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ANNO XXIV - NUMERO 233 - LUGLIO 2017
Astrid Kirchherr WITH THE BEATLES
Ritorno al grande formato CHE SENSO HA?
Pino Bertelli GENTI DI CALABRIA
REINHART WOLF GRANDE È IL FORMATO
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
prima di cominciare ANCORA, SACCO E VANZETTI. Nel novantesimo anniversario dalla loro esecuzione, 23 agosto 1927... 2017, da pagina 56, su questo stesso numero, rievochiamo la vicenda degli italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, vittime sacrificali di una intolleranza che non si è esaurita allora, ma continua e persiste nel nostro mondo attuale, per quanto, ormai, non raggiunga più la pena di morte: ma ci va vicino. Avvincente compagna della nostra esistenza e del nostro modo di vivere e intendere la Fotografia (mai arido punto di arrivo, ma sempre e comunque, fantastico e privilegiato s-punto di partenza), una certa visione trasversale convive con le nostre considerazioni a partire dal soggetto esplicito e implicito: per l’appunto, la fotografia.
Ricorda, figlio mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te. Cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato, l’oppresso. Loro sono i tuoi migliori amici. Nicola Sacco; su questo numero, a pagina 62 Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione tra gli uomini. Bartolomeo Vanzetti; su questo numero, a pagina 57 La curiosità sia sempre alimento indispensabile. mFranti; su questo numero, a pagina 56
Copertina Dalla consistente monografia New York, di Reinhart Wolf, uno dei progetti fondanti della Storia della Fotografia, che oggi ri-presentiamo in accompagnamento all’auspicato Ritorno al grande formato (anche in ricordo e memoria di Giancarlo D’Emilio, che l’ha ipotizzato e teorizzato in nostra compagnia), il conosciuto Flatiron Building, edificato nel 1902, al 175 Fifth Avenue (e 949 Broadway). Ne riferiamo, da pagina 38 Emesso da Micronesia, il 13 marzo 2000, il foglio filatelico degli anni Venti del Novecento fa parte della serie dedicata al fatidico fine millennio: per l’appunto, Millenium 1000-2000. In altre (tante) occasioni, è stato richiamato per la presenza di Leica. Qui, e oggi, in altra lettura, registriamo la partecipazione degli italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, in colorazione di un loro celebre ritratto.
Così che, nelle pagine appena richiamate, riportiamo una consecuzione di raffigurazioni/rappresentazioni a partire da un ritratto fotografico dei due italiani, con relative interpretazioni visive dell’autorevole Ben Shahn: nello specifico, riportate a pagina 57. Ora, in complemento e consecuzione e integrazione, allacciamo quell’immagine-simbolo alle stagioni della Fotografia, per ribadire quanti e quali accadimenti si permettano sempre il lusso di accadere... in questo caso, in sostanziale coincidenza di date. O quasi. La stessa raffigurazione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti è soggetto di uno dei diciassette francobolli che compongono il foglio Souvenir dedicato agli anni Venti (del Novecento) della serie filatelica Millenium 1000-2000, della Micronesia, emesso il 13 marzo 2000. In genere, e soprattutto da queste pagine, lo stesso foglio Souvenir è (stato) spesso ripreso e richiamato in relazione alla celebrazione della Leica, primo apparecchio 35mm di successo commerciale. Ora, in quest’altra occasione, rievochiamo anche qui e ancora qui Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Franti
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica di Saint Vincent Island, del 30 dicembre 1990. Soggetto bambino fotografo, in una serie di otto valori celebrativa delle statuine in porcellana Hummel. Nello specifico, fotografo con apparecchio grande formato
7 Editoriale Sogno di una notte di mezza estate (senza, peraltro, scomodare William Shakespeare). Sogno di un approccio e un’etica che elevino la Fotografia al di sopra di qualsivoglia parassitismo di convenienza: a favore di un cammino a testa alta, rivolto alla comprensione, all’arricchimento intellettivo, alla disponibilità
8 Quelle Genti Le parole che accompagnano, introducendoli, i ritratti con i quali Pino Bertelli racconta, da par suo, le Genti di Calabria. In portfolio, da pagina 25
12 Tempo e dintorni In coda a quanto (tanto) dedicato, lo scorso mese, al viaggio nel tempo, con consecuzioni concatenate dalla Teoria del Caos, fotografia che scandisce modificazioni indotte: nel film Ritorno al futuro - Parte III Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
LUGLIO 2017
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
16 Con i Beatles L’attuale monografia Astrid Kirchherr with the Beatles, di Damiani Editore, dà meritato valore e spazio a una autrice che ha realizzato i primi ritratti dei Beatles/pre-Beatles. Con mostra, a Bologna di Angelo Galantini
Anno XXIV - numero 233 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
25 Genti di Calabria Qui in veste di autore fotografo, con l’incessante insieme di ritratti di Genti di Calabria, Pino Bertelli declina una profondità espressiva che testimonia ed evoca ben oltre la superficie dei soli volti, a tutti apparente. Monografia con accompagnamento di interviste video (anche e ancora, da pagina 8) di Maurizio Rebuzzini
34 Con il proprio Tempo La domanda è perfino scontata: che senso ha, oggigiorno, fotografare con apparecchi grande formato, per quanto in loro prospettato Ritorno? Tra le diverse risposte possibili, tutte quante lecite (e qui approfondite), una indirizza verso l’utopia della propria esistenza di Antonio Bordoni
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Alcide Boaretto Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Francesco Mazza Ilario Piatti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Oliviero Toscani Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.
38 Zen e Fotografia In doverosa ripetizione, e attuale accompagnamento all’auspicato Ritorno al grande formato, dietro-le-quinte di una monografia epocale: New York, di Reinhart Wolf
44 Attraverso la natura Passerella di vincitori all’Oasis Photocontest 2017, con considerazioni complementari e in decifrazione di Lello Piazza
54 Nikon Cento anni Casellario di una fantastica collezione, di Uli Koch, Nikon. 100th Anniversary celebra il centenario
56 Sacco e Vanzetti Nel novantesimo anniversario della loro esecuzione
65 Ben Shahn
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Sguardi su un eretico, occhio dalla fotografia umanista di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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editoriale PINO BERTELLI: GENTI
DI
CALABRIA [DA PAGINA 8 E 25]
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ogno di una notte di mezza estate (senza, peraltro, scomodare William Shakespeare, ci mancherebbe altro!). Spesso richiamata sulle pagine della rivista, probabilmente anche e ancora in questo stesso numero, la nostra idea/ipotesi della Fotografia come (fantastico e privilegiato) s-punto di partenza, non arido punto di arrivo, non è tanto tale, idea e ipotesi, ma, addirittura, qualcosa di più. Forse, di meglio. È un sogno che, ahinoi, va declinato altrimenti: è stato un sogno. Lo svolgimento quotidiano richiede il cambio di declinazione, dal presente al passato prossimo. Ovvero, è stato il sogno nativo/iniziale/primario verso la nostra applicazione originaria a un argomento (una materia, una disciplina, un linguaggio, un approccio... a ciascuno, il proprio) capace di coinvolgere l’intelligenza e buona disponibilità di coloro i quali hanno saputo riconoscerne le potenzialità formative e intellettive: da svolgere e rivolgere in positivo, verso un sostanzioso arricchimento morale di ciascuno di noi. Questo è accaduto oltre quaranta anni fa, in tempi di scelte e orientamenti. Già... orientamento verso valori esistenziali ricchi di contenuti educativi, esterni ed estranei a qualsivoglia speculazione momentanea e di interesse in cronaca. In questo senso, il parallelo è a portata di mano, facile e comodo: per quanto, per propria sostanza, oltre le apparenze a ciascuno visibili ed evidenti, la Fotografia è sempre e comunque definita da qualcosa che suggerisce, oltre a quanto effettivamente mostra e rivela (nel proprio soggetto esplicito), la stessa Fotografia dovrebbe indurre al raccoglimento di se stessi, insieme agli altri. In questo senso, altro sogno, abbiamo sempre pensato che gli anni a qualcosa possano servire: infatti, soltanto la pazienza vince il Tempo. Invece, da qualche stagione, dalla vita quotidiana in Fotografia, stiamo raccogliendo indizi che portano in tutt’altra direzione, che non quella sperata e ipotizzata: verso superbie e sfrontatezze in chiusura, contrarie alle reverenze in apertura. Non commettiamo l’errore di confondere l’apparenza con la sostanza, di fraintendere quanto si svolge davanti ai nostri occhi, accanto il nostro quotidiano: sarebbe una sciocchezza. Ma, con la pacatezza che ci definisce e distingue -perfino-, ci amareggiano quei compagni di cammino che elevano se stessi sopra ogni altra considerazione, erigendosi addirittura a unità di misura: siano colleghi in giornalismo (ormai frequentato in misura di pixel e contorni), oppure addetti in altra personalità, molti (tutti?; comunque, troppi) stanno smarrendo il senso del dialogo, dell’incontro, dell’ascoltare voci e opinioni, dello stare insieme. Ovviamente, molto dipende dall’assenza critica rispetto la trasformazione tecnologica che influisce sull’esistenza quotidiana, imponendo oggi tempi e modi soltanto effimeri. Ma, altrettanto ovviamente, «Sono i pesci morti che seguono le correnti» (da e con Christer Strömholm, fotografo svedese; 19182002). Pesci morti che non fanno tesoro delle meraviglie offerte dal Progresso (quello vero), ma speculano su e per e con convenienze momentanee. Quali poi? Maurizio Rebuzzini
«Ma oggi, in un mondo in cui il gusto è condizionato dalla televisione omologante, stiamo perdendo questa capacità [di contemplare la bellezza], questa grande sensibilità: non si vuole più vedere, il capire ci fa paura» (Oliviero Toscani) [su questo stesso numero, a pagina 10].
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Anche questo di Maurizio Rebuzzini (Franti)
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Su questo stesso numero, da pagina venticinque, presentiamo ritratti realizzati da Pino Bertelli (qui in veste d’autore fotografo, oltre i suoi apprezzati Sguardi su, che -solitamente- concludono la fogliazione della rivista). In forma di portfolio, come si usa distinguere nella messa in pagina, sono ritratti estrapolati dalla monografia Genti di Calabria, in rappresentanza dell’insieme: come dire, per certi versi, la parte per il tutto. In quella sede, concentrata sulle immagini, il richiamo alla raccolta fotografica nel proprio insieme e complesso è soltanto accennata, nel senso e nella misura di riferimento e ispirazione e riconduzione. A complemento e integrazione dovuti, qui e ora, è opportuno riferirsi alla monografia, la cui personalità di contenuti non si limita al solo casellario di ritratti, ma va anche e ben oltre. Anzitutto, è da sottolineare la presenza di consistenti testi di presentazione, ai quali stiamo per connetterci; quindi, e soprattutto, il libro si completa con un avvincente Dvd di interviste e colloqui con le stesse Genti di Calabria. E da queste parole partiamo. Oltre l’apparato fotografico, che scorre sul proprio binario espressivo e visivo, proprio questi centocinquanta incontri stabiliscono il passo di una iniziativa che fa prezioso tesoro delle conversazioni e della rivelazione di idee e opinioni che avvolgono il progetto: da interpretare, avvicinare e accogliere come sentita testimonianza del nostro tempo. I temi affrontati sono specificamente riferiti alla terra di svolgimento e incontro: la Calabria, come punto focale e di partenza verso socialità dei nostri giorni, che altrove e altrimenti sono svolte e manipolate soprattutto in termini speculativi e di pre-interessi personali e/o di casta e banda. A completa differenza, qui, il ragionamento sull’immigrazione, la famiglia, l’omosessualità, la terra di
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QUELLE GENTI
Genti di Calabria, di Pino Bertelli; libro più Docu-film (Dvd di sessanta minuti); atlante fotografico umano con circa centottanta ritratti di calabresi (volti, fisicità, posture) [su questo stesso numero, da pagina 25]; testi di Francesco Mazza, Paola Grillo, Hubertus von Amelunxen, Oliviero Toscani, Maurizio Rebuzzini, Luigi Maria Lombardi Satriani, Luigi La Rosa e Pino Bertelli; Suoni & Luci Associazione Culturale, 2017; 204 pagine 28x32cm, cartonato con sovraccoperta; 79,90 euro.
Calabria, il rapporto Uomo-Donna, il lavoro, le prospettive esistenziali, le differenze (che arricchiscono), la concezione di se stesso in riferimento all’altro -qualunque questo sia-, la storia e le sue lezioni è genuinamente tale... ragionamento, in esposizione serena e diretta e sincera. Insomma, un dichiarato e autentico atlante umano capace di affrontare e stabilire passi necessari all’effettiva crescita cognitiva collettiva (per approfon-
dimento individuale e, eventuale, partecipazione emotiva e sostanziosa, andando oltre la sola monografia, per abbracciare l’intero progetto: www.gentidicalabria.it). Quindi, come anticipato, la monografia Genti di Calabria introduce i ritratti realizzati da Pino Bertelli, qui raccolti con cadenza incessante quanto coinvolgente, con testi di accompagnamento concreto ed efficace. Di questi, vale la spesa parlare. Eccoci.
«Se il sogno è di uno solo rimane solo un sogno... se è di tanti, allora sì che può diventare Storia» Proverbio africano
Da cui e per cui, subito una prima osservazione, presto seguita da una seconda considerazione specifica. In questo ordine. Dunque, è sede opportuna per rimarcare come e quanto i testi introduttivi a raccolte fotografiche siano, spesso, di valore analogo alle immagini commentate. Non solo si offrono e propongono come chiave interpretativa -se e quando intendono farlo-, ma, soprattutto, contribuiscono all’edificazione di quel complesso di nozioni che non si esaurisce con l’evidenza a tutti apparente, qualsiasi questa sia, ma si allunga verso la completa analisi sottotraccia della comunicazione visiva. Di questo, abbiamo sempre avuto bisogno, specialmente noi, che riserviamo particolare attenzione e partecipazione alla Fotografia tutta. Di questo, in sovramercato, ne abbiamo ancora più bisogno oggi, in un tempo e clima nei quali invadenze e intromissioni della società dello spettacolo (con Pino Bertelli, da Guy Debord) sono sempre più tali, sempre più pressanti, sempre più sfacciate: «Ma oggi, in un mondo in cui il gusto è condizionato dalla televisione omologante, stiamo perdendo questa capacità [di contemplare la bellezza], questa grande sensibilità: non si vuole più vedere, il capire ci fa paura» (Oliviero Toscani); «L’immagine (anche fotografica) che alimenta la Rete esemplifica lo smodato desiderio di divertimento volgare che domina il nostro presente, con manifestazioni collettive e individuali che rappresentano una forma grossolana di intrattenimento che va incontro a un gusto infantile» (Maurizio Rebuzzini). Seconda considerazione specifica, conseguente la prima, appena esposta. La somma di testi introduttivi a Genti di Calabria, di Pino Bertelli, aggiunge un valore proprio e autonomo: quello della confluenza di parole e conside-
Anche questo razioni originariamente dissimili, che nella propria indipendenza compongono una compagnia straordinariamente congiunta. Chiamati a esprimersi per se stessi, i singoli autori lo hanno effettivamente fatto, realizzando -al contempo- un edificio compatto formato da differenze che arricchiscono. Detta meglio, forse: è straordinario come ciascuno si sia espresso partendo da proprie considerazioni individuali, per approdare a una conclusione comune e condivisibile. Francesco Mazza, attribuito come Regista (del progetto video di Genti di Calabria), e fondatamente tale, regista, in senso più assoluto [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, dello scorso dicembre 2016]: «Lo sappiamo bene noi “abitanti del Sud”, “Genti di Calabria”, belli o brutti, buoni e
cattivi, che viviamo, pur coscienti che non è questa la vita... e che si muore senza la soddisfazione di essere riusciti a riconquistare... “quella dignità che uomini stolti e ladroni hanno ritenuto di poter negare alla Calabria, opprimendola di sofferenze e miserie, generando inganni e spaventi... qualcuno neppure si accorge più del mare; per questo, voglio riaccenderlo di luce e di vita negli occhi di uomini piegati che non devono accettare di restare sconfitti...”» (da Il viaggio / ad Alessandro Federica e ad Alessia... a mia madre, che hanno pagato a caro prezzo il mio lungo viaggio in utopia). Paola Grillo, ufficialmente Documentarista, ma ben altro, ma ben di più: «Della Calabria, ho sempre sentito raccontare storie di famiglia, dense di affetti e ricche di stima. Dalla Toscana, i miei non-
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Anche questo LA RICERCA DELLA BELLEZZA
L’arte non è altro che la raffigurazione di vicende umane estreme. È quello spazio che manca all’Uomo per cercare di arrivare alla perfezione. Attraverso l’arte, abbiamo imparato che c’è una bellezza anche in ciò che non vorremmo mai vedere, una bellezza che ci attira in modo quasi morboso, fatta da espressioni estreme: crocifissioni, battaglie, stragi, morti, decapitazioni, sessualità deviata, mostruosità, sangue, tutto questo sono i soggetti principali della pittura classica. Quella grande arte che con le sue bellissime immagini ha descritto la Storia e rimane come la memoria storica dell’umanità. Si contemplano queste immagini, anche se spesso drammatiche, ma nello stesso momento ne contempliamo la bellezza. Ma oggi, in un mondo in cui il gusto è condizionato dalla televisione omologante, stiamo perdendo questa capacità, questa grande sensibilità: non si vuole più vedere, il capire ci fa paura. Non si guarda più, non si contempla più: si consuma e basta. Se un telegiornale mostra un minuto in più il dramma dei profughi, delle guerre, delle violenze e follie umane, si cambia canale. Se si incontra, con gli occhi, un’immagine drammatica, si volta pagina, credendo che -facendo questonon disturbiamo la responsabilità della nostra coscienza. Evitando l’immagine, anche il problema viene rimosso. Ormai, le immagini sono più reali della realtà. Crediamo in ciò che esiste per immagini, non crediamo più nella realtà. Viviamo in un mondo virtuale. L’immagine, invece, esiste per se stessa, separata dal contesto: non è solamente un contributo alla comprensione della realtà. Per questo, è difficile che a un’immagine fotografica venga concessa la dignità dell’arte. Le immagini non sono altro che accumulo di situazioni, volti, paesaggi, oggetti: se parlano di tragedie, è meglio rimuoverle invece di guardarle con l’impegno con cui si guarda la pittura antica, per soddisfare anche quell’emozione estetica di cui continuiamo, nonostante tutto, ad avere bisogno. La tensione verso la bellezza è una necessità epidermica: fa parte del progetto umano. È un’esigenza di sopravvivenza. Per queste ragioni, la ricerca della bellezza di Pino Bertelli, come per Pier Paolo Pasolini, è un profondo progetto umano e artistico, che indaga sulla sensibilità degli sguardi umani... La ricerca della bellezza in una tragedia umana e sociale è il risultato estremo che Pino Bertelli ha creato e realizzato in modo eccelso. Queste immagini dei volti, degli sguardi, della dignità di questi esseri umani sospesi in un’espressione di attesa di un futuro migliore, quindi della bellezza della speranza umana, ci fa sperare positivamente. Pino Bertelli è riuscito a realizzare, in questo libro [Genti di Calabria], la ricerca di questa speciale bellezza, in modo emozionante, insegnandoci questo esercizio che tutti noi dovremmo fare costantemente, ogni giorno, nel nostro quotidiano: scovare la bellezza nelle tragedie può esserci di aiuto, per fortificare il nostro ottimismo e quello della società che ci circonda, invece di accettare di vivere soffocati dalla paura, che ormai è l’emozione che ha preso il sopravvento nella vita di tutti noi. Abbiamo bisogno di questo ottimismo generato dalla forza di questa bellezza, che ci aiuta ad affrontare la realtà più degradata, quell’ottimismo che ci permette di continuare a vivere, mentre il mondo intorno a noi sembra crollare. Oliviero Toscani (in introduzione alla monografia Genti di Calabria, di Pino Bertelli)
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ni, la zia e mia madre telefonavano per le ricorrenze e mi affascinavano i racconti che ne scaturivano, in particolare quelli sui loro cugini, sulle lotte per l’istruzione organizzate da Pasquale Riga, segretario della Fgci di Nicastro, sull’impegno politico di Gianni Riga nel partito, ma -soprattutto- della cugina Graziella Riga, affascinante, colta, emancipata, politicamente vicina a Pietro Ingrao e stretta collaboratrice di Pio La Torre» (da E le accolsero come certa gente brava del Sud sa fare / dedicato a Mimmi Riga, mia madre, e a sua sorella Grazia, le cugine toscane della prima donna parlamentare di Lamezia / Graziella Riga, docente di greco e latino, onorevole del Pci al Parlamento italiano negli anni Settanta, questo raccoglimento ti è dedicato). Hubertus von Amelunxen, docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali, alla Graduate School di Saas-Fee, Svizzera: «[Pino] Bertelli non stava bene a nessuno, a causa del suo schierarsi senza compromessi per la dignità dell’Uomo e per la legittimazione dell’esistenza. La fotografia per lui e una cassa di risonanza, una voce che dà in prestito alle persone che incontra in strada, negli spazi, senza distinzione di classe. Più o meno dieci anni fa, cominciò ad allontanarsi dalla sua Piombino, per recarsi a Chernobyl, nel Burkina Faso, in Etiopia, in Uganda, in Iraq... dove sempre ha fatto risaltare l’Uomo nell’immagine, senza mettere in scena come un ornamento metaforico la miseria dell’inquinamento nucleare, dell’emigrazione, della fame o dell’oppressione. Le persone appaiono nella propria emergenza esistenziale, ma nel momento dello scatto non sono né mercificati né strumentalizzati: è come se Pino Bertelli, per un momento, invece della compassione, restituisse loro la sovranità dell’essere, per sottolinearne l’esistenza... almeno nell’immagine» (da L’immagine dell’Uomo: Pino Bertelli ). Luigi Maria Lombardi Satriani, antropologo e politico italiano, già Senatore della Repubblica Italiana: «Non giudicante, ma in-
tensamente compartecipe, è lo sguardo di Pino Bertelli, e, perciò, esso ci può condurre all’incontro con la verità di tante donne e di tanti uomini -da lui ripresi-, incontrati nel suo pregnante itinerario, direi pellegrinaggio, nelle nostre regioni, restituendo a ognuno, secondo variegate modalità, la propria maniera di essere nel mondo, la propria fragilità, la propria datità» (da Sguardi, volti, alimento di vita). Luigi La Rosa, scrittore eclettico: «E che la luce di questa anima non si spenga mai, che non si spenga mai la speranza» (da L’anima calabrese). Pino Bertelli, e questo basta, non soltanto qui, non soltanto ora: «La fotografia del pensiero meridiano di Genti di Calabria è una filosofia della migrazione, dell’accoglienza, della fraternità, della condivisione, e figura percorsi della contraddizione, della bellezza, della grazia nel “mare in mezzo alle terre”... è una cartografia di corpi in amore, che cercano qualcuno che li accetti, porga loro vestimenti, spezzi il pane insieme ai loro bambini, e -più di ogni cosa- che apra le porte della convivenza reale, pacifica tra gli Uomini e le Donne della Terra. «La fotografia meridiana fuoriesce da un’etica del comportamento, da un’estetica antropologica dei sentimenti struccati e (fuori da ideologie, dottrine, mercati dei saperi) restituisce dignità e bellezza ai “ritrattati”, che rifiutano l’eternità della miseria (della storia) vissuta come destino... nella bellezza c’è anche la giustizia, dicevano gli antichi greci... la libertà, come la bellezza, non si concede, si prende» (da Genti di Calabria. Sulla fotografia del pensiero meridiano). E poi, ancora: Oliviero Toscani, La ricerca della bellezza, in riquadro, qui a sinistra; Maurizio Rebuzzini, L’avventura non è ancora finita, da pagina 25. Di conseguenza, oppure, in gerarchia... fate voi... le fotografie: A Rosetta, una donna di Calabria / Chi ha molto amato / amato sarà sempre. Forse! ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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TEMPO E DINTORNI
Secondo una nostra consuetudine, già rivelata (ammesso e non concesso che sia stato necessario farlo), spesso colleghiamo tra loro argomenti presentati sulla rivista: in relazione diretta ed esplicita, piuttosto che in connessione trasversale. A questo proposito, rimandiamo allo scorso numero di giugno, quando e dove -tra qualcosa d’altroci siamo allungati anche sulla Teoria del Caos, a partire dal commento a un’ottima monografia illustrata sull’epopea della presidenza Kennedy, per poi deviare ancora verso la locuzione di effetto farfalla, con relativa pubblicazione del racconto fantascientifico di Ray Bradbury, Rumore di tuono, del 1952, al quale si attribuisce l’origine della stessa espressione... in forma di perifrasi. In termini più leggeri, e con intenzioni volontariamente lievi, torniamo oggi sull’idea (favolistica) di viaggi nel tempo, per agganciare assieme cinema con fotografia: quantomeno, per riconciliarci a un minimo comune denominatore istituzionale. Per l’appunto, quello della presenza e accompagnamento della fotografia nelle sceneggiature e/o scenografie cinematografiche. Ovviamente, i film che trattano del viaggio nel tempo sono tanti e di diverso valore contenutistico. Sicuramente, non li conosciamo tutti, ma siamo consapevoli soltanto di molti titoli. Qui e ora, però, ci limitiamo a uno e uno soltanto [riquadro sulla pagina accanto], Ritorno al futuro - Parte III, episodio conclusivo della trilogia di balzi indietro e avanti diretti da Robert Zemeckis, su sceneggiatura scritta a quattro mani con Bob Gale: Ritorno al futuro (originario), del 1985; Ritorno al futuro - Parte II (pasticciato e inconcludente), del 1989; e, eccoci qui, Ritorno al futuro - Parte III (al quale ci riferiamo oggi, e film meritevole di credito proprio e autonomo), del 1990. Prima di approdare al film in considerazione, dal quale -peraltro- partiremo per altre osservazioni, sollecitate dai suoi concetti trasversali, è opportuno esprimere un giudizio individuale. A parte questa commedia dal passo tenue e delicato, buona per una serata scacciapensieri, sul tema “scientifico”
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quante tante riflessioni si potrebbero esprimere al proposito. Comunque, non ora, e -soprattutto- non qui. Altrettanto, rileviamo per il film Frequency - Il futuro è in ascolto, di Gregory Hoblit, del 2000, nel quale il figlio John Sullivan (interpretato da Jim Caviezel) riesce a comunicare con il padre Frank (interpretato da Dennis Quaid), drammaticamente mancato trenta anni prima, mentre cercava di spegnere un incendio. Ancora qui, interferenza con il passato, per sua modificazione. In nostra prosecuzione, e risolti i preamboli, approdiamo a considerazioni ispirate dal film Ritorno al futuro Parte III, riprendendo la sostanza di quanto già rilevato tempo addietro, nel (lontano?) luglio 2010, in aggiornamento attuale ricercato: influenza di ipotetici viaggi nel passato, che modificano lo svolgimento delle vite, fino al presente (per il cui concetto, fotografia a parte, rimandiamo anche e ancora al mieloso La vita è meravigliosa, in originale It’s a Wonderful Life, di Frank Capra, del 1946, con James Stewart nei panni di un confuso George Bailey e Henry Travers in quelli dell’angelo Clarence, risolutore di tutto: come e quanto ogni esistenza individuale influisca su altre vite... nello specifico, verso il bene. E, comunque, ognuno di noi, quale influsso ha sull’avvenire di altre vite?).
QUEI RITORNI del viaggio nel tempo, consideriamo fondante un titolo solitamente accreditato per altri propri meriti. Film del 2011, diretto da Duncan Jones, Source Code presuppone un progetto fantascientifico, caldeggiato dal governo statunitense, di invio nel passato recente di individui addestrati e istruiti per impedire attentati terroristici sul territorio (nello specifico della sceneggiatura, l’attore Jake Gyllenhaal, nei panni del capitano Colter Stevens, che viene ripetutamente inviato su un treno pendolari diretto a Chicago, sul quale sta per esplodere un ordigno). Non gli è richiesto di alterare direttamente il passato, per intervenire sul futuro, quanto di riassegnare il Tempo: da cui,
In base all’intervento di Marty McFly (Michael J. Fox) nel passato, sulla lapide, il nome di Emmett Brown cede il passo a quello di Clint Eastwood, come il protagonista si è presentato nel West. E poi scompare. Tutti salvi!
Come annotato, della trilogia di Ritorno al futuro, di Robert Zemeckis, il secondo titolo, del 1989, è da cancellare e dimenticare. Confuso nei propri passaggi di tempo, tra presente, passato e futuro, è un film eccessivamente autocompiacente, che ha perso il contatto con qualsivoglia filo narrativo. Al contrario, l’originario Ritorno al futuro e il terzo e conclusivo Ritorno al futuro - Parte III (Back to the Future e Back to the Future Part III, rispettivamente del 1985 e 1990) si basano su sceneggiature brillanti e coinvolgenti. Certamente, non si tratta di opere da iscrivere in alcuna possibile Storia del Cinema, ma di film che fanno trascorrere qualche ora piacevole. E tanto può bastare. Sempre.
Cinema Nel film Ritorno al futuro - Parte III, del 1990, sono due le fotografie che stabiliscono l’influenza del passato sul futuro, ovvero presente. La vicenda si svolge nel settembre 1885, nel West dei pionieri, e presuppone un ritratto davanti all’orologio della torre della città e la fotografia di una lapide tombale che certifica la morte di Emmett Brown, il sette settembre. Intervenendo sullo svolgimento della Storia, Marty McFly (Michael J. Fox) posa accanto al dottor Emmett Brown (Christopher Lloyd) nella fotoricordo dell’orologio della torre: il fotografo (il caratterista Dean Cundey) inquadra, fa partire il lampo al magnesio e scatta.
Attenzione, è sostanzioso... forse, vitale: ogni volta che dalle pagine di questa rivista, piuttosto che in incontri dal vivo, in occasioni pubbliche, citiamo una serie di argomenti che reputiamo connessi tra loro, in una lettura e valutazione individuale, c’è chi si fa bandiera della propria autoreferenzialità saccente, per sottolineare mancanze e assenze (in proprie relative scale di valori). Sia che si tratti di film -è più facile-, sia che si tratti di libri/pensieri -è meno facile-, ci vengono sottoposte carenze di riferimento. Ora, e qui, sia chiaro, una volta per tutte, che FOTOgraphia è un periodico che risponde a protocolli consolidati nell’azione giornalistica; allo stesso tempo, e per propria personalità volontaria e consapevole, è un periodico che interpreta il giornalismo anche in direzione di approfondimento. Del resto, è recitato nel colophon iniziale, là dove sono riportati dati oggettivi di realizzazione;
La fotografia, alle cui manifestazioni riserviamo la nostra attenzione, indirizzandoci anche alla sua presenza al cinema (che affrontiamo proprio in queste pagine dedicate, mese dopo mese), vanta una sostanziosa presenza nel terzo film della saga di Ritorno al futuro, che oggi riconsideriamo alla luce di quanto annotato lo scorso giugno, a proposito di viaggi nel tempo (nel passato). È adeguatamente presente anche nel primo titolo, originario (a pagina 14), ma si impone giusto in Ritorno al futuro Parte III. Non pensiamo tanto alla sua presenza scenografica, che pure fa inevitabilmente capolino, ma alla sua consistenza narrativa. Dalla quale, poi, proseguiamo con un sostanzioso balzo in avanti... altrove; non riusciamo a fare a meno di riflettere e analizzare: se ne faccia buon uso.
A VOLTE, SCOMPARE Nelle due sceneggiature di inizio e conclusione, ma soprattutto nel terzo titolo, l’influenza del passato sul futuro, autentico motivo conduttore dell’intera trilogia di Ritorno al futuro (appunto!), è visualizzata da fotografie. Sono fotografie del presente, circa, condizionate dal passato. Ovvero, il soggetto raffigurato dipende dalla concatenazione di fatti che possono influire sulla vita dei singoli, modificandola. Come appena annotato, in Ritorno al futuro - Parte III si replica una condizione già rimarcata nel primo titolo originario. Al fine di aiutare l’amico dottor Emmett Brown (interpretato dall’attore Christopher Lloyd), inventore della macchina che viaggia nel tempo, stabilitosi nel West dei pionieri, il
testuale: «Riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia»; magari, più correttamente, «[...] a partire dalla Fotografia». Insomma, non compiliamo né l’ Enciclopedia Treccani ( Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti ), né, tantomeno, l’ Encyclopædia Britannica. Quindi, i richiami riportati sono compilati in funzione del ragionamento in corso, e non per affermazione di conoscenze individuali, in forma di casellario. Per cui, sia chiaro che quanto che non c’è, soprattutto in tema di trasversalità parallele e convergenti alla Fotografia (dalla narrativa, dal cinema, dalla filatelia, dai fumetti...), non va considerato come mancanza colpevole, ma come assenza informata. A conseguenza della quale, è inutile il tiro al bersaglio, perché, sia chiarito una volta per tutte: degli argomenti affrontati, sappiamo molto di più di quanto serva scrivere per presentarli in maniera adeguata e finalizzata. Punto.
protagonista Marty McFly (l’attore Michael J. Fox) è intenzionato a intervenire su fatti del passato. Due fotografie lo confortano nella propria azione: un ritratto in posa davanti all’orologio della torre, peraltro compreso nella sceneggiatura del film, la cui personalità è trasversale ai due titoli estremi della saga, e una lapide del cimitero, sulla quale scompare o ritorna, secondo gli eventi del momento, il nome dell’amico, con la data di morte. Ecco qui, tutto il gioco visivo si concentra giusto e soprattutto su questo: sulla modificazione di due fotografie in relazione alle azioni che maturano, e che danno avvio a un possibile svolgimento della vita, piuttosto che a un altro. Fantasiosa nel compito che svolge, ma avvincente per mille e mille motivi (tutti nostri, tutti appartenenti al nostro dibattito sul valore e senso della Fotografia), questa ipotesi sollecita altre considerazioni e riflessioni. Ancora una volta sull’immagine fotografica. Certamente, la sceneggiatura di Ritorno al futuro - Parte III, firmata dallo stesso regista Robert Zemeckis in coppia con Bob Gale (come per gli altri due titoli precedenti), non ha alcuna altra intenzione che quella di scorrere in maniera lineare e plausibile, compatibilmente al linguaggio caratteristico del cinema, così diverso dalla realtà. Dunque, all’origine, non c’è altro, è lecito che non ci sia altro. Però! Però, dal nostro punto di vista concentrato sull’approfondimento delle espressioni fotografiche, noi andiamo oltre, possiamo andare oltre, vogliamo andare oltre. In particolare, non possiamo non intravedere, e per questo sottolineare, come e quanto questa fantastica ipotesi della fotografia che cambia i propri connotati raffigurativi, appunto generati dallo svolgimento di vite che partono da lontano, indietro nel tempo, nei decenni, si basi su una delle idee fondanti dello stesso linguaggio fotografico. Cioè, siamo confortati in quella considerazione che vuole che l’effetto di realtà della fotografia riguardi anzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta. Soprattutto oggi, in piena epopea digitale (con relative semplificazioni e facilitazioni di intervento), il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica. Del resto, come
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Cinema abbiamo annotato in tante occasioni, e ora la ripetizione è d’obbligo e si impone, la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento.
ALTRE VOLTE, APPARE Apparenza e realtà della fotografia: soprattutto nel fotogiornalismo. Tutte le volte che si racconta la fotografia di guerra, che rappresenta l’apice del fotogiornalismo e di tante altre contraddizioni trasversali, è quasi obbligatorio richiamarne le origini. Ufficialmente, si certifica l’azione primigenia di Roger Fenton, fotografo della guerra di Crimea (1853-1856), temporalmente precedente la guerra Civile americana, o di secessione (18611865), fotografata soprattutto, ma non soltanto, da Mathew B. Brady, Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan, e le guerre in Medio ed Estremo Oriente della seconda metà dell’Ottocento, fotograficamente documentate da James Robertson e Felice Beato. (E poi, per valore di calendario, dobbiamo comunque sempre andare oltre il consueto, per ricordare che la missione di Roger Fenton in Crimea è successiva alla fotografia di guerra del non professionista John McCosh (1805-1855), chirurgo scozzese dell’esercito del Bengala, che in India fu presente sui cruenti campi di battaglia del secondo conflitto tra inglesi e Sikh, del 1848-1849). Ancora: apparenza e realtà della fotografia. Il compito fotografico di Roger Fenton era prestabilito, e implicito nel suo ingaggio: raccogliere documenti
visivi affinché l’opinione pubblica potesse rendersi conto “direttamente” delle condizioni di vita dei soldati di Sua Maestà, sui campi di battaglia di una guerra non ampiamente appoggiata in patria. In interpretazione grafica, precedente la possibilità di riproduzione tipografica della fotografia (dagli anni Venti del Novecento), le sue immagini vennero diffuse attraverso la stampa periodica. In realtà, l’opinione pubblica inglese era sostanzialmente sconvolta dalle corrispondenze giornalistiche di William Howard Russell (1820-1907), che inventò la corrispondenza di guerra, pubblicate su The Times, di Londra: drammatici resoconti sulla condotta del conflitto, che puntavano il dito soprattutto sulle terribili condizioni climatiche, che i soldati inglesi erano costretti ad affrontare senza l’equipaggiamento adatto, e le inqualificabili condizioni igieniche dei servizi sanitari.
IL RITORNO ORIGINARIO
Rispetto l’origine della vicenda, con la fotoricordo che visualizza soltanto Emmett Brown, l’intrusione di Marty McFly ha modificato gli avvenimenti, e il loro racconto: in due versioni emblematiche, la fotografia ufficiale lo comprende nell’inquadratura.
Già nella sceneggiatura del primo Ritorno al futuro, del 1985, la visualizzazione di una fotografia a scomparsa dei soggetti segna l’influenza degli avvenimenti del passato sul futuro, ovvero presente. Se Marty McFly (Michael J. Fox), proiettato indietro agli anni Cinquanta, non riesce a combinare l’incontro tra quelli che sarebbero poi stati i suoi genitori (George McFly e Jennifer Parker, rispettivamente interpretati da Crispin Glover e Claudia Wells), lui stesso e i suoi fratelli Dave e Linda non vengono al mondo. Quando il fatidico incontro e relativo innamoramento sembrano sfumare, lui si indebolisce e con i suoi fratelli scompare dalla fotoricordo. Tutto torna normale e secondo lo svolgimento esistenziale originario, quando la Storia riprende il proprio corso.
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Sia per difficoltà tecniche (come le lastre al collodio umido, che andavano sviluppate immediatamente, gli ingombranti apparecchi e altri i limiti oggettivi), sia perché “ben istruito”, Roger Fenton non si soffermò mai sulle disagiate condizioni di vita o su raccapriccianti scene di battaglia, ma su ordinati accampamenti e teatri di guerra successivi al combattimento. Fu un esercizio di propaganda? Personalmente non ci allineiamo con le posizioni storiche che hanno bollato questa fotografia, anche perché il concetto di “propaganda” è come quello di “comune senso del pudore”: dipende dal tempo e dalle latitudini. In ripetizione, sempre d’obbligo: con tutto, siamo perfettamente coscienti che «la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento». A questo proposito, ricordiamo una fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art, di Washington DC, che, nel 1999, visualizzò un parallelo che oggi è congeniale. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati; da una parte, la Propaganda di regime; dall’altra, i Sogni di uno stile di vita da proporre al mondo intero [FOTOgraphia, luglio 2004]. La curatrice Leah Bendavid-Val ha lavorato con efficienza, puntualizzando bene la contrapposizione tra due stili fotografici, ognuno in linea con se stesso e con le proprie intenzioni. Però, a ben guardare, partendo dagli stessi presupposti (e preconcetti), un curatore sovietico avrebbe potuto raggiungere i medesimi risultati, invertendo l’ordine dei fattori: Sogni di una nuova vita avviata dalla Rivoluzione e Propaganda di una vita ormai compromessa dal nuovo vento dell’Est. Francamente, e chiudiamo: poiché c’è un soggetto dietro l’obiettivo, che lo dirige e orienta, c’è tutto un gioco di esibizione e seduzione tra tutte le immagini prese in considerazione, tra mille altre possibili e mostrate al loro posto: un gioco complicato di fantasie, interessi e, talvolta, rischi. Altre volte, appare. ❖
CON I BEATLES Astrid Kirchherr: The Beatles al luna-park; Amburgo, novembre 1960.
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Astrid Kirchherr: John Lennon, Stu Sutcliffe e George Harrison su un furgone al luna-park; Amburgo, novembre 1960.
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di Angelo Galantini
A
ccompagnato da un affascinante e coinvolgente apparato fotografico -così come noi l’apprezziamo là dove e quando è di diritto-, l’incontro tra la fotografa tedesca Astrid Kirchherr -allieva e assistente dell’ammirevole Reinhart Wolf, uno dei capisaldi della fotografia del secondo Novecento [su questo stesso numero, a pagina 38]- e i Beatles, in anticipo sul proprio successivo mito, è sceneggiato in un filmbiografia, del 1994, che la vede commovente protagonista. Il filo conduttore di Backbeat, che in Italia si è accompagnato con un sottotitolo esplicativo, quanto orrendamente banalizzato, Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, è la dolcezza del suo rapporto con Stu Sutcliffe (all’anagrafe, Stuart Fergusson Victor Sutcliffe: il quinto pre-Beatles, in forma di The Quarry Men), che è prematuramente scomparso, per emorragia cerebrale, il 10 aprile 1962, ad Amburgo, dove era rimasto per lei, abbandonando la musica.
Meglio di altre retrospettive, che hanno animato i decenni trascorsi dagli anni Sessanta di trasformazione sociale, alla quale la musica dei Beatles ha fornito colonna sonora, l’attuale Astrid Kirchherr with the Beatles dà meritato spazio alla combinazione con la fotografia di una autrice che ha realizzato i primi ritratti -autenticamente tali- dei Beatles/pre-Beatles
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Astrid Kirchherr: The Beatles sul set di A Hard Day’s Night; 1964.
Astrid Kirchherr: Autoritratto; 1960.
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La stessa storia è anche base ideologica e di racconto di un’ottima e appassionante monografia fotografica, pubblicata in Italia da Damiani Editore: esplicitamente, Astrid Kirchherr with the Beatles, che presenta e offre settantuno illustrazioni accompagnate da perfetti testi di Vladislav Ginzburg e Maurizio Guidoni, che contestualizzano il prezioso apparato fotografico (96 pagine 21x26cm; cartonato; 25,00 euro). Il libro è pubblicato in occasione della mostra omonima, allestita a Palazzo Fava, di Bologna (via Manzoni 2), fino al prossimo nove ottobre. Analogamente, e in ulteriore richiamo anticipatorio, oltre la sceneggiatura cinematografica, appena ricordata, di Michael Thomas e Iain Softley, anche regista, circoscritta ai due anni iniziali dei Beatles, che avviarono la propria folgorante parabola con le serate di Amburgo, esibendosi come The Quarry Men, va ricordato il racconto a fumetti Baby’s in black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe, di Arne Bellstorf, pubblicata in Italia da Black Velvet Editrice, nel 2011, nella traduzione di Anna Zuliani (216 pagine 16,5x24cm; 16,00 euro). La base narrativa è la medesima, in una eccellente interpretazione visiva [FOTOgraphia, giugno 2014]. In entrambi i casi, film e fumetto coincidente -il cui titolo, Baby’s in Black, riprende una canzone dei Beatles, firmata da John Lennon e Paul McCartney, la terza dell’album Beatles for Sale, il quarto pubblicato dai Fab Four, il 4 dicembre 1964-, non si va oltre i primi anni Sessanta, di Amburgo; ovvero, non si approda alla beatlemania, che sarebbe esplosa di lì a qualche tempo.
Le luci della ribalta sono puntate soltanto sulla storia di Stu Sutcliffe e Astrid Kirchherr, che sullo schermo sono interpretati da Stephen Dorff e Sheryl Lee, fisicamente assolutamente somiglianti e compresi nella leggenda che avvolge la fantastica storia originaria. Annotiamo quindi che, diversamente dalla realtà, e da ciò che è stato storicizzato, nel film e nel fumetto, non si attribuiscono a Astrid Kirchherr due grandi meriti, che invece ha avuto: quelli di aver delineato la pettinatura a caschetto e disegnato il taglio di abito/divisa (con giacca priva di colletto), autentici marchi di fabbrica dei Beatles delle origini. Comunque, Astrid Kirchherr è proposta come fotografa già in attività. Nella realtà, era assistente di Reinhart Wolf, -ripetiamolo, uno dei capisaldi della fotografia del secondo Novecento-, che aveva avuto come tutor nel corso di fotografia seguìto alla Meisterschule di Amburgo.
STU SUTCLIFFE All’anagrafe Stuart Fergusson Victor Sutcliffe, Stu Sutcliffe è mancato ad Amburgo, il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni; era nato il 23 giugno 1940. Dalla cronaca alla storia, oggi è ricordato come promettente pittore, e le opere che ha lasciato sono apprezzate, ammirate e, per quanto valga rilevarlo, quotate (www.stuartsutcliffeart.com). Ancora dalla cronaca alla storia, Stu Sutcliffe è stato anche un modesto chitarrista basso, modesto per propria ammissione. Amico di John Lennon, suo compagno all’Art College, di Liverpool, insieme con Paul
AL CINEMA E A FUMETTI
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (5)
Come ampiamente annotato nel corpo centrale di questo odierno intervento redazionale, l’incontro di Astrid Kirchherr con i Beatles è stato sceneggiato nel film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley, del 1994, e raccontato a fumetti in Baby’s in black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe, di Arne Bellstorf, del 2010 (in Italia, 2011). Abbiamo approfondito le due trasposizioni, nel dicembre 2008 e giugno 2014. Da cui, comunque, una doverosa sintesi, a margine e complemento dell’attuale avvincente e convincente monografia Astrid Kirchherr with the Beatles, pubblicata da Damiani Editore. Backbeat, in Italia Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, è il film di Iain Softley (Inghilterra e Germania, 1994) che racconta la storia d’amore tra la fotografa tedesca Astrid Kirchherr
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e Stu Sutcliffe, che lasciò i Beatles per rimanere ad Amburgo con lei. Gli attori Sheryl Lee e Stephen Dorff sono adeguatamente allineati alle personalità che interpretano, a margine dei primi passi dei Fab Four, in anticipo temporale sulla loro autentica esplosione planetaria. Stu Sutcliffe è prematuramente mancato il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni. Baby’s in black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe è un fumetto di Arne Bellstorf (Black Velvet Editrice, 2011; traduzione di Anna Zuliani; 216 pagine 16,5x24cm; 16,00 euro). In particolare, questa sceneggiatura ben cadenzata sottolinea l’esistenzialismo di Astrid Kirchherr, così compresa nella cultura tedesca che, all’esordio dei Sessanta si risollevava dalla devastazione della Seconda guerra mondiale e del nazismo.
Rievocazioni sceniche della prima sessione fotografica di Astrid Kirchherr con i Beatles, al Der Dom di Amburgo, nel novembre 1960, alla quale ci riferiamo nel testo, anche con testimonianza dalla biografia Shout!, di Philip Norman (Mondadori, 1981: rispettivamente, nel film Backbeat (a sinistra) e nel fumetto Baby’s in Black (qui sopra, in alto). Quindi, a completamento, dallo stesso fumetto, un incontro tra Stu Sutcliffe e il celebrato fotografo tedesco Reinhart Wolf -richiamato in queste stesse pagine e, ancora, in altro ambito, da pagina 38-, presso il quale lavorava allora Astrid Kirchherr.
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Astrid Kirchherr: Paul McCartney (con biottica Rolleiflex) e George Harrison; 1963.
McCartney, George Harrison e Pete Best (successivamente sostituito alla batteria da Ringo Starr), fece parte della prima formazione dei Beatles. Il 16 agosto 1960, data storica della musica rock, partì insieme agli altri quattro Beatles (ai tempi, The Quarry Men), e ad amici di contorno, per Amburgo, in Germania, dove il gruppo aveva ottenuto un ingaggio per suonare in uno dei locali sulla Reeperbahn, la strada del quartiere di St. Pauli, centro della vita notturna e della prostituzione legalizzata. Proprietario di più locali, tra i quali il Kaiserkeller, dove i cinque di Liverpool avrebbero suonato tra uno strip e l’altro, alternandosi ad ulteriori attrazioni di identico profilo, Bruno Koschmider non rimase certo impressionato dai futuri Beatles: «Erano vestiti malissimo: camicie di poco prezzo e pantaloni per nulla puliti. Avevano sporche anche le unghie», ha raccontato a Philip Norman, autore di una delle biografie più credibili dei Beatles, all’interno della quale si rintracciano rievocazioni verosimili, non inquinate da interpretazioni di maniera (Shout!, 1981; edizione italiana coeva, nella traduzione di Michele Lo Buono, per Mondadori). Da capo, Stu Sutcliffe è morto a vent’anni, e con lui ha perso parte della sua vita, per molto tempo tutta la sua vita, anche Astrid Kirchherr, di due anni più “vecchia”, per la quale il giovane scozzese, nato a Edimburgo, lasciò i Beatles, per rimanere ad Amburgo. Meglio e più concretamente di altre retrospettive, che hanno animato i decenni trascorsi da quegli anni Sessanta di trasformazione sociale, alla quale la musica
dei Beatles ha fornito una delle colonne sonore portanti, l’attuale raccolta Astrid Kirchherr with the Beatles dà ampio e meritato spazio alla combinazione con la fotografia di una autrice che ha avuto l’onore (storico?) di realizzare i primi ritratti -autenticamente tali- dei Beatles/pre-Beatles: posati in studio o per strada, che oggi sono celebrati da attenzioni mercantili.
WITH THE BEATLES Qui e a questo proposito, corre l’obbligo precisare che la stessa Astrid Kirchherr, dopo decenni di esilio volontario, peraltro registrato dal puntuale Shout!, di Philip Norman (infarcito di errori di definizione e identificazione di nomi propri: anche in originale?, non sappiamo, non ci interessa), ha successivamente spolverato le sue fotografie di allora, che dagli anni Novanta sono state esposte in mostre e allestite in monografie illustrate. Soprattutto, si è soliti considerare originaria una sessione di posa in un parcheggio di carrozzoni da luna-park, del novembre 1960, che, peraltro, rivive anche nella ricostruzione cinematografica di Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, nella cui scenografia, l’affascinante sequenza passa dai volti dei Beatles alla loro proiezione sul vetro smerigliato della Rolleicord, alle fasi di sviluppo della copia bianconero, alla stampa tra le mani dei musicisti inglesi. Leggiamo da Shout!, di Philip Norman, sottotitolato La vera storia dei Beatles (dalla prima edizione negli Oscar Mondadori, del novembre 1981).
Nel dicembre 2013, nel cinquantenario di date (14 dicembre 1963 2013... appunto), abbiamo rievocato l’ultimo concerto inglese dei Beatles, prima della loro tournée statunitense, del febbraio 1964, che amplificò oltre Oceano quella che sarebbe stata definita beatlemania, fino allora limitata alla natia Inghilterra e a timide proiezioni europee (organizzato dal lungimirante Leo Wächter, il tour italiano è della successiva primavera 1965). Cronaca dell’attento Gino Begotti, che non si è esaurita nel solo racconto originario, ma rivela valori impliciti ed espliciti della Fotografia, che consente di superare Tempo e Spazio. Implacabilmente, la Fotografia afferma la propria personalità sottintesa, che, con la complicità di consecuzioni storiche note e riconosciute, ha modo di esprimere se stessa.
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Nata ad Amburgo, il 20 maggio 1938, Astrid Kirchherr ha conosciuto quelli che sarebbero diventati i Beatles nella seconda metà del 1960, ai tempi del loro primo ingaggio in città. Qui è all’esterno del The Cavern Club, di Liverpool, storico locale delle prime esibizioni dei Beatles, nel 1964. Si considerava esistenzialista. A questo proposito, in una intervista rilasciata alla stazione radio della Bbc, sabato 26 agosto 1995, affermò che «Eravamo solo degli adolescenti; la nostra filosofia era di vestirci di nero e incamminarci osservando con malinconia il mondo attorno. Naturalmente, avevamo un riferimento in Sartre. Ci ispirammo agli artisti e scrittori francesi, perché erano vicini a noi, mentre l’Inghilterra era talmente lontana e gli Stati Uniti erano fuori questione. Così, provammo a vivere come gli esistenzialisti francesi. Perseguivamo la libertà, volevamo essere distaccati, scettici». La sua fotografia è pervasa da questa filosofia.
Quando alla fine Astrid acconsentì ad andare al Kaiserkeller, Stu e Klaus Voormann [intimo di Astrid Kirchherr, a propria volta musicista: dal 1966 al 1969, con i Manfred Mann; quindi, con la Plastic Ono Band] erano diventati buoni amici. Klaus la portò lì una sera, vestita con la sua giacca nera di pelle da exi, il viso pallido, i capelli cortissimi e spettralmente fredda. Quando i Beatles cominciarono a suonare, anche lei ne fu conquistata, istantaneamente. «Mi innamorai di Stuart quella stessa notte. Era molto piccolo, ma perfetto in ogni suo lineamento. Molto pallido, ma tanto, tanto bello. Era come un personaggio di un racconto di Edgar Allan Poe». A propria volta, i Beatles erano lusingati dall’interesse di questa ragazza delicata, bellissima, dagli occhi spettrali, così diversa dalle solite frequentatrici della Freiheit. E furono ancora più lusingati quando, con le sue poche parole di inglese, Astrid chiese se poteva fotografarli. Si incontrò, il giorno dopo, con tutti e cinque, al Reeperbahn e li portò a Der Dom, il parco cittadino, dove c’era un luna-park che veniva ad Amburgo due volte l’anno. Astrid li mise in posa, con le loro chitarre e col tamburo militare di Pete Best, vicino a uno dei carrozzoni del luna-park, poi sull’ampio cofano di un trattore. Poiché John aveva ormai la sua nuova chitarra Rickenbacker, Paul si era fatto prestare il vecchio modello Club 40, reggendolo, ancora una volta, con il battipenna capovolto. Oltre alle costose macchine fotografiche e alla giacca di pelle, Astrid aveva una piccola automobile per-
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sonale. Finito di scattare le fotografie, la ragazza invitò i cinque Beatles a prendere il tè a casa sua, ad Altona. Pete Best rifiutò, dicendo di dover andare a comprare delle pelli nuove per i tamburi della sua batteria. Gli altri quattro si stiparono in men che non si dica intorno alla ragazza. «Conobbero mia madre, che ne rimase profondamente impressionata, così come lo ero stata io. Appena li vide, volle dare loro da mangiare». Astrid li portò di sopra, nello studio bianco e nero che aveva progettato personalmente. Loro rimasero a bocca aperta, vedendo il tavolo col piano di vetro e le lenzuola di raso nero del letto. Rimasero lì seduti, al lume di candela, bevendo tè e mangiando panini al prosciutto. «Avrei voluto parlare con loro, ma a quel tempo conoscevo solo qualche parola d’inglese. John sembrava duro, cinico, sarcastico, ma anche qualcosa di più. Paul sorrideva... sorrideva sempre ed era diplomatico. George non era che un ragazzino con i capelli alti e le orecchie a sventola. Disse che non sapeva che la Germania avesse panini al prosciutto. «Volevo parlare con Stuart. Cercai di chiedergli se potevo fargli il ritratto, ma lui non capiva. Sapevo che avrei dovuto per forza chiedere a Klaus di aiutarmi a parlare meglio in inglese». Il piacere di essere fotografati da una bellissima ragazza tedesca dai capelli biondi non fu nulla rispetto a quello provato alla vista delle fotografie stesse, che non erano le solite istantanee scattate dalla prima persona di passaggio, in genere nel momento meno adatto possibile. Si trattava di stampe di formato gran-
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Astrid Kirchherr: John Lennon e Stu Sutcliffe al luna-park; Amburgo, novembre1960.
de e a grana grossa, fatte apparire, come per incanto, dalle nicchie della stanza di raso nero, e mostravano i Beatles così come loro non si erano mai immaginati prima. L’obiettivo di Astrid, infatti, aveva colto quell’aspetto di loro che attirava intellettuali come Klaus e lei: il paradosso di teddy boy con la faccia da bambini; di pretesa durezza e di indistinguibile candore onniprotettivo. Le massicce e pesanti macchine del luna-park, su cui sedevano, sembravano simboleggiare il loro lieve ma fiducioso posarsi sulla vita adulta. John, con il suo colletto rialzato, che stringeva con forza la sua nuova Rickenbacker; Paul, inclinato, scontento di una chitarra scartata da un altro; George, così infantile; Pete Best, così riservato, un po’ di lato: ogni immagine aveva in sé la propria vera profezia. In una fotografia, Stu Sutcliffe gira le spalle agli altri, il lungo braccio della chitarra è rivolto a terra. Questa fu la prima di molte sedute fotografiche con Astrid nelle settimane che seguirono. Ogni volta lei li metteva in posa, con o senza chitarra, sullo sfondo di qualche parte dell’Amburgo industriale: le banchine o lo scalo di smistamento delle ferrovie. Era prodiga di copie di fotografie e di inviti a pranzo a casa sua. «Preparavo loro tutte le cose inglesi di cui sentivano la mancanza: uova strapazzate e patatine fritte». Intanto, con l’aiuto di Klaus Voormann, il suo inglese continuava sempre a migliorare. Al Kaiserkeller, una parte del pubblico era ormai costituita da exi portati da Astrid e da Klaus. Diventò di moda, tra loro, vestirsi, come i rockers, di pelle e
con i jeans attillati. La musica dei Beatles apparteneva alla stessa conversione intellettuale. Ben presto gli exi ebbero i loro tavoli riservati vicino al palcoscenico. E sempre tra loro sedeva, con Klaus Voormann o da sola, la ragazza che non seguiva nessuna moda se non la propria, in attesa del momento in cui, a notte inoltrata, John e Paul si facevano da parte e si faceva avanti Stu Sutcliffe, con il suo pesante basso, per cantare la ballata di Elvis Love Me Tender. Questo e tanto altro è l’appassionante e appagante succo della monografia illustrata Astrid Kirchherr with the Beatles, confezionata nel sessantesimo anniversario dell’incontro di John Lennon e Paul McCartney, a Woolton, Liverpool, la cui evoluzione avrebbe portato ai Beatles (6 luglio 1957). La data è ricordata e storicizzata da Maurizio Guidoni, in introduzione al libro e accompagnamento alla mostra di originali fotografici, esposta a Bologna, a Palazzo Fava, fino al nove ottobre. Questo e tanto altro è uno sguardo indietro, verso il nostro passato prossimo, così utile, se non già addirittura necessario, alla comprensione del presente. Ne abbiamo già riflettuto, giusto lo scorso giugno, a proposito della presidenza statunitense di John Fitzgerald Kennedy, a partire da una analoga monografia illustrata, e qui ripetiamo: dove collocare questo volume sugli scaffali dei propri libri? Sì, potrebbe anche essere musica e spettacolo. Ma è soprattutto società e costume. Comunque... un titolo prezioso, al quale il lessico della Fotografia offre straordinaria immediatezza visiva. Da non perdere. ❖
Astrid Kirchherr with the Beatles (in copertina: servizio fotografico in studio, 1962); introduzione di Vladislav Ginzburg; prefazione di Maurizio Guidoni (ONO Arte Contemporanea); Damiani Editore, 2017; 96 pagine 21x26cm, cartonato; 25,00 euro. ❯ Volume-catalogo pubblicato in occasione della mostra omonima Astrid Kirchherr with the Beatles, promossa da Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e da Genus Bononiae, e curata da ONO Arte Contemporanea, Ginzburg Fine Arts e Kai-Uwe Franz. Palazzo Fava, via Manzoni 2, 40121 Bologna; palazzofava@ genusbononiae.it. Dal 7 luglio al 9 ottobre; martedì-domenica, 11,00-19,00 (giovedì, fino alle 22,00).
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di Maurizio Rebuzzini
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oprattutto e prima di altro, un desiderio personale. Pensando a come e quando questo avvincente progetto di Pino Bertelli verrà accreditato nella Storia della Fotografia, prima italiana, poi globale, non vorremmo che fosse accostato alla straordinaria documentazione dei Nativi Americani svolta dall’intrepido Edward Sheriff Curtis all’inizio del Novecento. A completa differenza, la serie fotografica statunitense fu realizzata nella consapevolezza di una fine, di una scomparsa; invece, questa di Pino Bertelli è declinata in tutt’altra direzione: verso l’orgoglio e lontana dal pregiudizio. Infatti, nel proprio peregrinare fotografico, che lo ha portato ad affrontare Genti di molti e molti luoghi, l’autore Pino Bertelli applica una deontologia che definire affascinante è dire poco... forse nulla. Ovviamente, non è affatto estraneo all’essenza dei soggetti, alla loro esistenza e alle loro personalità: quindi, rispetto tanta e tanta fotografia colonialista (quella di osservazione pregiudizievole delle diversità, spesso non accettate, raramente comprese), la sua è una fotografia di partecipazione intensa. Quello che offre è uno scrigno colmo di sogni e magia. Tutto ciò che l’osservatore deve fare, al cospetto della sua Fotografia (in maiuscola volontaria, prima che consapevole), è rincorrere i sogni. Tutto ciò di cui l’osservatore ha bisogno è la magia.
Nel suo agire, Pino Bertelli è guidato da ciò che lo tocca e sorprende. Le sue fotografie possono essere enigmatiche. Alle volte funzionano per ciò che è presente nell’inquadratura, altre volte per ciò che ne resta fuori. Non c’è una formula per scattare fotografie. È un processo misterioso; una sfida senza fine. Nuove idee si schiudono costantemente e nuove possibilità si rivelano dietro ogni angolo. Il trucco è di aprirsi abbastanza per riconoscerle nel momento in cui appaiono, saperle portare avanti e perseguirle. Nell’ambito delle sue propensioni e dei suoi interessi sociali (oltre che culturali), dai suoi primi giorni sulla strada, armato di macchina fotografica, Pino Bertelli ha saputo che sarebbe stato così: sarebbe diventato fotografo. Questo infantile senso di eccitamento non lo ha mai abbandonato, come anche il piacere che il contatto con le persone che fotografa riesce a dargli. Scattare fotografie può essere una contraddizione, perché, se la macchina fotografica -da un lato- facilita il contatto con il soggetto, dall’altro fornisce una necessaria distanza. A volte, il suo lavoro si focalizza su aspetti di vita che sono molto difficili. Quando la macchina fotografica è tra lui e il soggetto, spesso lo protegge da una situazione spiacevole, ma al tempo stesso gli permette di introdursi in mondi altrimenti impenetrabili. (continua a pagina 32)
La capacità interpretativa di Pino Bertelli -qui in veste di autore fotografo- è sempre e comunque profonda, perché frutto di un impegno concentrato di elaborazione (del progetto), al fine di edificare e stabilire un rapporto energico con i propri soggetti. L’intimità è molto importante nelle sue fotografie. La sua espansività naturale è spesso un vantaggio, nel permettergli di acquisire tanta intimità. In questo attuale Genti di Calabria, i soggetti lo hanno conosciuto e si sono fidati di lui, prima di permettergli di introdursi nelle proprie esistenze. Così, Pino Bertelli ha fotografato testimoniando dettagli personali delle loro vite e aspetti inconsueti dei loro volti (in ritratto). Monografia con accompagnamento di interviste video
GENTI DI CALABRIA
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(continua da pagina 25) sanno, fin dagli esordi, che passeranno molto tempo con lui. Per quanto si presenti con aspetti lievi, spesso in forma di ap- Non è sempre facile trovare persone che riescono a essere parente istantanea, la fotografia di Pino Bertelli è sempre e co- così aperte nel mostrare la propria vita in presenza di una macmunque profonda, perché frutto di un impegno concentrato di china fotografica. Ed è questa la qualità di Pino Bertelli, prima elaborazione (del progetto), al fine di edificare e stabilire un rap- propria, poi miratamente fotografica. porto energico con i suoi soggetti. L’intimità Infatti, rispondendo a un’etica sovrastanè molto importante nelle sue fotografie. La te, Pino Bertelli cerca sempre di trovare sua espansività naturale è spesso un vanqualcosa di peculiare nei suoi soggetti, per taggio, nel permettergli di acquisire questa andare oltre i cliché e scoprire l’elemento intimità, poiché le persone, soprattutto gli umano comune che connette le persone estranei, si sentono meno minacciati dalin ogni luogo del mondo. Gli piace pensare l’espansività, piuttosto che dall’introversioche le sue fotografie esistono anche per se ne. In questo attuale Genti di Calabria, i sogstesse, come singole immagini, oltre che getti lo hanno conosciuto e si sono fidati di nel proprio contenitore sovrastante. Cerca lui, prima di permettergli di introdursi nelle sempre di realizzare fotografie che comuproprie esistenze. Così, Pino Bertelli è rinichino da sole. Una grande fotografia deve uscito a fotografare testimoniando dettagli andare oltre il significato letterale della mapersonali delle loro vite e aspetti inconsueti teria trattata. Così come la poesia è bella dei loro volti (in ritratto). ed emoziona nella propria astrazione, anIn risposta esplicita alla sua progettualità che le fotografie devono essere un po’ preventiva, Pino Bertelli finisce per fotoastratte. In definitiva, Pino Bertelli desidera grafare persone alle quali tiene. Spesso, i Genti di Calabria, di Pino Bertelli; che le sue fotografie suscitino sentimenti. libro più Docu-film (Dvd di sessanta minuti); soggetti delle sue fotografie sono diventati atlante Senza la fotografia, la sua vita sarebbe fotografico umano con circa centottanta amici. Per conquistare la fiducia di qual- ritratti di calabresi (volti, fisicità, posture); stata diversa in modo inimmaginabile. Per cuno, un fotografo deve essere veramente testi di Francesco Mazza, Paola Grillo, nulla al mondo avrebbe voluto perdere l’inonesto. Il fotografo deve avere sempre il Hubertus von Amelunxen, Oliviero Toscani, contro con persone straordinarie che hancontrollo della situazione. Sia che i soggetti Maurizio Rebuzzini, Luigi Maria Lombardi Satriani, no dato forma alla sua vita. Certamente, è Luigi La Rosa e Pino Bertelli [su questo stesso siano sconosciuti o molto famosi, hanno numero, davvero grato a loro e spera in molti altri da pagina 8]; Suoni & Luci bisogno di potersi fidare di lui. Con i pro- Associazione Culturale, 2017; 204 pagine 28x32cm, anni di fotografie. getti di documentazione, i suoi soggetti cartonato con sovraccoperta; 79,90 euro. L’avventura non è ancora finita. ❖
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di Antonio Bordoni
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MAURIZIO REBUZZINI (2)
nticipazione d’obbligo, in forma di prologo: non è il caso di fare finta che. Non è il caso di fare finta di niente. A partire da un punto di vista tecnico-commerciale, che presto si proietta verso e sull’espressività del linguaggio applicato e svolto, è inutile -non soltanto superfluo- ignorare la realtà fotografica dei nostri giorni (in pieno Duemiladiciassette), in forma di acquisizione (e gestione) digitale di immagini. Nel lungo processo tecnologico, avviato con l’invenzione, alle date ufficiali del 1839, l’attuale personalità (digitale) è inviolabilmente sostitutiva della lunga storia chimica... materiali sensibili alla luce e contorni e dintorni evolutasi per passi adeguatamente cadenzati in relazione ai propri tempi e modi.
Una volta ancora, una di più, mai una di troppo e -soprattutto- non certo per l’ultima volta, approfondiamo l’idea di fotografia con apparecchi grande formato e, per conseguenza diretta, pellicola chimica fotosensibile (in alternativa, carta bianconero da stampa, utilizzata in ripresa: altro discorso). Le rilevazioni scorrono su due binari rigorosamente paralleli, ma le conclusioni convergono in un unico punto. Al giorno d’oggi, in altra epoca fotografica, che possiamo
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CON IL PROP
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Questa registrazione è dovuta, oltre che doverosa. Senza alcuna animosità, lontani da qualsivoglia nostalgia (fine a se stessa), estranei a inutili controversie e contrapposizioni, siamo qui a registrare che la storia (fosse anche solo quella tecnologica) va comunque avanti, con o senza di noi. Però! Però, con altrettanta pacata e lieve serenità, siamo qui anche ad affermare come e quanto a qualcuno piaccia attardarsi con compagnie fotograficamente storiche: del passato, sia prossimo, sia remoto, che da questo stesso passato avvolgono il presente con un’aura che arricchisce e impreziosisce le singole esistenze. Ancora, e sia chiaro una volta per tutte: non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -molto più concretamente- invitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio
identificare come di tecnologie esuberanti e variopinte, perché attardarsi con apparecchi a banco ottico e folding per pellicola piana? Razionalmente, e a differenza del passato, anche solo prossimo, sono inutili; però, allo stesso tempo e momento conservano inalterato il fascino e lo spessore di una applicazione che non intende rinunciare al proprio più forte connotato di autentica e inviolabile fotografia. Lode del grande formato fotografico. In proprio Ritorno
PRIO TEMPO
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L’immagine che si forma sul vetro smerigliato -plastica e ricca di sfumature (qui accanto, Sinar p2 8x10 pollici / 20,4x25,4cm)obbliga lo sguardo a una composizione ragionata e attenta a ogni particolare. (doppia pagina precedente, al centro) Il momento dello scatto è il gesto finale di un laborioso processo, che comincia quando si immagina interiormente ciò che si vuole esprimere [dal film L'œil de l'autre; FOTOgraphia, aprile 2015]. (doppia pagina precedente, a sinistra e destra). Due apparecchi fotografici grande formato in odore di Storia, e, dunque, anche/proprio per questo, particolarmente congeniali al Ritorno: folding in legno Deardorff 8x10 pollici e banco ottico Sinar Norma 4x5 pollici (qui accanto, un suo dettaglio).
Indipendentemente dal Ritorno al grande formato, forse, richiamo al banco ottico Silvestri S5 Micron, l’ultimo di una lunga stagione: qui, con dorso ad acquisizione digitale di immagini.
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MAURIZIO REBUZZINI (2)
(centro pagina) Prematuramente mancato lo scorso febbraio, Giancarlo D’Emilio ha contribuito fattivamente al Ritorno al grande formato (a destra, in workshop, con Gianni Berengo Gardin e Maurizio Rebuzzini).
non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen ). Fino a qualche stagione fa utensile indispensabile e irrinunciabile del professionismo fotografico, oggigiorno, la configurazione grande formato a corpi mobili (dotati di movimenti controllati di decentramento e basculaggio dei piani principali) si offre e presenta con altri connotati, si ri-propone per altra personalità. In questo senso, il definito Ritorno al grande formato -proposto dall’estate 2014, in compagnia con Giancarlo D’Emilio (purtroppo, nel frattempo, prematuramente scomparso [FOTOgraphia, marzo 2017]- è da interpretare sia per se stesso (l’attardarsi sul passato può anche limitarsi a questo), sia come autentica e privilegiata e autorevole base strumentale per eventuali e successive proiezioni in allungo, verso la chimica, fino a quei processi fotografici che la Storia conserva tra le proprie fronde, che il lessico fotografico ha declinato e definito con ammirevole creatività. Attenzione: per il Ritorno al grande formato non è più tanto necessario applicare quelle condizioni geometriche -la maggior parte delle quali perfino intuitive-, che dirigono e governano la raffigurazione del soggetto, anzitutto composto e inquadrato con efficace restituzione prospettica, in altre situazioni e condizioni inteso con opportuna e consapevole nitidezza, oppure, all’opposto, con distribuzione personalizzata di piani di sfocatura volontaria, collaudata e indirizzata [FOTOgraphia, novembre 2015 e dicembre 2016]. Queste fasi/procedure operative sono state indispensabili alla fotografia professionale in tempi chimici, di pellicola fotosensibile: soprattutto in indirizzi specifici, quali lo still life, in sala di posa, e la fotografia di architettura, d’arredamento e industriale, in location. Con intenzioni scartate a lato, e diversa impellenza -questo va riconosciuto-, nella propria ipotizzata frequentazione arbitraria dei nostri giorni, dove e quando non è più essenziale e doverosa, né tantomeno richiesta, ma frequentata in altro senso, una identificata attualità ideologica della fotografia grande formato è altro, forse... ben alto. È attardarsi con modalità di esecuzioni
ILARIO PIATTI
fotografiche estranee all’incessante ritmo delle lancette che scorrono rapide sul quadrante dell’orologio. Si tratta di prendere il proprio Tempo... qualsiasi cosa ciò possa significare per ciascuno di noi.
CHE SENSO HA? Se, fino a qualche decennio fa, la qualità della trasformazione dell’immagine fotografica è dipesa in misura assolutamente statica dalle dimensioni dell’originale, negativo o diapositiva, oggi, la qualità finale di una stampa su carta fotografica o di una riproduzione grafica (stampa offset) è ottenibile anche a partire da file alla portata di qualsivoglia apparecchio fotografico dei nostri giorni. Quindi, potendo lavorare con efficaci sensori di acquisizione digitale di immagini, la discriminante del grande formato fotografico non passa più attraverso l’elemento originariamente qualificante del “grande”, quanto dipende invece da altri fattori, alcuni razionali e oggettivi, altri emotivi e individuali. Per quanto possa essere ancora doveroso, l’aggiustamento dei piani principali degli apparecchi a corpi mobili (piano dell’obiettivo e quello immagine) è tangibilmente e imparzialmente finalizzato al controllo della prospettiva e all’estensione (o contrazione volontaria) della nitidezza [in ripetizione d’obbligo, FOTOgraphia, del dicembre 2016 e novembre 2015]. Così che, nel corso dell’evoluzione degli utensili, dal banco ottico semplicemente tale, per riprese in grande formato su pellicola piana e lastra, si è passati a costruzioni che hanno incorporato geometrie che facilitano l’accomodamento accurato sul piano di messa a fuoco più idoneo alla distribuzione volumetrica del soggetto [FOTOgraphia, novembre 2015]. Dopo di che, come appena annotato, c’è un altro tipo di sollecitazione individuale e personale. È quella che non considera soltanto la banale esteriorità dei fatti, molti dei quali soltanto apparenti, ma prende in esame la sostanza complessiva delle questioni. Per cui, le potenzialità del grande formato vanno giudicate anche alla luce dell’influenza del mezzo sul linguaggio. (continua a pagina 40)
Certamente, il progetto In American West è uno dei più celebri di Richard Avedon. A partire dalla fantastica monografia accompagnatoria Avedon at Work in the American West, di Laura Wilson (qui accanto, in visualizzazione), nel dicembre 2012, abbiamo approfondito, sottolineando come e quanto la consapevolezza individuale di taluni passi della fotografia espressiva sia utile e necessaria per il bagaglio personale di conoscenze e competenze: per comporre tratti significativi di quei tasselli che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ci rendono fotografi migliori (di scatto o di interesse per). Soprattutto, persone migliori. Ora, in altri termini, e in urgenza specifica all’argomento odierno, torniamo a segnalare quella fantastica serie di ritratti di Richard Avedon, riferendoli a un altro presupposto specifico: l’uso dell’apparecchio grande formato folding Deardorff (in legno): backstage di due set, uno dei quali per il ritratto dell’apicoltore Ronald Fischer (il più riproposto), fotografato a Davis, in California, il 9 maggio 1981. Da cui, a completamento, il relativo negativo 8x10 pollici / 20,4x25,4cm (3 maggio 1994; da Celebrating the Negative, di John Loengard [ FOTOgraphia, ottobre 2012]). Testimonianza: «Ho scattato con una Deardorff 8x10 pollici in legno, ovviamente fissata su treppiedi: folding moderna per pellicole piane, niente affatto diversa dagli apparecchi antichi usati da Edward Sheriff Curtis, Mathew B. Brady e August Sander. Generalmente, mi sono posizionato accanto al treppiedi, non dietro il vetro smerigliato, a sinistra dell’obiettivo, a circa un metro e mezzo dal soggetto».
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ZEN E FOTOGRAFIA
Come è noto, la fotogenia di New York è unica e incontestabile: tanto da creare un insieme di belle fotografie troppo uguali, troppo viste, appunto fotogeniche. Tra tanta/troppa omogeneità, il tedesco Reinhart Wolf, autentico maestro dell’impegno, tra Zen e fotografia, si è sottratto al fascino dei luccichii e alla vertigine delle prospettive dal basso o dall’alto, per concentrarsi sui singoli grattacieli, anzi, sulle cime osservate frontalmente. Cioè, sulle cime sulle quali gli architetti hanno potuto sbizzarrirsi, per esprimere in maniera sontuosa la ricchezza dei committenti. Per le sue fotografie, raccolte in un volume di grandi dimensioni, appunto New York, pubblicato in Italia da Longanesi, nel 1986, e rieditato da Taschen Verlag, nel 2002, Reinhart Wolf ha usato un’attrezzatura imponente: banco ottico Sinar Norma nelle dimensioni 13x18cm, oppure 8x10 pollici (20,4x25,4cm), con lunghi obiettivi di focale da 360 a 1000mm. «Naturalmente è stato un lavoraccio -ha raccontatoe non solo per le cinque valigie di materiale. Ci sono volute ore, qualche volta intere giornate, per convincere la gente a lasciarmi salire sui tetti. Portieri, custodi, condomini e inquilini non sempre capivano subito, spesso temevano che fossi un malintenzionato. E poi lo shock, quando dicevo “Allora va bene, domattina alle cinque”. Infatti, è questa la mia ora preferita per lavorare. «Non posso lasciarmi sfuggire la luce tenue del primo mattino. E poi, pregare in ginocchio la gente dei palazzi che volevo fotografare, perché accendesse proprio certe luci di cui avevo bisogno e spegnesse tutte le altre. Quando, finalmente, veniva il mattino, con le condizioni meteorologiche desiderate, il mio sonnolento assistente mi lasciava con le valigie davanti al luogo prescelto e andava a cercare un parcheggio. A quel punto, ero solo, e dovevo destreggiarmi tra corridoi, scalinate, ascensori, sempre e comunque circondato dal sospetto. La gente ha subito paura, se ti vede circolare con valigie che possono contenere una bomba o una mitragliatrice, per giunta alla mattina presto. «Ma, finalmente, quando tutti questi ostacoli erano superati e mi trovavo sul tetto giusto, con l’inquadratura desiderata davanti a me (la distanza giusta, l’angolatura giusta, il cielo giusto), allora mi prendeva un senso di trionfo e appagamento, che confina con ciò che chiamiamo felicità. Era come conquistare l’Everest». Mancato il 10 novembre 1988, a cinquantotto anni di età, Reinhart Wolf è stato uno dei grandi maestri della fotografia: un paziente, preciso, diligente, attento ed esigente compositore di forme, colori e luci, capace di raccontare luoghi e realizzare still life nella coscienza di sé, del mondo e del tempo esistenziale (www.reinhartwolf.de, con allungo sulla Reinhart Wolf photographic Foundation, che tutela la sua consistente produzione fotografica). La sua visione e interpretazione di New York toglie il fiato. È uno dei più convinti omaggi alla città.
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Reinhart Wolf sul tetto di un edificio newyorkese. Dall’alto, in asse rispetto i soggetti, ha fotografato le cime dei palazzi della città, sulle quali gli architetti hanno potuto sbizzarrirsi, per esprimere efficacemente sontuose ricchezze. Il fotografo tedesco è al vetro smerigliato di un banco ottico Sinar Norma 13x18cm, che ha alternato all’8x10 pollici (20,4x25,4cm), inquadrando sempre con obiettivi di lunga focale, da 360 a 1000mm. Qui siamo nell’ordine di almeno 800mm, con doppia struttura di sostegno del pesante obiettivo (Fotografia di Geoff Juckes).
New York, di Reinhart Wolf; prefazione di Edward Albee; testi di Sabina Lietzmann; intervista di Andy Warhol. Taschen Verlag, 2002 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 80 pagine 30x42cm; 29,99 euro.
SLUB DRESDEN / DEUTSCHE FOTOTHEK, REINHART WOLF (5)
Reinhart Wolf: Fuller Building (1929), 41 East 57th street, New York.
Reinhart Wolf: World Trade Center Towers (1973; abbattute nell’attentato dell’11 settembre 2001), New York.
Reinhart Wolf: Flatiron Building (1902), 175 Fifth Avenue (949 Broadway), New York.
Reinhart Wolf: McGraw-Hill Building (1931), 326 West 42nd street, New York.
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(continua da pagina 37) Si tratta di un rapporto a un tempo pratico e astratto. Pratico, perché le condizioni fisiche del lavoro influiscono sui suoi risultati; astratto, perché le relazioni individuali con gli strumenti implicano anche personalismi che sfiorano il feticismo degli oggetti. Ovverosia, di un rapporto che risponde alla domanda fondamentale: che senso ha? Ancora: perché usare apparecchi grande formato, dal 4x5 all’8x10 pollici (dal 10,2x12,7cm al 20,4x25,4cm), in un’epoca di automatismi fotografici prêt-à-porter? / quali sono le motivazioni che spingono a fotografare con ingombranti e impegnativi apparecchi a banco ottico oppure folding? / da cosa dipendono il piacere e il gusto di regolazioni completamente manuali, dall’esposizione all’accurata messa a fuoco?
A LUNGO MEDITATE
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Della combinazione tra Ansel Adams e il banco ottico Horseman abbiamo riferito in due occasioni precedenti: nel luglio 2007, presentando soprattutto il soggetto della campagna Apple / Think different; nel novembre 2015, con una serie di documenti originari di proprietà di Tosh Komamura, al quale si deve il sistema Horseman e la ripresa del marchio storico Deardorff. Qui, riproponiamo l’annuncio pubblicitario Apple e la copertina di Time Magazine, del 3 settembre 1979 (con firma autografa di Ansel Adams), entrambi con Horseman 450.
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Per tutti, ha risposto Reinhart Wolf, autore prematuramente scomparso, nel 1988, a cinquantotto anni, che ha accompagnato le proprie immagini con riflessioni teoriche sugli strumenti e il significato del gesto fotografico (in riquadro, a pagina 38): «L’uso degli apparecchi grande formato rappresenta una forma di resistenza agli automatismi che caratterizzano sempre di più la fotografia contemporanea: una tacita protesta contro le istantanee, una dimostrazione contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite. [...] Per la composizione strutturata dell’intero lavoro, contro il fracasso per la quiete» (in New York, del 1980; prima edizione italiana del 1986; riedizione Taschen Verlag, del 2002). [Attenzione, su questo stesso numero, ci riferiamo altrimenti a Reinhart Wolf, in subordine alla presentazione della monografia Astrid Kirchherr with the Beatles, da pagina 16, ricordando che l’autrice è stata sua allieva e assistente]. Infatti, quando si fotografa in grande formato, i tempi si dilatano e i ritmi si distendono: si raggiunge quello stato d’animo contemplativo tanto adatto alla fotografia di paesaggio e, comunque, alla fotografia meditata. Le condizioni fisiche stesse dell’azione, per tanti versi addirittura imposte dal mezzo che si usa, influiscono in modo determinante sui risultati. Perentorio: al contrario delle reflex o delle macchine fotografiche a mirino che, soprattutto se usate a mano libera, senza treppiedi, inducono a uno sguardo veloce e dinamico, pronto a cogliere l’insieme piuttosto che il particolare, gli apparecchi grande formato impongono tutt’altra attenzione. L’immagine che si forma sul vetro smerigliato -plastica e ricca di sfumatureobbliga lo sguardo a una composizione ragionata e attenta a ogni particolare, anche minimo. Il momento dello scatto è il gesto finale di un laborioso processo, che comincia quando si immagina interiormente ciò che si vuole esprimere. Una volta ipotizzata e preventivata una certa ripresa, si prepara l’attrezzatura e si parte: tra apparecchio, obiettivi, châssis e treppiedi si viaggia carichi di pesanti valige. Raggiunta la meta, si scarica il tutto e si monta la macchina fotografica sul treppiedi. Si individua il punto di osservazione e si studia l’inquadratura. Comincia allora la fase più entusiasmante dell’intero processo: l’osservazione della proiezione sul vetro smerigliato.
La contemplazione dell’immagine aerea sul vetro smerigliato è una delle esperienze compositive più appaganti. È la quintessenza stessa della fotografia.
TEMPI INTERIORI Scelta l’inquadratura, si mette a fuoco sul vetro smerigliato. Quindi, si procede alla misurazione della luce: un’operazione di importanza fondamentale, che va compiuta con il massimo scrupolo. Quando è possibile, qualcuno preferisce misurare soprattutto la luce incidente; quando, invece, si è costretti a misurare la luce riflessa, allora è bene servirsi di un esposimetro spot. Impostati il tempo di otturazione e l’apertura del diaframma, si chiude manualmente l’otturatore centrale e si lo si mette in carica meccanica, si inserisce lo châssis nel dorso di formato e si estrae il volet. Soltanto a questo punto si è pronti per scattare. È un rito. È il proprio tempo. L’esecuzione di questi lunghi preliminari, il compimento di questi gesti, che i cultori del grande formato ripetono ogni volta, per ogni scatto, dispone a quella cura meticolosa alla quale abbiamo già accennato: induce alla ricerca della perfezione; forse... di se stessi. Proprio in virtù dell’oggettiva laboriosità dei preparativi (che presto diventano naturali), l’apparecchio fotografico grande formato genera uno stato d’animo posato e riflessivo. Infatti, come abbiamo appena annotato, i mezzi tecnici dei quali ci si avvale condizionano lo sguardo e i risultati stessi del lavoro fotografico. Di fatto, ogni fotografia contiene in sé tutti i pensieri, i gesti, le emozioni che ne hanno preceduto e accompagnato la realizzazione: anche la fatica di trasportare l’attrezzatura e la disciplina con la quale si è allestito l’apparato di ripresa... tutto, proprio tutto, finisce nell’immagine.
Altro tipo di apparecchio grande formato, a propria volta appartenente alla Storia. Da usare a mano libera, con mirino esterno, la Speed Graphic è una 4x5 pollici / 10,2x12,7cm per fotogiornalismo. Dagli anni Trenta del Novecento, ha accompagnato e definito il giornalismo statunitense. Soprattutto, è inviolabile il suo accostamento a Weegee, cronista della New York degli anni Trenta e Quaranta [ FOTOgraphia, settembre 2008 e marzo 2011]. In alto, il più celebre e noto ritratto di Weegee, di autore sconosciuto (1942): con Speed Graphic dotata di flash a lampadine e sigaro tra i denti. Ancora e anche qui, ricordiamo anche che lo stesso Weegee è il fotografo al quale si ispira e riferisce la sceneggiatura del film Occhio indiscreto ( The Public Eye, di Howard Franklin; 1992). Nel film, il reporter di cronaca nera Bernzy (Leon Bernstein o Grande Bernzini) è tagliato sulla figura e personalità di Weegee. L’attore Joe Pesci ne replica bene gli atteggiamenti e la ricostruzione scenografica propone la combinazione di Speed Graphic e sigaro tra i denti.
Il lavorio paziente di questo modo di fotografare costituisce un rito che richiama alla mente la spiritualità Zen. Daisetsu Teitarō Suzuki (1870-1966), storico delle religioni e filosofo giapponese, considerato il massimo divulgatore in occidente dell’antica disciplina orientale, afferma che uno degli elementi decisivi nell’esercizio delle pratiche spirituali «È il fatto che queste non perseguono alcun fine pratico, e neppure si propongono un piacere puramente estetico, ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinarla alla realtà ultima». Forse -e ne saremmo appagati-, oggigiorno, magari persino in memoria e ricordo di Giancarlo D’Emilio, il Ritorno al grande formato può essere inteso come un passo nell’utopia (ad Alessandro Federica e ad Alessia... a mia madre, che hanno pagato a caro prezzo il mio lungo viaggio in utopia: Francesco Mazza, su questo stesso numero, a pagina 9). Da e con Eduardo Hughes Galeano: «Lei è all’orizzonte. / Mi avvicino di due passi, / lei si allontana di due passi. / Cammino per dieci passi / e l’orizzonte si sposta / dieci passi più in là. / Per quanto io cammini, / non la raggiungerò mai. / A cosa serve l’utopia? / Serve proprio a questo: a camminare». E fotografare! ❖
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
ADDIRITTURA... UTOPIA
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La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
settembre 2017
GIAN PAOLO BARBIERI: FIORI DELLA MIA VITA. COINVOLGENTI... Poesie di Branislav Jankic.
ATTRAVERSO LA NATURA di Lello Piazza
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izzarro questo nostro paese, fatto di corruzione, evasione fiscale, classe politica litigiosa e inconcludente, debito pubblico tra i più alti del mondo, disoccupazione giovanile inaccettabile, pagamenti delle fatture a distanza di mesi, ma anche di inaspettate eccellenze, di piccole nicchie di tecnologia avanzata, sanità nazionale tra le migliori del mondo, moda e design, cultura del cibo, alcuni licei e università, rari esempi di editoria. Tra le eccellenze segnalo l’Oasis Photocontest (http://oasisphotocontest.it), un concorso internazionale di fotografia naturalistica che gli organizzatori chiamano, forse esagerando un pochino, il “Premio Oscar della Fotografia Naturalistica”. Ma al di là di questo peccato veniale (l’autodefinirsi “Premio Oscar”), bisogna riconoscere che le cifre che caratterizzano il concorso sono di tutto rispetto e lo inseriscono tra i più prestigiosi a livello internazionale: ventiquattromila le immagini partecipanti, scattate da millecinquentocinquanta fotografi provenienti da sessantasei paesi (1550 da 66), tra i quali India, Cina, Iran, Messico, Equador, Nigeria, Malesia, Arabia e Nuova Zelanda. Il concorso è organizzato, gestito, finanziato e voluto da Eugenio Ecclesiastico, editore della rivista Oasis (www.oasisweb.it) e dall’Associazione Italiana Turismo Natura (www.aitn.org).
LA STORIA Questa rivista è ben conosciuta all’interno di una nicchia particolare: quella dei naturalisti e dei fotografi della natura. Ma penso che per il pubblico di FOTOgraphia, altrimenti indirizzata, Oasis necessiti di un minimo di presentazione. Eccola. Il primo numero esce nel gennaio 1985. Gli anni Ottanta rappresentano un ottimo periodo per le riviste di natura. Il dominus del mercato è Airone, una geniale invenzione di Egidio Gavazzi, che trova in Giorgio Mondadori l’editore ideale. Airone è in edicola dal maggio 1981. Sull’onda del suo successo, nel gennaio 1983, nasce Natura Oggi, per i tipi della Rizzoli, seguìta, due anni dopo, da Oasis: per l’appunto. L’ideatore di Oasis è Paolo Fioratti, che, con Egidio Gavazzi e con me (Lello Piazza), fa parte della Società Italiana di Caccia Fotografica, fondata nel 1974, che promuove il teleobiettivo come strumento di caccia, al posto del fucile. Questa Società è piena di maschi Alfa. Ovviamente, Egidio Gavazzi e Paolo Fioratti sono tra questi. Alla iniziativa di Egidio Gavazzi, che ha sorpreso un po’ tutti (tranne quelli che sapevano cosa stesse bollendo in pentola), Paolo Fioratti non può non rispondere. Quando esce Oasis, con il sottotitolo/identificazione “Mensile di natura, ecologia, fotografia”, la cosa non stupisce. Non è una rivista social popolare, come Natura Oggi, dove non sempre scrivono naturalisti competenti. Ma è un prodotto di alto livello, come Airone, con giornalisti esperti di natura tra i collaboratori. Ma, soprattutto, la fotografia è di qualità superlativa, come quella di Airone
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Audun Rikardsen, di Tromsø, Norvegia, è l’ International Oasis Photographer 2017. Solo gli appassionati di natura sanno che le megattere, e molte altre specie di balene, migrano come gli uccelli. A febbraio, lasciano i fiordi del nord
Riflessioni, considerazioni e, forse, contraddizioni, dallo svolgimento dell’Oasis Photocontest 2017, accreditato e autorevole concorso internazionale di fotografia di natura: casellario di vincitori di categoria. Dalla partecipe testimonianza di un giurato, attento e consapevole di molto, oltre quanto qui racconta, una visione dietro le quinte assolutamente edificante: anzitutto, e in prima istanza, perché sincera nella propria onestà intellettuale; quindi, in ammirevole consecuzione, perché consapevole che il tempo cambia, cresce e si evolve, che gli equilibri si trasformano, che la fotografia ne debba seguire l’iter. Ci piaccia, o meno
della Norvegia, e partono verso acque tropicali, per accoppiarsi e partorire. «Sono sempre stato affascinato dal paesaggio e dalla fauna dell’Artico, sia sopra sia sotto la superficie del mare», afferma l’autore. «Insegno biologia
all’Università di Tromsø, in Norvegia, lavorando soprattutto sul campo. Per me, la fotografia è divertimento: fissare i momenti più belli e mostrare le bellezze del mio paese». Il suo sito è www.audunrikardsen.com.
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James Gifford ha vinto l’ Oasis Magazine Award 2017. Inglese che vive da dieci anni in Botswana, ai margini del Delta dell’Okavango, organizza safari fotografici e realizza reportage per le principali riviste. «Ho atteso due anni per riuscire
a fotografare la cattura di un pesce gatto da parte di un leopardo, un comportamento che si può osservare solo quando il canale Savute inizia a prosciugarsi, bloccando i pesci in pozze isolate. Dopo una lunga attesa, sono stato ricompensato dal salto
del resto: fotografia aironesca, nella quale gestione sono coinvolto fin dai primi numeri, con il mio compagno di capanno, Oliviero Dolci. Paolo Fioratti è -al contempo- esperto di animali e ottimo fotografo. Sue, per esempio, le prime fotografie italiane del martin pescatore che pesca sott’acqua, suoi i primi scatti realizzati in Italia di un uccello che arriva al nido, gelato in volo dalla luce del flash, utilizzata anche di giorno, e immortalato sul fotogramma seipersei centimetri dell’Hasselblad motorizzata. Dalla fine degli anni Ottanta, però, ne passa di brutta acqua sotto i ponti. Mi limito a sintetizzare l’accaduto. Natura Oggi chiude nel 1991, e Airone passa dalle centottantamila copie in edicola e quarantamila abbonati alle quarantamila copie in edicola e ventimila abbonati dell’inizio del Terzo Millennio. Però, pur avendo stabilizzato il proprio numero di copie, Airone perde/abbandona la propria anima naturalistica con il numero di aprile 2007, quando, come conseguenza, lascio il posto di photo editor della rivista. Anche Oasis ha avuto i propri problemi. Diventa un bimestrale
nel 1997 e, dopo una breve interruzione delle pubblicazioni, viene acquistata da Il Corriere.net, di Alba, che la presenta in edicola con un nuovo sottotitolo “Rivista di cultura ambientale”. Dal Primo marzo 2014, Alessandro Cecchi Paone è direttore editoriale.
IL CONCORSO Torniamo al concorso. Nelle giurie delle varie edizioni dell’Oasis Photocontest si sono succeduti alcuni dei più noti fotografi naturalisti ed esperti di questo genere di fotografia a livello mondiale. La giuria di quest’anno è stata composta dalla tedesca Sandra Bartocha (fotografa, esperta di fotografia; www.bartocha-photo graphy.com), Felipe Foncueva (Spagna, fotografo naturalista; http://felipefoncueva.com), Stéphane Granzotto (Francia, fotografo subacqueo; www.stephanegranzotto.com), Pål Hermansen (Norvegia, fotografo; http://palhermansen.com), Sergio Pitamitz (Italia, fotografo naturalista; www.pitamitz.com; presidente di giuria), Joel Sartore (Usa, fotografo di National Geographic Magazine, creatore del progetto
Cinquantadue anni, di Brescia, Massimo Zanotti è stato insignito del prestigioso e ambìto Italian Oasis Photographer 2017. «Come molti appassionati di fotografia che vivono in Lombardia, e che -quindi- possono accedervi facilmente, in autunno, vado fotografare lungo un tratto del fiume Adda, vicino alla mia residenza», si presenta l’autore. «Qui, in una posizione strategica che ho individuato da tempo, alle prime luci dell’alba, posiziono l’attrezzatura e aspetto il momento propizio, quando le luci cominciano a delineare il paesaggio. Dall’alto della mia postazione, la sensazione visiva è emozionante: sembra di accarezzare il Paradiso, con la nebbia a velare gli ultimi intensi colori dell’autunno. In questi momenti intimi, la fotografia mi permette di dimenticare ogni cosa, ogni affanno, ogni disagio e restare solo con le mie emozioni». Il suo sito è www.massimozanottifotoamatore.com.
FOTOGRAFIA SQUALIFICATA
di questa femmina nel fango». James Gifford considera la fotografia potente strumento per promuovere la conservazione della natura. Attualmente, è impegnato in un progetto che prevede l’insegnamento della fotografia a ragazzi africani.
Photo Ark, dedicato al mondo animale; www.joelsartore.com). Last but not least, Lello Piazza, il sottoscritto. Chiunque abbia esperienza di giurie sa che la scelta dei vincitori è sempre il risultato di mediazioni tra le convinzioni dei giurati: mediazioni che possono essere più o meno difficili, più o meno rissose, a seconda della psicologia dei giurati stessi. Se le nostre mediazioni siano state rissose o no, è una notizia da Sancta Sanctorum. Quindi, non la rivelo. Ma prima di segnalarvi i vincitori, voglio accennare alle difficoltà che, nell’era della fotografia digitale, incontra ogni giurato. Il primo problema riguarda l’autenticità dell’immagine: quante e quali manipolazioni ha subìto quella che abbiamo davanti? Rispetta le regole del concorso? Per esempio, una delle regole dell’Oasis Photocontest, quella che mi sembra meno convincente, riguarda il cropping. Un’immagine non può essere meno del cinquanta percento dell’originale ottenuto in ripresa. Non avete idea di quanti concorrenti non abbiano rispettato questa regola. Ce ne siamo accorti quando,
Inizialmente, l’Italian Oasis Photographer 2017, è stato assegnato a Alberto Ghizzi Panizza, per una fotografia di mantide religiosa. In questo caso, però, l’intervento dei social è stato ammirevole: vari post su Facebook hanno segnalato che la specie di mantide nell’immagine premiata era originale dello Sri Lanka, ed è stata fotografata in un ambiente artificiale e non nel luogo d’origine. L’organizzazione dell’Oasis Photocontest è ricorsa al parere di esperti (più avanti), che hanno confermato la denuncia del web: immediata squalifica e riassegnazione del premio a Massimo Zanotti [qui sopra]. Riportiamo il responso della Commissione scientifica. «La mantide ritratta nella fotografia è un maschio subadulto di Gongylus gongylodes (Linnaeus, 1758), noto per India, Java, Myanmar, Sri Lanka e Thailandia. La specie, comunemente nota come “mantide violino”, è una classica mantide asiatica da allevamento, molto facile da reperire, anche in Italia, nell’ambito di fiere specializzate. Il portamento del muschio non sembra essere naturale, ma piuttosto messo lì a bella posta; dalla fotografia non è possibile determinare con esattezza la specie, che potrebbe appartenere ai generi Brachythecium o Eurhynchium. In Sri Lanka, sono presenti muschi appartenenti ad entrambi questi generi. Quindi, dall’analisi di questa singola fotografia, non si può escludere che l’immagine sia stata realizzata in Sri Lanka. In ogni caso, la presenza della mantide sopra questa pianta è innaturale; infatti, sul muschio, la mantide non ha alcuna possibilità di mimetizzarsi». Sottoscritto dal professor Michele Aleffi, botanico specializzato in briologia, Università di Camerino, dal dottor Roberto Battiston, entomologo, Musei Canal di Brenta, e dal dottor Giovanni Carotti, entomologo, collaboratore Parco Nazionale Appennino Tosco-Emiliano.
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Più di venti anni fa, nel 1995, Garzanti pubblicò un bellissimo volume, Il libro delle onde, accompagnato da un testo a firma di Drew Kampion e pieno di poesie di scrittori rilevanti e considerevoli. Si tratta dell’edizione italiana di The book of Waves, presentato negli Stati Uniti, nel 1989, da Arpel Graphics and Surfer Pubblication. Nessuno degli autori delle immagini del libro appartiene alla Storia della Fotografia. Si tratta di eccellenti fotografi, collaboratori delle tante riviste statunitensi dedicate al mare e ai surfer. Il libro si può ancora acquistare, usato, su Amazon. Ne parlo perché il vincitore della categoria Paesaggio, Ray Collins, di Thirroul, Australia, si dedica alle onde, realizzando immagini assolutamente imprevedibili. Fate un giro a https://raycollinsphoto.com/, e rimarrete affascinati. In dieci anni (la sua prima macchina fotografica è stata acquistata nel 2007), Ray Collins ha consolidato la propria collaborazione con aziende di spicco, come Apple, Nikon, United Airlines, Isuzu, Qantas, Patagonia, Red Bull, e con il National Geographic Magazine. Molti i riconoscimenti internazionali al suo lavoro. A proposito di questa fotografia, ha dichiarato: «È stata scattata in Australia, a centinaia di chilometri da qualsiasi luogo abitato. Qui il mare è sempre in tempesta, con onde spaventose, dalla bellezza aspra e incontaminata. Quando fotografo in mare aperto, cerco sempre qualcosa che non avevo mai visto prima, spingendomi dove le onde esplodono, nella luce del tramonto».
Pedro Jarque, vincitore nella categoria Open Animali, vive a Toledo, in Spagna, ma è originario del Perù. Nell’immagine, sono ritratti due leopardi, uno dei quali è melanico, cioè il suo pelo è nero. In genere, i leopardi melanici vengono superficialmente definiti pantera nera, una specie resa famosa
Un vincitore da Ceylon, oggi Sri Lanka, nella categoria Gente e popoli, insolita per un concorso di fotografia naturalistica. Si tratta di Palitha S. Weerakoon, di Kurunegala, nel nord della grande isola dell’Oceano Indiano. Ritrae un mestiere un tempo molto praticato nel paese, ma che ora sta scomparendo: un anziano lavandaio della regione del Kankasanthurai sta insegnando al figlio come si stirano i panni lavati. «Mi sono avvicinato alla fotografia durante le scuole superiori, all’inizio degli anni Ottanta. Scattare fotografie è subito diventato il mio hobby preferito, e mi divertivo a viaggiare in ogni momento libero alla ricerca di nuovi soggetti. Questo ha fatto maturare in me l’amore per la natura e gli animali. La fotografia è diventata parte importante della mia vita. Non riesco a immaginare un’esperienza più emozionante dello stare in cima a un picco montano, a osservare il Sole che sorge, illuminando la foresta».
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a vincitori scelti, sono stati chiesti i file originali (Raw), per la verifica (verifica questa che oggi rappresenta un obbligo per ogni giuria). Poi, bisogna stare in guardia nei confronti dei fotomontaggi, dei sandwich, degli interventi per aumentare la risoluzione, per le variazioni eccessive dei cromatismi. Infine, come nel fotogiornalismo, occorre verificare che l’evento fotografato sia vero e autentico. In ambito naturalistico, occorre verificare se la specie ritratta si trova nel proprio ambiente naturale o se una specie tropicale è fotografata a Vigevano, per esempio, in un terrario (scatola di adeguate dimensioni, con pareti di vetro, al cui interno è ricostruito un falso ambiente naturale). Insomma, nella scelta si nascondono veramente un sacco di insidie. Ma, come stiamo per vedere, queste insidie, come gli incubi notturni, si manifestano anche a lavori finiti e risultati annunciati. Tornando ai premi, il vincitore assoluto, cioè l’International Oasis Photographer 2017, è il norvegese Audun Rikardsen, con una fotografia metà sott’acqua, metà in superficie, di una megattera con sfondo una montagna innevata [a pagina 44]. L’Oasis Ma-
dal Libro della giungla, di Rudyard Kipling, ma che non esiste in natura. Citiamo un breve brano dal testo di Kipling: «Tutti conoscevano Bagheera, e nessuno osava attraversare il suo cammino; perché era astuta come lo sciacallo, coraggiosa come il bufalo selvatico, e scatenata come un elefante ferito.
Ma aveva una voce dolce come il miele selvatico che cola da un albero, e il pelo nero più morbido del velluto». Pedro Jarque ha studiato presso l’Università della Sorbona, di Parigi. È specializzato nei ritratti di animali. Il suo sito è http://pedrojarque.com.
gazine Award è andato, invece, all’inglese James Gifford, che ha colto un attimo della caccia, o -meglio- della pesca di un pesce gatto da parte di un leopardo. Il fotografo ha dedicato due anni, prima di riuscire a realizzare questa incredibile ripresa [a pagina 46]. Per quanto riguarda il titolo di Italian Oasis Photographer rimando all’apposito riquadro, pubblicato a pagina 47. Per ovvi motivi editoriali, di limitiamo a pubblicare solo le immagini dei primi classificati in ogni categoria in concorso: cioè, Paesaggio, Mammiferi, Uccelli e Chirotteri, Altri animali, Mondo vegetale, Subacquea, Gente e popoli e Storyboard, alle quali vanno aggiunte Open Natura e Open Animali (non professionali, uniche categorie nelle quali non è richiesto di presentare i file originali, come succede nelle altre categorie professionali, in caso di vittoria). Per chi è interessato a tutte le altre immagini premiate e/o segnalate, per un totale di cento scatti, comprese quelle delle due categorie giovani, Baby (fino a quattordici anni) e Junior (fino a diciotto anni), rimandiamo al sito web: http://oasisphotocontest.it/classifiche_13a_edizione.
Notiamo che tra i vincitori manca quello della sezione speciale Vota sul Web la tua foto[grafia] preferita, perché non è ancora stato eletto. La giuria popolare può votare fino al prossimo quindici settembre, scegliendo tra le mille immagini approdata alla fase finale del concorso. Si vota sul sito www.oasisphotocontest.it. Ma non è finita. Le migliori cento fotografie sono impaginate nella monografia Oasis Photocontest 13a Edizione, che viene pubblicata ogni anno, a concorso finito. Quindi, ottanta sono le immagini che partecipano all’Oasis Tour 2017, una mostra circolante che fa il giro d’Italia, e il cui calendario è disponibile a http://oasispho tocontest.it. Per chi fosse interessato a richiedere la mostra, per esporla nella propria città: 339-6580243, maurizio@oasisweb.it. La premiazione dei vincitori si svolge sabato sedici settembre, nel Teatro Giacosa, di Ivrea , in provincia di Torino. L’evento è inserito nell’Oasis Festival, un grande appuntamento dedicato ai viaggi, alla natura e alla fotografia naturalistica, che -per tutto settembre- propone (continua a pagina 52)
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QUELLA... CULTURA
Poco più di cinquant’anni fa, il poeta W. H. Auden [Wystan Hugh; 1907-1973] riuscì in un’impresa che fa invidia a ogni scrittore: azzeccare una profezia. La profezia compare in un lungo lavoro intitolato For the Time Being: A Christmas Oratorio, là dove Erode medita sul compito ingrato di massacrare gli innocenti. D’animo fondamentalmente tollerante, ne farebbe volentieri a meno. E tuttavia, dice, se si consente a quel bambino di scamparla, «Non occorre essere profeti per prevedere le conseguenze [...]. «La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione [...]. La conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive: sensazioni viscerali indotte dalla denutrizione, immagini angeliche suscitate dalla febbre o dalle droghe, sogni premonitori ispirati dallo scroscio di una cascata. Compiute cosmogonie nasceranno da dimenticati rancori personali, intere epopee saranno scritte in idiomi privati, gli scarabocchi dei bambini innalzati al di sopra dei più grandi capolavori [...]. «L’Idealismo sarà scalzato dal Materialismo [...]. Sviato dal normale sfogo nel patriottismo e nell’orgoglio civico o familiare, il bisogno delle masse di un Idolo visibile da venerare si incanalerà in alvei totalmente asociali, dove nessuna forma di istruzione potrà raggiungerlo. Onori divini saranno resi a lievi depressioni del terreno, animali domestici, mulini a vento diroccati o tumori maligni. «La Giustizia, come virtù cardinale, sarà rimpiazzata dalla Pietà, e svanirà ogni timore di castigo. Ogni scapestrato si congratulerà con se stesso: “Sono un tal peccatore che Dio è sceso di persona per salvarmi”. Ogni furfante dirà: “A me piace commettere crimini; a Dio piace perdonarli. Il mondo è davvero combinato a meraviglia”. La Nuova Aristocrazia consisterà esclusivamente di eremiti, vagabondi e invalidi permanenti. Il becero dal cuore d’oro, la prostituta consunta dalla tisi, il bandito affettuoso con sua madre, la ragazza epilettica che comunica con gli animali saranno gli eroi e le eroine della Nuova Tragedia, mentre il generale, lo statista, il filosofo diverranno zimbello di satire e farse». Ciò che Erode antivedeva era l’America degli ultimi anni Ottanta e dei primi anni Novanta. Un paese ossessionato dalle terapie e pieno di sfiducia nella politica formale; scettico sull’autorità e preda della superstizione; corroso, nel linguaggio politico, dalla falsa pietà e dall’eufemismo. Simile alla tarda romanità (e non all’Urbe del primo periodo repubblicano), per la vastità della sua sfera imperiale, la corruzione e la verbosità dei suoi senatori, l’affidarsi alle oche sacre (permute antenate dei nostri demoscopi e opinionisti di parte) e l’assoggettarsi a senili imperatori divinizzati, dominati da astrologi e mogli dissipatrici. Una cultura che ha sostituito gli spettacoli dei gladiatori, come strumento per sedare le folle, con guerre ultratecnologiche teletrasmesse, che causano massacri enormi e tuttavia lasciano intatto il potere dei satrapi mesopotamici sui loro sventurati sudditi. A differenza di Caligola, l’imperatore non fa senatore il suo cavallo; lo incarica della tutela dell’ambiente, o lo nomina alla Corte Suprema. A opporsi sono principalmente le donne, perché gli uomini, grazie all’ampia diffusione dei culti misterici, se ne vanno nei boschi ad affermare la propria virilità, annusandosi le ascelle a vicenda e ascoltando le ciance di poeti di terz’ordine sul satiro peloso e umidiccio che alberga in ognuno di loro. Chi brama il ritorno della Sibilla delfica dispone di Shirley MacLaine, mentre un guerriero Cro-Magnon vissuto trentacinquemila anni fa, di nome Ramtha, prende dimora in una bionda casalinga della West Coast, avviando un giro di milioni e milioni di dollari tra seminari, cassette e libri cultuali. Robert Hughes (da La cultura del piagnisteo; Adelphi, 2003)
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Una categoria speciale quella dello Storyboard, nella quale si partecipa con una serie di fotografie che raccontano un argomento. Ha vinto chi, come tema, si è indirizzato verso la vita delle volpi di Londra ( Vulpes volpe / Volpe rossa) e i problemi dovuti al grande numero di esemplari che vivono nella capitale inglese (si stima siano più di settantamila). L’autore del reportage è Neil Aldridge, di Kenn, Inghilterra, fotografo specializzato nella fauna in via d’estinzione, ma anche scrittore e guida professionistica in Africa. È anche docente di fotografia subacquea e naturalistica presso la Falmouth University. Il suo sito è www.conservationphotojournalism.com.
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«Dal 2016, cerco di accrescere le mie capacità creative, esplorando nuovi punti di vista con immagini aeree», dichiara Stephan Fürnrohr, di Kallmünz, Germania, vincitore in Mondo vegetale (www.time-for-inspiration.de). «Questa fotografia fa parte di una serie realizzata con una prospettiva zenitale [perpendicolare al soggetto]. Nella maggior parte dei casi, tale punto di vista porta la raffigurazione a un alto livello di astrazione, come in questa rappresentazione di un bosco autunnale». Autodidatta, appassionato del mondo polare, ci tiene a segnalare la sua citazione preferita: La fotografia è fantasia che diventa realtà. Ne è autore il suo amico Robert Edtmaier.
Marco Bartolini, di Montevarchi, in provincia di Arezzo, si è affermato nella categoria Open Natura: una delle spiagge del Ghana, da dove, secoli fa, partivano le famigerate navi impegnate nella tratta degli schiavi.
Il brasiliano Marcio Cabral, di Brasilia, è il vincitore di Altri animali. Prima naturalista, poi fotografo, presenta così la sua immagine: «Ho documentato il raro fenomeno della bioluminescenza terrestre nelle pianure del Parco Nazionale di Emas, in Brasile, nello Stato del Paraíba, parte della mesoregione del Sertão Paraibano e della microregione di Piancó: è l’unico luogo al mondo nel quale si può osservare questo fenomeno. Nei termitai, le larve di lucciola si illuminano grazie alla propria bioluminescenza, attirando così le termiti delle quali si nutrono». Il suo lavoro si può vedere a www.fotoexplorer.com.
(continua da pagina 49) mostre di grandi maestri, incontri, workshop, escursioni e fiere, nella cornice dell’Anfiteatro Morenico, di Ivrea, il più grande d’Europa.
GLI INCUBI Un fenomeno assente fino a dieci anni fa è quello degli odiatori on line. Non nego che all’esterno da ogni giuria esistano esperti che, con competenza ed esperienza, possono superare alcuni dei giurati stessi. Questo è sempre successo. Purtroppo per loro, in passato non avevano modo di manifestare le critiche. Oggi, invece, le critiche sono un fiume in piena e provengono non solo dagli esperti, ma anche dai Napalm51 (per usare la definizione che caratterizza il personaggio creato da Maurizio Crozza), gli odiatori on line, appunto. Ora... non si può escludere a priori che nelle giurie ci possano essere giurati comprati da qualche fotografo. Ma non si può neppure affermare a priori che un fatto del genere sia vero. E invece sul web si parla a ruota libera, tutti hanno goduto di una rivelazione
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Ritzel Zoltán, di Bonyhád, in Ungheria, si avvicina alla fotografia quando compie quindici anni. Subito, si rivolge ai problemi del mondo naturale. Dopo aver lavorato per trent’anni come giornalista, oggi si dedica all’agricoltura e all’allevamento di pesci e api, scattando nel tempo libero. Commenta così la sua immagine vincitrice nella categoria Uccelli e Chirotteri:
Peter Mather, di Whitehorse, Canada, è un fotogiornalista specializzato nella conservazione della natura e dei popoli indigeni del Grande Nord americano. A proposito della sua fotografia vincitrice nella categoria Mammiferi, ha annotato: «Ho trascorso una settimana in questo torrente, per fotografare la deposizione delle uova dei salmoni. Quando ho collocato una trappola fotografica, sono stato sorpreso nello scoprire che dieci orsi grizzly [ Ursus arctos horribilis] si aggiravano indisturbati ad appena cinque minuti dal luogo in cui trascorrevo le notti. Ho partecipato al Concorso con l’immagine migliore ripresa dalla trappola fotografica, nella quale compare anche un cucciolo».
L’autore predilige il genere fotografico del reportage, che gli permette di unire le sue due grandi passioni: fotografia e viaggio. Il suo svolgimento è sempre rispettoso dei soggetti e delle situazioni verso le quali rivolge la sua attenzione.
Biologo marino e pluripremiato fotografo subacqueo, nel 2013, è stato nominato European Wildlife Photographer dell’anno: Alex Mustard, di Peterborough, Inghilterra, vincitore nella categoria Subacquea. «Questa curiosa immagine è stata realizzata con una esposizione lunga su una spugna dal tubo giallo ( Aplysina fistularis), che aveva attirato la mia attenzione in una barriera corallina», rivela l’autore. «Durante l’esposizione, la macchina fotografica è stata ruotata, per creare questo particolare effetto. Ho scattato sull’isola Grand Cayman, nell’arcipelago delle Cayman, nel Mar dei Caraibi».
«In Ungheria, i campi di girasole rappresentano un richiamo irresistibile per moltissime specie di uccelli, come le cinciallegre ( Parus major). Dopo la raccolta dei semi da parte dei contadini, gli uccelli affamati si radunano in gran numero nei pochi campi nei quali la raccolta non si è ancora conclusa, e dove li si può avvicinare e fotografare molto facilmente».
che ha permesso loro di ritenersi depositari della verità, di conoscere gli unici autentici canoni estetici, indipendentemente dal tempo che hanno dedicato all’argomento, in questo caso, alla fotografia naturalistica. Leggete, per favore, nel riquadro pubblicato a pagina 50, la citazione che lo storico Robert Hughes dedica al capolavoro For the Time Being: A Christmas Oratorio, pubblicato nel 1944 dal poeta americano Wystan Hugh Auden. Quello che non va nei social non è che uno possa pubblicare quello che vuole, ma che -incredibilmente- trovi seguaci, disposti a credere a uno sconosciuto che millanta competenze, molto spesso inesistenti, piuttosto che a persone che hanno dedicato la propria vita all’argomento, e che sono qualificati dal proprio curriculum, da quello che hanno fatto nella vita professionale. Non mi dilungo. Molti conoscono il problema, che più in generale riguarda le fake news, che possono creare danni ben più gravi di una discussione sul fatto che quella fotografia di aquila sia meglio o peggio di quella di un pettirosso. Le parole sono pietre! ❖
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1917-2017
di Antonio Bordoni (grazie ad Alcide Boaretto)
NIKON CENTO ANNI
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Addirittura, si conosce la data certa di nascita del marchio di fabbrica (ottica), che si è evoluto verso la produzione fotografica Nikon, da decenni una delle eccellenze della tecnologia applicata: 25 luglio 1917. Dunque, siamo in tempi di centenario, certificato da una serie di iniziative specifiche, a partire dal logotipo esplicito Nikon 100th anniversary di celebrazione ufficiale. Per mille e mille motivi, tutti leciti secondo una certa intenzione della messa in pagina della rivista, non commemoriamo in questo numero di luglio, riservandoci di farlo a settembre, sempre e comunque agendo per nostro solito: richiami non necessariamente centenari, ma concentrati sui settanta di fotografia trentacinque millimetri (e qualcosa d’altro ancora). Comunque, in rispetto di date, e oltre la nostra attuale evocazione in quarta di copertina, qui e ora, è doverosa almeno una segnalazione d’anticipo su quanto andremo a compilare. Dunque, tra le tante iniziative, ufficiali e ufficiose, registriamo l’edizione di un ottimo casellario illustrato Nikon. 100 Anniversary, pubblicato alla fine dello scorso anno, che ripercorre la storiografia fotografica del marchio attraverso il censimento di una consistente collezione privata. Da cui, corre l’obbligo di una precisazione, dovuta soprattutto per diritto/dovere d’anagrafe. Infatti, per quanto, nel frattempo, certi modi di storiografia tecnica della fotografia siano cambiati, abbandonando cadenze originarie, è obbligatorio riferire questo attuale titolo alla luminosa stagione (degli anni Settanta e Ottanta, soprattutto), durante la quale proliferarono storiografie fotografiche a cadenza ritmata: allora, utili e proficue per l’orientamento nel mondo del collezionismo, appena nato e già affermatosi; oggigiorno, indispensabili per tracciare linee di percorso e modulazioni tecnologiche in sistematica crescita ed evoluzione. Diciamolo con franchezza, rivolgendoci soprattutto ai più giovani, soprattutto a coloro i quali commettono l’imprudenza di non prendere
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in considerazione il passato prossimo (come anticipato e sottolineato lo scorso giugno, in incipit alla presentazione di una avvincente monografia illustrata sull’epopea Kennedy... in ulteriore rimando odierno): questo tipo di racconto storico non si esaurisce nell’effimera cronaca della propria attualità temporale, in questo caso di
Nikon. 100 Anniversary; a cura di Uli Koch; OstLicht, 2016; 360 illustrazioni, realizzate dallo stesso curatore (escluso due); 416 pagine 21x30cm; cartonato; secondo il venditore, da 90,00 a 115,00 euro.
edizione libraria, ma si allunga in avanti, andando a formare e edificare conoscenze che definiscono la spina dorsale della plausibile competenza della materia fotografica... senza alcuna soluzione di continuità, dalla tecnica all’espressività d’autore. Nello specifico, la collezione di Uli Koch, base ideologica e supporto concreto dell’attuale centenario Nikon. 100 Anniversary, è tanta e tale da tracciare e definire tempi e modi di propria evoluzione sostanziale. Manca nulla, e non è avara neppure di quelle sottili particolarità “interne” che, modello per modello, arrivano a distinguere tra loro gli anni produttivi. In un approccio storico rigido e concentrato, a Uli Koch, come a ogni altro collezionista, non basta mai identificare un apparecchio teorico, diciamola così, ma serve andare sottotraccia. Per esempio, negli oltre dieci anni di Nikon F, a tutti gli effetti “la Nikon” per eccellenza e antonomasia, a partire dalla quale sono stati identificati i termini di mito, sono subentrate tante e tali modifiche di percorso, da consentire altrettante varianti degne di nota (collezionistica, sempre). In questo senso, sappiamo di una avvincente raccolta italiana ricca di oltre cento Nikon F, tutte ufficialmente tali, ma tutte altrettanto ufficialmente diverse una dall’altra. Forse... certamente. E, poi, nel caso di questo affascinante e convincente casellario Nikon. 100 Anniversary, di Uli Koch, si registra anche una particolare attenzione agli accessori, alle confezioni di vendita (perché no?), agli elementi complementari e, ancora, alle escursioni Nikon / Nikkor verso altri sistemi fotografici. Ovviamente, nello scorrere delle pagine, la presenza di testi è sostanziosamente contenuta al minimo indispensabile, per lo più alla descrizione didascalica (e, comunque, in inglese e giapponese). L’elemento forte è composto da una sostanziosa quantità e qualità di illustrazioni, che appagano il più famelico feticismo dell’oggetto in propria funzione: estetica e valore della funzionalità. Questo è quanto. Per quanto ci sia molto e molto di più. ❖
Novant’anni di Maurizio Rebuzzini (Franti)
SACCO E VANZETTI
Alla maniera di altre riflessioni ospitate su questa rivista -che considera la Fotografia non arido punto di arrivo, ma sempre e comunque fantastico e privilegiato s-punto di partenza... verso la Vita, per la Vita-, a parte qualche modesta immagine di accompagnamento, questo intervento redazionale, che riprende e ripropone riflessioni già espresse dieci anni fa, nell’ottantesimo anniversario di date (quindi, siamo al novantesimo anniversario: 1927-2017), non ha alcun altro richiamo diretto e dichiarato alla materia specifica della fotografia: la nostra istituzionale. Volendolo fare, si potrebbe raccontare dell’impegno di Ben Shahn (1898-1969), una delle grandi stature espressive della fotografia statunitense degli anni Venti-Trenta del Novecento, che nella propria personalità di pittore ha realizzato appassionati dipinti ispirati alla storia di Nicola
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Novanta anni fa, martedì 23 agosto 1927, nella prigione di stato di Charlestown, in Massachusetts, nei pressi di Boston, ebbe epilogo una vicenda oscura della giustizia statunitense e del pregiudizio nei confronti dell’immigrazione italiana (da rifletterci, oggi, in cronaca nazionale...), che con l’occasione fu altresì condito con il disprezzo e l’odio per la fede anarchica. Alle 0,19, venne giustiziato sulla sedia elettrica Ferdinando Nicola Sacco (nato a Torremaggiore, in provincia di Foggia, nel Terzo Vico del Codacchio, il 27 aprile 1891; emigrato negli Stati Uniti d’America, nel 1908 [?]); qualche minuto dopo, alle 0,26, fu la volta di Bartolomeo Vanzetti (nato l’11 giugno 1888, a Villafalletto, in provincia di Cuneo; emigrato negli Stati Uniti d’America, nello stesso 2008). Il caso Sacco e Vanzetti, del quale ricorre il novantesimo anniversario, che ricordiamo tra la data di conferma della condanna (nove aprile) e l’esecuzione (ventitré agosto), fu tale -appunto, caso- fin dalle prime battute di un processo che apparve subito prevenuto e artificioso, definito da prove prefabbricate e privato dell’acquisizione di prove a discarico, che avrebbero scagionato i due imputati. Nonostante le prese di posizione in tutto il mondo, con manifestazioni pubbliche che oggi usiamo definire oceaniche, a conteggio di partecipazioni numericamente consistenti, e gli accorati appelli di intellettuali e scrittori, l’ap-
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parato inquisitore statunitense arrivò fino in fondo, approdando alla conclusione che si era prefissata. A onor del vero, bisogna riconoscere che, per quanto serva (alla Storia, quantomeno), Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati riabilitati il 23 agosto 1977, nel cinquantenario della morte, con un proclama ufficiale del governatore del Massachusetts Michael S. Dukakis, che li ha assolti dal crimine per il quale vennero giustiziati: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti». La stessa data del ventitré agosto è oggi celebrata nel Massachusetts come Sacco and Vanzetti Memorial Day, giornata alla memoria di Sacco e Vanzetti. E poi, non possiamo ignorare un episodio toccante, che ha preceduto questa data. Ci è stato raccontato, che Luigia Vanzetti, in visita negli Stati Uniti, abbia voluto vedere l’aula di tribunale nel quale si consumò la tragedia esistenziale del fratello Bartolomeo (e di Nicola Sacco). Avvertito della presenza della donna, il giudice allora titolare la invitò a occupare il proprio posto, a parziale risarcimento di un grave torto subìto dalla sua famiglia. Il giudice le chiese scusa per i fatti di tanti anni prima, che, disse, macchiavano l’onorabilità dell’intero sistema giudiziario statunitense. Con l’occasione, ricordiamo anche che soprattutto a Luigia (Lui-
Sacco e Bartolomeo Vanzetti ( The Passion of Sacco and Vanzetti; 1931-1932), la sostanza dei quali ripresa da fotografie... sue e altrui. Ma non si tratta di imboccare scorciatoie. L’intenzione di questo intervento non deve celarsi dietro facciate di comodo. Esplicitamente, nel novantesimo anniversario, ricordiamo l’assassinio (legalizzato) di Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, sia per la manifesta ingiustizia di quella lontana sentenza, che continua a scuotere animi e coscienze, sia per aggiungere un ulteriore nostro contributo alla lotta contro la pena di morte, ancora oggi in vigore in numerosi paesi. Quindi, in comunione di intenti, la curiosità sia sempre alimento indispensabile alla propria formazione individuale... magari proiettata e orientata anche verso la Fotografia. Franti gina) Vanzetti il fratello Bartolomeo inviò una lunga serie di lettere, scritte dal carcere. Documenti toccanti e sinceri della statura di una personalità di insolito spessore e nobiltà, definita altresì dalla riaffermazione irrevocabile di un ateismo e una fede nei princìpi libertari che non ammettono compromessi, queste lettere sono state raccolte in volume dagli Editori Riuniti, nell’aprile 1962, e rieditate dieci anni dopo: Non piangete la mia morte, lettere di Bartolomeo Vanzetti ai familiari, a cura di Cesare Pillon e Vincenzina Vanzetti, altra sorella di Bartolomeo [riedizioni Barbes, 2009 / Nova Delphi Libri, 2010; quindi, ancora, Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti. Lettere e scritti dal carcere; a cura di Lorenzo Tibaldo; prefazione di Furio Colombo; Claudiana, 2012].
INGIUSTIZIA FU FATTA Storia di ordinaria ingiustizia, che ingrossa le fila di quelle considerazioni contro la pena di morte alle quali ci siamo riferiti in diverse occasioni [la più sostanziosa delle quali, forse, in richiamo e riferimento alla serie fotografica Omega Suites, della statunitense Lucinda Devlin, nel luglio 2007]. Comunque, considerati tutti i condimenti, storia che non si è esaurita con l’esecuzione capitale dei due emigrati italiani, ingiustamente accusati di aver preso parte a una rapina, durante la quale vennero uccisi un cassiere e una guardia. Storia di emblematica in-
tolleranza, come ricaviamo dal suo stesso svolgimento. Storia simbolica, come il piemontese Bartolomeo Vanzetti, spesso identificato come il più politicizzato dei due (ma, forse, fece la differenza la padronanza della lingua inglese), sottolineò in un passo della sua lunga dichiarazione finale, per prassi sollecitata dal tribunale prima della sentenza definitiva (9 aprile 1927; in riquadro, il testo completo da pagina 58): «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della Terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e in effetti io sono un anarchico; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora». Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati giustiziati a trentasei e trentanove anni, gli ultimi sette dei quali passati in carcere, mentre negli Stati Uniti si delineava la leggenda sportiva di Babe Ruth, icona del baseball, che proprio in quel 1927 stabilì il proprio record di sessanta fuoricampo, e
Novant’anni Charles Lindberg compiva la prima trasvolata atlantica senza scalo con il suo The Spirt of Saint Louis (20 maggio 1927). A Bartolomeo Vanzetti si è soliti attribuire un’altra dichiarazione alla giuria che l’aveva condannato alla pena di morte: «Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione tra gli uomini» (inclusa nella sceneggiatura del film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971), che è sintesi della sua lunga requisitoria finale, alla quale ci siamo appena riferiti e richiamati.
SACCO E VANZETTI Pugliese di nascita, Nicola Sacco (nel Terzo Vico di Codacchio, a Torremaggiore, in provincia di Foggia, 22 aprile 1891) conobbe il piemontese Bartolomeo Vanzetti (nato a Villafalletto, in provincia di Cuneo, l’11 giugno 1888) negli Stati Uniti, dove entrambi erano emigrati: anche se molti annotano la coincidenza dell’arrivo nello stesso anno, il 1908, alle rispettive età di diciassette e venti anni, documenti ufficiali attestano che Nicola Sacco arrivò in America il 2 maggio 1913, sbarcando dalla Principe di Piemonte, salpata dal porto di Napoli, mentre Bartolomeo Vanzetti arrivò effettivamente il 19 giugno 1908, a bordo della francese La Provence, partita da Le Havre. Al momento del loro arresto, nel 1920, uno lavorava come ciabattino, e l’altro, chiamato Trumlin dagli amici (soprannome piemontese a indicare una sostanziale bontà e semplicità d’animo), gestiva una rivendita di pesce. A margine del loro caso, è opportuno rilevarlo, furono realizzate numerose opere d’arte, tra le quali spiccano i dipinti e le grafiche del pittore e fotografo Ben Shahn, una delle grandi stature espressive del tempo, avviato alla fotografia, nel 1929, da Walker Evans, con il quale divideva un appartamento al Greenwich Village, di New York, che dal 1935 al 1938 fece parte dello staff fotografico della Farm Security Administration (Sguardo su, di Pino Bertelli, in
Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco nell’aula del tribunale di Dedham, nei pressi di Boston, Massachusetts, Stati Uniti, in una fotografia nota del 1923, che ha anche ispirato un quadro a tema di Ben Shahn, del 1931-1932 (tempera su carta, 27x37cm, dalla serie The Passion of Sacco and Vanzetti), e, poi, a seguire, un poster celebrativo di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, realizzato in due versioni (Library of Congress, Washington DC, Usa). Le parole che accompagnano il ritratto dei due italiani sono riprese dall’arringa finale di Bartolomeo Vanzetti, richiamata anche nell’incessante sequenza di Here’s to You, di Joan Baez e Ennio Morricone, dalla colonna sonora del film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971 [a pagina 63].
FOTOgraphia, del maggio 2006, ripreso e ripetuto su questo stesso numero, da pagina 65). Numerose e consistenti, quindi, le prese di posizione a favore di Sacco e Vanzetti di scrittori, intellettuali e giornalisti. Tra tante testimonianze, omaggi e appelli, ricordiamo sopra tutto la poesia Justice denied in Massachusetts (1927), ovvero La giustizia è stata rinnegata in Massachusetts, della poetessa Edna St. Vincent Millay, e la rievocazione, oltre gli articoli in cronaca, che l’Atlantic Monthly ospitò nel febbraio 1928, pubblicando il ricordo dell’avvocato William Prince Thompson, che stette accanto a Bartolomeo Vanzetti la notte precedente l’esecuzione. Sull’immigrazione negli Stati Uniti, che tanta revisione storica sta oggi dipingendo con le allegre tinte della gita fuoriporta, Bartolomeo Vanzetti ha espresso una propria consistente rilevazione: «Al centro immigrazione, ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America. [...] Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era la Terra promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando. Le automobili e i tram passavano oltre, senza badare a me». Calzolaio in Italia, Nicola Sacco trovò lavoro in una fabbrica di calzature a Milford, nel Massachusetts. Si sposò e andò ad abitare in una casa con giardino. Ebbe un figlio, Dante (al quale inviò una commovente lettera immediatamente prima dell’esecuzione; a pagina 62), e una figlia, Ines. Lavorava sei giorni la settimana, dieci ore al giorno. Partecipava attivamente alle manifestazioni operaie dell’epoca, attraverso le quali i lavoratori chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. In tali occasioni, teneva spesso dei discorsi. A causa di queste attività, venne arrestato nel 1916. Bartolomeo Vanzetti fece molti lavori, prendeva tutto ciò che gli capitava. Lavorò in diverse tratto(continua a pagina 61)
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Novant’anni BARTOLOMEO VANZETTI: REQUISITORIA FINALE
Nove aprile 1927: Winfield Wilbar, District Attonery della Norfolk County, riunì la Corte Superiore di Dedham, Massachusetts (Usa), presieduta dal giudice Webster Thayer, per notificare la sentenza di morte a Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Prima che la sentenza fosse ufficialmente emessa, i due imputati ricevettero il tradizionale invito a pronunciare una dichiarazione conclusiva. Presumibilmente, a causa della sua scarsa padronanza della lingua inglese, Nicola Sacco parlò brevemente. Invece, Bartolomeo Vanzetti pronunciò
una appassionata arringa, e non esitò a mettere sotto accusa i propri persecutori. Dopo aver ricordato che nel film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971, l’interpretazione del convincente Gian Maria Volonté ha dato particolare valore a queste ultime parole pubbliche di Bartolomeo Vanzetti (nel film, in estratto), riportiamo l’intera traduzione, riprendendola da Non piangete la mia morte, lettere di Bartolomeo Vanzetti ai familiari, a cura di Cesare Pillon e Vincenzina Vanzetti, pubblicato dagli Editori Riuniti, nel 1962 (e 1972; riedizioni Barbes, 2009 / Nova Delphi Libri, 2010).
Sì. Quel che ho da dire è che sono innocente, non soltanto del delitto di Braintree, ma anche di quello di Bridgewater. Che non soltanto sono innocente di questi due delitti, ma che in tutta la mia vita non ho mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue. Questo è ciò che voglio dire. E non è tutto. Non soltanto sono innocente di questi due delitti, non soltanto in tutta la mia vita non ho rubato né ucciso né versato una goccia di sangue, ma ho combattuto anzi tutta la vita, da quando ho avuto l’età della ragione, per eliminare il delitto dalla Terra. Queste due braccia sanno molto bene che non avevo bisogno di andare in mezzo alla strada a uccidere un uomo, per avere del denaro. Sono in grado di vivere, con le mie due braccia, e di vivere bene. Anzi, potrei vivere anche senza lavorare, senza mettere il mio braccio al servizio degli altri. Ho avuto molte possibilità di rendermi indipendente e di vivere una vita che di solito si pensa sia migliore che non guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Mio padre in Italia è in buone condizioni economiche. Potevo tornare in Italia ed egli mi avrebbe sempre accolto con gioia, a braccia aperte. Anche se fossi tornato senza un centesimo in tasca, mio padre avrebbe potuto occuparmi nella sua proprietà, non a faticare ma a commerciare, o a sovrintendere alla terra che possiede. Egli mi ha scritto molte lettere in questo senso, ed altre me ne hanno scritte i parenti, lettere che sono in grado di produrre. Certo, potrebbe essere una vanteria. Mio padre e i miei parenti potrebbero vantarsi e dire cose che possono anche non essere credute. Si può anche pensare che essi sono poveri in canna, quando io affermo che avevano i mezzi per darmi una posizione qualora mi fossi deciso a fermarmi, a farmi una famiglia, a cominciare una esistenza tranquilla. Certo. Ma c’è gente che in questo stesso tribunale poteva testimoniare che ciò che io ho detto e ciò che mio padre e i miei parenti mi hanno scritto non è una menzogna, che realmente essi hanno la possibilità di darmi una posizione quando io lo desideri. Vorrei giungere perciò ad un’altra conclusione, ed è questa: non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina di Bridgewater, non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina e agli omicidi di Braintree né è stato provato che io abbia mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue in tutta la mia vita; non soltanto ho lottato strenuamente contro ogni delitto, ma ho rifiutato io stesso i beni e le glorie della vita, i vantaggi
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Alla domanda di rito, «Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dire perché la sentenza di morte non sia pronunciata contro di voi?», l’italiano si alzò in piedi e declamò la sua visione dei fatti. (Attenzione: in modo improprio, rispetto l’attualità dei relativi termini, la traduzione recita “radicale” per l’originale statunitense “radical”, che, più esattamente significa altro, nei contesti nei quali viene declinato in questo ambito: attivista, militante, anarchico, estremista o sovversivo). Indipendentemente da pensieri individuali -tra i quali, i nostri-, si tratta di considerazioni Franti assolutamente arricchenti. Punto.
di una buona posizione, perché considero ingiusto lo sfruttamento dell’uomo. Ho rifiutato di mettermi negli affari perché comprendo che essi sono una speculazione ai danni degli altri: non credo che questo sia giusto e perciò mi rifiuto di farlo. Vorrei dire, dunque, che non soltanto sono innocente di tutte le accuse che mi sono state mosse, non soltanto non ho mai commesso un delitto nella mia vita -degli errori forse, ma non dei delitti- non soltanto ho combattuto tutta la vita per eliminare i delitti, i crimini che la legge ufficiale e la morale ufficiale condannano, ma anche il delitto che la morale ufficiale e la legge ufficiale ammettono e santificano: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. E se c’è una ragione per cui io sono qui imputato, se c’è una ragione per cui potete condannarmi in pochi minuti, ebbene, la ragione è questa e nessun’altra. Chiedo scusa. I giornali hanno riferito le parole di un galantuomo, il migliore che i miei occhi abbiano visto da quando sono nato: un uomo la cui memoria durerà e si estenderà, sempre più vicina e più cara al popolo, nel cuore stesso del popolo, almeno fino a quando durerà l’ammirazione per la bontà e per lo spirito di sacrificio. Parlo di Eugenio Debs. Nemmeno un cane -egli ha dettonemmeno un cane che ammazza i polli avrebbe trovato una giuria americana disposta a condannarlo sulla base delle prove che sono state prodotte contro di noi. Quell’uomo non era con me a Plymouth né con Sacco a Boston, il giorno del delitto. Voi potete sostenere che è arbitrario ciò che noi stiamo affermando, che egli era onesto e riversava sugli altri la sua onestà, che egli era incapace di fare il male e riteneva ogni uomo incapace di fare il male. Certo, può essere verosimile ma non lo è, poteva essere verosimile ma non lo era: quell’uomo aveva una effettiva esperienza di tribunali, di carceri e di giurie. Proprio perché rivendicava al mondo un po’ di progresso, egli fu perseguitato e diffamato dall’infanzia alla vecchiaia, e in effetti è morto non lontano dal carcere. Egli sapeva che siamo innocenti, come lo sanno tutti gli uomini di coscienza, non soltanto in questo ma in tutti i paesi del mondo: gli uomini che hanno messo a nostra disposizione una notevole somma di denaro a tempo di record sono tuttora al nostro fianco, il fiore degli uomini d’Europa, i migliori scrittori, i più grandi pensatori d’Europa hanno manifestato in nostro favore. I popoli delle nazioni straniere hanno manifestato in nostro favore. È possibile che soltanto alcuni membri della giuria, soltanto due o tre uomini che condannerebbero la loro madre,
se facesse comodo ai loro egoistici interessi o alla fortuna del loro mondo; è possibile che abbiano il diritto di emettere una condanna che il mondo, tutto il mondo, giudica una ingiustizia, una condanna che io so essere una ingiustizia? Se c’è qualcuno che può sapere se essa è giusta o ingiusta, siamo io e Nicola Sacco. Lei ci vede, giudice Thayer: sono sette anni che siamo chiusi in carcere. Ciò che abbiamo sofferto, in questi sette anni, nessuna lingua umana può dirlo, eppure -lei lo vededavanti a lei non tremo -lei lo vede- la guardo dritto negli occhi, non arrossisco, non cambio colore, non mi vergogno e non ho paura. Eugenio Debs diceva che nemmeno un cane -qualcosa di paragonabile a noi- nemmeno un cane che ammazza i polli poteva essere giudicato colpevole da una giuria americana con le prove che sono state prodotte contro di noi. Io dico che nemmeno a un cane rognoso la Corte Suprema del Massachusetts avrebbe respinto due volte l’appello; nemmeno a un cane rognoso. Si è concesso un nuovo processo a Madeiros perché il giudice o aveva dimenticato o aveva omesso di ricordare alla giuria che l’imputato deve essere considerato innocente fino al momento in cui la sua colpevolezza non è provata in tribunale, o qualcosa del genere. Eppure, quell’uomo ha confessato. Quell’uomo era processato e ha confessato, ma la Corte gli concede un altro processo [ricordiamo che il portoricano Celestino Madeiros confessò di essere anche l’autore della rapina con omicidi della quale erano accusati Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, di fatto scagionati da ogni accusa, ma la sua dichiarazione non venne tenuta in alcuna considerazione]. Noi abbiamo dimostrato che non poteva esistere un altro giudice sulla faccia della Terra più ingiusto e crudele di quanto lei, giudice Thayer, sia stato con noi. Lo abbiamo dimostrato. Eppure ci si rifiuta ancora un nuovo processo. Noi sappiamo che lei nel profondo del suo cuore riconosce di esserci stato contro fin dall’inizio, prima ancora di vederci. Prima ancora di vederci lei sapeva che eravamo dei radicali, dei cani rognosi. Sappiamo che lei si è rivelato ostile e ha parlato di noi esprimendo il suo disprezzo con tutti i suoi amici, in treno, al Club dell’Università di Boston, al Club del Golf di Worcester, nel Massachusetts. Sono sicuro che se coloro che sanno tutto ciò che lei ha detto contro di noi avessero il coraggio civile di venire a testimoniare, forse Vostro Onore -e mi dispiace dirlo, perché lei è un vecchio e anche mio padre è un vecchio come leisiederebbe accanto a noi, e questa volta con piena giustizia. Quando ha emesso la sentenza contro di me al processo di Plymouth, lei ha detto -per quanto mi è dato ricordare in buona fedeche i delitti sono in accordo con le mie convinzioni -o qualcosa del genere- ma ha tolto un capo d’imputazione, se ricordo esattamente, alla giuria. La giuria era così prevenuta contro di me che mi avrebbe giudicato colpevole di tutte e due le imputazioni, per il solo fatto che erano soltanto due. Ma mi avrebbe giudicato colpevole di una dozzina di capi d’accusa anche contro le istruzioni di Vostro Onore. Naturalmente, io ricordo che lei disse che non c’era alcuna ragione di ritenere che io avessi avuto l’intenzione di uccidere qualcuno, anche se ero un bandito, facendo cadere cosi l’imputazione di tentato omicidio. Bene, sarei stato giudicato colpevole anche di questo? Se sono onesto debbo riconoscere che fu lei a togliere di mezzo quell’accusa, giudicandomi soltanto per tentato furto con armi, o qualcosa di simile. Ma lei, giudice Thayer, mi ha dato per quel tentato furto una pena maggiore di quella comminata a tutti
i quattrocentoquarantotto carcerati di Charlestown che hanno attentato alla proprietà, che hanno rubato; eppure nessuno di loro aveva una sentenza di solo tentato furto come quella che lei mi aveva dato. Se fosse possibile formare una commissione che si recasse sul posto, si potrebbe controllare se è vero o no. A Charlestown ci sono ladri di professione che sono stati in metà delle galere degli Stati Uniti, gente che ha rubato o che ha ferito un uomo sparandogli. E solo per caso costui si è salvato, non è morto. Bene, la maggior parte di costoro, colpevoli senza discussione, per autoconfessione o per chiamata di correo dei complici, ha ottenuto da otto a dieci, da otto a dodici, da dieci a quindici [anni]. Nessuno di loro è stato condannato da dodici a quindici anni come lo sono stato io da lei, per tentato furto. E per di più lei sapeva che non ero colpevole. Lei sa che la mia vita, la mia vita pubblica e privata in Plymouth, dove ho vissuto a lungo, era così esemplare che uno dei più grandi timori del pubblico ministero Katzmann era proprio questo: che giungessero in tribunale le prove della nostra vita e della nostra condotta. Egli le ha tenute fuori con tutte le sue forze, e c’è riuscito. Lei sa che se al primo processo, a Plymouth, avessi avuto a difendermi l’avvocato Thompson, la giuria non mi avrebbe giudicato colpevole. Il mio primo avvocato era un complice di mister Katzmann, e lo è ancora. Il mio primo avvocato difensore, mister Vahey, non mi ha difeso: mi ha venduto per trenta monete d’oro come Giuda vendette Gesù Cristo. Se quell’uomo non è arrivato a dire a lei o a mister Katzmann che mi sapeva colpevole, ciò è avvenuto soltanto perché sapeva che ero innocente. Quell’uomo ha fatto tutto ciò che indirettamente poteva danneggiarmi. Ha fatto alla giuria un lungo discorso intorno a ciò che non aveva alcuna importanza, e sui nodi essenziali del processo è passato sopra con poche parole o in assoluto silenzio. Tutto questo era premeditato, per dare alla giuria la sensazione che il mio difensore non aveva niente di valido da dire, non aveva niente di valido da addurre a mia difesa, e perciò si aggirava nelle parole di vacui discorsi che non significavano nulla e lasciava passare i punti essenziali o in silenzio o con una assai debole resistenza. Siamo stati processati in un periodo che è già passato alla storia. Intendo, con questo, un tempo dominato dall’isterismo, dal risentimento e dall’odio contro il popolo delle nostre origini, contro gli stranieri, contro i radicali, e mi sembra -anzi, sono sicuroche tanto lei che mister Katzmann abbiate fatto tutto ciò che era in vostro potere per eccitare le passioni dei giurati, i pregiudizi dei giurati contro di noi. Io ricordo che mister Katzmann ha presentato un teste d’accusa, un certo Ricci. Io ho ascoltato quel testimone. Sembrava che non avesse niente da dire. Sembrava sciocco produrre un testimone che non aveva niente da dire. Sembrava sciocco, se era stato chiamato solo per dire alla giuria che era il capo di quell’operaio che era presente sul luogo del delitto e che chiedeva di testimoniare a nostro favore, sostenendo che noi non eravamo tra i banditi. Quell’uomo, il testimone Ricci, ha dichiarato di aver trattenuto l’operaio al lavoro, invece di mandarlo a vedere che cosa era accaduto, dando così l’impressione che l’altro non avesse potuto vedere ciò che accadeva nella strada. Ma questo non era molto importante. Davvero importante è che quell’uomo ha sostenuto che era falsa la testimonianza del ragazzo che riforniva d’acqua la sua squadra d’operai. Il ragazzo aveva dichiarato d’aver preso un secchio e di essersi recato ad una certa fontana ad attingere acqua per la squadra. Non era vero -ha sostenuto il testimone Ricci- e perciò
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(SEGUE) BARTOLOMEO VANZETTI: REQUISITORIA FINALE
il ragazzo non poteva aver visto i banditi e non era in grado quindi di provare che né io né Sacco fossimo tra gli assassini. Secondo lui, non poteva essere vero che il ragazzo fosse andato a quella fontana perché si sapeva che i tedeschi ne avevano avvelenato l’acqua. Ora, nella cronaca del mondo di quel tempo non è mai stato riferito un episodio del genere. Niente di simile è avvenuto in America: abbiamo letto di numerose atrocità compiute in Europa dai tedeschi durante la guerra, ma nessuno può provare né sostenere che i tedeschi erano tanto feroci da avvelenare una fontana in questa regione, durante la guerra. Tutto questo sembrerebbe non aver nulla a che fare con noi, direttamente. Sembra essere un elemento casuale capitato tra gli altri che rappresentano invece la sostanza del caso. Ma la giuria ci aveva odiati fin dal primo momento perché eravamo contro la guerra. La giuria non si rendeva conto che c’è della differenza tra un uomo che è contro la guerra perché ritiene che la guerra sia ingiusta, perché non odia alcun popolo, perché è un cosmopolita, e un uomo invece che è contro la guerra perché è in favore dei nemici, e che perciò si comporta da spia, e commette dei reati nel paese in cui vive allo scopo di favorire i paesi nemici. Noi non siamo uomini di questo genere. Katzmann lo sa molto bene. Katzmann sa che siamo contro la guerra perché non crediamo negli scopi per cui si proclama che la guerra va fatta. Noi crediamo che la guerra sia ingiusta e ne siamo sempre più convinti dopo dieci anni che scontiamo -giorno per giornole conseguenze e i risultati dell’ultimo conflitto. Noi siamo più convinti di prima che la guerra sia ingiusta, e siamo contro di essa ancor più di prima. Io sarei contento di essere condannato al patibolo, se potessi dire all’umanità: «State in guardia. Tutto ciò che vi hanno detto, tutto ciò che vi hanno promesso era una menzogna, era un’illusione, era un inganno, era una frode, era un delitto. Vi hanno promesso la libertà. Dov’è la libertà? Vi hanno promesso la prosperità. Dov’è la prosperità? Dal giorno in cui sono entrato a Charlestown, sfortunatamente la popolazione del carcere è raddoppiata di numero. Dov’è l’elevazione morale che la guerra avrebbe dato al mondo? Dov’è il progresso spirituale che avremmo raggiunto in seguito alla guerra? Dov’è la sicurezza di vita, la sicurezza delle cose che possediamo per le nostre necessità? Dov’è il rispetto per la vita umana? Dove sono il rispetto e l’ammirazione per la dignità e la bontà della natura umana? Mai come oggi, prima della guerra, si sono avuti tanti delitti, tanta corruzione, tanta degenerazione. Se ricordo bene, durante il processo, Katzmann ha affermato davanti alla giuria che un certo Coacci ha portato in Italia il denaro che, secondo la teoria della pubblica accusa, io e Sacco avremmo rubato a Braintree. Non abbiamo mai rubato quel denaro. Ma Katzmann, quando ha fatto questa affermazione davanti alla giuria, sapeva bene che non era vero. Sappiamo già che quell’uomo è stato deportato in Italia, dopo il nostro arresto, dalla polizia federale. Io ricordo bene che il poliziotto federale che lo accompagnava aveva preso i suoi bauli, prima della traduzione, e li aveva esaminati a fondo senza trovarvi una sola moneta. Ora, io dico che è un assassinio sostenere davanti alla giuria che un amico o un compagno o un congiunto o un conoscente dell’imputato o dell’indiziato ha portato il denaro in Italia, quando si sa che non è vero. Io non posso definire questo gesto altro che un assassinio, un assassinio a sangue freddo. Ma Katzmann ha detto anche qualcos’altro contro di noi
che non è vero. Se io comprendo bene, c’è stato un accordo, durante il processo, con il quale la difesa si era impegnata a non presentare prove della mia buona condotta in Plymouth, e l’accusa non avrebbe informato la giuria che io ero già stato processato e condannato in precedenza, a Plymouth. A me pare che questo fosse un accordo unilaterale. Infatti, al tempo del processo di Dedham, anche i pali telegrafici sapevano che io ero stato processato e condannato a Plymouth: i giurati lo sapevano anche quando dormivano. Per contro, la giuria non aveva mai veduto né Sacco né me, e io penso che sia giusto dubitare che nessun membro della giuria avesse mai avvicinato prima del processo qualcuno che fosse in grado di dargli una descrizione sufficientemente precisa della nostra condotta. La giuria non sapeva niente, dunque, di noi due. Non ci aveva mai veduto. Ciò che sapeva erano le cattiverie pubblicate dai giornali quando fummo arrestati e il resoconto del processo di Plymouth. Io non so per quale ragione la difesa avesse concluso un simile accordo, ma so molto bene perché lo aveva concluso Katzmann: perché sapeva che metà della popolazione di Plymouth sarebbe stata disposta a venire in tribunale per dire che in sette anni vissuti in quella città non ero mai stato visto ubriaco, che ero conosciuto come il più forte e costante lavoratore della comunità. Mi definivano “il mulo”, e coloro che conoscevano meglio le condizioni di mio padre e la mia situazione di scapolo si meravigliavano e mi dicevano: «Ma perché lei lavora come un pazzo, se non ha né figli né moglie di cui preoccuparsi?». Katzmann poteva dunque dirsi soddisfatto di quell’accordo. Poteva ringraziare il suo Dio e stimarsi un uomo fortunato. Eppure, egli non era soddisfatto. Infranse la parola data e disse alla giuria che io ero già stato processato in tribunale. Io non so se ne è rimasta traccia nel verbale, se è stato omesso oppure no, ma io l’ho udito con le mie orecchie. Quando due o tre donne di Plymouth vennero a testimoniare, appena la prima di esse raggiunse il posto ove è seduto oggi quel gentiluomo -la giuria era già al suo posto- Katzmann chiese loro se non avesse già testimoniato in precedenza per Vanzetti. E alla loro risposta affermativa replicò: «Voi non potete testimoniare». Esse lasciarono l’aula. Dopo di che testimoniarono ugualmente. Ma nel frattempo egli disse alla giuria che io ero già stato processato in precedenza. È con questi metodi scorretti che egli ha distrutto la mia vita e mi ha rovinato. Si è anche detto che la difesa avrebbe frapposto ogni ostacolo pur di ritardare la prosecuzione del caso. Non è vero, e sostenerlo è oltraggioso. Se pensiamo che l’accusa, lo Stato, hanno impiegato un anno intero per l’istruttoria, ciò significa che uno dei cinque anni di durata del caso è stato preso dall’accusa solo per iniziare il processo, il nostro primo processo. Allora la difesa fece ricorso a lei, giudice Thayer, e lei aspettò a rispondere; eppure io sono convinto che aveva già deciso: fin dal momento in cui il processo era finito, lei aveva già in cuore la risoluzione di respingere tutti gli appelli che le avremmo rivolti. Lei aspettò un mese o un mese e mezzo, giusto per render nota la sua decisione alla vigilia di Natale, proprio la sera di Natale. Noi non crediamo nella favola della notte di Natale, né dal punto di vista storico né da quello religioso. Lei sa bene che parecchie persone del nostro popolo ci credono ancora, ma se noi non ci crediamo ciò non significa che non siamo umani. Noi siamo uomini, e il Natale è dolce al cuore di ogni uomo. Io penso che lei abbia reso nota la sua decisione la sera di Natale per avvelenare il cuore delle nostre famiglie e dei nostri cari.
Novant’anni Mi dispiace dir questo, ma ogni cosa detta da parte sua ha confermato il mio sospetto fino a che il sospetto è diventato certezza. Per presentare un nuovo appello, in quel periodo, la difesa non prese più tempo di quanto ne avesse preso lei per rispondere. Ora non ricordo se fu in occasione del secondo o del terzo ricorso, lei aspettò undici mesi o un anno prima di risponderci; e io sono sicuro che aveva già deciso di rifiutarci un nuovo processo prima ancora di consultare l’inizio dell’appello. Lei prese un anno, per darci questa risposta, o undici mesi. Cosicché appare chiaro che, alla fine, dei cinque anni, due se li prese lo Stato: uno trascorse dal nostro arresto al processo, l’altro in attesa di una risposta al secondo o al terzo appello. Posso anzi dire che, se vi sono stati ritardi, essi sono stati provocati dall’accusa e non dalla difesa. Sono sicuro che se qualcuno prendesse una penna in mano e calcolasse il tempo preso dall’accusa per istruire il processo e il tempo preso dalla difesa per tutelare gli interessi di noi due, scoprirebbe che l’accusa ha preso più tempo della difesa. C’è qualcosa che bisogna prendere in considerazione a questo punto, ed è il fatto che il mio primo avvocato ci tradì. Tutto il popolo americano era contro di noi. E noi abbiamo avuto la sfortuna di prendere un secondo legale in California: venuto qui, gli è stato dato l’ostracismo da voi e da tutte le autorità, perfino dalla giuria. Nessun luogo del Massachusetts era rimasto immune da ciò che io chiamo il pregiudizio, il che significa credere che il proprio popolo sia il migliore del mondo e che non ve ne sia un altro degno di stargli alla pari. Di conseguenza, l’uomo venuto dalla California nel Massachusetts a difendere noi due doveva essere divorato, se era possibile. E lo fu. E noi abbiamo avuto la nostra parte. Ciò che desidero dire è questo: il compito della difesa è stato terribile. Il mio primo avvocato non aveva voluto difenderci. Non aveva raccolto testimonianze né prove a nostro favore. I verbali del tribunale di Plymouth erano una pietà. Mi è stato detto che più di metà erano stati smarriti. Cosicché la difesa aveva un tremendo lavoro da fare, per raccogliere prove e testimonianze, per apprendere quel che i testimoni dello Stato avevano sostenuto e controbatterli. E considerando tutto questo, si può affermare che se anche la difesa avesse preso doppio tempo dello Stato, ritardando così il caso, ciò sarebbe stato più che ragionevole. Invece, purtroppo, la difesa ha preso meno tempo dello Stato. Ho già detto che non soltanto non sono colpevole di questi due delitti, ma non ho mai commesso un delitto in vita mia: non ho mai rubato, non ho mai ucciso, non ho mai versato una goccia di sangue, e ho lottato contro il delitto, ho lottato sacrificando anche me stesso per eliminare i delitti che la legge e la chiesa ammettono e santificano. Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della Terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie. Bartolomeo Vanzetti (Dedham, Massachusetts, Usa; 9 aprile 1927)
Segnaletiche di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, scattate al momento del loro arresto, il 5 maggio 1920. Subito, furono accusati di rapina con omicidio.
(continua da pagina 57) rie, in una cava, in un’acciaieria e in una fabbrica di cordami, la Plymouth Cordage Company. Leggeva molto: Karl Marx, Charles Darwin, Victor Hugo, Maksim Gorkij, Lev Tolstoj, Émile Zola e Dante Alighieri furono tra i suoi autori preferiti. Nel 1916, guidò uno sciopero contro la Plymouth, e per questo motivo nessuno volle più dargli un lavoro. Quindi, si mise in proprio, facendo il pescivendolo. Fu proprio nel 1916 che i due si conobbero, ed entrarono a far parte di un gruppo anarchico italoamericano. Tutto il collettivo fuggì in Messico, per evitare la chiamata alle armi (e questo venne rimproverato loro al processo, ma Bartolomeo Vanzetti commenta con lucidità, nella propria requisitoria, alla quale ci siamo già riferiti): perché per un anarchico non c’è niente di peggio che uccidere o morire per uno Stato. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti tornarono nel Massachusetts dopo la guerra, non sapendo di essere inclusi in una lista di sovversivi compilata dal ministero di Giusti-
zia, né di essere pedinati dagli agenti segreti statunitensi. Nella stessa lista, era incluso anche un amico di Bartolomeo Vanzetti, il tipografo Andrea Salsedo, che venne assassinato dalla polizia il 3 maggio 1920, scaraventato dal quattordicesimo piano di un edificio appartenente al ministero di Giustizia (il film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971, che commentiamo più avanti, esordisce con la rievocazione di questa altra oscura vicenda). [Altrettanta attenzione: il 15 dicembre 1969, nei concitati primi momenti successivi alla strage della Banca dell’Agricoltura, di Milano, del precedente dodici, anche l’anarchico milanese Giuseppe Pinelli, estraneo ai fatti, precipitò nel cortile della questura, da una finestra dell’ufficio dell’allora commissario Luigi Calabresi]. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti organizzarono un comizio per far luce su questo omicidio, che avrebbe dovuto avere luogo a Brockton, il nove maggio. Però, i due italiani vennero arrestati prima dell’evento, il cinque maggio,
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Novant’anni rei d’aver appresso volantini anarchici e avere indosso armi. Pochi giorni dopo, vennero accusati anche di una rapina avvenuta a South Baintree, un sobborgo di Boston, durante la quale, a colpi di pistola, erano stati uccisi due uomini, il cassiere della ditta -il calzaturificio Slater and Morrille una guardia giurata. L’abbiamo già detto, ma la ripetizione è d’obbligo. Già dall’epoca dei fatti, e via via negli anni a seguire, a parere di molti, non soltanto italiani, non soltanto anarchici, ma personaggi della cultura internazionale, da parte di polizia, procuratore distrettuale, giudice e giuria, alla base del verdetto di condanna vi furono pregiudizi e una forte volontà di perseguire la politica del terrore suggerita dal ministro della Giustizia, il democratico Alexander Mitchell Palmer, e culminata nella vicenda delle deportazioni coatte di immigrati (sotto la seconda presidenza del democratico Thomas Woodrow Wilson). Clima sociale sul quale si espresse il vescovo di New York, voce insospettabile: «Il paese è minato dall’isterismo e dal panico; è la pagina più infame della storia d’America».
In quell’oscuro 1920, gli fece eco The Chicago Chronicle, certamente non di parte, titolando a piena pagina «La campagna isterica di Palmer, seria minaccia per la democrazia» [attenzione: capita che, a volte, la Storia si ripeta; magari in luoghi diversi, paradossalmente a ordine invertito (immigrazione in Italia), le speculazioni sulla pelle dei disperati tornano all’ordine del giorno. Riferimento italiano in cronaca, perfettamente voluto, cosciente e consapevole]. Sotto questo aspetto, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti vennero considerati agnelli sacrificali, utili per testare la linea di condotta contro gli avversari del governo: erano immigrati italiani, con una comprensione imperfetta della lingua inglese (migliore in Bartolomeo Vanzetti, che ha svolto una lucida requisitoria; sempre da pagina 58); inoltre, erano note le loro idee anarchiche. Il giudice Webster Thayer li definì “anarchici bastardi”. Senza successo, molti famosi intellettuali, compresi Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, Bertrand Russell, George Bernard Shaw, John Dos Passos, Upton Sinclair e H. G. Wells, so-
NICOLA SACCO AL FIGLIO
Come la requisitoria di Bartolomeo Vanzetti, integrale da pagina 58, prende vita nell’interpretazione (in estratto) di Gian Maria Volonté, nello stesso film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo (1971), è la voce fuori campo di Riccardo Cucciolla che sottolinea i passaggi della lettera che Nicola Sacco scrisse al figlio Dante, prima di essere avviato alla sedia elettrica. Come annotato nel testo, questa lettera ha ispirato la terza parte della Ballata, colonna sonora del film, scritta da Joan Baez e musicata da Ennio Morricone. Analogamente, è stata utilizzata anche da Pete Seeger per la sua Sacco’s Letter to His Son, inclusa nella raccolta Ballads of Sacco & Vanzetti, di Woody Guthrie, ed elaborata dal gruppo italiano Le Tormenta, appunto La lettera. Tra le tante versioni, riproponiamo quella del film di Giuliano Montaldo, ripetiamo recitata da Riccardo Cucciolla. Mio caro figlio, ho sognato di voi giorno e notte; non sapevo più se la mia era vita o morte. Volevo tornare a riabbracciarti, te e la tua mamma. Perdonami, bambino mio, per questa morte ingiusta, che ti toglie il padre quando sei ancora in così tenera età. Possono bruciare i nostri corpi, oggi; non possono distruggere le nostre idee, esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda, figlio mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te. Cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato, l’oppresso. Loro sono i tuoi migliori amici.
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stennero una campagna per giungere a un nuovo processo. A nulla valsero neppure la mobilitazione della stampa statunitense e di quella internazionale, né l’attività di numerosi comitati per la liberazione degli innocenti, né gli appelli lanciati da tutto il mondo. Martedì 23 agosto 1927, dopo sette anni di carcere, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti vennero uccisi sulla sedia elettrica: la loro esecuzione innescò rivolte popolari a Londra, Parigi e in diverse città della Germania (ovviamente, nulla venne fatto dal governo fascista italiano).
LIBRI E CINEMA Sepolti nei cimiteri dei rispettivi paesi di origine, Torremaggiore (all’inizio del viale centrale), in provincia di Foggia, e Villafalletto, in provincia di Cuneo, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono ancora oggi simbolo universale contro l’ingiustizia, il pregiudizio, l’intolleranza, la prevaricazione e, perché no, la pena di morte. Ripetiamo quanto affermato da Bartolomeo Vanzetti dopo la condanna: «Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione tra gli uomini». Alla rievocazione del loro caso e alla loro memoria sono state dedicate numerose opere, cinematografiche e pittoriche, e sono stati compilati approfonditi studi e saggi. Tra i quali, in lingua italiana, ricordiamo alcuni titoli (oltre quelli già richiamati, a pagina cinquantasei), senza alcuna gerarchia bibliografica, ma riprendendo dallo scaffale di conservazione della nostra libreria personale (circa): L’eredità di Sacco & di Vanzetti, di Russell Aiuto, tradotto (in automatico, dunque da rivedere, ciascuno per sé) sul sito www.torremaggiore.com/sac coevanzetti/storia.html; La tragedia di Sacco e Vanzetti, di Francis Russell, Oscar Mondadori, 2005; Davanti alla sedia elettrica - Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati, di John Dos Passos, del 1927, pubblicato dalle Edizioni Spartaco, nel 2005; Sacco e Vanzetti: giustiziata la verità, di Luigi
Botta, prefazione di Pietro Nenni, Edizioni Gribaudo, 1978; Sacco e Vanzetti. Colpevoli o innocenti?, di Giovanni Adducci, Serarcangeli, 2002 / Editori Internazionali Riuniti, 2014; Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, di Lorenzo Tibaldo, Claudiana, 2008; Gridatelo dai tetti, autobiografia e lettere di Bartolomeo Vanzetti, a cura di Alberto Gedda, presentazione di Giuliano Montaldo e Davide Lajolo, postfazione di Sergio Soave, Fusta Editore, 2005; Altri dovrebbero aver paura (Lettere e testimonianze inedite di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti), a cura di Andrea Comincini, Nova Delphi, Roma, 2012; Le ragioni di una congiura e altri scritti (Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti), ancora a cura di Andrea Comincini, Nova Delphi, Roma, 2014; I miei ricordi di una tragedia familiare, di Fernanda Sacco, Malatesta, 2010. Ancora, più indietro e indietro nel tempo, altri due titoli... introvabili: Tragedia e supplizio di Sacco e Vanzetti: Vicende giudiziarie desunte dall’istruttoria, di Luigi Rusticucci, con una lettera di Victor Hugo, Società Editrice Partenopea, 1928; e Sacco e Vanzetti, di Howard Fast, Edizioni di Cultura Sociale, 1953. Quindi, sono state scritte e cantate toccanti canzoni (ne riferiamo più avanti). Sul fronte cinematografico, il film universalmente più conosciuto, al quale si è soliti riferirsi, è Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, realizzato nel 1971. Straordinarie le caratterizzazioni dei corregionali Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté, e commovente la requisitoria finale recitata proprio da Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti), con forte inflessione piemontese e coinvolgente trasporto: tra tanto altro, fantastica lezione di cinema-verità. In precedenza, il caso fu affrontato da altre sceneggiature, e ancora in tempi recenti il cinema e le televisioni internazionali sono tornati sull’argomento. Con ordine cronologico. Sacco und Vanzetti è una pellicola austriaca-ungherese arrivata
Novant’anni nelle sale europee il 7 ottobre 1927, una manciata di settimane dopo l’esecuzione del ventitré agosto. Non ne sappiamo molto, così come ignoriamo l’essenza di altri titoli che stiamo per ricordare -che definiscono note universali-, e -dunque- ci limitiamo all’essenza dei dati ufficiali: regia di Alfréd Deésy; Louis V. Arco e Hans Peppler nelle parti dei due italiani. Der Fall Sacco und Vanzetti è un film televisivo tedesco, diretto da Edward Rothe, su sceneggiatura di Reginald Rose, mandato in onda per la prima volta la sera del 22 agosto 1963, in coincidenza con l’anniversario dell’esecuzione: Robert Freitag e Günther Neutze, i due attori di riferimento. Con la stessa sceneggiatura, le enciclopedie del cinema registrano anche una produzione belga e olandese del successivo 1966: De Zaak Sacco en Vanzetti, che ipotizziamo coincidente con l’originario filmato tedesco. Ancora, interrompendo la sequenza cronologica, registriamo anche una miniserie televisiva italiana del 1977, a propria volta basata sulla medesima storia di Reginald Rose, trasmessa il dieci marzo: Sacco e Vanzetti, con la regia di Giacomo Colli e la recitazione di Achille Millo e Franco Graziosi. Il regista Paul Roland ha firmato la produzione belga (in lingua francese) L’affaire Sacco et Vanzetti, del 1967, che si avvale della voce recitante di Henri Marteau e delle interpretazioni, nei panni dei due anarchici, di Richard Müller e Maurice Travail. Prima di segnalare tre documentari realizzati in tempi successivi, ai quali stiamo per approdare, torniamo ancora in Italia, dove le due puntate del film televisivo Sacco & Vanzetti sono andate in onda domenica tredici e lunedì quattordici novembre 2005 su Canale 5: produzione Mediaset, produttore Guido Lombardo, regia di Fabrizio Costa, interpreti Sergio Rubini e Ennio Fantastichini. Il documentario televisivo statunitense In Search of History: The True Story of Sacco and Vanzetti è del 2000; ancora statunitense, quello realizzato dal regista e sce-
neggiatore David Rothauser, The Diary of Sacco and Vanzetti, del 2004, è veicolato nelle sale cinematografiche. Altrettanto dicasi per il più recente Sacco and Vanzetti, del regista Peter Miller, del 2006, che si avvale di concentrati materiali d’archivio, visivi e documenti, tra i quali un intervento di Henry Fonda e un’intervista al folksinger Arlo Guthrie, figlio di Woody Guthrie, che ha dedicato anche una raccolta di ballate per Sacco e Vanzetti (più avanti). Segnaliamo anche una intervista a Giuliano Montaldo, regista del film del 1971 che abbiamo appena ricordato, e annotiamo che le voci di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono, rispettivamente, di Tony Shalhoub e John Turturro. A margine, annotiamo che nel film italiano Santa Maradona, di Marco Ponti (2001), il personaggio interpretato da Libero De Rienzo (Bart) si presenta come “Bartolomeo Vanzetti”.
IN MUSICA Musiche e parole di canzoni intitolate alla memoria di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti fanno parte del repertorio internazionale della canzone d’autore, e confortano le coscienze su una vicenda che non va assolutamente dimenticata. Anzitutto, segnaliamo la raccolta di Woody Guthrie, uno dei più acclamati folksinger americani, alla quale abbiamo accennato poche righe fa, scritta tra il 1946 e 1947 (ma i brani sono datati 1945-1946) e pubblicata in album nel 1964, con un inserimento addizionale di Pete Seeger, altro folksinger di straordinaria statura. Sull’onda lunga dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, e in declinazione indirizzata alla storia dei due italiani vittime di una clamorosa e riconosciuta ingiustizia, Ballads of Sacco & Vanzetti si compone di dodici motivi, undici originari di Woody Guthrie più quello addizionale di Pete Seeger (i testi si possono facilmente rintracciare in Rete): The Flood and the Storm, I Just Want to Sign Your Name, Old Judge Thayer, Red
Wine, Root Hog and Die, Suasson Lane, Two Good Men, Vanzetti Letter, Vanzetti’s Rock, We Welcolme to Heaven, You Sould of Boston e, infine, Sacco’s Letter to His Son (appunto, lettera di Nicola Sacco al figlio Dante, della quale riferiamo in un riquadro pubblicato sulla pagina accanto, musicata da Pete Seeger; in tempi prossimi, la stessa lettera è stata elaborata dal gruppo italiano Le Tormenta, che canta La lettera; ancora, anticipiamo che la terza parte della Ballata, che fa da colonna sonora al film di Giuliano Montaldo, del 1971, prende a propria volta spunto da questa lettera). Dal 2001, un Sacco & Vanzetti è nel repertorio del gruppo ska statunitense (da Miami, Florida) Against All Authority. E intensa, emozionante e coinvolgente è Sacco e Vanzetti nell’album Il fischio del vapore (2002), con il quale Francesco De Gregori e Giovanna Marini sono tornati alle proprie origini (nell’album, motivi espliciti come L’attentato a Togliatti, Il feroce monarchico Bava, Lamento per la morte di Pasolini, Saluteremo il signor padrone e Bella ciao). Il testo: Il ventidue di agosto a Boston in America Sacco e Vanzetti van sulla sedia elettrica. E con un colpo di elettricità All’altro mondo li voller mandà. Circa le undici e mezzo giudici e gran corte Entran poi tutti quanti nella cella della morte: «Sacco e Vanzetti state a sentir Dite se avete qualcosa da dir». Entra poi nella cella il bravo confessore Domanda a tutti e due la santa religione. Sacco e Vanzetti con grande espression «Noi moriremo senza religion».
E tutto il mondo intero reclama la loro innocenza. Ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza «Siano essi di qualunque nazion Noi li uccidiamo con grande ragion», E tutto il mondo intero reclama la loro innocenza Ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza. Addio amici in cor la fé Viva l’Italia e abbasso il Re. In assoluto, però, sono universalmente noti i motivi che hanno accompagnato la colonna sonora del film di Giuliano Montaldo, del 1971, composti da Ennio Morricone. Prima di tutto, Here’s to You, cantata da Joan Baez (successivamente, sulle stesse note, Gianni Morandi ha cantato Ho visto un film). In crescendo vocale, è ripetuto più volte lo stesso periodo, che si richiama all’arringa finale di Bartolomeo Vanzetti, pure inserita in un poster disegnato da Ben Shahn, che visualizziamo a pagina 57 (Vi rendo omaggio Nicola e Bart / Per sempre riposate qui nei nostri cuori / Il momento estremo e finale è vostro / Quell’agonia è il vostro trionfo!): Here’s to you Nicola and Bart Rest forever here in our hearts The last and final moment is yours That agony is your triumph! La colonna sonora del film di Giuliano Montaldo, interpretato dai corregionali Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté, presenta quindi La ballata di Sacco e Vanzetti (in inglese, The Ballad of Sacco and Vanzetti), scomposta in tre parti, musicate da Ennio Morricone con testi di Joan Baez: la seconda parte è ispirata dalle lettere dal carcere di Bartolomeo Vanzetti al padre, la terza dalla già ricordata lettera di Nicola Sacco al figlio Dante. Per non dimenticare. Mai. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 30 volte marzo 2006)
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Ben Shahn, litografo, pittore, fotografo (o viceversa), nasce a Kaunas (Kovno), in Lituania, nel 1898 (dodici settembre), in una famiglia ebrea di falegnami e intagliatori di legno. Muore a New York nel 1969 (quattordici marzo). In mezzo, ci sta un’intera vita dedicata a sostegno degli ultimi e degli indifesi. La famiglia di Ben Shahn emigra negli Stati Uniti nel 1906, e si stabilisce a New York. Dal 1913 al 1917 (dicono le biografie), il giovane Ben Shahn lavora come apprendista litografo a Manhattan. Frequenta una scuola serale a Brooklyn, studia biologia; nel 1923, entra alla National Academy of Design e inizia una carriera artistica mai piegata al mercimonio del mondano e del conforme. Nel 1925, si sposta in Europa, e vive quattro anni a Parigi. Tornato a New York nel 1929, fino al 1931 condivide l’appartamento con Walker Evans, al Greenwich Village, e frequenta il suo studio a Cape Cod. È Walker Evans che lo introduce al mestiere, e Ben Shahn è attratto dalla fotografia “colta di sorpresa” teorizzata da Henri CartierBresson. Per Ben Shahn, i diritti inalienabili di tutti gli uomini e non soltanto di alcuni, sono «il godimento della vita e della libertà, della fine dell’ingiustizia e la ricerca della felicità» (Jean-François Collange: Teologia dei diritti umani; Queriniana, 1991).
MESSA A FUOCO DEL REALE Nel 1929, esplode la crisi economica più profonda e più lunga della storia del capitalismo. Il crollo americano si diffuse in tutto il mondo e aprì un intero decennio di depressione dei consumi e delle libertà sociali. Sotto la spinta del presidente Franklin Delano Roosevelt, viene fondata la Farm Security Administration, una sezione istituzionale che si sarebbe dovuta occupare di po-
BEN SHAHN
veri, di disoccupati, di emarginati; l’FSA gettò le basi della fotografia sociale, e in pochi anni archiviò più di centosettantamila immagini di un pezzo d’America, quello più inviso, più miserabile, più sconosciuto, che andava a smentire l’apologia del lieto fine, architettata dalla fabbrica hollywoodiana delle illusioni.
pingo o fotografo per due motivi: o perché mi piacciono con molta intensità certi avvenimenti, cose o persone, o perché altri mi dispiacciono con altrettanta intensità» (L’occhio fotografico di Ben Shahn; Mazzotta, 1979). All’interno dell’esperienza FSA, Ben Shahn ha rappresentato una corrente quasi solitaria, di taglio
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Genesi; 2,16 e 2,17) Ben Shahn fu tra i primi ad essere contattato dalla FSA. Insieme a Walker Evans e Dorothea Lange, mostrò lo sguardo più radicale della fotografia d’impegno civile. Il suo modo di raccontare per immagini è caratterizzato da una grande apertura umanista, ed è proprio nella libertà della narrazione degli ultimi che si manifesta la sua profonda conoscenza dei problemi e dei rapporti di classe. Così Ben Shahn, nel 1944, sulle esperienze con la FSA: «Cercavamo di presentare l’ordinario in modo straordinario. Ma quello è un paradosso, perché l’unico aspetto straordinario era quell’essere così ordinario. Mai nessuno prima aveva fatto questo coscientemente. Ora la chiamano fotografia documentaria, che sarà anche giusto [...]. Noi ci limitavamo a fare fotografie che gridavano di essere fatte». Più tardi, nel 1946, chiarì ulteriormente il suo pensiero: «Sono un pittore o un fotografo sociale. Di-
comunardo, rispetto al modo di pensare e operare di quasi tutti gli altri autori, che orientavano il proprio lavoro verso una visione sociologica e riformista. Ben Shahn conosceva profondamente la grande pittura messicana. Era stato amico e collaboratore di Diego Rivera, con il quale, nel 1933, lavorò al murale Man at the Crossroads, del Rockefeller Center, subito contestato dai committenti. Negli anni di permanenza con la FSA (1935-1938), scattò oltre seimila immagini degli Stati del Sud e del Middle West. Restano una testimonianza profonda della fotografia come strumento d’azione sul sociale, documento indelebile di una trasparenza storica della menzogna e del dominio che, imperterrito, continua a partorire freaks sottoproletari. Ben Shahn è stato anche uno dei protagonisti della grande battaglia per i diritti civili combattuta in difesa di (Nicola) Sacco e (Bartolomeo) Vanzetti negli anni 1931 e 1932, ingiustamente accusati
di rapina e omicidio e condannati a morte in un processo farsa. Sono suoi, infatti, i migliori manifesti sui due anarchici bruciati, innocenti, sulla sedia elettrica. L’opera pittorica contiene tracce evidenti del suo lavoro fotografico, ma Ben Shahn riesce a dirottare su segni diversi e collocare la propria creatività oltre l’origine del saccheggio. Il lituano ha rifiutato il ruolo di intellettuale organico a qualunque cosa, tuttavia si è chiamato fuori anche dai detentori dei saperi e ha decontestualizzato i generi dai quali è partito, per affabulare altre realtà sganciate da ordini e gerarchie istituzionali. Non ha chiesto la riforma dell’arte dominante, ma il rovesciamento dell’ordine costituito.
L’OCCHIO UMANISTA DI UN ERETICO
[Questo scritto è apparso, in modo piuttosto diverso, nel nostro libro Contro la fotografia. Il linguaggio ammaestrato delle scimmie e l’incendio dell’impero dei codici (L’Affranchi, 1996) e nella riedizione Contro la fotografia della società dello spettacolo. Critica situazionista del linguaggio fotografico (Massari, 2005; con conversazione con Ando Gilardi e archivio storico di sessantacinque fotografie)]. L’occhio umanista di Ben Shahn è meno “orbo” o “tonto” di quanto certi critici hanno scritto sulle riviste-arredamento: uno studio non affrettato delle sue immagini fa conoscere la particolarità delle sua tecnica di ripresa, la singolarità della inquadratura, la messa a fuoco del reale sparato contro la falsità e l’impostura della liturgia esistenziale. Le fotografie di Ben Shahn calano l’autore all’interno di quanto ha fissato sulla pellicola. Le sue attenzioni sono in massima parte per la gente di colore (sostanzialmente trascurata o evitata dagli altri fotografi della FSA, a
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Sguardi su parte Gordon Parks), e nessuno è riuscito a comunicare, come ha fatto Ben Shahn, lo stato di estrema povertà dei “Cotton Pickers” (raccoglitori di cotone) e degli “Sharecroppers” (mezzadri). I suoi gruppi o ritratti singoli raccontano anche una fierezza, una solidarietà, un distacco antagonista della popolazione nera in rapporto a quella bianca. «La visione di Ben Shahn era solo apparentemente semplice e diretta» (Davis Pratt). Si è detto molto del suo metodo di ripresa. Ben Shahn si avvicinava ai soggetti, e -senza alzare la macchina all’occhio- scattava di sorpresa per cogliere l’ordinario, il calore del vero. Sulla Leica, aveva montato un mirino a novanta gradi, ad angolo retto, che gli permetteva di puntarla sui soggetti senza che questi se ne accorgessero, riuscendo così a fabbricare dei ritratti, in apparen-
za semplici, che vanno oltre le facili istantanee. A leggere in profondità i suoi iconemi o le sue iconografie, molti risultano forti, abrasivi, eversivi, e vanno a descrivere una deriva fotografica di grande bellezza ereticale.
L’OCCHIO DELLA FOTOGRAFIA UMANISTA Lo sguardo diretto di Ben Shahn entrava negli angoli del quotidiano e la sua tecnica di rapina era dissipata ovunque: dall’auto in movimento, in interni, per la strada; certi tagli dei soggetti (teste mozzate, inquadrature sbilenche, ravvicinamenti “passionali”) esprimono una scrittura fotografica che segna forse il punto politico più alto dell’intero archivio FSA. Quello che più interessava a Ben Shahn era la caduta della spontaneità, il congelamento immediato di un avvenimento banale, consueto, della vita comu-
ne. «Per lui la fotografia era una forma espressiva grande e valida [...]. Credeva nella fotografia usata per documentare [...]. Credeva molto nel potere della fotografia di scoprire e rivelare» (Bernarda B. Shahn, moglie di Ben Shahn). Ciò che colpisce nella lettura delle immagini di Ben Shahn è il profondo senso libertario con cui il fotografo si è accostato a un sottomondo di diseredati e ha dato loro la regalità di uomini in lotta per la sopravvivenza. Ben Shahn ha prodotto una fotografia d’arte inconsumabile e soppresso l’idea stessa di consumo. Ha espresso un’iconografia della deriva, che ha fatto dei paesaggi dell’anima bella i nonluoghi delle passioni resuscitate sulla riscoperta della fantasia restituita all’etica eidetica di un’infanzia indimenticata. Si tratta di un’estetica di spiazzamento, di decontestualizzazione e riutilizzo
creativo del linguaggio fotografico, che si pone fuori o al lato dell’incatenamento dai saperi dominanti; e nell’espressione delle differenze emerge una pratica della libertà come diritto universale dell’umanità in cammino per la conquista del proprio destino. La dinamica della dissidenza, dell’alterità, che è al fondo del fare-fotografia di Ben Shahn, anche se non è enunciata o gridata in questo modo, segna l’ingiustizia, l’oblio, il disprezzo dei potenti per i diritti umani e afferma che la libertà degli Uomini non sarà mai tanto libera finché, da qualche parte del mondo, un solo uomo soffre miseria e fame. La Fotografia, quando è grande, può dunque rubare la felicità dall’albero della conoscenza e figurare l’immaginale liberato dell’insieme sociale. ❖ in ripetizione, da maggio 2006
MAURIZIO REBUZZINI
25 luglio 1917•2017
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