Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
Tipa Awards 2017 DI MEGLIO NON CE N’È
Peppino Bruno INFRAROSSO DI MONTAGNA
Vermeer e Caravaggio LEZIONE PER FOTOGRAFIA
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)
Abbonamento a 12 numeri (65,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome
cognome
indirizzo CAP
città
telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO
data
provincia fax
❑ ❑ ❑
Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 1027671617, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito PayPal (Graphia srl)
firma
GIANNI BERENGO GARDIN:
DA
UN
PAESE VENT’ANNI DOPO
prima di cominciare TROMPE-L’ŒIL (CIRCA). Gianni Berengo Gardin, una delle più acclamate eccellenze della fotografia italiana contemporanea, è noto e riconosciuto anche per la propria combinazione con gli apparecchi fotografici Leica, con i quali, decade dopo decade, ha edificato una straordinaria visione del nostro tempo. Ancora, a Gianni Berengo Gardin va assegnato anche il record assoluto di monografie d’autore, nelle quali sono raccolti e ordinati i suoi tanti reportage: a tema, piuttosto che in retrospettiva storica. Tanto che, registriamolo, nel 2014, Contrasto Books ha pubblicato un avvincente Gianni Berengo Gardin. Il libro dei libri (312 pagine 23,5x28,5cm, cartonato; 39,00 euro), che presenta la sua produzione editoriale, scandita al ritmo di oltre duecentocinquanta volumi, in più di cinquant’anni di carriera, dal primo Biagio Rossetti Architetto ferrarese, del 1960, al più recente (allora, nel 2014!) Storie di un fotografo, del 2013.
Al tempo stesso, la realtà della fotografia suscita stupore e timore, meraviglia e solitudine; la caratteristica essenziale della fotografia è la dualità (se vuoi, l’ambiguità) che sempre l’accompagna e è inseparabile dal rovescio del vero. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66 Guardateli questi cambiamenti: una delle chiavi di lettura del Tempo che scorre, della Vita che si svolge. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 47 Perché scrivere una storia di baseball, qui? Anche perché baseball e fotografia sono coetanei: entrambi nati nel 1839! [...] E tanto ci basta. mFranti; su questo numero, a pagina 12
Copertina Una marea di mani si protende verso il candidato (democratico) alle presidenziali statunitensi del 1960 John Fitzgerald Kennedy: Los Angeles, nove settembre (fotografia di Stanley Tretick / Historic Image Licesing). Dalla monografia Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket, in edizione Taschen Verlag, attraverso la quale viene decifrata una storia recente, che va conosciuta e capita. Ne riflettiamo da pagina 42
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
3 Fotografia nei francobolli In questa carrellata non manca, ovviamente, il fondante Un paese vent’anni dopo, del 1973 (Einaudi), rivisitazione di Luzzara, con Cesare Zavattini, a venti anni di distanza dall’originario Un paese, di Paul Strand, del 1955. Qui, tra le pieghe di tante e tante immagini, c’è quella dell’edicolante con la sua offerta commerciale. Da cui... Leica (in forma di trompe-l’œil, forse, quasi) a destra dell’inquadratura: copertina del poliziesco Obiettivo sul delitto, di George Harmon Coxe, con Leica IIc o IIf e mirino universale. Attenzione: il personaggio seriale dell’autore statunitense (1901-1984), il fotogiornalista Kent Murdock, impone spesso copertine con apparecchi fotografici. Una Leica analoga illustra anche Al lampo di magnesio. E poi, a seguire, tante Speed Graphic, soprattutto nelle edizioni originali statunitensi.
Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica della Repubblica Ceca, del 13 marzo 1996, in occasione del centenario dalla nascita di Josef Sudek (17 marzo 1896 - 15 settembre 1976). Si potrebbe affermare che Josef Sudek trovasse la propria identità, soprattutto espressiva, nascosto sotto il panno della sua macchina fotografica a lastre, con immancabile composizione su vetro smerigliato di compiacente intimità
7 Editoriale Tra i tanti accostamenti trasversali a ogni numero della rivista, sempre consapevoli, questa volta sottolineiamo la combinazione tra tecnica e creatività
8 Quel fatidico 42 Una storia di sport, una storia del nostro tempo (in anticipo sulla presidenza Kennedy; da pagina 42), una storia che ha lasciato traccia indelebile nella società
14 Peppino Giovenzana Ricordo di un negoziante che ha interpretato il proprio ruolo commerciale con passione e amore
GIUGNO 2017
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
16 Cabina segnaletica A partire dalla scenografia del film Il lungo addio, di Robert Altman, del 1973, considerazioni in doppio: cabina automatica per fototessera e segnaletica Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XXIV - numero 232 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
19 Che lezione! Insegnamenti sorprendenti da due monografie d’arte: in sintonia di intenti, Vermeer. L’opera completa e Caravaggio. L’opera completa anticipano creatività finalizzabili anche alla fotografia. Hai detto poco...
26 Definizioni incerte Oltre il capitolato dei vincitori ai prestigiosi e qualificati Sony World Photography Awards 2017, considerazioni riguardo il senso di appartenenza dell’immagine
34 Infrarosso di montagna Peppino Bruno è un valente fotografo (non professionista) che arriva da un cammino autorevole, oltre che cadenzato nel tempo. Fotografia riflessiva, a lungo meditata, realizzata seguendo procedure che affondano le proprie radici indietro nei decenni. E rispettose di Angelo Galantini
42 Epopea Kennedy Conoscere e capire la storia recente: Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket di Maurizio Rebuzzini (... Lello Piazza)
49 Di meglio non ce n’è Quaranta eccellenze fotografiche in stretta attualità tecnologica: ecco qui gli ambìti TIPA Awards 2017 di Antonio Bordoni
58 Rumore di tuono Viaggio nel tempo, uno dei tanti (e belli) proposti dalla fantascienza, con conseguenze in avanti nei millenni. Probabilmente, alle origini dell’effetto farfalla racconto fantascientifico di Ray Bradbury
64 Menotti Paracchi
Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Ray Bradbury Peppino Bruno Alberto Dubini mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Giuliana Scimé Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Sguardi sulla fotografia in forma di poesia di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
www.tipa.com
Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato
di Alessandro Mariconti
via Foppa 40 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it
w w w. p h o t o 4 0 . i t
editoriale T
AWARDS 2017
CARAVAGGIO: DECOLLAZIONE DEL BATTISTA JAN VERMEER: THE MILKMAID
anto vale essere chiari ed espliciti, per suggerire una chiave interpretativa della successione di pagine che, mese dopo mese, definiscono l’avvicendamento e collegamento degli argomenti presentati sulla rivista, quantomeno su questa rivista, compilata con una sostanziosa attenzione redazionale di similitudini e/o contrapposizioni... volontarie, quanto consapevoli. Alcune sono spesso evidenti, per rimando esplicito: riferendoci a questo stesso numero, è il caso dell’approfondimento della Teoria del Caos, a completamento delle considerazioni a proposito dell’influenza dei microcambiamenti sulla Storia [a pagina 46]; nello specifico, in richiamo alla presidenza di John F. Kennedy, all’alba degli anni Sessanta. In analogo rapporto, in analoga connessione, dalla Teoria del Caos all’origine presunta della locuzione effetto farfalla, rintracciabile in un avvincente racconto fantascientifico di Ray Bradbury, che proponiamo da pagina cinquantotto. E questi rimandi in andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità, si trovano in ogni numero di questa rivista, compilata anche per adiacenze e vicinanze dovute e doverose. Poi, oltre le evidenze esplicite, c’è anche qualcosa che si manifesta, diciamola così, sottotraccia: ovvero, con modalità trasversali, il cui insieme compone tratti di una visione e concezione sovrastante. Se riusciamo a sintonizzarci, come sarebbe opportuno che accadesse, segnaliamo un allineamento voluto su quella che intendiamo come base fotografica di approccio e atteggiamento: tecnica e creatività. Curiosamente, ma neppure poi tanto, per quanto in una fogliazione che le tiene distanti, abbiamo volontariamente accostato due considerazioni a nostro intendere coincidenti: da una parte, il protocollo dei TIPA Awards 2017, assegnati a quaranta prodotti fotografici di eccellenza tecnologica [da pagina 49]; dall’altra, siamo tornati sui valori di educazione creativa, alla luce delle fantastiche lezioni compositive e raffigurative di pittori fondamentali nella Storia dell’Arte [Jan Vermeer e Caravaggio; da pagina 19]. Accostamento ardito? Forse, sì; forse, no. Sì... se ci si ferma all’apparenza a tutti evidente, che tiene lontane le due rispettive considerazioni. No... se si approfondisce, accettandolo nella propria universalità, il valore e concetto di tecnica-e-creatività. Infatti, in ripetizione d’obbligo da quanto osservato là dove necessario, mentre l’immagine (anche fotografica) che alimenta la Rete esemplifica lo smodato desiderio di divertimento volgare che domina il nostro presente, con manifestazioni collettive e individuali che rappresentano una forma grossolana di intrattenimento che va incontro a un gusto infantile, l’approfondimento culturale è ben altro, e sta alla base dell’azione fotografica che si esprime con profondità di intenzioni ed esecuzioni. I fotografi possessori, oltreché di apparecchi e obiettivi, anche delle cognizioni necessarie per adoperarli bene e al meglio, sono fatalmente avvantaggiati. Sapersi muovere con sicurezza tra le condizioni generali del lavoro e le applicazioni eventualmente particolari è un dovere etico e un diritto personale. Maurizio Rebuzzini
Tecnica e creatività. I fotografi possessori, oltreché di apparecchi e obiettivi, anche delle cognizioni necessarie per adoperarli bene e al meglio, sono fatalmente avvantaggiati. Sapersi muovere con sicurezza tra le condizioni generali del lavoro e le applicazioni eventualmente particolari è un dovere etico e un diritto personale.
7
Anche questo di Maurizio Rebuzzini (Franti)
F
QUEL FATIDICO 42
Figuriamoci se ci interessa il clima sdolcinato e caramelloso da libro Cuore. Ancora di più, figuriamoci se questa stessa condizione ci attira, qui, in questo spazio redazionale, da tempo attribuito all’alter ego Franti: confortati dall’ammirevole Elogio, di Umberto Eco [FOTOgraphia, dicembre 2013], a nostro modo di vedere l’unica figura decorosa dell’intera quantità di personaggi del libro di Edmondo De Amicis. Dunque, per tutto questo, e altro ancora, non siamo stati minimamente coinvolti dalla disperazione dell’anonimo bambino (poi individuato), colta dalle telecamere all’avvio del Gran Premio automobilistico di Formula 1 di Montmelò, in Spagna, vicino a Barcellona, dello scorso quattordici maggio. Sconfortato per l’uscita di pista del ferrarista Kimi Raikkonen, la cui corsa si è interrotta alla prima curva, è stato invitato nei box della casa di Maranello, per un abbraccio con il suo eroe: tutto a furor di telecamere e ripetizione nei telegiornali della domenica sera. Sì, lo sappiamo bene, ci sono momenti di sport che, nonostante la piega ormai generalizzata, confortano lo spirito: quando e per quanto rivelano comprensività oltre gli schemi prestabiliti. Ma, quando si cade nello sdolcinato, andiamo in ansia, e intravediamo intenzioni e svolgimenti subdoli, ai quali non prestiamo alcuna attenzione. A completa differenza, ci sono e ci sono stati altri lampi illuminanti. Uno lo raccontiamo, oggi e qui, perché appartiene a pieno diritto alla storia sociale dei nostri tempi, all’evoluzione del pensiero, al faticoso cammino verso l’accettazione e comprensione di tutti, a partire dal (presunto) diverso da noi. Per comprendere ciò che stiamo per raccontare -indotti a farlo anche dal nostro apprezzamento del baseball statunitense, soprattutto di quello leggendario, fino a tutti gli anni Cinquanta-, bisogna immergersi in climi sociali assolutamente diversi dai nostri attuali, entro i quali, oggigiorno, diamo per scontate tutte le condizioni acquisite. Tanto che le sceneggiature cinematografiche e televisive (statunitensi), che riprendono
8
Jackie Robinson Day, sabato 15 aprile 2017: a settant’anni dall’esordio nella Major League Baseball del primo giocatore afroamericano, che infranse le barriere della segregazione nello sport. Come tradizione, il numero 42 di Jackie Robinson, personalità significativa nella storia della squadra, è stato ritirato dai Dodgers (in origine, di Brooklyn; oggi, a Los Angeles). Quindi, in onore al valore simbolico della sua presenza nella Major League, dal 15 aprile 1997, nel cinquantenario, lo stesso numero 42 è stato ritirato da tutte le squadre del campionato. Dal 15 aprile 2004, di prima edizione, ogni anno, il baseball statunitense celebra il Jackie Robinson Day: tutti i giocatori, di tutte le squadre, giocano con il numero 42 sulla schiena. Dall’alto: scenografia al Dodger Stadium, di Los Angeles; i Dodgers schierati prima della partita (militano nella West Division della National League); l’omaggio degli Atlanta Braves, al SunTrust Park (militano nella East Division della National League); gli Yankees scendono in campo, al nuovo Yankee Stadium, di New York (militano nella East Division dell’American League).
Francobollo statunitense commemorativo di Jackie Robinson (2 agosto 1982), della serie, distribuita nel tempo, di Black Heritage (Patrimonio nero / Eredità nera; a tutt’oggi, quaranta soggetti); altri analoghi ce ne sono, oltre l’identificazione Black Heritage, per giocatori significativi nella Storia: per esempio, Lou Gehrig, a pagina 13, ognuno realizzato autonomamente. Il soggetto Jackie Robinson riprende una delle sue spiccate caratteristiche di gioco, quella di “rubare” le basi, forzando l’azione d’attacco: nello specifico, da un’azione di gioco del 1948, al leggendario Ebbets Field, di Brooklyn, sul ricevitore avversario, che protegge la propria casa base.
anche dalla vita, sono ormai popolate di personaggi e protagonisti afroamericani, assenti nei film e telefilm (oggi serie) del passato, anche soltanto prossimo. Per esempio, in nessun episodio delle stagioni di Colombo (esordite negli anni Settanta), alla cui filosofia di fondo riserviamo tanta e tanta considerazione [approfondita in FOTOgraphia, del maggio 2016], è mai comparso un personaggio afroamericano, anche minore, anche di complemento. Specchio della vita quotidiana, da tempo, le sceneggiature hanno sdoganato poliziotti ispanici, al femminile, omosessuali... che un tempo non erano affatto contemplati: sia sullo schermo, sia, e tantomeno, nella realtà. Dunque, sia chiaro e consapevole: molto di quanto caratterizza il presente è conquista sociale sostanziosamente recente. Per cui, eccoci qui, con una rievocazione dal mondo dello sport (statunitense), in chiave sociale. Come anticipato, parliamo di baseball. Forse. All’indomani della Seconda guerra mondiale, durante la quale, tra le fila dell’esercito statunitense, l’apporto di soldati afroamericani fu consistente, nel quotidiano della nazione persistevano segregazioni odiose: tanto per ricordarlo, la celebre fotografia di Elliott Erwitt, che raffigura un doppio lavandino alla parete, uno riservato “White” e l’altro assegnato “Colored” -ovviamente con finiture di servizio diverse/discriminate-, è stata ripresa in North Carolina, nel 1950 (ribadiamo, 1950!). Analogamente, anche lo sport applicava separazioni nette e distinte: allora, la massima divisione del baseball professionistico statunitense, la Major League Baseball -da sempre, scomposta in American League e National League, attualmente di quindici squadre ciascuna, con propri campionati paralleli e coincidenti e World Series conclusive, per attestare la squadra vincitrice della stagione-, era riservata a giocatori bianchi. Gli afroamericani potevano militare soltanto in squadre loro riservate, che giocavano in altri campionati, riconosciuti nel contenitore di una infamante Negro League, attivi fino a tutto il 1958 (non è di errore di scrittura, in vece di 1858: proprio, 1958… Millenovecentocinquantotto!), con estensione ufficiosa fino al 1966. Nel 1947, le squadre delle due League erano sedici in totale, ciascuna
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Anche questo
9
Anche questo BABE RUTH, IL PIÙ GRANDE DI TUTTI... I TEMPI
Nato George Herman Ruth, a Baltimora, il 6 febbraio 1895, Babe Ruth è il più leggendario giocatore di baseball di tutti i tempi. Ha indelebilmente definito gli anni Venti del baseball statunitense. La sua fama di giocatore è legata alla forza in battuta, in fase di attacco. Il suo curriculum segnala settecentoquattordici fuori campo: record dal 1935, che ha resistito fino alle più moderne imprese di Hank Aaron della metà dei Settanta. Babe Ruth ha spedito settecentoquattordici volte la pallina oltre la recinzione che delimita il terreno di gioco, a più di centoventi metri dal box di battuta. Babe Ruth uscì di scena nel 1935, dopo ventuno anni di attività. Tornò allo Yankee Stadium, lo stadio che venne costruito proprio per ospitare i tanti sportivi che volevano assistere alle sue gesta, lo stadio teatro delle sue memorabili imprese, il 13 giugno 1948, per una partita di addio: allo sport e alla vita. Fu un pomeriggio di grande commozione. Tutti erano coscienti di avere di fronte un uomo atrocemente minato dallo spietato tumore che un paio di mesi più tardi, il sedici agosto, lo avrebbe definitivamente vinto: questa sarebbe stata la sua ultima apparizione pubblica. Tra le tante fotografie scattate quel giorno, una -di Nat Feinha vinto l’ambìto premio Pulitzer; lei pure appartiene ormai al mito. È una storia da raccontare. In quel pomeriggio del 13 giugno 1948,
Babe Ruth, palesemente malato, uscì dalla buca degli Yankees e si avviò lentamente verso il box del battitore, a casa base. L’intera squadra degli Yankees si era schierata per onorare il suo più leggendario giocatore, nel giorno dell’addio. Babe Ruth avanzava: la sua imponente figura con le larghe spalle incurvate appoggiata sulla mazza per sostenersi. Venticinque fotografi erano presenti per documentare la cerimonia del Babe Ruth Day. Come tutti, Nat Fein fotografò quanto stava succedendo, ma sentiva che nessuno scatto effettuato era adeguato all’avvenimento, nessuno lo raccontava. Staccatosi dal gruppo dei fotoreporter schierati di fronte, Nat Fein si portò dietro il box di battuta. Mentre Babe Ruth salutava per l’ultima volta il suo pubblico, vide l’immagine-sintesi dell’intera giornata. La casacca con il numero “3” sulla schiena non sarebbe stata più usata dagli Yankees, e da quel punto di vista l’inquadratura era pronta: con Babe Ruth che si toglie il berretto e si inchina agli spalti. Nat Fein si ricordò una delle esortazioni del picture editor Richard Crandell, che spesso raccomandava di scattare senza flash, quando la luce naturale fosse appena sufficiente. Nat Fein impostò il diaframma a f/5,6 e regolò l’otturatore della sua Speed Graphic a 1/25 di secondo: scattò senza flash.
Il momento è struggente. È l’addio di Babe Ruth, il più grande di tutti, al suo pubblico: 13 giugno 1948, ultima partita celebrativa. Questa fotografia di Nat Fein, per il N.Y. Herald Tribune, ha vinto il premio Pulitzer del 1948.
10
Anche questo
Nel museo della Baseball Hall of Fame, di Cooperstown, è conservata la casacca originaria di Jackie Robinson, con la dizione “Dodgers” (partite casalinghe) e la presenza del leggendario numero 42. A seguire, l’allora presidente della Repubblica Barack Obama, in visita al museo dei Dodgers, oggi a Los Angeles, davanti a una riproposizione mercantile della casacca di Jackie Robinson, e una vignetta che sottolinea l’accoppiamento sociale della sua presidenza (quarantaquattresimo presidente: dunque, 44) con il primo afroamericano della storia del baseball, una volta ancora con visualizzazione di un gesto atletico caratteristico (in filatelia statunitense, a pagina 12).
composta da una rosa di venticinque giocatori (per regolamento, che possono arrivare a quaranta nelle settimane di precampionato e nelle partite amichevoli a fine stagione); dunque, al via, si presentarono quattrocento giocatori. Per la prima volta, non tutti furono “bianchi”, perché il quindici aprile, di inizio di campionato, i Brooklyn Dodgers (oggi Los Angeles Dodgers) schierarono il primo giocatore afroamericano della storia del baseball (alla data, Martin Luther King, nato nel 1929, aveva appena diciotto anni). Nella partita di esordio contro i Boston Braves, al mitico Ebbets Field, di Brooklyn, in prima base, fu schierato il ventottenne Jack Roosevelt Robinson (Jackie Robinson, nel quotidiano; 19191972), dal quale si conteggia l’abbattimento dell’insostenibile barriera sociale (Jackie Robinson è entrato nella Baseball Hall of Fame, nel 1962; quindi, è stato conteggiato tra le cento personalità più importanti del Ventesimo secolo, in una retrovisione di Time Magazine, del 1999 [FOTOgraphia, dicembre 1999: edizione speciale Salviamo il salvabile di fine secolo/millennio]. Non entriamo nel merito delle qualità del giocatore, che fu certificato miglior esordiente dell’anno (e, poi, avanti, miglior giocatore della National League, nel 1949), soprattutto in fase di attacco (in battuta, come in corsa sulle basi), e neppure approfondiamo la lungimiranza del general manager dei Brooklyn Dodgers, Branch Rickey, uno degli innovatori del baseball (suo fu anche il contratto del portoricano Roberto Clemente, il primo ispanoamericano a entrare nella Baseball Hall of Fame, nel 1973), perché il nostro non è spazio adeguato a farlo. Però, è opportuno raccontare una storia di sport. Lo stiamo per fare, non prima di aver sottolineato che il campionato di esordio di Jackie Robinson fu tutt’altro che semplice: minacciato di morte, sistematicamente ingiuriato dal pubblico e dagli avversari (note e leggendarie le continue invettive, gli scherni, gli attacchi verbali e le derisioni di “Ben” Chapman -all’anagrafe, William Benjamin Chapman-, allenatore dei Philadelphia Phillies), dovette conquistare a caro prezzo il riconoscimento delle proprie qualità sportive. Comunque, la storia è questa, e si basa sul ritiro del numero di casacca di quei giocatori che hanno segnato
11
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (6)
Anche questo
12
Anche questo Baseball in filatelia statunitense, con richiamo alla fotografia ispiratrice, sintesi di gesti atletici caratteristici dei singoli giocatori, ognuno dei quali è simbolo di un’epoca, di un’etica, di un affascinante approccio alla vita, che ha anche arricchito esistenze singole (tra le tante, la nostra): Jackie Robinson, del quale oggi e qui abbiamo evocato le gesta e l’influenza sociale, estratto dal foglio Souvenir degli anni Quaranta del Novecento (18 febbraio 1999; in una edizione di dieci decenni del Secolo, sintetizzato alla fatidica data del Duemila: fine anno, fine decennio, fine secolo, fine millennio [ FOTOgraphia, dicembre 1999]); Babe Ruth, dal foglio degli anni Venti del Novecento (28 maggio 1998, appena commentato); Lou Gehrig, in celebrazione autonoma (10 giugno 1989); ancora, Babe Ruth, in celebrazione autonoma (6 luglio 1983), dalla medesima fotografia già utilizzata per il francobollo degli anni Venti del Novecento (l’ultima partita con gli Yankees, contro i Washington Senators, al Griffith Stadium, il 30 settembre 1934). A questo punto, una domanda potrebbe essere plausibile: perché richiamare tanto e tale baseball in una rivista ufficialmente e statutariamente indirizzata verso la fotografia? Tra le tante risposte possibili, tutte lecite, una è fondante: perché, per nostra intenzione esplicita e dichiarata, la Fotografia non è mai arido punto di arrivo, ma sempre fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Verso la Vita. Per la Vita.
capitoli fondamentali nel corso degli eventi di ogni squadra di baseball (oggi, lo stesso accade nel calcio italiano, una volta adottati numeri individuali e non di ruolo, da Uno a Undici, come in passato). Jackie Robinson è stato il numero Quarantadue (42) dei Brooklyn Dodgers, dal suo esordio del 15 aprile 1947 fino all’ultima partita del campionato 1956, terminato il dieci ottobre. Per l’eccezionalità della sua personalità, il 4 giugno 1972, quattro mesi prima della sua prematura scomparsa, il ventiquattro ottobre, a cinquantatré anni, i Dodgers hanno ritirato il numero 42. Quindi, ancora, nel cinquantesimo anniversario del suo esordio, e in suo onore, il 14 aprile 1997, lo stesso numero 42 è stato ritirato da tutte le squadre della Major League Baseball statunitense; unica deroga per il lanciatore Mariano Rivera, per vent’anni con i New York Yankees, che ha concluso la sua carriera il 22 settembre 2013, che già giocava con il 42 sulla casacca. Ma non è ancora tutto: dal 15 aprile 2004, ogni anno, il baseball statunitense celebra il Jackie Robinson Day. Lo scorso quindici aprile, è stata commemorata la quattordicesima edizione, nel settantesimo anniversario, che ha ripetuto il protocollo: tutti i giocatori, di tutte le squadre, hanno giocato con il numero 42 sulla schiena. Comunque, e in chiusura, perché scrivere una storia di baseball, qui? Anche perché baseball e fotografia sono coetanei: entrambi nati nel 1839! La fotografia si conteggia dalle date ufficiali di annuncio e presentazione del processo dagherrotipico originario di Louis Jacques Mandé Daguerre, sette gennaio e diciannove agosto, a Parigi; il baseball, dalla prima referenza nota al gioco, in estate, a Cooperstown, nello stato di New York, dove ha oggi sede la Baseball Hall of Fame. Ricostruzioni che si sono rivelate inesatte attribuiscono l’invenzione del baseball a Abner Doubleday, successivamente eroe della guerra Civile americana. Improbabile: perché, nel 1839, era ancora cadetto alla United States Military Academy, di West Point, Contea di Orange, nello Stato di New York; e, comunque, non ha mai sostenuto di avere nulla a che fare con il baseball. Nonostante questo, la storiografia continua a sostenere la data del 1839 e la referenza di Cooperstown. E tanto ci basta. ❖
13
Il dovere del ricordo di Maurizio Rebuzzini (con Giuliana Scimé)
PEPPINO GIOVENZANA
14
ALBERTO DUBINI (2)
T
Tra tante dimenticanze e altrettanta nebbia, ricordo bene quando e come ho conosciuto Peppino Giovenzana, negoziante milanese che ha contribuito a scrivere pagine importanti del commercio fotografico in Italia, a partire da quegli intensi anni Sessanta durante i quali le reflex giapponesi tracciarono linee conduttrici che si sono allungate in avanti. Di nome e fama, lo conoscevo da tempo, dal 1969 di impiego estivo (per quanto ignorante della materia) presso un altro celebre negoziante milanese, Artioli, di piazza Venticinque aprile, a Porta Garibaldi. Allora, a Milano, i riferimenti di spicco erano in sostanziosa quantità: Centro Foto Cine e Matuella, su corso Buenos Aires, rispettivamente verso le estremità di piazzale Loreto e Porta Venezia; Photo Discount, in piazza De Angeli, da tutt’altra parte; Sansò, nella centrale via del Broletto; Eurottica, lì a due passi, in via Cusani; Kino, ancora in centro città, all’angolo tra via San Vittore e via De Amicis, a ridosso della Basilica di Sant’Ambrogio; Ottica Maciacchini (Rosa Asnaghi!), nell’omonima piazza, tra l’altro vicina al mio domicilio di allora (e oggi, ancora); e... Giovenzana, nell’altrettanto centrale via Durini, nei pressi di piazza San Babila. Al banco delle pellicole di Artioli, sentivo parlare di Giovenzana come di un temibile e agguerrito concorrente, capace di ricevere la clientela di più alto casato della città: avvocati, notai, imprenditori e liberi professionisti di rango, residenti e/o operanti nelle vie più facoltose della città. Poi, a distanza di tre o quattro stagioni, concluso l’iter scolastico con un diploma professionale, per una serie di circostanze, approdai alla fotografia, attraverso la porta delle riviste di settore: ne ho già raccontato, in occasione del quarantesimo anniversario, nel settembre 2012, e non serve ripetere. Comunque, dopo qualche mese nella redazione di Clic, di Massimo Casolaro, appena approdato nella scuderia Etas Tempo Libero, nel settembre 2013, passai al mensile Photo 13,
Il dovere del ricordo Mancato lo scorso undici dicembre, Peppino Giovenzana (qui in un ritratto del 2015, nei pressi del suo più recente indirizzo commerciale di via Fontana, a Milano, accanto al Tribunale) è stato uno dei più eccellenti riferimenti di spicco del mercato fotografico italiano, che -dagli anni Sessanta di grandi entusiasmisi è allungato fino ai nostri giorni. A Milano, in centro città, le sue vetrine originarie, in via Durini, e quelle successive, di largo Augusto, hanno animato la personalità mercantile con iniziative espositive rivolte alla promozione dell’esercizio fotografico. In particolare, va registrato l’intenso programma Images on the Road, che per anni e anni ha vivacizzato le numerose vetrine di largo Augusto, a due passi da piazza San Babila e, perché no?, piazza del Duomo.
diretto da Ando Gilardi e Roberta Clerici. Sia per prossimità fisica -da corso Venezia 18 a via Durini 10 saranno poco più di seicento metri-, sia per comunione di intenti fotografici, Peppino Giovenzana era allora vicino alla redazione, che gli si rivolgeva per ogni vicenda tecnica, caratterizzata da tempi e modi assai più cadenzati degli attuali, frenetici e compulsivi. Così, avviando una serie di interviste a negozianti, sollecitati a esaminare clinicamente il mercato, partii proprio da Peppino Giovenzana: e quello fu il nostro primo incontro. Nella primavera 1974, all’interno dei suoi locali di vendita, e all’esterno, per i rituali ritratti con l’insegna mercantile sul fondo dell’inquadratura. Ma non sono i ricordi personali che possono stabilire la dimensione e il valore di Peppino Giovenzana e della sua lunga presenza commerciale (e non soltanto). Questi ricordi sono personali, e tali debbono rimanere nel cuore. Soltanto, annotando l’aspetto pubblico, storicizziamo ancora che il negozio -nel frattempo trasferitosi in largo Augusto, a un centinaio di metri dalla sede originaria, in spazi via via incrementati, che per decenni è stato uno dei riferimenti privilegiati del commercio fotografico italiano- è stato chiuso nelle settimane precedenti il Natale 2009 da coloro i quali avevano preso in mano le redini di un’attività pluridecennale. La vicenda aziendale è complessa, e non entriamo in merito: ci sono ragioni e responsabilità. Ognuno si faccia carico delle proprie. Personalmente, rileviamo un aspetto trasversale, complementare: le persone. Indipendentemente dalle ufficialità che hanno impegnato una controversa situazione, Nicoletta e Giuseppe Giovenzana, Peppino nel quotidiano, sono stati abbandonati a se stessi, privati della dignità che spetta a ciascuno. Diavolo! In televisione assistiamo ad autodifese di personaggi coinvolti in turpi questioni (certe e accertate), ai quali si dà tempo e modo di dire la propria, e i Giovenzana hanno dovuto stare con se stessi, perché il mondo della fotografia li ha emarginati, a partire da coloro i quali (e sono tanti) hanno tratto consistenti benefici dalla loro generosità: non ci riferiamo soltanto al mondo commerciale, che persegue proprie regole, ma ci allarghiamo fino a quello di contorno, che
dovrebbe seguire altri parametri. Individualmente, noi siamo stati tra i pochi che li hanno frequentati ancora e ascoltate le loro ragioni: che sono state giusto tali, ragioni. Da qui, riprendiamo una considerazione/riflessione compilata da Giuliana Scimé, autorevole critica e storica della fotografia, attenta a ogni sua personalità, anche quotidiana, che ospitammo nel maggio 2010. La ripetizione è utile nella propria consistenza e partecipazione emotiva. Nicoletta e Peppino Giovenzana mi hanno scritto una bellissima lettera, così intima di sentimenti e delicata che sarebbe violazione pubblicarla per intero. Riporto solo una piccola parte: «... dietro c’è l’essere escluso da un mondo di affascinante tecnologia, di incontri, soprattutto di incontri con le immagini fotografiche spesso attraenti, sempre rivelatrici di aspetti di vita e di luoghi che l’occhio non ha visto bene. Il negozio è un palcoscenico sul quale ogni giorno interpreti la verità tecnologica e condividi l’emozione delle immagini fotografiche. Dal minilab escono strisce chilometriche di fotografie che ti arricchiscono, ti informano, ti aprono al dialogo con la clientela della cui vita già conosci alcuni dati essenziali e inequivocabilmente veri. «Questo non è un lavoro, ma una continua gratificazione». Il glorioso negozio Giovenzana ha chiuso, una storia brutta e triste che ha un risvolto egoistico per tutti coloro che lo frequentavano: il punto d’incontro non c’è più. Con questa lettera, Nicoletta e Peppino Giovenzana hanno voluto esprimere il loro ringraziamento per un mio articolo che fu pubblicato sul Corriere della Sera in occasione di una mostra del ciclo Images on the Road, un’iniziativa particolare: fotografie esposte nelle vetrine del negozio che ogni passante poteva apprezzare. Io non fatto nulla, il mio dovere di critico/giornalista che ha il privilegio di scrivere per la testata più prestigiosa d’Italia, e una delle più prestigiose internazionali. E come prezioso dono ho ricevuto questa lettera dalla quale emergono una serie infinita di considerazioni. Moltissimi hanno approfittato della generosità, meglio di quella uni-
cità gioiosa e spontanea nel donare senza chiedere nulla in cambio che caratterizza i Giovenzana. Non discutiamo di quei “moltissimi” che non soffriranno per la mancanza di un punto d’incontro, ma soffriranno per la mancanza di beni materiali. Mettiamo a fuoco, invece, come i Giovenzana hanno vissuto il loro lavoro, e credo che veramente pochi possano considerare il lavoro non lavoro, ma “gratificazione”, quasi fosse un favore del Cielo. Cosa soprattutto affligge i Giovenzana per la perdita del negozio? «... l’essere escluso da un mondo ... l’emozione delle immagini fotografiche ... strisce chilometriche di fotografie che ti arricchiscono, ti informano, ti aprono al dialogo ...». Li affligge la “perdita” dell’immagine. La fotografia che bella o brutta (e si spera bella), comunque, è regalo costante che tiene vivi e vivaci, la mente ed il corpo. Non so come esprimermi. La fotografia ci tiene legati al tempo, non al tempo che passa e odio tutti coloro che la definiscono “momento di morte”, al contrario: il personaggio, anonimo che sia, il luogo... rimangono impressi per sempre in una vita che non può morire mai. È il tempo dell’attualità che ogni secondo è attuale in un rinnovarsi senza sosta. Non mi riferisco soltanto al fotogiornalismo che produce eventi e fatti, mi riferisco a tutta la fotografia. E non importa che sia datata - abbigliamento, monumenti scomparsi o degradati, luoghi che hanno cambiato volto... denunciano l’età. È guardare, prendere coscienza ed assorbire quali vampiri immortali, nutrirsi di immagini/cibo, conoscere e capire, e tutta la gamma delle interiori pulsioni. Vi siete mai chiesti perché i fotografi, e tutti coloro che ruotano nel mondo della fotografia, sono fra i più longevi nelle arti? Ogni secondo assorbono linfa vitale. Peppino Giovenzana è mancato a fine dello scorso anno, domenica undici dicembre. Non è stato facile per me affrontare il suo ricordo... ma non potevo esimermi dal farlo, in onore alla nostra frequentazione, intensificatasi negli ultimi anni. Una mancanza sentita. ❖
15
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
CABINA SEGNALETICA
G
Giudizio personale, opinione personale... non per questo meno meritevole di altre considerazioni al proposito. Tra le trasposizioni cinematografiche dal personaggio seriale di Raymond Chandler -l’investigatore privato Philip Marlowe-, per noi, il film Il lungo addio, di Robert Altman, del 1973, è il più efficace e apprezzabile. Soprattutto, a differenza di sceneggiature precedenti, che non si sono allontanate dal clima originario della narrazione romanzata, questa (firmata da Leigh Brackett) si avvale di una regia di grande valore. Infatti, indipendentemente dal soggetto affrontato -in chiave noir, in chiave poliziesca-, e svincolato dalla datazione, che qui si svolge negli anni Settanta di produzione (mentre il libro racconta degli anni Cinquanta), Il lungo addio, di Robert Altman, ribadisce la satira degli stereotipi (soprattutto hollywoodiani) tanto cara al regista: per citare altri film, M.A.S.H., del 1970, I compari, del 1971, Nashville, del 1975, Buffalo Bill e gli indiani, del 1976, America oggi, del 1993, e Prêt-à-Porter, del 1994. Almeno questi. Ovviamente, tale e tanto esito psicologico di dislocamento culturale, in una California contemporanea e sorniona, è sottolineato da una efficace fotografia (non quella che intendiamo tra noi, ma quella scenografica del cinema), firmata da Vilmos Zsigmond, basata su una restituzione filmica volontariamente poco brillante e scialba, con cromatismi deboli/indeboliti, ottenuti con un negativo esposto parzialmente, oltre che da riprese attraverso filtrature prossime al naturale: per esempio, attraverso vetri di finestra. Allo stesso momento, non può essere sottovalutata l’interpretazione di un Elliott Gould, nei panni di Philip Marlowe, particolarmente furbastro, finto tonto e sospeso a qualche centimetro da terra. Tanto che, rileviamolo prontamente, il film inizia in una calda notte californiana, con l’investigatore privato Philip Marlowe alle prese con il proprio gatto sdegnoso e sofisticato, fino allo snobismo, che distingue il cibo che gli viene proposto, nonostante il cambio di contenitore,
16
in favore della marca da lui preferita. Ma nulla di tutto questo, necessario per contestualizzare, riguarda o interessa il nostro particolare punto di vista mirato e votato, che rileva e registra la presenza della fotografia (questa volta, la nostra) all’interno della cinematografia, sia in consistenza sceneggiata, sia in attraversamento scenografico: e questo passaggio/incrocio, assolutamente trasversale, è giusto quello che individuiamo e, presto, riportiamo tra le pieghe sceniche del film Il lungo addio, di Robert Altman. In un frangente nel quale Philip Marlowe (Elliott Gould) viene fermato dalla polizia di Los Angeles, l’immancabile segnaletica fronte/profilo non è realizzata secondo i canoni consueti (che al cinema stabiliscono anche il tormentone iniziale e introduttivo del film Arizona Junior, in originario Raising Arizona, dei fratelli Ethan e Joel Coen, del 1987 [FOTOgraphia, settembre 2006]), ma realizzata in una cabina automatica -Photobooth, negli Stati Uniti di nascita-, adattata allo scopo, con passaggio previsto e preordinato tra il ritratto frontale e i profili di complemento. In definitiva, è tutto (e solo?) qui. Da cui, come doveroso, un supplemento di considerazioni e, magari, approfondimento. Infatti, è opportuno annotare come e quanto la fotografia segnaletica sia un capitolo avvincente e affascinante del lungo tragitto della fotografia: come e quanto, e per quanto, influisce / ha influito sulla vita. Riprendiamo da nostre precedenti considerazioni, per le quali rimandiamo soprattutto a FOTOgraphia, del marzo 2007. Fin dalla propria nascita, la fotografia è stata usata anche con e per scopi giudiziari e di polizia; per esempio, per identificare e schedare i fuorilegge. Ancora oggi, negli Stati Uniti, la funzione segnaletica della fotografia è fondamentale: chiunque venga accusato di una qualsiasi infrazione viene immediatamente registrato, di fronte e di profilo. Dunque, e a conseguenza, per quanto la fotografia possa anche essere considerata un esercizio inutile (... come la musica di Mozart), nes-
Cinema suno mette in discussione la sua efficacia nell’ambito antropometrico e giudiziario. A parte tanti altri volumi di peso scientifico, a questo proposito, torniamo a riflettere sulla fotografia segnaletica della valida raccolta Mug Shots - Celebrities Under Arrest (Mug, nel senso crudo e volgare di “faccia”), a cura di George Seminara: una brillante raccolta di volti di personaggi famosi immortalati nei dipartimenti di polizia statunitensi nei trent’anni di fine Novecento (St. Martin’s Griffin, 175 Fifth Avenue, New York, NY 10010; 96 pagine 21x14cm). Ci sono tutti, o quasi, da Jane Fonda, che negli anni Settanta mostra orgogliosa il pugno alzato in segno di protesta, alla più recente e celebre immagine di Hugh Grant, sorpreso a Los Angeles sulla sua Bmw in compagnia di una prostituta nera (l’ormai celebre Divine Brown), supina, con la faccia affondata tra le sue (di lui) gambe. La storia della fotografia giudiziaria americana, avviata nella seconda metà dell’Ottocento, è sintomatica, considerata l’estensione del territorio e il sostanziale pionierismo di molte terre. Alla fine degli anni Ottanta (dello stesso Ottocento), i dipartimenti di polizia americani commissionavano i ritratti dei fuorilegge a esperti fotografi, che solo saltuariamente lavoravano per le forze dell’ordine. I risultati erano davvero notevoli: abiti perfetti, volti ben puliti e truccati. Questi fotografi erano interessati non tanto all’utilizzo segnaletico delle immagini, quanto alla realizzazione di prodotti “artistici”. Alla fine del secolo, la polizia statunitense iniziò, quindi, ad assumere fotografi a tempo pieno, in modo da poter classificare i criminali secondo uno standard operativo ripetuto e ripetibile: ritratto di fronte e profilo e relativa annotazione, sul retro delle stampe, dei valori antropometrici di ciascuno (secondo i princìpi stabiliti dal criminologo francese Alphonse Bertillion, un autentico luminare in materia). Oggi, i poliziotti-fotografi prendono sul serio il proprio compito: impegnati sia all’interno dei dipartimenti sia per strada, sui luoghi degli accadimenti, seguono corsi di composizione al fine di rendere assolutamente realistiche e verosimili le fotografie scattate. Sono sempre fotografi anonimi, che però arrivano a realizzare immagini destinate a diventare celebri e a fare il giro del mondo,
La presenza della fotografia nel film Il lungo addio, di Robert Altman, del 1973, si risolve con la segnaletica del protagonista Elliott Gould, nei panni dell’investigatore privato Philip Marlowe (personaggio seriale della narrativa del celebre Raymond Chandler). Invece dei sistemi preposti, alla stazione di polizia di Los Angeles è stata adattata una cabina automatica per fototessera, con passaggio previsto e preordinato tra il ritratto frontale e i profili di complemento. Da cui, e in allungo, ulteriori nostre annotazioni riguardo sia la fototessera in quanto tale (rimandando anche alle sostanziose analisi e considerazioni pubblicate in FOTOgraphia, dell’ottobre 2005), sia la fotografia segnaletica (per la quale rimandiamo anche a FOTOgraphia, del marzo 2007 e novembre 2010).
Tre monografie illustrate, tutte statunitensi, che affrontano l’argomento della cabina automatica per fototessera, approfondendone addirittura valori impliciti ed espliciti. In ordine: Photobooth, di Babbette Hines, attraversa una lunga epopea, che scrive anche la Storia (Princeton Architectural Press, 2002; 224 pagine 15x20cm, cartonato con sovraccoperta [ FOTOgraphia, ottobre 2005]); Photobooth Dogs, a cura di Cameron Woo, registra l’amore per i propri cani, in tempi di scarsa disponibilità di apparecchi fotografici individuali (Chronicle Books, 2010; 108 pagine 12,7x20,3cm, cartonato [ FOTOgraphia, marzo 2011]); Hilhaven Lodge raccoglie una serie di ritratti di personaggi del cinema americano, che si sono autofotografati con la cabina automatica collocata nella residenza del regista Brett Ratner, a Hollywood (per l’appunto, Hilhaven Lodge, dove visse anche l’attrice Ingrid Bergman durante la Seconda guerra mondiale; PowerHouse Cultural Entertainment, 2003; 175 fotografie; 216 pagine 17x26cm, cartonato [ FOTOgraphia, ottobre 2005]).
Come annotato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, originato da considerazioni a partire dal film Il lungo addio, di Robert Altman, negli Stati Uniti la fotografia segnaletica è diffusa: chiunque venga accusato di una qualsiasi infrazione viene immediatamente registrato, di fronte e di profilo. Da cui, facile: Mug Shots - Celebrities Under Arrest (St. Martin’s Griffin, 1996 [ FOTOgraphia, marzo 2007]). Più approfondite e orientate, le considerazioni di Ritratti criminali, di Raynal Pellicer (Mondadori, 2010), e Accusare, di Giacomo Papi (Isbn Edizioni, 2010), che affrontano la Storia da un punto di vista mirato e dichiarato, in un certo senso, coabitante con le nostre considerazioni odierne [entrambi questi ultimi due titoli sono stati approfonditi in FOTOgraphia, del novembre 2010].
come la segnaletica di O. J. Simpson, rimbalzata di giornale in giornale e ripresa anche dai notiziari televisivi. Viene loro insegnato a catturare l’attenzione con la più pura rudezza, senza tanti fronzoli (come fa Robert De Niro / Mad Dog nella commedia Lo sbirro, il boss e la bionda, nel quale interpreta -appunto- un fotografo della polizia criminale di Chicago [FOTOgraphia, novembre 2009]). E anche nel caso del più diretto e semplice ritratto segnaletico, non ci devono essere abbellimenti linguistici. L’immagine deve essere cruda. Come mettono in risalto le fotografie raccolte in Mug Shots - Celebrities Under Arrest, selezione di volti celebri:
alcuni classificati prima di diventare tali, altri passati per la trafila dell’arresto a carriera abbondantemente iniziata. Ancora, altre due segnalazioni mirate: l’edizione italiana di Ritratti criminali, di Raynal Pellicer (dall’originaria Présumés coupables; Éditions de La Martinière, del 2008), per l’occasione con testi aggiunti di Massimo Picozzi, e Accusare, di Giacomo Papi (Isbn Edizioni, 2004 e 2010; 366 fotografie segnaletiche; 208 pagine 12x19cm), che si offrono e propongono come esaustivi punti di vista, osservazione e approfondimento sulla fotografia segnaletica [FOTOgraphia, novembre 2010]. Comunque sia... segnaletica. ❖
17
Mentre l’immagine (anche e soprattutto fotografica) che alimenta la Rete esemplifica lo smodato desiderio di divertimento volgare che domina il nostro presente, con manifestazioni collettive e individuali che rappresentano una forma grossolana di intrattenimento che va incontro a un gusto infantile, l’approfondimento culturale è ben altro, e sta alla base dell’azione fotografica che si esprime con profondità di intenzioni ed esecuzioni. Due straordinarie lezioni dal passato remoto, in edizione Taschen Verlag: Vermeer. L’opera completa, nella collana Jumbo, e Caravaggio. L’opera completa, nella collana Bibliotheca Universalis
CHE LEZIONE! Jan Vermeer: The Milkmaid; 1658-1661; olio su tela, 46x41cm (Rijksmuseum, Amsterdam). Dettaglio e opera completa.
19
Caravaggio: Martirio di san Matteo; 1599-1600; olio su tela, 323x343cm (Roma, chiesa di san Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli, parete di destra).
20
di Maurizio Rebuzzini
T
assativo! A questo punto della vicenda, occorre chiarire alcuni termini e valutare altrettante considerazioni. Con letture affrettate e niente affatto riconducibili alla Fotografia come è stata sempre intesa, si compilano resoconti nei quali viene sottolineato come e quanto, al giorno d’oggi, sia prepotente e consistente l’utilizzo quotidiano di immagini. Ovviamente, ci si riferisce al variegato mondo dei social network, attraverso i quali, giorno dopo giorno e senza alcuna soluzione di continuità, vengono veicolate milioni di immagini. Per quanto questo fenomeno sia stato generato, in qualche modo e misura, da un ramo trasversale della Storia della Fotografia -e fin qui siamo disposti a concedere-, la propria essenza non risponde al protocollo propriamente fotografico, ma a quello della contraddittoria e controversa socialità della nostra epoca.
Il parallelo ci è facile: nessuno, in altro ambito, per quanto coincidente a questo, si permette di allineare alla letteratura l’altrettanta quantità di testi veicolati in Rete, sia attraverso analoghi social network, a volte persino coincidenti, sia per comunicazioni operative (soprattutto, email). Ugualmente, non si è mai fatto per la nota spese, compilata per non dimenticarsi acquisti necessari: per l’appunto, mai equiparata alla letteratura, per quanto stilata con i medesimi mezzi tecnici, per lo più carta e penna. Volendolo annotare, e in chiave parodistica, soltanto Woody Allen ha avuto l’ardire di scrivere un racconto breve, Le liste di Metterling, di analisi letteraria di note alla lavanderia: in pubblicazione originaria su The New Yorker, del 10 maggio 1969; in edizione italiana, in Saperla lunga, Bompiani, dal 1973. Dopo aver rilevato un presunto allineamento al conte Maurice Polydore Marie Bernard Maeterlinck (1862-1949), poeta, drammaturgo e saggista belga, Premio Nobel per la Letteratura nel 1911, vale la spesa riportare l’incipit del racconto.
BRIDGEMAN IMAGES
La Venale & Figli ha pubblicato finalmente l’attesissimo primo volume delle liste di bucato del Metterling (Le Liste Riunite della Lavanderia di Hans Metterling, Vol. I, 437 pagine più 32 di introduzione e indice, Lire 11.000), con un erudito commento di Gunther Eisenbud, noto studioso del Metterling. La decisione di stampare a parte quest’opera, prima del completamento dell’immensa œuvre in quattro volumi, è stata senz’altro accorta ed opportuna poiché questo libro, brillante e provocatorio, con la sua cruda forza documentaria metterà subito a tacere le spiacevoli dicerie secondo cui la Venale & Figli, dopo tutti i guadagni fatti coi racconti, le commedie, gli appunti, i diari, nonché le lettere del Metterling, cercherebbe esclusivamente di ricavare continui profitti dallo stesso filone. Ma quanto si sono sbagliati i maldicenti! A onor del vero, la prima lista di lavanderia del Metterling: Lista n. 1 6 paia mutande 4 magliette
6 paia calzini blu 4 camicie azzurre 2 camicie bianche 6 fazzoletti Non inamidare costituisce la presentazione perfetta e pressoché globale di questo travagliato genio, noto ai suoi contemporanei come il “Pazzo di Praga”. La lista fu compilata proprio nel periodo in cui il Metterling scriveva Le Confessioni di un Formaggio Mostruoso, opera di immensa portata filosofica in cui dimostrò non solo che Kant aveva preso una cantonata sull’universo, ma che, al momento di pagare il conto al ristorante, riusciva sempre ad assentarsi con una scusa qualsiasi. Da cui e per cui, analogamente, l’enorme quantità di immagini che vengono veicolate attraverso la Rete è soltanto altrettanta parodia della Fotografia come l’abbiamo sempre intesa, e ancora l’intendiamo. È un ramo parallelo, deviato dal percorso principale, che sottoscrive capitolati e protocolli di competenza, con-
Jan Vermeer: The Concert ; 1663-1666 circa; olio su tela, 69x63cm (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston, Massachusetts).
21
Caravaggio: Decollazione del Battista; 1607-1608 [firmato «f MichelAn»]; olio su tela, 361x520cm (La Valletta, oratorio di san Giovanni Battista dei Cavalieri).
22
sapevolezza, etica, morale (e garbo e eleganza e riconoscenza e gratitudine), che costituiscono l’essenza di un linguaggio, di una sintassi. Punto. E così è.
TECNICA E CREATIVITÀ Nel concreto, la consapevolezza dei vincoli tecnici propri per il corretto uso degli apparecchi fotografici è una condizione operativa indispensabile, più che necessaria, per assolvere in modo adeguato i termini lessicali e linguistici della ripresa fotografica. Contro la concezione della creatività assolutamente asettica, e in tutti i casi della creatività impersonale, bisogna valutare la capacità di utilizzare gli strumenti fotografici per ciò e per quanto possono offrire. È semplicistico, superficiale e speculativo liquidare le problematiche, affermando che basta che le apparecchiature scattino fotografie. I professionisti possessori, oltreché di apparecchi e obiettivi, anche delle cognizioni necessarie per adoperarli bene e al meglio, sono fatalmente avvantaggiati. Sapersi muovere con sicurezza tra le condizioni generali del la-
voro e le applicazioni eventualmente particolari è un dovere professionale e un diritto personale. Nel metodico e meticoloso rapporto tra tecnica e creatività, si deve essere consapevoli dei rispettivi valori e delle relative influenze. E si deve anche riconoscere che la tecnica è assolutamente necessaria per la trasformazione e concretizzazione fotografica dell’intuizione creativa. La creatività è un elemento individuale, che può essere educato. La tecnica si può imparare, basandosi prima di altro sulla conoscenza e consapevolezza dell’uso degli strumenti, che nella fotografia professionale si debbono considerare alla stregua di utensili del lavoro. Quindi, per quanto «la creatività sia un elemento individuale, che può essere educato», che deve essere educato, non possiamo ignorare, né sottovalutare, le lezioni visive e rappresentative (oltre la raffigurazione a tutti evidente) che arrivano da lontano. In questo senso, è gradevolmente e opportunamente speculativa la frequentazione volontaria, consapevole e convinta delle
edizioni librarie fornite dall’intrepido Taschen Verlag, di Colonia, del quale siamo soliti presentare e commentare monografie specificamente fotografiche. Ora, con scarto a lato, ma intenzione mirata, registriamo due titoli dalla storia dell’arte estremamente proficui per l’educazione creativa individuale... in proiezione fotografica.
LEZIONI MAGISTRALI Mentre l’immagine (anche e soprattutto fotografica) che alimenta la Rete esemplifica lo smodato desiderio di divertimento volgare che domina il nostro presente, con manifestazioni collettive e individuali che rappresentano una forma grossolana di intrattenimento che va incontro a un gusto infantile, l’approfondimento culturale è ben altro, e sta alla base dell’azione fotografica che si esprime con profondità di intenzioni ed esecuzioni. Due lezioni dal passato remoto, abbiamo appena annunciato. Ed eccoci qui: a un anno dalla prima edizione extra large, di 258 pagine 29x39,5cm (99,99 euro), è stata pubblicata un’edizione corrente di Vermeer. L’o-
pera completa, nella collana Jumbo (stesse 258 pagine 24x32,7cm; cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro); successiva all’edizione originaria, del 2009 (306 pagine 29x39,5cm; 99,99 euro [FOTOgraphia, febbraio 2010]), è ora disponibile Caravaggio. L’opera completa, nella collana Bibliotheca Universalis (524 pagine 14x19,5cm; cartonato con sovraccoperta; 14,99 euro). Ovviamente, i due titoli, disponibili a prezzi di vendita/acquisto più convenienti oggi di ieri, per quanto in confezione diverse, mantengono la tiratura in italiano. Ciascuna per sé e entrambe in coincidenza di lezione odierna, l’opera di Caravaggio (Michelangelo Merisi, o Merigi o Amerighi; 1571-1610) e quella dell’olandese Jan Vermeer (1632-1675) rivelano autentici connotati di pre-fotografia in forma pittorica. E qui, come spesso annotiamo, non si tratta della semplificazione utilitaristica della restituzione prospettica assicurata dal sapiente uso della camera obscura o di altri supporti ottici, di cui i due pittori hanno fatto certamente uso, per quanto in modo diverso dal vedu-
Jan Vermeer: A Lady writing a Letter with Her Maid; 1670-1671 circa; olio su tela, 72x58cm (National Gallery of Ireland, Dublino). Dettaglio e opera completa.
23
Caravaggio: Crocefissione di san Pietro; 1602; olio su tela, 230x175cm (Roma, santa Maria del Popolo, Cappella Cerasi).
Vermeer. L’opera completa; a cura di Karl Schütz; Taschen Verlag, 2017 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); 258 pagine 24x32,7cm, cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro.
Caravaggio. L’opera completa; a cura di Sebastian Schütze; Taschen Verlag / collana Bibliotheca Universalis, 2017 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); 524 pagine 14x19,5cm, cartonato con sovraccoperta; 14,99 euro.
24
tismo dei maestri veneziani [Canaletto. Venezia e i suoi splendori, in FOTOgraphia, del dicembre 2008], ma di qualcosa di sostanzialmente più profondo. Se di pre-fotografia è lecito parlare, senza peraltro voler incomodare le rispettive influenze espressive tra pittura e fotografia, e viceversa, non basta limitarsi alle minuziose ricostruzioni e restituzioni della realtà e del paesaggio dovute all’ausilio formale della camera obscura, ripetiamolo ancora. Bisogna andare a ricercare altri precedenti, che hanno espresso ciò che poi la fotografia ha fatto (anche) proprio. Ribadiamolo: sopra tutto, luce e istante (magari irripetibile). In questo senso, la lezione di Caravaggio e Vermeer è a dir poco mirabile. A loro va riconosciuta una sostanziosa idea di “istantanea” della visione, oltre alla sapiente distribuzione della luce all’interno della composizione. In tutti i casi, si tratta di straordinarie rappresentazioni che hanno influenzato il linguaggio fotografico (e che possiamo conteggiare “fotografia”, così come l’intendiamo: luce, composizione e capacità di sintesi visiva),
e che dovrebbero appartenere al bagaglio di conoscenze e competenze di tutti coloro i quali si occupano di fotografia e realizzano fotografie, sia con connotati professionali, sia con intendimenti non professionali. Le due monografie Taschen di recente edizione (riedizione) dischiudono le porte su due geni complessi, che hanno rivoluzionato la pittura europea. Riguardo l’idea di pre-fotografia, la pittura di Caravaggio e Vermeer è tale e tanta “fotografia”? Osserviamo insieme la distribuzione delle luci, il congelamento di un istante (che è stato diverso un secondo prima e lo sarà anche un secondo dopo), la composizione, la distribuzione degli elementi, i punti di richiamo e attenzione. Sì, con determinazione, possiamo declinare questi dipinti in relazione ai parametri che riconosciamo alla fotografia. Tanto altro ci sarebbe da aggiungere, ma ora è il momento di raccogliersi con se stessi e lasciarsi accompagnare dalla propria intimità. A ciascuno, la propria. ❖
Approdati alla propria decima edizione, più intensamente di altri concorsi fotografici, i qualificati Sony World Photography Awards rivelano come e quanto, ormai, la definizione di “categorie” stia inesorabilmente slittando... almeno trasversalmente. L’apparenza formale del soggetto raffigurato, non di quello rappresentato, da sola non basta, così come mai è stata sufficiente a definire, delimitare e circoscrivere svolgimenti che indirizzano altrove e altrimenti la propria consistenza di contenuti. Ne riferiamo in relazione all’attualità dell’edizione 2017, approfondendo proprio e giusto il senso di appartenenza dell’immagine. Se e per quanto possa servire farlo
26
DEFINIZIONI INCERTE S di Angelo Galantini
empre affermato, e qui confermato: i giudizi espressi dalle giurie dei concorsi fotografici, per quanto ci interessa specificamente, vanno accettati. Possono anche non essere condivisi, ma -in assoluto inderogabile- vanno accolti per quello che esprimono e per la qualifica di coloro i quali giudicano, dall’alto di proprie esperienze individuali, assommate le une alle altre nella valutazione conclusiva: culmine di saggezza, senno, buon senso e discernimento... singolo e collettivo. Ancora recentemente, ne abbiamo accennato, lo scorso maggio, in presentazione e commento allo svolgimento dell’avvincente Zeiss Photography Award 2017 / Seeing Beyond - Meaningful Places (Vedere oltre Luoghi significativi ), allestito e svolto entro il qualificato contenitore sovrastante dei Sony World Photography Awards 2017, nel cui ambito si è imposto il belga Kevin Faingnaert, con la serie fotografica Føroyar, che rappresenta la vita nei villaggi remoti e poco popolati delle isole Fær Øer. Mentre, in simultanea, la giuria degli Swpa 2017 ha invece premiato un altro belga, Frederik Buyckx, elevandolo Photographer of the Year 2017, che pure era tra i dieci finalisti dello Zeiss Photography Award 2017. Come dire, vincitore là e non qui.
Dal progetto Saudi Tales of Love, dell’araba Tasneem Alsultan, primo premio Contemporary Issues: tradizioni locali che esprimono amore in racconto lieve, mai invasivo, mai pietistico, ma sempre diretto ed esplicito: linguaggio fotografico che mira al cuore dell’osservatore. A nostro personale giudizio, avrebbe meritato il primo premio assoluto Photographer of the Year.
A nord della regione del Montenegro: dalla serie Whiteout, del belga Frederik Buyckx, primo premio Landscape e anche Phototographer of the Year 2017. Dominio visivo del bianco in paesaggi ripresi sui Balcani, in Scandinavia e in centro Asia.
27
28
Comunque, in “cronaca differita” riguardo lo svolgimento degli ambìti e prestigiosi Sony World Photography Awards 2017, in decima edizione ormai più che consolidata, c’è poco da raccontare riguardo il casellario dei vincitori, proclamati e premiati giovedì venti aprile e immediatamente rivelati e divulgati nella rapidità della Rete, in tempo reale, istante dopo istante, in un susseguirsi di note al riguardo. Da cui e per cui, quello del giornalismo cartaceo, fosse anche il nostro settoriale, è compito ormai diverso, è compito di riflessione e analisi, comunque a partire dall’accadimento in se stesso. Quindi, non conta più tanto la presentazione dei vincitori, ampiamente noti a coloro i quali perseguono la logica dei social network, quanto diventano fondamentali altre considerazioni di merito, non in senso graduatorio, ma in quello dei contenuti. Così, prima di tutto, e riprendendo valutazioni già espresse in altre occasioni, rileviamo subito e prontamente come e quanto, per proprio regolamento e intendimento, i Sony World Photography Awards prestino anche il fianco a slittamenti di equilibrio: diciamola in questo modo.
FANTASIA DI INTENTI Infatti, mentre altri protocolli sono fortemente vincolanti, e sopra tutto valgano le rigorose categorie nelle quali è scomposto l’autorevole World Press Photo [la nostra più recente presentazione, in data opportuna, sullo
scorso numero di aprile, in relazione allo svolgimento 2017, per fotogiornalismo del precedente 2016], il capitolato dei Sony World Photography Awards consente margini individuali di trasversalità, sostanziose fantasie di intenti. In questo senso, per quanto predisposti a considerare vincolanti i giudizi delle giurie, vorremmo sollecitare un rigore maggiore riguardo le identificazioni dei progetti. Se, da una parte, i fotografi concorrenti possono anche orientarsi verso categorie entro le quali presumono sia più probabile emergere, la giuria deve vigilare affinché non si vada eccessivamente “fuori tema”: come ai tempi (lontani e remoti) del nostro percorso scolastico, soprattutto nella scuola dell’obbligo. Del resto, questa biforcazione è in qualche misura endemica e radicata nello svolgimento dei Sony World Photography Awards. In origine, lo ricordiamo bene, anche noi apprezzammo lo scarto di interpretazione dei temi/contenitori, addirittura a partire dall’affermazione dell’inglese Vanessa Winship, dell’Agence Vu, la cui serie Sweet Nothings le valse l’affermazione di categoria (Ritratto) e l’affermazione assoluta Photographer of the Year 2008, ai tempi Iris d’Or [FOTOgraphia, giugno 2008]. Con franchezza, fu (era) ritratto di stampo e intendimento giornalistico, non certo ritratto classico, a dispetto della categoria nella quale ha primeggiato e dalla quale si proiettò verso il primo premio assoluto, appunto conquistato. Diciamolo, fu/è più giornalismo
Primo premio Daily Life: Sandra Hoyn (Germania). The Longings of Others è un reportage sulla prostituzione in Bangladesh, che riprende lezioni note del reportage dei secondi anni Settanta, di Mary Ellen Mark.
(pagina accanto, in alto) Già terzo premio General News Stories al World Press Photo 2017, l’italiano Alessio Romenzi è primo premio Current Affairs & News, con il reportage We Are Taking No Prisoners, reportage dalla liberazione di Sirte, in Libia.
(pagina accanto, in basso) Primo premio Architecture: Dong Ni (Cina), con la riflessione Space&City, sull’attualità di alcune città del presente.
29
Dalla serie African Wildlife At Night, dell’inglese Will Burrard-Lucas, primo premio Natural World: visioni notturne della vita selvaggia delle terre d’Africa raccontate con una capacità formale fuori dal comune, che si traduce in rappresentazioni coinvolgenti e appassionanti.
di quanto sia ritratto; tanto che, registriamo ancora che, prima di questa affermazione, lo stesso servizio ottenne il primo premio nella categoria Portraits Stories, alla coeva edizione 2008 del World Press Photo, contenitore assoluto del fotogiornalismo internazionale, scomposto in tematiche di riferimento e richiamo, ma inviolabilmente fotogiornalismo [FOTOgraphia, aprile 2008]. In origine, apprezzammo. Poi... gli eccessi di trasmigrazione hanno fatto maturare altre considerazioni, che all’attuale edizione Sony World Photography Awards 2017 (dieci anni dopo) registrano sbavature e imperfezioni fotografiche non più giustificabili, non più accettabili, non più condivisibili, non più lecite.
SLITTAMENTI ANNOTATI (E ALTRO) Procediamo lungo il tragitto delle dieci categorie professionali che hanno definito l’insieme dei Sony World Photography Awards 2017 ; e tralasciamo la sezione Open, di fotografia non professionale, che risponde ad altri parametri di giudizio e valutazione. Al pari del secondo e terzo premio di categoria, il cinese (la cinese?) Dong Ni, vincitore in Architecture (Architettura), ha in comune una interpretazione “sociale” del capitolato. La riflessione Space&City, che si è affermata, sottintende una valutazione in forma di riverbero dell’opprimente attualità di taluni indirizzi che stanno definendo le città del presente, in proiezione futuribile:
30
là dove e quando e per quanto viene assolutamente meno qualsivoglia accoglienza dell’Uomo (a pagina 28). Quindi, proseguendo, no, non ci accordiamo proprio con l’iscrizione Conceptual (Concettuale) della serie Art. 115, della svizzera Sabine Cattaneo, primo premio: luoghi di ultima degenza di coloro i quali ricorrono all’eutanasia, al suicidio assistito, che nella legislazione elvetica è previsto per una interpretazione dell’Articolo 115, da cui il titolo del progetto (a pagina 32). Pur distinguendo da altre forme di reato contro la vita (per esempio, l’omicidio intenzionale), l’Articolo prevede la dominanza della situazione e degli eventi che provocano la fine di una vita: è la vittima che decide di mettere fine ai propri giorni, rivelandosi come “autrice” della propria morte. Cliniche specializzate agiscono in questo senso, e l’indagine fotografica si sofferma sui luoghi di ultimo ricovero. Concettuale? Neanche per idea: sociale e aspetti dell’attualità esistenziale dei nostri giorni. Perfetti e pertinenti, invece, lo svolgimento e l’intenzione risolta della serie Saudi Tales of Love, dell’araba Tasneem Alsultan, primo premio Contemporary Issues (Questioni contemporanee?, eccoci qui), che per noi avrebbe meritato anche il premio assoluto Photographer of the Year 2017 (a pagina 26). Tradizioni locali che esprimono amore in forma di racconti lievi, mai invasivi, mai compiaciuti, mai pietistici, ma sempre diretti ed espliciti, con un linguaggio fotogra-
fico che (finalmente!) mira al cuore e al cervello dell’osservatore, invece di puntare alla sua pancia! Meritata, in prosecuzione, l’affermazione dell’italiano Alessio Romenzi nella categoria Current Affairs & News (Attualità e News), con il reportage We Are Taking No Prisoners, già terzo premio General News Stories, al recente World Press Photo 2017 (FOTOgraphia, aprile 2017). Già: Non si fanno prigionieri. Sirte, in Libia, con Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq, è una delle tre capitali autoproclamate del cosiddetto stato islamico. Sirte è stata la prima a cadere, grazie a un’offensiva lanciata dal governo libico, nel maggio 2016 (a pagina 28). Con Daily Life (Vita quotidiana), la vincitrice tedesca, Sandra Hoyn, riporta indietro l’orologio del fotogiornalismo sociale e umanista -quello esordito alla fine dell’Ottocento con l’impegno di Lewis W. Hine e Jacob A. Riis, soprattutto loro, nella contraddittoria collettività statunitense-. Lo riporta alla stagione degli anni Settanta, durante la quale il reportage occidentale iniziò la propria rilevazione delle incoerenze di certo mondo orientale: The Longings of Others riprende e ripropone il tema della prostituzione in Bangladesh (a pagina 29). Posati di maniera, che -per l’appunto- rimandano a sorprendenti e illuminanti lezioni del passato prossimo (a patto di conoscerle, ovviamente: soprattutto, Farkland Road, di Mary Ellen Mark, realizzato negli anni Settanta a Bombay, in India, e in prima raccolta monografica, del 1981).
Avanti ancora, con Landscape (Paesaggio), dalla cui affermazione di categoria, il belga Frederik Buyckx è poi balzato all’assoluto di Photographer of the Year 2017: Whiteout, nel senso di dominio visivo del bianco in paesaggi ripresi sui Balcani, in Scandinavia e in centro Asia (a pagina 27). Dunque, è proprio il tema cromatico che domina, fungendo da collante e continuità di una interpretazione che antepone l’esercizio prettamente fotografico a ogni altra intenzione rappresentativa. In questo senso, e in assenza di altri proponimenti, fotografia puramente tale, secondo la tradizione formale ed estetica avviata all’indomani della propria invenzione, nel 1839, in anticipo su valori di documentazione e contenuto che sarebbero maturati in seguito, approdando fino ai nostri giorni: osservazione e decodificazione della vita nel proprio svolgersi. Qui... nulla di questo, se non il compiacimento dell’immagine. A ciascuno, il proprio intento e disegno. Ma! Invece, e all’esatto contrario, il Natural World dell’inglese Will Burrard-Lucas, primo premio di categoria, è autenticamente “Mondo naturale”, come da capitolato e protocollo. Didascalica l’identificazione del suo straordinario progetto: African Wildlife At Night. E ciò è: visioni notturne della vita selvaggia delle terre d’Africa raccontate con una capacità formale fuori dal comune, che si traduce in rappresentazioni coinvolgenti e appassionanti, per quanto spesso irripro-
Richiamandosi all’esperienza e all’insegnamento radicato del ceco František Drtikol (1883-1961), il russo George Mayer ha realizzato una eccellente serie di ritratti, definiti Light. Shadows. Perfect Woman, che gli è valsa il primo premio nella categoria Portraiture.
31
Se, da una parte, i fotografi concorrenti possono anche orientarsi verso categorie entro le quali presumono sia più probabile emergere, le giurie dei concorsi fotografici debbono vigilare affinché non si vada eccessivamente “fuori tema”. A nostro giudizio, in relazione ai recenti Sony World Photography Awards 2017, oltre altri slittamenti veniali, tre sono soprattutto alterazioni sostanziali delle rispettive categorie di affermazione. In particolare, registriamo la serie Art. 115, sui luoghi di ultima degenza di coloro i quali ricorrono all’eutanasia, al suicidio assistito, della svizzera Sabine Cattaneo, primo premio Conceptual, che ci pare argomento sociale (in alto, a sinistra). Quindi, è altrettanto sociale più di Sport, di primo premio, il reportage The Twins’ Gymnastics Dream, del cinese Yuan Peng (in alto, a destra). Ancora più clamorosa è l’ipotesi di Still Life del valente colombiano Henry Agudelo: brandelli di pelle umana con segni caratteristici, soprattutto in forma di tatuaggio ( Indelible Mark), attraverso i quali le forze di polizia del paese cercano di identificare le numerose vittime di omicidi irrisolti / criminalità organizzata (centro pagina).
32
ducibili in termini litografici, oltre la stampa fotografica bianconero originaria (a pagina 30). Analogamente ottima e ugualmente convincente è l’interpretazione del Ritratto (Portraiture) del russo George Mayer, primo premio di categoria, i cui bianconeri autenticamente tali (bianchi e neri) rivelano una profonda cultura e conoscenza e consapevolezza della storia espressiva della fotografia (Light. Shadows. Perfect Woman; a pagina 31): a partire, per dichiarazione esplicita e manifestata, dall’esperienza e insegnamento radicato del ceco František Drtikol (1883-1961), che ha agito a Praga, dal primo decennio del Novecento, dopo la sua formazione accademica presso la prestigiosa e autorevole Lehr und Versuchsanstalt für Photographie, di Monaco di Baviera. Da ribadire, una volta ancora, una di più e mai una di troppo (soprattutto rispondendo anche a coloro i quali, in tante occasioni, chiedono formule certe per indirizzare le proprie azioni fotografiche), che la qualità fotografica di ogni intenzione singola dipende soprattutto dalla propria cultura individuale, sia in stretti termini fotografici, sia in proiezione ampia: è questo che distingue l’autore dal solo e semplice scattare fotografie... azione alla facile portata di ciascuno. Invece, e ancora, con Sport torniamo nel territorio trasversale e fuori tema, per motivi comprensibili a tutti. Infatti, il primo posto di categoria, del cinese Yuan Peng, è Sport soltanto per apparenza di soggetto. Do-
po di che, all’atto pratico, The Twins’ Gymnastics Dream, le gemelle forzatamente addestrate alla ginnastica artistica secondo un terrorizzante disegno strategico della Repubblica Popolare, è svolto non in senso di gesto atletico, quanto di rivelazione sociale di un comportamento indotto e obbligato, che rientra -per l’appunto- nel fotogiornalismo di osservazione e, perché no?, notifica, contestazione, denuncia... addirittura (in alto, a destra). Altrettanto, in chiusura di lunga passerella, per lo Still Life del colombiano Henry Agudelo, primo posto di categoria e persona di straordinaria umanità e partecipazione al proprio impegno, dichiaratamente sociale. Sì, i brandelli di pelle umana con segni caratteristici, soprattutto in forma di tatuaggio (Indelible Mark ), attraverso i quali le forze di polizia del paese cercano di identificare le numerose vittime di omicidi irrisolti (criminalità organizzata), sono stati fotografati in base ai dettami dello still life: ma l’intenzione, ma la proiezione, ma lo svolgimento, ma l’impianto è, una volta ancora, fotografia sociale. Non altro, per quanto questo sia già tanto, ma -ripetiamolo- fuori tema (qui sopra). Ed è al rientro in tema che invitiamo le giurie dei concorsi fotografici, ammesso e non concesso che conservare una certa autenticità di intenti della fotografia possa avere un qualsivoglia senso. Tutto qui. Niente altro. ❖
Peppino Bruno è un valente fotografo (non professionista) che arriva da un cammino autorevole, oltre che cadenzato nel tempo. La sua è una fotografia riflessiva, a lungo meditata, realizzata seguendo procedure che affondano le proprie radici indietro nei decenni, oltre che rispettose della Storia: applicazione di passi lievi, scanditi e modulati, per certi versi addirittura in sintonia con il silenzio eloquente dei suoi soggetti. Con concentrazione e capacità, accompagna la sua fotografia con escursioni in montagna... o, viceversa, le sue escursioni in montagna con la fotografia: è lo stesso. Una serie bianconero all’infrarosso 34
INFRAROSSO DI MONTAGNA
35
di Angelo Galantini
O
nore e merito a tutti coloro i quali frequentano la fotografia (non professionale) continuando ad applicare rigori formali consolidati, che spesso si traducono in progetti fotografici consistenti, tanto quanto appassionanti e coinvolgenti. Soprattutto, e in particolare, onore e merito a chi non subisce le lusinghe effimere del nostro tempo contraddittorio, e rimane fedele a un proprio percorso scandito in anni e anni, e decenni, di autorevole coerenza con se stesso. Al giorno d’oggi, costoro coabitano con l’esuberanza quantitativa di altra fotografia, alla
36
quale contrappongono la propria obiezione formale... che si proietta nei contenuti delle relative immagini. Evviva! Un fotografo (non professionista) che appartiene a questa accreditata schiera di autori qualificati e competenti è Peppino Bruno, che arriva da un cammino lungo, oltre che cadenzato. Ancora oggi, la sua è una fotografia riflessiva, meditata, realizzata seguendo procedure che affondano le proprie radici indietro nei decenni, oltre che rispettosa della Storia: applicazione di passi scanditi e modulati, per certi versi addirittura in sintonia con il silenzio eloquente dei suoi soggetti. Quindi, in allungo temporale, e senza alcuna fretta, sessione di ripresa, sviluppo della pellicola, stampa delle copie, rigorosamente su cartoncino
baritato (quello che non sta piano, ma rimane sempre leggermente curvo, concavo, nella scatola di archiviazione). Inviolabilmente con pellicola fotosensibile, doverosamente in bianconero, Peppino Bruno accompagna con la fotografia le sue escursioni in montagna. Forse, però, la sequenza intenzionale è inversa: accompagna la sua fotografia con escursioni in montagna. Come per molti di noi, ammettiamolo una volta per tutte, anche nel suo caso, il processo creativo ed espressivo che guida la sua osservazione si basa su una concreta e inflessibile padronanza dei mezzi tecnici della fotografia analogica, che lui ha avvicinato in tempi di rigorosa interpretazione (tedesca), per non abbandonarla mai.
Da cui è necessario riprendere un passaggio dall’ottimo saggio Cento anni di fotografia 1839-1939, di Lucia Moholy (in prima e unica edizione italiana del 2008 [FOTOgraphia, marzo 2008]): «Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Di qui molti traggono la conclusione che la fotografia non sia per nulla un’arte». Effettivamente, è vero. L’esercizio della fotografia dipende anche dal sapiente uso e impiego dei suoi strumenti basilari, che l’autore-fotografo deve saper controllare e guidare, per orientare la propria espressività e creatività secondo intenzioni: sintassi
37
di un linguaggio che, come ogni altro, presuppone proprie declinazioni e rivelazioni. In similitudine, punteggiatura, tempistica, evocazione e riconoscimento della scrittura e parola. La selezione attuale di fotografie di Peppino Bruno è concentrata su una serie realizzata con pellicola all’infrarosso: individuata per le proprie peculiarità di selezione dei toni, che rende la raffigurazione del soggetto “montagna” particolarmente affascinante. Questo infrarosso si allinea con la disciplina che la fotografia di montagna impone ed esige. Per essere ben eseguita e opportunamente realizzata, questa fotografia richiede talmente tanto sacrificio e altrettanta etica da stabilire presto una straordinaria linea demarcatrice: esiste e si manifesta sol-
38
tanto una bella ed efficace fotografia di montagna. Non ne può esistere, né se ne può manifestare una brutta, perché la sua realizzazione è selettiva (al contrario di tutta l’altra fotografia del vero e dal vero, che ai nostri giorni è soprattutto definita, condizionata e frequentata da “belle” fotografie inutili). Per questo, è obbligatoria una nota tecnica -tale, solo in apparenza-, relativa alla costruzione interpretativa di Peppino Bruno. Dopo aver sottolineato l’alta qualità formale delle sue stampe bianconero, che compongono i tratti di un linguaggio espressivo eccezionalmente efficace, richiamiamo l’attenzione sulle inquadrature, alternativamente da lontano e in avvicinamento. Tenuto conto che la fotografia è una straordinaria com-
binazione di regole logiche e usi arbitrari, rileviamo che questo avvicendamento è lessico e sintassi. Anzitutto confortevole, ma non è questo il problema (seppure lo sia, anche), il ritmo di visione induce lo sguardo dell’osservatore, imponendogli una concentrazione assoluta e inderogabile. Però, attenzione, non si tratta di uno stratagemma, magari del tipo di quelli attraverso i quali l’abile prestigiatore distoglie la concentrazione del pubblico. Al contrario, è una sapiente declinazione, che dalla rispettosa interpretazione del soggetto approda alla complice intesa con l’osservatore. Lo sguardo si posa lieve su visioni fotografiche che raggiungono immediatamente il cuore: è illusione, è teatro... è fotografia autentica.
Soprattutto, è emozione e condivisione con i propri osservatori, che -cortesemente invitati- proseguono lungo il percorso indicato. Ancora, e poi basta, è partecipazione a un pensiero, a un volo alto, guidato dal gratificante piacere del bello. Qualsiasi cosa questo possa significare per ciascuno di noi. Chiusura. Prima di altro, prima di tutto, la fotografia è un gesto di amore, soprattutto quella realizzata senza altri scopi che il piacere personale e quello di condividere: ed è il caso del bravo Peppino Bruno. Il fascino estraniante della fotografia rimanda alla parola mai detta, alla felicità dell’esistenza, al sogno che ciascuno ha nel proprio cuore. Dall’autore all’osservatore. ❖
39
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
.
luglio 2017
PINO BERTELLI: GENTI DI CALABRIA. ATLANTE DI GEOGRAFIA UMANA. E interviste video.
(in basso) Sostenitori di Kennedy, al National Guard Armory, a Barnstable, in Massachusetts. È il 9 novembre 1960; i risultati definitivi sarebbero arrivati il mattino successivo.
Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket ; a cura di Nina Wiener; testi di J. Michael Lennon; Taschen Verlag, 2017 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); in tre edizioni (inglese, francese, tedesca); 370 pagine 23x31,5cm, cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro.
42
S
ubito precisato. Senza deroga alcuna, per nostro solito, scriviamo e parliamo soltanto con e per cognizione di causa. Ovvero, non frequentiamo altri territori, non seguiamo il sentito dire, non rincorriamo valutazioni di seconda mano. Ovviamente, siamo avidi di parole altrui, che -quando è il caso e se è necessario- possono essere assunte e assorbite, in modo da avviare riflessioni adeguatamente esaminate e motivate, magari in forma di approfondimento. Nello specifico odierno, entro il quale siamo stati richiamati da un allestimento librario di altro intendimento editoriale, che non quello in relazione al quale elaboriamo le nostre analisi, lo spunto originario si deve a una consistente e concreta frequentazione di giovani universitari, che, pur incamminati lungo un tragitto effettivamente culturale, sentono estranei argomenti sociali del nostro passato prossimo... influente sul presente a tutti visibile e da tutti percepito. Il salto delle loro conoscenze è clamoroso: massima concentrazione sul passato remoto (in particolare, storia dell’arte e contorni), altrettanta attenzione al presente (in particolare, verso le forme più arbitrarie dell’espressione artistica contemporanea), disinteresse per i decenni sociali immediatamente precedenti. Le motivazioni sono esplicite e comuni: la Storia antica è materia di studio (magari anche solo a fini utilitaristici di percorso accademico); il presente lo stiamo vivendo, magari contribuendo anche a scriverlo; il passato prossimo non lo abbiamo vissuto direttamente, e dunque possiamo anche farne a meno. Così, e a conseguenza, in questi giorni del corrente Duemiladiciassette, ci troviamo a considerare l’attuale presidenza degli Stati Uniti, una delle cariche istituzionali più influenti nel e del nostro mondo, potendola e volendola confrontare soltanto con il suo immediato precedente. Ovvero: Donald Trump, con tutte le proprie posizioni sociali e politiche di portata planetaria, oltre che contraddizioni evidenti, diverso da Barack Obama. Attenzione, però, che, prima di tutto, non ci si deve mai scordare che Donald Trump è stato eletto ed è approdato alla propria alta carica per volere espresso dalla maggioranza della nazione. Ed è qui che il passato prossimo e lo svolgimento della storia contemporanea fanno affiorare il dovere della conoscenza, anche di quella che -per motivi di anagrafe- non si è potuta assimilare in diretta.
ANNI SESSANTA: JFK Da cui, ecco l’incontenibile attualità e forza di una monografia illustrata con un avvincente apparato fotografico (tanto da essere, per l’appunto, classificata come tale... monografia fotografica), pubblicata dall’attento e vigile Taschen Verlag, di Colonia: Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket, a cura di Nina Wiener. Nello stesso ordine: Norman Mailer, autore del mirabile testo; JFK, acronimo di John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti (succeduto a Dwight David Eisenhower, noto con il diminutivo di Ike, il generale coman-
DAUMANPICTURES.COM
(centro pagina) Posizione precaria di JFK in un comizio nella contea rurale di Logan, metafora della sua campagna nello Utah, in un’area a predominanza mormone (25 aprile 1960).
dante dell’esercito statunitense sul fronte europeo della Seconda guerra mondiale, il regista dello sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944), in carica dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963, quando fu assassinato a Dallas, in Texas; Superman entra nel supermercato / Superman arriva al supermercato (il testo di Norman Mailer, del 1960), nel senso del rapporto innovativo con la nazione e gli elettori. In origine, la monografia è stata pubblicata a fine 2014, in edizione di prestigio: trecentosettanta pagine 32x46cm, cartonato con sovraccoperta; novantanove euro. La scorsa primavera, in occasione del centenario dalla nascita di John Fitzgerald Kennedy (29 maggio 1917-2017), è stata realizzata una edizione più cor-
di Maurizio Rebuzzini
HENRI DAUMAN /
(pagina accanto) La proposta di John Fitzgerald Kennedy come nuova personalità politica è stata costruita, in parte, da fotografi inviati da settimanali influenti, come Life e Look, che ne hanno seguito la campagna elettorale scandita da gesti quotidiani; per esempio, in un negozio di alimentari, in West Virginia (aprile 1960).
HANK WALKER / TIME & LIFE PICTURES / GETTY IMAGES (2)
Più che presentare una monografia in recente riedizione, scandiamo i tempi e termini di una lezione individuale utile e proficua: quella della storia recente che va conosciuta e capita con quel processo che non si accontenta di sapere molte cose, ma si impone di concepirle in nutrimento. Ecco l’incontenibile attualità e forza di Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket, pubblicata da Taschen Verlag. In ordine: Norman Mailer, autore di un mirabile testo; JFK, acronimo di John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti; Superman entra nel supermercato / Superman arriva al supermercato (il testo di Norman Mailer, del 1960), nel senso del rapporto innovativo con la nazione e gli elettori. Minimalismo
EPOPEA KENNEDY
43
JACQUES LOWE OF
(pagina accanto) Una marea di mani si protende verso John Fitzgerald Kennedy, a Los Angeles (9 settembre 1960).
44
rente, che -a parità di contenuti (stesse trecentosettanta pagine 23x31,5cm, cartonato con sovraccoperta; stesso apparato iconografico e di testi)- è proposta a una cifra di vendita/acquisto più conveniente: 29,99 euro (tre le tre edizioni, in inglese, francese e tedesco; in Italia, è distribuita soprattutto quella inglese). Il testo di Norman Mailer, grande/grandissimo giornalista statunitense (1923-2007), è a dir poco eccezionale: rientra nella ristretta categoria, nel limitato casellario, di parole che hanno influito sulla Storia. Ed è per questo, soprattutto per questo, che -data l’introduzione- segnaliamo il titolo. Inviato da Esquire a seguire la campagna elettorale del giovane John Fitzgerald Kennedy, già in odore di Storia, Norman Mailer compilò un autentico capolavoro di giornalismo. Nonostante certa ufficialità attribuisca il successivo successo di misura di JFK sul contendente repubblicano Richard Nixon (l’allora vicepresidente di Ike Eisenhower, che sarebbe poi diventato il trentasettesimo presidente, con secondo mandato concluso dalle dimissioni, sull’onda dello scandalo Watergate: dal 20 gennaio 1969 al 9 agosto 1974) a un dibattito televisivo a lui particolarmente favorevole, è opinione di molti (noi, tra questi) che fu l’articolo di Norman Mailer a cambiare gli equilibri in favore del candidato democratico (ovviamente, non entriamo nel merito di altre considerazioni politiche e sociali, relative ad alleanze più o meno ufficiali, più o meno lecite, come la Storia ha poi rivelato e sottolineato; leggi: gli accordi sottobanco con la famigerata Famiglia di Sam Giancana, successivamente considerata nelle ipotesi di complotto per l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy presidente e per un probabile coinvolgimento nella ambigua morte di Marilyn Monroe, l’estate precedente). Oltre la riproposizione nell’attuale monografia Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket, registriamo una traduzione parziale dello stesso testo in Il Venerdì di Repubblica, nel dicembre 2014 (o gennaio 2015), a cura di Fabio Galimberti; ne proponiamo l’incipit: «Per una volta, cerchiamo di ragionare
su una convention politica senza perderci in intere costruzioni di fatti e temi. La politica ha proprie virtù, fin troppe -non figurerebbe accanto al baseball, tra gli argomenti di conversazione, se non rispondesse a tantissime esigenze-, ma è legittimo sospettare che il suo fascino segreto sia affine a quello della nicotina. Fumare una sigaretta consente di isolarsi dalla propria vita, non si sente granché e si è felici così, e la politica ci tiene in quarantena dalla storia; la maggior parte delle persone che si cibano della vita politica sono della partita non perché vogliono fare la storia, ma perché vogliono essere distratti dalla storia mentre viene fatta. «Se quella convention democratica, che ormai retrocede oltre il limitare dell’estate del 1960, viene ricordata solo a metà nell’eccitazione delle elezioni imminenti, forse è il momento adatto per prenderla di nuovo in considerazione, perché la montagna di fatti che si celava dietro le sue fattezze, nel luglio scorso, è stata soffiata via nei venti dell’Alta Televisione, e l’uomo della strada (quel peculiare termine politico che fa riferimento a quel donchisciottesco elettore che tirerà una leva o l’altra per ragioni pregnanti, quali “Una volta avevo un tenente leccapiedi che assomigliava a Nixon”, oppure “Quel Kennedy mi sa che ha i denti finti”), il non facilmente preventivabile uomo della strada ha dimenticato in larga parte ciò che è successo e non saprebbe dirvi contro chi gareggiava Kennedy più di quanto voi o io sapremmo dire chi aveva la migliore media battute nel campionato di baseball nel mese di giugno».
JFK NELLA STORIA... DI OGGI È probabile, per quanto magari non certo, che l’articolo pro-Kennedy di Norman Mailer (per l’appunto, Superman Comes to the Supermarket / Superman entra nel supermercato (oppure, Superman arriva al supermercato) sia stato determinante per l’elezione a presidente degli Stati Uniti. Un testo che ha ridefinito le annotazioni politiche con la sincera voce di un giornalista-scrittore che ha identificato in JFK un “eroe
STANLEY TRETICK / HISTORIC IMAGE LICESING
ESTATE
Comizio di John Fitzgerald Kennedy sul portico del The Hartford Times, in Connecticut, quotidiano che ne ha sostenuto l’elezione a presidente della Repubblica (7 novembre 1960).
TEORIA DEL CAOS
In propria conclusione, il testo di presentazione della monografia Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket richiama termini e concetti che appartengono alla Teoria del Caos. È bene suggerire di cosa si tratta. Caos non significa privo di regolarità. Per esempio, i segni dipinti da Jackson Pollock (1912-1956) nei suoi quadri vengono definiti caotici, ma questa non è una definizione scientifica, perché questi tratti mostrano un comportamento casuale (forse), ma non caotico, almeno non nel senso matematico del termine.
1
JACKSON POLLOCK: CONVERGENCE (1952)
x 0
x0
x1
x2
x3
x5
x4
1
1
Gli oggetti matematici che sono modellabili secondo una formulazione caotica rappresentano particolari Sistemi Dinamici. È stato Edward Norton Lorenz (1917-2008), ispirato dai suoi studi sui movimenti dell’aria nell’atmosfera terrestre, a gettare le basi della Teoria del Caos, con i suoi articoli Deterministic nonperiodic flow (Journal of Atmospheric Sciences; Vol. 20, pagine 130-141), del 1963, The nature and theory of the general circulation of atmosphere (World Meteorological Organization; No. 218), del 1967, Three approaches to atmospheric predictability (American Meteorological Society; Vol. 50), del 1969, e Nondeterministic theories of climate change (Quaternary Research; Vol. 6), del 1976. Come è noto, lo stato di ogni sistema fisico è modellabile con formule. Riporto uno degli esempi più semplici di sistema dinamico che può assumere aspetti caotici. Il sistema fisico è una popolazione composta di individui che abitano un certo territorio. Il numero, la quantità, di individui della popolazione dipende dalla fertilità e mortalità della popolazione, dalle risorse alimentari del territorio che questa popolazione abita, e non subiscono influenze da nessuna popolazione straniera. Siamo interessati a prevedere come evolve nel tempo il rapporto x tra il numero degli individui che abitano effettivamente quel territorio (cioè la numerosità della popolazione) e il numero ideale di individui che si stima possano abitarlo: numero di individui della popolazione vera x= numero di individui della popolazione ideale È ovvio che dovrà essere: (numero di individui della popolazione vera) ≤ ≤ (numero di individui della popolazione ideale) Quindi: 0≤x≤1 Supponiamo di dividere il tempo in settimane. Sia xn il rapporto dopo n settimane. La formula che ci dice quanto vale il rapporto xn+1 alla settimana n+1, una volta che sia noto il rapporto xn alla settimana n, è: xn+1 = Rxn (1 - xn) dove R è un coefficiente 0 < R ≤ 4, che dipende dalla specie della popolazione e dalle risorse alimentari del territorio. Una formula semplicissima, non è vero? Eppure, si può mostrare che se R > 3,56995, il sistema diventa caotico e il valore del rapporto continua a muoversi tra 0 e 1, senza stabilizzarsi.
46
Spero di non confondere le idee con i prossimi grafici. Nel primo, R = 3; nel secondo, R = 3,7.
x 0
x0 x1
x2
x3
x40 x
x 26 36
x35
x37 x 1 27
I valori di xn sono i numeri che si trovano sull’asse x, proiettando su tale asse le intersezioni dei tratti orizzontali del percorso rosso con la retta verde. Il sistema è caotico in quanto basta un piccolo cambio nella terza o quarta cifra decimale di R perché il sistema cambi comportamento e la prevedibilità del proprio comportamento futuro diventa impossibile. Stesso discorso vale per le costanti fondamentali della Fisica, che sono in generale numeri molto piccoli rispetto a quello che sperimentiamo nella vita quotidiana. Alcuni fisici hanno mostrato che, se queste costanti fossero anche leggermente diverse, l’universo in cui viviamo sarebbe totalmente diverso. La vita potrebbe addirittura non essere mai nata. Per esempio, la massa del protone a riposo è rappresentata da un peso infinitesimo: 0,000000000000000000000000000000910938188kg. Se l’ultima cifra fosse 6, invece che 8, molte cose nel nostro universo sarebbero diverse. Quindi, probabilmente, anche l’intero universo che conosciamo ha un comportamento caotico. Questa sensibilità alle condizioni iniziali (valore di R) è noto secondo la vulgata dell’effetto farfalla, così chiamato per via del titolo di una relazione presentata da Lorenz, nel 1972, all’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza a Washington DC, dal titolo La prevedibilità: il battere delle ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas? [a pagina 58, il racconto fantascientifico Rumore di tuono, di Ray Bradbury, del 1952, dal quale si ritiene sia derivata questa locuzione]. La Storia sembra un sistema che, a volte, ubbidisce a leggi caotiche. Una piccola variazione dello status quo (elezione di John F. Kennedy a presidente degli Stati Uniti) può provocare enormi perturbazioni nello stato del sistema. Pensiamo anche (ma gli esempi potrebbero essere infiniti) alla nascita di Adolf Hitler, il 20 aprile 1889. Se il bimbetto fosse morto di morbillo, quante cose sarebbero cambiate... Lello Piazza (in questo ambito, docente di Probabilità e Statistica al Dipartimento di Matematica del Politecnico, di Milano)
GREY VILLET / TIME & LIFE PICTURES / GETTY IMAGES (2)
CONOSCERE PER CAPIRE Eccola qui la lezione della storia recente, della cronaca differita, del passato prossimo: va conosciuta, va capita con quel processo individuale che non si accontenta di sapere molte cose, ma si impone di concepirle in nutrimento. In questo senso, qui e ora, non ci esprimiamo per paradosso al solo scopo di sostenere un’idea (preconcetta!). Un paradosso nasce solo da un’ambiguità che può anche ingannare, o involontariamente o per disegno perseguito. I paradossi non ci piacciono nella vita e nelle conversazioni quotidiane (ma neppure nella scienza), a meno che non abbiano uno scopo umoristico; e questo non è davvero il nostro caso odierno.
Anche attraverso questa attuale raccolta bibliografica di parole e immagini (e immagini, per quanto dovrebbe interessarci di più!) sollecitiamo all’avvicinamento personale a quel minimalismo esistenziale che è di massima importanza per la decifrazione di quei momenti che dalla cronaca si proiettano in Storia, al fine di trasformare al possibile un’evoluzione indesiderata e indesiderabile in una auspicabile. Questi cambiamenti possono essere piccoli, apparentemente minori, ma sempre determinanti. Ricorriamo al minimalismo, perché ogni mutamento, qualsiasi trasformazione ipotizzabile, possiede ed esprime una miriade di effetti collaterali, che non sempre sono accettabili. Se la modificazione fosse troppo grande e gli effetti collaterali altrettanto troppo numerosi, il risultato si allontanerebbe in misura esponenziale da qualsiasi previsione e progetto, con il rischio di trasformarsi in qualcosa del tutto imprevedibile. Questo è il fulcro essenziale di un effetto caotico. Ancora alla luce dell’interpretazione che ciascuno di noi può ricavare dalla monografia Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket si tratta di verificare come e quanto ogni mutamento di oltre cinquant’anni fa (con origine statunitense) sia stato abbastanza piccolo da aver reso le conseguenze ragionevolmente prevedibili, o se la storia umana sia inevitabilmente e immutabilmente caotica in ogni proprio aspetto: e non lo crediamo proprio! Dunque, il problema non è sapere se ogni trasformazione sia abbastanza piccola per soddisfare le condizioni di partenza (ieri verso oggi; oggi verso domani). Se di questo si tratta, il problema è che ogni mutamento superiore a quello minimo è caotico. Il minimo necessario potrebbe essere prossimo a Zero, e potrebbe risultare difficile individuare un cambiamento abbastanza piccolo e al tempo stesso diverso da Zero in misura significante. Guardateli questi cambiamenti: una delle chiavi di lettura del Tempo che scorre, della Vita che si svolge. Attraverso parole e immagini. ❖
John Fitzgerald Kennedy arriva al L.A. Memorial Coliseum, per accettare la nomina del suo partito. Qui prende avvio il tema fondamentale della sua campagna elettorale verso la “Nuova Frontiera” (15 luglio 1960).
BOB PETERSON
esistenziale” che avrebbe potuto risvegliare la nazione dal proprio sonno postbellico e dagli anni di conformismo dell’amministrazione Eisenhower. Così è stato, all’alba degli anni Sessanta, con tutte le relative influenze avanti negli anni e decenni: allora arrivarono sia Kennedy, sia un nuovo giornalismo (del quale l’Italia non ha certo saputo cogliere la lezione). Nella monografia, le parole di Norman Mailer e i testi di accompagnamento, di J. Michael Lennon, supportano un consistente apparato di trecento fotografie che elevano la campagna e la famiglia del candidato verso la vita. Fotogiornalisti di spicco seguirono quei momenti; ne ricordiamo alcuni: Cornell Capa, Henri Dauman, Jacques Lowe, Arnold Newman, Lawrence Schiller, Paul Schutzer, Stanley Tretick, Grey Villet, Hank Walker e Garry Winogrand. Nel proprio insieme, un album visivo (oltre che letterario) dell’uomo che, volente o nolente, piaccia o meno, avrebbe portato (ha portato) l’America negli anni Sessanta. Dove collocare questo libro in biblioteca? Se non ci sono altre indicazioni di carattere “pubblico” e di consultazione, lo si dovrebbe sistemare tra i titoli che raccontano la vita nel proprio svolgersi, offrendo chiavi interpretative di parole e immagini. È un libro di silenzio, ma solo perché i pensieri sono silenziosi. Quelli sollecitati da queste pagine sono a dir poco tumultuosi.
Quando Norman Mailer fu incaricato da Esquire di seguire la campagna elettorale di John Fitzgerald Kennedy, nell’estate 1960, era estraneo al mondo politico. Addirittura, non aveva votato in elezioni dal 1948. Successivamente, alla fine degli anni Sessanta, entrò anche in politica.
47
di Antonio Bordoni
C
ategorico e perentorio: i prestigiosi e ambìti TIPA Awards, assegnati annualmente da una giuria formata da direttori e/o redattori di trenta riviste di settore, che agiscono in quindici paesi, esprimendosi in dieci lingue del mondo, stabiliscono l’inevitabile stato dell’arte della tecnologia applicata alla fotografia. Inevitabilmente, dal 1990 di origine, che -per quanto riguarda l’evoluzione degli utensili fotografici- stabilisce un lungo e lungo periodo, durante il quale si è manifestata e rivelata la più sostanziosa e sostanziale trasformazione dei mezzi, le puntualizzazioni e gli indirizzi si sono modificati in relazione alle attualità tecnico-commerciali... avviate in tempi di pellicola fotosensibile, con conseguenti distinzioni tra bianconero e colore, tra negativo e invertibile... approdate ora alla sola e imperante acquisizione digitale di immagini, con quanto ne deriva, sia in termini sovrastrutturali (apparecchi e obiettivi, soprattutto), sia in connessioni e rapporti infrastrutturali (gestione dei file, stampa delle copie e altro ancora). In una realtà diversificata, oggi molto più di ieri, in una condizione tecnico-commerciale distribuita e scandita da domicili sempre più mirati e diretti, da tempo il capitolato dei TIPA Awards è scandito da quaranta segnalazioni (forse troppe? disorientanti? se ne sta parlando!), opportunamente cadenzate. In onore e dipendenza (?)
da una storia condivisa tra le testate del cartello Technical Image Press Association -TIPA, in acronimo; www.tipa.com-, pur estraneo e lontano da qualsivoglia graduatoria di merito e valore, l’elenco dei premi annuali è sillabato a partire dalle reflex, inevitabile riferimento principale dell’intero mercato fotografico, e prosegue per identificazioni consequenziali: obiettivi intercambiabili, opportunamente suddivisi per categorie certe; Mirrorless (ufficialmente CSC - Compact System Camera) e relativi obiettivi; infrastruttura e complementi; fino al Design innovativo. Ovviamente, in doverosa sintesi, riproponiamo la stessa modulazione ufficiale, riassunta anche per marchi fotografici, in ovvio e prevedibile ordine rigorosamente alfabetico (a pagina 50). Da questo elenco, in doppia chiave di presentazione, ciascuno tragga le proprie considerazioni, soprattutto in merito (è il caso!) di quelle produzioni fotografiche che si sono distinte in più categorie, stabilendo così sia la propria determinazione tecnica, sia la propria vigorosa personalità commerciale. Vogliamo accennarne? Fujifilm, cinque attestati; Nikon, quattro attestati; Canon, Panasonic e Sony, tre attestati ciascuna; Manfrotto, Olympus e Sigma, due attestati ciascuna. In totale, i TIPA Awards 2017 hanno premiato ventiquattro marchi, come appena annotato, otto con più segnalazioni e sedici con segnalazione unica, proporzionale ai rispettivi indirizzi tecnico-commerciali.
AWARDS 2017
Quaranta prodotti fotografici eminenti e superiori, al vertice della attuale stagione tecnico-commerciale, di ventiquattro marchi, otto dei quali vincitori plurimi: è la sintesi numerica dei prestigiosi e ambìti TIPA Awards 2017, che -in propria conferma autorevole- indicano le eccellenze della tecnologia applicata alla fotografia, dalla ripresa alla gestione. Assicurazione e garanzia: quando il marchio dei TIPA Awards appare in un annuncio pubblicitario, un pieghevole o sulla confezione di un prodotto, potete essere certi che è stato meritato. I TIPA Awards sono un motivo di orgoglio per chi li attribuisce e per coloro che li ricevono
DI MEGLIO` NON CE N’E
49
A PROPOSITO DI TIPA AWARDS
Così che, selezionati con ammirevole competenza tra i prodotti tecnici che sono stati introdotti sul mercato nell’ultimo anno, dall’aprile 2016 al marzo 2017, gli autorevoli TIPA Awards 2017 confermano e ribadiscono la personalità di queste significative attribuzioni, affermatesi stagione dopo stagione. Sono i più prestigiosi, qualificati e ambìti premi della fotografia, assegnati dalla selettiva giuria della Technical Image Press Association, composta da direttori e/o redattori di trenta qualificate riviste internazionali di fotografia. Assegnati a ventiquattro marchi, i quaranta TIPA Awards 2017 riconoscono, rilevano, rimarcano e mettono l’accento sull’evoluzione tecnica dell’intero comparto della fotografia. Qual è il percorso per il quale un prodotto fotografico, uno strumento della fotografia, viene insignito con il TIPA Award di categoria?
La selezione e distinzione dell’autorevole giuria dei TIPA Awards, composta da direttori e redattori di trenta riviste fotografiche internazionali (in origine, soltanto europee, da qualche stagione, autenticamente planetarie), non si basa tanto sul confronto (scontro?) tra configurazioni analoghe e omogenee nella propria proposizione tecnico-commerciale, quanto su un giudizio autonomo e indipendente: diciamo, per se stesso (prodotto) in quanto tale. Da cui, la motivazione del premio rivela l’essenza, sottolinea il senso e valore. Come da qualche stagione a questa parte, all’indomani della consistente manifestazione della tecnologia fotografica digitale, che ha moltiplicato gli strumenti di uso e consumo, anche i TIPA Awards 2017 hanno indicato quaranta prodotti, per altrettante categorie operative di riferimento. Ovviamente, la scomposizione/sud(continua a pagina 56)
TIPA AWARDS 2017: BEST...
DSLR Entry Level ............................................................... Nikon D5600 APS-C DSLR Expert ................................................................ Pentax KP Full Frame DSLR Expert .................................. Canon Eos 5D Mark IV DSLR Professional ................................................................ Sony α99 II DSLR Wide Angle Zoom Lens ........................ Sigma 12-24mm f/4 DG HSM - Art DSLR Standard Zoom Lens ................... Canon EF 24-105mm f/4L IS II USM DSLR Telephoto Zoom Lens ....... Tamron SP 150-600mm f/5-6,3 Di VC USD G2 DSLR Prime Lens .......................... Sigma 85mm f/1,4 DG HSM - Art Professional DSLR Lens .............................. PC Nikkor 19mm f/4E ED Medium Format Camera ............................................ Fujifilm GFX 50S Mirrorless CSC Entry Level ............................................ Fujifilm X-T20 Mirrorless CSC Expert ....................................................... Fujifilm X-T2 Mirrorless CSC Professional ............... Olympus OM-D E-M1 Mark II CSC Standard Zoom Lens ................... Panasonic Lumix G X Vario 12-35mm f/2,8 II Asph / Power OIS CSC Telephoto Zoom Lens ................ Olympus M.Zuiko Digital ED 12-100mm f/4 IS Pro CSC Prime Lens .......................................... Fujinon XF 23mm f/2 WR Expert Compact Camera ....................................... Sony DSC-RX100 V Superzoom Camera ...................... Panasonic Lumix DC-FZ80 / FZ82 Professional Compact Camera ....................................... Fujifilm X100F Rugged Camera ..................................................... Nikon Coolpix W100 Camcorder ............................................................................. Canon XC15 Professional Photo/Video Camera ............ Panasonic Lumix DC-GH5 Photo Printer ............................................. Epson SureColor SC-P5000 Inkjet Photo Paper ............ Canson Infinity Baryta Prestige 340gsm Imaging Software ..................................................... MacPhun Luminar Camera Accessory ..................................... Manfrotto Lens Filter Suite Lighting Accessory ............................................................ Nissin Air10s Imaging Storage Solution ......... SanDisk Extreme 900 Portable SSD Imaging Processing Equipment .............................. Wacom Intuos Pro Professional Flash System ..................................................... Profoto D2 Portable Flash ...................................................... Metz Mecablitz M400 Tripod ............................................... Vanguard Alta Pro 2 treppiedi con testa a sfera 263AB 100 Photo Monitor ......................... LG 27MDSKA (UltraFine 5K Display) Photo Smartphone ............................................ Huawei P10 / P10 Plus Camera Drone ........................................................... DJI Phantom 4 Pro Actioncam ................................................................. Sony FDR-X3000R 360° Camera ...................................................... Nikon KeyMission 360 Photo Print Service ........................... WhiteWall UltraHD Photo Print Photo Bag ................................................ Manfrotto Pro Light 3N1-36 Design ..................................................................... Hasselblad X1D 50C
50
Canon Eos 5D Mark IV ............................... Full Frame DSLR Expert Canon EF 24-105mm f/4L IS II USM ............................................. DSLR Standard Zoom Lens Canon XC15 ....................................................................... Camcorder Canson Infinity Baryta Prestige 340gsm ........... Inkjet Photo Paper DJI Phantom 4 Pro ...................................................... Camera Drone Epson SureColor SC-P5000 .......................................... Photo Printer Fujifilm GFX 50S ........................................ Medium Format Camera Fujifilm X100F .................................... Professional Compact Camera Fujifilm X-T2 .................................................. Mirrorless CSC Expert Fujifilm X-T20 ........................................ Mirrorless CSC Entry Level Fujinon XF 23mm f/2 WR ....................................... CSC Prime Lens Hasselblad X1D 50C ................................................................ Design Huawei P10 / P10 Plus ........................................ Photo Smartphone LG 27MDSKA (UltraFine 5K Display) ....................... Photo Monitor MacPhun Luminar ................................................. Imaging Software Manfrotto Lens Filter Suite .................................. Camera Accessory Manfrotto Pro Light 3N1-36 ............................................ Photo Bag Metz Mecablitz M400 .................................................. Portable Flash Nikon D5600 .......................................................... DSLR Entry Level Nikon Coolpix W100 ................................................. Rugged Camera PC Nikkor 19mm f/4E ED ............................ Professional DSLR Lens Nikon KeyMission 360 .................................................. 360° Camera Nissin Air10s ........................................................ Lighting Accessory Olympus OM-D E-M1 Mark II .............. Mirrorless CSC Professional Olympus M.Zuiko Digital ED 12-100mm f/4 IS Pro .......................... CSC Telephoto Zoom Lens Panasonic Lumix DC-FZ80 / FZ82 .................... Superzoom Camera Panasonic Lumix DC-GH5 ........... Professional Photo/Video Camera Panasonic Lumix G X Vario 12-35mm f/2,8 II Asph / Power OIS ... CSC Standard Zoom Lens Pentax KP ............................................................ APS-C DSLR Expert Profoto D2 ................................................. Professional Flash System SanDisk Extreme 900 Portable SSD ........ Imaging Storage Solution Sigma 12-24mm f/4 DG HSM - Art ................................. DSLR Wide Angle Zoom Lens Sigma 85mm f/1,4 DG HSM - Art ........................ DSLR Prime Lens Sony DSC-RX100 V .................................... Expert Compact Camera Sony FDR-X3000R ............................................................ Actioncam Sony α99 II ........................................................... DSLR Professional Tamron SP 150-600mm f/5-6,3 Di VC USD G2 .................................... DSLR Telephoto Zoom Lens Vanguard Alta Pro 2 treppiedi con testa a sfera 263AB 100 ............................................... Tripod Wacom Intuos Pro ............................ Imaging Processing Equipment WhiteWall UltraHD Photo Print ......................... Photo Print Service
TIPA AWARDS 2017 FUJIFILM BEST MEDIUM FORMAT CAMERA: FUJIFILM GFX 50S Con un sensore di acquisizione digitale di immagini Cmos in dimensioni medio formato, da 51,4 Megapixel (43,8x32,9mm), e processore di immagine X-Processor Pro, la Fujifilm GFX-50S è una configurazione compatta e leggera, con un display touch a cristalli liquidi da 2,36 Megapixel e un mirino elettronico da 3,69 Megapixel. Questa Mirrorless è dotata di un innovativo otturatore sul piano focale, con la velocità di otturazione più breve di 1/4000 di secondo, capace di arrivare a 1/16.000 di secondo, passando all’otturatore elettronico. Le acquisizioni possono essere salvate in un’ampia gamma di formati e a vari livelli Jpeg e Raw a 14 bit. I video possono essere realizzati in Full HD, con quattro gradi di definizione, che vanno da 29,97p a 23,98p, a 36Mbps con suono stereo. Tra i numerosi accessori, l’efficace mirino e la connessione USB per sessioni operative in studio.
BEST PROFESSIONAL COMPACT CAMERA: FUJIFILM X100F La Fujifilm X100F è stata dotata di un nuovo sensore Cmos da 24,3 Megapixel, formato APS-C, e del processore di immagine X-Processor Pro aggiornato, con una sensibilità da 200 a 12.800 Iso equivalenti, con opzione “push” a 51.200 Iso equivalenti. Può registrare immagini in Jpeg e Raw fino a otto fotogrammi al secondo e video fino a 1080/60p, con microfono stereo incorporato. L’obiettivo fisso 35mm f/2 (equivalente) consente riprese ravvicinate fino a 10cm. Come nei modelli precedenti, il mirino è ibrido, ottico o elettronico. Classico il display fisso da tre pollici. Non manca il flash incorporato e la slitta porta accessori con contatto caldo per flash separati. Il Wi-Fi consente il controllo remoto con gli smartphone.
BEST CSC PRIME LENS: FUJINON XF 23mm f/2 WR Lo schema ottico del Fujinon XF 23mm f/2 WR è costruito da dieci lenti in sei gruppi, comprensivo di due elementi asferici per la nitidezza delle immagini su tutto il campo. Il motore passo-passo incorporato fornisce un AF veloce, fluido e silenzioso. In combinazione con l’AF a rilevamento di fase, la messa a fuoco si ottiene in 0,05 secondi. Altre caratteristiche includono il trattamento delle lenti Super EBC, protezione dagli agenti atmosferici e una buona tolleranza alle basse temperature atmosferiche. Quando si desidera una profondità di campo ridotta, la minima distanza di messa a fuoco, a 23cm, e l’apertura circolare del diaframma f/2, con nove lamelle, permettono un efficace e pertinente effetto bokeh.
BEST MIRRORLESS CSC ENTRY LEVEL: FUJIFILM X-T20 Dotata di un sensore X-Trans Cmos III in dimensioni APS-C, da 24,3 Megapixel, la Fujifilm X-T20 salva e archivia i file fotografici sia in Jpeg sia in Raw a 14 bit, e quelli video nei modi 4K, Full HD e HD. Capace di registrare sequenze rapide a quattordici fotogrammi al secondo, con otturatore elettronico, e a otto fotogrammi al secondo, con otturatore meccanico, offre un’ampia gamma di opzioni di sequenze fino a ottantuno fotogrammi in Jpeg e ventinove in Raw, sempre in dipendenza del formato e della quantità di scatti. Il mirino elettronico Oled ad alta risoluzione conta 2,36 Megapixel, mentre il touch screen posteriore TFT LCD da tre pollici, inclinabile, ha una risoluzione di 1040K dot. Si possono gestire i modi di esposizione con la selezione Control Mode o utilizzare la modalità SR Auto, per accedere alle opzioni scena e alle creatività preconfezionate.
BEST MIRRORLESS CSC EXPERT: FUJIFILM X-T2 La Fujifilm X-T2 adotta un sensore X-Trans Cmos III da ventiquattro Megapixel, formato APS-C, e l’X-Processor Pro capace di una sensibilità massima di 51.200 Iso equivalenti. Ottimamente reattivo, il mirino elettronico offre un refresh a cento fotogrammi al secondo, in Live View. Sul dorso è presente un display LCD, orientabile in tre direzioni, da tre pollici. Ancora, si segnalano consistenti prestazioni AF, anche in condizioni di scarsa luminosità e con soggetti a basso contrasto; mentre la regolazione AF-C consente di agganciare i movimenti del soggetto. La registrazione video ad alta qualità si ottiene con circa 1,8 volte il numero di informazioni per produrre video 4K, e 2,4 volte per Full HD. Per impieghi professionali, è disponibile un’impugnatura di alimentazione (opzionale), per incrementare le prestazioni quanto a scatto continuo e registrazioni video 4K, fino a quasi trenta minuti.
51
TIPA AWARDS 2017 PANASONIC BEST CSC STANDARD ZOOM LENS: PANASONIC LUMIX G X VARIO 12-35mm f/2,8 II ASPH / POWER O.I.S. Tra gli obiettivi Lumix G aggiornati da Panasonic, questo luminoso zoom 12-35mm funziona in modo silenzioso grazie al sistema di messa a fuoco interna, oltre alla gestione del diaframma tramite un motore micro-step. Un altro vantaggio è l’eccellente prestazione del sistema di tracking AF durante lo zoom. Lo stesso zoom è dotato di stabilizzatore Dual I.S. e Dual I.S.2 su cinque assi. A propria volta, il sistema Dual I.S.2 su cinque assi è perfezionato per essere utilizzato sulle più recenti Panasonic, come le Lumix DC-GH5 e Lumix DC-G80. Lo schema ottico è costituito da quattordici lenti in nove gruppi, comprese quattro lenti asferiche, cinque con superfici asferiche, una tipo UHR (Ultra-High-Refractive Index) e una UED (Ultra Extra-Low Dispersion). BEST PROFESSIONAL PHOTO/VIDEO CAMERA: PANASONIC LUMIX DC-GH5 La Panasonic Lumix DC-GH5 è una configurazione fotografica dal peso contenuto, ma resistente alle intemperie. Il sensore Live MOS da 20,3 Megapixel utilizza un’avanzata gestione del segnale digitale e favorisce la dispersione del calore, per consentire la registrazione e il processo interno di video a 4K 4:2:2 a 10 bit. Numerosi formati di registrazione includono AVCHD, MP4 e MOV. La Lumix DC-GH5 offre anche la funzione Photo 6K, in grado di estrapolare fotogrammi a diciotto Megapixel da riprese video a 30fps 6K (nei rapporti 4:3 o 3:2). Inoltre, la fotografia 6K finalizza l’alta velocità di ripresa per consentire l’acquisizione di immagini fisse ad alta risoluzione: fotografie da otto Megapixel a 4K possono essere acquisite a sessanta fotogrammi al secondo.
BEST SUPERZOOM CAMERA: PANASONIC LUMIX DC-FZ80 / FZ82 La Panasonic Lumix FZ80 è dotata di uno straordinario zoom ottico 60x, con escursione 20-1200mm. Consente video a 4K e HD, con livelli di output e velocità in grado di soddisfare ogni esigenza creativa. Registrazione Jpeg e Raw per la fotografia. Ha un sensore Cmos da 18,1 Megapixel, con alta sensibilità Iso (equivalente), Wi-Fi e stabilizzatore di immagine Power O.I.S. L’obiettivo Lumix DC Vario ha un disegno ottico contenente sei lenti asferiche, nove superfici asferiche e tre elementi ED. Nella modalità macro, la distanza minima di messa a fuoco è da un centimetro, in posizione grandangolare. Numerose le opzioni AF (continuo, tracking e touch), i modi di esposizione e le modalità creative (ventidue), per effetti speciali.
TIPA AWARDS 2017 HASSELBLAD BEST DESIGN: HASSELBLAD X1D 50C Con un peso inferiore alla metà di quello delle reflex medio formato digitali precedenti, derivate dall’iconico Sistema V, la Hasselblad X1D 50C Mirrorless è ergonomica e compatta, con un design pratico e di gran classe. Più piccola rispetto alla maggior parte delle reflex full-frame, mostra una funzionalità eccellente, con un potente sensore da cinquanta Megapixel (43,8x32,9mm). Sul retro, una comoda rotella propone l’impostazione di tre tipi di settaggi personalizzati. Si può optare per la visualizzazione attraverso il mirino elettronico da 2,4 Megapixel, quando le condizioni di illuminazione sono critiche, o sul luminoso display LCD da tre pollici posteriore, brillante e ad alta risoluzione. Oltre la visualizzazione, lo stesso display è un interfaccia touch screen molto semplice, con il quale si può accedere alla maggior parte delle funzioni operative attive e passive, dal replay allo zoom visuale.
52
TIPA AWARDS 2017 NIKON BEST PROFESSIONAL DSLR LENS: PC NIKKOR 19mm f/4E ED I fotografi di architettura e quelli che lavorano in interni possono apprezzare la qualità e le caratteristiche di questo PC Nikkor 19mm f/4E ED, decentrabile e basculabile, nel controllo della prospettiva con reflex full frame. Nel disegno ottico sono incluse tre lenti ED e due asferiche, trattate con la tecnologia Nano Crystal e Super Integrated. Basculaggio di più/meno 7,5 gradi e decentramento di più/meno 12mm, con rotazione alla montatura fino a novanta gradi di orientamento rispetto al soggetto. L’obiettivo offre un controllo totale della prospettiva: i movimenti di basculaggio e decentramento possono essere regolati indipendentemente, con rispettive collocazioni parallele o perpendicolari tra loro. Le lenti esterne, anteriore e posteriore, sono protette da un trattamento repellente al fluoro, contro acqua e polvere; il diaframma chiude fino a f/32.
BEST RUGGED CAMERA: NIKON COOLPIX W100 Impermeabile fino a dieci metri, antiurto per cadute da 1,8 metri, utilizzabile a -10°C e antipolvere: è la Nikon W100, una compatta robusta, di prezzo adeguato, dotata di sensore Cmos da 13,2 Megapixel, che consente di scattare immagini fino a circa 4,7 fotogrammi al secondo e video Full HD a 30p. Lo Zoom Nikkor 3x copre l’escursione focale da 30 a 90mm (equivalenti), con stabilizzatore Electronic VR. Un display LCD TFT da 2,5 pollici può essere regolato su cinque livelli di luminosità. Numerose le modalità scena e creative, inclusa la compensazione dell’esposizione più/meno 2EV. I controlli dedicati, tipo touch, rendono facile la ripresa in cattive condizioni meteorologiche o subacquee. Nikon SnapBridge consente di condividere immagini su smartphone.
BEST 360° CAMERA: NIKON KEYMISSION 360 La Nikon KeyMission 360 consente di registrare e condividere video e fotografie per interi trecentosessanta gradi. Il corpo è impermeabile, antiurto e antigelo, senza necessità di custodia. La configurazione può registrare video HD 4K, fotografie da 23,9 Megapixel e sequenze temporizzate; incorpora il Nikon SnapBridge, per la condivisione senza cavi dei file in tempo reale. La minima distanza di messa a fuoco è di 30cm circa, con la focale 8,2mm (equivalente). Compatta (61,1x65,7x60,1mm) e leggera (198g); le sue valide caratteristiche permettono di scattare immagini in ogni situazione e dispone di utili accessori dedicati.
BEST DSLR ENTRY LEVEL: NIKON D5600 La Nikon D5600, formato DX, da 24,2 Megapixel, dispone della funzione SnapBridge, che può essere utilizzata per riprese a distanza o per trasferire automaticamente gli scatti dalla reflex a uno smartphone o tablet compatibile, via Bluetooth. Il video può anche essere trasferito con la connettività Wi-Fi incorporata. La reflex consente riprese continue a cinque fotogrammi al secondo e dispone di un autofocus a trentanove punti, nonché una gamma di sensibilità da 100 a 25.600 Iso compatibili. Sul dorso, il display touch LCD da 8,1cm, ad angolazione variabile, da 1037K pixel, consente la ricerca del punto di vista più creativo, anche utilizzando filtri e modalità per effetti speciali. Dispone del video Full HD a 60p e del formato fotografico grezzo Nikon NEF (Raw).
53
TIPA AWARDS 2017 SIGMA BEST DSLR WIDE ANGLE ZOOM LENS: SIGMA 12-24mm f/4 DG HSM - ART Con uno schema ottico costituito da sedici lenti divise in undici gruppi, comprensivo di elementi in vetro FLD, tra i quali la “più grande lente asferica del settore”, e l’aggiornato Hyper Sonic Motor, con coppia di 1,3x, il Sigma 12-24mm f/4 DG HSM - Art offre un autofocus molto efficace. Questo zoom grandangolare, con luminosità fissa, è stato progettato per l’impiego con reflex full frame, ma può essere utilizzato anche con reflex dotate di sensori di dimensioni inferiori (APS-C), con le quali configura un’escursione focale 18-36mm (equivalente). Con un’apertura minima di f/22 e una capacità di ripresa ravvicinata fino a 24cm (alla focale 24mm), si possono creare immagini di alto impatto, con profondità di campo estreme; mentre l’apertura fissa f/4 e il diaframma circolare a nove lamelle consentono di ottenere affascinanti effetti bokeh.
BEST DSLR PRIME LENS: SIGMA 85mm f/1,4 DG HSM - ART Medio tele 85mm, che fa parte della gamma Sigma Art, pensato e finalizzato per la fotografia di ritratto e la realizzazione di effetti visivi intensi, con una ridotta profondità di campo. Adotta due lenti FLD (fluorite equivalenti) ad alto indice di rifrazione e a dispersione anomala (AD), per contenere al massimo l’aberrazione cromatica. È dotato di diaframma a controllo elettronico a nove lamelle e motore ipersonico (HSM), per un autofocus reattivo e silenzioso (possibilità di incremento della coppia di 1,3x). Innesto in ottone, per la massima durata; il barilotto è realizzato in composito TSC, un materiale che garantisce l’impiego anche a temperature estreme, ma molto più leggero di altri materiali con pari prestazioni.
TIPA AWARDS 2017 SANDISK BEST IMAGING STORAGE SOLUTION: SANDISK EXTREME 900 PORTABLE SSD Il disco rigido esterno SanDisk Extreme 900 Portable SSD (Solid State) può contenere fino a 1,92TB di dati, con una velocità di lettura e scrittura fino a 850MB/s, ideale per il trasferimento e l’accesso a video di grandi dimensioni e fotografie altrettanto dimensionate. Protetto da un corpo in alluminio, è resistente sia alle alte temperature sia a colpi e cadute. Consente di crittografare i file per proteggerli e renderli disponibili all’accesso solo al titolare e a autorizzati. L’unità è compatibile con PC e Mac, senza bisogno di driver; per Windows 8, 8.1 e 10 e Mac OS 10.6+.
54
TIPA AWARDS 2017 PENTAX BEST APS-C DSLR EXPERT: PENTAX KP La Pentax KP è una reflex tropicalizzata e antipolvere, con un sensore da 24,3 Megapixel, in dimensione APS-C Cmos e senza filtro passa-basso. Offre una notevole sensibilità da 819.200 Iso equivalenti, il Pixel Shift Resolution System e la tecnologia filtro AA, per la riduzione del moiré. Dispone di sistema anti vibrazioni a cinque assi, un monitor LCD inclinabile e due modalità per esposizioni brevissime, con otturatore meccanico da 1/6000 di secondo (1/24.000 di secondo ricorrendo all’otturatore elettronico). Disponibili la registrazione video Full HD e la funzione Wi-Fi incorporata, per l’uso con la Image Sync app. Il mirino a pentaprisma copre il cento percento del campo inquadrato e la reflex può salvare e archiviare in Jpeg e Raw 14 bit.
TIPA AWARDS 2017 METZ BEST PORTABLE FLASH: METZ MECABLITZ M400 Il flash compatto Metz Mecablitz M400 ha un Numero Guida 40 (nel riferimento canonico di 100 Iso, a un metro di distanza) ed è compatibile con un’ampia gamma di reflex, Mirrorless, e Micro QuattroTerzi. È dotato di testa girevole, con zoom motorizzato (24-105mm), diffusore grandangolare integrato (12mm) e display Oled come interfaccia utente. La modalità Auto TTL consente il controllo completo e automatico del flash dall’apparecchio fotografico. Può essere sincronizzato con la prima o la seconda tendina dell’otturatore, e supporta le modalità di sincronizzazione ad alta velocità HSS o FP e la funzionalità TTL wireless, in base alla macchina fotografica in uso.
TIPA AWARDS 2017 NISSIN BEST LIGHTING ACCESSORY: NISSIN AIR10S L’Air10s è un avanzato commander flash TTL 2,4Ghz della gamma Nissin Air System (NAS). Il display LCD a colori consente di controllare senza cavi e rapidamente anche un certo gruppo di flash entro una distanza massima di cento metri. È compatibile con le reflex Canon, Fujifilm, Nikon, Sony e Micro QuattroTerzi, e in grado di gestire versioni diverse unità NAS Ready. È dotato di uno slot per schede micro SD, per eseguire aggiornamenti senza difficoltà. Può essere utilizzato in manuale o TTL, con passi di più/meno 1/3 EV. La nuova funzione TTL Memory consente di passare immediatamente alla modalità manuale.
55
TIPA AWARDS 2017 PROFOTO BEST PROFESSIONAL FLASH SYSTEM: PROFOTO D2 Il monotorcia Profoto D2 è definito da una emissione lampo dalla durata minima di 1/63.000 di secondo, per tutte le dieci potenze luminose selezionabili. La sincronizzazione è garantita per esposizioni estremamente brevi, fino a 1/8000 di secondo, ideale per l’uso del flash in esterni. Il tempo di ricarica è estremamente veloce e consente fino a venti lampi al secondo. Si può lavorare in modalità TTL o con esposizione manuale, con incrementi in decimi di potenza. Il D2 è disponibile in versioni da 500W e 1000W, entrambe TTL compatibili con reflex Canon e Nikon tramite il sistema radio Profoto 2.4GHz AirTel. L’unità va a integrare la gamma dei Profoto Light Shaping, e può utilizzare oltre centoventi accessori per modellare la luce.
(continua da pagina 50) divisione si basa sull’ufficialità di termini e relazioni tecniche; altrettanto ovviamente, qualcuno può oggi dissentire da tanto e tale frazionamento, che -se arrivasse integro al pubblico consumatore, verso il quale è orientata la produzione industriale- potrebbe risultare persino disarmante, se non già addirittura sconcertante. Infatti, come altri che la pensano allo stesso modo, siamo perfettamente convinti che l’utente che desidera uno strumento fotografico non scandisca la propria aspirazione, ma si comporti linearmente: sta all’interlocutore commerciale indirizzarlo verso la scelta più adeguata, sia questa Entry level, piuttosto che Advanced, se non persino Professional. Ancora, e poi basta, anche la separazione tra reflex, CSC - Compact System Camera (in origine, Mirrorless) e compatte ha motivo di esistere soltanto nella propria misura statistica: perché al pubblico deve arrivare la nozione di macchina fotografica, punto e basta. Casomai, macchina fotografica congeniale e compatibile con le necessità da assolvere. In particolare, vorremmo che le CSC - Compact System Camera smettessero di essere classificate, quantomeno sugli scaffali di vendita, per essere integrate nella personalità attuale della fotografia dei nostri giorni. In ogni caso, è logico che i TIPA Awards cadenzino e pronuncino le categorie di riferimento dell’intero mercato, in modo da poter segnalare ciò che la giuria ha ritenuto e ritiene degno di aggiudicazione. Sta poi al percorso commerciale fare tesoro di queste indicazioni, sottolineare il valore dei singoli prodotti, certificare la relativa valenza tecnica, se non già persino tecnologica. Insomma... i TIPA Awards si affermano nella propria competente proiezione di mercato: con certificazioni di capacità sulle rispettive confezioni di vendita, piuttosto che in accompagnamento agli annunci pubblicitari.
VALORE DEI TIPA AWARDS Riprendendo il testo di una specifica originaria, che ne sottolinea lo spessore, va sottolineato quanto ribadisce in termini oggettivi e condivisibili il valore dei TIPA Awards: «Se avete bisogno di conoscere quali siano i migliori prodotti fotografici, video e imaging, cercate i qualificati e autorevoli logotipi dei TIPA Awards. I TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. Sono attribuiti dai direttori di trenta riviste di fotografia e imaging, leader nel mondo, in cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan». Da cui, in aggiornamento fonetico, ma conferma di contenuto, in dipendenza di una autorevole personalità di Giornalismo, Esperienza e Responsabilità: «Dal 1990, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging
56
dell’anno in corso. Da venticinque [ventisette] anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan» (dall’annuncio tabellare dei TIPA Awards, che dal 2016 di origine si è allungato sulla primavera 2017). Come già rilevato in altre occasioni, e la ripetizione si impone, statisticamente parlando, l’eterogeneità dei punti di vista dei membri dell’autorevole Technical Image Press Association, che riprendono l’intero pianeta, assicura la fondatezza dei giudizi espressi e meriti accordati, che appunto derivano e dipendono da una confortevole e concentrata osservazione tecnica a giro tondo, senza soluzione di continuità. La configurazione TIPA - Technical Image Press Association evita ogni possibile predominanza e preconcetto. Addirittura, risulta benefica, oltre che straordinariamente efficace, la comunione di intenti tra riviste dichiaratamente tecniche, che con competenza elevano le relative condizioni a valore assoluto e inviolabile, e riviste rivolte all’immagine, che subordinano il momento originariamente tecnico all’interpretazione creativa (se proprio vogliamo rilevarlo, FOTOgraphia, che porta in TIPA la propria particolare esperienza e visione, è ancora altro: riflessione, analisi, approfondimento anche del linguaggio e degli stilemi espressivi). Confermiamo, ribadendolo, che le riviste TIPA rivendicano un ruolo di competenza fuori dal comune, capace di analizzare il mercato fotografico che dal proprio presente si proietta in possibili e potenziali scenari del futuro, immediato ma anche più lontano. A diretta conseguenza, così profondamente studiati e motivati, i TIPA Awards si affermano come i più qualificati e prestigiosi premi della tecnica e tecnologia fotografica, e per questo sono ambìti. Ogni anno, i TIPA Awards scompongono il mercato, identificando al proprio interno categorie merceologiche significative per se stesse e nell’insieme che disegnano e definiscono. A differenza delle analisi commerciali compilate su schemi adeguatamente oggettivi, il punto di osservazione dei vivaci e brillanti TIPA Awards è assolutamente meno asciutto: soprattutto, è guidato da una competente visione reale e realistica del mercato fotografico, che dalla tecnica si proietta all’uso e, quindi, all’espressione creativa individuale.
DA CUI, IN CONSEGUENZA In un certo senso, se l’analisi sui TIPA Awards (anche soltanto nella propria recente edizione 2017) potesse essere approfondita, andando oltre la sola elencazione delle relative indicazioni (sempre più lunga e dettagliata), si potrebbe ricavarne un autentico specchio dei tempi tecnologici della fotografia. Per quanto sia legittima, la
visione e minuta moltiplicazione e scomposizione delle categorie (da anni assestate sulla quantità di quaranta) sta a certificare, non solo suggerire, la radicale trasformazione della gestione fotografica individuale, sia professionale sia non professionale, che oggi si allarga a tutto il processo nel proprio insieme, più e diversamente di quanto non sia mai successo con la consecuzione della pellicola e relativo trattamento. Dagli apparecchi, manco a dirlo, alle stampanti (che possono essere considerate in parallelo agli ingranditori del passato), ma anche alla carta e ai software, il fotografo di oggi, e ancor più di domani, deve estendere esponenzialmente le proprie competenze di uso e capacità, fino a stabilire un percorso senza soluzione di continuità dalla forma ai contenuti. Anche questo, o forse soprattutto questo, offre materia di riflessione. Invece di inutili e aride diatribe, dal punto di vista operativo, si tratterebbe di valutare quali e quante implicazioni parallele si accompagnano con le trasformazioni tecnologiche. Senza pregiudizi, né preconcetti, l’argomento offre straordinaria materia di analisi, che potrebbe arricchire i contenuti e le coscienze della fotografia, senza che sia necessario schierarsi su fazioni contrapposte. Angeli e demoni: c’è del bene e del male in tutto (ma anche in tutti, come puntualizzò la doppia personalità letteraria del dottor Jeckyll e mister Hyde). Dunque, si tratta soltanto, e non già soprattutto, di mettere a frutto ciò che ciascuna tecnologia offre. Così come, in tutta la lunga vicenda tecnica della fotografia, dalle proprie lontane origini, si sono scelti apparecchi, accessori e obiettivi in ordine con le proprie particolari necessità ed esigenze. Al di là delle filosofie di fondo, sollecitate proprio da momenti particolari, come lo è la qualificata e autorevole sintesi dei TIPA Awards, in se stessi, i premi rappresentano un concentrato momento focale della tecnologia fotografica attuale e futuribile.
Come abbiamo avuto già modo di sottolineare, e la ripetizione è d’obbligo, per propria natura e personalità professionale, i direttori e redattori delle trenta riviste fotografiche internazionali che compongono la Technical Image Press Association (TIPA) sono allo stesso momento al vertice e alla coda del mercato. Al vertice, quando e per quanto debbono intuire le evoluzioni tecnologiche in divenire; alla coda, quando e per quanto debbono registrare, annotandole e magari commentandole, perfino motivandole, le personalità del mercato: comunque questo si esprima. Nella sessione giudicatrice, le discussioni tra i giurati nazionali manifestano ed esprimono quella vitalità che dà lustro al mercato. L’affermazione finale arriva al culmine di un processo estremamente severo e approfondito. Nulla è lasciato al caso, o sottovalutato. Come già annotato, svolgendo con doverosa serietà e adeguato scrupolo il proprio ruolo, intermediario tra le realizzazioni dell’industria e le aspettative del pubblico, ogni anno la giuria TIPA osserva il presente, tenendo aperti gli occhi anche sul possibile e potenziale futuro: avendo ben chiaro che ciò che conta non sono tanto le soluzioni che si risolvono in se stesse, seppur genialmente, quanto le intuizioni che sanno anche dare spessore generale all’intero mercato fotografico. Dall’aggiudicazione, alla quale fa seguito la cerimonia ufficiale della consegna dei premi, per un anno, fino alla prossima primavera 2018, le aziende produttrici e distributrici possono combinare la presentazione dei relativi vincitori di categoria con l’identificazione ufficiale dei TIPA Awards 2017. In ripetizione obbligatoria: Quando il marchio dei TIPA Awards appare in un annuncio pubblicitario, un pieghevole o sulla confezione di un prodotto, potete essere certi che è stato meritato. I TIPA Awards sono un motivo di orgoglio per chi li attribuisce e per coloro che li ricevono. ❖
Passato sul presente racconto fantascientifico di Ray Bradbury (1952)
RUMORE DI TUONO
Oggi collegato a considerazioni espresse su questo stesso numero, a pagina 46, nel contesto della presentazione della monografia Norman Mailer. JFK. Superman Comes to the Supermarket, pubblicata da Taschen Verlag, Rumore di tuono (A Sound of Thunder) è un racconto fantascientifico breve di Ray Bradbury, pubblicato per la prima volta nel 1952. Edito in Italia con il titolo originario Rumore di tuono, nel 1964, è stato successivamente ripubblicato anche con i titoli Un rumore di tuono, Rombo di tuono e Un rombo di tuono. La più recente riproposizione editoriale italiana è nella raccolta Viaggi nel tempo, a cura di Fabrizio Farina, in edizione Einaudi, dello scorso 2016 (256 pagine 13,5x20,7cm; 13,50 euro), nel quale Rombo di tuono è il primo di undici racconti. A seguire: Tutto il tempo del mondo, di Arthur C. Clarke; Pulce d’acqua, di Philip K. Dick; Rip Van Winkle, di Washington Irving; Il mago rimandato, di Don Juan Manuel; L’orologio che andava all’indietro, di Edward Page Mitchell; Una discesa nel Maelstrom, di Edgar Allan Poe; Interessi composti, di Mack Reynolds; Progetto Brooklyn, di William Tenn; Il cerchio Zero, di Stanley G. Weinbaum; Il nuovo acceleratore, di H. G. Wells (Herbert George).
L
La scritta sul muro sembrò baluginare, come sotto una pellicola d’acqua calda in movimento. Eckels si sentì battere le palpebre sulla fissità degli occhi, e in quella momentanea oscurità la scritta arse: SAFARI NEL TEMPO, INC. SAFARI IN QUALUNQUE ANNO DEL PASSATO. VOI SCEGLIETE L’ANIMALE. NOI VI PORTIAMO LÀ. VOI SPARATE.
Un muco caldo si raggrumò nella gola di Eckels, che inghiottì per mandarlo giù. I muscoli attorno alla sua bocca formarono un sorriso, mentre tendeva lentamente la mano nell’aria, e in quella mano sventolava un assegno di diecimila dollari verso l’uomo seduto alla scrivania. «Questo safari mi dà la garanzia di tornare vivo?» chiese. «Noi non garantiamo niente» rispose l’impiegato. «Tranne i dinosauri». Si voltò. «Questo è il signor Travis, la sua Guida Safari nel Passato. Le dirà lui quando deve sparare. Se il signor Travis dice non spari, lei non spari. Se disubbidisce alle istruzioni, dovrà sborsare una penale di altri diecimila dollari, oltre a subire un’eventuale sanzione penale governativa, al suo ritorno». Eckels guardò dall’altra parte
58
del vasto edificio, verso una massa e un ammasso, un serpentario e un ronzio di cavi e scatole d’acciaio, verso un’aurora che brillava ora arancione, ora argento, ora azzurra. Si udiva un suono come di un gigantesco falò che bruciasse per tutto il Tempo, per tutti gli anni e per tutti i calendari ingialliti, per tutte le ore ammonticchiate in un’alta pira e date alle fiamme. Un tocco della mano, e quell’incendio si sarebbe bellamente capovolto, all’istante. Eckels ricordava alla lettera le parole dell’annuncio pubblicitario. Dalle ossa e dalle ceneri, dal carbone e dal pulviscolo, potevano balzar fuori i vecchi anni, gli anni verdi, simili a salamandre d’oro; le rose potevano profumare l’aria, i capelli bianchi tornare neroirlandese, le rughe scomparire; tutto, ogni cosa poteva scorrere all’indietro, tornare al seme, sfuggire alla morte, sfrecciare verso gli inizi; il sole poteva sorgere nel cielo a occidente e tramontare nel luminoso cielo a oriente, e la luna calare dal lato opposto al solito; tutto e ogni cosa potevano incastrarsi uno nell’altro come in una scatola cinese, come conigli nei cappelli, tutto e ogni cosa potevano tornare alla morte neonata, al seme della morte, alla morte verde, al tempo
Con l’occasione, ricordiamo che Ray Bradbury (1920-2012) è anche l’autore del profetico Fahrenheit 451, del 1953, spesso evocato sulle nostre pagine; tra tanto altro: «E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi». Dal racconto Rumore di tuono, nel 2005, è stato tratto il film Il risveglio del tuono, diretto da Peter Hyams. Comunque, è da questo racconto che molti ritengono potrebbe derivare la definizione di “effetto farfalla”, una locuzione della Teoria del Caos [a pagina 46]. Ancora, in relazione ai viaggi nel tempo, a ritroso, e in coincidente richiamo all’epopea Kennedy [su questo numero, da pagina 42], ricordiamo il romanzo 22.11.63 , di Stephen King, con relativa miniserie televisiva omonima [considerata lo scorso settembre 2016, in relazione a una sua sostanziosa presenza fotografica in scenografia e sceneggiatura], che ipotizza la possibilità di un ritorno a un passato prossimo, all’inizio degli anni Sessanta, al fine di impedire l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, con relativo miglioramento della storia successiva. Ma! M.R. prima dell’inizio. Un tocco della mano poteva far questo, appena un tocco leggero della mano. «Accidenti e maledizione» disse Eckels, con la luce della Macchina che si rifletteva sul suo viso magro. «Una vera Macchina del Tempo». Scosse la testa. «Dà da pensare. Se ieri le elezioni fossero andate male, ora potrei essere in fuga per sottrarmi ai loro risultati. Grazie al cielo ha vinto Keith. Sarà un ottimo presidente degli Stati Uniti». «Sì» disse l’uomo dietro la scrivania. «Siamo fortunati. Se avesse avuto la meglio Deutscher, avremmo la peggior specie di dittatura. Mai esistito un uomo antitutto, tanto militarista. AntiCristo, antiuomo, anti-intellettuale. Ci ha telefonato un sacco di gente, scherzando ma mica troppo. Dicevano che se Deutscher diventava presidente loro volevano tornare a vivere nel 1492. Naturalmente, il nostro mestiere non è organizzare Fughe, ma Safari. Comunque, il presidente è Keith. Lei deve occuparsi solo di...». «Sparare contro il mio dinosauro» finì Eckels per lui. «Un Tyrannosaurus Rex. La Lucertola Tonante. Il peggior mostro della storia. Firmi questo scarico di responsabilità. Qualunque cosa
le succeda, noi non c’entriamo. Quei dinosauri sono affamati». Eckels arrossì, arrabbiato. «Sta tentando di impaurirmi!». «Francamente, sì. Non vogliamo mandare uno che si spaventa al primo sparo. L’anno scorso sono rimasti uccisi cinque capoSafari e una dozzina di cacciatori. Siamo qui per darle le più grandi emozioni che un vero cacciatore possa desiderare. La porteremo indietro di sessanta milioni d’anni perché possa dare la caccia alla più grossa preda di tutti i Tempi. Il suo assegno è ancora qui. Lo stracci». Il signor Eckels guardò a lungo l’assegno. Le dita gli si contraevano. «Buona fortuna» disse l’uomo seduto alla scrivania. «Signor Travis, è tutto suo». Si mossero silenziosamente attraverso la stanza, con i loro fucili, verso la Macchina, verso il metallo argentato e la luce rombante. Prima un giorno e poi una notte e poi un giorno e poi una notte, e poi vi fu giorno-notte-giornonotte-giorno. Una settimana, un mese, un anno, una decade. 2055 d.C, 2019 d.C, 1999! 1957! Via! La macchina rombò. Si misero i caschi a ossigeno e controllarono gli interfoni.
Passato sul presente Eckels ballonzolava sul sedile imbottito, la faccia pallida, la mascella contratta. Sentì un tremito nelle braccia, abbassò lo sguardo e scoprì di avere le mani strette attorno al nuovo fucile. Nella Macchina c’erano altri quattro uomini. Travis, il capo del Safari, il suo aiutante, Lesperance, e altri due cacciatori, Billings e Kramer. Si guardavano fra loro, e gli anni sfrecciavano attorno. «Questi fucili possono abbattere un dinosauro?» sentì dire Eckels dalla propria bocca. «Se si colpiscono nel punto giusto» rispose Travis attraverso la radio del casco. «Alcuni dinosauri hanno due cervelli, uno nella testa, l’altro in fondo alla colonna vertebrale. Staremo lontani da loro. Sarebbe sfidare la fortuna. Deve piazzare i primi due colpi negli occhi, se ce la fa, accecarli, e poi mirare al cervello». La Macchina ululò. Il Tempo era come un film proiettato all’indietro. I soli volavano, e dieci milioni di lune volavano dietro ai soli. «Mio Dio» disse Eckels. «Tutti i cacciatori di tutti i tempi ci invidierebbero, oggi. Questo fa sembrare l’Africa uguale all’Illinois». La Macchina rallentò, il suo ululato si smorzò in un mormorio. La Macchina si fermò. Il sole si bloccò nel cielo. La nebbia che aveva avvolto la Macchina si dissolse, e si trovarono in un vecchio tempo, un tempo vecchissimo, i due capo-Safari e i tre cacciatori con i loro fucili di metallo azzurrognolo sulle ginocchia. «Cristo non è ancora nato» disse Travis. «E Mosè non è andato sul Monte per parlare con Dio. Le Piramidi sono ancora nella terra, in attesa di essere tagliate e costruite. Ricordatelo. Alessandro, Cesare, Napoleone, Hitler... non esiste nessuno di loro». Gli uomini annuirono. «Quella...» indicò il signor Travis «... è la foresta esistita sessanta milioni e duemilacinquantacinque anni prima del presidente Keith». Puntò il dito verso una pista metallica che spariva nella boscaglia verde, sopra una palude fumante, fra felci e palme giganti.
Trasposizione a fumetti del racconto A Sound of Thunder, di Ray Bradbury, in Weird Science-Fantasy, numero 25, del settembre 1954: copertina e avvio; illustrazioni di Nice Al Williamson (autore di Flash Gordon).
«E quella» spiegò «è la Pista, costruita dalla Safari nel Tempo per nostro uso. Non sfiora nemmeno un filo d’erba, o un fiore, o un albero. È di metallo antigravità. Il suo scopo è impedirvi di toccare in qualche modo questo mondo del passato. Restate sulla Pista. Non scendete mai. Ripeto. Non scendete mai. Per nessuna ragione! Se cadete, pagherete una penale. E non sparate contro nessun animale senza la nostra autorizzazione». «Perché?» chiese Eckels. Sedevano nell’antica foresta. Grida di uccelli lontani volavano sul vento, insieme all’odore di catrame e di un vecchio mare salmastro, erba umida e fiori color sangue. «Non vogliamo cambiare il Futuro. Noi non apparteniamo a questo Passato. Al governo non piace che noi siamo qui. Dobbiamo pagare grosse somme per mantenere la nostra licenza. La Macchina del Tempo è un affare che richiede cautela. Senza saperlo, potremmo uccidere un animale molto importante, un uccellino, un gallo selvatico, perfino un fiore, distruggendo così un nesso importante con una specie in crescita». «Non mi è chiaro» disse Eckels. «E va bene» continuò Travis «diciamo che calpestiamo accidentalmente un topo, uccidendolo. Questo significa che tutte le famiglie future di questo particolare topo sono distrutte. Giusto?». «Giusto». «E tutte le famiglie delle famiglie delle famiglie di quel topo! Con la pianta del piede, potete uccidere prima uno, poi una decina, poi un migliaio, poi un milione e un miliardo di possibili topi!». «I quali sono morti. E con questo?». «E con questo?» Travis sbuffò piano. «Be’, che mi dite di tutte le volpi che hanno bisogno di quei topi per sopravvivere? Per mancanza di dieci topi, muore una volpe. Per mancanza di dieci volpi, muore un leone. Per mancanza di un leone, intere specie di insetti, avvoltoi, infiniti miliardi di forme viventi vengono gettate nel caos e
59
Passato sul presente nella distruzione. Alla fine, si arriva a questo: cinquantanove milioni di anni dopo, un uomo delle caverne, uno della dozzina esistente in tutto il mondo, va a caccia di orsi selvaggi o di tigri per nutrirsi. Ma lei, amico, ha schiacciato col piede tutte le tigri di quella regione. Schiacciando col piede un solo topo. E così l’uomo delle caverne muore di fame. E l’uomo delle caverne, la prego di notare, non è un qualunque uomo eliminabile, no! È un’intera nazione futura. Dai suoi lombi sarebbero potuti nascere dieci figli. Dai lombi di quei figli, cento altri figli, e così fino a una civiltà. Distruggere quell’unico uomo significa distruggere una razza, un popolo, un’intera storia di vita. È paragonabile all’omicidio di qualche nipote di Adamo. La pianta del suo piede su un solo topo potrebbe provocare un terremoto, i cui effetti scuoterebbero la nostra Terra e i nostri destini attraverso il Tempo, fin dalle fondamenta. Con la morte di quell’unico uomo delle caverne, un altro miliardo di uomini non ancora nati sarebbero uccisi in germe. Forse Roma non sorgerebbe più sui suoi sette colli. Forse l’Europa resterebbe in eterno una foresta buia, e solo l’Asia crescerebbe sana e popolosa. Schiacci un topo col piede e schiaccerà le Piramidi. Schiacci un topo col piede, e lascerà la sua orma, simile al Grand Canyon, attraverso l’Eternità. La regina Elisabetta potrebbe non nascere mai, Washington potrebbe non attraversare il Delaware, gli Stati Uniti potrebbero non esistere. Quindi, stia attento. Resti sulla Pista. Non ne esca mai!». «Capisco» disse Eckels. «Allora non dobbiamo neanche toccare l’erba?». «Appunto. Schiacciare certe piante potrebbe assommarsi all’infinito. Un piccolo errore ora potrebbe moltiplicarsi, in sessanta milioni di anni, in modo spropositato. La nostra teoria potrebbe anche essere sbagliata, certo. Forse il Tempo non può essere cambiato da noi. O forse può essere cambiato solo in piccoli modi sfuggenti. Un topo morto qui che provoca un insetto squilibrato là,
60
una sproporzione di popolazione più tardi, un cattivo raccolto ancora più in là, una depressione, una morte per fame di massa, un mutamento nel temperamento sociale in paesi lontanissimi. Qualcosa di molto più sottile, come questo. Basta un respiro appena accennato, un capello, un polline nell’aria, un cambiamento così lieve, così lieve che se non si guarda attentamente non ci se ne accorge neanche. Chissà? Chi può dire di saperlo con sicurezza? Noi non lo sappiamo. Ma finché non sappiamo con sicurezza se il nostro manipolare il Tempo può provocare un grande sommovimento o un piccolo fruscio nella Storia, dobbiamo essere maledettamente cauti. Questa Macchina, questa Pista, i vostri abiti e i vostri corpi sono stati sterilizzati, come sapete, prima del viaggio. Portiamo questi caschi a ossigeno per non introdurre i nostri batteri nell’atmosfera antica». «Come facciamo a sapere contro quali animali sparare?». «Sono contrassegnati con vernice rossa» disse Travis. «Oggi, prima di partire, abbiamo mandato qui Lesperance con la Macchina. È venuto in questa zona e ha seguito certi animali». «Studiandoli?». «Appunto» intervenne Lesperance. «Li ho studiati attraverso la loro intera esistenza, controllando quanto a lungo vivevano. Non molto a lungo. Quante volte si accoppiavano. Non molte. La vita è breve. Quando ne trovavo uno che doveva morire perché stava per cadergli addosso un albero, o uno che affogava in una fossa, annotavo l’ora esatta, il minuto, il secondo. E sparavo una bomba di vernice, che gli lasciava sul fianco una macchia rossa. Non possiamo non vederla. E poi ho correlato il nostro arrivo nel Passato, in modo da incontrare il Mostro non più di due minuti prima che debba comunque morire. Così, uccideremo solo animali senza futuro, che non si accoppieranno più. Vede quanto siamo prudenti?». «Ma se è tornato indietro nel Tempo stamattina» disse Eckels, ansioso «deve aver incontrato
anche noi, il nostro Safari! E come le è sembrato? È andata bene? Ne siamo usciti tutti... vivi?». Travis e Lesperance si scambiarono un’occhiata. «Questo sarebbe un paradosso» rispose quest’ultimo. «Il Tempo non permette questo tipo di pasticcio... un uomo che incontra se stesso. Quando minaccia di verificarsi una cosa del genere, il Tempo si tira da parte. Come un aereo che incontra un vuoto d’aria. Non ha sentito che la Macchina ha fatto un balzo, prima che ci fermassimo? È accaduto perché eravamo noi che incontravamo noi stessi sulla strada per il Futuro. Non abbiamo visto niente. Non è possibile dire se questa spedizione sarà un successo, se uccideremo il Mostro, o se tutti noi... il che vuol dire lei, signor Eckels... ne usciremo vivi». Eckels abbozzò un sorriso spento. «Basta, ora» esclamò Travis. «Tutti in piedi!». Erano pronti a lasciare la Macchina. La foresta era alta e la foresta era larga e la foresta era il mondo intero, per sempre e sempre. Rumori come di musica e rumori come di ali in volo riempivano l’aria, e questi erano gli pterodattili che sfrecciavano con grigie ali cavernose, pipistrelli giganteschi che parevano usciti da un delirio e da una febbre notturna. Eckels, in bilico sulla stretta Pista, puntò il fucile, per scherzo. «Fermo!» ordinò Travis. «Non lo punti neanche per gioco! Se dovesse partire un colpo...». Eckels arrossì. «Dov’è il nostro Tyrannosaurus?». Lesperance guardò l’orologio. «Più avanti. Fra sessanta secondi gli taglieremo la strada. Attento alla macchia di vernice rossa, maledizione. E non spari finché non le do il via. Resti sulla Pista. Resti sulla Pista!». Avanzarono nel vento del mattino. «Strano» mormorò Eckels. «Davanti a noi, sessanta milioni di anni davanti a noi, le elezioni sono terminate. Keith è stato eletto presidente. Tutti festeggiano. E noi
eccoci qui, milioni d’anni prima, e loro neanche esistono. E le cose per le quali ci siamo preoccupati per mesi, per un’intera vita, non sono ancora né nate né ideate». «Togliere la sicura, tutti!» ordinò Travis. «Prima spara lei, Eckels. Secondo, Billings. Terzo, Kramer». «Sono andato a caccia di tigri, di orsi, di bufali, di elefanti, ma Gesù, questo...» disse Eckels. «Tremo come un bambino». Si fermarono tutti. Travis alzò la mano. «Davanti a noi» sussurrò. «Nella foschia. Eccolo. Ecco Sua Maestà». La foresta era piena di pigolii, di fruscii, di mormorii e di sospiri. All’improvviso smise tutto, come se qualcuno avesse chiuso una porta. Silenzio. Un rombo di tuono. Dalla foschia, a un centinaio di metri di distanza, sbucò il Tyrannosaurus Rex. «Gesù Cristo» sussurrò Eckels. «Stttt!». Avanzava su grandi gambe unte, elastiche, veloci. Torreggiava di una decina di metri sopra gli alberi, grande dio del male, con i delicati artigli da orologiaio ritratti contro l’oleoso petto da rettile. Ogni gamba era un pistone, mezzo quintale di ossa bianche chiuse negli spessi cavi dei muscoli, ricoperte di lucida pelle maculata, simile all’armatura di un terribile guerriero. Ogni coscia era una tonnellata di carne, avorio e rete d’acciaio. E dalla grande gabbia toracica, dalla parte superiore del corpo, penzolavano in avanti quelle due braccia delicate, braccia con mani che potevano raccogliere ed esaminare gli uomini come giocattoli, mentre il collo serpentino si avvolgeva in spire. E la testa, una tonnellata di pietra scolpita, si alzava con facilità verso il cielo. La bocca era aperta e metteva in mostra una barriera di denti simili a spade. Gli occhi roteavano e parevano uova all’ostrica, vuoti di tutto tranne che di fame. La bocca si chiuse in una smorfia di morte. La bestia corse, le ossa pelviche che abbattevano lateralmente gli alberi e i cespugli, i piedi ad artiglio che graffiavano la terra umida, lascian-
Passato sul presente do orme profonde più di dieci centimetri ovunque la bestia appoggiasse il peso. Correva con un lieve passo da balletto, troppo controllato, troppo equilibrato per le sue dieci tonnellate. Entrò guardingo in una radura illuminata dal sole, con le mani elegantemente rettili che tastavano l’aria. «Mio Dio!» Eckels torse la bocca. «Se allunga le braccia, può acchiappare la luna!». «Stttt!» sibilò Travis, infuriato. «Non ci ha ancora visti». «Non può essere ucciso». Eckels pronunciò il verdetto con pacatezza, come se non ci potessero essere discussioni. Aveva soppesato la situazione, e questo era il suo giudizio ponderato. Il fucile che stringeva sembrava una rivoltella ad aria compressa. «Siamo stati stupidi a venire. Questo è impossibile». «Zitto!» sibilò Travis. «Incubo». «Si giri» ordinò Travis «e raggiunga in silenzio la Macchina. Le restituiremo metà del pagamento». «Non pensavo che fosse così grosso» disse Eckels. «Ho sbagliato i calcoli. E ora voglio uscirne». «Ci guarda!». «Sul petto ha la vernice rossa!». La Lucertola Tonante si alzò. La sua carne corazzata scintillò come migliaia di monete nuove. Le monete, incrostate di melma, fumavano. Nella melma, si divincolavano minuscoli insetti, tanto che tutto il corpo pareva divincolarsi e ondulare, anche quando il Mostro restava immobile. Esalò un respiro. Odore di carne fresca si diffuse nella foresta. «Voglio andarmene» disse Eckels. «Non è mai stato così, prima d’ora. Ero sempre sicuro di uscirne vivo. Avevo buone guide, buoni safari, e la sicurezza. Questa volta, ho sbagliato i calcoli. Ho incontrato un nemico più forte di me, e lo ammetto. È troppo grande perché io possa affrontarlo». «Non corra» consigliò Lesperance. «Si volti e vada a nascondersi nella Macchina». «Sì». Eckels sembrava paralizzato. Si guardò i piedi, come per convincerli a muoversi. Poi cacciò un’esclamazione d’impotenza.
«Eckels!». Eckels fece qualche passo, battendo le palpebre, trascinando i piedi. «Non da quella parte!». Al primo movimento, il Mostro si scagliò in avanti con un urlo terribile. In quattro secondi coprì cento metri. I fucili si alzarono di scatto e sputarono fuoco. Dalla bocca dell’animale uscì una tempesta che li avvolse in tanfo di melma e vecchio sangue. Il Mostro ruggì, e i denti scintillarono al sole. Senza guardarsi indietro, Eckels camminò alla cieca fino alla fine della Pista, il fucile abbandonato sulle braccia; scese dalla Pista e, senza accorgersene, s’incamminò nella foresta. I suoi piedi affondavano nel muschio fresco. Portato avanti dalle gambe, si sentiva solo e lontano dagli avvenimenti alle sue spalle. I fucili schioccarono di nuovo. Il loro rumore si perse nelle urla e nel tuono della lucertola. La grande leva della coda del rettile si alzò, frustò dai due lati. Gli alberi esplosero in nubi di foglie e di rami. Il Mostro piegò le mani da gioielliere, le abbassò per giocherellare con gli uomini, per piegarli in due, per schiacciarli come ciliegie, ficcarseli fra i denti e giù per la gola urlante. I suoi occhi di pietra scesero ad altezza d’uomo. I cacciatori si specchiarono in quegli occhi. Spararono contro le palpebre metalliche e le nere iridi lucenti. Come un idolo di pietra, come una valanga montana, il Tyrannosaurus cadde. Tuonando, afferrò gli alberi, li trascinò con sé. Strappò la Pista di metallo. Gli uomini si gettarono all’indietro. Il corpo schiantò a terra, dieci tonnellate di carne fredda e di pietra. I fucili spararono. Il Mostro agitò la coda corazzata, torse la bocca da rettile, e giacque immobile. Una fontana di sangue gli eruppe dalla gola. Da qualche parte, nelle sue interiora, scoppiò un sacco di liquido. Fiotti disgustosi investirono i cacciatori, che rimasero immobili, rossi e lucenti. Il tuono si spense. La foresta si fece silenziosa. Dopo la valanga, una verde pace. Dopo l’incubo, il mattino. Billings e Kramer si sedettero
a terra e vomitarono. Travis e Lesperance rimasero in piedi, con i fucili fumanti, a imprecare ininterrottamente. Nella Macchina del Tempo, Eckels rabbrividiva, sdraiato faccia a terra. Aveva ritrovato la strada per la Pista, era salito sulla Macchina. Arrivò Travis, che guardò Eckels, prese della garza da una scatola di metallo e tornò dagli altri, che se ne stavano seduti sulla Pista. «Pulitevi». Asciugarono il sangue dai caschi. Anche loro cominciarono a imprecare. Il Mostro giaceva simile a una collina di solida carne. Da dentro, arrivavano sospiri e mormorii, mentre morivano le parti più interne, gli organi si guastavano, i liquidi scorrevano per l’ultima volta dalle vene allo stomaco, alla milza, con tutto che sospendeva l’attività, chiudeva per sempre. Era come stare vicino a una locomotiva distrutta o a un’escavatrice al momento della fine dell’orario di lavoro, con tutte le valvole che venivano scaricate dal vapore e le leve chiuse strettamente. Le ossa scricchiolarono; il peso enorme della carne fuori equilibrio spezzò sotto di sé le braccia delicate. La carne si acquietò, vibrando. Un altro scricchiolio. In alto, un ramo gigantesco si spezzò dal suo massiccio ancoraggio e cadde. Piombò sull’animale morto con un senso di definitività. «Ecco» disse Lesperance, guardando l’orologio. «Appena in tempo. Quello è l’albero gigante che originariamente era destinato a cadere e a uccidere questa bestia». Osservò i due cacciatori. «Volete la fotografia con il trofeo?». «Come?». «Non possiamo portare i trofei nel Futuro. La carcassa deve restare qui, dove sarebbe morta originariamente, in modo che gli insetti, gli uccelli e i batteri possano nutrirsene, com’era destino che fosse. Tutto in equilibrio. La carcassa rimane. Ma possiamo scattare una fotografia con voi vicino». I due uomini si sforzarono di pensare, ma poi ci rinunciarono, scuotendo la testa. Si lasciarono guidare lungo la Pista metallica. Si abbandona-
rono stancamente sui cuscini della Macchina. Si voltarono a guardare il Mostro abbattuto, quel cumulo stagnante dove strani uccelli-rettile e insetti dorati si davano già da fare attorno all’armatura fumante. Un rumore nel pavimento della Macchina del Tempo li fece irrigidire. Eckels era seduto là, e tremava. «Mi dispiace» disse alla fine. «Si alzi!» gridò Travis. Eckels si alzò. «Esca sulla Pista, da solo» disse Travis. Aveva puntato il fucile. «Lei non torna con la Macchina. La lasciamo qui!». Lesperance afferrò il braccio di Travis. «Aspetta...». «Tu resta fuori da questa storia!». Travis si liberò della mano di Lesperance con uno strattone. «Questo figlio di puttana per poco non ci ha ammazzati. Ma non è tanto questo. Accidenti, no. Sono le sue scarpe! Guardale! Ha camminato fuori dalla Pista. Santo Dio, questo ci rovina! Lo sa Iddio quanto ci rimetteremo! Decine di migliaia di dollari di assicurazione! Abbiamo garantito che nessuno avrebbe mai lasciato la Pista. Lui l’ha lasciata. Oh, maledetto idiota! Dovrò far rapporto al governo. Potrebbero ritirarci la nostra licenza di viaggio. Sa Iddio che cos’ha fatto al Tempo, alla Storia!». «Calmati, ha calpestato solo un po’ di terriccio». «Come facciamo a saperlo?» gridò Travis. «Non sappiamo niente! È tutto un maledetto mistero! Esca, Eckels!». Eckels armeggiò con la camicia. «Pago qualunque cifra. Centomila dollari!». Travis guardò il libretto degli assegni di Eckels e sputò. «Esca. Il Mostro è vicino alla Pista. Gli cacci in bocca le braccia fino ai gomiti. Poi potrà tornare da noi». «Ma è irragionevole!». «Il Mostro è morto, razza di bastardo vigliacco! I proiettili! Non possiamo lasciare i proiettili. Non appartengono al Passato. Potrebbero cambiare qualcosa. Ecco, prenda il mio coltello. Li tiri fuori!». La foresta era di nuovo viva, piena dei vecchi fremiti e delle
61
Passato sul presente grida degli uccelli. Eckels si voltò lentamente a guardare quell’ammasso primordiale, quella collina d’incubo e di terrore. Dopo molto, camminando come un sonnambulo, avanzò sulla Pista. Cinque minuti dopo tornò, tremando, con le braccia bagnate e rosse fino al gomito. Tese le mani. Ognuna aveva un certo numero di proiettili. Poi cadde. Rimase dov’era caduto, immobile. «Non dovevi costringerlo a questo» disse Lesperance. «No? È troppo presto per dirlo». Travis toccò il corpo immobile. «Vivrà. La prossima volta, non vorrà partecipare a una caccia come questa. Okay». Agitò il pollice verso Lesperance, con aria stanca. «Accendi i motori. Torniamo a casa». 1492. 1776. 1812. Si pulirono le mani e la faccia. Si cambiarono le camicie incrostate di sporco e i calzoni. Eckels era di nuovo in movimento, ma non parlava. Travis lo fissò per dieci minuti buoni. «Non mi guardi!» strillò Eckels. «Non ho fatto niente!». «Chi può dirlo?». «Sono sceso dalla Pista, tutto qui, mi sono appiccicato un po’ di fango alle scarpe... che cosa vuole che faccia, che mi metta in ginocchio e preghi?». «Potremmo averne bisogno.
L’avverto, Eckels, potrei ancora ucciderla. Ho il fucile pronto». «Sono innocente. Non ho fatto niente!». 1999. 2000. 2055. La Macchina si fermò. «Esca» disse Travis. La stanza era là dove l’avevano lasciata. Ma non identica a come l’avevano lasciata. Lo stesso uomo era seduto alla scrivania. Ma non un identico uomo seduto a un’identica scrivania. Travis si guardò attorno, in fretta. «Tutto a posto, qui?» chiese. «A posto, sì. Bentornati!». Travis non si rilassò. Sembrava scrutare gli stessi atomi dell’aria, e il modo in cui il sole si riversava dentro dall’unico finestrone. «Okay, Eckels, esca. E non torni più». Eckels non riusciva a muoversi. «Mi ha sentito?» disse Travis. «Che cosa fissa?». Eckels annusava l’aria, e nell’aria c’era una cosa, un accenno chimico così sottile, così leggero, che solo un lieve grido dei suoi sensi subliminali lo avvertiva della sua esistenza. I colori, bianco, grigio, azzurro, arancione, sulla parete, sui mobili, nel cielo oltre la finestra, erano... erano... E c’era una sensazione. La sua carne si contraeva. Le sue mani si contraevano. Rimase a bere quella stranezza attraverso i pori del
corpo. Da qualche parte, qualcuno doveva aver fatto gridare uno di quei fischietti che solo i cani potevano sentire. Il suo corpo, in risposta, gridava silenzio. Oltre quella stanza, oltre quelle pareti, oltre quell’uomo che non era l’identico uomo seduto alla sua scrivania che non era l’identica scrivania... si stendeva un intero mondo di strade e di gente. Che tipo di mondo fosse, ora, era impossibile dirlo. Eckels li sentiva muoversi là, oltre le pareti quasi, come pezzi di scacchi soffiati da un vento secco... Ma la cosa più immediata era la scritta sul muro dell’ufficio, la stessa scritta che aveva letto quella mattina, quando era entrato... SAFARI EN EL TEMPO, INC. SAFARI EN QUALCONQUE ANNO DEL PASSATO. VOI SCHELIETE EL ANIMALE. NOI VOS PORTIAMO LÀ. VOS SPARIATE.
Eckels si sentì cadere su una sedia. Frugò convulsamente nello spesso fango che gli incrostava gli stivali. Tirò su un blocco di fango, tremando. «No, non può essere! Non una cosa così piccola! No!» gridò. Incastrata nel fango, emettendo un luccichio verde, dorato e nero, c’era una farfalla, molto bella, e molto morta. «Non una cosa così piccola! Non una farfalla!» gridò Eckels.
La farfalla cadde sul pavimento, una cosa squisita, una piccola cosa che poteva sconvolgere gli equilibri e distruggere una fila di piccoli esseri e poi di grandi esseri e poi di giganteschi esseri, attraverso gli anni e il Tempo. La mente di Eckels vorticava. Non poteva aver cambiato le cose. Uccidere una farfalla non poteva essere così importante! No? Aveva la faccia fredda. La bocca gli tremava, quando chiese: «Chi... chi ha vinto le elezioni presidenziali, ieri?». L’uomo alla scrivania rise. «Sta scherzando? Lo sa benissimo. Deutscher, naturalmente! Chi altro? Non quel maledetto smidollato di Keith. Ora abbiamo un uomo d’acciaio, un uomo con del fegato, perdio!» L’uomo si interruppe. «Che c’è?». Eckels emise un gemito. Cadde in ginocchio. Prese la farfalla dorata con le dita che gli tremavano. «Non potremmo» supplicò il mondo, se stesso, l’impiegato, la Macchina «non potremmo riportarla indietro, non potremmo farla rivivere? Non potremmo ricominciare da capo? Non potremmo...». Non si mosse. Gli occhi chiusi, aspettò, tremando. Sentì Travis respirare forte nella stanza. Sentì Travis spostare il fucile, alzare la sicura, puntare l’arma. Poi, un rumore di tuono. ❖
Sguardi su
Di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 2 volte maggio 2017)
MENOTTI PARACCHI
N
Nel reame incontrastato della fotografia ufficiale, fotografi, giornalisti, storici, galleristi, mecenati, produttori di robe fotografiche (per non dire dei fotoamatori) sono parte di una corporazione di esperti (o di assoggettati) che dettano i proclami/tendenze del linguaggio fotografico imperante. Istituiscono premi, corsi, scuole estive con modelle in piena nudità e alimentano fraseggi concettuali che bene incensano le paludi dell’estetismo (che è il rovescio dell’estetica, dice perfino Tommaso d’Aquino, di mestiere santo!): e tutto per dire che, con la fotografia, tutti possono aspirare al consenso e successo e apparire su riviste illustrate, in televisione, realizzare calendari per le multinazionali e essere blasonati da una grande galleria, un museo, una fondazione. Però, tutti sanno che il valore di una fotografia lo decide la firma sull’assegno del padrone... non è tanto il valore artistico della fotografia ciò che conta, ma quanto chi l’ha acquistata ha deciso che vale! L’artista, naturalmente, è sempre prono a ogni potere! Le belle carogne dell’arte disseminate nei millenni (fatte salve le anime sensibili suicidate dalla società) hanno affascinato industriali, papi, politici, mercanti e, fino all’ultimo accattone, hanno continuato a riprodurre una genealogia del fanatismo o della modernità liquida, Bauman diceva [Zygmunt Bauman: Modernità liquida; Laterza, 2003], che ha prodotto l’inganno universale.
DELLA FOTOGRAFIA IN FORMA DI POESIA Il pensiero mercatale che condiziona la storiografia fotografica è sbalorditivo: si erge in piena uniformità nell’insegnamento della fotografia a tutto campo. A forza di essere ripetute (e plagiate male), le chiacchiere diventano verità e parole di Vangelo: «Il saccheggio, la citazione mascherata, il rimasti-
camento concettuale della brodaglia dei redattori di enciclopedie, degli autori di vocabolari, di manuali, di storia della filosofia» (Michel Onfray: La potenza di esistere. Manifesto edonista; Ponte alle Grazie, 2006 / 2009), della fotografia e del terrorismo internazionale a uso delle giovani generazioni... rimanda alle stesse voci, stessi testi, stesse biografie, e gli scribi pagati un tanto l’ora riproducono libri, opuscoli, schedografie senza mai aver davvero studiato un autore. Le imprese di un ghigliottinato dallo Stato, i miti sono riprodotti da un libro all’altro, da un film all’altro, da una fotografia all’altra, da un politico all’altro, da un coglione all’altro, senza mai essere messi in discussione e sono al fondo dei lavatoi culturali/politici della società dello spettacolo.
sostenuti, vanno aiutati a crollare. Con la caduta impervia dei simulacri, franano anche i pregiudizi. Ancora. La fotografia, come la proprietà, è un furto. La fotografia non è uno strumento intelligente che aiuta le persone stupide a essere meno stupide; anzi, è uno strumento stupido che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti (Ando Gilardi diceva, forse). Cos’è la scrittura fotografica se non la sommatoria d’immensi ignoranti e di randagi immortali che hanno fatto la storia della fotografia: gli uni non hanno mai compreso nulla della fotografia che facevano, gli altri hanno vissuto la fotografia al fondo della loro magnifica eresia. Il dolore è constatare che il dramma (di qualsiasi fotografo) non sta nell’essere incompreso, ma nell’essere capito.
«Non ci sono geni incompresi, mi ripetevo, al di fuori di quelli maledetti o che si danno la morte. Ancora oggi stimo di più un portinaio che s’impicca di un fotografo vivo» (da e per E. M. Cioran, il toscanaccio) Vogliamo dirlo, ancora una volta, fino allo sfinimento, insieme a uno dei nostri cattivi maestri: «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza” (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979). Ogni potere è un sottoprodotto della tristezza e va combattuto. In arte e dappertutto, non vi è altra iniziazione che al vuoto e al ridicolo di essere complici e spettatori di un sistema di dottrine, ideologie, mercati... che, invece di essere
La fotografia che vale lascia parlare il cuore, interroga i volti, non ascolta le lingue, i ceti e i paramenti nobiliari. La fotografia, quando è vera, nutre l’opera che -a propria volta, nutre la vita; e, anche se sono innumerevoli le immagini del passato sepolte negli archivi privati, pubblici e di collezionisti, scoprire un buon fotografo è difficile quanto trovare un uomo onesto in parlamento. A volte, però, si ha l’avventura di incontrare persone che fanno dell’archivistica una sorta di laboratorio culturale, quindi politico, dove il bello, il giusto, il buono diventano patrimonio (non solo) figurativo comune, come l’AFI (Ar-
chivio Fotografico Italiano). Qui, infatti, grazie a Claudio Argentiero e Alfiuccia Musumeci, siamo venuti a conoscenza dell’arcipelago fotografico di Menotti Paracchi [Menotti Paracchi. Fotografo in Busto dal 1896-1926; Archivio Fotografico Italiano, 2011], e ci siamo avventurati all’interno di questa cartografia sociale. Il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso... dipendono dalle derive amorose che non mirano né alla santità né alla moralistica, ma all’eroica edonista delle passioni.
SUL MESTIERE ANTICO DELLA FOTOGRAFIA
Sovente, la fotografia non è che una sfilata di falsi assoluti, una successione d’inganni, di templi (musei, gallerie, archivi, collezioni, riviste, saggi, conferenze) innalzati a pretesti. Anche quando si allontana dalla consorteria della storiografia fotografica, il fotografo, lo storico, il critico, il mecenate -per la miseria!- vi rimane imbrigliato: s’affanna a creare miti e si precipita, poi, ad adottarli come dèi; la sua capacità d’adorazione è responsabile di tutti i misfatti che portano all’imbecillità dell’entusiasmo; le conseguenze di una simile cultura fotografica sono incalcolabili: sotto il sagrato delle risoluzioni codificate, si leva un genocidio dell’intelligenza. Guardatevi attorno: dappertutto larve che predicano la fotografia mercantile... tutti insegnano qualcosa, nessuno impara niente. Non ci sono generi in fotografia (come in ogni forma d’arte), c’è la fotografia imbecille e la grande fotografia: in ogni maestro, sonnecchia un ciarlatano, e -quando si sveglia- c’è più mediocrità nel mondo. Poi, di tanto in tanto, fuoriescono dalle cantine, dai cassetti, dagli archivi autori che hanno fatto del mestiere di fotografo qualcosa che lo travalica e deborda in pagine di vita quotidiana della sua
65
Sguardi su città, come Menotti Paracchi, da Busto Arsizio, in provincia di Varese. Nell’alveo delle sue immagini, scattate a cavallo di Secolo, si riconosce un fare-fotografia che esprime bellezza, reciprocità e condivisione. Attraverso le persone che andavano nel suo studio per farsi il ritratto, Menotti Paracchi ha costruito l’antologia figurale di una comunità come metafora del mondo: e quando un’immagine si chiama fuori dal cimitero delle definizioni e dall’inerzia della convenienze, diventa Storia. Menotti Paracchi, fotografo in Busto Arsizio, dal 1896 al 1926 (il nome ricevuto in sorte, credo si riferisca a Ciro Menotti, affiliato alla carboneria già nel 1897, impiccato a Modena, il 23 maggio 1831, per attività sovversive) ha lasciato un portolano fotografico dalla bellezza incomparabile della sua città. Come sappiamo dalle note biografiche che accompagnano l’edizione dell’AFI a lui dedicata (citata sopra), Menotti Paracchi nasce a Lecco, il 28 maggio 1875; inizia a fotografare quando aveva ventuno anni; muore nel 1944, e del suo mestiere di fotografo lascia quarantamila negativi (lastre di vetro). L’archivio di Menotti Paracchi (negativi, macchine fotografiche, attrezzi di lavoro) è stato donato dagli eredi al Comune di Busto Arsizio. Non ci interessa qui ripercorrere né la sua vita, né i passaggi di mano dell’“Industria Fotografica” che portava il suo nome fino alla cessazione (1982). Sono innumerevoli gli archivi di fotografi intriganti, pochi però hanno la forza comunicativa e emozionale della fotografia di Menotti Paracchi: ciò che c’importa è addentrarci nella memoria storica del suo casellario del desiderio. Parliamo di una folgorazione creativa senza nostalgie del tempo andato e veemenze di promesse sfiorite: i grandi fotografi non muoiono mai, perché la fotografia che hanno realizzato li riempie d’eternità (e implica la filosofia della libertà che la precede). A partire da un suo autoritratto, nella fotografia di Menotti Paracchi c’è quel lieve dandismo baudeleriano che promuove l’Uomo prima della classe sociale alla quale
66
appartiene. Le donne, i gruppi di famiglia, gli sposi, i ragazzi, i militari, i giovani Balilla sono fotografati, o -meglio- intrecciati, a un medesimo filo rosso: quello della dignità. Su quei volti, corpi, sguardi, posture non c’è tanto il rito della fotografia da studio (già allora preda di un conformismo piccolo borghese, che omologava ricchi e poveri sullo stesso sagrato del ricordo, del memoriale, del paludamento di speranze -spesso tradite- dalla ferocia del quotidiano), quanto la forza convulsiva della bellezza, e -come sappiamo dagli antichi greci- nella bellezza c’è anche la giustizia. Il mestiere di fotografo di Menotti Paracchi va oltre l’immagine di commissione: ribattezza i soggetti fotografati nell’evidenza del giusto, del buono, del bello... financo del bene comune. Per esempio, il vecchio soldato pluridecorato (Arabini), il popolano con un bambino sulle ginocchia (Fistrozzi), l’anziana signora avvolta nel costume dei padri (Olgiati) e il frate (Muschio), che guarda deciso in macchina e tiene delicato (tra le dita ) un modesto crocifisso, quasi a scusarsi di essere lì (un luogo poco adatto alle preghiere), senza la rassicurazione del silenzio del convento o della chiesa. Quando profuma di autenticità, il senso dell’accoglienza dà la sensazione dell’immensità del tempo e della storia che attraversa: nelle immagini di Menotti Paracchi, c’è compassione, alterità, arte dell’imperfezione... e tutto contribuisce a sconfinare dall’immediato e dal contingente, per addossarsi alla periferia del sublime. Rispetto a molti fotografi di quegli anni, l’iconografia di Menotti Paracchi è trasversale e non ingenua. Poco importa per un fotografo che lavora con raffinatezza e rispetto, se conosceva o meno l’opera di alcuni immortali della fotografia del proprio tempo; quello che conta è ciò che il suo immaginario fotografico ha espresso: l’ossessiva presenza dello sguardo in macchina (a nostro avviso sono le immagini più compiute) lo allontanava dalla ripetizione di un universo di merletto e lo avvicina a
uno scenario della conoscenza, che implica l’avvicinamento alla coscienza sociale. La scenografia di studio è spesso la medesima: lo sfondo è appena accennato; sedie, tavolini, sgabelli, tendaggi sono ammorbiditi dalla sapienza e abilità nel padroneggiare la luce (che pioveva anche da vetrate). I ritratti a figura intera (Avansini, Paracchi, Fontana, Filippini...) sembrano uscire da un film del muto, e restituiscono un’atmosfera intima, dove soggetti e fotografo quasi si specchiano nel romanzo autobiografico che tracima dalla seduta. Imparare a maneggiare la fotografia, significa disimparare a guardare codici e valori imposti... cercare una nuova possibilità di esistenza. A vedere in profondità la ritrattistica di Menotti Paracchi, possiamo cogliere un’attenzione poetica che oltrepassa la posa. Le signore Bossi, Croci, Crespi, gli sposi Pisani, Mara, Massarotto, le famiglie Salmoiraghi, Arlenti, Landoni figurano un rizomario di situazioni sociali diverse, che la magia architetturale del fotografo tiene insieme. Nella fotografia, ciascuno annuncia le proprie provenienze, e tutti -al contempo- si affidano al talento del fotografo: c’è anche quel qualcosa di misterico che fa di un fotografo un poeta. I soggetti sembrano eclissarsi di fronte a un’intersoggettività raffinata, cortese, anche malinconica, del fotografo, e l’insieme del suo lavoro trapassa l’utilitarismo per riflettersi in un’etica nobile che li mette in relazione di prossimità nella vita. Nella scrittura fotografica di Menotti Paracchi ci sono, poi, immagini non proprio canoniche della fotografia di studio, come i signori Rogora, Borroni, Fantoni, Gorletta, Bertani, Bienati e le signore Fabris, Olgiati, Aspesani. Il fotografo è attento ai particolari: il libro aperto, il fazzoletto, gli occhiali, i guanti, le scarpe, il taglio della bocca, la leggerezza e la forza dello sguardo, i segni del vestito, la posizione delle mani, delle gambe, del corpo concorrono in un’armonia elegiaca poco abituale nella fotografia artigiana del suo e del nostro tempo. Un esempio, per comprendere
la compiutezza espressiva di Menotti Paracchi: il ritratto di Bienati. Il giovane è fotografato su una poltrona, lo sfondo è sfocato, il corpo è portato un po’ avanti, le mani sono appoggiate sulle gambe, stringono appena i guanti, al polso della mano destra si vede un orologio, il fazzoletto pende dal taschino, il colletto della camicia è stretto da una spilla, la cravatta a righe scende tra le ante della giacca abbottonata, un distintivo è infilato vicino al taschino col fazzoletto, i capelli sono lucidi di brillantina. Poi: lo sguardo, fiero, diretto, amabile del giovane si riflette nell’immaginale del fotografo, e ciò che fuoriesce da questa solennità non è tanto la classe sociale di appartenenza, quanto la filosofia dell’umano e l’incontro epifanico che contiene la saggezza delle stelle. La fotografia leggiadra di Menotti Paracchi educa alla costruzione dei sentimenti struccati. Alla maniera di Montaigne nei Saggi, lavora sull’importanza del corpo, sull’identità, sull’essere, la carne, la grazia del disinganno. I grandi fotografi raccontano l’inafferrabile esperienza del vivere, le contraddizioni degli Uomini, la consequenzialità senza censure e senza risposte che sono all’origine di ogni opera d’arte... le loro immagini si prendono gioco della morte, come della vita, e il valore della vita non risiede nei talenti ricevuti in sorte, ma nel loro uso. Bisogna essere molto folli, se vogliamo evitare di essere molto stupidi, e ricordare che ogni Uomo porta addosso l’intera impronta della condizione umana. Al tempo stesso, la realtà della fotografia suscita stupore e timore, meraviglia e solitudine; la caratteristica essenziale della fotografia è la dualità (se vuoi, l’ambiguità) che sempre l’accompagna e è inseparabile dal rovescio del vero. In chi la fa e chi la legge, la filosofia in libertà della fotografia suscita un senso di disagio e d’illusione. La fotografia in utopia non è prigioniera di niente e nessuno, neanche di se stessa: obbedisce ai propri impulsi creativi e -quando è grande- figura il ritratto di un’epoca. Buona fotografia. ❖