimenti, il film Fur è esemplare). A questo punto, un chiarimento è dovuto, sia in senso assoluto, sia in relazione a quell’anticipata nuova visione del film, a dieci anni di distanza, intorpidita dal tempo trascorso. Firmato dal regista Steven Shainberg, nonostante il richiamo esplicito, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus è un film niente affatto fotografico. In-

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Cinema fatti, per quanto Patricia Bosworth, appena citata, sia tra i co-produttori della pellicola, la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson non ha alcun debito di riconoscenza con la sua Biografia ufficiale, che Rizzoli ripubblicò nell’autunno 2006, in coda allo stesso film, con un nuovo titolo più appetibile per un pubblico di taglio consapevolmente pettegolo: Diane Arbus. Vita e morte di un genio della fotografia (350 pagine 14x21,5cm; 18,50 euro; con fascetta esterna aggiuntiva “Da questo libro il film Fur con Nicole Kidman”, ingannevole nel proprio richiamo). Semmai, rileviamolo, oggi più di ieri, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus si limita, non soltanto attarda, all’ossessione della fotografa per i definiti “freaks”, soggetto esplicito, addirittura unico, della sua concentrata parabola visiva. Se proprio vogliamo, il film descrive la formazione dell’espressione artistica (fotografica) di Diane Arbus, indipendente dall’avvio di una professione nell’ambito della moda e pubblicità a fianco del marito Allan (per la cronaca, Allan Arbus lasciò presto la fotografia commerciale, per intraprendere una carriera di attore: lo troviamo soprattutto in serie televisive, con marginali apparizioni sul grande schermo). Nata Nemerov, nel 1923, in una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria della catena di pelliccerie Russek’s, fondata dal nonno materno emigrato dalla Polonia, nel 1880, Diane Arbus ha vissuto sulla propria persona le ansie e contraddizioni di una generazione (e su questo tema, rimandiamo anche ai diari di Susan Sontag, ordinati dopo la sua scomparsa [FOTOgraphia, febbraio 2005], nei quali torna ossessivamente la condizione di intellettuale ebrea newyorkese; altri tempi, altra gente, altro clima, altre capacità di riflessione esistenziale). In particolare, più esplicitamente di come raccontato nella Biografia, il film sottolinea la ribellione interna a una condizione perbenista familiare e ai relativi obblighi di casta. Dopo di che, dovere di botteghino a parte, siamo personalmente stupiti dalla scelta di Nicole Kidman: ci saremmo aspettati una Diane Arbus meno fascinosa, meno leggera e più compresa nella propria angosciosa esasperazione. Ripetiamolo, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus è meno foto-

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grafico di quanto lo sono (state) altre sceneggiature incentrate sulla figura di fotografi veri o presunti. Quindi, se vanno cercati riferimenti letterari, bisogna andare alla bibliografia dei titoli sui “freaks”, i fenomeni fisici le cui anomalie sono state messe a frutto nei circhi e spettacoli itineranti di fine Ottocento e inizio Novecento. Ricordiamo che “freaks” è un termine che ha diversi significati, tra i quali il riferimento che la cultura statunitense underground ha coniato per coloro i quali non si adeguano alle regole della società (cosiddetta) civile. Nel proprio intendimento originario, indica persone con particolari mostruosità e deformità fisiche, tali da collocarle in contesti estranei alla vita sociale quotidiana. Etimologicamente, ci si riferisce al film Freaks, del 1932, un horror del regista Tod Browning, che accese le luci della ribalta su una serie di personaggi da “corte dei miracoli” (che si ripete in Fur). A questo proposito, è obbligatorio ricordare che si tratta di un film che la stessa Diane Arbus è andata ossessivamente a vedere decine di volte, dopo che l’amico Emile de Antonio, detto semplicemente De, la portò a una prima proiezione al New York Theater, nell’Upper West Side. Annota Patricia Bosworth nella Biografia: «[Diane Arbus] Era affascinata dal fatto che i mostri, nel film, non fossero immaginari, ma reali: persone minuscole, dementi, nani l’avevano sempre eccitata, stimolata, ossessionata perché sfidavano le convenzioni». Addirittura, tornando al film in nostra considerazione e ai propri richiami, va sottolineato il fenomeno di collezione di fotografie di freaks, che nel corso dei decenni ha affascinato molti (si parla anche del leggendario illusionista Harry Houdini). La straordinarietà di queste raccolte si è sempre basata sulla fortunata stagione dei relativi personaggi (e usiamo i termini senza scarto di significato, seppure con doveroso rispetto). Soprattutto negli Stati Uniti, a cavallo del secolo (scorso), l’esplosione di interesse per il “teatro” fece proliferare anche numerosi circhi e spettacoli viaggianti di taglio eterogeneo. In tale clima, molte di queste esibizioni rappresentarono una sostanziosa fonte di guadagno per artisti di vario genere: prima di tutti, gli acrobati e gli illusionisti,

Il tormento esistenziale di Diane Arbus -nata Nemerov, nel 1923, in una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria della catena di pelliccerie Russek’ssi è manifestato negli anni della professione fotografica accanto al marito Allan, nell’ambito della moda e pubblicità. Da una posizione subalterna, quale è il porgere le macchine fotografiche al marito, passò a una fotografia propria, mille e mille anni lontana da convenzioni commerciali.

e, in subordine, ma mica poi tanto, le persone affette da difetti fisici congeniti, che divennero attrazioni popolari. Da metà Ottocento, perfino il celebre Circo Barnum & Bailey, uno dei capisaldi nel proprio genere, ebbe un ruolo di primo piano nel favorire questa tendenza, ingaggiando e facendo esibire persone con tre gambe, ermafroditi, eccessi di peso o incredibili magri, gemelli siamesi, nani e giganti. Per tutti era guadagno: per il circo, come anche per i freaks (così sarebbero stati identificati decenni dopo). Comunque, registriamolo, l’interesse verso queste esibizioni dal vivo aumentò addirittura con la diffusione della fotografia (eccoci). Gli artisti si facevano fotografare e le fotografie, vendute come ricordo e collezionate, incrementavano la loro stessa notorietà. In questo senso, si segnala la personalità dello studio newyorkese


Cinema di Charles Eisenmann, che si specializzò nella ripresa e relativo commercio: al 229 Bowery; oggi, le sue albumine in formato Cabinet Card sono conservate in una sezione dedicata della Syracuse University Library. Alcune di queste collezioni fotografiche sono arrivate fino a noi e sono state raccolte in volume. Tra i tanti, citiamo l’edizione in italiano di Freaks. La collezione Akimitsu Naruyama (Lo sfruttamento delle anomalie fisiche nei circhi e negli spettacoli itineranti), pubblicato da Logos, nel 2000 (192 pagine 18x22cm). Quindi, per dovere di cronaca, rileviamo che alcune delle fotografie qui presentate appaiono nella scenografia di Fur, appese alle pareti di casa del coprotagonista Lionel (l’attore Robert Downey Jr), il vicino affetto da irsutismo, l’anomalia che fa crescere a dismisura i peli su tutto il corpo (nato a Varsavia nel 1907, Lionel Stephen Bilgraski fu effettivamente un uomo con il viso di leone, che si esibì nei circhi Barnum & Bailey e Ringling Brothers: ipotizziamo che, nel film, il suo nome sia stato preso a prestito e omaggio). Con tutto, torniamo al film, ovvero alla nuova visione del film, e concludiamo. Già abbiamo sottolineato l’altro indirizzo della sceneggiatura di Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, più orientata verso le ossessioni dell’artista che sulla personalità d’autrice (fatto salvo un dialogo che conclude, quasi, la vicenda; in un campo nudisti, Diane Arbus, con Rol-

leiflex biottica tra le mani, incontra una ragazza: «Vuoi farmi una fotografia?», «No, non ancora»). Ora, annotiamo i momenti autenticamente fotografici della scenografia, in assenza di riferimenti in sceneggiatura. Così, in rapidità, rileviamo: la costante presenza di una fascinosa Sinar Norma 13x18cm in sala di posa, sia a riposo, sia all’opera; i momenti in cui Diane Arbus pulisce le superfici esterne degli obiettivi (della Sinar a banco ottico, che ripone in valigia, e della propria Rolleiflex biottica, dopo una sessione operativa); l’efficace presenza di giocose fotografie da cabina per fototessera nell’album di famiglia (alla maniera di quanto abbiamo commentato in FOTOgraphia, dell’ottobre 2005); una prolungata sessione di camera oscura, durante la quale Allan Arbus sviluppa i rulli bianconero di Diane; e il felice attardarsi sull’inserimento del rullo 120 nella Rolleiflex biottica (felice per noi, da un punto di vista feticistico; plausibilmente, si tratta di un rullo Kodak Tri-X [FOTOgraphia, giugno 2010]). Efficace, infine, il momento conclusivo del ritratto a Lionel, con relativa visualizzazione quadrata bianconero a tutto schermo. Altro da puntualizzare, dopo aver nuovamente messo sull’avviso chi è stato tratto in inganno dal richiamo esplicito a Diane Arbus? Ribadiamo: Fur è un film su un’ossessione, e la fotografia non ne è protagonista, casomai ne è appoggio; e, comunque, la-

sciatecelo dire, l’ossessione fotografica è assai noiosa. Una sola annotazione finale, alla nostra solita maniera di sempre. Più che Diane Arbus, sembra che Fur racconti dell’orrifico Joel-Peter Witkin, a ragione ritenuto il fotografo più eccessivo e provocatorio del mondo, autore di immagini di feti e cadaveri, di freaks e ermafroditi, di nani e corpi smembrati, che aspirano a documentare la bellezza del macabro, inteso come punto di passaggio dalla luce della vita al buio della morte. Tra l’altro, come già sottolineammo venti anni fa, in occasione di una personale di cento opere presentate da Germano Celant al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, nell’estate 1995, Joel-Peter Witkin è convinto di avere una missione: far vedere agli altri qualcosa che gli fu nascosto. «Ero bambino -ricorda-, e ritornavo dalla messa assieme a mia madre, quando tre auto si scontrarono davanti a noi; rotolò ai miei piedi qualcosa che mi sembrò una palla. Era la testa di una ragazza. Desiderai vederne il viso, ma fui trascinato via». E in Fur, a Diane Arbus / Nicole Kidman fanno dire qualcosa di analogo; circa: «Avevo promesso a mia madre che non avrei mai guardato un cadavere». Alla fine, siamo diretti: terribile trasposizione cinematografica. Film più che modesto, nonostante i nostri interessi fotografici, che qui trovano comunque compiacimento. ❖


Progetto di Elisa Contessotto

N

UN’ESTATE FA

Nella memoria storica di tutti noi, ci sono ricordi che spesso restano sospesi: tra bene e male, tra chiari e scuri, tra qualcosa da dimenticare oppure da riscoprire. Credo sia capitato a tutti noi, di fermarsi a osservare quello che ci circonda, e restare fermi, sotto un cielo tanto calmo e rassicurante, quanto severo e imperterrito. Nel nostro restare immobili di fronte ai ricordi scomodi, magari concentrandoci di più su grandi domande, tralasciando nuove risposte, capita che in tale stabilità ricercata e perseguita ci sentiamo sicuri: sicuri di non agire di nuovo, né nel bene, né nel male. È a partire da questo spunto che propongo il progetto Un’estate fa, di Fabio Gubellini.

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Colonia fluviale Roberto Farinacci, Cremona; 2016.

(pagina accanto, a sinistra) Colonia Novarese, Miramare di Rimini (RN); 2016. (pagina accanto, a destra) Colonia montana, Rovegno (GE); 2016. (in basso) Colonia Reggiana, Riccione (RN); 2016. Colonia Agip, Cesenatico (FC); 2016.


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Progetto Ingegnere e fotografo imolese, partendo da una fascinazione, l’autore ha ricercato e ri-scoperto i luoghi delle colonie marine abbandonate del territorio romagnolo. Racconta: «Sono stato sempre affascinato da quelle grandi strutture, disseminate qua e là lungo la costa romagnola. Colonie elioterapiche erano definite un tempo; edifici imponenti, dallo stile geometrico e rigoroso, realizzati per le vacanze dei “figli del popolo”». Così che, Un’estate fa (www.fabio gubellini.it/progetti/un-estate-fa) è un viaggio nel passato, una presa di coscienza dello stato di conservazione delle principali colonie estive in stile razionalista, che un tempo sono state meta di vacanza, e che ora sono spazi sotto utilizzati o, addirittura, abbandonati: ricordo di un passato faticoso, senza un futuro ridisegnato. Continua Fabio Gubellini: «Poi, la storia ha proseguito il proprio corso, e di quel gesto futuristico di benessere (l’attuale welfare), che ha dato il via alla costruzione di decine di colonie sparse per tutt’Italia, in molti casi, rimangono solo spogli ricordi di ferro e cemento armato. È stato un vero e proprio salto nel passato, nella storia delle colonie e di coloro i quali le hanno concepite e realizzate. Accanto alle colonie e ai luoghi di costruzione, ho trovato indicazioni di mirabili architetti e ingegneri, che hanno lasciato un segno tangibile delle proprie abilità. Questo documento è dedicato a loro, come anche a tutti gli addetti e ospiti, che in questi luoghi hanno lavorato o soggiornato». L’intento del percorso fotografico di Fabio Gubellini è quello di riportare l’attenzione sulla valorizzazione di un importante patrimonio architettonico, affinché queste macro-strutture in bianco e nero, fonte di chiari e scuri socio-politico-culturali, possano trovare una nuova identità contemporanea... vivida e a colori. Sotto cieli immensi, che sembrano essere i primi a interrogarsi sul perché di questo abbandono solitario, l’autore si concentra sulla storia dell’architettura e dell’ingegneria che gli stessi edifici rappresentano. Oltre l’intenzione principale e originaria, lo stuzzicante retrogusto del progetto fotografico si esprime in una domanda sospesa, in attesa di una risposta, o di un processo. ❖

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Colonia Varese o Colonia Costanzo Ciano, Milano Marittima (RA); 2016.

Colonia marina dei Fasci Combattenti di Rieti, Montesilvano (PE); 2016.

Colonia marina XXVIII Ottobre, Cattolica (RN); 2016.

Colonia Montecatini (Monopoli di Stato), Milano Marittima (RA); 2016.



Testimonianza video di Antonio Bordoni

FOTOGRAMMI DI LAVORO

A

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E

ZERO GALLERY (MILANO)

Yuri Ancarani: Il Capo (The Chief); 2010. Pellicola 35mm, 5.1 dolby digital, videoproiezione a un canale.

COURTESY DELL’AUTORE

Eva Leitolf: Ein Konzern, eine Stadt (Un gruppo industriale, una città / Company Town); 2015-2016. Ventiquattro immagini e trenta testi proiettati in sequenze continue su cinque schermi.

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Attivo dall’autunno 2013, con una sostanziosa programmazione di mostre fotografiche istituzionali sulla cultura sociale dell’Industria, il Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), scarta ora a lato il punto di vista del proprio osservatorio autorevole e privilegiato, andando a presentare un progetto espositivo dedicato all’immagine in movimento. Lavoro in movimento, per l’appunto, che sottotitola Lo sguardo della videocamera sul comportamento sociale ed economico, è giusto questo: video e installazioni sulle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e della produzione realizzati da quattordici artisti di fama internazionale. Nelle programmazioni precedenti, molte delle quali registrate in cronaca dalla nostra rivista, il racconto statutario dell’industria e del lavoro è stato scandito dalla narrazione fotografica, dal passo del suo linguaggio implicito ed esplicito, che rende permanente, nel Tempo, ciò che si è manifestato in forma transitoria. A differenza, ma non in contrapposizione, semmai in coincidenza di intenti, l’attuale Lavoro in movimento, immancabilmente a cura di Urs Stahel, responsabile della Collezione Mast su Industria e Lavoro e referente scientifico delle mostre qui allestite, è edificata su una serie mirata di video, con relativa rappresentazione visiva propria, sostanziosamente diversa da quella dell’istante fotografico: comunque la si voglia vedere e considerare. Infatti, l’osservazione filmata della realtà si basa su proprie peculiarità espressive di sintesi e narrazione; per certi versi, si può anche sottolineare come e quanto la videocamera sia idonea e conveniente nel testimoniare la mutabilità (incostanza?) di un mondo in rapida trasformazione. È giusto l’immagine filmata che descrive in modo immediato e coinvolgente cambiamenti, evoluzioni e rotture. A differenza, la fotografia li sintetizza, esigendo però capacità di lettura e decifrazione. Dunque, nel proprio insieme, il casellario della rassegna Lavoro in movimento risponde direttamente alla


COURTESY DELL’AUTORE

E

PRISKA PASQUER GALLERY (COLONIA, GERMANIA)

Testimonianza video

propria promessa esplicita e didascalica, offrendo immagini intense di ambienti eterogenei di lavoro e commercio: dall’attività artigianale, magari svolta da un singolo individuo, alla produzione intensiva, dal lavoro umano a quello robotizzato, dalla produzione di energia a quella di beni e servizi high-tech, dalla progettazione del prodotto alla contrattazione commerciale, dalle sfide di natura legale a questioni strutturali ed esistenziali legate al sistema finanziario. A questo proposito, scartando moderatamente a lato dall’esposizione proposta al Mast, di Bologna, e per sottolineare l’autonomia lessicale della fotografia (senza alcuna contrapposizione al cinema/video), forte della propria sintesi (per quanto impossibilitata a registrare il movimento, in quanto tale), restiamo su quest’ultima

Pieter Hugo: Permanent Error (Errore permanente); 2010. Videoinstallazione con dieci monitor.

annotazione: «questioni strutturali ed esistenziali legate al sistema finanziario». Per farlo, ricordiamo la straordinaria monografia di Robert Frank London/Wales, pubblicata nel 2003 dall’attenta Scalo Verlag, di Zurigo, catalogo di una mostra allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art, di Washington. Le fotografie sono antecedenti al progetto The Americans (Gli americani, in recente edizione italiana Contrasto [FOTOgraphia, luglio 2008]), per il quale Robert Frank è sempre (e solo?) riconosciuto. In estratto da quanto scrisse per noi Grazia Neri, nel febbraio 2004. «Ho avuto un contatto diretto di almeno due ore [con London/Wales, di Robert Frank], e voglio raccontare le ragioni per le quali entrerà nello scaffale dei miei favoriti. [...] Robert Frank si reca per tre anni, dal 1951

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PARADOX E

COURTESY DELL’AUTORE PARADOX E

COURTESY DELL’AUTORE

al 1953 a fotografare i minatori nel Galles e le proprie famiglie, e la City di Londra, il quartiere degli affari dell’epoca. L’uso di una luce straordinaria unisce il Galles a Londra. [...] Non ho il coraggio, l’abilità e la forza di dire quanto le fotografie siano di una bellezza, di un rigore e di un romanticismo ineguagliabili. «Nel 1946, lessi per la prima volta Com’era verde la mia vallata, di Richard Llewellyn, romanzo uscito da Mondadori, nel dicembre del 1945, nella splendida collana Medusa. Era l’immediato dopoguerra e questo libro mi ha indirizzato profondamente

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Thomas Vroege: So Help Me God (Che Dio mi assista); 2014. Videoproiezione.

(in alto) Ad Nuis: Oil & Paradise, 10 trips to Azerbaijan (Petrolio & Paradiso, 10 viaggi in Azerbaigian); 2013. Videoproiezione a due canali.

verso l’“altro”; nella più recente edizione italiana Oscar Mondadori (la mia Medusa originale giace in una casa di campagna), a pagina 77, il protagonista annota “Fu allora che scopersi cosa può essere un libro”. Era la mia personale scoperta di ragazza di dieci anni. Le miniere, la fatica, l’ineguaglianza sociale, le lotte di classe, le lotte tra i sindacati, la crisi delle miniere, la passione per il proprio lavoro e due mondi diversi che non si incontravano socialmente, ma vivevano uno legato all’altro: la City e i minatori. Ho questo libro nella mia testa da sempre, e vi resterà per

sempre. Proprio per questo ho vissuto con interesse, forse eccessivo, gli anni thatcheriani, con la chiusura delle miniere in Inghilterra. «Conoscevo qualche fotografia di Robert Frank di questo lavoro, ma non sapevo della sua grande perfezione, e soprattutto del suo descriverlo come “story”. Per me, questo reportage fa parte della sobrietà del linguaggio, in una composizione così perfetta che mi fa venire la pelle d’oca, nella conoscenza della cronaca e della storia. Robert Frank, come me, era stato incantato dal romanzo di Richard Llewellyn».


COURTESY DI ANTJE EHMANN; BERLINO, GERMANIA (2)

A questo punto, e in dovere di cronaca, torniamo all’essenza e valore dell’attuale rassegna Lavoro in movimento, a proposito della quale il curatore Urs Stahel annota che «Viviamo in tempi in cui la realtà è una dimensione in movimento: la percepiamo come un insieme di piani paralleli che si affiancano, si susseguono, si sovrappongono. La mostra ne traccia un resoconto visivo attraverso una selezione di video che si configurano come piccole galassie, nelle quali la singola opera ha un valore autonomo, ma trova il proprio significato soprattutto in relazione alle altre, di cui diventa

-di volta in volta- commento, critica o tacita risposta. L’intensità, spesso toccante, la forza e la ricchezza di queste immagini in movimento restituiscono l’evoluzione del mondo del lavoro e della nostra vita con forme, meccanismi narrativi e linguaggi visivi diversi». In chiusura, la doverosa menzione degli autori: Yuri Ancarani, Gaëlle Boucand, Chen Chieh-jen, Willie Doherty, Harun Farocki / Antje Ehmann, Pieter Hugo, Ali Kazma, Eva Leitolf, Armin Linke (in collaborazione con Irene Giardina, Herwig Hoffmann, Renato Rinaldi e Giuseppe Ielasi, Ulrike Barwanietz, Mark Teuscher, Masa

Harun Farocki / Antje Ehmann: Labour in a Single Shot (Lavoro in un unico piano sequenza); 2011. Quindici monitor, su ciascuno dei quali sei video di un minuto.

Busic, Johanna Hoth, Samuel Korn), Gabriela Löffel, Ad Nuis, Julika Rudelius e Thomas Vroege. Da cui, un dialogo serrato tra le rispettive opere, il cui insieme compone i tratti di una rappresentazione visiva dello scenario sociale ed economico in continuo movimento. Appunto! ❖ Lavoro in movimento. Lo sguardo della videocamera sul comportamento sociale ed economico; a cura di Urs Stahel. Mast Gallery (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 30133 Bologna; www.mast.org. Fino al 17 aprile; martedì-domenica, 10,00-19,00.

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LA DANZA DEGLI ULIVI Con la qualità delle sue fotografie di Ulivi, Massimo De Gennaro scandisce tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta: non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario. Visioni pacate, che impongono la riflessione, che inducono in tentazione... di pensare, ciascuno per sÊ, ma anche in condivisione con altri


di Maurizio Rebuzzini

S

entiamo il bisogno di catalogare le persone, di capire chi sono, come dobbiamo comportarci con loro, cosa dobbiamo dire la prossima volta che le incontriamo. Ci rende la vita un poco più facile... forse. Ma non facciamo loro domande, perché temiamo che se le facessimo, potremmo perderle. Lo stesso vale per i fotografi, dei quali dovremmo comprendere l’azione, senza peraltro sollecitare loro dichiarazioni esplicite e in motivazione: origine e proseguimento dei singoli cammini sono sempre espressi e dichiarati nei rispettivi progetti, nella successione delle immagini che si susseguono una alle altre con coerenza inarrestabile, quanto affascinante e coinvolgente. Se le guardiamo bene, le fotografie, potranno anche non rivelare adeguatamente il soggetto preso a pretesto; ma, sicuramente, palesano molto del proprio autore. A Massimo De Gennaro non abbiamo chiesto nulla sui suoi Ulivi, e neppure ci siamo lasciati influenzare dalle colte parole (di Walter Guadagnini) che accompagnano la raccolta La danza degli ulivi, pubblicata da Silvana Editoriale, nell’estate 2015. Non gli abbiamo chiesto nulla, perché il suo essere Uomo del Sud, della Puglia, è evidente sia nei suoi comportamenti, sia per quell’educato garbo (millenario) che contraddistingue ed eleva i Sud del Mondo, sia per il legame dovuto alla terra di origine. Così, in successione coerente, dopo aver affrontato il mare che bagna la regione (Blue, in FOTOgraphia, del giugno 2002), Massimo De Gennaro ha rivolto la propria attenzione fotografica a un altro elemento forte del paesaggio pugliese: l’Ulivo, una delle piante che compare più spesso nella mitologia e nella preistoria, una pianta che definisce il paesaggio rurale in Puglia. In particolare, l’Ulivo disegna e definisce il territorio della Murgia dei Trulli, andando a ca-

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ratterizzare le aree dei comuni alla confluenza delle provincie di Bari, Brindisi e Taranto: Locorotondo, Ceglie Messapica, Martina Franca, Cisternino e Ostuni... soprattutto. Accettiamo e accogliamo la realtà di questo paesaggio, a conseguenza del quale valutiamo e presentiamo l’azione fotografica compiuta dall’autore in duplice consapevolezza intima: il suo essere Uomo del Sud e fotografo che registra la realtà in toni propri e con un linguaggio visivo individuale. Nella propria forma apparente, queste fotografie si rivolgono a istanti di natura, nella propria fantastica bellezza. Una natura nella quale si svolge l’Esistenza. La differenza, se ce lo consentiamo, non è affatto piccola. Dotato di sentimento gentile e raffinato, formato in parti uguali di cultura e istinto, l’autore assolve una condizione basilare della Fotografia, quella di osservare, piuttosto che giudicare, per condividere e partecipare. Fotografo cosciente e scrupoloso, Massimo De Gennaro applica un linguaggio che manifesta una straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, che scandiscono un tempo e ritmo che accompagnano l’osservazione, invitandola ad allineare l’irrazionale con il razionale, e viceversa: dalla mente al cuore, ma anche dal cuore alla mente. Prima ancora di aver realizzato ognuna delle sue fotografie di Ulivi, averle pensate o sognate, anche per un solo istante, l’autore si propone in modo diverso e autonomo da tutti coloro che hanno guardato (non visto) le medesime situazioni. Per sempre. Perché va detto. Nessuno di questi soggetti raffigura se stesso: ognuno rappresenta qualcosa d’altro e di diverso, sia preso da solo, sia inserito nella magistrale combinazione di tante immagini, una accanto all’altra, una dietro l’altra. Non sono natura, ma “fotografie di natura”: tra la realtà e la sua raffigurazione ci sta il cuore di un autore, che risponde a una propria cultura ed esperienza esistenziale, che mette cortesemente a disposizione. (continua a pagina 30)

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(continua da pagina 27) È fondamentale rendersi conto che tanto la fotografia espressiva (detta anche creativa) quanto quella di documentazione non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. Grammatica-linguaggio: il fotografo, che percepisce determinati valori del soggetto, li definisce nella composizione e li duplica sulla stampa. Se lo desidera, può simulare l’apparenza in termini di valori di densità riflessa, oppure può restituirla ricorrendo ad altri termini, basati sull’impatto emotivo. Ancora, grammatica-linguaggio: a dispetto della loro apparenza, le fotografie di Massimo De Gennaro non appartengono alla categoria delle “fotografie realistiche”; quanto offrono di reale risiede solo nella precisione dell’immagine ottica; i loro valori sono invece decisamente “distaccati dalla realtà”. L’osservatore può accettarli come realistici, in quanto l’effetto visivo può essere plausibile, ma -se fosse possibile metterli direttamente a confronto con i soggetti reali- le differenze risulterebbero sorprendenti: tra la realtà e la sua raffigurazione, ci sta il passaggio fondamentale attraverso una mediazione etica e morale. Se vogliamo vederla con un paradosso, che tale è soltanto in apparenza, potremmo anche ipotizzare una sorta di (benevola) bugia. Infatti, come tutti i fotografi, anche Massimo De Gennaro è un inguaribile bugiardo. Lo è perché e per quanto controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Come un bravo narratore mente per far comprendere il proprio racconto, anche il bravo fotografo mente per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio racconto. Per cui, anche individuando i soggetti fotografati dall’autore, a pretesto del suo narrare per immagini, non si percepiranno le stesse emozioni che, invece!, trasmettono le sue immagini. In ripetizione, la realtà è una cosa, la sua rappresentazione un’altra. Ciò detto, è necessario rilevare e rivelare la prepotente personalità linguistica

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della fotografia, che è raffigurativa per necessità e rappresentativa per scelta e volontà: non necessariamente ciò che mostra è quello che vediamo, dobbiamo vedere, possiamo comprendere. Dove sta la bugia di Massimo De Gennaro? Paradossalmente, nella sua sincerità di intenti ed esecuzione. Offre una sua lettura e interpretazione della Natura, affinché ciascuno di noi, alla presenza delle sue fotografie, possa esprimere pensieri propri autonomi, partire per viaggi individuali. Ancora, dove sta, allora, la sua bugia ? Nel raccontare con perizia e cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, per imboccare con decisione il proprio cammino, che può coincidere con quello delle sue intenzioni d’autore, ma anche distaccarsene. Mettiamola così: con la qualità dei contenuti delle sue fotografie, Massimo De Gennaro scandisce tempi del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta. Visioni pacate, che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare... per sé, ma anche in condivisione con altri. Soltanto, non si cerchi necessariamente la sintonia con l’autore: si è già espresso con le proprie immagini, e nulla altro ha da aggiungere. Quindi, ognuno parta da queste fotografie, da queste folgorazioni, da questi squarci nel buio per comporre i tratti del proprio percorso, che sarà avvincente per almeno due motivi: perché proprio, anzitutto, e perché sollecitato da una fotografia di profilo alto. In ripetizione d’obbligo: la fotografia è magica e magia giusto per questo. Non necessariamente racconta dei propri soggetti, spesso invitati a richiamare altre intimità che non la loro apparenza a tutti manifesta. Ma rivela sempre qualcosa dell’autore, che coinvolge tutti nella propria visione. ❖

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WORLD PRESS PHOTO 2017: AMBER BRACKEN - PRIMO

PREMIO

CONTEMPORARY ISSUES STORIES


La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.

.

aprile 2017

WPP 2017: SVOLGIMENTO, VINCITORI, PROGETTI, RICHIAMI E CONTORNO. Con considerazioni


Ritratti di animali e visioni di ecosistemi in fotografie realizzate dal talentuoso Simone Sbaraglia. Di fronte a queste immagini, bisogna essere grati ai bravi fotografi di natura -e questo è il caso-, la cui intensa partecipazione al soggetto, che non ha eguali in nessun altro indirizzo fotografico, rivela a tutti noi un mondo che non possiamo né conoscere dal vivo, né avvicinare nella propria bellezza. Un mondo che alberga soprattutto nel loro cuore, nel quale nasce e cresce un amore senza confini, che viene prontamente diviso e condiviso con l’osservatore

PORTRAITS


ASSIOLO



S

BERBERO

educente e accattivante fotografo di natura, il bravo Simone Sbaraglia, che approda alla comunicazione visiva provenendo da una formazione accademica in matematica (beato lui!), agisce in un ambito che appartiene a un immagino collettivo che esula dalla concentrazione sulla stessa fotografia. E con questo è doveroso iniziare, prima di approdare alla sua qualità espressiva e creativa. Dunque: sottolineatura doverosa, che ripetiamo in ogni occasione necessaria. Nel racconto della Storia della Fotografia si avvicendano lacune colpevoli: comunque le si consideri, comunque le si accolgano, le considerazioni espresse sono sempre svilite da preconcetti di visione e osservazione. Soprattutto, nelle retrospettive che affondano indietro nei decenni, si tratta di esclusioni geografiche, fino a racconti profondamente americanocentrici (una volta risolta la burocrazia francese e inglese delle origini ufficiali). In seguito, le esclusioni sono di contenuto. Fino al punto che le storie della fotografia procedono lungo il tracciato del reportage, con moderate escursioni verso la moda e il ritratto, soprattutto. Quindi, in tempi recenti, si sono aggiunti racconti che sottolineano anche le espressioni considerate artistiche, spesso esterne al rapporto professionale con la committenza. In ogni caso, la fotografia di natura, eccoci qui, è sostanziosamente non considerata, come ha ben argomentato anche Lello Piazza, lo scorso ottobre 2016, a completamento della relazione attorno il prestigioso e qualificato concorso BBC Wildlife Photographer of the Year 2015 (chi può, torni a rileggere). A differenza,

noi sappiamo apprezzare la fotografia, oltre i nostri gusti individuali, e riconoscere la sua missione di «spiegare l’Uomo all’Uomo» (da e con Edward Steichen). Quindi, sappiamo individuare il bello (qualsiasi cosa ciò possa significare e identificare). A conseguenza, per quanto ignorata dalla Storia della Fotografia, indirizzata verso altre visioni, la fotografia naturalistica è più che straordinaria: per quanto ci riguarda, indipendentemente dal nostro rapporto personale con il soggetto. Grazie all’impegno e capacità di autori eccezionali, la fotografia naturalistica rivela quanto nessuno -non solo noi!- è in grado di osservare dal vivo. Ancora: fedele al proprio mandato “menzognero” (ed è un valore positivo, sia chiaro), questa fotografia interpreta il vero come nessun occhio fisiologico può mai percepire. Ancora, e poi basta, i fotografi naturalistici sono singolari anche nello svolgimento dei propri progetti, perseguiti con amore e dedizione che non hanno eguali in alcuna altra manifestazione espressiva, creativa o -semplicemente?- documentativa. Onore e merito a loro. Indipendente dalle rispettive redditività professionali, che sono altro, sia chiaro che, con la fotografia tutta, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una Fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro, che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. Sappiamo riconoscere l’amore... quando lo incontriamo. E, oggi, incrociamo l’attento e bravo Simone Sbaraglia, che l’accorta e vigile Associazione Obiettivo Camera propone nell’ambito delle esposizioni che cura e allestisce presso lo Spazio Kryptos, (continua a pagina 41)

LEONE

MANDRILLO

di Maurizio Rebuzzini

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CAIMANO

LEMURE

VARI BIANCO E NERO

MACACO

NERO




GIAPPONESI

GRU ELEFANTE AFRICANO

(continua da pagina 37) di Milano: Portraits, dal sedici al trenta marzo. Sull’autore, doverose note di presentazione: inviato dalle riviste Oasis e inNatura, ha pubblicato su testate internazionali di pregio e valore. È autore delle monografie Immagini dal Pianeta Terra (2014) e A tu per tu con la Natura (Palombi Editore, 2015). Tra i riconoscimenti internazionali, si registrano il Primo Premio assoluto allo Zoological Society of London International, il Veolia Wildlife Photographer of the Year 2014, il Primo Premio al Campionato Italiano Oasis Photocontest 2012, tre Primi Premi consecutivi al prestigioso Glanzlichter (2012, 2013 e 2014) e due Primi Premi consecutivi al Nature’s Best Photography (2013 e 2014). Ancora: è ambasciatore e testimonial X Photographer Fujifilm. Valutando la qualità delle fotografie di Simone Sbaraglia, equamente scomposte tra rappresentazione convinta e consapevole di ecosistemi e ritratti di animali, viene in mente un richiamo cinematografico, che appartiene al nostro consistente bagaglio personale. Nel commovente film I sogni segreti di Walter Mitty, di e con Ben Stiller, del 2013 [tre nostre considerazioni, in successione e consecuzione di intenti: in FOTOgraphia, del maggio, giugno e dicembre 2014], a contorno della vicenda narrata (la chiusura di Life, postdatata di quarant’anni dalla realtà), si incontra un toccante cameo. Evocato per tutto il film, il fotografo Sean O’Connell, si materializza nell’interpretazione di Sean Penn. Il photo editor Walter Mitty (Ben Stiller) lo rintraccia su un ghiacciaio, dove è in postazione da giorni per fotografare il leopardo delle nevi, sostanziosamente inavvicinabile. Citazione colta: della fotografia con la quale Steve

Winter si è affermato al BBC Wildlife Photographer of the Year 2008, realizzata dopo dieci mesi di osservazioni delle abitudini dell’animale [FOTOgraphia, febbraio 2009 e giugno 2014]. Inquadrato il leopardo delle nevi, Sean O’Connell non scatta: «Certe volte, non scatto...», afferma. «Se mi piace il momento... Piace a me... Non amo avere la distrazione dell’obiettivo». Atteggiamento mirabile, che può nascere soltanto in momenti di intensa natura. Da cui, al cospetto di questa significativa selezione di fotografie di natura del talentuoso Simone Sbaraglia, un pensiero sorge spontaneo. Oltre a quanto possiamo vedere del suo lavoro, quante volte non ha scattato, lasciandosi avvolgere e coinvolgere dalla sola osservazione visiva? Siccome Simone Sbaraglia è un eccellente fotografo, capace di interpretare e proporre la natura come pochi altri riescono a farlo, personalmente, speriamo che sia sempre rimasto fedele al proprio mandato, per offrirci la sua fotografia in quantità, oltre che in qualità. Bisogna essere grati ai bravi fotografi di natura, quale è Simone Sbaraglia, la cui intensa partecipazione al soggetto, che non ha eguali in nessun altro indirizzo fotografico, rivela a tutti noi un mondo che non possiamo né conoscere dal vivo, né avvicinare nella propria bellezza. Un mondo che alberga soprattutto nel loro cuore, nel quale nasce e cresce un amore senza confini né limiti, che viene prontamente diviso e condiviso con l’osservatore. Non natura, ma (straordinarie) fotografie di natura, che arricchiscono anche il nostro di cuore. ❖ Simone Sbaraglia: Portraits; a cura di Filippo Rebuzzini. Con il contributo di Fujifilm. Spazio Kryptos, via Panfilo Castaldi 26, 20124 Milano; www.kryptosmateria.it, spazio@kryptosmateria.it. Dal 16 al 30 marzo; lunedì-venerdì 15,30-19,00.

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SOSTANZIOSO PASSO AVANTI

Annunciata alla scorsa Photokina 2016, di Colonia, in autunno, la nuova Fujifilm GFX 50S definisce un innovativo standard fotografico dei nostri giorni. L’efficacia dell’interpretazione Mirrorless, sulla cui efficienza abbiamo riflettuto giusto un mese fa, sul nostro numero di febbraio, si combina con un potente sensore di dimensioni medio formato, per acquisire file di alta qualità formale. Con tutto quanto ne consegue, ne potrà conseguire, ne conseguirà


La Mirrorless medio formato Fujifilm GFX 50S si offre e propone come autentico sistema fotografico indirizzato a tutti gli utilizzi propri e caratteristici della fotografia professionale. Allo stesso tempo, indica e sollecita nuove interpretazioni tecnologiche. In divenire.

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di Antonio Bordoni

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econdo previsioni, l’arrivo sul mercato della nuova Fujifilm GFX 50S conferma i canoni anticipati al momento del suo annuncio, lo scorso autunno, nel corso della Photokina 2016, con nostra ripresa concettuale di un mese fa, dove e quando abbiamo espresso opinioni riguardo la trasmigrazione professionale della condizione basilare Mirrorless, eccellenza della tec-

nologia fotografica dei nostri giorni. Da qui, è giocoforza sottolineare -soprattutto e prima di altro- la dotazione di un potente ed efficace sensore di acquisizione digitale Cmos di dimensioni generose, identificabile nell’ambito del medio formato: 43,8x32,9mm, con 51,4 Megapixel di risoluzione, e conseguenti file di alta qualità formale... per i contenuti, a ciascuno i propri. E questa quantificazione tecnica, cuore di una configurazione fotografica di prestigio assoluto, al top dell’attuale comparto commerciale (va detto!), è l’unica che riportiamo in questa nostra nota, estranea al casellario di caratteristiche in combinazione e successione, che compete e spetta ad altri, in una offerta di considerazioni e sintesi più che abbondante (a partire dalla Rete, nel proprio tempo reale). Perché, in definitiva, e dal nostro punto di vista (viziato, quanto mirato), la consistenza della Fujifilm GFX 50S, che comunque si esprime con tali/tanti suoi valori, non si misura soltanto attraverso la somma delle relative prestazioni di uso, che sono in ordine con quanto di meglio possa offrire la tecnologia applicata alla fotografia dei nostri giorni. Ovvero, le considerazioni da sottolineare sono ben altre... alla fine, ci arriviamo. Oltre l’apparenza a tutti visibile, ma anche a partire da questa, la Fujifilm GFX 50S stabilisce termini di una interpretazione fotografica sostanziosamente innovativa, che offre opportunità proprie, opportunità in crescita, alla fotografia professionale (e all’impegno non professionale convinto e consapevole). In questo senso, puntualizziamo una volta ancora, una di più e, forse, mai una di troppo, come e quanto la creatività fotografica sia anche subordinata all’efficacia pratica dei propri utensili. Sia chiaro: anche subordinata, una volta assolti e risolti i parametri creativi dell’espressività individuale. Nel sottile e capillare rapporto che vincola la ripresa fotografica all’influenza degli strumenti, la Fujifilm GFX 50S fa tesoro delle prerogative proprie e caratteristiche della costruzione Mirrorless, per offrire un apparato di classe fisica superiore agli standard attuali, nel senso di un sensore di acquisizione digitale di immagini medio formato Cmos (1,7x volte più grande della classe Full Frame), senza peraltro penalizzare l’operatività ottimale della fotografia a mano libera: 825 grammi il solo corpo, incluse batteria di alimentazione e scheda di memoria, e 1230 grammi di peso nella combinazione con la focale standard Fujinon GF 63mm f/2,8 R WR, Standard Prime Lens con angolo di campo equivalente al 50mm della fotografia 24x36mm (inevitabile rife-


rimento d’obbligo), pari al sessanta percento in meno di una reflex Full Frame. In questo senso, non si ipotizza un indirizzo privilegiato di impiego, ma si estende il pensiero a tutta la fotografia, nel proprio insieme e complesso: dalla registrazione del/dal vero della vita nel proprio svolgersi alla costruzione in sala di posa, dalla dinamicità di soggetti in rapido movimento alla staticità di pose a lungo pensate e meditate (in questo caso, con la Fujifilm GFX 50S stabilmente fissata su treppiedi). Ovviamente, le dimensioni fisiche del sensore medio formato di acquisizione digitale di immagini, combinate con l’efficacia di processori di immagine adeguatamente allineati (X Processor Pro), non si esauriscono in se stesse, ma stabiliscono anche innovativi parametri nell’ambito della ricezione e gestione della luce, su aree ben distinte di ogni pixel. Ne conseguono valori qualitativi che dalla risoluzione si estendono alla registrazione raffinata di ogni particolare e ogni cromatismo del soggetto, in una interpretazione fotografica che si annuncia e promette superlativa. A questo fine, il potente sensore di acquisizione digitale di immagini Cmos 43,8x32,9mm, da 51,4 Megapixel di risoluzione (Fujifilm G Format), è indirizzato alla registrazione compressa Jpeg, nella cadenza Ottima, Buona e Normal, oltre due diverse impostazioni grezze Raw (non compresso, compresso); l’uscita Tiff è possibile anche utilizzando la gestione in-camera Raw. Quindi, in Movie Mode, sono supportate le impostazioni Full HD (1920x1080 29.97p / 25p / 24p / 23.98p 36Mbps) e HD (1280x720 29.97p / 25p / 24p / 23.98p 18Mbps). Si possono riprendere filmati di alta qualità, che si avvalgono di eccellente riproduzione dei colori grazie alla profondità di campo propria e caratteristica del sensore di grandi dimensioni, magari abbinato alla modalità di simulazione della pellicola. L’otturatore a tendina, collocato sul piano focale, non impegna i singoli obiettivi e si propone per ogni combinazione ottica. Raggiunge il tempo di otturazione limite di 1/4000 di secondo (1/16.000 di secondo quando si passa a otturatore elettronico), con una velocità di sincronizzazione flash fino a 1/125 di secondo. Dotata di doppio slot per schede di memoria SD (con consiglio di utilizzare la serie UHS-II), la Fujinon GFX 50S supporta tre tipi di registrazione: “Sequenziale”, in ordine di scatto, “Backup”, che registra gli stessi dati su due schede contemporaneamente, e “Ordinamento”, che archivia i file grezzi Raw e compressi Jpeg su schede separate.

Dal nostro punto di vista, ipotizziamo conseguenze dirette, oltre che prolungate. Conseguenze che dalla tecnologia applicata, nello specifico Mirrorless medio formato, si estenderanno e distribuiranno su tutto il comparto fotografico, in special modo verso quello indirizzato alla fotografia professionale. In questo senso, e imperiosamente,

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Oltre il pentaprisma standard (High Magnification e High Definition Electronic Viewfinder), che equivale all’impiego tradizionale delle reflex, con mirino portato all’altezza dell’occhio, la Fujifilm GFX 50S può disporre anche del mirino elettronico EVF-TL1, accessorio opzionale, con rotazione verticale da zero a novanta gradi, in cinque passi, e orizzontale di più/meno quarantacinque gradi.

Tra gli accessori complementari all’uso e applicazione della Fujifilm GFX 50S, segnaliamo il dispositivo per collocare l’apparecchio al dorso delle configurazioni a banco ottico (e, anche, folding) 4x5 pollici: qui in visualizzazione Horseman 450 LX-C, di buona memoria (splendore della fotografia grande formato). In questo senso, riprendiamo la segnalazione di quanti tanti altri dispositivi analoghi, soprattutto universali (in dimensioni e forma per il definito attacco internazionale, adottato da tutti gli apparecchi 4x5 pollici), siano disponibili

per ogni baionetta delle attuali reflex e Mirrorless ad acquisizione digitale di immagini: volendolo, e in curiosa coincidenza, nostra visualizzazione Sinar Norma / Fujifilm X-M1, a pagina 62, su questo stesso numero. A differenza, questo accessorio Fujifilm GFX 50S è ideologicamente diverso, perché indirizzato: di fatto, propone l’impiego della Mirrorless medio formato come autentico dorso ad acquisizione digitale di immagini, per applicazioni alle quali siano proficui i movimenti di accomodamento dei piani fotografici.

l’attualità della Fujifilm GFX 50S va considerata oltre i propri riferimenti unici ed esclusivi, per essere valutata come istante di avvio di una evoluzione sostanziale e sostanziosa della fotografia applicata. Per quanto l’interpretazione stia agli autori, la cui progettualità realizza e distribuisce emozioni che influiscono sulla vita di tutti noi, la base operativa di partenza è ancora capace di stabilire passi e differenze. Ed è questo il vero senso di questa configurazione:

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indica una strada da percorrere, stabilisce parametri in crescita, incrementa le possibilità fotografiche. Insomma e a conclusione, l’innovativa Fujinon GFX 50S assolve al meglio e per il meglio la mediazione tecnica della fotografia, soprattutto professionale, ma non soltanto. Nell’uso, sta al fotografo risolvere i connotati della creatività individuale, ovverosia il lessico, la grammatica, la sintassi. L’espressività! ❖



Oltre e a margine dell’avvincente retrospettiva fotografica Auguste Vautier-Dufour et le Téléphot, allestita all’autorevole Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, fino a tutto agosto, o quasi, considerazioni introduttive sul senso e valore della memoria storica, dei compiti delle istituzioni e delle lezioni dal passato: con amarezza, per quanto riguarda il nostro paese. Comunque, un balzo temporale indietro di un secolo, per incontrare uno sperimentatore che tanto ha dato: con valutazioni tecniche che non si sono esaurite in sé, ma hanno influenzato la tecnologia applicata alla fotografia nei decenni a seguire. Eccoci

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TELEOBIETTIVO D’ANNATA di Angelo Galantini

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rima di cadenzare i termini della presentazione della avvincente e convincente mostra storica Auguste Vautier-Dufour et le Téléphot, in calendario al Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, è doveroso riflettere sui compiti istituzionali propri e caratteristici di coloro i quali si occupano di fotografia, ciascuno con proprio indirizzo e intenzione. Nello specifico, come già annotato in occasioni precedenti, dove e quanto è stato il caso di farlo [per esempio, lo scorso aprile 2016, in occasione della corposa rassegna, altrettanto storica, Un tour de monde en Photochromes], il Museo svizzero dell’apparecchio fotografico è autenticamente tale: “Museo” e “svizzero”, per quanto la sua identificazione ufficiale di richiamo, “dell’apparecchio fotografico”, sia introduttiva di sostanziose escursioni verso l’immagine, ovverosia l’applicazione degli utensili tecnici. Nell’essere Museo e nella congiunzione geografica enunciata, la sede di Vevey, nel Canton Vaud, sulle rive del lago di Ginevra, custodisce ed espone eccellenze fotografiche di alto valore storico, privilegiando -ovviamente- gli aspetti nazionali del lungo cammino [altro rimando a Avions, ballons, pigeons...: epopea della fotografia aerea svizzera, in FOTOgraphia, del maggio 2007]. A completa differenza, è doloroso constatare che lo stesso non avviene con istituzioni analoghe italiane, spesso incamminate in tragitti accademici estranei a cammini originali, che potrebbero (dovrebbero?) essere considerati e catalogati e storicizzati. Peccato. Punto. In relazione al proprio intento, in attualità di date e riferimento, dal quindici marzo, con esposizione allestita fino al prossimo ventisette agosto, il Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, propone una retrospettiva di spessore e attrattiva: Auguste Vautier-Dufour et le Téléphot. La genesi di questa mostra è significativa, e si accorda appieno all’introduzione appena pronunciata. Nell’estate 2012, il Museo è stato avvicinato da una famiglia in possesso di un fondo legato alla personalità di Auguste Vautier-Dufour (1864-1932), appassionato di fotografia astrale e telefotografia, che, in forma autodidatta, a partire dal 1890, ha condotto sostanziosi esperimenti per fotografare soggetti distanti con un apparecchio equipaggiato di una lunga focale compatta. Con l’aiuto dell’astronomo ginevrino coetaneo Emile Schaer (1862-1931), Auguste Vautier-Dufour ottenne il brevetto per il Téléphot, speci-

Auguste Vautier-Dufour con Téléphot (1910 circa).

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Emma Vautier-Dufour, moglie di Auguste, gioca con il diabolo. Fotografia di Auguste Vautier-Dufour con Téléphot (ottobre 1907).

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ficato in Sistema Vautier-Dufour e Schaer, il 14 marzo 1901. Immediatamente a seguire, non avendo i mezzi necessari per commercializzare la propria invenzione, cedette il brevetto, la cui interpretazione pratica portò a numerose soluzioni tecniche, commercializzate dal 1904; tra queste, l’Aéro-téléphot, per riprese fotografiche in volo, il Ciné-téléphot, applicato al cinema, nonché un modello stereoscopico e il Téléphot vero e proprio, per diversi formati fotografici. Consapevole del valore di questo sostanzioso fondo fotografico e al corrente delle sue precarie condizioni di conservazione, la famiglia si è rivolta al Musée suisse de l’appareil photographique, cosciente di come e quanto l’istituzione avrebbe potuto dare senso, e poi risalto, al deposito di stampe e documenti (a proposito, in situazione analoga, in Italia, quale sarebbe un referente ragionevole, plausibile, credibile e convincente?). Alla fine del 2013, l’intero fondo è stato convertito in una donazione, per una migliore gestione della sua conservazione e restauro. Quindi, grazie al sostegno di Memoriav, istituzione che si occupa in modo attivo e costante della salvaguardia, valorizzazione e ampia divulgazione del patrimonio audiovisivo svizzero, con sede a Berna, lo stesso fondo è stato curato e ha iniziato ad essere ripristinato sotto la direzione di Christophe Brandt, dell’Istituto svizzero di conservazione delle fotografie (Iscp), di Neuchâtel. E ora, è la base visuale dell’attuale esposizione fotografica programmata al Musée suisse de l’appareil photographique, da primavera a tutta l’estate (o quasi).

Il fondo è composto da trecentossessanta stampe fotografiche di varie forme e diverse dimensioni, tra le quali numerose copie “a contatto”, sessanta fotografie in formato carte de visite e carte de cabinet, centonovanta cartoline postali su supporto di gelatina al bromuro d’argento, centosessantotto diapositive su vetro, tre stampe di paesaggi greci fotografati dal ginevrino Frédéric Boissonnas (1858-1946) con un Téléphot, incollate cartone [un esempio, a pagina 52], un album di fotografie scattate con una macchina fotografica Kodak dell’inizio del Novecento, documenti e manoscritti. Altre fonti quantificano in modo leggermente differente, ma la sostanza non cambia.

AUGUSTE VAUTIER-DUFOUR Originario di Châtelard et des Planches (Montreux), Auguste Vautier-Dufour è nato il 19 settembre 1864, a Grandson, nel Canton Vaud. Figlio di Jules e Louise Vautier-Charlotte Duvoisin, appartiene a una famiglia di spicco del luogo, proprietaria della più antica e grande fabbrica di tabacco valdese, fondata dallo zio Henri Vautier, nel 1832, che lui stesso diresse nel corso della sua vita professionale. Il 21 luglio 1887, sposò Emma Dufour, figlia di Carlo Dufour, professore di matematica e astronomia all’Accademia e Università di Losanna, e di Aimée-Rosalie Falquier. La coppia ebbe quattro figlie, Emmeline, Germaine, Hilda e Camille. Appassionato di fotografia astronomica e scienza, Auguste Vautier-Dufour attrezzò la propria residenza


di Grandson, Villa Fleur d’Eau, con una cupola-osservatorio attrezzata per rilevazioni notturne. La sua sete di conoscenza e incredibile versatilità gli fecero immaginare e inventare il Téléphot. Se la sua invenzione non rappresentò una sua coincidente fortuna economica, gli consentì, comunque, di essere annoverato tra gli «scienziati che hanno onorato il nostro paese [la Svizzera]», in libera traduzione dal necrologio Décès de l’inventeur du Téléphot, pubblicato da L’Illustré, il 15 dicembre 1932, all’indomani della sua scomparsa, il precedente due dicembre. Dal 1903, e fino alla fine della sua vita, Auguste Vautier-Dufour ha trasmesso la sua passione fotografica, svolgendo conferenze e proiezioni in tutta la Svizzera romanda, francofona. Per la sua scomparsa, appena annotata, nella natia Grandson, l’autorevole Tribune de Lausanne, del sei dicembre, riportò una biografia elogiativa, che si concluse mirabilmente; ancora in libera traduzione: «L’invenzione del Téléphot, a cui -si può dire- Auguste Vautier-Dufour ha dedicato tutta la propria esistenza, è una notevole e considerevole conquista della scienza. Le sue applicazioni sono numerose, a partire dall’incremento di possibilità di registrazione della lastra fotosensibile. Con la sua azione, Auguste Vautier-Dufour si è inserito tra gli scienziati che il nostro paese onora e ne ha continuato la dinastia. Nonostante la memoria tenda a cancellare presto il ricordo delle personalità eccellenti, merita di essere commemorato e celebrato per quanto e come ha ben servito il proprio paese [la Svizzera]».

TÉLÉPHOT... TELEOBIETTIVO

In Inghilterra, Thomas Rudolph Dallmeyer (18591906), figlio di John Henry, brevettò il primo teleobiettivo fotografico nel 1891: per un maggiore ingrandimento dell’immagine, ovvero della proiezione, il suo disegno ottico posizionava una lente negativa dietro una configurazione standard dell’obiettivo. I primi teleobiettivi, in produzione industriale e/o semi-industriale dall’inizio del Novecento, si basarono tutti su questo schema ottico, per il quale l’impiego e finalizzazione di una lunghezza focale incrementata (maggiore della diagonale della superficie fotosensibile in esposizione) si traduce in un angolo di campo più ristretto. Per quanto pesante e ingombrante, questa soluzione fu subito d’ausilio in molte applicazioni pratiche, a partire da quelle militari, della fotografia aerea e di quella astronomica. Per conseguenza, fu proprio la passione per l’astronomia a sollecitare e guidare gli esperimenti fotografici mirati di Auguste Vautier-Dufour, come già annotato avviati nel 1890. Dopo tentativi precedenti, nel 1894, adottò un teleobiettivo Clément & Gilmer, che non lo convinse. Quindi, nel 1899, avviò ulteriori test con un altro teleobiettivo, Carl Zeiss, che confermò l’instabilità della collocazione, che risentiva di agenti atmosferici avversi, come il vento forte, aveva difficoltà di messa a fuoco e perdeva nitidezza a causa dell’eccessivo ingrandimento in proiezione sull’emulsione fotografica. Nel 1894, fu folgorante la lettura dell’articolo Mémoires sur la Téléphotographie en ballon (Memorie

Jacques-Henri Apothéloz, vecchio pescatore di Grandson (novant’anni), sul suo liquette Tireless. Fotografia di Auguste Vautier-Dufour con Téléphot (1908).

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L’Acropoli e il Monte Licabetto, ad Atene. Fotografia di Frédéric Boissonnas con Téléphot (1910 circa).

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sulla telefotografia dal pallone aerostatico; in Revue de l'Aéronautique), scritto da Victor Paul Bouttieaux (18571918), capitano dell’esercito francese e fotografo specialista. Da qui, Auguste Vautier-Dufour tornò agli obiettivi originariamente indirizzati al telescopio: la qualità formale delle sue fotografie delle Alpi, riprese dal piccolo borgo di Mauborget, sempre nel Canton Vaud (novantasette abitanti, al più recente censimento), fu decisamente incoraggiante per i suoi esperimenti. Via via, i risultati migliorarono, soprattutto per merito delle collaborazioni con l’emminente ottico di Basilea Emil Suter -la cui Optische Anstalt E. Suter, fondata nel 1878, è stata la prima azienda svizzera costruttrice di attrezzature fotografiche ad acquisire dimensioni industriali- e l’astronomo Emile Schaer (1862-1931), già menzionato, vice direttore dell’Osservatorio di Ginevra. Con le loro consulenze, Auguste Vautier-Dufour cominciò a ipotizzare la riduzione delle dimensioni dell’attrezzatura fotografica da dotare di teleobiettivo. Di questi studi si ha testimonianza specifica e diretta nel Bulletin de la Société vaudoise des sciences naturelles, numero 143, del 1902, dove è pubblicata la relazione intitolata con semplicità La Télé-photographie. E da qui, citiamo. Al culmine di mesi di lavoro, Auguste Vautier-Dufour e Emile Schaer approdarono a un progetto assolutamente innovativo, forte di tre condizioni basilari per l’uso pratico del teleobiettivo: «1, La luminosità; 2, La nitidezza; 3, L’ingrandimento. Questi tre prerequisiti per tele-fotografia sono, io credo, condizione costruente del nuovo dispositivo [Téléphot]. Anzitutto, siccome

può essere usato senza l’altrove indispensabile filtro giallo, ne consegue una maggiore sensibilità alla luce, che consente pose con tempi non superiori ai cinque secondi. Quindi, considerata la qualità della luce registrata, si semplifica la resa nel processo di sviluppo. Infine, la nitidezza è più che soddisfacente, fino ai bordi del campo inquadrato e fotografato. Tanto che l’ingrandimento del negativo può essere incrementato fino a dieci volte, con risultati eccellenti». Come già annotato, il brevetto del Téléphot, specificato in Sistema Vautier-Dufour e Schaer, fu ottenuto il 14 marzo 1901. Per la sua prima commercializzazione, nel 1904, fu coinvolto il fotografo ginevrino Frédéric Boissonnas (1858-1946), altrove Fred Boissonnas, con il quale si approntarono diverse configurazioni di un apparecchio identificato come Véga, prodotto dalla Société Anonyme de Photographie et d’Optique (rue Versonnex, a Ginevra): come già detto, ma la ripetizione è opportuna, tra queste, l’Aéro-téléphot, per riprese fotografiche in volo, il Ciné-téléphot, applicato al cinema, nonché un modello stereoscopico e il Téléphot vero e proprio, per diversi formati fotografici. Comunque, e in chiusura, tutte notizie complementari, che contestualizzano l’attuale rassegna Auguste Vautier-Dufour et le Téléphot, al Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey. ❖ Auguste Vautier-Dufour et le Téléphot. Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99, CH-1800 Vevey, Svizzera; www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch. Dal 15 marzo al 27 agosto; martedì-domenica 11,00-17,30.



Indipendentemente dalle tecnologie applicate e di uso (e oggi ci riferiamo anche a certa “estetica” della pellicola, piana grande formato e medio formato 6x7cm da rullo 120), bisogna proprio sfatare due preconcetti sostanziosamente diffusi. Anzitutto, molte difficoltà tecniche sono soltanto presunte, ovvero supposte e immaginate; in secondo luogo, non è vero che la macrofotografia appartenga al solo mondo scientifico, o sia territorio atletico dell’impegno non professionale. Infatti, ci si può indirizzare anche verso forme accattivanti e gratificanti di assoluto astrattismo formale. Considerazioni e conteggi

GRANDE GRANDE



di Antonio Bordoni (e Giancarlo D’Emilio)

ANTONIO BORDONI

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(Doppia pagina precedente) Sommando i valori originari di riproduzione fotografica e il successivo ingrandimento della messa in pagina, il dettaglio del selettore dei tempi di otturazione di una Leica M2 raggiunge i 30x: scatto originario in 8x10 pollici [fotografia di Maurizio Rebuzzini], come da questa simulazione con corpo macchina Leica IIIg, rigorosamente perpendicolare al piano immagine.

ubito detto. Per una curiosa serie di coincidenze, l’impegno fotografico è spesso minato da pregiudizi negativi e falsi. Contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe far credere, la teoria della tecnica fotografica non è necessariamente difficoltosa; casomai, può capitare che alcune caratteristiche e prestazioni risultino a volte complesse: soprattutto quando e per quanto vengono mal espresse e mal presentate. Per esempio, prima di tanto altro, possiamo riferirci al territorio della ripresa grande formato con apparecchi a corpi mobili, a fronte del quale da tempo promuoviamo un convinto e convincente Ritorno (su basi realistiche, che abbiamo più e più volte sottolineato, riferendoci all’impegno assunto da Giancarlo D’Emilio, appena mancato [su questo numero, da pagina 8] e Maurizio Rebuzzini). Giusto l’imposizione dei corpi mobili è spesso considerata con superstizione e fanatismo

2016), In bolla! (ottobre 2016), Basculando basculando (novembre 2015), Ben tornato! (ottobre 2014), A volte, tornano (settembre 2014) e Ritorno al grande formato (luglio 2014). da due schieramenti contrapposti di fotografi: gli uni diffidano di ogni idea di basculaggio e decentramento (per il vero, spesso commentati con poca competenza e senza la dovuta serenità); gli altri hanno creato dogmi assoluti. Però, ambedue sbagliano per lo stesso motivo. Ragionando per sentito dire o per preconcetti, non si affronta mai l’autentica essenza dei problemi da affrontare. Tanto per dire, le applicazioni di decentramento e basculaggio sono efficacemente presentabili riferendole con semplicità alle proprie componenti squisitamente geometriche: piani, linee e banali rapporti ottici da abbecedario della fotografia. Così che, senza alcuna autoreferenzialità, ma consueta onestà intellettuale (diciamola così), rimandiamo alla più recente sequenza di nostre rilevazioni redazionali. In cronologia inversa, sempre in FOTOgraphia: Prospettiva & contorni (dicembre

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MACRO Un altro preconcetto diffuso relega l’esercizio della macrofotografia al mondo non professionale (fiori e insetti) e a quello della documentazione tecnica e scientifica. Cioè, non si considerano le potenzialità professionali pratiche e quotidiane dell’ingrandimento ragionato e intelligente di dettagli, oltre ciò che può essere percepito a occhio nudo. Del resto, a voler ben guardare, dovrebbe essere vero il contrario. Infatti, una delle componenti fondamentali della fotografia -per non dire “la” sua componente fondamentale- riguarda proprio la manifestazione del non visibile: del tanto piccolo (non visibile a occhio nudo), del lontano nello spazio e del lontano nel tempo. Ma non esageriamo, e torniamo a terra. Aprioristicamente etichettata, la macrofotografia non si esaurisce necessariamente nel puro esercizio tecnico


un rapporto geometrico indissolubile: quando aumenta la distanza-soggetto, tanto diminuisce la distanza-immagine. Viceversa: quando diminuisce la distanza-soggetto, tanto aumenta la distanza-immagine, ovvero si incrementa il tiraggio tra obiettivo e piano focale. Anche se alcune costruzioni ottiche richiedono un adattamento delle equazioni prese in considerazione (e lo sanno bene i fotografi scientifici, che padroneggiano le dotazioni specializzate), sintetizziamo alcune espressioni base, che -nello svolgimento quotidiano- possono essere applicate anche con moderate approssimazioni. Il rapporto di riproduzione “R” quantifica la relazione che intercorre tra la dimensione dell’immagine e quella del soggetto. È un

MAURIZIO REBUZZINI

e atletico, che pure spesso la caratterizza. A parte le applicazioni scientifiche, l’ingrandimento elevato crea uno spostamento dimensionale che può anche risultare graficamente piacevole e professionalmente finalizzabile. Per questo, consideriamo opportuna la conoscenza dei princìpi della fotografia a distanza estremamente ravvicinata, soprattutto finalizzati alla padronanza dei calcoli preventivi della disposizione del soggetto, della lunghezza focale più idonea e del tiraggio dell’apparecchio.

Sperare di raggiungere forti rapporti di riproduzione prestabiliti mediante tentativi è pura illusione (oltre che follia). Al contrario, la conoscenza del rapporto che intercorre tra i rispettivi valori agevola l’accomodamento del sistema fotografico. La procedura più semplice è scandita da tempi consequenziali: uno, si applica la formula che quantifica il tiraggio tra obiettivo e piano focale; due, si dispone l’apparato fotografico; tre, si regola la messa a fuoco operando sulla conseguente posizione (obbligata!) del soggetto, avanti e indietro rispetto l’obiettivo.

DISTANZE CONIUGATE Le distanze che intercorrono tra obiettivo e piano immagine, da una parte, e tra obiettivo e soggetto, dall’altra, sono in rapporto tra loro e sono ambedue collegate alla lunghezza focale dello stesso obiettivo. Vengono definite distanze coniugate, perché vincolate da

collegamento matematico, che prende in considerazione le due rispettive grandezze (dimensioni lineari dell’immagine sul piano focale e del soggetto inquadrato): “R = Immagine diviso Soggetto”. Oppure, valutando le corrispondenti distanza-soggetto e distanza-immagine (cioè tiraggio al piano focale): “R = Tiraggio diviso Distanza di messa a fuoco”. Per esemplificare, riferiamoci alla fotografia di riproduzione, per la quale i rapporti dimensionali sono evidenti. Ipotizziamo di operare con uno stativo di riproduzione, sul cui piano porta originali è stata disposta una stampa 18x24cm da ridurre in 24x36mm (pellicola o sensore Full Frame di acquisizione digitale di immagini). Applichiamo la formula: “R = Immagine diviso Soggetto”; (continua a pagina 60)

Mosaico di quattro fotogrammi 6x7cm che formano la dicitura “Leica” incisa sul corpo macchina di una M2 degli anni Cinquanta (l’effetto di rilievo della dicitura si deve all’impiego di una luce radente), in una ipotesi di estetica dei rapporti di riproduzione esasperati. Ogni fotogramma è stato ripreso con 10x ingrandimenti lineari sul piano focale: obiettivo Schneider M-Componon 50mm, tiraggio 55cm (550mm, nella tabella a pagina 60).

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DAL SOGGETTO ALL’IMMAGINE a1

a2 infinito

Y1

Y2 infinito

F ravvicinato

Y1

Y2 inferiore all'infinito

superiore a F 1:1

Y1

Y2 2F

2F oltre 1:1

Y1

Y2 diminuisce ancora

aumenta ancora

Per convenzione grafica, facciamo riferire la distanza-soggetto “a1” e la distanza-immagine “a2” a un piano dell’obiettivo generico, senza prendere in esame i suoi piani nodali, come invece fanno i rigorosi calcoli dell’ottica teorica (differenza tra teoria pura e finalizzata e certa approssimazione, comunque congeniale alle nostre odierne ipotesi di azione fotografica in fotografia estremamente ravvicinata, estremamente macro). Una serie di semplici formule riassume le relazioni tra le due distanze, il rapporto di riproduzione “R”, le dimensioni del soggetto “Y1” e dell’immagine “Y2” e la lunghezza focale “F” dell’obiettivo usato (non ci si faccia spaventare da tanta/troppa teoria!): Y2 , oppure R = — a2 R=— Y1 a1 1 =— 1 +— 1 — F a2 a1 a2 = F x (1 + R) 1 a1 = F x (1 + —) R Le distanze si dicono coniugate, in quanto legate da un rapporto inversamente proporzionale: quando diminuisce la distanza-soggetto aumenta (in proporzione) la distanza-immagine, e viceversa. All’infinito, si ha la massima distanza-soggetto, combinata con la minima distanza-immagine (nei disegni ottici standard, all’infinito, il tiraggio al piano focale è pari alla lunghezza focale dell’obiettivo). Man mano che si inquadrano soggetti a distanze finite, sistematicamente più vicine al punto di ripresa, la distanza-soggetto diminuisce e aumenta la distanza-immagine; fino al sostanziale equilibrio dell’inquadratura 1:1, ovvero al naturale: quando la distanza-soggetto è uguale alla distanza-immagine, e entrambe sono pari al doppio della lunghezza focale dell’obiettivo. Oltre l’1:1, la distanza-immagine continua a aumentare progressivamente, mentre la distanza-soggetto diminuisce ancora.

58


ANTONIO BORDONI (2)

a1, distanza-soggetto a2, distanza-immagine (tiraggio) distanza-soggetto = distanza-immagine = due volte la lunghezza focale

Tiraggio = Focale infinito

Sintesi grafica che visualizza il concetto delle distanze coniugate, alle quali corrisponde un andamento speculare delle rispettive curve. La messa a fuoco a distanze finite, sistematicamente prossime al punto di ripresa, avvicina il soggetto all’obiettivo e allontana il piano focale. Mentre la distanza-soggetto diminuisce, aumenta in proporzione la distanza-immagine, ovvero il tiraggio dell’obiettivo. Proprio questa “simmetria” algebrica / matematica / trigonometrica crea la disposizione armonica nell’andamento delle curve relative alle combinazioni di distanza-soggetto (a1 / tratteggiato),

1:1

ingrandimento del soggetto

che parte dai valori più alti, per approdare a quelli sistematicamente più bassi, e distanza-immagine (a2 / linea continua), che traccia un percorso inverso, dai valori più bassi a quelli più alti. ❯ Fino al rapporto di riproduzione 1:1, la distanza-soggetto è superiore alla distanza-immagine. ❯ Al rapporto di riproduzione 1:1, i due valori coincidono e sono pari al doppio della lunghezza focale dell’obiettivo. ❯ Oltre l’inquadratura al naturale, i rapporti si invertono, e la distanza-immagine è sempre superiore alla distanza-soggetto.

A parità di allungamento del tiraggio, ovvero a parità di separazione dell’obiettivo dal piano immagine, il rapporto di riproduzione ottenibile aumenta in relazione alla focale adottata: più corta è la focale, maggiore è l’ingrandimento. Per esempio, il tiraggio di 45cm (450mm) qui raffigurato equivale a 8x ingrandimenti lineari con obiettivi di 50mm di lunghezza focale e a 15x ingrandimenti lineari con il 28mm da camera oscura, analogo alla funzionalità operativa della famiglia Schneider M-Componon, appunto dedicata alla macrofotografia con alti rapporti di ingrandimento del soggetto inquadrato. Alle stesse condizioni, la focale 20mm produce oltre 21,5x ingrandimenti lineari; e la focale 15mm, 29x ingrandimenti. Un corpo intermedio, utilizzato come portaoriginali, facilita l’operabilità dell’intero apparato.

Anche recuperato nel mercato delle occasioni, qualsiasi apparecchio a banco ottico offre un agevole e sistematico allungamento del tiraggio, assai utile alla ripresa a distanza ravvicinata. L’estensione del soffietto pieghettato facilita la massima separazione dell’obiettivo dal piano immagine, a cui corrispondono rapporti di riproduzione proporzionali alla focale dell’obiettivo usato. Oltre che per il proprio formato nominale di esposizione -4x5 pollici in questo caso-, gli apparecchi a banco ottico possono essere usati con magazzini di riduzione 6x7/6x9cm. Oppure, al dorso, si possono applicare apparecchi piccolo e medio formato, semplicemente fissati su piastra porta ottica mediante un innesto maschio (Asahi Pentax Spotmatic, nell’esempio).

59


Rapporto Incremento di di riproduzione esposizione 1x 2x 3x 4x 5x 6x 7x 8x 9x 10x 11x 12x 13x 14x 15x 16x 17x 18x 19x 20x 21x 22x 23x 24x 25x 26x 27x 28x 29x 30x

4x 9x 16x 25x 36x 49x 64x 81x 100x 121x 144x 169x 196x 225x 256x 289x 324x 361x 400x 441x 484x 529x 576x 625x 676x 729x 784x 841x 900x 961x

=+2 =+4 = + 4,5 = + 5,1 =+6 = + 6,5 = + 6,9

= + 7,5 =+8

= + 8,5

= + 9,1

= + 9,5

= + 9,9

Per omogeneità, abbiamo espresso in millimetri gli allungamenti del tiraggio al piano focale relativi ai diversi fattori di ingrandimento. È scontato, ma diciamolo: 10mm equivalgono a 1cm; 100mm sono pari a 10cm; 1000mm fanno 100cm, ovvero un metro. Il fattore di moltiplicazione dell’esposizione va riportato alla misurazione con esposimetro esterno, la cui rilevazione si riferisce -per forza di cose- all’infinito. È stato calcolato secondo la formula che tiene conto dell’allungamento del tiraggio e della lunghezza focale: “Incremento = Tiraggio diviso Focale, al quadrato” / “Incremento = (a2 / F)2”. Siccome il rapporto tra l’allungamento del tiraggio e la lunghezza focale è vincolato al fattore di ingrandimento, il valore dell’incremento

60

Allungamento del tiraggio al piano focale riferito alla lunghezza focale dell’obiettivo usato (distanza-immagine) 10mm

15mm

20mm

25mm

30mm

20mm 30mm 40mm 50mm 60mm 70mm 80mm 90mm 100mm 110mm 120mm 130mm 140mm 150mm 160mm 170mm 180mm 190mm 200mm 210mm 220mm 230mm 240mm 250mm 260mm 270mm 280mm 290mm 300mm 310mm

30mm 45mm 60mm 75mm 90mm 105mm 120mm 135mm 150mm 165mm 180mm 195mm 210mm 225mm 240mm 255mm 270mm 285mm 300mm 315mm 330mm 345mm 360mm 375mm 390mm 405mm 420mm 435mm 450mm 465mm

40mm 60mm 80mm 100mm 120mm 140mm 160mm 180mm 200mm 220mm 240mm 260mm 280mm 300mm 320mm 340mm 360mm 380mm 400mm 420mm 440mm 460mm 480mm 500mm 520mm 540mm 560mm 580mm 600mm 620mm

50mm 75mm 100mm 125mm 150mm 175mm 200mm 225mm 250mm 275mm 300mm 325mm 350mm 375mm 400mm 425mm 450mm 475mm 500mm 525mm 550mm 575mm 600mm 625mm 650mm 675mm 700mm 725mm 750mm 775mm

60mm 90mm 120mm 150mm 180mm 210mm 240mm 270mm 300mm 330mm 360mm 390mm 420mm 450mm 480mm 510mm 540mm 570mm 600mm 630mm 660mm 690mm 720mm 750mm 780mm 810mm 840mm 870mm 900mm 930mm

(continua da pagina 57) cioè “24:180 (mm) = 0,13x”. Siccome i due formati (18x24cm e 24x36mm) non sono in proporzione tra loro, il calcolo preventivo consente di stabilire che si deve privilegiare questo rapporto di riproduzione minore 0,13x che proietta sul piano focale una immagine 24x32mm.

FOCALE Ma non è questo il problema. Ciò che più conta è che lo svolgimento delle formule originarie del rapporto di riproduzione “R” arriva a prendere in considerazione anche la lunghezza focale degli obiettivi, che è uno dei dati operativi base della ripresa fotografica. Come già accennato, ma la ripetizione si impone, la distanza-soggetto (la distanza di messa a fuoco) e la distanza-immagine (il tiraggio) sono strettamente legate alla lunghezza focale dell’obiettivo. Qui e oggi non commentiamo l’evoluzione trigonometrica delle formule. Ci basta conoscere l’equazione conclusiva, secondo la quale l’inverso della lunghezza focale è pari alla somma degli inversi delle singole distanze coniugate: cioè “1 / Focale = 1 / Distanza-immagine + 1 / Distanza-soggetto”. Ma -soprattutto- interessano le ulteriori evoluzioni che estrapolano la distanza-immagine e la distanza-soggetto, che commentiamo in un apposito riquadro pubblicato a pagina 58.

35mm

40mm

70mm 105mm 140mm 175mm 210mm 245mm 280mm 315mm 350mm 385mm 420mm 455mm 490mm 525mm 560mm 595mm 630mm 665mm 700mm 735mm 770mm 805mm 840mm 875mm 910mm 945mm 980mm 1015mm 1050mm 1085mm

80mm 120mm 160mm 200mm 240mm 280mm 320mm 360mm 400mm 440mm 480mm 520mm 560mm 600mm 640mm 680mm 720mm 760mm 800mm 840mm 880mm 920mm 960mm 1000mm 1040mm 1080mm 1120mm 1160mm 1200mm 1240mm

Prima ancora di essere riferite alle condizioni operative della macrofotografia, queste formule sono universalmente utili in fotografia, quando le situazioni ambientali impongono stime preventive. Per esempio, si può calcolare la lunghezza focale necessaria per fotografare un affresco su una parete di un locale di dimensioni anguste, con distanza di ripresa obbligata e vincoli logistici insuperabili.

POCHI MILLIMETRI Quanto ognuno ha già osservato intuitivamente nella pratica quotidiana, si concretizza nelle equazioni matematiche oggi riferite. Mettendo a fuoco soggetti posti a distanze inferiori all’infinito, si incrementa sistematicamente il tiraggio dell’obiettivo, ovvero lo si allontana dal piano focale. All’infinito, si ha il tiraggio minimo dell’apparato fotografico, combinato con la massima distanza-soggetto. Quando si inquadrano soggetti a distanze finite, sistematicamente più vicine al punto di ripresa, la distanza di messa fuoco diminuisce e il tiraggio aumenta. Una situazione di equilibrio si ottiene al rapporto di riproduzione 1:1, ovvero all’inquadratura al naturale (R = 1): il tiraggio al piano focale e la distanza di messa a fuoco sono uguali tra loro e pari al doppio della lunghezza focale dell’obiettivo usato. Cosa succede all’ingrandimento del soggetto (auten-


Allungamento del tiraggio al piano focale riferito alla lunghezza focale dell’obiettivo usato (distanza-immagine) 45mm

50mm

60mm

70mm

80mm

90mm

100mm

120mm

150mm

90mm 135mm 180mm 225mm 270mm 315mm 360mm 405mm 450mm 495mm 540mm 585mm 630mm 675mm 720mm 765mm 810mm 855mm 900mm 945mm 990mm 1035mm 1080mm 1125mm 1170mm 1215mm 1260mm 1305mm 1350mm 1395mm

100mm 150mm 200mm 250mm 300mm 350mm 400mm 450mm 500mm 550mm 600mm 650mm 700mm 750mm 800mm 850mm 900mm 950mm 1000mm 1050mm 1100mm 1150mm 1200mm 1250mm 1300mm 1350mm 1400mm 1450mm 1500mm 1550mm

120mm 180mm 240mm 300mm 360mm 420mm 480mm 540mm 600mm 660mm 720mm 780mm 840mm 900mm 960mm 1020mm 1080mm 1140mm 1200mm 1260mm 1320mm 1380mm 1440mm 1500mm 1560mm 1620mm 1680mm 1740mm 1800mm 1860mm

140mm 210mm 280mm 350mm 420mm 490mm 560mm 630mm 700mm 770mm 840mm 910mm 980mm 1050mm 1120mm 1190mm 1260mm 1330mm 1400mm 1470mm 1540mm 1610mm 1680mm 1750mm 1820mm 1890mm 1960mm 2030mm 2100mm 2170mm

160mm 240mm 320mm 400mm 480mm 560mm 640mm 720mm 800mm 880mm 960mm 1040mm 1120mm 1200mm 1280mm 1360mm 1440mm 1520mm 1600mm 1680mm 1760mm 1840mm 1920mm 2000mm 2080mm 2160mm 2240mm 2320mm 2400mm 2480mm

180mm 270mm 360mm 450mm 540mm 630mm 720mm 810mm 900mm 990mm 1080mm 1170mm 1260mm 1350mm 1440mm 1530mm 1620mm 1710mm 1800mm 1890mm 1980mm 2070mm 2160mm 2250mm 2340mm 2430mm 2520mm 2610mm 2700mm 2790mm

200mm 300mm 400mm 500mm 600mm 700mm 800mm 900mm 1000mm 1100mm 1200mm 1300mm 1400mm 1500mm 1600mm 1700mm 1800mm 1900mm 2000mm 2100mm 2200mm 2300mm 2400mm 2500mm 2600mm 2700mm 2800mm 2900mm 3000mm 3100mm

240mm 360mm 480mm 600mm 720mm 840mm 960mm 1080mm 1200mm 1320mm 1440mm 1560mm 1680mm 1800mm 1920mm 2040mm 2160mm 2280mm 2400mm 2520mm 2640mm 2760mm 2880mm 3000mm 3120mm 3240mm 3360mm 3480mm 3600mm 3720mm

300mm 450mm 600mm 750mm 900mm 1050mm 1200mm 1350mm 1500mm 1650mm 1800mm 1950mm 2100mm 2250mm 2400mm 2550mm 2700mm 2850mm 3000mm 3150mm 3300mm 3450mm 3600mm 3750mm 3900mm 4050mm 4200mm 4350mm 4500mm 4650mm

tica macrofotografia)? La distanza-immagine continua a diminuire, e il tiraggio aumenta progressivamente, come sintetizzato in una apposita sintesi grafica, pubblicata a pagina 59. Siccome il valore del tiraggio è direttamente proporzionale alla lunghezza focale adottata, ne consegue che in macrofotografia si cerca di usare obiettivi di focale sistematicamente corta, che -a parità di ingrandimento realizzato- permettono di operare con sistemazioni fotografiche adeguatamente comode. Più corta è la focale, meglio è: perché si riduce il tiraggio tra obiettivo e piano immagine e, a conseguenza, si minimizzano le influenze esterne sulla stabilità complessiva. La formula è semplice, ed è indipendente dal formato fotografico in uso: “Tiraggio = Lunghezza focale moltiplicato il Rapporto di Riproduzione più uno” (con i codici adottati anche nel riquadro a pagina 58: “a2 = F x (1 + R)”). Per esempio, ipotizziamo di voler lavorare a tredici ingrandimenti. Il tiraggio al piano focale è pari alla lunghezza focale moltiplicata per quattordici (1+13); quindi, calcoliamo il tiraggio per tre focali sistematicamente più lunghe: 50mm x 14 = 70cm di tiraggio; 150mm x 14 = 210cm di tiraggio. Diminuiamo ora la lunghezza focale: 40mm x 14 = 56cm di tiraggio; 30mm x 14 = 42cm di tiraggio. Ribadiamo: più corta è la focale, inferiore è il tiraggio al piano immagine e più pratica la collocazione fotografica.

Per elevati rapporti di ingrandimento, cioè per la autentica macrofotografia, sono leggendari gli obiettivi Leitz Photar e Carl Zeiss Luminar di corta focale. Anche alcuni sistemi ottici per reflex 24x36mm hanno avuto analoghe focali corte corrette per macrofotografia (e specificate “Bellows”). Esauriti i tempi degli obiettivi iperspecializzati, al giorno d’oggi, queste ottiche sono reperibili soltanto rivolgendosi al mercato dell’usato (per quanto confinante, in questo caso, estraneo a quello del collezionismo e antiquariato). In ogni caso, non è un problema irrisolvibile. Per esempio, rivolgendosi al mercato dell’usato, appena evocato, si possono trovare obiettivi per cineprese otto millimetri, ideali per la macrofotografia estetica (da distinguere dal rigore proprio e caratteristico della macrofotografia scientifica, per la quale Photar e Luminar sono riferimenti operativi d’obbligo). Ottimi per il nostro scopo sono anche gli obiettivi da ingrandimento, meglio se usati capovolti, ovvero con la montatura posteriore verso il soggetto ingrandito sul fotogramma. Tra l’altro, è questo il princìpio della gamma Schneider M-Componon: obiettivi derivati dalla linea di ingrandimento, montati rovesciati su otturatori centrali Copal, che forniscono una pratica gamma di tempi di otturazione. Così operando, non ci sono problemi di copertura, perché il cerchio immagine di ogni obiettivo aumenta

di esposizione finisce per riferirsi appunto all’ingrandimento lineare del soggetto inquadrato, che abbiamo indicato con la sua definizione ufficiale di “Rapporto di Riproduzione”. A parte la sequenza algebrica cadenzata 2x, 4x, 8x, 16x, 32x... dell’incremento di esposizione, alla quale corrisponde la necessaria apertura di valori interi di diaframma e/o di tempo di otturazione, le cifre intermedie hanno imposto indicazioni approssimate, comunque sia assai vicine ai dati veri ed esatti.

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ILARIO PIATTI

Configurazione fotografica ad acquisizione digitale, di sostanziosa attualità, collocata al dorso di un apparecchio grande formato a banco ottico 4x5 pollici (nello specifico, la Sinar Norma di sempre; FOTOgraphia, settembre 2014, e sua certificazione di acquisto, da Gianni Berengo Gardin, in FOTOgraphia, del successivo ottobre 2014). Fujifilm X-M1 usata in fotografia di architettura (e street photography... forse), nell’ambito del workshop Ritorno al grande formato, a Pistoia, nel settembre 2014 [ancora, FOTOgraphia, ottobre 2014], successivamente finalizzata alla macrofotografia spinta. Nello specifico, adattatore provvisto anche di movimento di decentramento lineare (a pagina 46, la versione attuale per Fujifilm GFX 50S).

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progressivamente con la crescita del tiraggio al piano focale. Dettagli minimi possono essere ingranditi a volontà; basta immaginare l’azione che si verifica all’ingranditore, dove un negativo di piccole dimensioni -con portanegativi prossimo all’obiettivo- viene ingrandito molte volte sulla carta sensibile: lontana dall’obiettivo.

ATTREZZATURA In teoria, tutto fila liscio. Ma, a conti fatti, sorge un problema logistico niente affatto secondario. Qual è il sistema più semplice per ottenere forti tiraggi tra obiettivo e piano focale? Siccome nessun soffietto di prolunga per apparecchi di piccolo e medio formato fotografico supera valori meccanici comunque contenuti, consigliamo di sfruttare la capacità di allungamento di un qualsiasi apparecchio grande formato, anche del più povero e semplificato, acquistato di seconda/terza/quarta/... mano per pochi soldi. Non serve che sia versatile, perché non si devono applicare i movimenti di decentramento e basculaggio; qui si sfrutta soltanto la capacità di allontanare il piano dell’obiettivo dal piano focale. Tanto per dire, 50cm di allungamento sono alla portata di qualsiasi apparecchio a banco ottico. Il che significa che con un obiettivo di 50mm di lunghezza focale (magari da camera oscura) si arriva agevolmente a nove ingrandimenti, e con un 28mm si raggiungono i dicias-

sette ingrandimenti circa. Dopo di che, quando si lavora con un banco ottico -utilitaristicamente sfruttato soltanto per le capacità di allontanamento dei piani-, non si devono necessariamente esporre pellicole piane 4x5 pollici. Si possono usare magazzini di riduzione 6x7 o 6x9cm su pellicola a rullo 120 o 220; oppure, ancora, un apparecchio medio o piccolo formato può essere fissato direttamente sul dorso, al posto del vetro smerigliato: basta avvitare un anello maschio su una piastra porta ottica, in modo da permettere il fissaggio diretto del corpo macchina. E qui scendono in campo anche le più attuali configurazioni digitali, per le quali sono peraltro disponibili piastre adattatrici al piano focale: ne riferiamo a pagina 58, con richiamo a pagina 46.

INGRANDIMENTI Per comodità di lavoro, quando si opera in ingrandimento esasperato, attorno ai dieci lineari e anche oltre, è bene disporre con sicurezza il soggetto davanti all’obiettivo. Si possono usare stativi di riproduzione; oppure, se si adotta un apparecchio a banco ottico, si può sfruttare un corpo intermedio (solitamente usato per congiungere tra di loro due soffietti, necessari al forte tiraggio dei piani; visualizzazione a pagina 58-59). Nella pratica, il corpo intermedio si muove sullo stesso supporto di base dell’apparecchio e mantiene il soggetto centrato davanti


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA MAURIZIO REBUZZINI

all’obiettivo: si ottiene altresì una certezza di parallelismo dei piani e una confortevole agibilità di lavoro. Quando l’ingrandimento elevato stravolge lo stesso soggetto inquadrato, fino a non consentirne l’identificazione, la fotografia esce dal campo del realismo oggettivo, per acquisire valori estetici di fantastico astrattismo. Oppure, ed è paradossalmente uguale, l’ingrandimento forzato accentua l’ipotesi di realismo fotografico. Questi sono territori vasti, che esulano dal puro esercizio formale, per arricchirsi di connotati degni di nota e attenzione. Noi oggi esemplifichiamo utilizzando una serie di soggetti -alcuni dei quali di personalità fotograficache hanno vissuto intense stagioni professionali. L’ingrandimento esasperato della materia è soltanto una delle possibili manifestazioni dell’astrattismo-realismo visivo, che poi possono attingere a molti altri campi. Nell’ingrandimento forzato, attorno ai “dieci per” e anche oltre, le formule e la tabella che accompagnano le nostre considerazioni tecniche odierne sono tornate utili per stabilire un modus operandi coerente e produttivo. Decidendo a priori di agire nell’ambito di determinati ingrandimenti, che sperimentalmente si sono rivelati opportuni (ribadiamo: in genere, verso i dieci lineari), si calcola il tiraggio necessario al piano focale, data la lunghezza focale dell’obiettivo in uso. E poi si muove il soggetto davanti all’obiettivo fino a che lo si

inquadra a fuoco. In questi rapporti dimensionali, sperare di mettere a fuoco muovendo i piani dell’apparato fotografico -obiettivo e/o piano focale- è pura illusione. Ovviamente, c’è poi un altro problema tecnico da tenere presente. Considerata la breve distanza tra soggetto e obiettivo, si deve risolvere la sua illuminazione adeguata. Sono molto utili i flash anulari e gli illuminatori Led altrettanto anulari, che forniscono una buona luce su tutto il minimo campo inquadrato; ma possono bastare anche altri sistemi più generali, quale la luce radente di alcuni dei nostri esempi. Per evitare sorprese, si calcoli in modo adeguato anche l’incremento di esposizione richiesto dall’allungamento del tiraggio al piano focale. Con i valori oggi considerati, l’assorbimento è veramente tanto. Anche qui la formula è presto sintetizzata: “Incremento di esposizione = Allungamento diviso Focale, tutto al quadrato” (“= (a2 / F)2”). Per un esempio finale, ipotizziamo la condizione operativa di quindici ingrandimenti: con la focale 50mm si ha un allungamento del tiraggio di 80cm, a cui corrisponde un incremento di esposizione di (80 / 5)2, ovvero 256x nel senso di più otto stop. E lo stesso dicasi per ogni lunghezza focale usata nelle medesime condizioni dei quindici ingrandimenti ipotizzati. Insomma... grande e grande. ❖

Beh... siamo sinceri: questa immagine è “astratta” soltanto per coloro i quali non frequentano la fotografia. Infatti, chi la vive con consapevolezza e impegno non può non riconoscere tratti distintivi della genìa Leica. Nello specifico, si tratta di una raffigurazione illustrata dal prototipo Leica 0 (Nullserie) da una emissione filatelica della Micronesia, del 13 marzo 2000: soggetto da un foglio Souvenir, celebrativo del Millennio, nella decade degli anni Venti. Tra l’altro, la dizione a commento e presentazione è esatta quanto non lo sono altre storiografie di credito: non “prima macchina fotografica 35mm”, perché -in precedenzaaltre ce ne furono, ma -più correttamente«Prima macchina fotografica 35mm di successo commerciale (1925)». E la differenza non è da poco, ammesso e non concesso che la storiografia della tecnologia fotografica possa avere senso. Comunque, rientrando nello specifico fotografico odierno in visione/interpretazione macro, si tratta di una acquisizione digitale con Fujifilm X-M1 al dorso di una Sinar Norma 4x5 pollici [pagina accanto]; obiettivo di ripresa Canon Macrophoto 20mm f/3,5 (dedicato all’Auto Bellows, per ingrandimenti da 3,92x a 10,72x). Invece, l’allungamento maggiore del soffietto Sinar Norma ha consentito un sostanzioso ingrandimento 30,125x: la base 24,1cm di questa riproduzione litografica visualizza una porzione di (soli) 8mm sul soggetto originario.

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 10 volte ottobre 2016)

L

DOROTHEA LANGE

La fotografia dominante è una forma normale di delirio: il senso acuto del ridicolo che contiene rende felici una masnada di imbecilli al servizio di quanti della fotografia non importa un cazzo! Nulla! Ciò che importa loro è entrare nel grande ballo mascherato della dossologia storiografica, dei galleristi col cravattino, dei banchieri col vezzo dell’arte come “affare”... porcaccia la miseria! Giuda di un dio ladro! Che il diavolo se lo mangi! I poveri? Tutti a mendicare! Alla garrotta chi non obbedisce! Chi si ribella! Ma come è possibile che una pletora di fotografi continui a sostenere il mercato delle immagini, senza nemmeno avere un filo di pudore dell’Umanità che fotografano (certi reporter di guerra inclusi)? Non si diventa ricchi e famosi impunemente. Al principio e alla fine di ogni forma di successo c’è una dimenticanza, l’assassinio delle belle arti. «Non coviamo rancore verso quelli che abbiamo insultato; al contrario, siamo disposti a riconoscere loro tutti i meriti che si possono immaginare. Sfortunatamente, questa generosità non si ritrova mai nell’insultato» (Emil M. Cioran: Confessioni e anatemi; Adelphi, 2007). Ecco perché sogniamo un’impresa di demolizione che non risparmi neppure un altare, né tutte le forme di “progresso” sulle quali la civiltà dello spettacolo ha eretto le proprie forche. Alla fame, i signori! I preti! I finanzieri! I generali! I papi! Gli operai rincoglioniti! A pulire le latrine! Siete in buona compagnia! Quella dei ratti! L’ideale di ogni utopia sarebbe potersi ripetere, come Mozart, Bob Dylan e Dario Fo... ma, finché vi sarà un solo idolo in piedi, il compito dell’Uomo in rivolta non è finito. «Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi,

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diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a un’automobile, il fatto costituisce reato. Se, invece, si bruciano centinaia di automobili, diventa un’azione politica» (Ulrike Meinhof). Occorre un’immensa umiltà per morire al posto di una rivoluzione tradita o mancata: senza dimenticare mai che, nella storia, i poteri reali hanno acceso roghi, aperto prigioni, riempito manicomi, imposto tribunali, forgiato gabbie... hanno impiccato, bruciato vivi, decapitato, ghigliottinato e sottoposto i popoli alla schiavitù, e solo la politica dei ribelli che sono passati dalla resistenza all’insubordinazione ha permesso agli Uomini di riprendersi la dignità e la vita (Michel Onfray: La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione; Fazi Editore, 2008.

nello contro l’innocenza insorta e l’eversione proletaria, si è fatta vita. Lì c’è stato un fotografo che ha lasciato un segno nella storia addolorata degli uomini. Dorothea Lange, Robert Capa, Joseph Koudelka (e Mario De Biasi), per esempio, non sono stati solo fotogiornalisti di guerre e battaglie sociali, ma testimoni coraggiosi del proprio tempo. Le loro fotografie non hanno solo denunciato gli orrori di conflitti mondiali e rivoluzioni soppresse nel sangue... quello che più conta è che nelle loro immagini si legge il desiderio di amore per un’Umanità spezzata e offesa dalla mediocrità e dalle menzogne della politica economica. I novelli Cesari & Papi «vengono su dalla massa dei bassi sterminatori che si mettono a

«Di tutto quello che ci fa soffrire, nulla come il disinganno ci dà la sensazione di raggiungere finalmente il vero» Emil M. Cioran Qui, Michel Onfray scrive: «Volere una politica libertaria vuol dire ribaltare le prospettive: sottomettere l’economico al politico, ma anche porre la politica al servizio dell’etica, far primeggiare l’etica di convenzione sull’etica di responsabilità, poi ridurre le strutture al solo ruolo di macchine al servizio degli individui, e non il contrario»). La fotografia del disinganno è cosa conosciuta, specie nella fotografia di strada (non solo) americana e nella deriva fotografica della costruzione di situazioni non proprio obbedienti alla casistica della fotografia insegnata. Ovunque si è alzato un manga-

sfoltire la giungla dei sudici barbieri» (Guido Ceronetti), che non sanno nemmeno sgozzare i propri fratelli e i propri figli con la pragmatica disinvoltura di Hitler. Dalle periferie invisibili della Terra, dove l’agonia della sopravvivenza è reale, le lacrime si fanno di fuoco e i sogni mettono le ali della libertà. Ricorrere alla frusta, al veleno e al cannone non è poi tanto difficile (anche se il prezzo delle armi è oneroso, non c’è molta difficoltà a trovare criminali come si deve per eseguire assassinii di massa con una certa grazia umanitaria): bastano i piani colonialisti/liberisti dei “grandi della Terra” -e i governi loro affini- e

della Banca Mondiale -e il Debito Estero- per pianificare un mondo dove i ricchi divengono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La fame ha radici più profonde di ogni sorriso, ma nessuno può comprare un sorriso.

LA DOLCISSIMA DOROTHEA Un’annotazione a margine. Dorothea Lange (Dorothea Margaretta Nutzhorn, e poi adotta il cognome della madre) nasce da una famiglia di immigrati tedeschi, nel 1895 (ventisei maggio), a Hoboken, New Jersey. Il padre abbandona la famiglia quando lei è ancora piccola; quindi, cresce con la madre nel Lower East Side, di New York. Si ammala di poliomelite e rimane zoppa per il resto della vita. Per caso, vede i ritratti fotografici di Arnold Genthe: ne resta abbagliata e diviene la sua assistente in camera oscura. Con la frequentazione dei seminari di Clarence White sul linguaggio fotografico, alla Columbia University, comprende che «La cosa importante non è ciò che è fotografato, ma come lo è» (Dorothea Lange). Clarence White non parlava mai di tecnica e di fantasticherie fotografiche. Sosteneva che la macchina fotografica è come uno strumento musicale, con il quale prendere e restituire emozioni... semplicemente. Comunque, resta da dire che le fotografie di Clarence White rientrano in quella corrente pittorialista che molto piaceva alla “buona borghesia” del tempo, e proprio ci sembrano fagocitate da una prolissità estetizzante che per nulla riguarda la forza materica della fotografia sociale di Dorothea Lange. Nella genesi della fotografia “insegnata” e nell’apocalisse dei suoi apologeti di “rango” regna l’impostura. Dopo la frequentazione delle idee sulla fotografia come linguaggio poetico, di Clarence


Sguardi su White, la dolcissima Dorothea Lange compra una pesante macchina fotografica, due obiettivi e -insieme con una amicaparte per un giro del mondo, ma le due donne vengono derubate di tutto ciò che possedevano, e così la Dorothea Lange si ferma a San Francisco. Era il 1918, aveva ventitré anni. Comincia a lavorare in un emporio, nel reparto sviluppo e stampa delle fotografie. Intanto, conosce la fotografa Imogen Cunningham e un mecenate, Jack Boumphrey, che le finanzia il suo primo studio fotografico. Qui realizza ritratti alle famiglie “bene” della città. Lavorava su commissione. Andava anche in giro per le case, e non poche immagini di bambini, gruppi, vecchi patriarchi della “corsa all’oro” sono venate di un romantico ottimismo borghese. Interveniva sulle stampe, e poi le montava su eleganti cartoncini giapponesi autografati. Nel 1920, Dorothea Lange si sposa con il pittore di scenari western Maynard Dixon. Nel 1925 e nel 1928, hanno due figli, Daniel e John. Riescono a vivere del proprio lavoro. Lei comincia a sperimentare la “sfocatura” e -influenzata dai lavori di Imogen Cunningham- prende a fotografare paesaggi e le forme delle piante (secondo i precetti “puristi” del Group f/64). È minata da momenti di depressione. Un giorno, mentre camminava da sola in montagna, venne sorpresa da un violento temporale, e lì comprese quale dovesse essere la sua via di fotografa: «Fotografare la gente, gente di qualsiasi tipo, gente che mi paga e gente che non lo fa» (Dorothea Lange). Di fronte agli istanti scippati alla sua storia, si resta un po’ attoniti, quasi scemi, come di fronte a un esercizio di algebra. Nel 1929, Dorothea Lange compie un viaggio in New Mexico, con Paul Strand (un fotografo di realtà quotidiane, affabulate con una notevole forza espressiva [Sguardo su, in FOTOgraphia, del maggio 2004]): dopo sette mesi di collaborazione, indirizza il proprio sguardo

verso la parte più in fondo della scala sociale. Al ritorno a San Francisco, avvenne il crollo della Borsa. I giorni della Depressione americana la investirono. La sua famiglia conobbe la miseria e i suoi ragazzi furono messi a pensione in una scuola pubblica. Più di quattordici milioni di americani non avevano lavoro e molti di loro non avevano nemmeno la casa: la povertà circolava nelle strade, insieme ai sogni di una “nuova America”. Una delle fotografie-simbolo della Depressione fu proprio la sua La fila del pane, del 1932 (White Angel Breadline), che -insieme con Migrant Mother, del 1936 (l’operaia trentatreenne Florence Leona Christine Thompson)- la renderanno giustamente immortale nella Storia della Fotografia Sociale (Dorothea Lange. Con un invito alla lettura di Irene Bignardi; Art&, 1988). La fotografia del disinganno non ha popolo, né patria... come mostrano le immagini di rapina del sociale di Dorothea Lange. «Questa piccola donna, timida e insicura, aveva un forte senso della giustizia: ne scaturiva una furia silenziosa che si esprimeva nell’intensità emotiva delle sue fotografie. Con una macchina fotografica in mano, divenne un gigante» (Robert J. Doherty). Le sue fotografie si situano fuori dalla legge del mercato, ma non accusano nessuno, piuttosto che qualcuno... interrogano ogni forma di discriminazione e architettano un sentimento per l’utopia e il senso radicale di una quotidianità senza imperativi, senza ordini, né doveri. La sua scrittura iconografica porta in sé il linguaggio dell’ospitalità, quella indesiderata del «Vieni, entra, fermati a casa mia, non ti chiedo come ti chiami, né di assumerti una responsabilità, né da dove vieni o dove vai» (Jacques Derrida), è un non chiedere niente a chiunque tu sia e quali siano i tuoi sogni e i tuoi desideri, che lingua parli e che colore della pelle hai, quale sia il tuo sesso e il tuo pensiero: perché ciascuno è straniero a se stesso, ed è

sempre l’amore per la vita a far muovere le cose. Non si abita la fotografia, se non si disconosce ogni patria! Una patria è intollerabile per i discendenti delle ghigliottine; possono ritenersi compiute solo le immagini che smascherano la mistica dell’odio che è in “Dio Patria Famiglia”. Abolendo la patria e tutto il resto, si abolisce anche la morte sociale dell’Uomo.

SULLA FOTOGRAFIA DEL DISINGANNO

La visione del disinganno, di Dorothea Lange, si lega alle fotografie/documento di Jacob A. Riis e Lewis W. Hine e alla corrente pittorica, grafica e cinematografica della Nuova Oggettività tedesca, che figurano la loro poetica della strada accanto agli sfruttati e gli indifesi. La dolcissima Dorothea Lange espone le sue immagini, per la prima volta, nella galleria del fotografo Willard Van Dyke. Lì conosce Paul Schuster Taylor (che poi sposa in seconde nozze), un professore di economia dell’Università di Berkeley, in California. In sua compagnia, Dorothea Lange fotografa gli emigranti sulle strade della California e, nel 1939, pubblicano insieme la raccolta An Americans Exodus: A Record of Human Erosion, che mescola immagini a testimonianze degli stessi soggetti fotografati. Qui le parole e i ritratti non sono espedienti didascalici, né giochetti illustrativi, ma vanno a figurare una ragione diversa/altra della “storia scippata alla realtà”. Tutto questo è stato definito “terzo effetto” dal sociologo e giornalista Wilson Hicks. Il libro ebbe scarso successo. Passò quasi inosservato... e oggi è ben quotato nel selettivo mercato bibliografico. Nel 1935, Dorothea Lange entra nell’agenzia federale FSA (Farm Security Administration), coordinata dal sociologo Roy Stryker (personaggio abbastanza coinvolto tra la politica e gli affari), dove -insieme con altri fotografi di notevole talento (John Vachon, Walker Evans, Ben Shahn, Jack

Delano, Russel Lee, Arthur Rothstein, Gordon Parks...)- documenta le condizioni disperate nelle quali versano grandi fasce di contadini americani. A fine decennio, dopo aspri contrasti con la direzione della FSA, Dorothea Lange esce dalla congregazione. Gli Stati Uniti entrano in guerra e lei inizia a fotografare per l’Office of War Information, e documenta i campi nei quali furono internati gli americani di origine giapponese. Raccoglie fondi a favore delle Nazioni Unite. Si ammala gravemente, ma riprende a fotografare nei primi anni Cinquanta. Tra la fine degli stessi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, insieme con il marito Paul Schuster Taylor, Dorothea Lange viaggia in Sud America, Asia, Nord Africa e Europa. Continua a fotografare la famiglia, per la strada, e raccoglie annotazioni per il suo archivio. Muore di tumore, nel 1965 (pochi giorni prima della sua grande retrospettiva al Museum of Modern Art, di New York). Lascia fotografie che non hanno tempo e questa considerazione: «Lo stato d’animo di cui si ha bisogno per realizzare una bella fotografia di una cosa meravigliosa è diverso dallo stato d’animo in cui ci si trova quando, su un marciapiede, si è sospinti, travolti, circondati da persone senza identità. Non è possibile farlo senza perdere se stessi». Tutto vero. È il destino al quale vanno incontro gli inclassificabili della fotografia sociale. [A proposito, sulla porta della sua camera oscura, Dorothea Lange ha sempre tenuto la dichiarazione di sir Francis Bacon, che, nel 1610, decretò che «La semplice contemplazione delle cose così come sono, senza superstizioni o inganni, errori o confusioni, vale più di tutti i frutti dell’invenzione». Già... le cose così come sono: straordinaria intenzione etica alla quale fare sempre riferimento e capo, in fotografia, ma non solo. Da cui, annotazione dovuta, il titolo della monografia di celebrazione dei primi cinquant’anni di World Press

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Sguardi su Photo, Things As They Are / Le cose così come sono; in FOTO graphia, dell’aprile 2006]. La fotografia del disinganno, di Dorothea Lange, porta in sé il regno del visibile e della memoria. Racconta uno stupore, quello dell’Uomo/della Donna, inconciliabile con la sacralità del dominio e della violenza. È fare della propria casa la casa altrui, è un andare a vedere la pioggia sulla faccia dei bambini e dire in forma di icona che l’infelicità e la disperazione che ciascuno vive non sono naturali (c’è qualcuno che fa il male e altri che lo subiscono) e l’amore dell’Uomo per l’Uomo serve a resistere. Si tratta di non avere né popoli né patrie (da difendere inutilmente), perché la parola libertà esiste. Il disinganno, in arte e nella vita quotidiana, è disvelare che dietro ogni magistero dell’ordine costituito c’è un pazzo o un assassino, più frequentemente uno stupido. La filosofia libertaria e del disinganno di Dorothea Lange non chiede di sognare un’esistenza più felice, vuole solo viverla. È un girovagare in mondi possibili, senza -necessariamenteabbandonare il mondo esistente. È un viaggiare attraverso l’utopia: non per possederla, ma per superarla e mettere fine a situazioni ingiuste di povertà, razzismo e ghettizzazione. In una comunità diversa, multietnica/interculturale a venire, ogni Uomo ha la possibilità di essere re (di se stesso), perché lì nessun Uomo conosce la condizione di essere servo (di qualcuno). Come Antigone, Dorothea Lange non è nata “per i grovigli dell’odio, ma per i legami dell’amore”. In questo senso (con le sue fotografie) ha riservato agli aggressori dell’umanità tenere sepolture. «Se vedete soprattutto miseria umana nelle mie fotografie, significa che non sono riuscita a esprimere la trama multiforme di cui è solo un riflesso. Infatti, la rovina che avete davanti è il risultato di forze sia naturali sia sociali» (Dorothea Lange). Le immagini del tempo mercantile assumono importanza solo nella

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vita che le cancella o le celebra. I saperi hanno cessato di perdere la faccia man mano che hanno assunto il potere. Là dove gli eresiarchi vestono il san-benito della santa Inquisizione passa una lama di luce che trascolora il tempo della spada e dell’aspersorio nel tempo delle immagini liberate: la sola Storia che l’Uomo/la Donna conosce è quella delle merci e della disumanizzazione di sé. Amen! A entrare nel rizomario fotografico di Dorothea Lange restiamo folgorati dalla metafisica della tenerezza di molte sue immagini: uomini, donne, bambini, ambienti, campi di lavoro sono presi al fondo della condivisione e del riscatto sociale. La mamma migrante con i bambini addosso, il ragazzino con la sigaretta che pende da un labbro, la famiglia sul camioncino sgangherato, i neri davanti alle loro baracche, la donna che allatta il bambino sotto una tenda di stracci rimandano alla discriminazione degli Ultimi e chiedono giustizia. Dorothea Lange sta a fianco dei suoi soggetti, si vede bene, quasi li sfiora, li accarezza, li abbraccia: le sue immagini sono spinte in un’etica egualitaria che riconosce il giusto e l’ingiusto, che denuncia lo sfruttamento e si pone in difesa della dignità umana. Basta affacciarsi nelle pieghe etiche/estetiche di alcune immagini di Dorothea Lange, per comprendere la grandezza della sua poetica della bellezza: non è tanto la fotografia Migrant Mother (1936), ormai famosa, della madre che tiene una mano ai limiti della bocca e guarda verso un futuro di miseria, mentre i suoi bambini nascondono le loro facce sporche alla macchina fotografica, ma è Migrant Mother Family (1936) che più ci conferma il linguaggio del disinganno della fotografa: la medesima donna tiene in braccio un bambino dentro un misero attendamento, accanto, in piedi, appena sorridenti e imbarazzati, ci sono altri due bambini e più avanti, quasi in primo piano, una ragazzina appoggiata su una sedia a

dondolo che chiude l’inquadratura. Tutti guardano in macchina (fotografica) quasi con timore. C’è una sorta di mistero e soggezione in loro: tuttavia, lo sguardo della ragazza spacca la magia e la paura e punta diritto verso disinganni a venire. Il dolore esiste solo fintantoché dura l’obbedienza. Migrant Mother Family contiene la medesima forza emotiva/ eversiva di un’altra immagine senza tempo e senza scampo per la meschinità e l’indifferenza dei governi nei riguardi degli esclusi: è White Angel Breadline, che Dorothea Lange scattò a San Francisco, nel 1933. Qui, una fila di persone è in attesa del pane... un anziano volta le spalle a tutti... stringe le mani sulla transenna (ma non prega!), davanti ha una ciotola di ferro ammaccata... il cappello sporco è affondato sulla testa e s’intravede sì uno sguardo perso nella Storia degli oppressi, ma la bocca è serrata in una smorfia che non perdona: sembra dire che non è la ricchezza, né la potenza, ma è la dignità di tutti gli Uomini che deve essere il vero fine di ogni forma di società. L’immagine della bambina persa nei sogni e in rabbie mai sopite, per le condizioni di sopravvivenza nelle quali si è trovata a vivere, Child and Her Mother (Wapato, Yakima Valley, Washington, 1939), contiene una forma di disprezzo per i millenni di false speranze e implorazioni che ovunque una parte di umanità continua a subire. Dorothea Lange inquadra la bambina che afferra un filo spinato... gli occhi sono abbassati, ma non sottomessi... dietro, la madre si copre dal sole con una mano e l’altra è appoggiata su un fianco... alle loro spalle si intravede una casetta di legno... tutto intorno è terra e polvere: la bambina non interpreta lo scoramento, ma il disgusto contro i produttori della povertà. Il disinganno è al fondo del vero e tutto si può violare perché niente è sacro. Come pochi, Dorothea Lange

può essere considerata maestro della fotografia sociale: che non è un genere preciso (come può suggerire la sua definizione), quanto piuttosto l’inclinazione, l’atteggiamento, la sensibilità di un autore di fronte alla realtà storica del proprio tempo. «La fotografia sociale cerca di stimolare nell’osservatore il risveglio di una coscienza, e quindi una reazione critica e partecipata verso le ingiustizie, le oppressioni, la povertà, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e, in genere, verso condizioni umane che coinvolgono precise responsabilità individuali e istituzionali» (Alfredo De Paz: Fotografia e società. Dalla sociologia delle immagini al reportage contemporaneo; Liguori, 2001). Ironia vuole che, al momento in cui la coscienza di qualcuno apre gli occhi e butta lo sguardo sui cumuli di macerie e mediocrità che ha intorno a sé, scopre che la fine delle truccherie ideologiche, sacrali e mercantili coincide con un gesto: quello della disobbedienza e della diserzione. In fotografia, e dappertutto, non si deve avere timore di sporcarsi le mani prendendo una posizione. L’importante è sempre ragionare avendo nel cuore la verità e il bene comune. I miti sono tutti consumati nell’immaginario addomesticabile dei luoghi comuni. Quando un uomo passa dalle parti della storia o è un tiranno o un ribelle. Il Cielo ci salvi dai Cristi in croce e dai troni di sangue. Sparate e vi sarà aperto, diceva. Solo gli amanti della luna conoscono il genio dell’amore. La crocifissione di Cristo mi incuriosisce solo per il lavaggio dei piedi. La crocifissione di Spartaco mi commuove. Quando gli schiavi si sollevano contro i re, anche il popolo grida che è un’indecenza. Nelle teste degli stupidi gli alberi crescono a rovescio. Come i sogni. L’umanità ha cominciato a piangere quasi per gioco e poi ha creduto che fosse un ineluttabile destino. Ogni Uomo impara a vivere soltanto quando ha imparato a morire di gioia. ❖




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