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ANNO XXIV - NUMERO 230 - APRILE 2017
World Press Photo 2017 EPOCA IN CUI...
Leica 1914-2014 CENTO ANNI IN SINTESI
PC NIKKOR 19mm f/4E ED A TUTTA PROSPETTIVA
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prima di cominciare MAGICA POLAROID. Pubblicato a fine dello scorso anno, Polaroid: The Magic Material è un resoconto appassionato (e appassionante) della lunga epopea della fotografia a sviluppo immediato. È stato compilato da Florian Kaps, che si è guadagnata posizione di primo piano nella stessa storiografia: è colui il quale ha raccolto il testimone, all’indomani della conclusione del tragitto originario, dando vita alla ripresa Impossible. Polaroid: The Magic Material è scomposto in due sezioni discriminanti, rispettivamente concentrate sulla Discovery / Scoperta e ReDiscovery / Riscoperta, immediatamente conseguenti. Ogni sezione scandisce relativi capitoli tematici, entro i quali sono raccontati fatti e retrofatti che hanno stabilito la progressione e manifestazione di una delle più fantastiche vicende della fotografia.
Crediamo che l’unica soluzione sia quella di continuare a parlare di Fotografia e di fotografia, con un occhio ai giovani: ai quali chiedere aiuto, ai quali offrire il nostro contributo di adulti consapevoli. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 28 Ogni fotografia implica l’architettura che la precede; la fotografia registra, la bellezza la mostra: il mondo esiste per cadere in una “bella” fotografia. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 63 In un certo senso, illustrazioni fedeli alla nostra osservazione anche diagonale del nostro mondo. mFranti; su questo numero, a pagina 10 Siamo perfettamente consapevoli di come e quanto, nel proprio influenzare la stessa Vita, la Fotografia possa essere, e sia stata, e sia ancora efficiente mezzo di apostolato di e per idee e opinioni. Sia chiaro. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 32
Copertina Inquadratura ipergrandangolare con lo speciale PC Nikkor 19mm f/4D ED, dotato di movimenti micrometrici di decentramento e basculaggio. Da cui, e con cui, considerazioni sull’attualità reflex, che scarta a lato, assolve e risolve condizioni fotografiche fino a ieri l’altro alla sola portata di configurazioni articolate a corpi mobili, soprattutto grande formato. Riflettiamo e consideriamo da pagina 43 Polaroid: The Magic Material, di Florian Kaps; Frances Lincoln, 2016; 256 pagine 17x21cm, cartonato; 19,73 euro.
Rispetto la storiografia aziendale di riferimento (Edwin H. Land e la Polaroid, compilata da Peter C. Wensberg, che lavorò alla Polaroid Corporation per ventidue anni, arrivando alla carica di vicepresidente esecutivo), questa attuale lettura è meno “interna”. Il suo valore sta altrove, ovverosia nella passione e amore che l’autore Florian Kaps rivela pagina dopo pagina: sono proprio e giusto questi i sentimenti forti e convinti che hanno guidato la sua azione commerciale di rilancio della fotografia a sviluppo immediato, in forma di Impossible. Quindi, l’originalità di racconto di questo Polaroid: The Magic Material è rintracciabile nella seconda parte del testo, quando la Riscoperta è scandita da considerazioni sul valore dell’immagine pronta in pochi istanti, con relative proiezioni in forma creativa. Ciò a dire che l’attuale identità Impossibile non ha modo di sostituire in toto la precedente personalità polaroid, ma ha proprietà e soggettività utili e proficue nella ricerca espressiva d’autore.
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da un chiudibusta ungherese (errinofilia) del 1908, emesso con l’occasione di una lunga esposizione fieristica che si è estesa dal ventiquattro maggio al diciotto giugno. Richiamo alla fotografia in stile con il proprio tempo
7 Editoriale È una questione di etica... forse... soprattutto. Tra le tante considerazioni che si possono esprimere sulla fotografia, al giorno d’oggi, una distinzione riguarda gli indirizzi professionali e quelli non professionali
8 Eccolo qui... Darwin Un ritrovamento storico collega i microscopi Zeiss allo scienziato al quale dobbiamo la teoria dell’evoluzione
12 Ritorno al Sergente La copertina di una avventura di Dylan Dog richiama una illustrazione iconica degli anni Sessanta. Dei Beatles
APRILE 2017
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
16 Selfie originario All’interno della scenografia del film Thelma & Louise individuiamo l’origine (?) del selfie fotografico, per il quale esprimiamo poi considerazioni e riflessioni Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XXIV - numero 230 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
18 Le donne di Pino Bertelli Ottimo saggio, La fotografia ribelle è una raccolta ragionata e coinvolgente di personalità al femminile
20 Epoca in cui... Da una parte, commentiamo lo svolgimento del World Press Photo 2017; da un’altra prospettiva, ragioniamo sull’imponenza delle attuali quantità di fotogiornalismo (magari, a scapito della qualità). Quindi, introduciamo altre caute valutazioni: sempre e comunque per parlare di Fotografia e di fotografia di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
32 C’era una volta in America Fondamentalmente referente all’esperienza della Farm Security Administration, la monografia New Deal Photography. USA 1935-1943 antepone la Fotografia a ogni altro equilibrio di maniera
43 A tutta prospettiva L’attuale tecnologia di acquisizione digitale di immagini identifica un presente del quale prendere atto: le reflex dei nostri giorni assolvono e risolvono quanto, un tempo lontano, era svolto da dotazioni più articolate. Il nuovo PC Nikkor 19mm f/4D ED affianca questa idea di Antonio Bordoni
50 Da una Cina all’altra Allineato con la Storia della Fotografia, Dalang Shao continua a immaginare e raffigurare Scene pittoresche di Angelo Galantini
58 Cento anni in sintesi Emozionante video 100 [Leica]. A Tribute to Photography
63 Sally Mann
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Marco Auricchio Pino Bertelli Antonio Bordoni Pamela Campaner mFranti Angelo Galantini Alberto Meomartini Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Dalang Shao Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
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Sguardi sulla fotografia della rêverie o del Dionisiaco di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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editoriale VALERY MELNIKOV / ROSSIYA SEGODNYA
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ppure, nonostante tutto, nonostante l’attuale impero del non pensiero, della non riflessione, vale ancora la pena ragionare. Ovviamente, la nostra è sempre e comunque una argomentazione mirata, di fatto, originata nel mondo fotografico, per quanto non sempre a questo si limiti. Del resto, come spesso accade, e senza sosta alcuna, il nostro è un punto di vista privilegiato, con osservazione da un posto in prima fila. Inoltre, è un’osservazione che risponde a un dovere irrinunciabile (a un’etica dovuta e inalienabile): quello di condividere con altri le proprie osservazioni. In questo senso, sia chiaro che non è mai e solo un problema del sapere (conoscenza?), ma di voglia di condividere. E capacità di farlo. Forse... Tra le tante considerazioni che si possono esprimere sulla Fotografia, e che si devono manifestare e riferire, oggi, una è più urgente di altre, e riguarda chi e perché realizza fotografie. La scomposizione più ragionevole e convincente distingue il professionismo, con tutti i propri indirizzi, dal non professionismo, a propria volta frequentato in misura consapevole e sicura (quel fotoamatorismo al quale dobbiamo tante e tante visioni della vita nel proprio svolgersi), e svolto soprattutto per ricordo personale (con le aberrazioni recenti indotte dai social network: affermazione di se stessi attraverso la cronaca quotidiana della propria esistenza e selfie a contorno). In questo senso, pensando proprio alla vita nel proprio svolgersi, la contrapposizione che possiamo considerare tra professionismo, da una parte, e non professionismo, dall’altra, è palese: soprattutto, il professionismo, in forma di fotogiornalismo, sta sempre più puntando la propria attenzione sulla tragedia, le disgrazie e il dolore; per contro, la fotoricordo è soltanto cronaca di momenti privati felici... oggi più di quanto non sia stato fatto ieri. Ciò accade sia per urgenze della nostra società e della comunicazione giornalistica, che insegue soprattutto il lato drammatico della vita, sia per induzioni di carattere, diciamo così, tecnologico. Infatti, disponendo ciascuno di uno strumento quotidiano di registrazione di immagini (smartphone e dintorni), ecco che la fotografia ha sdoganato precedenti obblighi propri, per diventare autenticamente compagna di istanti personali, senza alcuna soluzione di continuità: da cui, l’assolvimento compulsivo della cronaca social network. A ben guardare, e a propria volta, questa biforcazione di intenti e svolgimenti impone una ulteriore considerazione fenomenologica, una distinzione aggiuntiva: in tutte le proprie componenti, magari a partire dal fotogiornalismo, il professionismo fotografico continua a camminare lungo il percorso visivo ed espressivo tracciato da una Storia, e a questa risponde e questa assolve, nello stesso momento nel quale contribuisce a scriverla; di contro, e in parallelo (senza alcun punto di contatto), la fotoricordo dei nostri giorni ha imboccato una deviazione di sostanza. Non risponde più alla Fotografia, come ha sempre fatto prima della tecnologia digitale, ma alla socialità. Purtroppo... alla Società dello spettacolo: da e con Guy Debord e Pino Bertelli. Maurizio Rebuzzini
Etica... forse. Etica... certamente. Tra le tante considerazioni che si possono esprimere sulla Fotografia, al giorno d’oggi, una distinzione è più urgente di altre: chi e perché realizza fotografie? Una linea demarcatoria è chiara: soprattutto in forma di fotogiornalismo, il professionismo sta sempre più puntando la propria attenzione sul dolore (degli altri); mentre la fotoricordo è soltanto cronaca di momenti privati felici. In accostamento esplicativo, il Primo premio Long-Term Projects al World Press Photo 2017, di Valery Melnikov / Rossiya Segodnya (Russia), sui Giorni neri dell’Ucraina [su questo stesso numero, a pagina 22], e il selfie fotografico delle protagoniste, nel film Thelma & Louise [su questo stesso numero, da pagina 16].
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Pillola di Storia di Maurizio Rebuzzini (Franti)
ECCOLO QUI... DARWIN
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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Spulciando negli archivi, a volte, si incontrano autentiche perle: e il sostantivo di pregio è attribuzione individuale, nel senso di personale, su una scala di valori con la quale ci relazioniamo. Recentemente, in casa Carl Zeiss, che il nostro mondo riferisce a una consistente gamma di obiettivi fotografici di alta qualità formale, è stata recuperata una lettera in due facciate, inviata, il 9 febbraio 1881, un anno prima della sua scomparsa, da Charles Darwin (1809-1882) a Ernst Haeckel (1834-1919), biologo, zoologo, filosofo, nonché artista tedesco, all’epoca prorettore dell’Università di Jena, al quale chiede di procurare a suo figlio Francis un microscopio Carl Zeiss. Ancora dall’archivio, sappiamo che, il successivo undici marzo, Zeiss spedì effettivamente a Darwin un microscopio in omaggio (numero di matricola 4876). Forse è superfluo, forse no. Dunque, ricordiamo che Charles Darwin è stato uno scienziato fondamentale nella storia dell’Umanità. Biologo e naturalista inglese, è ricordato e celebrato per aver formulato la teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale, agente sulla variabilità dei caratteri ereditari, e della propria diversificazione e moltiplicazione per discendenza da un antenato comune. Espresse e spiegò la sua teoria sull’evoluzione delle specie nel libro L’origine delle specie, pubblicato in Inghilterra il 24 novembre 1859, che è considerato e conteggiato come il suo lavoro più noto. Rammentiamo ancora che Charles Darwin raccolse molti dei dati su cui basò la propria teoria durante un viaggio intorno al mondo sul brigantino HMS Beagle, della Royal Navy, e -in particolare- durante una lunga sosta alle Isole Galápagos, note anche come Arcipelago di Colombo, Arcipelago dell’Ecuador o Arcipelago di Colón: tredici isole vulcaniche situate nell’Oceano Pacifico, a circa mille chilometri dalla costa occidentale dell’America del Sud. Da cui, è inevitabile constatare come siano pochi gli scienziati che godono della stessa fama di Charles
Darwin, la cui teoria dell’evoluzione, in spiegazione dell’origine delle specie e dell’essere umano, ha sconvolto il mondo scientifico e l’idea del mondo globale diffusa a quell’epoca... con influenze e ascendenti a seguire, fino a noi, fino ai nostri giorni. Come annotato, la formulazione della teoria dell’evoluzione affonda le proprie radici in conoscenze di diverse discipline acquisite durante la sua solida formazione di scienziato multidisciplinare. Geologo, zoologo e botanico, Charles Dar-
win ha studiato anche l’origine delle barriere coralline, i cirripedi, i lombrichi, le orchidee e le piante carnivore. Ovviamente, ieri come oggi, per ogni ricercatore, uno strumento indispensabile di indagine, osservazione, studio, analisi ed esame è stato ed è il microscopio. Charles Darwin conosceva la qualità dei microscopi Zeiss, la cui produzione era stata avviata a Jena, in Germania, nel 1848. Nella fattispecie, era un estimatore dei microscopi Zeiss; da cui, la lettera inviata
Fronte e retro della lettera inviata, il 9 febbraio 1881, da Charles Darwin, biologo e naturalista inglese al quale dobbiamo la teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale, a Ernst Haeckel, biologo, zoologo, filosofo tedesco, all’epoca prorettore dell’Università di Jena, sostenitore della sua teoria sugli antenati comuni, al quale chiede di procurare a suo figlio Francis un microscopio Carl Zeiss. Il successivo undici marzo, Zeiss spedì effettivamente a Darwin un microscopio in omaggio (numero di matricola 4876).
(pagina accanto, al centro) Emissione filatelica della Germania Est, del 16 maggio 1989, in tre valori, nel centenario della Fondazione Carl Zeiss, ancora unica proprietaria della produzione ottica Carl Zeiss. Al centro, l’ottico Ernst Abbe, socio scientifico di Carl Zeiss; a sinistra, un microscopio elettronico d’attualità tecnologica; a destra, il Microscopio KZM 01-250C.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (4)
Ancora Germania Est, ovvero Repubblica Federale Tedesca (DDR, prima della riunificazione, del 3 ottobre 1990). Quattro francobolli in celebrazione dell’Optical Museum Carl Zeiss (Museo Ottico di Jena), del 12 agosto 1980. In ordine, anche di tariffa postale, i microscopi storici Huntley (1740), Magny (1751), Amici (1845) e Zeiss (1873).
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Pillola di Storia
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a Ernst Haeckel, sostenitore della sua teoria sugli antenati comuni, residente a Jena, il 9 febbraio 1881, dalla quale siamo partiti. In traduzione efficace: «Mio figlio Francis, che lavora con me, desidera un microscopio di Zeiss. Saresti così gentile da recarti da Zeiss e assicurarti che ne possa ricevere uno in una dotazione di qualità?». Nel marzo successivo, Francis Darwin ricevette un microscopio, completo di accessori e una serie di obiettivi mirati, adatto a soddisfare le specifiche esigenze sue e di suo padre. A questo punto, note specifiche sul marchio Zeiss, a partire dai suoi valori attuali. Con sede a Oberkochen, in Germania, nel land di Baden-Württemberg, nel distretto di Stoccarda,
Zeiss è un gruppo tecnologico operante a livello mondiale nei settori dell’ottica e dell’optoelettronica. L’azienda progetta e commercializza prodotti e soluzioni nei settori dell’ottica per litografia, metrologia industriale, microscopia, tecnologie medicali, oculistica, obiettivi fotografici e cinematografici, binocoli e planetari. Grazie alle sue soluzioni, è leader mondiale nel progresso ottico e contribuisce a plasmare un significativo progresso tecnologico. Il gruppo Zeiss è suddiviso in quattro settori: Tecnologie dei Semiconduttori, Tecnologia Ricerca & Qualità, Tecnologie Biomedicali e Vision Care/Ottica di consumo. Il marchio è presente in oltre quaranta paesi, con circa trenta sedi produttive, più di cin-
quanta sedi dedicate a vendite e assistenza e circa venticinque sedi impegnate nella ricerca e nello sviluppo. Con quasi venticinquemila collaboratori, nell’esercizio 2014-15, il Gruppo ha realizzato un fatturato di circa quattro miliardi e mezzo di euro. La società Carl Zeiss AG gestisce il Gruppo Zeiss come Management Holding strategica. Unica proprietaria della società è la Fondazione Carl Zeiss (www.zeiss.it). Per la fotografia, il referente italiano è il distributore Fowa, di Torino (www.fowa.it). A corredo, illustrazioni storiche trasversali. In un certo senso, illustrazioni fedeli alla nostra osservazione anche diagonale del nostro mondo. ❖ Piccolo o grande che sia.
Da una serie di tre valori filatelici della Germania Est (DDR; il terzo soggetto è la fabbrica Carl Zeiss, di Jena), del 9 novembre 1956, i soggetti dedicati all’ottico Ernst Abbe e a Carl Zeiss.
Citazione (colta) di Angelo Galantini
RITORNO AL SERGENTE
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Dalla sua copertina, l’albo numero Trecentosessantasei di Dylan Dog (366, con data di copertina marzo 2017) richiama una citazione generazionale che una volta era considerata iconica, ma ora può aver perso molto del proprio fascino originario, alla luce dell’incalzare quotidiano e orario di sempre nuove sollecitazioni. Quindi, all’interno dell’avventura dell’indagatore dell’incubo della scuderia di fumetti targati Sergio Bonelli Editore, sceneggiata da Riccardo Secchi e illustrata da Valerio Piccioni, Il giorno della famiglia si snoda anche attorno l’illustrazione esplicita di richiamo (copertina di Gigi Cavenago), che riprende l’immagine di uno dei più noti e celebrati album dei Beatles: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, pubblicato in Inghilterra il Primo giugno 1967 e in Italia a cavallo tra luglio e agosto (tempi nei quali si diceva “long playing”, per distinguere i trentatré giri dai quarantacinque): a breve, il cinquantenario 1967-2017. Sia per non rovinare l’eventuale lettura, sia per altri motivi contingenti, non riveliamo nulla di questa storia, nella quale il solito spiritismo del protagonista Dylan Dog si mescola con reminescenze degli anni Sessanta: oltre il citato appello alla discografia dei Beatles -per la cui ripetizione, da cimiteri della provincia di Londra, vengono sottratti cadaveri-, si mobilita perfino la famigerata Famiglia di Charles Manson, che nella seconda parte del decennio si macchiò di sanguinosi delitti (fino alla strage del 9 agosto 1969, nella villa hollywoodiana di Roman Polanski e Sharon Tate, con quattro morti massacrati, tra i quali proprio Sharon Tate, moglie del regista -assente da casa-, incinta di otto mesi). In volo più alto, senza atterraggio tragico, e passo lieve, sottolineiamo soltanto che la copertina di Il giorno della famiglia / Dylan Dog, numero Trecentosessantasei, riprende la raffigurazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, che ai propri tempi fece molto e molto scalpore. Vale la pena riparlarne. Musicalmente, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band rappresentò
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una novità assoluta. Non una semplice raccolta di motivi, come spesso veniva fatto (e viene ancora fatto), ma un insieme senza soluzione di continuità dall’inizio alla fine. Sulle due facciate del disco, le singole canzoni so-
La copertina di Dylan Dog / 366 riprende l’illustrazione dell’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
no unite da brusii di folla, note di strumenti ad arco, piccoli giochi vocali, rumori di sottofondo, messaggi cifrati, effetti orchestrali, chiasso da pollaio. Siamo nel periodo nel quale andavano di moda le uniformi militari, in-
ACCANTO AL SERGENTE PEPPER
Dall’alto e da sinistra, i personaggi raffigurati sulla copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, album dei Beatles del quale sta per ricorre il cinquantesimo anniversario: estate 1967-2017, evocato dalla copertina dell’avventura numero Trecentosessantasei di Dylan Dog, dello scorso marzo, intitolata Il giorno della famiglia. A contorno, soprattutto alla base, si aggiungono statue (tra le quali una dall’abitazione di John Lennon), suppellettili varie, oggetti di complemento e gnomi da giardino. Comunque, rimaniamo ai personaggi, riprendendo e proponendo una delle decifrazioni più attendibili; altri elenchi sono marginalmente diversi.
Sri Yukestawar Giri (guru); Aleister Crowley (noto per i propri eccessi sessuali, nell’uso di droghe e nella frequentazione della magia); Mae West (attrice); Lenny Bruce (cabarettista); Karlheinz Stockhausen (compositore); William Claude Fields (attore); Carl Gustav Jung (psicologo); Edgar Allan Poe (scrittore); Fred Astaire (attore); Richard Merkin (artista); illustrazione di Alberto Vargas; [nel posto vuoto avrebbe dovuto essere raffigurato l’attore Leo Gorcey, che però chiese un compenso, e non venne accontentato]; Huntz Hall (attore, in coppia con Leo Gorcey nel film The Bowery Boys, del 1954); Simon Rodia (architetto, creatore delle Watts Towers, di Los Angeles); Bob Dylan (musicista); Aubrey Beardsley (pittore e illustratore); sir Robert Peel (politico britannico);
Aldous Huxley (scrittore); Dylan Thomas (poeta); Terry Southern (scrittore); Dion (di Mucci; cantante); Tony Curtis (attore); Wallace Berman (attore); Tommy Handley (attore); Marilyn Monroe (attrice); William Burroughs (scrittore); Sri Mahavatara Babaji (guru); Stan Laurel (attore); Richard Lindner (scrittore); Oliver Hardy (attore); Karl Marx (filosofo); H.G. Wells (Herbert George; scrittore); Sri Paramahansa Yoganandu (guru); statua in cera; Stuart Sutcliffe (ex Beatle); statua in cera; Max Miller (attore); illustrazione di George Petty; Marlon Brando (attore); Tom Mix (attore); Oscar Wilde (scrittore); Tyrone Power (attore); Larry Bell (artista); Dottor David Livingstone (missionario ed esploratore); Johnny Weissmuller (nuotatore e attore); Stephen Crane (scrittore); Issy Bonn (attore); George Bernhard Shaw (scrittore); H.C. Westermann (Horace Clifford; scultore); Albert Stubbins (calciatore); Sri Lahiri Mahasaya (guru); Lewis Carroll (scrittore); T.E. Lawrence (Thomas Edward; militare; Lawrence d’Arabia); Sonny Liston (pugile); illustrazione di George Petty; George Harrison (statua in cera); John Lennon (statua in cera); Shirley Temple (attrice); Ringo Starr (statua in cera); Paul McCartney (statua in cera); Albert Einstein (fisico e filosofo); John Lennon (con corno francese); Ringo Starr (con tromba); Paul McCartney (con oboe); George Harrison (con flauto); Bobby Breen (cantante); Marlene Dietrich (attrice); Mohandas Karamchand Gandhi (leader indiano); Legionario; Diana Dors (attrice); Shirley Temple (attrice).
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Citazione (colta) dossate con estrema disinvoltura e senza alcun ritegno (momenti grotteschi, dei quali molti dovrebbero vergognarsi, soprattutto dal mondo dello spettacolo). In particolare, a Londra, ebbero grande successo commerciale i negozi che vendevano oggetti e divise dell’epoca vittoriana, e tra i tanti il più noto fu l’eccentrico I Was Lord Kitchener’s Valet (Sono stato il cameriere di Lord Kitchener), dove anche i quattro Beatles si servivano. Giocoforza che Paul McCartney, sempre attento agli umori del pubblico, abbia allora pensato a qualcosa di musicale da abbinare a questo interesse. Nacque così il motivo Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ovvero La banda del club dei cuori solitari del sergente Pepper. Il produttore George Martin, al quale va attribuito il grande merito del successo dei Beatles, ricorda la canzone di Paul McCartney: «Era del tutto normale, non particolarmente brillante. Quando finimmo, Paul disse: “Perché non costruiamo un album come se l’orchestra di Pepper esistesse realmente, come se fosse proprio il sergente Pepper a fare il disco? Possiamo creare effetti e oggetti”. Da quel momento, fu come se il sergente Pepper avesse una sua vita propria» (da Shout! La vera storia dei Beatles, di Phil Norman, Mondadori, 1981). Nella memoria dei protagonisti di quei momenti rimane la sensazione che all’inizio tutto fu soprattutto un gioco: le canzoni stesse e la ricerca dei rumori di collegamento tra i diversi motivi. Poi, in ognuno crebbe la sensazione di lavorare attorno la creazione di un capolavoro musicale. Con antiquati strumenti di registrazione, George Martin e i suoi tecnici si impegnarono a conciliare l’infinità di nuove idee partorite dai Beatles, che avevano da poco scoperto l’Lsd, il potente allucinogeno, e con questo avevano riscoperto il gusto di stare assieme. Tanto che, per molti critici della musica, Sergeant Pepper è sia la più significativa raccolta dei Beatles, sia la loro migliore performance in sala di registrazione (altro discorso, di diverso spessore, per il precedente Revolver, del 1966, e successivo “White Album”, del 1968). In ogni caso, con il senno di poi, annotiamo che questo rinnovato entusiasmo rappresentò anche l’inizio
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della loro fine. All’epoca, da un anno, i Beatles avevano abbandonato le esibizioni dal vivo per mancanza di feeling con il pubblico, oltre che per contenere i propri guadagni e le conseguenti ingenti tasse. Inoltre, da molto, si era esaurita l’amicizia originaria. In particolare, in quel 1967, divenne evidente l’acceso antagonismo musicale tra Paul McCartney e John Lennon, in competizione per la leadership del gruppo. In quei giorni, Paul McCartney non riuscì a eguagliare l’originalità creativa di John Lennon, che firmò i motivi migliori dell’album: Lucy in the Sky with Diamonds (per il quale si è sempre esplicitamente parlato degli influssi dell’Lsd, palesemente identificato anche nell’acronimo del titolo) e A Day in the Life. Oltre il fatto musicale, per se stesso significativo, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band fece scalpore anche per l’insolita copertina (eccoci qui!): considerata la prima confezione spettacolare, che diede avvio a una stagione. I Beatles inserirono se stessi nei panni della banda del sergente Pepper, appunto inguainati in altisonanti e colorate divise militari d’epoca. Magari anche più della musica, e prima di averla ascoltata, questa/quella copertina rispecchiò perfettamente la propria epoca. Gli artisti pop Peter Blake e Jan Haworth furono incaricati della sua impostazione grafica, per la quale furono espressamente esortati a non curarsi delle convenzioni. Nella coloratissima composizione, i Beatles reggono strumenti bandistici e vestono uniformi di raso giallo (John Lennon), fucsia (Ringo Starr), azzurro (Paul McCartney) e scarlatto (George Harrison). Per l’occasione, e per interpretare al meglio i personaggi, i quattro si fecero crescere i baffi. Da qui inizia, quindi, il gioco delle citazioni. Davanti alla finta solennità dei Beatles è composta una scritta con fiori, che sopravanza di poco un giardino di piante di marijuana. I quattro sono inquadrati in mezzo a un collage di figure che rappresentano numerosi eroi del pseudo culto della cultura pop del tempo. Con balzi arditi e in perfetta fusione (di intenti), da Karl Marx si arriva a Bob Dylan, da Edgar Allan Poe a Marlon Brando. Non mancano, ancora, spiritosaggini private: come le statue in cera del museo di Madame
Tussaud del pugile Sonny Liston, di George Bernard Shaw e degli stessi Beatles, in versione originaria 1961. Da segnalare anche la bambola sul cui abito campeggia la scritta Welcome The Rolling Stones (gli antagonisti londinesi di sempre). Ai propri tempi, cinquanta anni fa, la copertina destò scalpore, e tra il pubblico iniziò il gioco del riconoscimento dei singoli personaggi che accompagnavano i Beatles. Alcuni volti erano (sono) noti anche al grande pubblico, invece altri erano (sono) conosciuti soltanto in una ristretta cerchia di persone. Tra i volti pubblicamente poco noti, i conoscitori della storia del gruppo (oggi diciamo “band”, ieri l’altro “complesso”) apprezzano la presenza di Stuart Sutcliffe, il quinto Beatles degli anni di Amburgo (1960) e dei primi provini discografici. Stuart Sutcliffe, che si separò dagli amici per restare in Germania, per vivere con Astrid Kirchherr, giovane assistente del grande fotografo tedesco Reinhart Wolf, morì prima dell’esplosione del fenomeno Beatles e del relativo incontrastato successo internazionale (attenzione, questa storia è raccontata dal film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley; Gran Bretagna e Germania, 1994 [FOTOgraphia, dicembre 2008]). L’assemblaggio del collage per la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non fu né semplice né lineare. I dirigenti della casa discografica, la Emi, non si erano accorti delle piantine di marijuana in primo piano (forse perché neppure le conoscevano o riconoscevano); invece, si preoccuparono per i diritti all’immagine dei personaggi presentati. Si temevano azioni legali contro la società. Comunque, dopo alcune transazioni, i Beatles accettarono soltanto di togliere Gandhi, la cui presenza accanto a frivole figure dello spettacolo avrebbe potuto compromettere le vendite dell’album sul mercato indiano. A seguire, a fronte di ricerche e consultazioni, sono stati identificati i personaggi raffigurati (riquadro a pagina 13). Non mancano, a caso, Stan Laurel e Oliver Hardy (in Italia, Stanlio e Ollio), Albert Einstein, Marlene Dietrich, Oscar Wilde... e un’unica presenza è riconducibile al mondo fotografico: Lewis Carroll. ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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SELFIE ORIGINARIO
Per la propria trama, per le emozioni che sollecita e per altri motivi -non tutti razionali, ma va bene così-, Thelma & Louise, diretto da Ridley Scott, del 1991, è un film elevato a rango di autentico cult: sia generazionale, sia trasversale, senza alcuna soluzione di continuità. Premio Oscar 1992 per la migliore sceneggiatura (firmata da Callie Khouri), nel 2016 è stato inserito tra le pellicole conservate all’autorevole e selettivo National Film Registry, della Library of Congress statunitense. Ancora in registrazione anticipata su quanto stiamo per andare a osservare, proprio con identificazione nella sceneggiatura/scenografia di Thelma & Louise, va registrato che è uno dei rari film che si concentra unicamente su due personaggi, peraltro esplicitamente dichiarati nel titolo di identificazione e richiamo, ai quali tutti gli altri protagonisti (minori) fanno soltanto da corte. Per assolvere la nostra intenzione espressa e affermata, che approderà alla socialità dei selfie, come da titolo esposto, contravveniamo a una delle regole basilari dello scrivere giornalisticamente: quella di affrontare subito l’argomento, per attrarre l’attenzione. Ai selfie, ci arriveremo, attingendo proprio al film Thelma & Louise, al quale stiamo per attribuire una sostanziosa primogenitura; dunque, per approdare a questo, è opportuno anticipare i parametri della vicenda. Le due protagoniste, Louise Sawyer e Thelma Dickinson, rispettivamente interpretate dalle brave e convincenti Susan Sarandon e Geena Davis, vivono in provincia, in Arkansas. Quarantenne cameriera in un fast food, Louise patisce una relazione deludente e manchevole con tale Jimmy Lennox (interpretato da Michael Madsen); analogamente, la trentenne Thelma è la moglie trascurata di Darryl (l’attore Christopher McDonald), esplicitamente sessita e sempre fuori casa. È su queste basi comuni, o quasi, che le due amiche partono per un fine settimana di propria liberazione e libertà: senza informare nessuno, “scappano” con la vecchia Fort Thunderbird di Louise. La svolta avviene in un locale
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Considerato il successo di pubblico del film, autentico cult, consideriamo l’origine cinematografica del selfie fotografico una scena iniziale di Thelma & Louise, di Ridley Scott, del 1991, elevata anche a simbolo della stessa vicenda (nelle promozioni).
Country Western, dove devono difendersi da attenzioni vischiose e insistenti di un avventore. Per farla breve, è Louise che salva l’amica Thelma da uno stupro, uccidendo l’uomo. Da qui, la loro vacanza smette di essere tale, per assumere i connotati della tragedia esistenziale della fuga verso il Messico, inseguite dall’ispettore di polizia Hal Slocumb (con il volto di Harvey Keitel, il fantastico tabaccaio Auggie Wren, di Smoke: tante e ripetute le nostre evocazioni, su queste stesse pagine).
Da cui, lasciamo perdere lo svolgimento, per approdare al commovente finale, nel quale, raggiunte dalla polizia sull’orlo di un precipizio a ridosso del Grand Canyon, nell’Arizona settentrionale, con il sorriso sulle labbra, Thelma e Louise si baciano e, tenendosi per mano, si lanciano con la macchina nel vuoto. In ordine: liberazione della Donna, viaggio epico ed eroico, figure femminili di spessore, Fort Thunderbird cabriolet, spazi infiniti, epilogo, regista capace di mitizzare (Ridley Scott, di Alien, Blade Runner, Il gladiatore, Hannibal ). C’è tutto quanto serve alla nascita e affermazione di un cult cinematografico: e questo è, come abbiamo subito annotato in apertura di testo. Quindi, finalmente, per quanto riguarda e spetta alla nostra consueta riflessione attorno la presenza della fotografia al cinema, in sceneggiatura, piuttosto che scenografia, e -magarianche dialogo, una delle scene iniziali del film Thelma & Louise può essere conteggiata come un’anteprima dalla quale conteggiare la nascita del selfie fotografico, che oggi, in era digitale e smartphone (soprattutto), si manifesta con prepotenza e, spesso, arroganza. Si torna alle scene iniziali del film, quando Louise allontana da sé il proprio apparecchio fotografico Polaroid, per una inquadratura che comprenda il suo volto e quello di Thelma, alla partenza per la propria avventura (che avrebbe dovuto durare un fine settimana, ma finirà per concludere le loro stesse esistenze terrene).
Cinema
Il senso e valore di questo ante-selfie è tale e tanto da essere stato addirittura eletto ed elevato a simbolo del film, e del suo canto libero, con riproposizione nelle locandine promozionali, replicate in copertina alle commercializzazioni in videocassetta, prima, e Dvd, a seguire. In termini contenutistici, la primogenitura del selfie, individuata nel film Thelma & Louise, del 1991, si basa soprattutto sull’apprezzamento da parte del pubblico, che -come già ricordato- ha elevato i suoi meriti impliciti verso una socialità trasversale che non si esaurisce nei soli termini cinematografici, per andare a colpire e definire emozioni e commozioni individuali, comuni a molti e molti spettatori. Questo per dire che, date alla mano, al cinema c’è stato un altro ante-selfie, a propria volta ancora polaroid, nel film Salto nel buio (Innerspace), di Joe Dante, del precedente 1987. Anche qui, situazione analoga, prima della miniaturizzazione del protagonista tenente Tuck Pendleton (in-
terpretato da Dennis Quaid), assieme con la dottoressa Margaret Canker (interpretata dall’attrice Fiona Lewis). Da cui, ancora qualche osservazione sul selfie, l’autoritratto con smartphone, che definisce e caratterizza una delle più consolidate socialità effimere dei nostri giorni. Da una parte, fotograficamente parlando, non avremmo mai pensato all’idea di ritratto con una focale corta, in genere equivalente al grandangolare 28mm della fotografia 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo. A braccia estese, diciamo a una distanza di circa sessanta-settanta centimetri, la sua visione periferica non è certo accomodante per la fisionomia dei soggetti: ma quello che interessa oggigiorno è soltanto l’evidenza della propria presenza e delle proprie frequentazioni... sociali. Quindi, registriamo come si stiano moltiplicando le cronache di morti accidentali, per imprudenza e incoscienza in prossimità di situazioni pericolose: verso precipizi, come anche accanto a treni in corsa e simili. È un re-
Date alla mano, prima di Thelma & Louise, del 1991, un ante-selfie cinematografico si individua nel film Salto nel buio ( Innerspace), di Joe Dante, del 1987: il protagonista Dennis Quaid, nei panni del tenente Tuck Pendleton, assieme con l’attrice Fiona Lewis, che interpreta la dottoressa Margaret Canker.
trogusto tragico, al quale qualche paese sta contrapponendo divieti di selfie in aree rischiose. Ma, purtroppo, è un retrogusto con il quale confrontarsi, se, quando e per quanto l’apparenza a tutti i costi è stata elevata di senso e valore: perfino assoluto. Del domani, non v’è certezza: ma possiamo individuare tanti segnali e altrettante evidenze. Bisogna vivere il presente, in propria accettazione (non passiva), introducendo parametri che tutelino il nostro futuro conseguente. A questo proposito, consigliamo di seguire le sceneggiature della serie televisiva Black Mirror, originariamente trasmessa sul canale inglese Channel 4, dal dicembre 2011. Dopo prime due stagioni programmate anche in Italia, su Sky Cinema 1, la rete on Demand Netflix ne ha ordinate e prodotte altre due, per il 2016 e il corrente 2017. Sceneggiature di un futuro imminente, diciamo in avanti di due o tre anni rispetto il presente, sulle cui deviazioni vale la pena riflettere. Oppure, no. ❖
Vite fantastiche di Maurizio Rebuzzini
LE DONNE DI PINO BERTELLI
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Subito precisato: Pino Bertelli, che solitamente conclude la fogliazione di ogni numero di questa rivista con caustici e apprezzati Sguardi su autori significativi della Storia della Fotografia, è a propria volta attento e concentrato autore... fotografo. Questo va rilevato, oltre che rivelato a coloro i quali non ne erano a conoscenza, per sottolineare quella linea demarcatoria che non richiede/richiederebbe ai fotografi di esprimersi altro che con la propria creatività applicata: per l’appunto, lo scatto fotografico. Se non che, in percorso individuale, alcuni fotografi sanno anche parlare e scrivere. Ovviamente, non di se stessi e della propria personalità, ma in riflessione altra (e alta) sulla stessa Fotografia, nel proprio insieme e complesso. Non sono molti i fotografi capaci di riflessione, e a chi non ne è capace rimproveriamo nulla. Invece, Pino Bertelli fa parte di questa esigua pattuglia, limitata in quantità, va detto, tanto quanto è sostanziosa e sostanziale per qualità. Così, nel percorso professionale di Pino Bertelli, in combinazione e accostamento di immagini e parole, il casellario bibliografico è ricco di titoli di monografie d’autore e testi di riflessione e considerazione sulla fotografia. Adesso, ce n’è uno in più: La fotografia ribelle, pubblicato da NdA Press, che sottotitola Storie, passioni e conflitti che hanno rivoluzionato la fotografia. Di cosa si tratti, è presto detto, almeno per quanto riguarda l’apparenza a tutti visibile: di una sostanziosa raccolta di saggi che l’autore Pino Bertelli riserva alle figure al femminile della Storia della Fotografia. Sia chiaro, e ci rivolgiamo a chi segue con fedeltà e assiduità queste pagine: alcuni di questi saggi sono già stati pubblicati in FOTOgraphia, per l’appunto nel contenitore selettivo e clinico degli Sguardi su. Ma questo, come altro del resto, conta nulla, non soltanto poco, perché ciò che qui e ora fa la propria differenza è appunto il modus operandi di Pino Bertelli, in veste di angelo del racconto (o diavolo?), che non sottolinea una possibile trasversalità, ma rimarca ed evidenzia una
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guida assoluta e inviolabile di Donne che hanno rivoluzionato la fotografia. Tanto facile, da essere perfino scontato, e -proprio per questo- evitato, sia lui sia noi eludiamo l’ovvio (della presunta “altra metà del cielo”), per non stabilire gerarchie e scale, a dispetto di un assoluto femminile che tale e tanto deve restare. Di un assoluto che ha tracciato solchi indelebili, capaci di sovvertire l’ordine delle cose, in chiave maschilista, per affermare consistenti originalità di pensiero e azione. In questo senso, richiamando precedenti iniziative, apparentemente analoghe, apparentemente allineate (magari approdando perfino agli Appunti per una storia della fotografia al femminile, della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia, dell’estate 2006 [FOTOgraphia, giugno 2006]), va sottolineato come e quanto l’approccio di Pino Bertelli sia ben altro...
La fotografia ribelle ( Storie, passioni e conflitti che hanno rivoluzionato la fotografia), di Pino Bertelli; NdA Press, 2017 (via XX settembre 32, 47923 Rimini; 0541-673550; www.agenzianfc.com, info@agenzianfc.com); 360 pagine 17x24cm; 18,00 euro.
ovverosia di più, perché approfondito alla radice della questione in essere: ammesso, ma non concesso, che di questo si tratti. Anche. Nessuna compiacenza da parte sua, nessuna deroga dal suo sguardo clinico, ma assoluta consapevolezza delle singole personalità, qui concatenate in un percorso in qualche modo comune. Fantastici mosaici di un insieme sostanzioso, i suoi saggi contengono esattamente ciò che serve e non si disperdono in alcuno stereotipo accademico (testi introduttivi a parte: opinione personale e individuale). Nella cadenza nella quale le incontriamo sulle pagine dell’ottimo La fotografia ribelle, il cui titolo è già programma è già intenzione svelata, ventisette fotografe raccontano una propria Storia, strappata alle convenzioni. Una dopo l’altra, tutte figure illuminanti, che Pino Bertelli non identifica al
Vite fantastiche solo positivo (ci sono anche presenze considerate all’opposto), ma incasella con una onestà intellettuale della quale gli dobbiamo essere grati. Quindi, rispetto le (eventuali) pubblicazioni in FOTOgraphia, la cui messa in pagina risponde anche a canoni redazionali e confini conseguenti, la consecuzione tra il personaggio e la sua decodifica indirizza sia la lettura sia la collocazione nel tragitto complessivo. Nel dettaglio: ❯ Eve Arnold: Sulla fotografia al tempo della gioia; ❯ Lisetta Carmi: La luce e la grazia della fotografia autentica; ❯ Claude Cahun: Sulla grazia della fotografia lesbica; ❯ Margaret Bourke-White: Della bellezza aristocratica dello sguardo; ❯ Cindy Sherman: L’immagine allo specchio e il trionfo della merce; ❯ Ruth Orkin: La visione della realtà; ❯ Gerda Taro: Il pane, le rose e la fotografia nella rivoluzione di Spagna; ❯ Annemarie Schwarzenbach: Sul-
la fotografia sociale di una ribelle; ❯ Leni Riefenstahl: Dal trionfo della volontà all’apologia del corpo; ❯ Nancy “Nan” Goldin: La provocazione del corpo o l’elogio dell’imperfezione; ❯ Annie Leibovitz: Della fotografia fatalista; ❯ Paola Agosti: Sulla fotografia dell’indignazione; ❯ Dorothea Lange: Sulla fotografia del disinganno; ❯ Carla Cerati: Sulla fotografia del desiderio; ❯ Alexandra Boulat: Il coraggio della fotografia; ❯ Francesca Woodman: Sulla fotografia dell’esistenza; ❯ Marialba Russo: Sulla fotografia mediterranea; ❯ Gisèle Freund: Sulla fotografia delle passioni; ❯ Vivian Maier: Sulla fotografia della vita quotidiana; ❯ Tina Modotti: Della fotografia sovversiva / Dalla poetica della rivolta al-
l’etica dell’utopia; ❯ Diane Arbus: Della fotografia trasgressiva / Dall’estetica dei “Freaks” all’etica della ribellione; ❯ Liu Xia: Sulla fotografia dei diritti umani; ❯ Martine Franck: Sulla fotografia della tenerezza; ❯ Cristina García Rodero: Sulla magia della fotografia documentaria e della fotografia parassitaria; ❯ Mary Ellen Mark: Nostra signora delle periferie; ❯ Sally Mann: Sulla fotografia della rêverie o del Dionisiaco; ❯ Letizia Battaglia: Sulla fotografia della libertà. Non serve rilevarlo, forse, ma il casellario risponde a intenzioni dell’autore Pino Bertelli. Non ci sono altre chiavi interpretative della sequenza predisposta, né gerarchiche, né temporali, né geografiche, né stilistiche, né di scrittura (sua), ma... un sottile filo di consecuzione. Soltanto questo! ❖
Due dagherrotipi del francese Eugène Thibault (altrove, Thiébault; 1825-18XX?), che ha operato a Parigi nel Diciannovesimo secolo, conservati presso il Musée d’Orsay, di Parigi, possono essere conteggiati come i primi esempi di fotogiornalismo: quantomeno, in base alle nostre considerazioni odierne. Avant l’attaque (11,2x14,5cm) e Après l’attaque (14,5x12,2cm) rappresentano due istanti dei Moti Rivoluzionari che hanno incendiato la capitale francese nell’estate 1848; ovviamente, uno è conseguente all’altro. Il primo dagherrotipo, a sinistra, raffigura le barricate erette in rue Saint-Maur-Popincourt, il 25 giugno 1848, nelle ore che precedono l’attacco del generale Lamoricière. Il secondo, a destra, è stato realizzato nella stessa strada, al medesimo soggetto, il giorno dopo, ad attacco terminato.
È problematico commentare lo svolgimento della corrente edizione World Press Photo 2017, per fotografie del precedente 2016. Indipendentemente da altri loro valori di contenuto, e dall’impegno dei singoli fotogiornalisti, la scarsa qualità delle immagini premiate non può fermarsi a questa semplice osservazione. Più in profondità, e nello specifico, rappresenta il senso confuso dei nostri tempi, che sono sempre più tali... confusi. Certo, non soltanto in Fotografia, ma questo è il territorio che a noi interessa e per il quale e sul quale ragioniamo. La prendiamo lontana, ci giriamo attorno, ma alla fine arriviamo al sodo
EPOCA IN CUI... O World Press Photo of the Year 2017 e Primo premio Spot News Stories: Burhan Ozbilici (Turchia), The Associated Press; Omicidio in Turchia. Il 19 dicembre 2016, Mevlüt Mert Altintaş, ventidue anni, poliziotto fuori servizio, ha assassinato Andrey Karlov, ambasciatore russo in Turchia, a una mostra fotografica. Prima di essere ucciso dai vigilantes della sicurezza, ha ferito altre tre persone.
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di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
gni anno ad Amsterdam, nell’ambito del prestigioso World Press Photo, si ripete la cerimonia di premiazione dei fotogiornalisti in giro per il pianeta che, anche a rischio della propria vita e oberati da sacrifici di sopravvivenza economica, grazie alle proprie abilità giornalistiche e “artistiche”, mettono “su pellicola” (più probabilmente, “su file”) gli accadimenti più rilevanti che, nel corso dell’anno, hanno coinvolto l’Umanità, a vario titolo. Per il fotogiornalismo, è un momento rilevante, forse fondamentale. Ma non soltanto per lo specifico fotogiornalistico, microcosmo inserito nel macrocosmo complessivo: infatti, si rivede la Storia scritta con la Fotografia. E le maiuscole sono d’obbligo.
Ogni volta, la cerimonia si replica con i medesimi canoni. Cambiano solo i fatti coinvolti, le immagini premiate, gli autori celebrati. Ciononostante, e con indipendenza di pensiero, a noi -ogni volta- vengono in mente riflessioni diverse. Questa volta, ci siamo domandati: quando è stata realizzata la prima fotografia utilizzata per fini giornalistici? Con quale attrezzatura? Ci sono due dagherrotipi di un fotografo francese, Eugène Thibault (altrove, Thiébault; 1825-18XX?), che ha operato a Parigi nel Diciannovesimo secolo, che sono conservati presso il Musée d’Orsay, nella stessa Parigi: Avant l’attaque (11,2x14,5cm) e Après l’attaque (14,5x12,2cm). Rappresentano due istanti dei Moti Rivoluzionari che hanno incendiato la capitale francese nell’estate 1848, uno conseguente all’altro, come specificano le indicazioni esplicite di Avant e
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Primo premio Contemporary Issues Singles: Jonathan Bachman (Usa), Thomson Reuters; Autodenuncia a Baton Rouge. Il 9 luglio 2016, la ventottenne Ieshia Evans offre i polsi per essere arrestata a poliziotti in tenuta antisommossa, durante una manifestazione di protesta davanti alla sede del Dipartimento di polizia di Baton Rouge, in Louisiana (Usa). La protesta riguardava l’uccisione di Alton Sterling, un afroamericano di trentasette anni abbattuto con diversi colpi di pistola sparati da due poliziotti che lo immobilizzavano a terra. La scena è stata ripresa da moltissimi smartphone del pubblico presente.
Après, ovvero Prima e Dopo l’attacco [a pagina 20]. Il primo dagherrotipo raffigura le barricate erette in rue Saint-Maur-Popincourt, il 25 giugno 1848, nelle ore che precedono l’attacco del generale Lamoricière. Il secondo è stato realizzato nella stessa strada, al medesimo soggetto, il giorno dopo, ventisei giugno, ad attacco terminato. L’Illustration (settimanale francese nato nel 1843, che ha chiuso le pubblicazioni cento anni dopo, nel 1944) ha impaginato entrambi i dagherrotipi, nella prima settimana di luglio. Osservazioni a margine. Uno: mica le fotografie stavano su pellicola ed erano riproducibili all’infinito. Il dagherrotipo è un esemplare unico. Per pubblicarlo, l’editore ha dovuto ricavarne una xilografia in legno, tecPrimo premio Long-Term Projects: Valery Melnikov (Russia), Rossiya Segodnya; I giorni neri dell’Ucraina. A partire dall’aprile 2014, nella regione di Donbass, i civili sono diventati vittime del conflitto tra repubbliche auto-proclamate -come la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk- e il governo centrale ucraino. Hanno sperimentato le cose più terribili: la morte dei loro amici e parenti, case distrutte, vite rovinate di migliaia di persone. Due civili in fuga da una casa incendiata, andata distrutta durante un attacco aereo nel villaggio di Luhanskaya.
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nica rivoluzionaria per l’editoria dell’epoca (attenzione: la riproduzione tipo/litografica della fotografia inizia decenni dopo, diciamo negli anni Venti del Novecento). Due: pubblicare immagini realizzate dalla luce e non dalla mano di un pittore o un disegnatore, accompagnate dall’avvertimento «planche daguerréotypée», oppure «planche daguerréotype», rappresenta forse la nascita di un convincimento che attribuisce alla fotografia il valore di verità oggettiva (entro limiti che noi ben conosciamo). Tre: ma come e con quali strumenti è stato realizzato il reportage in rue Saint-MaurPopincourt? Rispetto a nove anni prima, alla nascita ufficiale del 1839, nel 1848, la tecnologia aveva già fatto passi da gigante. Dai dieci minuti, necessari a
Louis Jacques Mandé Daguerre per realizzare -nel 1838- la prima fotografia comprendente una persona umana ferma (nota come Boulevard du Temple, Paris: sul cui dietro-le-quinte non ci soffermiamo; quantomeno, non qui, non ora), si era passati a dieci-sessanta secondi del 1842. Ciò grazie sia all’invenzione, da parte di Joseph Petzval (1807-1891), di un obiettivo molto luminoso (apertura relativa f/3,6, invece dell’f/16 dei disegni ottici precedenti, con commercializzazione industriale Voigtländer), sia per l’aumentata sensibilità della lastra dagherrotipica mediante l’utilizzo di vapori di bromo (John Frederick Goddard; 1795-1866) e cloro (Antoine François Jean Claudet; 1797-1867). Naturalmente, gli apparati fotografici non erano quel In forma di illustrazione realistica pre-fotografica, richiamiamo due dipinti come esempio di iconografia attraverso la quale veniva veicolata l’informazione visiva prima dell’avvento della fotografia. L’acquatinta di sinistra, colorata a mano, di Jean Pierre Marie Jazet (1788-1871), si intitola Combat dans la rue Saint-Antoine, 28 Juillet 1830, ed è conservata presso il Musée Carnavalet, di Parigi. Si riferisce a una rivolta scoppiata nel luglio del 1830, quando il popolo si sollevò contro una decisione di re Carlo X, che, con alcune ordinanze di stampo reazionario, ristabiliva la censura per la stampa e alzava i limiti di reddito per il diritto di voto. L’opera mostra l’efficacia delle barricate utilizzate dal popolo e pone una enfasi notevole
che si dice facilmente trasportabili. Praticamente, c’era un modello unico, quello originario di Daguerre, prodotto da François Simon Alphonse Giroux, più copie derivate (tra le quali, è celebre quella dei Susse Frères, un cui ritrovamento recente è stato aggiudicato per 588.613,00 euro a un’asta della viennese WestLicht Photographica Auction [FOTOgraphia, giugno 2007]). Era di legno, ed ecco le sue dimensioni: lungo 26,7cm chiuso e 50,8cm al massimo allungamento; altezza 31,1cm e larghezza 36,8cm; per lastre 16,4x21,6cm. Non sappiamo se Eugène Thibault (o Thiébault) usò una camera esattamente come questa e un obiettivo come quello di Daguerre, di 406mm di lunghezza focale e 83mm di diametro, con diaframma fisso di sull’uso di oggetti casalinghi lanciati dalle finestre come arma contro i soldati. È evidente che la situazione rappresentata avrebbe difficilmente potuto essere catturata in una fotografia delle origini della propria Storia (date a parte). La barricade, a destra, è un acquerello di Ernest Meissonier (1815-1891), conservato al Musée d’Orsay, ancora a Parigi. Con la fantasia del pittore, illustra i morti rimasti sulle barricate parigine di rue Saint-Maur-Popincourt, il 26 giugno 1848, il giorno dopo l’attacco del generale Lamoricière (e rimandiamo al dagherrotipo / ai dagherrotipi di Eugène Thibault, o Thiébault, pubblicato / pubblicati a pagina 20). Anche in questo caso, l’informazione è affidata alla creatività del pittore.
Secondo premio People Stories: Antonio Gibotta (Italia), Agenzia Controluce; Gli Infarinati. Ogni anno, da due secoli, il ventotto dicembre, la città spagnola di Ibi, nella provincia di Alicante, coinvolge i propri abitanti in un curioso festival che va sotto il nome di Guerra degli Infarinati. I cittadini sono divisi in due gruppi: il gruppo Enfarinat (gli Infarinati) simula un colpo di stato, mentre un secondo gruppo tenta di soffocare la ribellione. Le squadre si affrontano con farina, acqua, uova e fumogeni colorati. Questo festival è nato per commemorare il massacro biblico degli innocenti, attribuito a re Erode e collegato alla nascita di Cristo. L’autore, Antonio Gibotta, ventinove anni, si avvicina alla fotografia seguendo le orme del padre Ciro, noto professionista. Al centro dei suoi interessi, ci sono l’Uomo e l’attualità delle tematiche sociali (http://ag.antoniogibotta.com/). Tra i suoi lavori, segnaliamo la monografia Il viaggio della speranza (2015), che racconta di un viaggio della fede da Napoli al Santuario di Lourdes: http://it.blurb.com/b/5980845 -viaggio-della-speranza.
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Primo premio Daily Life Stories: Tomas Munita (Cile), per The New York Times; Cuba: alla vigilia del cambiamento. Dopo la morte di Fidel Castro, il 25 novembre 2016, si è aperta una nuova stagione per Cuba. In attesa dell’imprevedibile nuovo, ancora poche sono le cose cambiate sull’isola. Una situazione tradizionale e comune: un barbiere di strada, nella parte vecchia di L’Avana.
Primo premio Daily Life Singles: Paula Bronstein (Usa), per Time LightBox / Pulitzer Center for Crisis Reporting; Le vittime silenziose di una guerra dimenticata. A seguito dell’invasione sovietica (poi, russa), dal 1979, l’Afganistan è una terra martoriata. Da allora, la guerra dei mujahidin contro gli aggressori, l’avvento dei Talebani e l’intervento americano dopo l’Undici settembre hanno rappresentato un continuo stato di grandissimo pericolo per la popolazione. Najiba sorregge il nipote Shabir, di due anni, ricoverato in un ospedale di Kabul, perché rimasto ferito in un attentato, il 29 marzo 2016.
Primo premio Contemporary Issues Stories: Amber Bracken (Canada); Standing Rock. Per quasi dieci mesi, i membri della tribù Sioux di Standing Rock sono rimasti accampati per impedire che l’oleodotto della Dakota Access Pipeline attraversasse il loro territorio. L’oleodotto minaccia di inquinare le loro riserve idriche. Dopo essere intervenuta, la polizia è stata accusata di aver agito in modo brutale, commettendo anche violenze gratuite contro i manifestanti. (pagina accanto) Arrivano i rifornimenti di legna, per scaldarsi contro il freddo delle notti di presidio.
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23,8mm, per un’apertura di lavoro all’equivalente di f/17. O se usò l’obiettivo di Petzval [FOTOgraphia, dicembre 2014], più luminoso. Il peso della sua camera, completa di lastre e chimici per lo sviluppo, era comunque di circa cinquanta chilogrammi, e costava quattrocento franchi (traducibili in mille euro attuali... forse). Questi strumenti costituivano l’archè, il principio di tutto. Niente poteva lasciar prevedere come la ripresa fotografica sarebbe giunta ai nostri giorni. C’è un solo elemento in comune tra la nostra fotografia e quella di un secolo e mezzo fa: la luce del Sole che, da sola, continua a scrivere l’immagine.
COMUNQUE, CIFRE DEL WPP 2017 L’edizione 2017 del prestigioso e autorevole World Press Photo, per fotografie scattate nel corso del precedente 2016, ha visto la partecipazione di cinquemilatrentaquattro fotogiornalisti provenienti da centoventicinque paesi, che hanno inviato ottantamila quattrocentootto immagini (in ordine, 5034 fotogiornalisti, 125 paesi, 80.408 immagini). I premi sono stati distribuiti su otto categorie: Contemporary Issues, Daily Life, General News, Long-Term Projects, Nature, People, Sports e Spot News. Come tradizione, ciascuna categoria, esclusa la Long-Term Projects, di recente inserimento, è stata, a propria volta, scomposta in due sottocategorie, Singles e Stories, cioè scatto singolo e reportage di quattro-sei fotografie. Poi, naturalmente, c’è il premio più prestigioso: World Press Photo of the Year 2017. La giuria ha premiato quarantacinque fotogiornalisti, di venticinque paesi: Australia, Brasile, Canada, Cile, Filippine, Finlandia, Francia, Germania, India, Inghilterra, Iran, Italia, Nuova Zelanda, Pakistan, Repubblica Ceca, Repubblica Popolare Cinese (Cina), Romania, Russia, Siria, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica, Svezia, Turchia e Ungheria. Gli italiani premiati sono stati quattro: Giovanni Capriotti, Primo premio Sports Stories; Francesco Comello, Terzo premio Daily Life Stories; Antonio Gibotta, Secondo premio People Stories; e
Alessio Romenzi, Terzo premio General News Stories. Chi è interessato a vedere i lavori di tutti i selezionati: www.worldpressphoto.org/collection/photo/2017. Le fotografie premiate sono riunite in una mostra itinerante, che girerà il mondo e verrà presentata in tre località italiane. Dal ventinove aprile al ventotto maggio, allo Spazio Murat, di Bari, in piazza del Ferrarese 1 (www.worldpressphotobari.it); dal sei maggio al quattro giugno, alla Galleria Carla Sozzani, di Milano, in corso Como 10 (www.galleriacarlasozzani.org); dal diciotto novembre all’otto dicembre, al Palazzo Ducale, di Lucca, in piazza Napoleone (www.photoluxfestival.it). Va ricordato che, oltre al concorso riservato alle fotografie, l’organizzazione del World Press istituisce, da diversi anni, The World Press Photo Digital Storytelling Contest (nato come Multimedia Contest ), riservato a chi produce storie destinate a Internet, utilizzando tecnologie digitali. Ecco i numeri di questo concorso: duecentottantadue produzioni presentate, centotrentacinque delle quali nella categoria Short Form, cinquantaquattro in quella Long Form, sessantadue nella Immersive Storytelling e trentuno nella Innovative Storytelling. In questo concorso non viene
Terzo premio Daily Life Stories: Francesco Comello (Italia); L’Isola della Salvezza. Dal 1990, nei pressi di Mosca, esiste un centro per il recupero dei ragazzi di strada. Fondato da un prete ortodosso, il centro accoglie oggi circa trecento giovani. Maria e Alexandra in un momento di pausa dalle lezioni, che coincide con la raccolta delle patate, alla quale tutti i ragazzi devono partecipare. Francesco Comello è un fotogiornalista italiano, nato a Udine, quarantaquattro anni fa (www.facebook.com/ francesco.comello). Predilige il bianconero. Commentando questo progetto, ha approfondito: «Con il tempo, è diventata una comunità che ospita soprattutto ragazzi disadattati o con problemi familiari. Niente Tv, Internet, cellulari e niente denaro, considerati mali della società. Si zappa la terra, si studia, si balla. Si forgia l’anima e si allena il corpo». Ha trascorso quattro mesi in questa comunità, suddivisi in più viaggi, tra il 2015 e il 2016: «Ho vissuto come loro. Avevo il mio compito giornaliero, e ho persino fatto il bagno nell’acqua ghiacciata, il giorno dell’Epifania. Solo così sono potuto entrare in sintonia con il luogo e la sua gente, fino a diventare invisibile. La fotografia mi porta a vivere in prima persona le storie che racconto. Per me sono importanti i tempi lunghi, la riflessione, la meditazione».
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TRA WORLD PRESS PHOTO E GIORNALISMO QUOTIDIANO
Diciamola così: i photo editor italiani non scelgono come la giuria del World Press Photo. Proponiamo la prima pagina di nove quotidiani italiani del 20 dicembre 2016, in ognuna delle quali è presente la fotografia dell’uccisione dell’ambasciatore russo Andrej Karlov. Il fatto è avvenuto ad Ankara, in Turchia, durante l’inaugurazione della mostra fotografica Da Kaliningrad alla Kamchatka, attraverso gli occhi dei turisti. L’omicida è il ventiduenne Mevlüt Mert Altintaş, poliziotto fuori servizio, che spara al grido di «Non si dimentichi Aleppo, non si dimentichi la Siria». Solo Il Messaggero, Il Secolo XIX e Il Sole 24 ore hanno fatto la stessa scelta della giuria del World Press Photo. Il Fatto Quotidiano ha messo il cadavere in primo piano, mentre La Stampa e l’Unità hanno optato per una inquadratura nella quale il cadavere
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è seminascosto dal leggio dell’oratore. Infine, la Repubblica, il Corriere della Sera e il Giornale, hanno proposto altre versioni. Va osservato che tutti i quotidiani avrebbero sicuramente pubblicato con maggiore enfasi la fotografia di questa uccisione se, contemporaneamente, non si fosse verificato un altro accadimento terroristico da prima pagina, quello di Berlino, in Germania, dove e quando un Tir si è lanciato su un mercatino di Natale, uccidendo nove persone, tra le quali una ragazza italiana. Post Scriptum: solo il Corriere della Sera ha riportato il credito corretto “AP / Bhuran”. La Repubblica e il Fatto Quotidiano creditano soltanto l’agenzia, rispettivamente AFP (Agence France Presse) e LaPresse. Il Giornale, Il Messaggero, Il Secolo XIX, Il Sole 24 ore, La Stampa e l’Unità non hanno creditato nessuno.
Terzo premio General News Stories: Alessio Romenzi (Italia); Non si fanno prigionieri. Sirte, in Libia, con Raqqa in Siria e Mosul in Iraq, è una delle tre capitali autoproclamate del cosiddetto stato islamico. Sirte è stata la prima a cadere, grazie a un’offensiva lanciata dal governo libico, nel maggio 2016. Ci sono voluti sette mesi di combattimenti, cinquecento attacchi aerei americani, settecento soldati libici morti e più di tremila feriti per liberare la città. Un miliziano dell’Isis viene trascinato violentemente da soldati del governo di Tripoli, che urlano e minacciano di linciarlo. Più tardi, il miliziano è stato trovato morto, crivellato di colpi. È il 5 dicembre 2016.
premiato un singolo autore, ma il team che ha realizzato l’opera. Non riportiamo notizie a proposito, e rimandiamo gli interessati alla galleria con i vincitori: www.worldpressphoto.org/collection/mm/2017.
GIÀ... DAL WPP 2017 Numeri, numeri, numeri. Cifre, cifre, cifre. Oggi si analizza tutto attraverso i numeri, le cifre. Si compilano statistiche, si cerca di capire la realtà attraverso una sintesi algebrica. Dunque, completiamo queste note dedicate ai numeri del World Press Photo 2017, richiamandone altri, enormi, che non sono consolanti. La fotografia è diventata un fenomeno di massa, diremmo un fenomeno banale. Ispirandoci a un articolo a firma Rose Eveleth, pubblicato il 2 novembre 2015 sul prestigioso mensile statunitense The Atlantic, cominciamo dal porci una domanda: in quante fotografie finiamo dentro anche noi? «Sullo sfondo, sotto la Tour Eiffel, a Parigi, al tavolo di una festa di compleanno o mentre passiamo in bicicletta per piazza Duomo, a Milano? In cento? In mille? Cinquemila? Diecimila? O più, ancora? Potrebbe sembrare un quesito sciocco. Ma non siamo lontani da un futuro nel quale qualcuno (un cattivo?), utilizzando la tecnologia di riconoscimento facciale, potrebbe taggarci in tutte quelle immagini e scoprire chissà che...». È ancora possibile farsi i fatti propri? Non apparire? Non entrare in nessuna cronaca? Tutti sappiamo che, con l’evoluzione della tecnologia, è aumentata in misura astronomica -non soltanto esponenziale- la quantità di fotografie scattate. Secondo le stime di Photoworld.com, gli utenti di Snapchat condividono mediamente ottomilasettecentonovantasei scatti ogni secondo (8796 al secondo!). Nel 2012, in un documento depositato alla Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza sulla Borsa, Facebook ha scritto che «Nel periodo ottobre-dicembre 2011, in media, sono state caricate nel suo sito più di duecentocinquanta milioni di
fotografie al giorno». Nel 2013, secondo Internet.org, gli utenti di Facebook hanno caricato una media di trecentocinquanta milioni di immagini al giorno, il quaranta percento in più di due anni prima. A queste cifre vanno aggiunti gli scatti di Weibo, What’sApp, Tumblr, Twitter, Flickr e Instagram. Secondo il Mary Meeker’s Annual Internet Trends Report, nel 2014, ogni giorno sono state caricate su vari siti Internet un miliardo e ottocento milioni di immagini. Cioè seicentocinquantasette miliardi di fotografie nell’anno. Considerando che ogni fotografia caricata è stata scattata da qualcuno, in un conto approssimativo, ogni due minuti si caricano più fotografie di quelle scattate in tutto il Diciannovesimo secolo. O, valutando le cifre in un’altra maniera, il diciannove percento di tutte le fotografie mai scattate risalgono agli ultimi dodici mesi. O, osservando sotto un terzo punto di vista: nel tempo in cui Daguerre scattava la fotografia di Boulevard du Temple (accreditata da una posa di dieci minuti di esposizione), oggi vengono caricate sui social dodici milioni e mezzo di immagini. Se questi dati sono veri, come pare siano, ci sembra che si stia venendo a creare un mostro di dimensioni tendenti all’infinito, composto di fotografie e video, una specie di Babau dai mille occhi e dalle capacità di memorizzare tutto il quotidiano della vita dell’Uomo di oggi: selfie di amici, fotografie di piatti al ristorante, giochi di bimbi, sorrisi di nipoti, viaggi, incontri, nudi di fidanzate usati per ricatti, nudi per amarsi, compiti in classe da passare via What’sApp, atti terroristici dei quali si è stati testimoni, incidenti stradali e rapine a cui eravamo presenti, una miriade di istanti che siano degni, oppure no, di entrare nei libri di Storia. Questo Babau non può non avere un impatto anche su chi segue e premia coloro che trasformano i fatti in informazione visiva. Ipotizziamo che il grandissimo, quasi incommensurabile, numero di fotografie scattate e postate in Rete, in generale di qualità visiva molto bassa,
Alessio Romenzi è un fotografo italiano, attualmente basato in Libano (www.alessioromenzi. photoshelter.com). Ha coperto estesamente la Primavera Araba, ed è stato uno dei primi fotogiornalisti a infilarsi in Siria e a rimanerci clandestinamente quando Bashar al-Assad ha vietato l’ingresso agli operatori della stampa. Le sue fotografie appaiono su Time Magazine, Newsweek, New York Times, Los Angeles Times, Washington Post, Le Monde, Paris Match, la Repubblica, Corriere della Sera, il Fatto Quotidiano, Internazionale, l’Espresso, Der Spiegel, The Guardian... e altre testate internazionali. Lavora anche con organizzazioni umanitarie, tra le quali Amnesty International, Medici Senza Frontiere, Unicef, Croce Rossa Internazionale, Save the Children, Terres des Hommes, War Child International.
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(pagina accanto) Primo premio Spot News Singles: Jamal Taraqai (Pakistan), European Pressphoto Agency; Attentato in Pakistan. Alcuni avvocati aiutano i feriti dopo l’esplosione di una bomba a Quetta (Pakistan), l’8 agosto 2016, davanti a un ospedale dove si commemorava l’avvocato Bilal Anwar Kasi, assassinato poche ore prima.
possa avere (?!), avrà sicuramente (?!), una ricaduta sul gusto del pubblico; e, quindi, in cascata, sul gusto delle giurie e sulle qualità della produzione visiva degli autori. Non so se la nostra congettura si verificherà, oppure no. La domanda conseguente è scontata: che fare? Ovviamente non lo sappiamo. Intanto, vigilare e sentirsi sempre coinvolti in questa trasformazione, degenerazione, metastasi, opportunità. Senza il timore di Citarsi addosso (titolo di un articolo pubblicato sullo scorso numero di febbraio di FOTOgraphia), crediamo che l’unica soluzione sia quella di continuare a parlare, sulle pagine della nostra rivista, di Fotografia e di fotografia,
con un occhio ai giovani: ai quali chiedere aiuto, ai quali offrire il nostro contributo di adulti consapevoli.
DA CUI... WPP 2017 Alla resa dei conti, tutto questo girare attorno l’argomento canonico rivela un certo nostro pudore odierno. Infatti, magari a partire dalla World Press Photo of the Year 2017, in fotocronaca effimera, la qualità delle fotografie premiate in questa edizione dell’autorevole riconoscimento al fotogiornalismo planetario risulta oltremodo scarsa e limitata. Quantomeno, non è sufficiente, né adeguata, a raccontare un anno di intensa vita del nostro
SIA ORA LODE AL FOTOGIORNALISTA IGNOTO
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«The very contemplation of things as they are, without superstition or imposture, error or confusion, is in itself more worthy than all the fruit of inventions» (La semplice contemplazione delle cose così come sono, senza superstizioni o inganni, errori o confusioni, vale di più di tutti i frutti dell’invenzione): sir Francis Bacon (1561-1626), Novum Organum, CXXIX, 1620. Questo aforisma è conosciuto in decine di versioni, che differiscono l’una dall’altra di un epsilon, da quella appesa sulla porta della camera oscura di Dorothea Lange a quella scelta come epigrafe di Things as They Are - Photojournalism in Context Since 1955, splendido volume realizzato in occasione del cinquantesimo anniversario del World Press Photo [FOTOgraphia, aprile 2006]. L’aforisma esprime sinteticamente qual è l’idea di fotogiornalismo promossa e celebrata dall’organizzazione olandese. Per questo, non abbiamo mai smesso di chiederci perché, nella precedente edizione 2016 del contest, quella dell’anno scorso, per fotografie e fatti riguardanti il 2015, non è stata premiata,
celebrata, o -comunque- segnalata, una delle fotografie che più hanno sconvolto il mondo, un’icona della disumanità dell’umanità, un’icona che non entrerà mai in nessun libro di Storia della Fotografia, proprio perché non c’è un WPP che le abbia attribuito la qualità di immagine fotogiornalistica. Dunque, sembra che al World Press vengano premiate e celebrate solo quelle azioni di contemplazione soltanto se a contemplare c’è un professionista della contemplazione, cioè un fotogiornalista. Se, invece, l’immagine è stata realizzata da un contemplatore ignoto, un citizen journalist, allora nessun premio, nessuna segnalazione. Eppure, noi crediamo che le immagini che assurgono all’importanza di icona dovrebbero trovare un qualche spazio nella galleria del World Press Photo. A conseguenza di ciò, formuliamo questo suggerimento: vengano segnalati e premiati anche i fotogiornalisti ignoti, se l’immagine è un’icona, se il fatto rappresentato ha una rilevanza storica, se è un simbolo degno di ricordarci cosa siamo, cosa combiniamo e dove andiamo.
2 settembre 2015. Aylan Kurdi è il bimbo siriano di tre anni il cui corpo senza vita è stato fotografato a Ali Hoca Point Beach (Bodrum, Turchia). Nella traversata che avrebbe dovuto portarli in salvo sull’isola di Kos (Grecia),
sono morti anche il fratellino Galip (cinque anni) e la madre Rehan. Gli unici sopravvissuti di questa famiglia fuggita da Kobane sono il padre, Abdullah, originario di Damasco, e la zia.
Primo premio People Singles: Magnus Wennman (Svezia), Aftonbladet; Quello che rimane dopo l’Isis. La piccola Maha, cinque anni, e la sua famiglia sono fuggiti da Hawija, villaggio appena fuori Mosul, Iraq. Paura dell’Isis e mancanza di cibo li hanno costretti alla fuga. Mentre la madre le accarezzava i capelli, la piccola Maha, che qui riposa su un materasso sporco nel centro profughi sovraffollato di Debaga, ha detto al fotografo «Non sogno più e non ho più paura di nulla». Nell’ottobre 2016, le truppe curde e irachene hanno lanciato un’offensiva per la liberazione di Mosul. Ma il compito si sta rivelando molto più difficile di quanto era stato previsto.
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Primo premio Nature Singles: Francis Pérez (Spagna); Una tartaruga Caretta caretta intrappolata in una rete da pesca. 8 giugno 2016: impigliata in una rete da pesca, una tartaruga Caretta caretta nuota al largo della costa di Tenerife, Isole Canarie (Spagna). Le tartarughe di mare sono considerate una specie a rischio dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn). Le reti da pesca sono le maggiori responsabili di molte delle morti di questi rettili.
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pianeta. Con la memoria, quella che appartiene al nostro svolgimento quotidiano di un impegno costante in fotografia, torniamo a edizioni precedenti, dove e quando incontriamo uno specchio fedele della Vita. Probabilmente, ciò che è stato premiato è il meglio tra quanto tanto analizzato, tra quanto tanto mandato in esame. Oppure, e ci pare teoria più probabile, la quantità di elaborati sta clamorosamente inquinando e deviando e sottraendo e mortificando la capacità di giudizio. In una metafora, che qui calza a pennello, viene in mente il paradosso del Falco pellegrino, rapace che rimane a digiuno quando le prede sono troppe, e lui non riesce a concentrarsi, in picchiata, su alcuna vittima plausibile e predestinata. Se le prede sono in quantità ristretta, può indirizzarsi senza distrazioni e completare il ciclo vitale della propria esistenza, in una catena alimentare che lo vede dominatore. Quindi, ipotizziamo che la quantità sia a scapito di qualsivoglia qualità, quantomeno di giudizio (ma non soltanto questo, per quanto questo sia ciò che qui e ora ci interessa). Le cifre del World Press Photo, esordite nella misura delle centinaia, sono oggi impressionanti. Ripetiamole: alla corrente edizione 2017, per fotografie del 2016, hanno partecipato cinquemilatrentaquattro fotogiornalisti (5034), provenienti da cen-
toventicinque paesi, con un totale di ottantamila quattrocentootto immagini (80.408). Distribuiti su otto categorie, sette delle quali in cadenza Singles e Stories, i premi sono quarantacinque (Primo, Secondo e Terzo premio per ogni identificazione), più la World Press Photo of the Year 2017, che porta il tutto a quarantasei segnalazioni, da individuare tra cinquemilatrentaquattro fotogiornalisti: siamo a livello dei concorsi pubblici italiani, per assunzioni in ruoli impiegatizi dello Stato. Ma questa non è materia in discussione, non è vicenda negoziabile: il tempo, come tanto altro della Vita, va avanti, con o senza di noi. E i nostri tempi fotografici sono presto individuati: con andamento opposto all’aridità di pubblicazioni su periodici illustrati, il fotogiornalismo continua a produrre sempre più servizi, sempre più immagini. Analogo discorso, ma altro discorso, già riportato, per la registrazione fotografica quotidiana in tempo di social network. Da cui e per cui, rinnoviamo la nostra speranza per giurie future capaci di districarsi nel quotidiano, almeno tanto quanto vantano prerogative specifiche fotografiche. Ancora, invitiamo a una riflessione a monte, che prenda in esame quegli aspetti trasformati che stanno minando il senso e valore del fotogiornalismo. Attendiamo un cambio di passo complessivo. ❖
Russel Lee: Predicatori evangelisti itineranti, tra Lafayette e Scott, in Louisiana; ottobre 1938.
Dorothea Lange: Migrant Mother, sulla US Highway 101, vicino a Watsonville; marzo 1936.
di Maurizio Rebuzzini
P
rima di tutto, prima di quanto qui dovuto (e voluto), si impone una precisazione, è obbligatorio un chiarimento sovrastante. Ovviamente, non ignoriamo, e neppure sottovalutiamo, il senso politico della Fotografia, al pari del senso altrettanto politico di ogni manifestazione pubblica della Vita. Dunque, siamo perfettamente consapevoli di come e quanto, nel proprio influenzare la stessa Vita, la Fotografia possa essere, e sia stata, e sia ancora (per quanto, ormai, in perforazione sempre più lieve, soppiantata da tanto altro, nel continuo evolversi della Società dello spet-
Fondamentalmente referente all’esperienza della Farm Security Administration, della presidenza di Franklin Delano Roosevelt, la coinvolgente monografia New Deal Photography. USA 1935-1943, pubblicata da Taschen Verlag, segnala un proprio merito e valore assoluto e irrinunciabile: quello di anteporre la Fotografia a ogni altro equilibrio di maniera, in modo da offrire un panorama unico e assoluto e avvincente
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tacolo) efficiente mezzo di propaganda, proselitismo e apostolato di e per idee e opinioni. Però, nonostante questo, e dal punto di vista privilegiato, oltre che mirato, fino ad essere viziato, dal quale osserviamo, siamo altrettanto convinti di una buona fede originaria, magari propria soltanto dei fotografi-autori, che stabilisce anche i termini di affermazione e influenza di qualcosa che sta oltre, che vola più alto, che alimenta le singole Esistenze. Per cui, consideriamo ogni percorso fotografico individuale anche per quanto può e riesce a dare a quel complesso collettivo e globale di nozioni, al quale ciascuno di noi può attingere, in un viaggio di continua an(continua a pagina 38)
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA
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(doppia pagina precedente) Carl Mydans: Parata alla fiera; Albany, Vermount, settembre 1936.
(doppia pagina 34-35) Marion Post Wolcott: Lavoratori migranti davanti a un bar juke joint; Belle Glade, Florida, febbraio 1940.
(continua da pagina 32) data-e-ritorno. Del resto, viviamo e pensiamo per quanto le esperienze nostre si integrano a quelle altrui, per quanto le esperienze altrui arricchiscono le nostre. Detta meglio, forse: qualsiasi cosa possa significare l’arte, la sua fonte è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’Esistenza. Così facendo, alimenta anche la nostra immaginazione e i sogni di tutti noi. Tutto questo è dovuto per motivare, non certo giustificare (altra vicenda), il nostro commosso allineamento con la stagione fotografica della Farm Security Administration statunitense, degli anni Trenta del Novecento, a prescindere da altre intenzioni sovrastanti e dal suo inserimento in una scala alimentare che spesso (sempre?) antepone interessi politici momentanei.
AMERICA AMERICA
Come accennato lo scorso febbraio, nell’Editoriale di riflessione sulla Storia, con il patrocinio del Consolato Generale degli Stati Uniti, a dicembre, la Galleria ExpoWall, di Milano, ha allestito una mostra fotografica dall’archivio digitale della New York Public Library. Questa selezione America America, che ha tratti clamorosamente coincidenti con l’edizione libraria New Deal Photography. USA 1935-1943, qui e oggi presentata e commentata, è stata realizzata a partire da immagini degli anni Trenta americani rilasciate in dominio pubblico; all’interno di un corpus di duecentomila fotografie, tante sono quelle provenienti dal capitolato della Farm Security Administration. Il progetto della New York Public Library è un vero e proprio inno alla libertà, alla trasparenza, alla cultura dell’immagine, e alla storia degli Stati Uniti d’America. In allineamento, ExpoWall ha scaricato alcune di queste fotografie, trentuno in totale; dopo una lunga selezione durata tre mesi, le ha ristampate su carta fine-art,
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Avviata e condotta sotto l’illuminata amministrazione del presidente Franklin Delano Roosevelt, per quanto qui e ora intendiamo sottolineare, la Farm Security Administration (FSA) -fondata nel 1935, in piena Depressione economica, al fine di affrontare la povertà rurale del paese- diede voce a una qualità e quantità di fotografi umanisti del tempo che hanno migliorato la percezione del mondo. Non solo fece scoprire l’America agli americani, come pure ha fatto, ma ha esteso in avanti nel tempo la propria ascendenza visiva, che è approdata fino a noi, sia osservatori generici, sia addetti alla materia (con relative influenze su generazioni consecutive di autori). E altro non ripetiamo su questa vicenda, tenendo conto di quanto tanto è a disposizione di ciascuno, sia in retrospettive biblio-
a opera di Mario Govino, e proposte in vendita a un prezzo che copre semplicemente le spese di produzione: copie 20x25cm, 15,00 euro (Galleria ExpoWall, via Curtatone 4, 20122 Milano; 02-87287961; www.expowallgallery.com, info@expowallgallery.com). Così agendo, ExpoWall ha altresì attribuito al proprio progetto un ulteriore valore simbolico: sollecitazione verso la fotografia e la memoria, con la possibilità di iniziare una propria collezione fotografica, con una spesa minima, che sfata il mito dell’inaccessibilità dell’arte. Nello specifico, le valutazioni di ExpoWall, effettuate da Pamela Campaner, Alberto Meomartini e Christiane Bürklein, consentono di ammirare e collezionare opere di fotografi di spessore nella storia fotografica degli Stati Uniti (e mondiale). Roadside Sandwich Shop, di Walker Evans, del 1936, è una delle trentuno stampe fine-art 20x25cm proposte da ExpoWall nel progetto America America, a un prezzo di vendita/acquisto straordinariamente contenuto: quindici euro!
grafiche, sia in facili e immediate ricerche in Rete. Invece, richiamiamo ed evochiamo quel tempo e quel clima alla luce di una avvincente monografia pubblicata dall’attento Taschen Verlag, di Colonia: New Deal Photography. USA 1935-1943, a cura di Peter Walther; in edizione multilingue italiano, spagnolo, portoghese; 608 pagine 14x19,5cm, cartonato; 14,99 euro (collana Bibliotheca Universalis, compagnia culturale in forma compatta che celebra l’universo composito proponendosi a un prezzo di vendita/acquisto più che comodo!). Indipendentemente da altre rievocazioni a tema -e tante ce ne sono-, questa segnala subito un proprio merito e valore assoluto e irrinunciabile: quello di anteporre la Fotografia a ogni altro equilibrio di maniera, in
modo da offrire un panorama unico e assoluto e avvincente. Nel farlo, e quasi senza richiami altisonanti (da Società dello spettacolo, da e con Guy Debord e Pino Bertelli), come specificato anche nel proprio titolo, questa intensa monografia registra la piena portata del programma del dipartimento fotografico della Farm Security Administration nel lungo periodo che dal 1935, di origine, si estende fino al 1943. Soprattutto, è reso onore al vigore e impegno dei fotografi coinvolti, ognuno identificato da proprie cifre stilistiche finalizzate alla commossa e concreta documentazione dei soggetti affrontati. Nella successione delle pagine di New Deal Photography. USA 1935-1943, le fotografie sono organizzate e accolte in quattro sezioni regionali portanti. Quindi, ognuna comunica per se stessa, per fornire
Gordon Parks: Ella Watson legge la Bibbia ai suoi figli; Washington DC, agosto 1942.
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Autore sconosciuto: Effetti dell’erosione del vento, in South Dakota (archivio USDA Soil Conservation Service). Edwin Rosskam: Aereo per l’irrigazione dei campi; New Jersey, 1938.
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impressioni individuali, tanto quanto collettivamente, per edificare una esplorazione indelebile della nazione. Le immagini presentate alternano il proprio ritmo e passo tra fotografie note e celebrate e fotografie meno pubblicate, ma altrettanto efficaci... spesso, addirittura più efficaci, sia per la propria sostanziosa novità visiva, sia per l’oggettivo valore implicito delle singole osservazioni. Ancora, accanto al bianconero imperante -dato il tempo, per tutti motivi logici e comprensibili-, sono altresì presenti fotografie a colori, più sconosciute di altre, che contribuiscono a coprire lo spettro completo della vita rurale americana. Queste fotografie mostrano lavoratori di cotone, bambini, detenuti e lavoratori trasferiti sulla strada. Pagina dopo pagina, si incontrano soggetti lampanti
ed espliciti, tutti vittime di elementi avversi della natura, come dei capricci (e delle infamie) del mercato economico globale. Così, sono accostati lavori e progetti di fotografi (umanisti!) particolarmente coinvolti con i propri soggetti: da Marion Post Wolcott a Jack Delano, Russell Lee, Walker Evans, Ben Shahn, Charles Fenno Jacobs, Carl Mydans, Edwin Rosskam, Gordon Parks e Dorothea Lange, tra i tanti. In successione, arriviamo a leggere e assimilare le loro testimonianze visive raccolte nell’ambito del progetto complessivo della Farm Security Administration, attraverso il quale e per assolvere il quale hanno validamente documentato incontri e situazioni. Ovviamente, tra tanto, citazione d’obbligo per la Migrant Mother, di Dorothea Lange, a proposito della
Marion Post Wolcott: Highway a sud-est di Denver; Colorado, settembre 1941. Jack Delano: Pausa pasto di operaie della Chicago and Northwestern Railway; Clinton, Iowa, aprile 1943.
quale rimandiamo allo Sguardo su, di Pino Bertelli, pubblicato giusto un mese fa, sul nostro numero dello scorso marzo. In doveroso estratto, due considerazioni della stessa fotografa: «La cosa importante non è ciò che è fotografato, ma come lo è» e, ancora, «Se vedete soprattutto miseria umana nelle mie fotografie, significa che non sono riuscita a esprimere la trama multiforme di cui è solo un riflesso. Infatti, la rovina che avete davanti è il risultato di forze sia naturali sia sociali». A queste, aggiungiamone un’altra di Jack Delano, riferita alla propria esperienza con la Farm Security Administration: «Attraverso questi viaggi e le fotografie che ho realizzato, ho avuto modo di amare gli Stati Uniti più di quanto avrei potuto fare in qualsiasi altro modo». Ciò che unisce tutte le immagini presentate nella
competente e istruttiva raccolta New Deal Photography. USA 1935-1943 identifica un impegno per l’individualità e dignità di ogni soggetto raffigurato, indelebile testimonianza di un recente passato degli Stati Uniti. Nel proprio insieme e complesso, questi soggetti sono trincerati nelle difficoltà della propria sorte storica e sono rappresentati all’interno di cicli universali di crescita. Eppure, si offrono all’osservatore (oggi, a noi) con ciò che scrive la loro stessa unicità: insostituibile presenza umana, spesso indimenticabile. Dunque, tra tanto altro, l’esperienza di questi fotografi ha rilevato come sia autentica l’ipotesi di Edward Steichen, secondo il quale «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso». Sempre nel rispetto del diverso da sé. ❖
New Deal Photography. USA 1935-1943, a cura di Peter Walther; Taschen Verlag / collana Bibliotheca Universalis, 2016 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); multiligue italiano, spagnolo, portoghese; 608 pagine 14x19,5cm, cartonato; 14,99 euro.
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A TUTTA PROSPETTIVA
Senza alcuna recriminazione, l’attuale tecnologia di acquisizione digitale di immagini identifica un presente del quale prendere atto: gradazioni tecniche del passato sono oggi risolte da dotazioni reflex, che possono disporre anche di configurazioni ottiche mirate. Ciò rilevato, nella propria personalità ipergrandangolare, il nuovo PC Nikkor 19mm f/4E ED affianca quell’idea di fotografia professionale che sta facendo meno dell’accomodamento dei corpi mobili, fino a ieri l’altro prerogativa indiscussa e inviolabile della fotografia con apparecchi grande formato, dal 4x5 pollici in su con pellicola piana, e poi anche controllate riduzioni verso il medio formato 6x7 e 6x9cm, su pellicola a rullo... e dorsi digitali dedicati: cioè è. Esclamativo 43
Con il suo angolo di campo di novantasette gradi (che si riducono a settantatré gradi nel caso di sensori Nikon DX, di dimensioni inferiori al pieno formato 24x36mm), il PC Nikkor 19mm f/4E ED si offre e propone come ipergrandangolare idoneo e adeguato a referenze fotografiche individuate: soprattutto, fotografia di architettura, in interni ed esterni, e fotografia naturalistica. Da qui e oltre, le prestazioni finalizzate del decentramento e basculaggio.
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sonalità della sala di posa: still life e dintorni, con un occhio anche alla fotografia di architettura (in esterni, è ovvio [oltre che in interni]). Così che non posso ignorare che Canon, per prima e da tempo, e Nikon, da momenti sostanzialmente recenti, appunto culminati nell’ufficialità della Photokina 2008, propongono rispettive famiglie di obiettivi decentrabili e basculabili: [...]. Ovvero, obiettivi in grado di assolvere e risolvere le condizioni di controllo prospettico e estensione (piuttosto che contrazione volontaria) della nitidezza sui e con i sensori di acquisizione digitale di immagini delle proprie reflex. «Il decentramento è sostanzialmente finalizzato al controllo della prospettiva, utile soprattutto nella fotografia di architettura e paesaggio. Mentre il ba-
di Antonio Bordoni
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uarta focale della qualificata gamma di obiettivi Nikkor decentrabili e basculabili, il recente PC Nikkor 19mm f/4E ED estende in largo (e lungo) le possibilità operative del proprio sistema fotografico, andando a soddisfare e appagare un’idea professionale sovrastante, oltre che imperiosa, per l’appunto assolta anche dalla costruzione ottica con decentramento e basculaggio ragionato, dato un punto di vista originario. In gamma ottica con quanto già presente nel sistema da tempo -in progressione focale, PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED, PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED-, l’attuale PC Nikkor 19mm f/4E ED, sostanziosa novità tecnico-commerciale, è in grado e condizione di affrontare, assolvere e risolvere le condizioni di controllo prospettico e estensione (piuttosto che contrazione volontaria) della nitidezza sui e con i sensori di acquisizione digitale di immagini delle proprie reflex. In questo senso, e preso atto dell’attualità tecnologica della fotografia dei nostri giorni, nel proprio insieme e complesso, nella propria personalità ipergrandangolare, da ben 97 gradi di angolo di campo (che si riducono a 73 gradi nel caso di sensori Nikon DX, di dimensioni inferiori al 24x36mm / pieno formato), l’obiettivo affranca quell’idea di fotografia professionale che sta facendo a meno delle prestazioni dell’accomodamento dei corpi mobili, fino a ieri l’altro prerogativa indiscussa e inviolabile della fotografia con apparecchi grande formato, dal 4x5 pollici in su con pellicola piana (10,2x12,7cm) e poi anche controllate riduzioni verso il medio formato 6x7 e 6x9cm, su pellicola a rullo, mediante appositi magazzini portapellicola dedicati [le nostre più recenti considerazioni al proposito, in FOTOgraphia, dello scorso dicembre 2016]. E, più recentemente, con dorsi di acquisizione digitale di immagini di dimensioni altrettanto “medio formato”. In questo senso, è ancora indispensabile riprendere considerazioni dal saggio Alla Photokina e ritorno, scritto dal nostro direttore Maurizio Rebuzzini all’indomani dell’appuntamento fieristico internazionale dell’autunno 2008: dal capitolo Reflex con contorno, adeguatamente introdotto da una citazione da Milan Kundera (da Lo scherzo), «Tutto ciò che raccontava era in effetti possibile, ma non per questo certo» (sia chiaro!). Nello specifico, ci concentriamo sul paragrafo intitolato Roba da grandi (formati), che calza a pennello alle considerazioni che oggi, e qui, riferiamo all’efficace PC Nikkor 19mm f/4E ED, presentato in tempi commerciali successivi alla stesura di queste/quelle stesse note, che comunque ne sottolineano il senso e valore esplicito. Testuale: «Sull’intenzione manifesta delle reflex di sovrapporsi all’uso dei dorsi digitali ci sarebbe ancora tanto da riflettere, tenendo sempre e comunque presenti le condizioni fondamentali di certa fotografia professionale, che per comodità di identificazione circoscriviamo nella dimensione e per-
NIKON CORPORATION
Nuova focale nella gamma di obiettivi Nikkor decentrabili e basculabili, l’ipergrandangolare PC Nikkor 19mm f/4E ED estende le possibilità di utilizzo e impiego della fotografia reflex digitale dei nostri giorni. Come ampiamente sottolineato nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale, si tratta di considerare come e quanto sia stata superata la logica dei corpi mobili, propria del passato (prossimo e remoto), vincolata alle configurazioni grande formato, dal 4x5 pollici (10,2x12,7cm) in su, con costruzione a banco ottico oppure folding (base ribaltabile).
sculaggio, regolazione propria e caratteristica degli apparecchi a corpi mobili, un tempo generalmente di grande formato (dal 4x5 pollici in su, e qualche volta anche in versione 6x7 e 6x9cm), permette di governare l’estensione ottimale della nitidezza. Soprattutto, le proprietà della rotazione di basculaggio allineano le reflex Canon e Nikon con le capacità operative proprie e caratteristiche della fotografia a corpi mobili, riducendo così il divario con l’applicazione di sistemi appositamente finalizzati, da usare con dorsi digitali conseguenti. «Gamma di obiettivi che appartengono alla schiera degli utensili specialistici, finalizzati al più pertinente controllo della ripresa fotografica, questi obiettivi decentrabili e bascu-
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labili sono dotati di doppio accomodamento ottico/meccanico. Oltre al decentramento, dispongono anche della rotazione di basculaggio, sulla quale è opportuno concentrare la nostra attenzione, ripeto finalizzata alle considerazioni secondo le quali la fotografia reflex dei nostri giorni si propone per risolvere anche condizioni della fotografia professionale statutariamente assolte da altre configurazioni di profilo diverso, perchÊ originariamente superiore (nello specifico). Per quanto il decentramento consenta alla fotografia piccolo formato di controllare la resa prospettica, il basculaggio la arricchisce di una raffinata regolazione, solitamente propria dei soli sistemi a corpi mobili, oggigiorno diversamente interpretati (ancora:
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NIKON CORPORATION
le configurazioni dell’italiano Silvestri, sopra tutti). «Il decentramento consente di realizzare inquadrature dal basso verso l’alto, e viceversa, prive degli spigoli cadenti o convergenti. Anziché inclinare tutto l’apparecchio in alto o in basso, verso il soggetto, appunto per comprendere l’inquadratura adeguata, la reflex può restare rigorosamente in bolla, con il piano immagine perpendicolare al terreno e parallelo al soggetto: condizione necessaria per la corretta restituzione fotografica della geometria naturale e originale. L’inquadratura verso l’alto, nelle riprese dal basso, oppure verso il basso, in quelle dall’alto, è recuperata mediante l’opportuna disposizione del decentramento dell’obiettivo. «Oltre a questo, [gli attuali PC / PC-E Nikkor] dis-
pongono anche della rotazione di basculaggio del piano dell’obiettivo rispetto a quello focale. Come si dovrebbe sapere, il basculaggio consente di indirizzare la messa a fuoco, svincolandola dal rapporto statico di partenza: cioè si può scegliere un piano di accomodamento proprio, e non si deve necessariamente dipendere da quello originario. «Quando l’obiettivo è parallelo al piano immagine, condizione standard degli apparecchi fotografici privi di rotazione di basculaggio, il piano di messa a fuoco è analogamente parallelo, e la profondità di campo, che si estende in avanti e indietro (rispetto lo stesso piano di messa a fuoco), dipende dalla impostazione di diaframmi sistematicamente chiusi, in chiusura. Invece, l’alterazione volontaria e controllata del parallelismo tra obiettivo e piano immagine crea e determina una messa a fuoco su un piano inclinato volontario e scelto in relazione all’ingombro del soggetto: non più parallelo né all’obiettivo né al piano immagine. «Così che, al pari di quanto avviene con gli apparecchi a corpi mobili (una volta, a banco ottico oppure folding), la rotazione di basculaggio degli obiettivi [PC / PC-E Nikkor] viene finalizzata al controllo ottimale della nitidezza su tutto il campo inquadrato, mediante la messa a fuoco su piani che consentano di orientare l’estensione della profondità di campo in dipendenza della disposizione del soggetto. «Dopo l’individuazione di un piano di messa a fuoco congeniale all’ingombro volumetrico del soggetto, la nitidezza di tutta l’area inquadrata, lungo la terza dimensione, dipende sempre e comunque dall’impostazione di una adeguata apertura (ovvero chiusura) del diaframma. Gli obiettivi basculabili [PC / PC-E Nikkor] consentono di operare in questa direzione; cioè permettono di agire lungo piani di nitidezza scelti indipendentemente dall’estensione originaria avanti-indietro. Per operare nel modo più conveniente, l’asse di basculaggio di questi obiettivi basculabili può essere orizzontale oppure verticale. «Comunque, e a conclusione di questa deviazione, sostanzialmente doverosa, gli obiettivi speciali [...] decentrabili e basculabili, rappresentano uno dei più sostanziosi indizi (sintomi, addirittura) della trasmigrazione di certe applicazioni professionali verso le reflex, che scartano a lato antiche lezioni e precedenti condizioni tecniche (magari bellamente ignorate, ne sono più che consapevole)». Quindi, in aggiornamento doveroso, va rilevato anche e ancora che, a nove anni da queste/quelle note in osservazione e previsione, la fotografia a corpi mobili grande/medio formato è oggi altresì compromessa dalla cessazione delle produzioni ottiche Schneider e Rodenstock, che l’hanno sempre alimentata. Così che è ulteriormente venuta meno una condizione fotografica ereditata dal passato, che rende ancora più proficua la tecnologia di decentramento e basculaggio consegnata all’acquisizione digitale di immagini, con reflex sostanzialmente 24x36mm... soprattutto (e sarebbe meglio, qualità formali del file a parte). In registrazione tecnico-commerciale, rispetto
Al pari degli altri obiettivi decentrabili e basculabili della propria famiglia, anche il PC Nikkor 19mm f/4E ED dispone della rotazione di novanta gradi alla sua montatura sulla reflex, con punti di arresto ogni trenta gradi, in modo che sia il decentramento sia il basculaggio possono essere indirizzati in orizzontale, verticale o trasversale, indipendenti tra loro.
Nel proprio utilizzo canonico, il PC Nikkor 19mm f/4E ED mette a frutto sia la propria visione angolare estremamente estesa (97 gradi di angolo di campo), sia la capacità di decentramento (di più/meno 12mm). Proprio il “decentramento programmato” può essere finalizzato a interpretazioni fotografiche ancora più angolari, con combinazione panorama, in post-produzione, di due scatti decentrati in direzioni opposte: ovviamente, alterando il rapporto originario 2:3 tra i lati (24 e 36mm) del fotogramma originario.
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Il PC Nikkor 19mm f/4E ED è dotato di decentramento micrometrico (più/meno 12mm) e basculaggio, altrettanto micrometrico (più/meno 7,5 gradi). La qualità formale delle riprese fotografiche si deve al particolare disegno ottico di diciassette lenti divise in tredici gruppi, comprensivo di tre lenti ED, due lenti asferiche e lenti con trattamento Nano Crystal Coat o trattamento al fluoro. La scala dei diaframmi chiude fino a f/32 e la messa a fuoco (manuale) esordisce a 25cm dal soggetto inquadrato.
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l’offerta ottica alla quale si sono inevitabilmente riferite le analisi e riflessioni del saggio appena ricordato, redatto all’indomani della Photokina 2008 (ormai lontana nel tempo), dal quale abbiamo estratto un passaggio adeguato e calzante alle nostre attuali osservazioni, Nikon ha aggiunto una focale estrema alla propria gamma di obiettivi decentrabili e basculabili. Appunto, il consistente PC Nikkor 19mm f/4E ED, che porta a quattro le focali della gamma, oltre le tre da tempo note: PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED, PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED. Intenzionalmente progettato per la fotografia di architettura, campo specifico di riferimento, il decentrabile e basculabile PC Nikkor 19mm f/4E ED di ultima generazione è definito da una distorsione minima, che offre una nitidezza ottimale su tutto il proprio campo visivo, di 97 gradi sulla diagonale del formato fotografico (di riferimento) 24x36mm, coincidente con i sensori ad acquisizione digitale full frame (e 73 gradi sulla diagonale dei sensori Nikon DX, di dimensioni inferiori). Nell’impiego e operabilità, la regolazione indipendente dei meccanismi meccanici di decentramento (più/meno 12mm) e basculaggio (più/meno 7,5 gradi) assicura la massima versatilità, che in ambiti di fotografia digitale si rivela più agevole di quanto si possa originariamente pensare. Ovviamente, l’obiettivo può essere ruotato di novanta gradi alla sua montatura sulla reflex, con punti di arresto ogni trenta gradi, di modo che sia il decentramento sia il basculaggio possono essere indirizzati in orizzontale, verticale o trasversale, indipendenti tra loro. La qualità formale delle riprese fotografiche, sia in acquisizione digitale di immagini sia (eventualmente) su pellicola 35mm, si deve al particolare disegno ottico, di diciassette lenti divise in tredici gruppi, comprensivo di tre elementi ED, due lenti asferiche e trattamento Nano Crystal Coat o trattamento al fluoro. L’aberrazione cromatica, fre-
quente nella fotografia grandangolare, è eliminata, non solo minimizzata, dagli elementi ED... per l’appunto. Progettato per l’utilizzo in fotografia digitale, il particolare rivestimento delle lenti Nano Crystal Coat, tecnologia proprietaria Nikon, contribuisce a ridurre al minimo gli effetti fantasma e i bagliori causati dal riflesso interno. La scala dei diaframmi chiude fino a f/32, e la messa a fuoco (manuale) esordisce a 25cm dal soggetto inquadrato. Ancora, va annotato che l’estensione del decentramento, verso destra e sinistra, piuttosto che alto e basso, può anche essere finalizzata a particolari condizioni della fotografia di architettura, interni e paesaggio. Per il basculaggio dello stesso obiettivo, altro discorso: la rotazione di basculaggio, con quanto ne consegue nel controllo prospettico e dell’estensione della nitidezza (o contrazione volontaria), è più congeniale all’uso ragionato e finalizzato delle focali più lunghe PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED, idonee alla fotografia di still life, in sala di posa. Oltre il decentramento utilitaristico, per recuperare porzioni utili di inquadratura, soprattutto verso l’alto e verso il basso, con una estensione di campo che possiamo allineare a quella che un tempo si otteneva con il grandangolare 75mm sul grande formato 4x5 pollici (10,2x12,7cm), ipotizziamo anche quello che definiamo “decentramento programmato”, per realizzare inquadrature di più ampio respiro rispetto l’inquadratura standard con rapporto 2:3 tra i propri lati. Ovvero, composizioni panorama, orizzontali e/o verticali (sul lato lungo o su quello corto), oggi alla pratica portata di una semplice post-produzione sui file originari: uno scatto con il PC Nikkor 19mm f/4E ED decentrato in un senso è facilmente componibile con uno decentrato in senso opposto, con relativo incremento della visione angolare rispetto il punto di ripresa. Al solito... buona fotografia a tutti. ❖
DA UNA CINA
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ALL’ALTRA
di Angelo Galantini
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remessa indispensabile. Venticinque anni, un quarto di secolo... ti dà da pensare. Così, nel film A qualcuno piace caldo, nei panni di Zucchero Kandinsky (in originale Sugar Kane Kowalczyk), Marilyn Monroe commenta il proprio imminente compleanno. In effetti, nel contesto, “un quarto di secolo” quantifica qualcosa di più sostanzioso di soli “venticinque anni”. Dunque, in processo inverso, l’ultimo quarto di secolo, che potrebbe apparire come un lasso di tempo prolungato, si è esaurito nella rapidità di venticinque anni, durante i quali molti equilibri sociali e politici del mondo sono stati stravolti: a partire dalla Repubblica Popolare Cinese, partita da poco e approdata ai vertici del pianeta.
Oggi è tutto Cina, dall’economia alla produzione (anche di qualità, in ogni settore si prenda a campione). Oggi, la Cina è una potenza leader, che condiziona le economie di tutte le Borse e di ogni investimento. Quindi, e a conseguenza, rispetto l’attualità a tutti consapevole, l’incontro con la fotografia di Dalang Shao, insegnante all’Art College affiliato alla Zhejiang University of Finance and Economics, è a dir poco seducente. Il suo progetto Picturesque Scene, tradotto in Scene pittoresche, riporta a una Cina classica, a una Cina che arriva dal passato, per affermare l’idea di un presente che non dimentica la Storia... fosse anche soltanto quella visiva e raffigurativa. Ovverosia, rimanda a una Cina fedele a se stessa, alla propria tradizione, alla propria lezione. (continua a pagina 55)
La rapida evoluzione economica della Cina sta modificando radicalmente l’ambiente naturale, danneggiato e violentato. Questi cambiamenti potrebbero non essere di grande importanza per coloro i quali sono inclini soltanto al bene materiale temporaneo, ma sono fondamentali per Dalang Shao: che da qui parte per esprimere sentimenti in forma fotografica. Il collegamento poetico è tanto fortemente inserito nel suo cuore, che continua a immaginarlo e fissarlo con la sua macchina fotografica, guidata da un profondo amore per la propria terra
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(continua da pagina 51) Le immagini di Dalang Shao, volontariamente e consapevolmente presentate alla maniera della pittura orientale senza tempo, risponde a richiami antichi e suggestivi: «Al sorgere del sole, i fiori sulle rive del fiume erano soffusi di una fiamma rossa»; «In primavera, l’acqua del fiume si trasforma in blu turchese»; «La pioggia nebbiosa imbevuta di cielo dei fiori di mandorlo»; e «In primavera, in tutto il paese, alberi nella nebbia di pioggia». Questi passaggi sono esempi ottimali di sentimenti poetici. Tuttavia, con la rapida evoluzione economica, oggigiorno, l’ambiente naturale viene notevolmente danneggiato e violentato; ogni ispirazione poetica e suggestiva sta scomparendo dai nostri occhi e ricordi. Questi cambiamenti potrebbero non essere di grande importanza per coloro i quali sono inclini soltanto al bene materiale temporaneo, ma sono fondamentali per Dalang Shao: che da qui parte per esprimere sentimenti in forma fotografica. Il collegamento poetico è tanto fortemente inserito nel suo cuore, che continua a immaginarlo e fissarlo con la sua macchina fotografica, guidata da un profondo amore per la propria terra. Dalang Shao scatta in bianconero, per sottolineare sensazioni riepilogative estranee al realismo smaccato del colore, che inviterebbe l’osservatore verso altre considerazioni, lungo tracciati
estranei al suo percorso. Ancora, il bianconero offre straordinari margini di interpretazione individuale, che si estende dal momento della ripresa al trattamento della pellicola, alla stampa delle copie, puntigliosamente realizzate con un’accuratezza che risponde alla cultura visiva millenaria del suo paese. Nel suo bianconero, Dalang Shao introduce melodie espressive che si basano sull’alternanza dei contrasti, sulla sottolineatura di passaggi tonali, sul rilievo o esclusione di dettagli. Di fatto, è in camera oscura che nascono le sue opere, che rispondono sia a stilemi raffigurativi di una cultura classica, sia a connotati visivi di una tecnica moderna. Da e con il fotografo statunitense Jerry Uelsmann: «Anche se la camera oscura mi può staccare dal lavoro di ripresa, può calmare e lenire il mio cuore, collegare i miei pensieri interiori con le fotografie che ho scattato». Per quanto la sempre più frequentata immagine digitale può aver reso superflui taluni passaggi della camera oscura tradizionale, proprio nella tenue illuminazione della stampa chimica, Dalang Shao combina la propria abilità tecnica con i sentimenti dell’anima. In camera oscura, ogni volta che l’immagine comincia ad apparire sulla superficie della carta sensibile, sente di allinearsi allo spirito dei pionieri e di continuarne il cammino. Dunque... Scene pittoresche. ❖
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CON ILLUSTRAZIONE DI
ILLUSTRAZIONI AL FEMMINILE DA PUBBLICITÀ, DÉPLIANT, CARTOLINE E ALTRO ANCORA. Dal passato remoto
CARTOLINA PUBBLICITARIA FERRANIA,
maggio 2017
ELIO LUXARDO (ANNI CINQUANTA) / ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
(pagina accanto) Dal video 100 [Leica]. A Tribute to Photography, realizzato dal sito brasiliano dedicato La Vida Leica!, quattro delle trentacinque (trentasei) evocazioni della fotografia del Novecento. Dall’alto: Andreas Feininger, The Photojournalist, 1955; Dorothea Lange: Migrant Mother, 1936; Alexandr Rodchenko: Girl with a Leica, 1934; Henri Cartier-Bresson, Rue Mouffetard, 1954 (in dissolvenza, Chris Steel-Perkins, Children Doing Handstands, Somalia, 1980 [erroneamente, altri richiamano la fotografia simile, di Robert Doisneau, del 1934]).
di Angelo Galantini
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ome abbiamo già annotato in tante occasioni, a volte, le datazioni delle case fotografiche slittano leggermente in avanti e/o indietro, per allinearsi ad altre celebrazioni, ad altre ricorrenze in richiamo. In questo senso, ammesso e non concesso che esista davvero, il “Caso Leica” è sintomatico e emblematico. Molte sue storie accreditate datano al 1913 il prototipo UR-Leica, messo assieme da Oskar Barnack per intenzioni non direttamente fotografiche: a questo proposito, rimandiamo all’ottimo e dettagliato casellario Carta d’identità delle Leica, compilato dall’autorevole Ghester Sartorius, che l’Editrice Reflex pubblica dal 1995, con aggiornamenti sistematici a cura di Giulio Forti e Pier Paolo Ghisetti (dopo una sorta di pre-edizione 1991, della napoletana Sfe). Così come rimandiamo alle quattro svolte senza ritorno di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio
Morita, di Maurizio Rebuzzini, in edizione Graphia: sia per l’allineamento al 1913 citato, sia per le considerazioni riguardo le «intenzioni non direttamente fotografiche» di origine accertata. Se non che, in due occasioni successive, oltre che straordinariamente ufficiali e pubbliche, la casa madre ha spostato al 1914 quella lontana genesi. Una prima volta, lo ha fatto nel 1989, quando una Leica Special Edition ha celebrato i centocinquant’anni della fotografia (1839-1989), settantacinque dei quali con Leica (1914-1989): coincidenza più che eccezionale e sorprendente, messa adeguatamente a frutto con la speciale Leica M6 Platino, prodotta in milleduecentocinquanta esemplari (1250). Fu un conio estremamente raffinato, che i collezionisti evocano a termini invertiti rispetto quelli appena conteggiati (settantacinque anni Leica all’interno di centocinquanta di fotografia): il rivestimento in pelle di lucertola fu abbinato a parti metalliche placcate in platino (appunto). In kit di corpo macchina con Summilux-M 50mm f/1,4 di corredo; sulla parte superiore
CENTO ANNI IN SINTESI Celebrativo del centenario Leica (1914-2014), l’emozionante e coinvolgente video 100 [Leica]. A Tribute to Photography, realizzato dal sito brasiliano dedicato La Vida Leica!, indipendente dalla casa madre, ripercorre la fotografia del Novecento, soprattutto del secondo Novecento, per sottolineare una propria convinzione, prontamente condivisa con il pubblico: «Tutte le immagini più iconiche della storia, persino quelle che non furono scattate con una Leica, furono scattate grazie alla Leica». In ricostruzione scenica consequenziale, trentacinque visioni, magari più una, accostate con competenza ed efficacia 58
della Leica M6 Platino, al centro di un fotogramma 35mm stilizzato, l’incisione personalizzata che certifica la combinazione di date: in tedesco, che qui traduciamo, «1989: 150anni di fotografia, 75anni di fotografia Leica» [FOTOgraphia, giugno 1995]. Quindi, in tempi più recenti, Leica si è di nuovo riferita al 1914, che dunque si afferma/conferma come ufficialità convenzionale, autorevole, solenne, valida e ormai accertata, nell’edizione della intensa ed esemplare monografia con la quale sono stati celebrati novantanove anni di storia Leica: per l’appunto, 1914-2013. Come già approfondito in sostanziale cronaca editoriale, in FOTOgraphia, del marzo 2013, con lancio dalla copertina, Ninety Nine Years Leica è altresì un libro irrinunciabile, sia per la propria intelligenza manifesta, sia per il punto di vista originale attraverso il quale stabilisce termini e senso di una autentica leggenda. Specchio fedele della attuale personalità tecnico-commerciale della casa tedesca, questo volume canonizza la propria storia in riferimento a quella complessiva della fotografia. Straordinario esempio di coerenza produttiva in un racconto altrettanto fantastico. (Tra l’altro, per quel piacere delle cifre e dei numeri che apprezziamo, la celebrazione di novantanove anni è assai più raffinata del canonico centenario; tra l’altro, ancora, gli ammirevoli Esercizi di stile, del francese Raymond Queneau -fondatore dell’Ouvroir de Littérature Potentielle [Ou LiPo; officina di letteratura potenziale], che annoverò tra le proprie fila anche Georges Perec, Italo Calvino e Umberto Eco [FOTOgraphia, febbraio 2017]-, sono edificati su una sola trama raccontata in novantanove modi diversi, ognuno in uno specifico stile di narrazione. Originariamente pubblicati da Gallimard, nel 1947, sono stati tradotti in tutto il mondo; in Italia, in edizione Einaudi, nella traduzione di Umberto Eco). Da cui, 1914-2014 è il centenario Leica, ormai passato, ma sempre da sottolineare, che il sito brasiliano dedicato La Vida Leica!, indipendente dalla casa madre, ha evocato con un video postato in Rete, attribuito anche alla Leica Gallery São Paulo: http://lavidaleica.com/content/new-leica-100-video advertisement, dal Primo ottobre 2014. In due minuti, vengono ripercorse tappe fondanti della Storia della Fotografia, ovviamente interpretata alla luce di quella svolta senza ritorno stabilita dalla Leica, dalla cui versatilità di impiego datiamo l’idea di istantanea e i princìpi del fotogiornalismo. Il testo di accompagnamento è diretto, quanto asciutto. In traduzione dall’inglese originario: «Cento anni fa, un avvenimento cambiò drasticamente il corso della fotografia: nacque la prima Leica. Senza alcun dubbio, si potrebbe dire: “Hey, alcune di queste fotografie non sono state scattate con una Leica”. Ci sentiamo di dissentire, gentilmente. Leica portò le apparecchiature fotografiche fuori dallo studio, spostandole nel cuore della vita reale. Fotografie “rubate”, istantanee. Siamo stati in grado di vedere, sentire, annusare, migliaia di momenti. Diventò un’estensione dell’occhio del fotografo: gioia, dolore, fatti di ogni giorno, paura, sconfitte, la miseria delle donne, la guerra dal suo interno. Un’immagine con-
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Rievocazione della fotografia-simbolo, di Josef Kouldelka, dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia, dell’agosto 1968, sempre indicata con il luogo (Wenceslas Square, di Praga). L’idea del fotografo è stata quella di inserire l’orologio per indicare l’ora del giorno in cui la strada, normalmente affollata, era deserta. Nella composizione, l’orologio in primo piano, che rappresenta anche uno sprezzante gesto di resistenza iroso e anonimo contro le forze di occupazione, è il punto focale dell’inquadratura: trasmette un senso di inquietudine e premonizione.
TRENTACINQUE PASSI (O TRENTASEI)
Come ampiamente annotato nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale, le fotografie evocate dalla ricostruzione scenica dell’emozionante video 100 [Leica]. A Tribute to Photography, realizzato dal sito brasiliano dedicato La Vida Leica!, indipendente dalla casa madre, ripercorrono la fotografia del Novecento, soprattutto del secondo Novecento. Nella ricorrenza del centenario Leica (1914-2014), viene sottolineata una convinzione assoluta e dichiarata: «Tutte le immagini più iconiche della storia, persino quelle che non furono scattate con una Leica, furono scattate grazie alla Leica». In ricostruzione scenica consequenziale, trentacinque visioni, magari più una (che numeriamo 36, collocandola alla fine del percorso; nel video, sta tra le fotografie 20, di Nan Goldin, e 21 di Diane Arbus), sono accostate con competenza ed efficacia. Con ordine (in dizione ufficiale, o in traduzione, o in descrizione). 1. Andreas Feininger: The Photojournalist; 1955 (Dennis Stock); 2. Neil Armstrong: Edwin Eugene Aldrin (Buzz Aldrin) sulla Luna, Apollo 11; luglio 1969; 3. Joe Rosenthal: Alzabandiera a Iwo Jima (sul monte Suribachi; 28th Regiment della Fifth Division US Marines); 23 febbraio 1945 / Premio Pulitzer; 4. Dorothea Lange: Migant Mother (Florence Owens Thompson [1903-1983], sulla US Highway 101, vicino a Watsonville); marzo 1936; 5. Edward (Ed) Clark: Pianto al funerale del presidente Franklin Delano Roosevelt; 14 aprile 1945; 6. Robert Doisneau: Le baiser de l’Hotel de Ville; 1950; 7. Robert Frank: Rodeo, New York City; 1955; 8. Henri Cartier-Bresson: Rue Mouffetard; 1954; 9. Chris Steel-Perkins: Children Doing Handstands, Somalia; 1980 [erroneamente, altri richiamano la simile Les frères, rue du Docteur Lecène, Paris, di Robert Doisneau, del 1934]; 10. Jeff Mermelstein: Man with Book in Mouth; 1995; 11. Nick Ut: Napalm Girl (Kim Phúc); 8 giugno 1972 / World Press Photo of the Year 1972; 12. Haans-Jörg Anders: The Troubles (giovane cattolico durante gli scontri con i soldati inglesi); maggio 1969 / World Press Photo of the Year 1969; 13. Alfred Eisenstaedt: V-J Day in Times Square, New York; 14 agosto 1945;
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14. Samuel Aranda: La pietà araba; 2011 / World Press Photo of the Year 2011; 15. Martin Parr; presumibilmente dalla serie British Food; 1969; 16. William Klein: Gun 1, New York; 1955; 17. Marc Riboud: Flower girl Washington; 1968 [erroneamente, altri richiamano la simile Flower Power, di Bernie Boston, del 21 ottobre 1967]; 18. Eddie Adams: Il capo della polizia vietnamita Nguyễn Ngọc Loan giustizia sommariamente il presunto vietcong Nguyễn Văn Lém; Primo febbraio 1968 / World Press Photo of the Year 1968 e Premio Pulitzer; 19. Malcolm W. Browne: Il monaco buddista Thích Guảng Dức si dà fuoco in segno di protesta contro la persecuzione religiosa da parte del governo; Saigon, 11 giugno 1963 / World Press Photo of the Year 1963; 20. Nan Goldin: Gotscho bacia il compagno Gilles, malato terminale di Aids; Parigi, 1993; 21. Diane Arbus: Identical Twins; Roselle, New Jersey, 1967; 22. Garry Winogrand: El Morocco, New York; 1955; 23. Neil Leifer: Il knock out con il quale Muhammad Ali ha sconfitto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, nel Maine; 25 maggio 1965; 24. Henri Cartier-Bresson: Derrière la gare Saint-Lazare, Paris; 1932; 25. Elliott Erwitt: Segregated Water Fountains; 1950; 26. Josef Koudelka: Wenceslas Square, Praga; agosto 1968; 27. Richard Kalvar: Twin flowers during a carnival; 1979; 28. Elliott Erwitt: California; 1955; 29. Annie Leibovitz: John Lennon e Yoko Ono; 1980; 30. Jeff Widener: Tank Man; Pechino, 5 giugno 1989 [analoga fotografia di Charlie Cole (Newsweek), datata 4 giugno 1989, World Press Photo of the Year 1989]; 31. Alexandr Rodchenko: Girl with a Leica; 1934; 32. Helmut Newton: Autoritratto con la moglie, June, e modella; Parigi, 1981; 33. Henri Cartier-Bresson: Muslim women on the slopes of Hari Parbal Hill; Srinagar, Kashmir, 1948; 34. Henri Cartier-Bresson: Normandy, Seine-Maritime, Dieppe; 1926; 35. Robert Capa: Miliziano colpito a morte; 5 settembre 1936; 36. Alberto Korda: El Guerrillero Heróico, ritratto di Ernesto “Che” Guevara; 5 marzo 1960.
Interpretazione della fotografia più celebre e celebrata di Henri Cartier-Bresson: Derrière la gare Saint-Lazare, Paris, del 1932. A questo proposito, una riflessione è dovuta: per quanto lunghe, produttive e fruttuose, spesso le carriere dei fotografi sono vincolate alla frazione di secondo di un solo loro scatto. È come se ci fosse bisogno di semplificazione e banalizzazione tranquillizzanti. È come rifiutare l’analisi dettagliata e opportuna di ogni esistenza. Forse.
taminò le altre, come delle metastasi. Tutte le immagini più iconiche della storia, persino quelle che non furono scattate con una Leica, furono scattate grazie alla Leica. Non abbiamo inventato la fotografia, abbiamo inventato la Fotografia». 100 [Leica]. A Tribute to Photography è un video nel quale, in reinterpretazione e collocazione consequenziale, sono evocate trentacinque fotografie celebri (alcune meno delle altre, per il vero) della Storia. In alcuni siti, abbiamo individuato diverse decifrazioni; quasi tutte sono incomplete, e alcune addirittura commettono l’errore di considerare anche la celebre icona di Ernesto “Che” Guevara, El Guerrillero Heróico, di Alberto Korda, che compare, appesa a una parete, in un allestimento scenico, che -se considerata a sé e per sé- porta a trentasei il totale. Da parte nostra, i trentacinque soggetti evocati in ricostruzione scenica collegata, dopo un prologo che già ne richiama qualcuno, esordiscono ufficialmente dopo il titolo esplicativo A Tribute to Photography. Si parte con la celebre visualizzazione simbolica The Photojournalist, di Andreas Feininger, riproposta mille e mille volte: ritratto del noto fotogiornalista Dennis Stock, con Leica IIIf, Summitar 50mm f/2 e mirino aggiuntivo (nostra deduzione/identificazione), realizzato nel 1955. Quindi, dopo un percorso nel quale le evocazioni si concatenano tra loro, sfumando ognuna nella successiva [elenco completo sulla pagina accanto], il cammino cadenzato si conclude con l’icona del Miliziano colpito a morte, di Robert Capa, del 1936 (e qui, e ora, non registriamo alcuna delle molte diatribe a proposito di questa fotografia). Come precisato nel testo a commento, appena riportato, non tutte queste immagini proposte sono state scattate con Leica (una sopra tutte, per certezza assoluta: l’astronauta Edwin Eugene Aldrin -Buzz Aldrin-, sulla Luna, nel primo sbarco di Apollo 11, nel luglio 1969, fotografato da Neil Armstrong, il primo Uomo sulla Luna). Ma, con immancabile onestà intellettuale, ci allineiamo all’idea secondo
la quale «Tutte le immagini più iconiche della storia, persino quelle che non furono scattate con una Leica, furono scattate grazie alla Leica». A conseguenza diretta, il breve video 100 [Leica]. A Tribute to Photography, intenso nel proprio contenuto, compone una visione del Novecento, soprattutto del secondo Novecento, che identifica bene come e quanto la Fotografia (in Maiuscola volontaria, oltre che consapevole) abbia influito sulla vita di ciascuno di noi. Nella sequenza, si susseguono immagini significative di momenti alti (per esempio, i funerali di Franklin Delano Roosevelt, unico presidente statunitense per quattro mandati, in deroga dalla legge che limita a due mandati, in carica dal 1933 alla sua scomparsa, nell’aprile 1945, che ha traghettato il paese dalla profonda crisi economica alla Seconda guerra mondiale e ai suoi presupposti successivi) a immagini di esistenze quotidiane (il bacio davanti all’Hotel de Ville, a Parigi, di Robert Doisneau). La successione è serrata, in una concatenazione che non distingue nulla, proprio con l’intenzione esplicita di non distinguere nulla: il capo della polizia nazionale vietnamita Nguyễn Ngọc Loan che giustizia per strada il presunto vietcong Nguyễn Văn Lém, il Primo febbraio 1968 (fotografia di Eddie Adams, The Associated Press; World Press Photo of the Year 1968) anticipa il tenero bacio di Gotscho al compagno Gilles, malato terminale di Aids (a Parigi, nel 1993, in una fotografia di Nan Goldin) e le gemelle identiche, che Diane Arbus ha fotografato a Roselle, nel New Jersey, nel 1967. Allo stesso momento, la medesima immagine segue il bacio tra la crocerossina e il marinaio, in Times Square, a New York, nel giorno della vittoria (V-J Day, 14 agosto 1945; fotografia di Alfred Eisenstaedt) e la identificata Pietà araba, di Samuel Aranda (Corbis Images per The New York Times), World Press Photo of the Year 2011. Già... «Tutte le immagini più iconiche della storia, persino quelle che non furono scattate con una Leica, furono scattate grazie alla Leica». ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 24 volte dicembre 2016)
A Franti (Maurizio Rebuzzini), perché mi ha aiutato a comprendere che con la fotografia non si fanno le rivoluzioni, ma si può diventare Uomini e Donne migliori...
L
La fotografia non ha avuto torto nel pensare che la verità, la bellezza, la libertà, l’uguaglianza siano impagabili. Da sempre, la fotografia ha nutrito in sé l’innocenza del divenire; ma solo se ne diviene cosciente, può possederla realmente. Nel reame fotografico della fotografia mercatile trionfano mediocrità, bruttezze e ovvietà, che mai mettono in discussione i prodotti della storiografia ufficiale: i miti e maestri vengono riprodotti da un libro all’altro (da una galleria all’altra, da un museo all’altro, da una scuola all’altra), senza mai passare dal vaglio critico del dubbio... il fatto è che la fotografia muore di fotografia. Ogni fotografia implica l’architettura che la precede; la fotografia registra, la bellezza la mostra. Motto di spirito: il mondo esiste per cadere in una “bella” fotografia. Fotografare significa restituire la vitalità e la vivezza della propria esistenza: è la costruzione di un pensiero che si apre a tutti, a tutte, senza distinzioni di sesso, cultura, disuguaglianze sociali. La fotografia che vale è una agorà creativa che nutre la Vita e la trascolora in Storia. Cosa è la fotografia senza il romanzo autobiografico che l’accompagna? Niente! Il ventre dei fotografi è sempre gonfio di rappresentazioni del mondo, ma raramente le immagini correnti mirano all’epifania di una sovranità etica/estetica inedita. Fotografare senza avere coscienza di sé e dell’altro, non è che rovina dell’anima.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA RÊVERIE La fotografia della rêverie (o dell’arte di gioire) deriva dall’intelligenza, dalla riflessione, dalla deduzione della cultura che porta con sé...
SALLY MANN lacera il velo delle illusioni, denuncia l’indifferenza delle coscienze, riporta l’immaginale degli Uomini e delle Donne nell’alveo dell’equità generale e della giustizia sociale... sembra dire che l’ignoranza del bene pubblico e l’arricchimento di pochi determinano l’impoverimento del resto della società. L’esercizio comunitario del pensiero insegna «la necessità di divenire padroni delle proprie opinioni e dei propri desideri» (Michel Onfray: Illuminismo estremo. Controstoria della filosofia IV; Ponte alle Grazie, 2010); il bene supremo è amare la vita sotto tutte le proprie forme: all’Uomo non si addice essere suddito, servo, né essere considerato merce. Quando nessuno sarà costretto a piegare la testa nei confronti di ricchi, governanti e preti, allora questa società potrà definirsi buona. La fotografia della storia è sem-
una realtà da vivere. Non si diviene fotografi impunemente; non si abita la fotografia, si abita una lingua. Un amore è questo, e nient’altro. Lasciamo le faccende biografiche di Sally Mann a quanti si occupano di dossologie e altre facezie adatte ai “culi di gomma” della fotografia insegnata: «Nata il Primo maggio 1951, Sally Mann è la terza di tre figli. Il padre, Robert S. Munger, era un medico generico, mentre la madre, Elizabeth Evans Munger, gestiva la libreria nella Washington and Lee University, di Lexington. Sally Mann si diploma presso la Putney School, nel 1969; frequenta il Bennington College e il Friends World College. Ottiene il grado di Bachelor of Arts Summa cum laude, presso l’Hollins College (ora, Hollins University), nel 1974, e il Master of Fine Arts in scrittura creativa, nel 1975.
«Ciò che è dionisiaco viene contrapposto nel pensiero come un ordine superiore del mondo a un ordine volgare e dappoco» Friedrich Nietzsche pre una storia (riscritta) della fotografia applicata alla radice delle cose. Imparare l’arte della fotografia (sulla buona vita, sul buon governo e su noi stessi) significa essere né sottomessi né obbedienti e, al di là del bene e del male, lavorare per le nuove generazioni e l’avvenire di una società più giusta e più umana (abbiamo scritto da qualche parte, forse) [Per una disamina dei rapporti tra uomini, miti e potere, si raccomanda la lettura (tutta d’un fiato) di Confucio. Sulla buona vita, sul buon governo e su me stesso. Il diario ritrovato del grande filosofo cinese: autentico falso d’autore, di Luca Grecchi; Guida, 2001]. La fotografia non è un problema tecnico da risolvere, ma
«Come ha affermato, si dedica alla fotografia a Putney, per avere modo di stare sola nella camera oscura con il suo ragazzo di allora. Fa il suo debutto fotografico nella stessa città del Vermont, con un’immagine di un compagno di classe nudo. Il suo interesse verso la fotografia è incentivato dal padre. Proprio la macchina fotografica 5x7 pollici dello stesso padre diventa base dell’uso di macchine fotografiche grande formato che fa oggi. «Dopo il diploma, Sally Mann lavora come aiuto fotografo alla Washington and Lee University. Verso metà degli anni Settanta, fotografa la costruzione della nuova Lewis Law Library, approdando
alla sua prima mostra personale alla fine del 1977, presso la Corcoran Gallery of Art, a Washington. Quelle stesse immagini surrealistiche sono state successivamente incluse come parte del suo primo libro, Second Sight, pubblicato nel 1983. La sua seconda monografia, At Twelve (Portraits of Young Women), è stata pubblicata nel 1988. Ma, probabilmente, l’autrice Sally Mann è meglio conosciuta per la sua terza collezione: Immediate Family, del 1992. Il suo quarto libro, Still Time, edito nel 1994, è basato sul catalogo delle mostre itineranti che ricoprono più di venti anni della sua fotografia. Le sessanta immagini includono per lo più fotografie dei suoi figli, ma anche i primi paesaggi. «A metà degli anni Novanta, Sally Mann comincia a fotografare paesaggi con lastre al collodio umido 8x10 pollici, utilizzando un apparecchio storico, prodotto cento anni prima. In prima pubblicazione, questi paesaggi sono impaginati in Still Time, titolo appena citato, e più tardi presentati in due mostre esposte alla Edwynn Houk Gallery, di New York City. Quindi, il quinto libro, What Remains, del 2003, è basato sulla mostra allestita alla prestigiosa Corcoran Gallery of Art, di Washington. «Il suo sesto libro, Deep South, pubblicato nel 2005, con sessantacinque immagini in bianconero, include paesaggi fotografati tra il 1992 e il 2004, sia con pellicola tradizionale 8x10 pollici, sia con la tecnica del collodio umido. Queste fotografie sono state descritte come “Paesaggi del Sud abitati da fantasmi, campi di battaglia, palazzi in rovina, paesaggi avvolti nel mistero e il luogo dove Emmett Till fu ucciso”. Newsweek lo segnala come lettura consigliata per la stagione estiva, affermando che, nel libro, Sally Mann “si avvicina direttamente a ogni stereotipo del Sud e demolisce sottilmente ognuno
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Sguardi su di loro, creando immagini indelebili e inquietanti che stanno sospese da qualche parte tra documento e sogno”. I suoi attuali progetti includono una serie di autoritratti, uno studio degli effetti della distrofia muscolare di suo marito, ritratti intimi della vita privata di famiglia lungo gli ultimi trenta anni e uno studio composto da più parti, riguardante l’eredità della schiavitù in Virginia. «Sally Mann ha tre figli: Emmett (che è stato chiamato così, in amicizia al fotografo Emmett Gowin), nato nel 1979, Jessie (anche lei un’artista, fotografa e modella), nata nel 1981, e Virginia, nata nel 1985. Vive in una fattoria in Virginia con suo marito, Larry. Lui è un avvocato ed è affetto da distrofia muscolare; oltre la fotografia, lei è appassionata di corse di cavalli di resistenza. «Sally Mann è rappresentata dalla Gagosian Gallery, di New York City. I suoi lavori fanno parte delle collezioni permanenti del Metropolitan Museum of Art (New York), della Corcoran Gallery of Art (Washington DC), del Hirshhorn Museum and Sculpture Garden (Washington DC), del Museum of Fine Arts di Boston (Massachusetts), del San Francisco Museum of Modern Art (California) e del Whitney Museum of American Art (New York), oltre a molti altri. «Nel 2001, Time Magazine ha nominato Sally Mann America’s Best Photographer. Sue fotografie sono state pubblicate per due volte sulla copertina del New York Times Magazine: prima, una fotografia dei suoi tre figli, per il numero del 27 settembre 1992, corredata da un servizio sul suo Disturbing work (lavoro inquietante); e poi, una seconda volta, il 9 settembre 2001, con un autoritratto (che include anche le sue figlie), per il numero dedicato alle Donne che guardano le Donne. «Sally Mann è stata soggetto di due film documentari, diretti da Steve Cantor. Il primo, Blood Ties: The Life and Work of Sally Mann (in doppia regia, con Peter Spirer), debutta al Sundance Film Festival, del 1994, ed è stato nominato all’Academy Award, nella categoria dei documentari. Il secon-
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do, What Remains: The Life and Work of Sally Mann, è stato premiato al Sundance Film Festival, nel 2006, ed è stato nominato agli Emmy 2008, sempre nella categoria dei documentari. Nella recensione del New York Times, Ginia Bellafante ha scritto che “è uno dei più raffinati, profondi documentari apparsi in televisione, di recente, non solo riguardo l’evoluzione di un artista, ma anche il matrimonio e la vita”. Sally Mann ha ricevuto il titolo onorario di Doctor of Fine Arts, al Corcoran Museum, di Washington DC, nel maggio 2006» [it.wikipedia.org]. Di tutta questa annotazione su Sally Mann, c’importa poco. Invece, a noi interessa entrare in punta di cuore nel suo fare-fotografia, specie quella intima, familiare, esaltante... che rappresenta, forse, uno dei più alti canti alla bellezza mai giustamente considerato nella Storia della Fotografia. L’immaginale libertario di Sally Mann è ammantato da spirito dionisiaco, abbandono alla creatività, accettazione senza remore e abbandono al flusso della vita, di cui parlava Friedrich Nietzsche [Friedrich Nietzsche: La nascita della tragedia; Adelphi, 1977]. In fotografia e dappertutto, l’arte dionisiaca infrange le divisioni di casta; tutti gli Uomini sono liberi e nessuno schiavo o padrone; tutti cantano e danzano, si liberano dalle proprie catene sociali e come masnadieri del bello, del giusto e del buono, accedono al divenire di una comunità superiore, a un’armonia universale, dove l’Uomo non è più artista o suddito, ma ribelle che ha fatto di sé un’opera d’arte [Friedrich Schiller: I masnadieri; Einaudi, 1986. La scheda: «Pubblicata anonima nel 1781 e rappresentata per la prima volta a Mannheim, nel 1782, la tragedia mette in scena un dissidio tra fratelli: Franz Moor, l’infido macchinatore di complotti, e Karl Moor, l’idealista masnadiero, prototipo del nobile fuorilegge dello Sturm und Drang, che, per “migliorare il mondo”, combatte contro ogni sopruso, ma soprattutto contro la legge ingiusta dei tiranni. Il successo della tragedia costò a
Schiller la caduta in disgrazia presso il duca di Wurttemberg, avviando un’avventurosa vicenda di arresti, fughe e peregrinazioni»].
SULLA FOTOGRAFIA DIONISIACA La fotografia dionisiaca (libertina e libertaria) implica l’intelligenza del lettore e attraversa la favola differenzialista che passa da Nietzsche a Benjamin, da Lefebvre a Bourdieu, da Deleuze a Guattari, da Cioran a Onfray, da Vaneigem a Pasolini. Le immagini edoniste della fotografia dionisiaca segnano la liberazione del desiderio e sostengono un allargamento della libertà di amare, vivere, sognare... e l’aspirazione alla giustizia sociale che ne consegue. «Bisognerebbe essere fuori del mondo come un angelo o come un idiota per credere che la scorribanda umana possa andare a finire bene» (Emil M. Cioran: Confessioni e anatemi; Adelphi, 2007); tuttavia, i grandi poeti si sono resi colpevoli d’ingenuità e hanno fatto del meraviglioso il momento del risveglio. Non è grazie alla politica o all’arte, ma grazie alla sofferenza e solo grazie ad essa, che la facciamo finita con la commedia di burattinai e burattini. Di fronte agli istanti struccati, tutto quello che ci fa soffrire è cancellato dal disinganno e ci dà la sensazione di raggiungere finalmente il vero, il bello e il giusto! Nelle sacre scritture, come nei proclami elettorali, regna la menzogna! Solo ciò che invita alla caduta dei simulacri merita di essere ascoltato. La fotografia dionisiaca di Sally Mann, della quale ci occupiamo, è la cartografia coraggiosa, gioiosa, edonista, espressa lungo trent’anni di lavoro nella ritrattistica della vita privata di famiglia (pubblicata nelle monografie Immediate Family, del 1992, Still Time, del 1994). I paesaggi, le ricerche surrealiste, le immagini dell’inquietudine le lasciamo a chi ha tempo e voglia di dissertare sull’arte concettuale: a noi interessa entrare a “gatto selvaggio” nell’elogio edonista e nella liberazione del desiderio delle sue fotografie, che spaccano le prebende dei costumi e dei valori della cultura dominante. Qui, la fotografia cede il
passo alla filosofia e fa coscienza di sé, coscienza degli altri e coscienza del mondo. Le immagini di Sally Mann esprimono un allargamento del corpo, ridefiniscono il corpo e lo proiettano oltre lo schematismo teologico e ideologico. «Il valore di un’opera si misura sulla somma degli scambi intellettuali -etici, politici, filosofici, metafisici, estetici, ovviamente- generati» (Michel Onfray: La potenza di esistere. Manifesto edonista; Ponte alle Grazie, 2009 / Tea, 2011). La banalità, la pochezza, la falsa profondità -che spesso accompagnano un artista al successo- tradiscono la povertà di contenuti, la confusione degli stili, l’inconsistenza di valori e danno luogo alla teatralizzazione del fatto poetico. Tutto ciò che va verso il mercatile soltanto è meno che nulla... è merce. A vedere con cura il portolano delle immagini familiari di Sally Mann si resta colpiti dalla complicità, dalla disinvoltura, dalla regalità che riesce a cogliere nelle nudità androgine dei suoi figli, specie nelle ragazzine: i rimandi a Lewis Carroll, e le sue bambine nel paese delle meraviglie, e a E.J. Bellocq, e le sue magnifiche puttane di Storyville, sono inevitabili. Come Carroll e Bellocq, Sally Mann configura una realtà magica nel performativo dei corpi, e mostra che l’arte vive nella frattura dell’ordinario o è solo un esercizio estetico. La storia dell’arte presuppone rotture radicali con la condizione di servaggio che la condizionano, sempre. Nell’epoca della società spettacolare, la proliferazione di “capolavori” è giornaliera e bene sta accanto alla stupidità generalizzata, in arte come nella politica: i saltimbanchi della comunicazione prezzolata fanno il “lavoro sporco” e celebrano il “genio” voluto dai propri padroni. Il bianconero sontuoso di Sally Mann avvolge i corpi nudi dei figli; la voluttà estetica erompe senza veli nella quotidianità e le ragazzine nude, distese su un divano, in un campo d’erba, attaccate a un filo, su un letto disfatto o tra le braccia del padre, sono veri e propri atti d’amore che esprimono un’etica
Sguardi su della dolcezza, della tenerezza, dell’arte di gioire di un’esistenza che s’invola tra la realtà e il sogno. La raffinatezza estetica di Sally Mann definisce una forma intellettuale, civile, politica della fotografia, e ci vuole molto amore, molta innocenza e molta sconsideratezza per affabulare un temperamento, un carattere, un’educazione e un’arte di amare degna di questo nome. L’istante che la fotografa ruba alla vita dei propri figli è restituito nell’amore che vi si accompagna: l’eros leggero che fuoriesce dalle immagini esprime una decostruzione dell’immaginario veicolato dalla morale dominante, che -insieme all’ideologia, alla religione, allo spettacolare domestico- agisce per la conservazione e riproduzione di una santa e buona osservanza delle regole istituite. L’etica edonista coincide con la gioia e il godimento di sé; il piacere è definito attraverso l’assenza di turbamenti, la serenità acquisita, la tranquillità dell’animo e dello spirito... diceva: senza coscienza di sé, non v’è che rovina dell’anima. Il solo peccato che riconosciamo è la stupidità. Niente è sacro, tutto si può dire e violare! Respingere dappertutto l’infelicità. Ci sembra, e per quel che vale, che la filosofia fotografica di Sally Mann sia significata nei corpi dei figli, del marito, di sé... e dice che il bene e il male, il vero e il falso, l’ingiusto e l’ingiusto, il bello e il brutto dipendono da scelte fattuali: decifrare il corpo vuol dire scoprire come questo corpo sta al mondo. Ogni istante scippato alla storia contribuisce al suo divenire, e solo un’etica estetica (dionisiaca) riporta a una soggettività radicale, a un’identità splendente, a una bella individualità, che sconfigge secoli di sermoni e lacrime destinati alla domesticazione sociale. In un mondo davvero libero da ogni mitologia su un buon governo o su qualche dio che giudica, assolve e scomunica, gli Uomini e le Donne devono rendere conto ai propri simili e a nessun altro. L’immagine dei figli di Sally Mann, le due ragazzine con il fratello in mezzo, è di una forza visiva
dirompente: c’è alterità, c’è dignità, c’è bellezza della differenza... tutti guardano in macchina, senza disagio, e si comprende bene che la madre è parte di quell’immagine... una sorta di specchio fecondo, che li accoglie, sostiene, condivide e accompagna in viatici che accrescono la vitalità. L’arte di essere liberi va imparata, è una dolcezza che va al cuore... è pienezza della presenza e dell’azione: «Può renderci migliori solo l’influenza che riceviamo da ciò che è migliore di noi» (Simone Weil: Il libro del potere; Chiarelettere, 2016). La fotografia così fatta è -appunto- un’elevazione del livello intellettuale e favorisce il fiorire delle differenze e, Eraclito diceva, della lotta come condizione stessa della vita. I nudi della ragazzina deposta in un letto come in un sudario e quello della ragazzina sdraiata su un divano figurano un’innocenza senza vergogna. La madre le fotografa come creature un po’ misteriose, alchemiche, cariche di una umanità solare, che rigetta la colpevolezza del dolore e del peccato. La presenza della comunione con la madre è forte, e nella sua ebbrezza estatica dice la verità contro l’illusione simbolica del miracolo artistico. Il corpo attiene al piacere, ed è l’Athanor nel quale libertà e verità si volgono in direzione della vita vera. Nel teatro del mondo è sempre una questione di stile, o di stiletto, Caravaggio avrebbe detto! Dio non c’entra, e nemmeno il Diavolo! C’entra il coraggio di essere liberi [Vito Mancuso: Il coraggio di essere liberi; Garzanti, 2016], ma non davanti alla genuflessione degli Uomini e alla pacificazione dei passeri o dei falchi! Ogni persona di carattere dovrebbe dedicare la propria esistenza all’abbattimento dei dogmi religiosi, economici, politici che tengono in catene l’umanità. Straordinaria la fotografia del marito di Sally Mann (Larry), che accarezza i capelli e bacia la figlia sulla fronte. Il gesto del padre è carico di amorevolezza, e la figlia si lascia andare in un’empatia amorosa che la madre congela tra la spiaggia e il cielo. Il mare sembra addensarsi in un filo d’ac-
qua che unisce l’uomo, la ragazzina e la fotografa... la meraviglia e lo stupore grondano dall’inquadratura, e aiutano a conoscere il proprio autentico sé. Le immagini della malattia di Larry (affetto da distrofia muscolare) sono impietose. Sally Mann fissa sulla pellicola il volto del marito, nel buio, con una lieve luce sulla barba bianca, disteso nel letto; poi, un braccio che pende dal letto, la mano è chiusa e tocca il pavimento, quasi arreso. O, ancora, un’altra fotografia: quella delle gambe sofferenti, magre, a ricordo di una bellezza virile mai dimenticata (incorniciata in un ritratto, non proprio riuscito, di Larry nudo attaccato a una corda in un lago o un fiume). Queste immagini costituiscono una sorta di visione gnostica toccata dalla grazia (molto vicina al concetto d’amore di Agostino d’Ippona, il berbero [Hannah Arendt: Il concetto d’amore in Agostino; SE, 2004]), che riporta alla scaturigine dell’amore degli Uomini che vogliono vivere in felicità e abbandonati a desideri di giustizia di una realtà sconosciuta. Ci sono due fotografie straordinarie di Larry, nudo, che tiene tra le gambe le figlie, nude. La prima, quella dove le mani del padre sono appoggiate sul corpo efebico della bambina, è di una bellezza sacrale... riconduce il bene e la giustizia nella propria purezza originaria, esterna a ogni forma moralistica che abbraccia l’ordine delle cose; la madre-fotografa sembra cercare la nobiltà dell’amore come espressione di libertà, dalla quale provengono tutte le indicazioni del cuore. L’immagine non è soggetta a una rigida determinazione del vivere insieme e rimanda a una visione spontanea del nuovo, a un pensiero che va controcorrente. Una persona è veramente libera solo se si libera del personaggio e va a se stessa. La fotografia, e il suo destino, è nel congedo dal palcoscenico dello spettacolare integrato e nei legacci etici/estetici che riesce a strappare con irriverenza dell’ordine costituito. Nell’altra immagine, Larry ab-
braccia le figlie... sono tutti nudi... una bambina ha la testa reclinata su una coscia del padre, l’altra ha un’aria svagata ed è frapposta tra le sue gambe... lo sfondo è un sentiero di campagna appena illuminato. È una grande icona sulla tenerezza, un’adesione veritiera alla realtà della famiglia di Sally Mann, quasi un religioso ascolto all’incanto di un momento, un ritorno a una ingenuità vissuta che riscopre il primato dello spirito dionisiaco come sorgente di liberazione. Larry abbraccia pudico le figlie; figura un universo elegiaco, senza schemi prefissati, pervaso da una malinconia del desueto che si dispiega nella fotografia come una nascita e sconfigge ogni malvagità o ignoranza antropologica d’imparare a vivere come a morire senza dio e senza patria, anche. La fotografia esiste per generare libertà, e i fotografi debbono essere all’altezza di tale destinazione: non è mai troppo tardi per fare un brindisi alla vita con l’insolenza della creatività e della libertà che la incastona tra gioco e sogno. Ancora una fotografia, quella di una figlia di Sally Mann, ancora su una strada di campagna, quasi buia. La ragazzina ha i capelli biondo grano; dietro, sfocato, c’è un ragazzo sui trampoli; accanto, la sorellina, di spalle, con le mani sui fianchi. La ragazzina guarda decisa in macchina, ha un vestito bianco e un braccio alzato con una sigaretta spenta tra le dita: il desiderio di conoscere questo attimo sospeso sulla vita quotidiana si trasforma in ponte, nel non-ancora del presente che conferisce eternità del bene... forse uno smarrimento del sé, anche. Poiché la fotografia è tale e quale all’oggetto del proprio amore, il presente è ridotto al desiderio del futuro che divora il tempo e lo consegna all’amore nudo di questa vita. Dunque, la libertà di amare ed essere amati è il senso di appartenenza alla medesima comunità! Alla comunanza del desiderio di uguaglianza che si contrappone alla fatticità della storia ed eleva la singola persona a bellezza del mondo. Qui Sally Mann riesce a
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Sguardi su rialfabetizzare il linguaggio fotografico, a disertare la cultura codificata delle immagini e organizzare un’immagine imperfetta o, se vuoi, “facile”, in metafora dell’istinto del genio senza truccature… è una lezione di filosofia dell’inadeguato (del contenuto e del senso opposto alla vita liquida), che previene, prepara e suscita la libera risposta della conoscenza come coscienza di sé. La felicità non si concede, si conquista. Tutti gli Uomini sono uguali davanti alla fotografia. L’uguaglianza della situazione implica che tutti gli Uomini sono liberi di prendere nelle mani il proprio destino: questa uguaglianza annulla ogni differenza; e non è solo l’uguaglianza di coloro che vivono insieme, bensì si estende fino all’ultimo profugo in fuga dalle guerre, affogato nel Mediterraneo. La forza esplicita dell’uguaglianza è contenuta nell’amare il diverso da sé,
poiché l’altro -non troppo in fondo- è uguale a te, cioè ha lo stesso passato di straniero. Per questo devi amarlo! Comunità, uguaglianza, fratellanza contengono memoria, lingua e cultura... il vero fine dell’Uomo e della Donna non è quello di trasformare i popoli in cose, ma di costruire il vero bene: né vinti, né schiavi, né supplici da una parte, né vincitori, né padroni, né profeti dall’altra. I santi, gli eroi, i vigliacchi tremano la stessa paura; il linguaggio istituzionalizzato giustifica ogni crimine e solo il genio collerico dell’Uomo in rivolta, che passa dalla resistenza alla liberazione, può sconfiggere la violenza delle parole assassine dei governi. In ogni epoca, la politica di una nazione coincide sempre con l’interesse economico di una minoranza di saprofiti, e la loro attività principale è quella di fare la guerra. La pace si fa con la pace! Maledette le guerre
e le carogne che le fanno. Nella fotografia del bello, del giusto, del buono, la miseria di tutti è rappresentata senza dissimulazione, né assurdità artistiche. Ogni balordo impugna una macchina fotografica o è armato di fucile, fino a quando sussisterà (sotto una qualsiasi forma di governo) una gerarchia di valori, morali, predazioni dei ricchi contro i poveri della Terra; gli esclusi, gli ultimi, gli oppressi dovranno lottare per non perdere tutti i diritti di esseri umani. Nessun Uomo può essere posto al di sopra o al di sotto dell’esistenza comune a tutti gli Uomini; tutto ciò che viene distrutto è cosa da commiserare e va bandito con l’impostura che lo sostiene. «Bisogna avere un caos dentro di sé, per generare una stella danzante. Chissà quante generazioni dovranno trascorrere per produrre alcune persone che riescano a sentire dentro di sé ciò che ho fatto!
E anche allora mi terrorizza il pensiero di tutti coloro che, ingiustificatamente e del tutto impropriamente, si richiameranno alla mia autorità. Ma questo è il tormento di ogni grande maestro dell’umanità: egli sa che, in date circostanze del tutto accidentali, può diventare con la stessa facilità una sventura o una benedizione per l’umanità» (Friedrich Nietzsche: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno; Adelphi, 1976). Occorre preservare l’umanità dai caimani della politica, della finanza, della fede... impedire che i più forti calpestino la dignità dei più deboli... far perdere ai privilegiati i propri privilegi e dedicare l’intera vita all’abbattimento delle disuguaglianze. Solo se si conosce l’imperio dell’oppressione e si è capaci di non rispettarlo, ma di combatterlo fino a farlo crollare, è possibile amare la comunità che viene. Buona fotografia.