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ANNO XXIV - NUMERO 235 - OTTOBRE 2017
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Ottobre 1917-2017 LA GRANDE RIVOLUZIONE Nikon 100 anni PER IL GRANDE FORMATO Ingressi di Milano ARCHITETTURE IN GRANDE
(ALIAS) OTTAVIO MALEDUSI AMICI SUOI (KAIROSGRAPHIA)
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prima di cominciare Meno male che esistono anche i giovani. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 34 Il fotografo che non esce dalla propria condizione di servo è parte di una recita, e -per vocazione o soltanto per incapacità creativas’accorpa all’egemonia della società parassitaria. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Dalla poesia ci si aspetta che il flusso di informazioni e le strutture di riferimento siano anche oscure, diverse da quelle della lingua (fotografica) di ogni giorno. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 17 Riferendoci all’ipotesi/concetto di “altra vita”, riconosciamo e accettiamo il passaggio delle stagioni, lo svolgimento delle esistenze, la nostra tra queste. mFranti; su questo numero, a pagina 8
Copertina Marina Alessi: uno dei trentanove soggetti della serie Amici miei (in realtà, trentuno più otto), del convincente Ottavio Maledusi. In presentazione, da pagina 34
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica della Repubblica dell’Azerbaigian, del 20 aprile 2010, nel sessantacinquesimo anniversario dalla fine della Seconda guerra mondiale (fronte europeo): la bandiera rossa issata sul Reichstag, a Berlino, dall’icona di Evgenii Khaldej, storicizzata 2 maggio 1945 (ma, più probabilmente, scattata il trenta aprile). Richiamo alla Rivoluzione d’ottobre, da pagina 50
7 Editoriale A proposito di social, tanto ci sarebbe da riflettere, senza alcuna prevenzione, ma con il solo intento di comprensione. Comunque, ci riferiamo soltanto all’alterazione grammaticale di parole e immagini
8 Da un’altra vita C’è stato un tempo nel quale... (per educazione propria)
10 Forte e leggero Sigma 100-400mm f/5-6,3 DG OS HSM - Contemporary
12 Ritorno ai Sessanta Vanity Fair, del sei settembre, ha celebrato l’epopea avviata/visualizzata dal film Blow-Up, nel cinquantenario. Straordinaria lezione fotografica. Se non che...
OTTOBRE 2017
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
16 Ancora... con i Beatles
Anno XXIV - numero 235 - 6,50 euro
Documentazione dell’attento Alcide Boaretto, dalla mostra Astrid Kirchherr with the Beatles, allestita a Bologna. In punta di fisheye, con profondità d’autore. Ecco qui
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
20 Richiami dal vero
REDAZIONE
A partire dal film Occhio indiscreto, e in proseguimento, sceneggiature e scenografie riprese dalla fotografia storica: esempi, considerazioni e altri rimandi. Al solito Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
FOTOGRAFIE
26 Anche in grande La celebrazione dei cento anni Nikon (1917-2017) approda alla rievocazione della gamma di obiettivi per il grande formato, che hanno illuminato la scena fotografica di fine Novecento. Ottime interpretazioni di Antonio Bordoni
34 Amici suoi Progetto fotografico di Ottavio Maledusi, in pseudonimo volontario, intervistato al proposito. Auspicio perentorio: meno male che, tra noi, esistono anche i giovani di Lello Piazza
43 Identità e illusione In terza edizione, Foto/Industria Biennale 2017 ribadisce sia il proprio punto di vista... sia altro ancora
50 La grande Rivoluzione
Filippo Rebuzzini Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Alcide Boaretto Antonio Bordoni Tiziana Calvia mFranti Angelo Galantini Ottavio Maledusi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Marisa Zanatta Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
Ottobre 1917-2017: nel centenario dello sconvolgimento politico e sociale che ha innescato speranze (tradite) e utopie (represse). Comunque, innovazioni grafiche avviate dalla propaganda e da una cultura liberata. Forse di Maurizio Rebuzzini
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59 Oltre la porta
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La straordinaria monografia Ingressi di Milano scandisce tempi e modi della Fotografia, che hanno creato i termini del proprio linguaggio, arrivando perfino a definirlo di Angelo Galantini
64 Pedro Luis Raota
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Sguardi sulla fotografia dell’assurdo (e dintorni) di Pino Bertelli Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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di Alessandro Mariconti
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editoriale ASSOCIATED PRESS
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ubito rilevato: (in ripetizione da tante nostre considerazioni precedenti, magari in altro riferimento e richiamo) il tempo va avanti, con o senza di noi. Ovvero, non si può combattere qualsivoglia evoluzione, naturale o meno che sia; ma, casomai, si devono/possono esaminare gli effetti collaterali. Così che, qui e oggi, rimandiamo al fenomeno dei social, ormai endemico, radicato e persistente nella nostra vita quotidiana: almeno, in quell’area del pianeta che non è gravata da altre urgenze quotidiane di esistenza individuale (emisfero nord, società occidentale e dintorni, a disuguaglianza delle terribili condizioni che ancora oggi riguardano almeno la metà della popolazione, con aspettative di vita quantomeno precarie... certamente, c’è di che rifletterne). Osservazioni culturalmente negative sui social ce ne sono molte. Non è il caso di richiamarle tutte, e neppure di controbilanciarle con gli aspetti plausibilmente positivi. Comunque, su una prima ci soffermiamo, per sottolineare come e quanto la loro accettazione passiva comporti una resa incondizionata di fronte al ragionamento, al garbo, all’eleganza e, perché no?, ai propri doveri: per questo, subito, riveliamo la nostra avversione per le comunicazioni social di politici e altri/alti personaggi della vita pubblica (ahinoi, fino al papa!). Siamo ancora convinti che costoro dovrebbero dialogare con la gente (con il popolo?) in altri tempi, altri modi e profonda autorevolezza. Per i personaggi dello sport, del cinema e contorni, altro discorso: fatti loro, a misura dei rispettivi quozienti di intelligenza (peraltro, statisticamente bassi). Contemporaneamente, non stiamo neppure qui a sottolineare quanto seguire i social sia ormai attività imperante e pressoché unica per molte persone: tante ne incontriamo sui mezzi pubblici, occhio perennemente sul monitor, pollici in continua agitazione sul tastierino (pollici opponibili? evoluzione della specie?); altrettante le vediamo per strada, indifferenti a ciò che le circonda. In definitiva, la dipendenza da social è ormai patologia tanto diffusa, da non dover essere neppure diagnosticata. Ormai, ancora, è disfunzione esistenziale continuare a raccontarsi istante per istante, e seguire esistenze altrui, altrettanto istante per istante. Allora, perché occuparsene? Quantomeno, per un motivo: per l’effetto collaterale col quale dobbiamo fare i conti... che si tratti di parola o di immagine, è lo stesso. La mancanza cronica di disciplina individuale e di capacità fonetica e comunicativa sta diffondendo a macchia d’olio sgrammaticature, cattive scritture, errori di sintassi, che dalla parola emigrano nell’immagine: fino a compromettere le condizioni basilari che fanno della parola e dell’immagine fantastico tramite di comunicazione, incontro, dialogo, arricchimento continuo e costante. Lamentarsi serve a nulla. Il punto è un altro: la consapevolezza di...! Quindi, nulla da esprimere contro i social, ancora meno contro chi ne abusa. Ma la sola tranquillità di dire a costoro -soprattutto a chi ne sta facendo bandiera per affermazioni proprie, in assenza di altre capacità individuali- che abbiamo capito, visto e considerato. Poi... a ciascuno, la propria Vita. Niente di diverso. Maurizio Rebuzzini
In alcune città (qui è il caso di Washington DC, capitale degli Stati Uniti), certi marciapiedi sono stati delimitati in due aree distinte: in una, è consentito l’uso di smartphone, soprattutto in senso di occhio sul monitor, in funzione social (ed è specificata la percorrenza a proprio rischio e pericolo individuale); nell’altra, gli smartphone sono proibiti. C’è di che riflettere, magari a partire dal fatto che (in ripetizione) «Sono i pesci morti che seguono le correnti» (con Christer Strömholm, fotografo svedese; 1918-2002). Pesci morti che non fanno tesoro delle meraviglie offerte dal Progresso (quello vero, quello affascinante), ma speculano su, con e per convenienze momentanee. Quali poi?
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Anche questo di Maurizio Rebuzzini (Franti)
Le illustrazioni che accompagnano il testo presentato da pagina 50, in questo stesso numero, a commento della grafica politica a seguito della Rivoluzione d’ottobre, nel centenario 1917-2017, sono state riprese e riprodotte da due volumi da tempo nella nostra libreria/biblioteca: The Soviet Political Poster 1917/1980 (Penguin Books, 1986) e La Flamme d’octobre (Cercle d’art, 1977). È curioso che, oltre le loro funzioni in cronaca, questi due volumi siano tornati utili in questi giorni: in un’altra vita, diversa (ma non lontana, speriamo) da quella durante la quale furono acquistati. Da cui, e per cui, riflessioni in conseguenza e sollecitazione. Riferendoci all’ipotesi/concetto di “altra vita”, riconosciamo e accettiamo il passaggio delle stagioni, lo svolgimento delle esistenze, la nostra tra queste. Lo ricordiamo bene: in tempi diversi, in tempi propri, ognuno di questi volumi è stato acquistato a Parigi. Come rivelano anche le rispettive date di edizione, il secondo citato, La Flamme d’octobre, fu raggiunto alla fine degli anni Settanta; il primo menzionato, The Soviet Political Poster 1917/1980, nei secondi anni Ottanta. Sono stati momenti durante i quali abbinavamo viaggi di conoscenza e comprensione allo svolgimento quotidiano del mestiere. Sono stati momenti, di altra età anagrafica, durante i quali un certo entusiasmo, talune speranze, qualche sogno e un contorno di utopia guidavano i nostri passi. Anche alla luce di questo, e oggi in riferimento a due (s)oggetti specifici, possiamo celebrare la radice antica e ben piantata di s-punto di riflessione, che da tempo decliniamo in senso fotografico, coinvolgendolo (lo s-punto) nella materia istituzionale e statutaria di nostro incontro scritto-e-letto, la Fotografia... qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi. Infatti, ai tempi, non c’erano motivi specifici e utilitaristici per avvicinare questi due titoli, e tanti altri a loro coevi, ma solo l’esigenza impellente di soddisfare quella imperiosa curiosità che dà significato e misura a ciascuno di noi.
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In questo senso, e in una situazione sociale assai diversa dalla nostra attuale, nella quale tutto si può risolvere anche dal monitor del proprio computer, collegato al mondo (?!), Parigi componeva i tratti di una realtà confortevole. Oggi, può risultare ridicolo annotarlo, ma allora la reperibilità di libri e altre sollecitazioni culturali non era altrettanto pratica e semplificata. Per esempio, eccoci, proprio a Parigi agivano già librerie specializzate nella vendita di libri fine serie (o altrimenti identifica), proposti a prezzi di acquisto confortevoli, sostanziosamente ridotti rispetto le tariffe originarie. I viaggi a Parigi, in età più baldanzosa dell’attuale, e poi le proiezioni verso New York, di identica personalità, anteponevano proprio la sistematica visita a queste librerie, prima di ogni altro appuntamento. Certo, i libri costavano meno delle proprie quotazioni originarie, ma costavano comunque. Da cui, una metodologia sovrastante, da confessare ora, senza peraltro attribuirle altro merito, altro valore, che la sua sola e semplice rivelazione: avendo una propria economia di scala, tra mangiare e comperare un libro, si rinunciava alla sosta in brasserie. Del resto, ben lontani dal soffrire la fame, se tutto funziona a dovere, un pasto finisce nel water il giorno dopo (per quanto altrimenti trasformato), mentre un libro è per tutta la vita. Ancora: qualche pasto saltato non fa certo male al ritmo di vita dei nostri giorni. Ma non è questa la questione, quanto il senso di curiosità in virtù della quale l’occuparsi di fotografia si rivela presto e bene sollecitazione verso conoscenze a tutto tondo. E qui, consentitecelo, si affaccia una nota amara: spesso, in incontri pubblici e riunioni a tema, siamo rimproverati per la quantità di libri che menzioniamo. In genere, si rimprovera ai libri di essere economicamente onerosi. A parte che non è necessariamente vero, e lo è meno di quanto di possa credere, queste osservazioni arrivano sempre, non soltanto spesso, da personaggi che abbondano in attrezzatura fotografica, che dispongono di una vasta quantità/qualità di obiettivi, a volte
MAURIZIO REBUZZINI
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DA UN’ALTRA VITA
Parigi, anni Ottanta: Au Petit Ramoneur. Un’altra vita. Forse.
gli uni sovrapposti agli altri, che antepongono l’autoreferenzialità e appagamento dell’oggetto fotografico in quanto tale a ogni altra urgenza/esigenza, altrettanto fotografica. Dunque, si tratta di intenderci, oltre che di onestà con se stessi. Lontani dal giudicare gli altri, ma vicini alla comprensione di ognuno, soprattutto nella diversità delle rispettive intenzioni e dei relativi intendimenti, richiediamo soltanto chiarezza: non si accampino scuse. Per quanto sia lecito e legittimo agire come si desidera farlo, e per quanto si sia appagati nel farlo, è doverosa quella rettitudine che ci fa riconoscere e ammettere il piacere e gusto del compiacimento e della soddisfazione individuale. Senza scuse, senza giustificazioni: a chi piace un obiettivo, a chi interessa un libro, è lo stesso. Soltanto, poi, non ci si lamenti della propria eventuale povertà espressiva: senza conoscenza, senza competenza, senza influenze, la creatività individuale non ha modo di educarsi e crescere. Tutto qui. Ancora una osservazione: a proposito dell’attuale vicenda sollecitata dai due libri ai quali ci siamo riferiti, e dai quali siamo partiti per altro cammino (che non quello a loro limitato), abbiamo declinato che «Lo ricordiamo bene». Il richiamo al “ricordo” è importante e niente affatto casuale. Infatti, a dispetto di quanto molti ci attribuiscono, non abbiamo molta “memoria”, ma siamo consapevoli di avere “ricordi”. Con quanto di sostanziale faccia la differenza tra l’una e gli altri. ❖
Tutto tele di Antonio Bordoni
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FORTE E LEGGERO
Sì, è proprio così. Tra i nuovi equilibri tecnico-commerciali della fotografia contemporanea (aggettivo niente affatto casuale, stiamo per vederlo), bisogna riconoscere il ruolo primario e fondante della giapponese Sigma, che ha trasformato radicalmente antiche mansioni originarie degli obiettivi universali, in baionetta per diversi sistemi fotografici. Tanto che, va rilevato, la gamma ottica Sigma non è soltanto proposizione di interpretazioni fotografiche altrimenti scandite, ma offre e propone una sostanziosa personalità pro-
Il nuovo Sigma 100-400mm f/5-6,3 DG OS HSM Contemporary è un ultra zoom con angolo di campo da 24,4 a 6,2 gradi di visione, che si avvale di una efficace costruzione meccanica sostanzialmente compatta, per un disegno ottico di rigorosa qualità formale.
La qualità e originalità degli obiettivi Sigma è stata certificata anche dall’attribuzione di due autorevoli TIPA Award 2017: zoom grandangolare (Sigma 12-24mm f/4 DG HSM - Art); Prime Lens (Sigma 85mm f/1,4 DG HSM - Art) [le motivazioni e altro, in FOTOgraphia, del giugno 2017].
pria e autorevole. Lungo e prolifico è stato (ed è tutt’ora) il cammino scandito dalla produzione esordita nel 1961, per intuizione e volontà del leggendario Michihiro Yamaki, luminare della tecnologia fotografica contemporanea. Da tempo, il sistema ottico Sigma è scandito in tre cadenze coabitanti: Art, che identifica prestazioni espressive imbattibili di alto livello (per l’artista che alberga in ogni fotografo); Sports, che sottolinea l’indirizzo verso l’azione e il movimento (per situazioni di alto dinamismo formale); Contemporary (ecco qui l’aggettivo appena utilizzato... a proposito), che evidenzia alte prestazioni in costruzioni compatte e leggere (per la soluzione e interpretazione di condizioni delicate). Il nuovo zoom con escursione completamente tele Sigma 100-400mm f/5-6,3 DG OS HSM - Contemporary è, per l’appunto, iscritto nella famiglia specificata: ultra zoom forte e leggero, con angolo di campo da 24,4 a 6,2 gradi di visione, che si avvale di una costruzione meccanica sostanzialmente compatta, per un disegno ottico di rigorosa qualità formale. Ancora: escursione focale “a pompa” e funzione macro, per riprese a distanza ravvicinata, da 160cm, con relativo rapporto di ingrandimento 1:3,8. Come specifica la sua lunga definizione, completa di ogni prerogativa tecnica applicata, la stabilizzazione ottica OS è fondamentale per la fotografia tutta tele, quando l’agilità dell’inquadratura a mano libera è congeniale alla situazione fotografica affrontata. A complemento, il motore
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ipersonico per l’autofocus (HSM) è dotato di un algoritmo rinnovato, per una messa a fuoco rapita, altresì favorita da un opportuno limitatore di distanze di focheggiatura. Le aberrazioni ottiche proprie e caratteristiche della visione tele sono state ridotte al minimo con una raffinata finalizzazione degli accoppiamenti, a partire dalla presenza di quattro lenti in vetro ottico SLD (Four Low Dispersion), in un disegno di ventuno elementi divisi in quindici gruppi, con funzioni separate tra le variazioni per la messa a fuoco lontana e quella ravvicinata. Inoltre, riducendo l’aberrazione cromatica trasversale, che non può essere corretta mediante la (consueta) chiusura del diaframma, l’obiettivo assicura una alta qualità di immagine a tutte le focali della consistente escursione 4x e a ogni distanza di ripresa. Quindi, va registrata la pratica operabilità del meccanismo “a pompa” di escursione zoom veloce, ulteriore alla ghiera tradizionale a rotazione micrometrica. Così che, in relazione a qualsivoglia situazione fotografica, si possono affrontare al meglio le condizioni del soggetto e del momento di scatto più opportune. La scala dei diaframmi del Sigma 100-400mm f/5-6,3 DG OS HSM Contemporary, con nove lamelle, chiude fino a f/22; diametro filtri 67mm; dimensioni 86,4x182,3mm (diametro per lunghezza), per 1,160 chilogrammi di peso. In baionetta Canon, Nikon e Sigma (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖
Cinquantenario (?) di Maurizio Rebuzzini
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Dalla propria copertina, il numero Trentacinque (2017) di Vanity Fair, ufficialmente datato sei settembre, richiama l’epopea degli anni Sessanta, a partire dal film Blow-Up (di noia abissale), nel cinquantenario.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
In edicola all’inizio di settembre, il numero Trentacinque (2017) di Vanity Fair, datato ufficialmente sei settembre, ha celebrato il cinquantenario del film Blow-Up, uno dei più ricordati della storia del cinema, il più esaltato da coloro i quali frequentano la fotografia (fino a forme di pellegrinaggio emozionato: quale è stato quello compiuto da Guido Tosi sui luoghi londinesi del film [FOTOgraphia, febbraio 2016]). Ovviamente, anche noi, da queste pagine, abbiamo evocato più e più volte il film di Michelangelo Antonioni, del 1966 (ma altri datano 1967, da cui gli attuali cinquant’anni). Con l’occasione, e in anticipo sulla riflessione in cronaca, riferita all’edizione di Vanity Fair, ripetiamo considerazioni riguardo Blow-Up, promettendo -altresì- che questo cinquantenario concluda le nostre parole sul film. Detta meglio, forse: una volta ancora... poi basta! Non ne possiamo più: quindi, valutazioni definitive! (con una sola deroga, qui anticipata, per il riferimento cinematografico alla presenza Nikon in sceneggiature/scenografie, che stiamo per affrontare, in occasione del centenario Nikon / 1917-2017). Subito rilevato, non soltanto presto: a nostro giudizio personale, che qui ribadiamo, con il coraggio che ci è proprio, e che non ci fa temere di nuotare controcorrente, Blow-Up è un film di una noia mortale. Tra quanti ambiscono a ruoli primari, tra quanti si propongono alla Storia (quantomeno del cinema, quantomeno del costume sociale), è uno dei più brutti film che ci sia capitato di vedere. Comunque, ispirata al racconto Le bave del diavolo, di Julio Cortázar (nella raccolta di racconti Le armi segrete; Einaudi, 2008), sceneggiata dal regista con Tonino Guerra e Edward Bond, per quanto riguarda i dialoghi in inglese, la vicenda del fotografo di moda londinese che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «è una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti, Dizionario dei film; Baldini & Castoldi).
VANITY FAIR / CONDÉ NAST (2)
I
RITORNO AI SESSANTA
In ogni caso, oltre il nostro giudizio lapidario, rivista oggi, questa testimonianza sull’angoscia esistenziale contemporanea ha -francamente- perso un poco della propria sottigliezza originaria e ha smarrito per strada pure la persuasione dei primi giorni di proiezione. Anche se il film è considerato un capolavoro della cinematografia italiana, le schematizzazioni narrative sono precocemente appassite.
Cinquantenario (?)
Però, ai propri tempi, Blow-Up ottenne un grande successo, soprattutto relativamente ai contenuti più facili: nel clima della swinging London (una delle rievocazioni in forma monografica dell’attuale Vanity Fair / 35-2017), il fascino del presunto giovane fotografo di moda con Nikon F, circondato da incantevoli modelle, peraltro disponibili a rapidi rapporti sessuali (una giovanissima Jane Birkin, tra i fondali di car-
ta), avvicinato da donne affascinanti e altrettanto disinibite (per motivi propri, Jane / Vanessa Redgrave), in perenne movimento, al volante di una lussuosa Rolls-Royce cabriolet. Per una generazione, come anche per generazioni successive, è stata una autentica folgorazione. Avvolti dal racconto cinematografico, siamo stati anche ammaliati dalla presenza continua e costante di quella Nikon F (ac-
Gli anni Sessanta di Vanity Fair / 35-2017 sono avviati con un servizio fotografico firmato da David Montgomery, protagonista l’attore italiano Claudio Santamaria.
compagnata da Hasselblad 500C, coeva), che abbiamo osservato con intrepida commozione e partecipazione. Il resto, sarebbe arrivato dopo. Ancora, e ribadendo ancora quanto abbiamo già considerato in altre occasioni precedenti, Blow-Up ha espresso e manifestato una sceneggiatura discriminante nel percorso della rappresentazione della fotografia e del fotografo al cinema, argomento che abbiamo particolarmente caro e approfondito nei decenni, scrivendone parecchio, dibattendone in conferenze a tema e allestendo persino mostre di riferimento (sopra tutte, Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri e Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, entrambe curate a quattro mani con Filippo Rebuzzini, la cui passione per il cinema è sicuramente più concreta della mia [FOTOgraphia, dicembre 2006, maggio 2007 e novembre 2008]). Ovvero, Blow-Up rappresenta una linea di confine, uno spartiacque, sia della più generale vicenda cinematografica della fotografia, sia della raffigurazione del proprio mondo e dei propri personaggi: c’è un prima e c’è il dopo. All’indomani del film di Michelangelo Antonioni, in un tempo di grandi sommovimenti, ma di inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale. In definitiva, Blow-Up innescò una triviale escalation... nonostante il fatto che, all’alba del 1966 (rimaniamo alla datazione che consideriamo ufficiale), per la prima volta, il fotografo diventi protagonista liberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene anche al pubblico: ovverosia diventa interprete di una angoscia da mass-media. A conseguenza, Blow-Up va considerato discriminante anche per la semplificazione scenica, che ha finito per influenzare tanto brutto cinema. Dunque, alla sua rappresentazione va addebitata la linea divisoria tra una visione cinematografica della fotografia precedente e una seguente. In particolare, le va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia vizioso, che estende fino alle estreme conse-
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
VANITY FAIR / CONDÉ NAST
guenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi. E in tante occasioni, abbiamo protocollato titoli a testimonianza di questo [soprattutto, in FOTOgraphia, dell’aprile 2014].
VANITY FAIR A partire da Blow-Up, Vanity Fair del sei settembre ha scandito propri richiami a quel tempo e quella socialità, spalmando servizi di moda conseguenti su oltre cinquanta pagine (conteggi individuali: con o senza annunci pubblicitari). Dal richiamo esplicito al film, protagonista l’attore italiano Claudio Santamaria (1974; David di Donatello 2016 come miglior attore protagonista, per il film Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti), in un servizio firmato da David Montgomery, a riferimenti successivi e complementari, la rivista ha rivisitato gli anni Sessanta dei richiami più lievi e morbidi (niente Vietnam, tanto per intenderci; niente sommovimenti sociali, per supplemento). Comunque... moda in quanto tale e richiami storici per quanto serve e valga. Ottima regia! Talmente ben coordinata e realizzata da consentirci sostanziose annotazioni di merito e valutazione. In questo senso, il percorso è tutto nostro, è tutto riferito a quel contenitore statutario, la Fotografia, che per altri, per molti, per troppi, è Credo
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Ovviamente, il servizio portante e introduttivo di Vanity Fair / 35-2017 riprende e richiama sequenze del film Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, del 1966 (altrove, 1967, da cui l’attuale cinquantenario). Ce ne siamo accorti, ma non ci frega niente! Va bene così, indipendentemente da qualsivoglia ipotesi di Fede senza ragionamento, di Superstizione malefica: Rolleiflex invece di Nikon F... e tanto altro ancora. Purtroppo, oggigiorno, il tempo va come va. E non ci possiamo fare nulla. Se così non fosse, se da questo non dipendessimo, l’attuale successione editoriale di Vanity Fair avrebbe meritato la Storia.
e Fede. Così che, diciamola così, quando è intesa come Ideologia, la Fotografia perde i propri connotati esistenziali propri e caratteristici, per diventare qualcosa in cui riversare tensioni e ansie individuali. Così che, diciamola sempre così, quando è vissuta come Confessione (in forma religiosa), la stessa Fotografia smarrisce la propria personalità, per accontentare animosità, riottosità e tignosità personali. Anche in forma di Superstizione. No. La Fotografia non è mai sovrastruttura portante. La Fotografia non esiste per se stessa e propria Dottrina (Dogma?), ma è straordinaria infrastruttura a supporto, sostegno ed espressione visiva di altro: fotogiornalismo, fotografia di cerimonia, fotografia di moda, fotografia pubblicitaria... altro ancora. Proprio in questo risiede la sua fantastica forza e il suo invincibile valore: quindi, una volta assolti propri compiti istituzionali, la Fotografia può anche vivere personalità autonome, che ne definiscono l’espressività, creatività e individualità. Da cui, se ancora potessimo vivere in un mondo di riflessione, osservazione e considerazione (ma così non è più: ahinoi, oggi, tutto scorre in fretta e si consuma/brucia in un attimo fugace), questa rievocazione di Vanity Fair avrebbe il merito di essere stata edificata su una ammirevole regia fotografica, che, una volta assolto il proprio compito in cronaca, avrebbe po-
tuto consegnare alla Storia (anche solo della Fotografia) una quantità e qualità di immagini significative e sostanziali. Forse, addirittura necessarie (appunto in chiusura di intervento redazionale). Quindi, per accontentare coloro i quali sono istituzionalmente contro (e oggi, in tempi di parole soprattutto fasciste, dalla cronaca politica a quella di sport, senza alcuna soluzione di continuità, questo è ciò che accade), riveliamo di esserci accorti di qualche sbavatura compositiva nella ricostruzione di immagini a ispirazione: Rolleiflex invece di Nikon F, nella rievocazione di una delle icone del film (anche immagine-simbolo in locandina), Hasselblad 500C con obiettivi inadatti alla moda (e, comunque, diversi da quelli della scenografia di Blow-Up), esposimetro Minolta di identità sostanzialmente recente (improbabile negli anni Sessanta) e altro ancora. Così come ci siamo accorti, approvando!, che la copertina sia a fuoco soltanto sul soggetto Claudio Santamaria, con sfocatura (innaturale) dell’Hasselblad. Allora, sia chiarito e rivelato senza ritrosia: ce ne siamo accorti, ma non ci frega niente! Va bene così, indipendentemente da ipotesi di Fede senza ragionamento, da Superstizione malefica. Del resto, ricordiamolo persino qui, ci siamo anche accorti che nel film Closer, di Mike Nichols, del 2004, la fotografa Anna Cameron, interpretata da Julia Roberts, usa una Leica M7 per i ritratti ad Alice (Natalie Portman), che poi, in mostra, sono stampati quadrati, con cimosa di contorno (stile Hasselblad). Ancora: ce ne siamo accorti, ma non ci frega niente. Un conto è la Vita, un altro, il cinema (all’interno delle cui sceneggiature, i protagonisti trovano sempre quel parcheggio per l’auto, impossibile nella realtà). Conclusione: oggigiorno, il tempo va come va. E non ci possiamo fare nulla. Se così non fosse, questa fantastica successione di Vanity Fair / 35-2017 avrebbe composto avvincenti e convincenti tratti di Storia della Fotografia. Così come, in infrastruttura lecita e caratteristica, tutte le fotografie che celebriamo hanno avuto origine utilitaristica e contingente: da Dovima con gli elefanti, di Richard Avedon, ai freak, di Diane Arbus; dall’America nella depressione, di Walker Evans, a molti dei cani di Elliott Erwitt. Così è. ❖
Andare per mostre di Angelo Galantini
ANCORA... CON I BEATLES
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TIZIANA CALVIA
Probabilmente, è andata in questo modo, e così ci piace crederla; del resto, una delle bellezze della vita è proprio questa: ognuno se la può raccontare come vuole, e -perfinocrederci. Ovvero, osiamo teorizzare che il padovano Alcide Boaretto -già ospitato su queste stesse pagine in relazione alla sua frequentazione dei festival del cinema [FOTOgraphia, del febbraio 2014 e settembre 2016]abbia visitato e fotografato l’allestimento scenico della mostra Astrid Kirchherr with the Beatles, al bolognese Palazzo Fava, fino al nove ottobre, a seguito del nostro intervento redazionale di presentazione, commento e approfondimento, pubblicato sullo scorso numero di luglio. Così, in fede e rispetto a una intensa emotività tecnica, che lo porta a collegare la propria fotografia anche alla mediazione tecnologica convinta e consapevole, Alcide Boaretto è stato a Bologna con una dotazione fotografica particolare. Qui, ottenuto di agire a saloni vuoti, fuori orario per il pubblico, ha fotografato con il recente AF-S Fisheye Nikkor 8-15mm f/3,5-4,5E ED, so-
Fuori orario, rispetto le aperture ufficiali della mostra Astrid Kirchherr with the Beatles, al Palazzo Fava, di Bologna [ FOTOgraphia, luglio 2017]), Alcide Boaretto in posa davanti all’immagine-simbolo dell’allestimento, anche in copertina del volume-catalogo. Alla mostra di Palazzo Fava, a Bologna, Alcide Boaretto ha fotografato con il recente AF-S Fisheye Nikkor 8-15mm f/3,5-4,5E ED, via via selezionato a visione tonda o a copertura completa di fotogramma.
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stanziosa novità commerciale. Non solo con questo obiettivo, sia chiarito subito, non soltanto presto, ma soprattutto con la composizione fisheye... sulla quale concentriamo e limitiamo la nostra attuale attenzione. Liquidiamo la questione tecnica, menzionando soltanto che l’AF-S Fisheye Nikkor 8-15mm f/3,5-4,5E ED è giusto ciò che afferma di essere: un fisheye da centottanta a centosettantacinque gradi di angolo di campo (da 180 a 175 gradi in pieno formato FX; da 180 a 110 gradi con reflex Nikon DX), e visione tonda completa al centro del fotogramma alle focali inferiori, che diventa inquadratura/composizione a fotogramma pieno alle focali superiori, con coincidente non utilizzo del paraluce a petali, in dotazione. Per dovere, registriamo anche e ancora la messa a fuoco da sedici centimetri, a ogni selezione focale, e la scala di diaframmi che chiude fino a f/22-29. Risolto questo, avviamo considerazioni sulla affascinante documentazione di Alcide Boaretto, che qui presentiamo in quantità assolutamente limitata rispetto la serie completa di quasi cento immagini. Per nostra considerazione mirata, questa serie va accreditata nell’appassionante e coinvolgente ambito di quella che siamo soliti identificare (e definire) come fotografia dell’anima: intensa partecipazione a una vicenda altrui, reinterpretata con partecipazione. Già! Fotografia dell’anima. Fotografo non professionista, dunque svincolato da qualsivoglia legame, magari in costrizione d’indole, Alcide Boaretto partecipa e ingrossa quel consistente contenitore entro il quale si esprimono autori che osservano la vita nel proprio svolgersi, registrandola con intensa partecipazione: capitolo sostanzioso e sostanziale del racconto fotografico... qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi. È questo lo scopo primario, e forse unico, della sua fotografia, ricca e definita da momenti di riflessione personale e realizzata con intenzioni, definiamole così, più intime, decisamente e volontariamente interiori. Dunque, una fotografia non mediata
Lo scopo primario, forse unico, della fotografia di Alcide Boaretto, definita da momenti di riflessione personale e realizzata con intenzioni intime, è quello di partecipare al racconto fotografico. Qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi.
ALCIDE BOARETTO (4)
da interferenze artificiose, che si offre e propone a una visione diretta, stabilita da un collegamento rettilineo e guidato tra autore e osservatore: per esempio, in questa serie riservata a un allestimento scenico (della fotografia, di altra fotografia che non la sua), seducente e intrigante allo stesso momento. Così che si realizza una fotografia dell’anima, che sollecita osservazioni, che dalla propria superficie apparente si proiettano in altri ambiti del pensiero e della riflessione individuale, che l’autore richiama e alla quale l’autore invita. Se serve un parallelo con la parola, scritta o detta, è presto fatto: da una parte c’è la cronaca diretta dei fatti, dall’altra la poesia delle evocazioni. Per quanto uno degli aspetti della Fotografia, magari quello fondante, sia quello di evocare oltre ciò che deve (necessariamente) raffigurare, dobbiamo allinearci all’idea sovrastante di poesia, senza timore nell’uso dei termini. Infatti, dalla poesia ci si aspetta che il flusso di informazioni e le strutture di riferimento siano anche oscure, diverse da quelle della lingua (fotografica) di ogni giorno. Qui, però, tra le sale dell’allestimento scenico della selezione Astrid Kirchherr with the Beatles, la lingua di Alcide Boaretto è quella di ogni giorno... ma in una cadenza scartata a lato rispetto la consuetudine (nel sottile, delicato, raffinato, ma inviolabile, rapporto tra tecnica e creatività, là dove la tecnica influisce sul lessico, è doveroso sottolineare la cadenza fisheye, voluta e consapevole). Ciò a dire che nessuna delle fotografie che Alcide Boaretto ha cadenzato nel proprio percorso intimo, che condivide con gli osservatori, cui si rivolge e con i quali si sintonizza, è esattamente ciò che raffigura. La rappresentazione passa attraverso visioni sostanzialmente concrete, perché questo è il linguaggio della fotografia, ma non coincide con la propria raffigurazione. Ovvero, con esempi diretti, non si tratta di valutare una sala piuttosto di un’altra, e neppure l’accostamento in sequenza visiva delle stampe alla parete; neppure i soggetti lì visualizzati sono soltanto se stessi; così come non lo è tutta la costruzione fotografica di questa fantastica mostra (oltre la messa in pagina della monografia-catalogo coincidente, che stabilisce un altro passo, un proprio passo autonomo [FOTOgraphia, luglio 2017]).
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ALCIDE BOARETTO (6)
Andare per mostre
Quindi, proseguendo nell’approfondimento delle apparenze, è significativa una certa costante riproposizione di composizioni/inquadrature fisheye. Ma! Ma, comunque, sia nella propria completezza, sia nella nostra odierna sintesi giornalistica, nessuna fotografia è significativa in quanto tale, se non considerata e inclusa in un discorso complessivo e concluso: ognuna è il verso di una poesia, che si svolge istante dopo istante davanti ai nostri occhi, in continuità di intenti.
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Alla ricerca di qualcosa che lui sa bene e conosce, Alcide Boaretto si è espresso come fotografo, isolando visioni, creando visioni, proponendo visioni. Recandosi di persona nello stesso luogo, Palazzo Fava, di Bologna, nessuno pensi di poter rintracciare le situazioni prese a pretesto e rivederle nello stesso modo. Nessuna di queste fotografie è della realtà, ma tutte prendono spunto da una realtà individuata e codificata per comunicare qualcosa d’altro.
In apparenza formale, la visita fotografica di Alcide Boaretto alla mostra Astrid Kirchherr with the Beatles è scandita da una costante proposizione di composizioni e inquadrature fisheye. In apparenza... soltanto.
Del resto, come sappiamo, l’attività principale di ciascuno di noi rappresenta anche la chiave attraverso la quale ognuno osserva la vita, appunto ricondotta attraverso parametri individuali: l’artista proietta, poi, la propria individualità all’esterno, concedendola. Quindi, come ogni fotografo, Alcide Boaretto non è tale soltanto nei tempi stabiliti dallo svolgimento pratico, ma lo è, tout court, in ogni istante della propria vita, a ogni passo del proprio cammino. ❖ Approccio indispensabile.
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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RICHIAMI DAL VERO
Sui titoli di testa del film Occhio indiscreto, di Howard Franklin (The Public Eye; Usa, 1992), scorrono fotografie di vita e cronaca newyorkesi degli anni Trenta e Quaranta. Alla fine del film, sui doverosi titoli di coda, densi di specifiche e attribuzioni, queste fotografie sono creditate. Non nel singolo specifico, quanto -in certificazione più ampia- sono annotati gli autori di tutte le fotografie che compaiono nella scenografia: sia a contorno, come quelle appena richiamate, sia in riferimento al fotografo-protagonista, che è poi il fotocronista di nera Leon Bernstein (Bernzy o Grande Bernzini), magistralmente interpretato da Joe Pesci, con dichiarata ispirazione a Weegee [tanti e ripetuti nostri richiami precedenti, sia in riferimento al film, sia in accostamento allo stesso Weegee, sia per paralleli individuati con il regista Stanley Kubrick]. Le fotografie complementari a Occhio indiscreto sono certificate a Wilbert H. Blanche, Irving Haberman, Mickey Pallas, Roger Smith, Ben Gloiss, Lisette Model, Ray Platnick, Charles Steinheimer e, ovviamente, Weegee. Nel proprio insieme, sono state tutte finalizzate a complementi scenografici, piuttosto che a supporti in sceneggiatura/scenografia. Comunque sia, per quanto ci interessa oggi, e qui, sono tutte fotografie reali, contestualizzate nella fantasia consapevole del racconto. A questo proposito, quindi, ci siamo fatti tornare alla mente altri casi di situazioni cinematografiche con richiamo alla realtà della fotografia che a noi interessa, sia d’autore sia in consecuzione di propria storia. I casi sono tanti, più di quanti stiamo per evocare, e l’appello è sempre di profilo alto, quantomeno in relazione della vicenda alla quale offrono sostegno e supporto. Affrontiamone qualcuno. Anzitutto, rimandiamo allo scorso luglio 2016, quando, evocammo la personalità sportiva e sociale di Muhammad Ali, mancato il precedente tre giugno, riprendendo i termini e connotati della straordinaria monografia illustrata, pubblicata da Taschen Verlag, nel 2010: per l’appunto, Greatest of All Time - A Tribute to Muham-
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I titoli di testa del film Occhio indiscreto, di Howard Franklin ( The Public Eye; 1992), si accompagnano con fotografie di vita e cronaca newyorkesi degli anni Trenta e Quaranta. Analogamente, e in scenografia, nel corso del film, vengono visualizzate altre fotografie autentiche, che appartengono alla Storia, oltre le rispettive origini in cronaca. Alla fine del film, tutte queste fotografie sono certificate e attribuite a Wilbert H. Blanche, Irving Haberman, Mickey Pallas, Roger Smith, Ben Gloiss, Lisette Model, Ray Platnick, Charles Steinheimer e, ovviamente, Weegee, alla cui personalità si ispira il personaggio principale del fotocronista Leon Bernstein (Bernzy o Grande Bernzini), magistralmente interpretato dall’attore Joe Pesci.
Cinema Sequel della sceneggiatura originaria, del 2006, ambientata al Museo di Storia Naturale, di New York, il film Una notte al museo 2 - La fuga, di Shawn Levy, del 2009, sposta la vicenda allo Smithsonian, di Washington. L’ipotesi di fondo è replicata: di notte, le opere in esposizione prendono vita. In questo secondo caso, con intenzioni pericolose di presa del Potere. Il protagonista Larry Daley, interpretato dall’attore Ben Stiller, contrasta la ribellione, aiutato da un personaggio storico della cultura americana, l’aviatrice Amelia Earhart (interpretata dall’attrice Amy Adams). Per quanto la vicenda generale del film non riguardi il nostro punto di vista privilegiato, oltre che viziato, estraiamo dalla sceneggiatura / scenografia l’apprezzata citazione di una fotografia storica, addirittura un’icona: Il giorno della vittoria, di Alfred Eisenstaedt, del 14 agosto 1945, uno dei baci più famosi della storia della fotografia, trasmigrato nella società e nel costume. I protagonisti del film si rifugiano nella fotografia, entrando a far parte della situazione. In quei fantastici ed euforici momenti in Times Square, a New York, di festeggiamenti per la fine della Seconda guerra mondiale, Larry Daley si sostituisce al marinaio originario.
mad Ali. A integrazione, per così dire, accanto al Sommario, nell’area redazionale Prima di cominciare, ribadimmo ancora, e una volta di più, il valore della fotografia di copertina, realizzata da Neil Leifer: knock out con il quale Muhammad Ali ha sconfitto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, il 25 maggio 1965. Facendolo, proponemmo un’altra fotografia (bianconero) dello stesso momento, di John Rooney, che compare nella scenografia della serie televisiva Ncis - Unità anticrimine, nell’arredamento dell’ufficio del direttore Leon Vance, interpretato dall’attore Rocky Carroll.
CHE BACIO! Poi, sempre in tono leggero, non possiamo non ricordare ancora la scenografia/sceneggiatura (forse) della commedia statunitense Una notte al museo 2 - La fuga, sequel del film originario, del 2006, senza conteggio aritmetico, né specifica supplementare, di Shawn Levy, del 2009 (Night at the Museum: Battle of the Smithsonian [FOTOgraphia, novembre 2011]). Va rilevato che la seconda vicenda sposta l’azione da New York a Washington, dal Museum of Natural History allo Smithsonian, dichiarato nel titolo statunitense. Protagonista è ancora Larry Daley, interpretato dall’apprezzato attore Ben Stiller, che nel 2013 ha diretto e interpretato I sogni segreti di Walter Mitty, il cui alto tasso fotografico, in riferimento all’edizione giornalistica di Life, è stato ampiamente sottolineato sulle nostre pagine [da punti di vista alternati, in FOTOgraphia, del maggio, giugno e dicembre 2014]. A Washington, Larry Daley non è più custode notturno, come fu all’interno del newyorkese Museo di Storia Naturale, ma è chiamato a contrastare una pericolosa ribellione di personaggi storici in parata, alleati per conquistare il fatidico Potere (senza alcuna soluzione temporale di continuità, cattivi di ogni epoca: dall’antico Egitto ai gangster del primo Novecento). Ovviamente, come sempre accade, non ci occupiamo della sceneggiatura cinematografica, se non per definire i confini dell’azione, che sottolineiamo in merito e dipendenza della propria consueta componente fotografica: in questo caso, nell’ambito di fotografie note e riconosciute riprese dalla realtà. Soltanto, e per comprensione, rilevia-
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E. J. BELLOCQ
Cinema
mo che la sceneggiatura si basa sul fatto che, di notte, i personaggi del museo si animano e vivono un’esistenza propria, fuoriuscendo dai quadri e dalle ricostruzioni storiche, piuttosto che agendo come sculture animate. Quindi, sottolineiamo la sostanziosa differenza tra le situazioni dei due film: mentre la notte del Museum of Natural History, di New York, è soltanto vivacità e fervore di vita, allo Smithsonian, una certa comunione di intenti e una pericolosa alleanza trasversale è finalizzata alla malefica conquista del mondo. Da cui e per cui, Larry Daley (Ben Stiller) è chiamato all’inevitabile e immancabile salvataggio, a suon di scossoni e fragori. In tutto questo, si registra l’affascinante e seducente animazione di opere che non appartengono soltanto alla storia culturale e sociale statunitense, al cui interno peraltro nascono, ma si sono proiettate nella cultura universale, prepotente bagaglio dei nostri tempi. Ovviamente, c’è qualcosa di fotografico che ha richiamato la nostra attenzione mirata e consapevole.
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Per certi versi, nessuno dei quali è autenticamente “storico”, il film Pretty Baby, di Louis Malle, del 1978, è una sorta di biografia del fotografo Ernest James Bellocq (o John Ernest Joseph Bellocq, 1873-1949). Nel film, si segnalano allineamenti con le fotografie note e riconosciute del controverso autore [ FOTOgraphia, febbraio 2012]. Keith Carradine interpreta E. J. Bellocq, Susan Sarandon, la prostituta Hattie, l’esordiente Brooke Shield, la piccola Violet.
L’allineamento fotografico del film Una notte al museo 2 - La fuga chiama in causa addirittura una delle leggendarie icone della stessa fotografia; tanto tale, “icona”, da essere riportata sulla copertina dell’autorevole e potente casellario 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti, di Hans-Michael Koetzle [FOTOgraphia, settembre 2011]. Ovviamente, stiamo evocando (ma lo ha fatto il film, e noi in rimando e commento) Il giorno della vittoria, di Alfred Eisenstaedt, del 14 agosto 1945: uno dei baci più famosi della storia della fotografia, trasmigrato nella società e nel costume. La guerra è finita. Si lascia alle spalle un incubo. L’animazione è dettagliata e avvincente; addirittura, il protagonista Larry Daley (Ben Stiller) entra nell’immagine, per vivere in proprio e in diretta quei fantastici ed euforici momenti in Times Square, a New York, di festeggiamenti spontanei per la fine della Seconda guerra mondiale. Ovviamente, non è solo, ma in compagnia dell’inevitabile comprimaria femminile d’occasione, necessaria a ogni sceneggiatura ci-
nematografica che si rispetti. In questo caso, la citazione è còlta e storica. Insieme con il protagonista agisce Amelia Earhart (interpretata dall’attrice Amy Adams), una delle figure storiche che si animano e prendono vita durante la notte (al Museo). [Una digressione. Poco nota al di fuori dei confini statunitensi, Amelia Earhart è stata una aviatrice da leggenda, che ha stabilito numerosi record di volo: prima donna ad attraversare l’oceano Atlantico (17 giugno 1928); prima trasvolata femminile in solitaria, da Terranova a Londonderry, nell’Irlanda del Nord (1937; in assoluto, seconda solo a Charles Lindbergh); prima donna a compiere il giro del mondo in aereo (1937)... e altro ancora]. Tornando in cronaca, in Una notte al museo 2 - La fuga, Larry Daley e Amelia Earhart vengono assaliti da un agguerrito gruppo di antichi guerrieri egiziani, che li attaccano lance in resta. La prima e unica difesa che il protagonista riesce a individuare, lì a portata di mano, è il forcone originariamente impugnato dall’agricoltore dipinto in American Go-
RIFERIMENTI OBBLIGATI Ovviamente, quando il film rievoca esplicitamente un momento o una personalità fotografica, è inevitabile che attinga dal reale: tra i tanti possibili, tre casi, per concludere, ognuno significativo di una condizione specifica. Sostanziosamente film-biografia, Pretty Baby, di Louis Malle, del 1978, racconta la vicenda fotografica di Ernest James Bellocq (o John Ernest Joseph Bellocq, 1873-1949) [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del dicembre 2005; il film, in FOTOgraphia, del febbraio 2010]: totalmente sconosciuto in vita, deve la propria acquisita notorietà a Lee Friedlander, celebrato fotografo statunitense, illustre personaggio della Storia, che ha illuminato sia con le sue visioni, sia con scoperte di autori altrimenti ignorati, come è giusto il caso di Bellocq [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del settembre 2013; la serie America by Car, in FOTOgraphia, del dicembre 2011]. Ricordiamolo: Lee Friedlander ha individuato il lavoro fotografico di E. J. Bellocq, e nel 1966 ha acquistato ottantanove lastre in vetro di suoi ritratti di prostitute di New Orleans, città nella quale è sempre vissuto Bellocq, datati al 1912 circa [FOTOgraphia, febbraio 2012, nel centenario]. Con quelle immagini, ha allestito una imponente retrospettiva, intitolata Storyville Portraits, dal nome del quartiere a luce rossa dove i ritratti furono realizzati, esposta
al Museum of Modern Art, di New York (MoMA), nel 1970. A seguire, nel 1996, il londinese Jonathan Cape ha pubblicato una raffinata edizione Bellocq (Photographs from Storyville, the Red Light District of New Orleans), formalmente più preziosa del volume originario: confezione cartonata con sovraccoperta, che certifica anche il valore formale della monografia. Quindi, in tempi recenti, all’inizio del 2009, Abscondita ha realizzato l’edizione italiana di Storyville Portraits, di E. J. Bellocq, derivata da questa inglese: cinquantadue fotografie (contro le trentaquattro pubblicate dal MoMA), prefazione di Lee Friedlander (del 1970), nota di John Szarkowski, discussione a sette, con Lee Friedlander a fare da moderatore e approfondita introduzione di Susan Sontag, scritta proprio per l’edizione inglese appena ricordata. La vicenda di Pretty Baby è ambientata, appunto, a Storyville, quartiere a luce rossa di New Orleans; e tutto ruota attorno la figura di una dodicenne Brooke Shields (Violet), la cui inconsistenza recitativa è seconda solo alla povertà del film. Più efficace è la presenza sullo schermo di Susan Sarandon, che interpreta una delle prostitute che vengono fotografate da un evanescente Bellocq: interpretato da un Keith Carradine uguale a se stesso (come sempre), ma questa volta in ordine con le esigenze di copione, al quale è servita una figura eterea che facesse da spalla alla ragazzina offerta al voyeurismo popolare. Per quanto le fotografie originali di E. J. Bellocq siano risultate utili alla scenografia, bisogna annotare che la sceneggiatura di Pretty Baby, firmata da Polly Platt, ha maggiori debiti di riconoscenza con le Memorie di una maîtresse americana, di Nell Kimball (pubblicate in Italia da Adelphi). I dialoghi del film e il sapore che condisce tutte le piccole storie di casino sembrano uscire direttamente dalle pagine del libro.
CON GANDHI Quindi, proseguendo, una presenza realistica particolare è quella di Margaret Bourke-White, che compare nel film Gandhi, di Richard Attenborough (Gran Bretagna, 1982), nell’interpretazione di Candice Bergen. L’episodio visualizzato nel film è storico. Nel 1946, due anni prima del suo assassinio, quando il Mahatma aveva attirato l’attenzione inter-
MARGARET BOURKE-WHITE / LIFE
thic, di Grant Wood, del 1930, altra icona della storia culturale statunitense, altro soggetto consistentemente parodiato (olio su tela, 74,3x62,4cm). Avvicinatosi al quadro, Larry Daley strappa il forcone dalle mani dell’attonito agricoltore, e affronta i guerrieri, in formazione attorno a lui e alla sua audace e coraggiosa compagna d’avventura. Quindi, entrambi chiusi in un angolo, i due protagonisti trovano una via di fuga entrando nella celebre fotografia di Alfred Eisenstaedt, appesa lì alla parete. Improvvisamente, si trovano in Times Square (e in bianconero), accanto alla folla festante. Ma, soprattutto, nei pressi del marinaio e della crocerossina che si stanno scambiando l’appassionante bacio passato alla Storia (non soltanto della fotografia). La tentazione è forte, addirittura irresistibile: Larry Daley (Ben Stiller) allontana il marinaio, e bacia a propria volta la crocerossina!
Nel film Gandhi, del regista Richard Attenborough, del 1982, è sceneggiato l’incontro del Mahatma con la fotografa di Life Margaret Bourke-White (interpretata dall’attrice Candice Bergen), che realizzò l’icona con un arcolaio in primo piano.
nazionale, la reporter statunitense fu inviata in India da Life. Celeberrimo è il ritratto con l’arcolaio compreso nell’inquadratura orizzontale. Quell’incontro è ben descritto nella biografia della fotografa, scritta da Vicki Goldberg (pubblicata in Italia da Serra e Riva Editori). Leggiamo un estratto a noi congeniale:«[Gandhi] Non prestò alcuna attenzione alla fotografa che aveva interrotto la sua ora di lettura, e Margaret gliene fu grata, perché la nuda stanza era molto buia. L’unica finestra, in alto sulla parete, gettava raggi di luce direttamente nella sua macchina rendendole assai disagevole il compito, a meno di complicate manovre. «Non appena Gandhi prese a filare, Margaret usò uno dei suoi tre flash. Ma il lampo venne ritardato dal caldo umido che anche in seguito, in India, rischiò sovente di sabotare i suoi sforzi. Non rimanendole che due soli flash, Margaret decise di usare la macchina con il treppiedi. Anche quest’ultimo, tuttavia, si rifiutò di collaborare: una gamba si bloccò all’altezza minima e un’altra alla massima. Dopo
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JOE ROSENTHAL / ASSOCIATED PRESS
Cinema
aver controllato attentamente il secondo flash, Margaret scattò a questo punto un’altra istantanea. Funzionò tutto a meraviglia. Solo che aveva scordato di caricare la macchina. Fortunatamente, l’ultima fotografia riuscì. «Da questo incubo di inconvenienti uscì una fotografia che fu in seguito riprodotta innumerevoli volte. «La silhouette dell’arcolaio in primo piano occupa tutta la metà sinistra dell’immagine. Leggermente più indietro siede il Mahatma, concentratissimo nello studio di certe carte che ha in grembo. Il capo chino nella lettura, Gandhi appare come soffuso nella luce che proviene direttamente dalla finestra. «Margaret aveva composto l’icona di un santo laico, umile, meditativo, inondato di luce, e accompagnato dal simbolico arcolaio proprio come i santi sono rappresentati con i loro emblemi». Ed è quello che accade nel film.
QUELLA BANDIERA Infine, è inevitabile il richiamo alla bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima, il 23
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Titolo esplicito: Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006, è sceneggiatura della celebre fotografia di Joe Rosenthal, della bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945. Nel film, il fotografo dell’Associated Press è interpretato da Ned Eisenberg.
febbraio 1945. La vicenda è materia unica dell’eccellente film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006. Fotografato da Joe(seph) Rosenthal, dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e un’icona per l’eroismo americano. E qui, e ora, non entriamo nel merito della vicenda dell’autentica bandiera, issata prima di questa, che abbiamo affrontato nel luglio 2007. Flags of Our Fathers è stato sceneggiato da Paul Haggis, che ha firmato anche l’apprezzato e pluripremiato Million Dollar Baby, sulla base dell’originario romanzo omonimo di James Bradley: una biografia dei sei uomini nella fotografia di Joe Rosenthal, della quale è coautore il figlio di uno di loro, che, nel 2000, è arrivata al vertice delle classifiche librarie del New York Times, nella categoria dei saggi Nel film, il leggendario Joe Rosenthal ha il volto dell’attore Ned Eisenberg, che gli assomiglia molto. Con l’occasione, ricordiamo che prima di Flags of Our Fathers, di Clint
Eastwood, la vicenda della fotografia epocale di Joe Rosenthal arrivò al cinema nel 1961: The Outsider, del regista Delbert Mann, che in Italia è stato trasformato in Il sesto eroe. In breve, si racconta la storia (reale? inventata? interpretata?) di Ira Hamilton Hayes (l’attore Tony Curtis), elevato a eroe nazionale per aver issato la bandiera sul monte Suribachi (dunque si parla di uno dei sei marine della fotografia, generalmente riferita all’isola di Iwo Jima). Frastornato da tanta attenzione, Ira Hayes diventa alcolizzato, e poi trova la forza di uscire dal tunnel. Ancora a complemento, va segnalato che Clint Eastwood ha girato due film simultaneamente. Oltre la conquista di Iwo Jima, ha raccontato la difesa dell’isola dal punto di vista dell’esercito giapponese. Film di spessore, film straordinario, film epocale, Lettere da Iwo Jima è stato sceneggiato sulla base delle memorie del generale Tadamichi Kuribayashi, comandante in capo a Iwo Jima, dove fu colpito a morte il 26 marzo 1945. E questo è quanto. ❖
di Antonio Bordoni
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iferiamoci alla fine del Novecento, quanto la fotografia grande formato a corpi mobili -della quale, da tempo, stiamo promuovendo un avvincente Ritorno (invitando in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza»: in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen)ha raggiunto il proprio apice assoluto: sia tecnologico, sia di applicazione professionale. Quindi, riflettendo sul centenario Nikon, conteggiato dal 1917 di origine, registriamo che cinque autorevoli e qualificate famiglie ottiche Nikkor hanno offerto ben ventisei disegni finalizzati alla fotografia grande formato, con apparecchi a corpi mobili per esposizioni dal 4x5 pollici all’8x10 pollici, a banco ottico oppure folding (dal 10,2x12,7cm al 20,4x25,4cm... e, anche, oltre). Senza alcuna soluzione di continuità, e con particolare consapevolezza fotografica, coltivata e maturata a stretto contatto con le esigenze dell’impegno professionale, Nikon ha affrontato e risolto in maniera magistrale ogni applicazione e ogni necessità esplicita del grande formato fotografico, territorio di alto valore tecnico, al quale approdò anche sulla base delle proprie esperienze in arti grafiche (Apo-Nikkor di grande valore qualitativo) e nell’ingrandimento in camera oscura (prestigiosa gamma EL-Nikkor).
Nel corso della propria interpretazione ottica per la fotografia, Nikon ha perfino superato il riferimento privilegiato e principale del formato di ripresa 24x36mm delle sue note e riconosciute reflex (con precedente punto di partenza nelle configurazioni originarie a telemetro [FOTOgraphia, settembre 2017]). Nell’ambito delle riflessioni sul centenario 1917-2017, accenniamo qui al sistema ottico per la reflex monobiettivo Zenza Bronica 6x6cm, degli anni Sessanta/Settanta, e approfondiamo la luminosa e nobile stagione della fotografia grande formato, con apparecchi a corpi mobili per esposizioni dal 4x5 pollici all’8x10 pollici (10,2x12,7cm e 20,4x25,4cm), a banco ottico piuttosto che folding. Questo comparto è stato animato anche da avvincenti famiglie di obiettivi Nikkor, che hanno imposto sia l’alta qualità delle proprie discriminanti tecniche, sia la lunga ombra di una produzione leader nel mondo della fotografia professionale. Eccoci qui 26
MAURIZIO REBUZZINI
Raffigurazione simbolica della gamma di obiettivi Nikkor per grande formato, collocati su piastre porta ottica di riferimento tecnico-commerciale della metà degli anni Ottanta del Novecento. Si riconoscono piastre Deardorff, Sinar, Cambo, Horseman, Linhof Technika e Tachihara (poi, sul retro di copertina della guida Nikon grande formato, di destinazione originaria, della quale riferiamo a pagina 29, Toyo e Linhof a banco ottico).
ANCHE IN GRANDE
Soprattutto a causa della discrezione dei propri termini identificatori, c’è stato un tempo nel quale la merceologia del grande formato fotografico è potuta anche apparire tecnologicamente immobile. Se ciò è avvenuto, si è trattato di una impressione sbagliata, determinata dal fatto che la sua effettiva tecnologia applicata si è manifestata con connotati misurati, esteriormente assai diversi rispetto l’evidenza propria delle molteplici funzioni di uso, solitamente identificata come “tecnologia” di richiamo e attinenza. In realtà, come spesso annotato su queste pagine, anche in tempi recenti, con il passo di un Ritorno al grande formato, suggerito e sollecitato, nel riferimento alla ripresa fotografica in grande formato, con apparecchi a corpi mobili, il concetto stesso di tecnologia è semplicemente scartato a
lato rispetto relazioni e rapporti altrove consolidati. Cioè, non si è trattato tanto di ragionare nei termini di integrazione fotografica con funzioni controllate e dirette elettronicamente, quanto, più genuinamente, di valutare l’efficienza delle prestazioni ottiche collegate all’adeguato movimento dei piani principali dell’apparecchio, rispettivamente utilizzati per il controllo prospettico del soggetto inquadrato e l’estensione ottimale della sua nitidezza [riferimenti recenti, in FOTOgraphia, del dicembre 2016 e novembre 2015]. Per cui, è sempre stato fondamentale riferirsi esattamente all’elemento effettivamente discriminante, che condiziona ogni altra funzione operativa d’uso: la tecnologia ottica della progettazione e costruzione degli obiettivi per fotografia grande formato.
Le cinque famiglie ottiche Nikkor per grande formato, qui rappresentate da una focale ciascuna: Nikkor-SW, grandangolari da 105-106 gradi di angolo di campo nominale (sei focali; qui SW 150mm f/8); Nikkor-W, standard da 69-73 gradi di angolo di campo nominale (otto focali; qui W 240mm f/5,6); Nikkor-M, standard semplificati da 52-57 gradi di angolo di campo nominale (tre focali; qui M 200mm f/8); Nikkor-AM ED, macro per fotografia 1:1, al naturale (due focali; qui AM ED 120mm f/5,6); Nikkor-T ED, teleobiettivi da 15-33 gradi di angolo di campo nominale (sette focali; qui T ED 600mm f/9). In tutto, ventisei obiettivi.
ANTONIO BORDONI (4)
Parola d’ordine inviolabile: massima qualità della ripresa fotografica grande formato, anche in condizioni estreme. Da cui, per la migliore correzione delle aberrazioni cromatiche proprie degli schemi di focali molto lunghe o di obiettivi utilizzati in condizioni particolari, Nikon ha ideato la combinazione ottica con lenti realizzate in cristallo ottico ED a basso indice di dispersione (Extra-low Dispersion). Ai tempi ampiamente adottata nella progettazione e costruzione dei teleobiettivi Nikkor luminosi per fotografia 24x36mm, per quanto riguarda la fotografia grande formato, questa soluzione è stata applicata ai macro Nikkor-AM ED e teleobiettivi Nikkor-T ED. Assieme al trattamento integrale antiriflessi Nikon NIC, le lenti in vetro a basso indice di dispersione garantiscono immagini di eccezionale nitidezza, esenti da aloni o riflessi. Sulla montatura degli obiettivi, la tecnologia ottica ED è certificata da una bordatura dorata in prossimità dell’incisione dei valori identificatori dello stesso obiettivo Nikkor.
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fotografici decisamente rinnovati. Anzitutto, questi obiettivi Nikkor sono caratterizzati da prestazioni ottimali a tutte le aperture del diaframma, fin dalla propria massima apertura relativa; e poi, gli stessi obiettivi sono anche qualificati da cerchi immagine di diametro abbondante e generoso ai medesimi più alti valori di diaframma (senza necessariamente dipendere dalla regolazione al fatidico valore di f/22, essenziale alle altre produzioni). In secondo luogo, nessun obiettivo Nikkor per grande formato, qualsiasi sia il proprio angolo di campo, segnala perdite di luminosità tra centro e bordi dell’intera proiezione sul piano focale. Ciò a dire che i grandangolari estremi Nikkor-SW, da 105-106 gradi di angolo di campo nominale, non necessitano dei consueti filtri a densità concentrica
SINGOLARITÀ NIKKOR
Ciò precisato, va sottolineato come la gamma di obiettivi Nikkor per grande formato abbia sempre potuto vantare una caratteristica di fondo assolutamente unica, che ha distinto e qualificato le sue interpretazioni e soluzioni all’interno di una merceologia altrimenti contrassegnata da progetti ottici antichi. A differenza dei quali, le famiglie Nikkor per fotografia grande formato sono state concepite con calcoli ottici di attualità temporale (anni Ottanta del Novecento); inoltre, la struttura degli stessi obiettivi Nikkor per grande formato è dipesa anche dalla vasta esperienza Nikon maturata nella progettazione e costruzione di obiettivi intercambiabili per le sue reflex 24x36mm. In assoluto, l’efficacia del progetto ottico Nikkor per grande formato si manifesta attraverso risultati
Disegni ottici moderni, i grandangolari Nikkor-SW, con apertura relativa f/4 e f/4,5 o f/8, raggiungono la visione di 105-106 gradi di angolo di campo nominale, con distribuzione ottimale della luminosità su tutta la proiezione (immagine), anche senza il filtro grigio a densità concentrica variabile, altrove indispensabile.
SINTESI ACCURATA
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Nella seconda metà degli anni Ottanta del Novecento, quando e per quanto la fotografia grande formato a corpi mobili stava esprimendo una personalità brillante e diffusa, soprattutto in ambito professionale, il distributore Nital commissionò una guida all’uso positivo e consistente degli obiettivi dedicati. In Nikon grande formato (qui, in immagine continua, dalla prima alla quarta di copertina), la trattazione generale e “oggettiva” si accompagnò con complementi specificamente riferiti alla gamma Nikkor: in cinque famiglie ottiche, per ventisei obiettivi. Come recita l’incipit di presentazione e prologo, si configurò una «Analisi conoscitiva del rapporto tra gli obiettivi Nikkor per fotografia in grande formato e gli apparecchi a corpi mobili». Compilata da Maurizio Rebuzzini, in anticipo sull’edizione giornalistica di FOTOgraphia, che pubblica e dirige dal maggio 1994, questa guida di cinquantadue pagine 21,5x28,5cm, ampiamente illustrata e doverosamente dettagliata, è oggi assai ricercata da coloro i quali praticano quel Ritorno al grande formato, che stiamo promuovendo e sollecitando da qualche stagione (avendolo avviato con Giancarlo D’Emilio, prematuramente scomparso). Infatti, a differenza di altri manuali, questa trattazione ha un merito assoluto e inviolabile: quello della competenza effettiva, maturata sia in anni di ripresa fotografica, sia nel corso di decine e decine di workshop a tema, svolti per conto di distributori e importatori. Dunque, non nozioni teoriche, ma considerazioni pratiche. Dunque, non modeste ripetizioni di concetti labili (oltre che non autentici, va rivelato), proprie e caratteristiche di tanta, troppa (tutta?) manualistica, ma esplorazioni efficaci, approdate a conclusioni consistenti... spesso, addirittura, originali nel proprio punto di vista e nella propria operabilità/fattibilità pratica.
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L’angolo di campo reale della ripresa dipende dalla lunghezza focale dell’obiettivo e dal formato di ripresa. All’infinito -tiraggio pari alla lunghezza focale-, il formato 4x5 pollici (10,2x12,7cm) utilizza ogni obiettivo 150mm per 53 gradi di angolo di campo reale. La gamma Nikkor-M (200, 300 e 450mm) è caratterizzata da un angolo di campo nominale ristretto: 55, 57 e 52 gradi.
Progettati per la fotografia a distanza estremamente ravvicinata, i Nikkor-AM ED 120mm f/5,6 e 210mm f/5,6 sono obiettivi adatti ai rapporti di riproduzione prossimi all’inquadratura 1:1; cioè, inquadratura al naturale: l’immagine sul piano focale è grande quanto il soggetto. Siccome nella fotografia con apparecchi grande formato non esistono problemi di messa a fuoco, ogni esplicito riferimento alla fotografia macro non intende, dunque, la possibilità di accomodamento del fuoco, quanto si riferisce alla correzione ottica adeguata alla fotografia a brevi distanze. Le focali contenute dei due obiettivi macro, da utilizzare per l’inquadratura al naturale, consentono sistemazioni comode e sicure dell’apparecchio fotografico. Il limitato tiraggio al piano focale favorisce il pratico allestimento del set.
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variabile, che altre costruzioni grandangolari debbono impiegare per compensare l’adeguata luminosità tra il centro e i bordi del cerchio immagine, altrimenti penalizzata da uno scarto di oltre uno stop di luce. I disegni ottici simmetrici degli standard Nikkor-W garantiscono il pertinente comportamento fotografico in ogni condizione di utilizzo; quindi, ancora, in prerogativa unica, la famiglia dei teleobiettivi Nikkor-T ED non ha corrispondenti in nessuna altra gamma ottica moderna. Si tratta di teleobiettivi dal disegno combinabile, che consente la creazione di lunghezze focali differenti, stabilite dal gruppo ottico posteriore (e ne parliamo dettagliatamente più avanti). Discretamente latente dietro la fredda facciata ufficiale dei termini numerici che stabiliscono i valori assoluti dei singoli obiettivi, la tecnologia ottica Nikkor grande formato è stata una delle autentiche discriminanti della ripresa fotografica con i corpi mobili. Oltre l’elevata qualità delle prestazioni delle singole focali e delle singole famiglie, si è soprattutto segnalato il più pertinente adeguamento alle condizioni di uso degli apparecchi grande formato a corpi mobili: sia in sala di posa, dove sono indispensabili cerchi di copertura convenienti, sia in esterno, dove è fondamentale poter disporre di lunghezze focali anche estreme, e soprattutto con costruzione tele.
GRANDANGOLARI E STANDARD Sei le focali grandangolari Nikkor-SW, da 105-106 gradi di angolo di campo: 65mm f/4 (in assoluto, il più luminoso del mercato) e 75mm f/4,5, con copertura fino al 4x5 pollici (10,2x12,7cm); 90mm f/4,5 e 90mm f/8, con copertura fino al 13x18cm; 120mm f/8 e 150mm f/8, con copertura fino all’8x10 pollici (20,4x25,4cm). Da 69 a 73 gradi di angolo di campo nominale, al cui interno, al solito, ogni formato di ripresa può applicare estensioni dei propri movimenti di accomodamento (lineari di decentramento e rotatori di basculaggio), gli standard Nikkor-W hanno scandito i tempi di otto focali in progressione cadenzata. I più corti 105mm f/5,6 e 135mm f/5,6 sono indirizzati alla confortevole copertura fino al 4x5 pollici (con legittima abbondanza), risolvendo in maniera superlativa la ripresa fotografica di dimensioni inferiori: 6x7 o 6x9cm, nella proporzione standard del fotogramma, e 6x12cm, nell’interpretazione panorama dell’inquadratura e composizione. A seguire, il formato di esposizione 13x18cm è adeguatamente risolto dalle focali 150mm f/5,6, 180mm f/5,6 e 210mm f/5,6; così come i più lunghi 240mm f/5,6, 300mm f/5,6 e 360mm f/6,5 approdano all’8x10 pollici... andando anche oltre. Altrettanto standard, da 52 a 57 gradi di angolo di campo nominale, il disegno ottico Nikkor-M ha offerto una soluzione semplificata alla fotografia grande formato con tre focali sostanzialmente generose: 200mm f/8, per la copertura fino al 13x18cm; e 300mm f/9 e 450mm f/9, per la copertura fino all’estremo 8x10 pollici. Ma anche e addirittura oltre, in relazione alle applicazioni particolari, con pellicola piana di dimensioni ancora superiori:
fino all’11x14 pollici e al 12x20 pollici (rispettivamente, circa 28x35cm e 30x50cm!) di una identificata fotografia di paesaggio di scuola californiana.
ANTONIO BORDONI (6)
DISEGNI ESCLUSIVI Quindi, Nikon ha realizzato altre due famiglie a disegno finalizzato, entrambe impreziosite dalla combinazione di lenti in cristallo ottico ED a basso indice di dispersione (Extra-low Dispersion): Nikkor-AM ED, per la macrofotografia, e Nikkor-T ED, con disegno tele. In entrambi i casi, si tratta di disegni ottici assolutamente esclusivi, che hanno affrontato e risolto particolari condizioni della ripresa fotografica. I Nikkor-AM ED sono obiettivi macro dedicati all’uso privilegiato al rapporto di riproduzione 1:1, al naturale, con un conseguente tiraggio al piano focale doppio rispetto la lunghezza focale nominale: 120mm f/5,6, per la copertura di campo fino al 13x18cm, e 210mm f/5,6, per l’8x10 pollici (20,4x25,4cm). Discorso più articolato per i teleobiettivi Nikkor-T ED. I concetti che definiscono le loro prestazioni si scostano da quelli propri di ogni altra famiglia di obiettivi Nikkor grande formato (e di obiettivi per grande formato in genere). Più che dipendenti dalle tante considerazioni implicite nella distinzione tra i vari e diversi angoli di campo nominale, ai quali corrispondono conseguenti diametri del cerchio immagine, i teleobiettivi segnalano soprattutto il valore assoluto della propria lunghezza focale, via via elaborata per la coerente copertura del formato fotografico al quale sono destinati. Come ogni obiettivo grande formato, anche i teleobiettivi Nikkor-T ED sono utilizzabili da dimensioni inferiori di fotogramma, ma non è questo il punto: ciò che effettivamente conta è la lunghezza focale sistematicamente lunga. I Nikkor-T ED si distinguono in due linee, rispettivamente dedicate al grande formato 13x18cm e al grande formato 8x10 pollici (20,4x25,4cm): cerchio immagine di diametro adeguato. Ai due gruppi, ciascuno di tre lunghezze focali, si aggiunge, quindi, il teleobiettivo Nikkor-T ED 270mm f/6,3, singolo, per il grande formato 4x5 pollici (10,2x12,4cm). In famiglia per le due dimensioni superiori della ripresa in grande formato, i teleobiettivi Nikkor-T ED hanno una costruzione ottica caratterizzata da un disegno componibile: il gruppo ottico anteriore è in comune a tre teleobiettivi, mentre la lunghezza focale è determinata dalla combinazione con il gruppo posteriore. A parte la disponibilità degli obiettivi completi, si possono formare le diverse lunghezze focali utilizzando un unico gruppo ottico anteriore e l’otturatore centrale Copal, comuni ai tre teleobiettivi, con i singoli gruppi ottici posteriori, che determinano -appunto- la lunghezza focale. Le combinazioni prevedono la divisione nelle due famiglie Nikkor-T ED 360mm f/8, 500mm f/11 e 720mm f/16, per la copertura del formato di ripresa 13x18cm, e Nikkor-T ED 600mm f/9, 800mm f/12 e 1200mm f/18, per la copertura del formato di ripresa 8x10 pollici (20,4x25,4cm). Sempre e comunque, in superba qualità. Nikon! ❖
Riferendosi alla fotografia grande formato, si deve tenere conto dell’ipotesi di base secondo la quale, per mettere meglio a frutto la potenziale collocazione differenziata dei piani dell’apparecchio a corpi mobili, sono necessari obiettivi con cerchio immagine più ampio del necessario. Per cui, i 69-73 gradi di angolo di campo degli standard Nikkor-W sono finalizzati al controllo prospettico del soggetto e alla sua resa nitida. Otto lunghezze focali, da 105 a 360mm, per ogni dimensione grande formato.
A parte il Nikkor-T ED 270mm f/6,3, indirizzato al 4x5 pollici (10,2x12,7cm, e formati inferiori), le altre sei lunghezze focali dei teleobiettivi Nikkor-T ED sono divise in due serie dalla costruzione ottica componibile: una è destinata alla copertura del 13x18cm e l’altra dell’8x10 pollici (20,4x25,4cm). Il gruppo ottico anteriore è comune a tre lunghezze focali, definite dalla combinazione con la sezione posteriore: in sequenza 360mm f/8, 500mm f/11 e 720mm f/16 (13x18cm), e 600mm f/9, 800mm f/12 e 1200mm f/18 (8x10 pollici).
IN TRADUZIONE, DA
GEORGE EASTMAN AND THE
KODAK CAMERA
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
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novembre 2017
IN FUMETTO, ALLE ORIGINI DI KODAK. GEORGE EASTMAN E I SUOI PROPOSITI. E lettera autografa.
di Lello Piazza
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NINO MIGLIORI
M
eno male che esistono anche i giovani. Meno male che i giovani sanno arricchirsi delle parole che sentono, e riservare loro un posto nel cuore. Parole, letture e riflessioni che sono buone compagnie per le loro escursioni nel mondo. Insieme ai giovani, potremmo imparare ad assaporare parole e linguaggio (anche fotografico, sia chiaro). Qualunque altra opinione contraria ognuno abbia potuto sentire al proposito, parole e idee possono cambiare il mondo, anche solo il nostro personale. Non leggiamo, scriviamo e fotografiamo (e non ci occupiamo di fotografia) perché è bello farlo. Noi leggiamo, scriviamo e fotografiamo perché siamo vivi, membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Oltre il richiamo a un testo dei Pink Floyd, nell’incontro con Ottavio Maledusi (Filippo Rebuzzini) a proposito del suo progetto Amici miei, scandito sulla sua frequentazione del mondo fotografico, mi è tornato in mente anche Walt Whitman, poeta americano dell’Ottocento: «Oh me, oh vita! Domande come queste mi perseguitano, / infiniti cortei di infedeli, città gremite di stolti, / [...] Che v’è di nuovo in tutto questo, oh me, oh vita? / Risposta. Che tu sei qui, che la vita esiste e l’identità, / che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuire con un verso». Così come le fotografie che incontriamo quotidianamente nel giardino per il quale siamo incamminati sono fiori da cogliere, anche le parole che sentiamo possono arricchirci più e meglio di quanto (non) possano farlo i denari. Non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma forse le stiamo per incontrare. Da qui, in intervista a Filippo Rebuzzini (Ottavio Maledusi), in relazione al progetto fotografico Amici Miei. Caro Filippo [alias Ottavio Maledusi], comincio celebrando il fatto che i giovani esistono, anche se questo crea un sacco di problemi a noi adulti. Al tempo stesso, riporto un brano dei Pink Floyd. Mi piace sempre ricordare ai giovani, ai miei studenti all’università e in questo caso a te, che siete dei diamanti, un po’ pazzi magari, ma comunque diamanti. Veniamo, però, subito alle tue fotografie di Amici miei. Come ti è venuta l’idea di realizzarle? «Da un esperimento che ho realizzato a giugno dell’anno scorso, una domenica pomeriggio. Sotto il cavalcavia di via Rubattino, non lontano da dove vivo, a nord di Milano, ho piazzato il treppiedi con la mia reflex. Ero solo, non avevo riferimenti concreti, così ho sistemato per terra pezzettini di carta per ricordarmi dove avrei dovuto posizionarmi mentre autoscattavo. Quella sera stessa, rientrato a casa, ho montato i vari scatti, e il risultato mi è piaciuto. «Il lunedì successivo, sono stato nello studio di Giovanni Gastel, e il giorno dopo stavo da Piero Gemelli. Avevo con me una stampa di quel primo risultato, e chiesi loro se avevano voglia di prestarsi per una composizione simile. «Ero andato lì per altri motivi. E anche tutti i personaggi che ho fotografato in seguito, non li ho quasi mai contattati allo scopo di fotografarli. Non avevo un programma, seguivo un happening. Facevo vedere l’immagine con me ritratto e chiedevo: avete voglia di farvela fare anche voi? «Da Nino Migliori, a Bologna, sono andato il giorno del suo novantesimo compleanno. Ero insieme con mio padre, per festeggiarlo; gli ho parlato del progetto, e lui ha aderito immediatamente. «Con Angelo Ferrillo, invece, stavo registrando un’intervista in accompagnamento a una sua mostra, che stavo curando. Ci siamo trovati alla Stazione Centrale, e lì vicino c’è un campo di basket. Lui è street photographer, e la strada mi pareva situazione adatta.
Gliel’ho proposto; l’idea gli è piaciuta, e abbiamo realizzato subito gli scatti da combinare poi assieme. «Per ogni soggetto, per ogni personaggio, non ho mai agito casualmente, in ambienti senza controllo e incidentali. Per esempio, per e con Simone Sbaraglia, fotografo di natura, subito dopo averlo intervistato, ancora per una sua mostra, ho scattato ai Giardini pubblici di Porta Venezia, di Milano, in modo da avere uno sfondo e contesto adeguatamente “naturale”. «È andata così; per un anno, mi sono sempre servito di ciò che mi ha offerto la frequentazione del mondo della fotografia... fotografi, ma anche photo editor, curatori di mostre, giornalisti. «All’inizio, non era neppure un progetto».
AMICI SUOI
Progetto fotografico di Ottavio Maledusi, in pseudonimo volontario, intervistato al proposito. Considerazioni che non si limitano, né concludono, con l’insieme degli Amici miei, qui in selezione. Introduzione d’obbligo: «Nessuno sa dove sei, / se sei vicino o lontano / Continua a brillare pazzo diamante / Ammucchia molti più strati / e io ti raggiungerò laggiù / Continua a splendere pazzo diamante / E ci crogioleremo all’ombra / del trionfo di ieri, / e navigheremo sulla brezza d’acciaio / Vieni, ragazzino, vincitore e perdente / Vieni tu cercatore di verità e illusione / e splendi!» (Pink Floyd, da Shine On You Crazy Diamond ; 1975) 35
Qual è il tuo rapporto con la fotografia? Ti faccio un esempio, ci sono alcune cose che so fare (riparazioni elettriche) o che so dire (il dialetto milanese), che nessuno mi ha mai insegnato. Il dialetto lo parlavano i miei genitori, e l’ho imparato ascoltandoli. Per quanto riguarda le riparazioni elettriche, ogni tanto vedevo mio padre che smanettava con voltmetri, saldatori, resistenze: e io, semplicemente guardando, ho imparato. È capitato qualcosa di simile anche a te, con la fotografia? L’hai assorbita da tuo padre [Maurizio Rebuzzini], così, spontaneamente? «Sicuramente, le esperienze di mio padre, le sue conoscenze, influiscono su quelle che possono essere le mie visioni. «Dopodiché, la fotografia -in quanto momento dello scatto- non mi era mai passata per la testa. Comunque, grazie a mio padre, sono cresciuto in mezzo a mostri sacri della fotografia. «Dunque, nel 2015, per il rilancio del sito FOTOgraphiaONLINE, mi è venuta l’idea di realizzare dieci ritratti di fotografi, ciascuno con in mano un cartello... meno dieci, meno nove, meno otto... immagini utilizzate per un countdown prepubblicato in Rete, giorno dopo giorno, in anticipo sulla data del quattordici marzo [dopo l’avvio originario, alle 10,10 del 10 ottobre 2010 (quindi, 10 10 10 10 10, cinque volte), il sito è stato riavviato in altra messa in pagina alle 9,26 e cinquantatré secondi del quattordici marzo: opportunità numerica unica, che si ripete ogni mille anni! In grafia anglosassone, con mese anteposto alla data, seguito da anno, e poi dall’orario, furono allineate le prime nove cifre decimali di una delle orazioni aritmetiche più celebri, quel pi greco che è uno dei più importanti numeri irrazionali, quei numeri che non possono essere espressi come rapporto tra numeri interi: 3,141592653. Comunque, Pday, presso lo studio di Gian Paolo Barbieri, venerdì tredici marzo, in anticipo sulla data del quattordici di avvio (in FOTOgraphia, dell’aprile 2015)]. «È stata la prima volta che ho preso in mano una macchina fotografica, per scattare consapevolmente. Avevo già fotografato, in precedenza, ma per gioco, senza consapevolezza. Confesso che quella prima volta non mi ha fatto impazzire. Non mi sono sentito a mio agio. Comunque, ce l’ho fatta. Il primo giorno, ho fotografato Gianni Berengo Gardin, Giovanni Gastel e Maurizio Galimberti, andando a casa loro o in studio. Ho curato che l’inquadratura del personaggio, con il cartello di countdown tra le mani, fosse il più possibile la stessa in tutte le riprese. Tutto molto semplice. Il giorno dopo, Gian Paolo Barbieri e poi... avanti, fino a dieci [in ordine inverso, da meno dieci a meno uno: Gianni Berengo Gardin, Maurizio Galimberti, Renato Marcialis, Settimio Benedusi, Giorgio Lotti, Francesco Cito, Uliano Lucas, Massimo Sestini, Giovanni Gastel, Gian Paolo Barbieri]. «Ma nella singola fotografia faccio fatica. Mi viene più facile chiedere “non ti faccio un ritratto, ti faccio qualcosa di diverso”. «In questo progetto, è prevalsa proprio l’idea di fare qualcosa di diverso, di fare qualcosa che ancora non c’era. Comunque, attenzione, nel realizzare il progetto non c’è stata alcuna pretesa, o ipotesi, autoriale. All’inizio, non pensavo proprio di allestire una mostra [che poi c’è stata: Amici miei, di Ottavio Maledusi, alla Expowall Gallery, di Milano, dal tredici giugno al primo luglio scorsi; dal tredici giugno, anniversario del primo soggetto della serie, Giovanni Gastel]. «Ancora, dopo aver realizzato i primi soggetti, lo scorso autunno 2016, è successo che ci siano stati fotografi che mi hanno chiesto di entrare a far parte progetto: “dai vieni a fotografare anche me”. «Quando Pamela Campaner e Alberto Meomartini (Expowall Gallery) hanno constatato che avevo raggiunta una quantità significativa di personaggi della fotografia, mi hanno proposto la mostra. In inverno, avevo soltanto dieci-dodici personaggi già fotografati sulla base di incontri del tutto casuali; per incrementare il numero, ho
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GIOVANNI GASTEL GIAN PAOLO BARBIERI
cominciato a lavorare miratamente, per arrivare a una quantità (e qualità) adatta all’allestimento in galleria. Si stabilì che i personaggi avrebbero dovuto essere trenta. Però, arrivato a ventotto/ventinove, mi sono reso conto di aver già speso un’altra mezza dozzina di promesse e inviti. Da trenta, siamo approdati al definitivo trentanove». Interviene Maurizio Rebuzzini: «Per il gusto di dirlo, non trentanove soggetti, ma trentuno più otto... Filippo è nato il trentuno agosto». Ok... ci può stare. Continua, Filippo. «Alla fine, si può dire che ci ho impiegato undici mesi. La mostra è stata ipotizzata a gennaio, e inaugurata a metà giugno, circa sei mesi dopo; più i cinque precedenti. «Ma non ho lavorato intensamente. Mi sono capitati giorni inattivi; magari, poi, ne ho scattati tre in una settimana. L’ultimo scatto è stato mio padre, immediatamente dopo la combinazione di Pamela Campaner e Alberto Meomartini, di Expowall, fotografati all’interno della mostra di Betty Page, che ha preceduto la mia». Ottavio Maledusi cosa c’entra? «[In calembour dal fotografo Settimio Benedusi] L’idea è nata un mese prima del tredici giugno (2016), quando ho realizzato la prima fotografia con Giovanni Gastel. Lo scopo di un nome di fantasia è stato indotto dall’ipotesi di pubblicare su Internet, senza farlo dall’account ufficiale di FOTOgraphiaONLINE. Tempo prima, utilizzando l’account di FOTOgraphiaONLINE, come se fosse il mio Facebook, avevo postato la fotografia di quattro oggetti dello studio di Settimio Benedusi, tra i quali la sua tazza del tè. Un commento sarcastico a questa fotografia è stato chiarificatore: “Grazie, professor Rebuzzini, di regalarci queste perle; la tazza di Settimio Benedusi mi mancava”. «Mi sono resoconto che, probabilmente, mio padre una fotografia simile non l’avrebbe mai pubblicata [e tante altre ancora]. Io ho una avversione per i social, e non ne ho uno personale. Quindi, ne ho creato uno, occultandomi dietro un personaggio inventato, magari persino divertente: Ottavio Maledusi». Che difficoltà hai incontrato con i personaggi fotografati? «Anche i caratteri più difficili hanno aderito con entusiasmo. Sospetto che alcuni non abbiano capito fino in fondo cosa stesse succedendo. Ciononostante, tutti hanno collaborato: forse perché sono figlio di Maurizio [Rebuzzini], forse perché hanno visto le fotografie dei primi personaggi coinvolti, come Giovanni Gastel e Nino Migliori». Interviene ancora Maurizio Rebuzzini: «Se posso aggiungere una mia testimonianza, perché la sera di Nino Migliori, a Bologna, ero presente, sono rimasto sorpreso di come, a novant’anni anni, lui abbia partecipato con entusiasmo alla sessione fotografica, rivelando, altresì, un’agilità che io, che ho circa trent’anni meno di lui, non riesco ad avere. Per esempio? Sdraiarmi per terra e poi alzarmi senza fatica! E tutto in un tempo brevissimo». Torniamo con Filippo. «Quello del tempo breve non va inteso come forma di tortura, ma necessità dovuta al controllo dell’illuminazione. La questione fondamentale è che, anche se il risultato finale è somma di più scatti singoli e indipendenti, la combinazione deve presentarsi come un unico (im)possibile scatto, come se, in una frazione di secondo (un centoventicinquesimo?), il personaggio avesse avuto il dono dell’ubiquità, comparendo contemporaneamente in più spazi. «Per ottenere questo risultato, questa armonia visiva, la luce deve rimanere la stessa, dall’inizio delle riprese alla fine. In esterni, se la tiri per le lunghe, questo è difficile. Ma anche in interni, quando ci si basa sulla luce esistente, compresa quella naturale che entra dalle finestre, che è poi il mio modo di agire. Bisogna fare in fretta, può arrivare una nube, oppure, come nel caso di Giorgio Galimberti, che ho fotografato a mezzogiorno, in esterni: cinque minuti tra il primo e l’ultimo scatto avrebbero potuto essere sufficienti a cambiare l’orientamento e intensità delle ombre».
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GIANNI BERENGO GARDIN ANGELO FERRILLO FERDINANDO SCIANNA E
ALBERTO MEOMARTINI (EXPOWALL)
GIOVANNA CALVENZI
SIMONE NERVI
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PAMELA CAMPANER
Quello che conta non è il singolo scatto, ma l’insieme. «Infatti, ribadisco che sul singolo scatto mi trovo sempre in imbarazzo. È solo l’insieme di più scatti che mi fa sentire a mio agio. Con più scatti posso dire qualcosa... forse. «Via via che i soggetti si sono aggiunti gli uni ai precedenti, ho affinato l’attenzione per l’ambientazione. Ho proceduto, scegliendo gli scorci più adatti al fine e alla personalità del soggetto. Mostravo l’inquadratura a ognuno, suggerendo: “mi piacerebbe che tu ti mettessi, più o meno, qua, qua e qua”. Dopodiché, sono sempre stato io a guidare ognuno, indicando dove e come doveva mettersi. «Il vero problema è di fare in modo che le singole posizioni, una volta inserite nell’unica immagine finale, non si accavallino troppo. Inoltre, mi piace dare l’idea che queste posizioni, seppure decise a priori, appaiano casuali. Ovviamente, in corso d’opera, è capitato più di una volta di chiedere al soggetto di assumere posizioni diverse da quelle che avevamo concordato insieme, un attimo prima. È capitato che gli stessi movimenti mi abbiano suggerito posizioni diverse. «Per esempio, con Mariateresa Cerretelli, giornalista e photo editor, e presidente del Grin (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale), l’associazione professionale di categoria, ero partito pensando di fotografarla in piedi o seduta sul pavimento di parquet; poi, ho cambiato idea, all’ultimo momento, invitandola a sedersi sul divano e simulare una conversazione con se stessa». Hai imparato qualcosa, realizzando queste immagini? «Non so disegnare e non capisco niente di prospettiva. Svolgendo questo lavoro davanti a uno spazio che non avevo capito, mi è capitato di impadronirmene successivamente, durante la postproduzione. Solo in questa fase, lo spazio mi si è rivelato, l’ho capito. Se fossi tornato il giorno successivo con la stessa finalità, sarei stato certamente in grado di realizzare una fotografia più consapevole degli spazi.
BEPPE BOLCHI DAVIDE CERATI EDOARDO ROMAGNOLI MARINA ALESSI MARIATERESA CERRETELLI MICHELE SMARGIASSI
«Perciò, questo lavoro è stato anche una bella esperienza di geometria spaziale. In ogni caso, nessuna sessione ha avuto una aggiunta successiva. Né mi è mai capitato di doverne rifare uno, o di dover rinunciare a un personaggio fotografato». Veniamo alla postproduzione: quali sono state le difficoltà? «Ho usato Photoshop. Per quanto riguarda le difficoltà, stanno solo nel tempo che si impiega a eseguire gli scontorni. All’inizio, ci mettevo di più; poi, ho acquisito manualità. I problemi possono nascere dagli accavallamenti, come mi è successo in qualche caso. Se ci sono accavallamenti, gli scontorni diventano un impegno certosino». Interviene Maurizio Rebuzzini: «Tutti gli utensili hanno un capitolato ufficiale e una interpretazione individuale. Il capitolato ufficiale è quello di Photoshop. Dal punto di vista tecnologico, non ha un valore umano, ma ce l’ha nei contenuti. Qui, il contenuto è il personaggio e la sua frequentazione con Ottavio Maledusi. È ammirevole che Filippo non voglia andare avanti nel progetto, perché potrebbe allungare l’argomento a un potenziale infinito. La caratteristica di questi soggetti è che ciascuno ha una propria identità e un proprio ambiente, chi in casa, chi in studio, chi in esterni, e le varie posizioni con cui appaiono non sono fini a se stesse. «Nel caso di Mauro Balletti, lo studio è la sua abitazione, non è uno studio di produzione, è uno studio di gestione delle immagini e dell’archivio, divano comodo, scale per l’ammezzato, e questo si vede. Giovanni Gastel è seduto al tavolo, dove svolge le sue riunioni. Gian Paolo Barbieri è in sala di posa, che è la sua espressione. «Infine, c’è il rispetto del soggetto, che rimane protagonista. Troppe volte, il fotografo prevale sul soggetto, vuole affermare se stesso. «Il caso tipico, che cito spesso, è stato sottolineato da una combinazione televisiva presentata da Blob: Sting è ospite di Pippo Baudo, al Festival di Sanremo. Da quello che si intuisce, Sting attira una calca di fotografi. A quel punto, accanto a lui, Pippo Baudo sgomita
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MAURIZIO GALIMBERTI PIERO GEMELLI MASSIMO DE GENNARO MARIA VITTORIA BACKHAUS
per cercare di stargli davanti. Poi, in dissolvenza, si vede Totò ospite di Mina a Studio Uno, tanto e tanto tempo fa. Totò dice una battuta e il pubblico applaude spontaneamente. L’ospite Mina, con garbo, etica ed educazione, fa due passi indietro e gli lascia la scena. «Secondo me, l’autore deve sempre fare, se non due passi indietro, almeno due passi di traverso. Il bello di questi ritratti sta anche nel fatto che Filippo ha fatto i sacrosanti due passi indietro. Ha lasciato la scena ai protagonisti effettivi». Non hai pensato di ricavarne un libro, di raccogliere in monografia? Aggiungendo anche personaggi del mondo non della fotografia? Te lo dico perché è un progetto che mi è piaciuto tantissimo e vorrei che continuasse. A ogni fotografia, si potrebbe collegare, come didascalia, una presentazione del personaggio e un aneddoto che lo riguarda. «Ci sto pensando». Avviandoci alla conclusione, niente a che vedere con i multiscatti di Eadweard Muybridge, che intendeva studiare le posizioni del soggetto durante il movimento. Oppure, con i mosaici di Maurizio Galimberti, che esprime l’idea dei suoi personaggi con una combinazione di scatti ottenuta cucendo insieme una quantità di dettagli realizzati appoggiandoti addosso la Polaroid e cambiando costantemente inquadratura. Qui, l’inquadratura resta fissa, e cambia la posizione del soggetto. Mi sembra che il risultato introduca addirittura la visualizzazione della sua anima, non del suo movimento, di suoi atteggiamenti che ne dipingono la personalità. Non mi sembra che nella Storia della Fotografia ci siano esempi nei quali un personaggio è ritratto mentre appare più volte nella medesima inquadratura, scegliendo come muoversi o seguendo i suggerimenti di chi scatta. Mi sembra che si tratti di un’impresa quasi impossibile, quella di fermare il tempo tra il primo e l’ultimo scatto. I greci antichi utilizzavano due vocaboli per descrivere il tempo: χρóνος (chronos), che ha un significato quantitativo; e καιρóς (kairos), che ha un valore qualitativo. Kairos significa “momento giusto o opportuno”. Perciò, ti propongo di definire queste tue fotografie Kairosgraphie, cioè immagini scritte non dalla luce, ma dal tempo, quello giusto, quello opportuno. Passando al tuo futuro, cosa vorresti fare da grande? «Sicuramente, non l’autore. Questo è stato inteso come progetto autoriale, ma l’ho realizzato per gioco. Quando qualcuno mi chiede “cosa ne farai del progetto?”, rispondo che l’idea originaria era che Ottavio Maledusi avrebbe dovuto morire/scomparire con la mostra. Mi piaceva di più il gioco con il nome che non l’idea stessa del lavoro. In un’epoca dell’IO, IO, IO, del MIO social network, dei MIEI LIKE, io non voglio essere un autore, preferisco il profilo basso, l’invisibilità... e mi nascondo dietro a Ottavio». Maurizio Rebuzzini: «L’aggiunta è la leggerezza. Ne parliamo spesso tu [Lello] ed io. Una delle malattie della fotografia, soprattutto italiana, è l’eccesso di intellettualismo, per cui, per esempio, nel film Smoke, il personaggio Auggie Wren (Harvey Keitel) si permette di condurre per anni un progetto fotografico dedicato all’angolo di strada della sua tabaccheria, a Brooklyn, alle otto del mattino di tutti i giorni. In parallelo di ipotesi, un autore italiano ammalato di crocianesimo, ovvero di cattiva interpretazione dei presupposti filosofici di Benedetto Croce, comunque sia inutilmente pedante e accademico, fino allo sfinimento, avrebbe aggiunto un personaggio staged, non reale ma costruito, che entra o che esce dall’inquadratura, cioè avrebbe aggiunto sovrastrati finti. E ciò, nonostante la fotografia, come altre arti, sia un esercizio “a togliere”. Questo lavoro di Ottavio Maledusi ha il merito della leggerezza, del “non esagerare”. Dopotutto... sono solo fotografie».
MAURO BALLETTI SETTIMIO BENEDUSI TONI THORIMBERT ROGER CORONA
Parlami del tuo lavoro di organizzatore di mostre. Come evolverà? «Ci stiamo riflettendo. È nato l’anno scorso, con l’associazione Obiettivo Camera. Siamo partiti con una prima mostra di Maurizio Galimberti, presso Spazio Kryptos, di Milano. Per non sovrapporci ad altro -ormai tanta fotografia è veicolata in mille occasioni-, abbiamo inteso sottolineare una certa vivacità del momento espositivo. Il luogo si presa, strutturato su due livelli: il piano di ingresso per presentare un progetto, quello inferiore per completare la presentazione del fotografo, con accompagnamento di intervista video appositamente realizzata. «Le prime tre-quattro inaugurazioni sono state anche trasmesse in diretta streaming. Nella prima mostra, c’erano addirittura più telecamere e una regia di controllo. Ancora, con la seconda mostra, di Marco Onofri, abbiamo introdotto anche una proiezione, visibile sia dall’interno, sia dalla strada di passaggio. Infine, in corso d’opera, abbiamo rinunciato a qualche combinazione, a favore di altre». Così, la mostra diventa quasi un evento, non solo una inaugurazione. «Per tre edizioni successive, ho allestito le esposizioni del Lucca Digital Photo Fest. Il primo anno da solo, il secondo mi hanno chiesto di portare con me un aiuto, il terzo hanno richiesto di portare due aiuti. Lì, si trattava solo di calcolare le distanze tra una cornice e l’altra, se l’allineamento andava calcolato alla base, all’altezza o a una linea mediana, di collocare le cornici in bolla. Più che altro, è stato un lavoro di routine. Quando ho avuto la possibilità di agire allo Spazio Kryptos, che si presta a qualcosa di particolare, ho colto l’opportunità. «Per esempio, nel caso delle fotografie newyorkesi di Angelo Ferrillo, ho completato l’allestimento con una macchina del fumo, per suggerire l’idea del vapore che esce dai tombini della metropolitana. Con la mostra di natura di Simone Sbaraglia, mi sarebbe piaciuto integrare con qualcosa di complementare e allineato, come foglie, rami o altri richiami, magari negli spazi a pavimento protetti dalla pavimentazione in vetro. Ma, siccome faccio tutto da solo, non ci sono riuscito. Purtroppo, non riesco a realizzare tutto quello che mi viene in mente». Però, l’organizzazione di questo tipo di eventi o mostre, definiamo come vuoi, sarebbe un bel lavoro. Cioè, potresti essere un direttore artistico. La fotografia potrebbe essere solo una tessera del prodotto finale, il resto è coinvolgimento del pubblico e invenzione... ogni volta, di qualcosa di nuovo. «Infatti, di mostre ce ne sono un’iradiddio. La maggior parte, sono mostre dove esistono solo le fotografie appese ai muri. Ci sono meno mostre simili a quelle che avrei in mente io, più articolate. «Per esperienza, sappiamo tutti che la maggior parte della gente va alle inaugurazioni per bere, socializzare o parlare di lavoro; quindi, perché non prevedere qualcosa che accompagni ufficialmente le fotografie? Alcuni dicono che questo potrebbe distogliere l’attenzione dal valore dei lavori... ci può stare. «Infatti, certi allestimenti allo Spazio Kryptos possono anche risultare invadenti, mentre, per altro canto, le pareti bianche di Expowall Gallery fanno risaltare di più le fotografie. Ma è anche deprimente, a volte, sentire invitati che non sono rimasti abbastanza coinvolti dalla esposizione e che lasciano la mostra insoddisfatti. Perciò, credo che la combinazione “valorizzazione delle fotografie più accoglienza” possa risultare vincente». Grazie Filippo e auguri. Mettici tutto il tuo impegno. Non sarà facile. Ricordati un verso di una poesia di Umberto Saba (Caro Luogo, in Il Canzoniere, sezione Ultime cose): Rumorosa la vita, adulta, ostile / minacciava la nostra giovinezza. Stai in guardia contro la vita adulta e ostile e, come il diamante dei Pink Floyd, vinci! ❖
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© VINCENT FOURNIER
di Angelo Galantini
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ovrastruttura portante delle intenzioni museali del Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), il mondo del lavoro in tutte le proprie forme si presenta e offre all’ormai tradizionale appuntamento di Foto/Industria Biennale 2017 con il proponimento dichiarato di richiamare i temi dell’identità e dell’illusione, in fotografia. Così facendo, la curatela di François Hébel -autorevole direttore artistico di Foto/Industria, nell’ambito di una prestigiosa carriera- conferma e ribadisce il passo stabilito dalla accreditata e qualificata istituzione di richiamo e riferimento: la fotografia intesa nel proprio più elevato concetto accademico e teorico, vicina più
al vertice della piramide che alla sua base, più a una sistemazione tra addetti (spesso, in odore di complicità di branco, in reciproco sostegno) che a un dialogo verso il pubblico, al quale ci si riferisce ufficialmente, ma che si tende a ignorare ufficiosamente. Comunque, come sempre annotiamo, e qui ribadiamo... a ciascuno, il proprio. A ciascuno, la propria etica e morale, senza preallarmi, anatemi o altro giudizio: in ulteriore ripetizione, una delle bellezze della vita è proprio quella che ciascuno può raccontarsela come vuole, finendo anche per crederci (da parte nostra, in altro registro, sono soltanto fotografie: da valutare relativamente, da finalizzare a fantastici e privilegiati s-punti di riflessione, da indirizzare alla propria educazione, da dirigere verso la creazione e procreazione, non da parlarne per
Vincent Fournier: Ergol #12, S1B clean room, 2011; Arianespace, Guiana Space Center [CGS], Kourou, Guyana francese.
IDENTITÀ E ILLUSIONE Il programma espositivo di Foto/Industria Biennale 2017 ribadisce il punto di vista del Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia): quattordici allestimenti animano il centro storico del capoluogo emiliano, stabilendo un percorso coinvolgente. Fotografia del mondo del lavoro, questa volta con intenzione sottotraccia. Del resto, è questo uno dei compiti istituzionali del lessico fotografico, che deve suggerire più di quanto raffiguri
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© MICHELE BORZONI / TERRAPROJECT
Michele Borzoni: Open competitive examination for recruitment of 40 historians at the Ministry of Heritage and Cultural activities. 1550 people applied for the exam which took place in the new Fiera di Roma.
il puro e solo piacere di farlo e ottenere applausi; una volta ancora, una di più, mai una di troppo... società dello spettacolo, da Guy Debord, con Pino Bertelli). Ufficialmente, e in conferma, le quattordici mostre che compongono l’affascinante programma di Foto/Industria Biennale 2017 [in casellario, a pagina 46] sollecitano considerazioni tra identità e illusione. E qui, prima di altro, nostre opinioni al rispettivo proposito.
IDENTITÀ RICERCATA Sull’identità (che per ciascuno di noi è ufficializzata da una apposita Carta di ), almeno due richiami, distanziati nel tempo. Con ordine inverso, La Ricerca dell’identità. Da Tiziano a de Chirico è stata una fantastica mostra curata da Vittorio Sgarbi, nel 2004, alla quale sopravvive l’ottimo catalogo omonimo, pubblicato da Skira. In sintesi, si è visualizzato il concetto secondo il quale, a opinione comune, la ricerca della propria identità sia, senza dubbio, l’affanno interiore, conscio o inconscio, più intimamente coinvolgente dell’essere umano. Quindi, indietro nei decenni, torniamo a un’altra mostra, allestita al milanese Palazzo Reale, tra il novembre 1975 e il gennaio 1976: per l’appunto, La ricerca dell’identità, con catalogo Electa, a cura di Gianfranco
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Bruno. Con straordinaria personalità, questo antico allestimento, così conteggiato all’inarrestabile scorrere del tempo, ha avuto l’eccezionale merito di contestualizzare l’ipotesi, a partire dalla pittura, senza peraltro fermarsi su e con questa. Incipit del consistente testo introduttivo, di Gianfranco Bruno, appena menzionato: «L’aspetto psicologico e l’aspetto sociologico sono i due momenti, tra di loro strettamente connessi e complementari, entro i quali può essere schematicamente inquadrato il problema dell’identità». Da cui, rimando in nota, una esaustiva quantità e qualità di testi utili per un primo avvicinamento allo stesso problema dell’identità, anche nelle sue implicazioni sociologiche: da Storia della follia, di Michel Foucault (1926-1984), a La politica dell’esperienza, di Ronald David Laing (1927-1989), a L’istruzione negata, di Franco Basaglia (1924-1980), a L’io diviso e L’io e gli altri, ancora di Ronald David Laing, a Gioventù e crisi d’identità, di Erik Erikson (1902-1994), a tanto altro ancora. Questo, per sottolineare come e quanto l’identità non sia questione secondaria, né sottovalutabile. In conseguenza, e attualità, dalla presentazione del curatore François Hébel: «Questa terza edizione di Foto/Industria incrocia due registri diversi, proponendosi
di dimostrare come l’identità dei grandi fotografi possa nutrirsi di progetti concepiti e realizzati per l’impresa e come il gioco di illusioni prodotto dalla fotografia, che sappiamo essere soggettiva, possa essere applicato al mondo del lavoro e della produzione. «Identità. Il mondo dell’impresa ha ormai da tempo aperto le porte a fotografi che, in virtù della fama, hanno goduto di grande liberta d’azione. Il loro sguardo si è, dunque, esteso al territorio della produzione e del lavoro, dove le possibilità di accesso sono piuttosto limitate, e ci mostra quel che in genere non siamo invitati a vedere, vale a dire uomini e donne sul posto di lavoro, macchine sofisticate e paesaggi trasformati. «Grazie al loro approccio esigente e al loro talento unico, questi autori trascendono il soggetto, se ne disfano in qualche modo, per aggiungere nuove tessere al mosaico di momenti rari e preziosi che costituiscono la loro opera. «Questa edizione lo dimostra con una selezione originale dei lavori di Aleksandr Rodčenko, concessi in prestito dal Museo di Arte Multimediale di Mosca, un’eccezionale mostra di paesaggi industriali fotografati nell’arco di trent’anni dal ceco Josef Koudelka, membro di Magnum Photos, e con le migliori imma-
(1818) SUL MARE DI NEBBIA
CASPAR DAVID FRIEDRICH: VIANDANTE
COURTESY THE ARTIST AND THE WALTHER COLLECTION
© MATHIEU BERNARD-REYMOND
ILLUSIONE (E IDENTITÀ?)
Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, che può concepire le cose che non sono, e in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistono, e figurarseli infiniti: uno, in numero; due, in durata; tre, in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano, la speranza e le illusioni. Perciò non è meraviglia: uno, che la speranza sia sempre maggiore del bene; due, che la felicità umana non possa consistere, se non nella immaginazione e nelle illusioni. [...]. L’immaginazione, come ho detto, è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. [...]. Alle volte, l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora, in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vita si estendesse da per tutto; perciò, il reale escluderebbe l’immaginario. Giacomo Leopardi (da Zibaldone)
gini realizzate per l’impresa dall’americano Lee Friedlander nel corso della sua carriera. «Tre periodi della fotografia incontrano gli universi privati e spesso specializzati della produzione, da cui i fotografi hanno saputo trarre stimoli visivi originali, pur se motivati da un riscontro economico. Laddove si sarebbe potuto temere un offuscamento della loro identità, questa ne è uscita, invece, rafforzata». Leggiamola così: identità autoreferenziale, a circuito chiuso tra e con addetti, in comunione di attenzioni.
(centro pagina, in alto) Mathieu Bernard-Reymond: Seuil (Kembs), dalla serie Transform: Power, 2015.
(centro pagina, al centro) Mitch Epstein: BP Carson Refinery, California, dalla serie American Power, 2007; C-print.
ILLUSIONE ESPRESSA Sull’illusione fotografica ci sentiamo un poco a casa nostra. Tanti sono i precedenti ospitati su queste pagine, là dove, in presentazione d’autore o analisi di immagini, esprimiamo ragionamenti a volo alto e altro, con successivo e immediato atterraggio di dovere. Infatti, divergendo dalla concezione diffusa che allunga la fotografia dalla pittura, siamo coscienti e consapevoli di quanto e come la Fotografia sia soprattutto illusione. Da cui, uno dei principali debiti di riconoscenza dell’espressività fotografica dipende dal teatro, dalla messa in scena, dal suo modo di pronunciarsi: osservando la Fotografia, ognuno di noi dischiude le porte di un
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FOTOGRAFIA IN COLLEGAMENTO DI INTENTI
Promossa dalla Fondazione Mast, in collaborazione con il Comune di Bologna, e curata da François Hébel, Foto/Industria 2017 Biennale, in terzo appuntamento, dal 2013 di origine, riferisce il proprio programma ai temi dell’Identità e dell’Illusione, ovviamente in passo fotografico. In cartellone, quattordici mostre in tredici sedi del centro storico del capoluogo emiliano, più la sede istituzionale Mast (in questo caso, fino al quattordici gennaio), programmate dal 12 ottobre al 19 novembre, con relativo accompagnamento di incontri, eventi, convegni, proiezioni, visite guidate e attività pedagogiche in riferimento diretto (www.fotoindustria.it). Identità ❯ Aleksandr Rodčenko (Russia): Il mondo industriale (Collezione del Museo di Arte Multimediale di Mosca). Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Casa Saraceni, via Farini 15, 40124, Bologna. Nel 1920, nell’Unione Sovietica bolscevica, fu fondato l’Inchuk (Istituto di Cultura Artistica). Aleksandr Rodčenko svolse un ruolo attivo nelle sue attività, suggerendo -tra l’altro- svolgimenti come “L’arte nella produzione” e “Lunga vita alla produzione!”. L’istituto gli affidò la direzione del corso di studi sulla lavorazione del metallo. In questo ambito, la produzione e tutti i processi correlati rappresentavano la nuova religione del modernismo sovietico. Artista costruttivista, Aleksandr Rodčenko creò oggetti d’arte che assolvevano un compito funzionale nella vita di ogni giorno. ❯ Josef Koudelka (Cecoslovacchia, naturalizzato in Francia): Paesaggi industriali: 1986-2010. Museo Civico Archeologico, via dell’Archiginnasio, 40124 Bologna. Celebrato come uno dei grandi maestri della fotografia contemporanea, Josef Koudelka è un artista radicale, libero e indipendente da ogni legame personale e professionale. Membro di Magnum Photos, non ha mai accettato incarichi dai giornali, per poter condurre il proprio lavoro in completa libertà. Per la prima volta, sono presentati i suoi paesaggi industriali. ❯ Lee Friedlander (Usa): Al lavoro. Fondazione del Monte, Palazzo Paltroni, via delle Donzelle 2, 40126 Bologna. Approdato alla notorietà con la mostra New Documents, a cura di John Szarkowski, presentata al Museum of Modern Art, di New York, nella primavera 1967 (in collettiva con Diane Arbus e Garry Winogrand), Lee Friedlander è uno dei fotografi statunitensi più influenti della seconda metà del Novecento. In mostra, un’America al lavoro, nell’arco di sedici anni, a partire dagli anni Settanta.
Illusione ❯ Thomas Ruff (Germania): Macchina & energia, a cura di Urs Stahel. Mast Gallery, via Speranza 42, 40133 Bologna. Fino al 14 gennaio 2018. L’autore incarna il prototipo dell’artista dedito alla ricerca. Demiurgo dell’immagine, utilizza l’apparecchio fotografico con concentrazione, non soltanto come mero dispositivo meccanico di registrazione ottica: generatore di immagini attraverso le quali trasformare gli elementi della realtà in un nuovo materiale visivo, a seconda dei criteri del sistema di registrazione selezionato. ❯ A cura di Joan Fontcuberta: Sputnik: L’odissea del Soyuz 2. Palazzo Boncompagni, via del Monte 8, 40126 Bologna. Attraverso documenti raccolti da ricercatori e storici, la Sputnik Foundation sta ripercorrendo uno dei casi più sorprendenti nella storia dell’esplorazione spaziale. Il 25 ottobre 1968, dal cosmodromo di Bayqoñyr, venne lanciata in orbita la Soyuz 2. A bordo, si trovavano il pilota e cosmonauta colonnello Ivan Istočnikov e il cane Kloka. Per ragioni ancora non chiarite, il cosmonauta scomparve durante la missione. Un malfunzionamento non meglio identificato fece fallire la manovra di aggancio con la navicella spaziale gemella Soyuz 3. Alcune ore dopo, quando fu ripristinata la comunicazione con Soyuz 2, la capsula mostrava i segni dell’impatto con un piccolo meteorite e del comandante non vi era più traccia.
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❯ Mimmo Jodice (Italia): Gli anni militanti. Genus Bononiae, Santa Maria della Vita, via Clavature 8, 40124 Bologna. Mimmo Jodice è un fotografo di fama internazionale, noto per il proprio lavoro scrupoloso e spassionato su città, arte e antichità. Meno noto è l’impegno politico del suo lavoro negli anni Settanta. I movimenti sociali dell’epoca hanno esercitato su di lui un’attrazione irresistibile. Senza rinunciare a una visione personale, ha messo il suo sguardo esperto al servizio della stampa militante di sinistra, per illustrare le condizioni del lavoro, soprattutto di quello minorile, all’epoca molto diffuso (... e, ancora oggi). ❯ Dalla Collezione Walther: Landscapes of American Power. Pinacoteca Nazionale, via delle Belle Arti 56, 40126 Bologna. Indagine sugli effetti esercitati dall’industrializzazione statunitense del Novecento. A distanza di cento anni l’uno dall’altro, due fotografi hanno documentato lo sfruttamento delle risorse energetiche e le relative trasformazioni subite dal paesaggio americano. The Making of Lynch (1917-1920) è un antico album di fotografia vernacolare, che documenta la repentina edificazione di una città mineraria e di un impianto industriale tra le lussureggianti montagne del Kentucky orientale. In allineamento e collegamento ideale, dodici stampe di grandi dimensioni dalla serie documentaria American Power (2003-2009), di Mitch Epstein: cronaca della produzione e del consumo di energia in Nord America. ❯ John Myers (Inghilterra): La fine delle manifatture. Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna (Istituzione Bologna Musei), Strada Maggiore 34, 40125 Bologna. Fotografie realizzate tra il 1981 e il 1988, nella regione dell’Inghilterra che viene identificata black country. ❯ Michele Borzoni (Italia): Forza lavoro. Palazzo Pepoli Campogrande, via Castiglione 7, 40124 Bologna «Ambizioso progetto documentario, che traccia un quadro composito dell’attuale panorama del lavoro in Italia» (Valentina Tordoni). ❯ Mårten Lange (Svezia): Machina / Mechanism. AngelicA, Teatro San Leonardo, via San Vitale 63, 40125 Bologna. Machina (2007) raccoglie immagini provenienti da laboratori di ricerca di fisica nucleare, microscopia e nanotecnologia. Mechanism (2017) è una serie di fotografie che vanno a formare un racconto fantascientifico sulla vita contemporanea. ❯ Vincent Fournier (Francia): Futuro passato. Museo d’Arte Moderna di Bologna, via don Giovanni Minzoni 14, 40121 Bologna. Alternando tra stile documentario e immagini evocative di situazioni particolari, l’autore esplora la finzione come realtà parallela. ❯ Mathieu Bernard-Reymond (Francia): Transform. Spazio Carbonesi, via de’ Carbonesi 11, 40123 Bologna. Centrali idroelettriche francesi, lungo il Reno e nella centrale nucleare di Fessenheim. I concetti di produzione e trasformazione regolano sia la funzionalità dei luoghi fotografati sia il processo di creazione delle immagini. ❯ Yukichi Watabe (Giappone): Diario di un’indagine. Museo di Palazzo Poggi, via Zamboni 33, 40126 Bologna. Primo fotografo giapponese a ottenere il permesso di accompagnare la polizia per documentare un’indagine, “il caso del cadavere a pezzi”. Il 13 gennaio 1958, in una cisterna di petrolio, furono ritrovati resti umani. Il giorno dopo, la polizia trovò un cadavere corroso dall’acido. Invitato a seguire l’ispettore capo Tsumotu Mukaida, il fotografo accompagna dietro le scene di un servizio di cronaca e disvela un universo che ha l’impronta estetica di un film noir. ❯ Carlo Valsecchi (Italia): Sviluppare il futuro. Ex Ospedale degli Innocenti, via D’Azeglio 14, 40123 Bologna. Nota da tempo per il dinamismo del proprio tessuto industriale, l’area di Bologna ospita il più grande stabilimento italiano costruito negli ultimi vent’anni, realizzato per la fabbricazione dell’Iqos. Eccezionale per dimensioni, il progetto sorprende anche per la natura della sua produzione, aspirando a rivoluzionare la vita dei fumatori attraverso nuovi brevetti volti a ridurre i danni provocati dalle sigarette.
COURTESY THE WALTHER COLLECTION
mondo amabilmente rappresentato... e prende vita una teatralità visiva che esclude qualsivoglia ambiente circostante, per dare esistenza alle sole immagini. In una suggestiva sequenza temporale, dal soggetto alla sua abile rappresentazione, dal vero alla sua immagine, i passi compiuti dagli autori diventano nostri. Per quanto fisicamente fermi e fissi in un luogo a noi confortevole, sollecitati e invitati da una interpretazione fotografica sempre intenzionalmente superlativa, il nostro cuore guida la mente verso orizzonti lontani, spazi sconosciuti, atmosfere appassionanti. È proprio vero, in ulteriore ripetizione doverosa: quando ben eseguita, e tanti sono i casi, «la fotografia spiega l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso» (da e con Edward Steichen). Questa Fotografia è realizzata con tale e tanto amore, sia per il soggetto (qualsiasi questo sia o appaia), sia per la mediazione (fotografia), sia per l’osservatore destinatario (noi tutti), che effettivamente potrebbe valere le proverbiali mille parole. Anche se, siamo onesti, ci sono altrettante mille parole irraggiungibili dalla fotografia. E poi, ancora, ci sono fotografie che evocano parole sentite, fino a chiarirle: (da e con Giacomo Leopardi) «L’anima s’immagina quello che non vede». E, allora, L’infinito: Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
/ e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / [...] Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare [riquadro a pagina 45]. Rientrando in Foto/Industria Biennale 2017, ancora dalla presentazione del curatore François Hébel: «Illusione. L’illusione è costitutiva dell’atto fotografico. Il territorio della produzione e del lavoro è un campo d’azione ideale per fotografi e collezionisti. «La Fondazione Walther ci propone due serie dalla sua collezione. The Making of Lynch, corpus di fotografie del primo Novecento, è un autentico tesoro, che documenta, quasi in time-lapse, la nascita repentina di una città costruita in funzione dello sfruttamento del carbone, all’inizio della rivoluzione energetica negli Stati Uniti. «American Power, dello statunitense Mitch Epstein, mostra come, un secolo più tardi, la produzione di energia sia diventata un elemento onnipresente di quello stesso paesaggio. In entrambi i casi, l’occhio dei fotografi gioca con il tempo e lo spazio, dando vita a collegamenti inattesi e stupefacenti. «Il francese Mathieu Bernard-Reymond si affranca dalla realtà e utilizza le proprie fotografie dei siti di produzione energetica come materiali grezzi, che tra-
Anonimo: First Car of Coal, Lynch KY, Nov 1 1917, dalla raccolta The Making of Lynch, Harlan Co, Kentucky, United States Coal & Coke Co. Incorporated, 1917; stampa ai sali d’argento in album.
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© JOSEF KOUDELKA / MAGNUM PHOTOS
© THOMAS RUFF
BY
© LEE FRIEDLANDER / COURTESY FRAENKEL GALLERY, SAN FRANCISCO
Thomas Ruff: phg.09_II, dalla serie Photograms, 2014; C-print.
SIAE 2017 / COURTESY OF THE ARTIST AND LIA RUMMA GALLERY
Lee Friedlander: Cray, 1986.
Josef Koudelka: Italy, 2004.
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sforma attraverso un algoritmo. Le composizioni astratte che ne risultano lasciano aleggiare un dubbio sul versante del reale, esaltando -al tempo stesso- il materiale cosi elaborato. «Per l’imponenza della scala -l’apparente irrilevanza dell’uomo di fronte a quegli spazi-, è difficile credere alla realtà delle fotografie di Vincent Fournier sull’addestramento degli astronauti e della serie dei robot. «In compenso, si resta sconcertati dalle sconvolgenti prove fotografiche raccolte da Joan Fontcuberta sul cosmonauta sovietico che avrebbe dovuto posare il piede sulla Luna prima dell’americano Neil Armstrong, del quale il mondo occidentale non ha mai sentito parlare. «Michele Borzoni ha percorso l’Italia in lungo e in largo, per delineare una fisionomia della società di servizi in cui il paese si è convertito. L’artista fotografa dall’interno gli sconfinati spazi di lavoro del Ventunesimo secolo, centri di distribuzione, call center, luoghi di selezione del personale. «Nella serie Mechanism, lo svedese Mårten Lange adotta una prospettiva esterna, per evocare con toni minimalisti la solitudine degli impiegati nell’immensità della città e degli spazi di lavoro contemporanei. Nella serie Machina, affronta il tema della complessità oltre
ogni comprensione delle più sofisticate apparecchiature da laboratorio. «L’illusione raggiunge l’apice nel reportage fotografico, con ambientazione da film noir, del giapponese Yukichi Watabe, che segue sul campo un ispettore di polizia impegnato in un’indagine criminale in un Giappone appena uscito dalla Seconda guerra mondiale. «John Myers ci parla con malinconico lirismo delle illusioni perdute in Inghilterra, culla della rivoluzione industriale, dopo la trasformazione del paese ad opera di Margaret Thatcher. Nel cuore del black country, gli stabilimenti di mattoni, che hanno conosciuto il ferro, il carbone e il fuoco, attendono la propria probabile riconversione in società di servizi. «Mimmo Jodice, celebre per fotografie scultoree e senza tempo, mostra qui un aspetto meno conosciuto della propria opera: l’impegno civile degli anni Settanta. Testimone e protagonista dei grandi movimenti sociali, ha fotografato bambini al lavoro nelle vie di Napoli. Pubblicata su giornali militanti, nel tempo, questa realtà violenta e ingiusta, fortunatamente, ha avuto un’evoluzione positiva. L’artista ha così contribuito a far sì che un’illusione, un desiderio di cambiamento, si realizzasse». E l’illusione ci edifica. ❖
LA GRANDE RIVOLUZIONE
Dmitrij Moor (Dmitrij Stachievič Orlov; 1883-1946): L’importanza della fedeltà procede per l'arruolamento di lavoratori e agricoltori nell'Armata Rossa; 108x70cm; 1918.
di Maurizio Rebuzzini
N
onostante ciò che qualcuno possa pensare, ancora oggi -in tempi di assenza di ideologie, dottrine, filosofie e pensieri-, non abbiamo alcuna prevenzione politica rispetto gli argomenti da affrontare e approfondire sulla rivista. Come spesso sottolineato, e qui ribadiamo, confermandolo, una volta di più, una volta ancora, mai una volta di troppo, e -soprattuttonon certo per l’ultima volta, intendiamo la materia istituzionale -la Fotografia, in maiuscola volontaria, oltre che consapevole- come fondamentale e privilegiato spunto di partenza, non certo arido punto di arrivo.
Cento anni fa: 1917-2017. La Rivoluzione d’ottobre ha aperto le porte di un nuovo territorio sperimentale. Nella giovane Unione Sovietica, negli anni Venti, l’idea di industrializzazione diventò non soltanto l’espressione massima del calcolo economico, ma, addirittura, atto supremo di umanesimo. Il costruttivismo, idea dell’arte della produzione (produttivismo), è tra i momenti più importanti di quella cultura sovietica, che si è espressa anche/soprattutto a suon di propaganda illustrata. E qui, ed ora, tralasciamo altre considerazioni: per esempio, quella relativa alla Rivoluzione tradita (da e con Leon Trockij), che teniamo nell’intimo e nel cuore 51
Aleksandrs Apsītis (Alexander Petrowitsch Apsit; 1880-1943): Proteggere e difendere Petrograd!; 74x107cm; 1919 circa.
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Ovvero, s-punto di partenza alla cui luce e alla cui profondità decliniamo osservazioni a tutto tondo, osservazioni sulle manifestazioni e svolgimenti della vita attorno a noi e con noi stessi (involontari) protagonisti. Per questo, e in base a questo, non abbiamo timore di affrontare tematiche parallele al contenitore Fotografia, quando e per quanto queste siano fonte di considerazioni e riflessioni utili e proficue al cammino nella curiosità, conoscenza e competenza: attraverso la cui somma, ognuno di noi costruisce ed edifica la propria personalità e visione... perché no?, del mondo circostante. Così, la data odierna è significativa nella propria certificazione (senza celebrazione alcuna) del centenario dalla Rivoluzione d’ottobre, nelle date 1917-2017. Come si sa, la dizione e datazione si basa sul calendario giuliano, che da millenni conteggia il tempo nel mondo occidentale, al quale si è soliti fare riferimento assoluto. Dunque, le date del venticinque e ventisei ottobre, per l’appunto, della fase finale e decisiva della rivoluzione russa, avviata nel febbraio precedente, si incontrano con il corrispondente riferimento al setteotto novembre della datazione originaria (russa). Il racconto e l’analisi di quella Rivoluzione, che ha segnato il Novecento, stabilendo altresì una linea demarcatoria nella socialità e politica di tutto il pianeta, spettano ad altri: competenti e autorizzati a farlo. Da
parte nostra, c’è solo l’intenzione di affrontare un aspetto consequenziale e parallelo, che riguarda la raffigurazione visiva, in forma grafica, innescata proprio dalla stessa Rivoluzione. Comunque, prima di farlo, e in commento alle illustrazioni di accompagnamento, sono necessarie due annotazioni, almeno due. La prima è di ordine pratico e finalizzato: ci riferiamo alla trasformazione grafica e di comunicazione avviata e attivata dalla Rivoluzione d’ottobre e all’indomani della Rivoluzione d’ottobre sia per la sua grandezza, rilevanza e consistenza assolute, sia in assenza di fotografie che raccontino gli eventi. In effetti, qualche fotografia (sporadica) esiste, ed è reperibile, anche in Rete, ma nessuna è effettivamente rappresentativa dei fatti e del loro svolgimento: sia in forma singola e isolata, sia in successione quantitativa. La seconda rilevazione riguarda il racconto dei fatti, dai quali escludiamo l’intimità della Rivoluzione tradita (da e con Leon Trockij, fin dal 1936).
ROMANZI DI VITA Personalmente, siamo convinti che i romanzi aiutino a vivere. In un’epoca, come la nostra, nella quale si preferiscono la saggistica e il giornalismo che trattano di storia, politica, economia, scienza, ipotizzando di
imparare cose importanti, pratiche, utili, continuiamo a sostenere il consistente valore della narrativa. Contro un certo pensiero razionale, costruito su concetti, il romanzo è un flusso armonioso e coinvolgente di accadimenti che aiuta a comprendere la realtà e il comportamento degli esseri umani. Senza negare importanza alla saggistica, in altri ambiti, e in allineamento a una riflessione del sociologo, giornalista e scrittore Francesco Alberoni, dalla quale ricaviamo l’essenza di queste nostre considerazioni (dal Corriere della Sera, del 10 novembre 2008; fondo Pubblico&Privato), siamo convinti che la narrativa dia quanto la saggistica non potrà mai offrire: «Lo scorrimento reale della vita umana, il significato delle azioni, i pensieri nascosti, i mille contraddittori motivi che stanno dietro le nostre decisioni. La narrativa ti fa partecipare al mondo interiore di uomini e donne che sperano, sognano, amano, soffrono, lottano, vincono, sono felici e hanno paura. Un mondo che non è lineare, dove si mescolano passato, presente e futuro, tenerezza e passione, dubbi e certezze, odio e compassione, violenza e pentimento». [«E c’è un altro motivo per leggere soprattutto la grande narrativa: il linguaggio. Sono i grandi narratori che creano il linguaggio. Chi non legge questi libri non imparerà mai a scrivere. Molti manager e molti politici
scrivono male proprio per questo motivo. Tra una persona che ha frequentato l’università, ma non legge, e una con una scolarità inferiore, ma che ha l’abitudine di leggere, la seconda parla e scrive meglio»]. Quindi, in riferimento alla Rivoluzione d’ottobre, due titoli: il primo è scontato, il secondo è sorprendente. Ovviamente, il primo, inviolabile e doveroso, è I dieci giorni che sconvolsero il mondo, del giornalista statunitense John Reed (tante e continue le edizioni italiane), che ha avuto anche una convincente trasposizione cinematografica: Reds, di e con Warren Beatty (nei panni di John Reed), vincitrice di tre premi Oscar, per la regia, la fotografia (di Vittorio Storaro) e l’attrice non protagonista (Maureen Stapleton, nei panni dell’anarchica, femminista, saggista e filosofa statunitense socialista Emma Goldman). In ogni caso, I dieci giorni che sconvolsero il mondo narra in chiave di reportage romanzato gli avvenimenti della Rivoluzione d’ottobre. Il secondo romanzo che affronta e racconta in modo straordinario quei giorni, quel clima, quel mondo, riferendolo emozionalmente a esistenze singole e coinvolgenti, è il primo titolo della trilogia del Novecento, di Ken Follett, quello da cui prendono avvio le vicende di famiglie che poi si incrociano e completano (eccezionali, le figure femminili, tanto quanto lo sono quelle del capolavoro dello stesso autore, I pilastri della Terra,
Dmitrij Moor (Dmitrij Stachievič Orlov; 1883-1946): Ti sei già arruolato come volontario?; 106x71cm; 1920.
(centro pagina, in alto) Anonimo: Volontari per la Cavalleria dell’Armata Rossa; 78x58cm; 1920.
(al centro, in basso) Alexander Yakovlevich Meerson (1922-1973): La bandiera della Rivoluzione non svanirà nel tempo!; 68x99cm; 1966.
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SOPRA TUTTI: EL LISSITZKY
Non si può sottolineare l’influenza della grafica russa all’indomani della rivoluzione (bolscevica) senza avvalorare la personalità di El Lissitzky (nella grafia occidentale più diffusa), pseudonimo di Lazar’ (o Eliezer) Markovič Lisickij (1890-1941), che più di altri ha rappresentato la figura nuova dell’artista che si allontana dal proprio limbo protettore ed estraneo alla vita, per mettersi al servizio di un’idea, una società... il mondo. Lo si identifica come pittore, fotografo, tipografo, architetto e grafico. Esponente dell’avanguardia russa, dapprima, assieme con l’amico Kazimir Malevič, ha aderito alla corrente del suprematismo, nel cui ambito sono celebri i suoi quadri denominati Proun. «Il Proun inizia come una superficie piana. Poi, si trasforma in un modello dello spazio tridimensionale. Infine, questo prosegue evolvendosi con la costruzione e fusione asimmetrica e pluriassiale di tutti gli oggetti del vivere quotidiano» (El Lissitzky, 1922). Per Proun (termine derivante da “Pro-Unovis”, da pronunciarsi pro-oon, che significa “per la scuola della nuova arte”), El Lissitzky ha inteso un nuovo ambito artistico intermedio tra architettura e pittura. Con lo stesso termine, indicava anche una serie di suoi quadri astratti e geometrici, rispondenti al suprematismo di Kazimir Malevič: non dipinti asettici, ma “stazioni di transito dalla pittura all’architettura”, realizzate soprattutto durante la permanenza a Vicebsk, in Bielorussia,
Bozzetto di manifesto; 1925.
Copertina per Oggetto; 1922.
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al confine con la Russia e la Lettonia, tra il 1919 e il 1920. Nel proprio agire, in linea con l’energia propulsiva delle avanguardie russe, con la sua azione, El Lissitzky traduce e interpreta e concretizza l’aspirazione verso un’arte che sia “esperienza della totalità”. A seguire, insieme con Aleksandr Rodčenko, si diede alla sperimentazione, unendosi al movimento costruttivista. Adoperò le tecniche del fotomontaggio e del collage, molto spesso a scopo propagandistico. Lavorò a pubblicità e manifesti divulgativi per l’Unione Sovietica, durante gli anni dei conflitti mondiali. Nel 1921, si recò a Berlino, come ambasciatore della cultura dell’Unione Sovietica nella Germania. Durante quel soggiorno, El Lissitzky si dedicò alla grafica; inoltre, a Berlino, frequentò artisti d’avanguardia espressiva, tra i quali si registrano Kurt Schwitters (1887-1948; artista tedesco attivo in diverse correnti del proprio tempo, tra le quali dadaismo, costruttivismo e cubismo; è ricordato per l’utilizzo di mezzi d’avanguardia, come il suono, il collage e il dattiloscritto), László Moholy-Nagy (1895-1946; pittore e fotografo ungherese, che fu esponente di spicco dell’esperienza della Bauhaus, la scuola di architettura, arte e design fondata a Weimar, in Germania, da Walter Gropius, nel 1919) e Theo van Doesburg (Christian Emil Marie Küpper, 1883-1931; teorico dell’architettura e delle arti figurative, pittore, architetto).
Spezza i Bianchi col cuneo rosso (manifesto); 1919.
Bozzetto di copertina per la rivista Broom; 1922.
Proun 12 E; 1920 circa.
nel quale, sullo sfondo degli avvenimenti storici del Dodicesimo secolo, si snodano le avventure di personaggi verosimili, e viene illustrato con efficacia lo scontro in atto nel medioevo tra la nobiltà, ancora arroccata a difesa dei propri privilegi, e la nascente borghesia mercantile, che si stava sviluppando nelle città e che tentava di liberarsi dai fardelli arcaici del feudalesimo). Dunque, nella propria narrazione, La caduta dei giganti comprende anche la Rivoluzione d’ottobre, inserita e collocata negli accadimenti di inizio Novecento, influenti oltre se stessi: a seguire, la trilogia si completa con L’inverno del mondo (attorno la Seconda guerra mondiale) e I giorni dell’eternità (dopoguerra, fino ai nostri giorni... o quasi).
ALLE ORIGINI Ed eccoci qui: grafica sovietica di propaganda, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre. Nulla di scientifico, ma -soprattutto (o, forse, soltanto)- considerazioni personali, frutto di osservazioni da fruitore, e non certo da addetti al lavoro. E così la raccontiamo... alla nostra maniera. Probabilmente, è legittimo individuare un precedente clamoroso: in quello Zio Sam della cultura e tradizione statunitense, che, nello stesso 1917, in curiosa coincidenza di date, illustrò un manifesto propagandistico per reclutare soldati (volontari) a sostegno dell’impegno
bellico sui fronti della Grande guerra (dall’estate 1914 alla fine del 1918; gli Stati Uniti intervennero nell’aprile 1917), che, successivamente, avremmo dovuto conteggiare come Prima guerra mondiale, una volta scoppiata la Seconda (dall’autunno 1939). Disegnato da James Montgomery Flagg (18771960), abile cartellonista pubblicitario, quell’originale dito puntato verso l’osservatore, sovrastante la dicitura (slogan, non ancora headline) «I Want You / For U.S. Army», visualizzò il volto del generale inglese lord Horatio Herbert Kitchener, vincitore della seconda guerra boera (1899-1902). Da notare, che lo stesso soggetto fu poi replicato, all’indomani dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, a seguito dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, del 7 dicembre 1941, per il reclutamento a sostegno dell’impegno bellico nella Seconda guerra mondiale. Comunque, quel dito puntato, più in forma di intimidazione che appello, è capostipite di una propaganda politica proliferata avanti nel Novecento, soprattutto a partire dai paesi socialisti: sopra tutti, la neo costituita Unione Sovietica. E qui siamo! Ancora, va annotato che, quantomeno in questo senso, la Rivoluzione d’ottobre ha potuto contare su un terreno culturale già per se stesso fertile: «Negli ultimi dieci anni, l’arte russa ha compiuto l’opera di un intero secolo», affermò il critico d’arte (e pittore e
Ignaty Nivinsky (1881-1933): Il Fulmine Rosso; 1919.
Dmitrij Moor (Dmitrij Stachievič Orlov; 1883-1946): Aiuto!; 107x72cm; 1921.
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Adolf Strakhov (1896-1979): Oggi tu sei una donna libera: aiuta a edificare il socialismo!; 91x64cm; 1926. (centro pagina, in alto) Adolf Strakhov (1896-1979): Vladimir Il'ič Ul'janov (Lenin) - 1870-1924; 108x68cm; 1924. (centro pagina, in basso) Vladimir Vasilyevich Lebedev (1891-1967): Lunga vita alla Marina dell’Armata Rossa, avanguardia della Rivoluzione!; 67x50cm; 1920.
(centro pagina, passante) Anonimo: Finché il fucile rosso è nelle mani dei contadini, nessuno oserà minacciare la tua libertà; 61x45cm; 1920.
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collezionista e insegnante e uno dei fondatori della scuola d’arte di Mosca) Vladimir Egorovič Makovskij, nel 1910. Su questo dato, su questo sostanzioso fermento, si basò l’idea di arte libera, promossa all’indomani della Rivoluzione: una sorta di arte totale fondata su princìpi allungatisi, addirittura, dal Rinascimento italiano (senza paradosso alcuno). «Siccome la rappresentazione è già di per sé più grande della parola, lo spettacolo teatrale può diventare un vero e proprio colpo di frusta che risveglia dal torpore e fa precipitare nel vivo fulgore della vita», afferma il filosofo della scienza Ned Block. Per conseguenza, da quel teatro ispirazione di vita alla propaganda politica in “colpo di frusta”, il passo è breve, oltre che scontato. La Rivoluzione d’ottobre apre le porte del nuovo territorio sperimentale. Lenin annuncia che il comunismo è i Soviet più l’elettrificazione. Nella giovane Unione Sovietica, negli anni Venti, l’idea di industrializzazione diventa non soltanto espressione massima del calcolo economico, ma, addirittura, atto supremo di umanesimo. Il costruttivismo, idea dell’arte della produzione (produttivismo), è tra i momenti più importanti di quella cultura sovietica, che si esprime anche/soprattutto a suon di propaganda illustrata. Centinaia di manifesti, stampe e libri di quel tempo sovietico scandiscono la parola d’ordine “L’arte per
le masse”: espressione singolare e perseguita nell’ambito della propaganda politica.
LUNGO IL CAMMINO Per ovvie considerazioni, si data la nascita di tutto questo dal 1918, in una dimensione che si rivela e impone come parte integrante nella vita di quei tempi (sovietici) tumultuosi. Il manifesto propagantistico / Agit-Prop impone stili grafici che hanno profondamente segnato il Novecento tutto e in tutto il pianeta: nel concreto, acquista in fretta uno stile definito, perfettamente adeguato all’intenzione di «obbligare la folla in corsa, che lo voglia o no, a fermarsi davanti agli slogan» (Vladimir Egorovič Makovskij). I primi manifesti sono molto illustrativi, e presto cominciano ad emergere e imporsi autentici capolavori della persuasione: lapidari, concisi, essenziali e dall’invincibile forza di richiamo. Ancora oggi, sono celebri le grafiche di Dmitrij Moor (Dmitrij Stachievič Orlov), Viktor Deni (Viktor Nikolaevič Denisov), degli autori del giornale murale Okna Rosta (Finestre della Rosta, l’Agenzia Telegrafica Russa [Dal 1919 al 1921, la Rosta produce una lunghissima serie di “finestre”, ovvero manifesti propagandistici nati per nascondere le vetrine vuote dei negozi; passando dall’esaltazione politica all’insegnamento vero e proprio, la guida di Vladimir (Vladimirovič)
Majakovskij cambia continuamente tecnica figurativa e compositiva, creando una forma innovativa di propaganda, intensa e fortemente intelligibile]), di Mikhail Cheremnykh (Mikhail Mikhailovich Cheremnykh), Aleksandrs Apsītis (Alexander Petrowitsch Apsit), Anton Lavinskij (Anton MichajlovičLavinskij), del grande Vladimir Lebedev (Vladimir Vasilyevich Lebedev) e, naturalmente, quelle di Vladimir (Vladimirovič) Majakovskij. In epoca priva di annunci pubblicitari, propri e caratteristici del nostro panorama attuale, quei manifesti propagantistici / Agit-Prop furono segno semantico del tessuto culturale dei primi anni della Rivoluzione: allo stesso tempo, esprimono una condizione espressiva in via di formazione e attuazione, nella quale i rapporti tra vecchio e nuovo compongono un intreccio fitto e appassionante, ancora da chiarire... ammesso, ma non concesso, che serva ancora farlo.
ANTICHI SOGNI In conferma dall’incipit odierno, «non abbiamo alcuna prevenzione politica rispetto gli argomenti da affrontare e approfondire sulla rivista»; da tradurre facilmente: non siamo comunisti, anche perché non ha alcun senso comune esserlo oggi (più di ieri). Politicamente, non siamo schierati, e soltanto siamo convinti che una delle forme più accettabili di stato sia quello li-
berale: magari, eticamente corretto e politicamente ineccepibile, con suddivisione pertinente tra i Poteri (politico, giuridico/giudiziario/legislativo, giornalistico...). Ovviamente, non pensiamo che l’Italia sia così e non abbiamo sostanziosi esempi nel mondo. Ma! Continuiamo a crederlo! Per cui, nulla di personale, o forse poco, né coinvolto emotivamente, in quanto abbiamo fin qui considerato. Nulla di preconcetto... forse. Soltanto, però, molta amarezza... per come si sono svolti i fatti. Ricordiamo ancora come e quanto la Rivoluzione d’ottobre, e poi altre rivoluzioni, accesero e innescarono sogni e speranze (tra le quali, quelli/quelle del fisico italiano Bruno Pontecorvo, emigrato in Unione Sovietica, nell’estate 1950; e, ancora, lo stesso viaggio del generale Umberto Nobile, quello della trasvolata del Polo Nord e della leggendaria Tenda Rossa). Comunque, attenzione, tutto quello che ciascuno di noi ha fatto in una certa direzione sociale, spesso rispondendo a utopie e credendo a favole, è stato fatto per se stessi e il proprio cuore (mente e cervello), e non è minimamente insidiato, macchiato, infranto dai tradimenti altrui. Per quanto sia anche vero che abbiamo sbagliato (perfino molto), è altrettanto vero che... avevamo ragione. Fatti non siam! ❖
Ruben Vasilyevich Suryaninov (1930): Noi approviamo la politica del Partito!; 101x67cm; 1962.
(centro pagina, in alto) Vera Sergeyevna Korablyova (1887-1950): Compagni, venite a partecipare alla nostra fattoria collettiva!; 74x52cm; 1930.
(centro pagina, in basso) Aleksandrs Apsītis (Alexander Petrowitsch Apsit; 1880-1943): Avanti per la difesa degli Urali; 74x107cm (?); 1919.
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Il Galateo overo De’ costumi, di Giovanni Battista Della Casa, è disponibile in formato Pdf, scaricabile da diversi indirizzi web
DELFINO SISTO LEGNANI FOTOGRAFIA DI
ROSSO LEVANTO / VIALE
LUNIGIANA 44A, CASA MELANDRI: GIO PONTI
E
ALBERTO ROSSELLI, 1954-1957;
PAVIMENTO MARMO DI
OLTRE LA PORTA
SCALE MARMO
C
onfessione dovuta, per quanto non necessaria... forse. Milano è la nostra città di vita, dalla nascita alla residenza, allo svolgimento quotidiano di ogni attività, professionale e non. Rilevazione necessaria, per quanto non dovuta... ancora, forse. Partendo da Milano, alla volta di destinazioni nazionali, percepiamo sempre una sorta di antitesi che ci viene contrapposta, in merito alla bellezza di vivere altrove che non qui. Dunque, a questo proposito, nel corso del tempo, fosse anche soltanto per accumulo inevitabile, abbiamo subìto numerosi contrasti
e conflitti, per fortuna solo verbali e fonetici, ai quali, comunque, non abbiamo mai risposto, né contrapposto. Cambiano i riferimenti geografici, ma la sostanza è sempre la stessa: guarda come stiamo bene qui, a ridosso delle montagne, oppure in riva al mare, tra la natura e bellezze architettoniche... mentre voi, a Milano, non avete nulla di tutto questo (in una delle tante traduzioni possibili e plausibili, da La volpe e l’uva, di Esopo: «Non potendo raggiungerla, [la volpe] esclamò: “Non è ancora matura; non voglio coglierla acerba!”»). Probabilmente, da milanesi, siamo inconsapevoli di quanto ci circonda; ma, come persone (adulte e ragionevoli), sappiamo apprezzare quanto incontriamo, qui e altrove. Personalmente, poi, diffidiamo
CARRARA;
di Angelo Galantini
Il contenuto della monografia Ingressi di Milano è noto ai milanesi, almeno a quelli con i quali condividiamo il gusto della conoscenza e il sapore della curiosità. In un affascinante viaggio fotografico senza precedenti, dischiude la porta a centoquarantaquattro atrii/atri di ingresso di sontuose architetture della città, affascinanti nelle proprie diversità e splendori 59
PAOLA PANSINI FOTOGRAFIA DI
CALACATTA / MARMO
NERO ASSOLUTO D’ITALIA E PARETI CALCARE
ARABESCATO CARRARA;
Tutto questo per dire, anche, che raramente Milano ha vantato se stessa, dando per scontato che le proprie eventuali eccellenze, dovunque queste si esprimano, dipendono solo e soltanto dallo svolgimento concentrato delle singole esistenze, anche professionali. Nulla è straordinario, ma l’insieme è definito da un ordinario affrontato con disciplina e concentrazione. Tutto qui. Così, e a conseguenza, abbiamo accolto con non celato piacere un’edizione libraria celebrativa di un aspetto dell’architettura cittadina che, nella propria ordinarietà, incide anche tratti indelebili di una storia dell’arte e della cultura che travalica qualsivoglia confine geografico. In distribuzione da qualche mese, e in esposizione di originali fotografici al Taschen Store Brussels, fino al sei settembre (dal sei
PAVIMENTO MARMO
OLTRE LE FACCIATE
luglio, di inaugurazione), Ingressi di Milano è un imponente volume illustrato che racconta una storia affascinante: espressa e dichiarata nel titolo esplicito (trecentottantaquattro pagine 26x34cm!). Il contenuto è noto ai milanesi, almeno a quelli con i quali condividiamo il gusto della conoscenza e il sapore della curiosità. L’insieme sottolinea come e quanto, le prime impressioni contino soprattutto a Milano: in un viaggio fotografico senza precedenti, l’editor Karl Kolbitz dischiude la porta a centoquarantaquattro atrii/atri di ingresso di sontuose architetture della città, affascinanti nelle proprie diversità e splendori. Questi vibranti ingressi milanesi, ribadiamo conosciuti da chi frequenta la curiosità come stile di esistenza, solitamente celati dietro facciate spesso contenute, sono rivelati come esempi di modernismo italiano. Senza soluzione di continuità, sono mediati tra loro spazi pubblici e privati, con vivaci configurazioni di colori e forme, fino alle pavimentazioni in pietra e murali di geometria minimalista. La raccolta di Ingressi di Milano comprende edifici dal 1920 al 1970, e mostra l’opera di alcuni degli architetti e designer più illustri della città -tra i quali, citazioni d’obbligo, Giovanni Muzio, Gio Ponti, Piero Portaluppi e Luigi Caccia Dominioni [per combinazione, qui a due passi dalla redazione]-, oltre ad architetture fulminee di pari impatto e coinvolgimento. Per la monografia, è stata organizzata e svolta una campagna fotografica specifica, affidata a tre autori di sostanziosa concentrazione visiva e raffigurativa: Delfino Sisto Legnani, Paola Pansini e Matthew Billings, ognuno dei quali ha evocato gli ingressi loro assegnati con ammirevole sensibilità individuale e abile applicazione stilistica di inquadrature di dettaglio -come pietre, maniglie di porta e corrimano-, alternate a sguardi architettonici più ampi. Le immagini sono accompagnate da sostanziosi contributi di testi competenti di Fabrizio Ballabio, Lisa Hockemeyer, Brian Kish, Daniel Sherer, Grazia Signori e Penny Sparke. In comunione di intenti, im-
PORTA NUOVA 2: GIUSEPPE ROBERTO MARTINENGHI, 1937;
degli assoluti, e ci rifugiamo nei relativi: amiamo la nostra città, magari solo per questo (nostra), ma non la misuriamo con nulla. Ancora, siamo consapevoli di tanti stereotipi, che si limitano alla superficie, a tutti apparente, invece di valutare la sostanza. A differenza dei non-milanesi, conosciamo le qualità e i valori della nostra città: soltanto, non ne facciamo bandiera. E, poi, ancora, per diritto di anagrafe, abbiamo anche vissuto straordinarie stagioni, purtroppo tramontate, durante le quali, a Milano, si sono espresse virtù e qualità con le quali siamo cresciuti e ci siamo formati. Soprattutto, rimandiamo alla stagione degli anni Sessanta, precedente il saccheggio politico e morale, di fervori, parole, sogni, progetti e altro tanto ancora [volendolo richiamare, è questo il senso e lo spirito della rassegna Quelli che... Milan Inter ’63. La leggenda del Mago e del Paròn, a cura di Gigi Garanzini, allestita nell’estate 2013, nel cinquantenario, e da noi commentata sul numero di giugno dello stesso anno: momenti di Enzo Jannacci, Beppe Viola, Giorgio Gaber, Bar Jamaica, nascita di Linus, utopie coinvolgenti].
TASCHEN STORE (ANCHE A MILANO)
Taschen Store London Claridge’s e Taschen Store Paris. A seguire, registriamo i quattro statunitensi, che portano a dodici il totale: Taschen Store Beverly Hills, Taschen Store Hollywood, Taschen Store Miami e Taschen Store New York. Da sottolineare che non viene ripetuto un modulo prefissato, come accade per altre esperienze commerciali, che replicano e impongono un arredamento standard, indipendentemente dall’architettura originaria del luogo e da altri fattori contingenti, per offrire una omogeneità rassicurante (al pubblico). A differenza, ogni Taschen Store prospetta una propria individualità, misurata sulla personalità del luogo e della città ospitante.
TASCHEN / MARK SEELEN (2)
CORSO DI
Inaugurato nella primavera 2014, il Taschen Store Milano è ubicato nella centrale via Meravigli 17, a due passi da piazza del Duomo: in un certo senso, questa libreria monomarca certifica il richiamo del capoluogo lombardo nell’economia sociale dei nostri giorni. Infatti, i Taschen Store, che presentano e offrono una panoramica completa dell’imponente catalogo editoriale, sono localizzati in città di primaria importanza culturale. Compreso il Taschen Store Milano, a corollario della monografia Ingressi di Milano, a spasso per l’Europa, si registrano otto indirizzi: Taschen Store Amsterdam, Taschen Store Berlin, Taschen Store Brussels, Taschen Store Hamburg, Taschen Store London,
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DELFINO SISTO LEGNANI FOTOGRAFIA DI
CARRARA BIANCO / E
PORTA SANTA, CARRARA BARDIGLIO MARMO
VERDE ACCEGLIO, PAVIMENTO SERPENTINITE
ALBERTO ROSSELLI, 1952-1956; E
Indiscutibilmente, la fotografia è un linguaggio che colpisce il cuore e la mente dell’osservatore. Affidata a Delfino Sisto Legnani, Paola Pansini e Matthew Billings, la campagna fotografica allestita e svolta per le illustrazioni alla monografia Ingressi di Milano risponde a un capitolato visivo edificato nel Novecento, e soprattutto nel secondo Novecento, con propri debiti di riconoscenza con le più lontane origini della Fotografia: comunque, ha elaborato e praticato un linguaggio espressivo assolutamente diverso da quello di partenza, per certi versi addirittura divergente. Infatti, da tempo, gli autori operano in situazioni nelle quali la fotografia è soprattutto divulgata attraverso la propria riproduzione in tiratura litografica (tipografica, o quel che è, in relazione alle diverse tecnologie applicate), che introduce il princìpio della diffusione di massa, e -dunque- della presunta veridicità. Qui risiede una differenza profonda, che impone la codificazione e il rispetto di valori e intendimenti morali ed etici. Indipendentemente dalle proprie proiezioni professionali, verso l’informazione giornalistica oppure a contato diretto con il pubblico (dalla nobile fototessera alla registrazione e documentazione dei luoghi di vita), prima di agire, il fotografo moderno fa conti interni, con la propria anima e con il senso della propria azione. In questo modo, il Tempo, che è una delle discriminanti del gesto fotografico, ha espresso sentenze irrevocabili. Sono sopravvissuti alla propria contemporaneità soltanto quegli autori che hanno saputo fare tesoro del proprio linguaggio espressivo, e siamo soliti celebrare esempi luminosi. Tanto che, anche in occasione di Ingressi di Milano, vanno precisati termini distintivi del gesto fotografico. Sia la fotografia presa dal vivo, nello svolgimento quotidiano della vita, che viene realizzata per raccontarla (la vita), sia quella realizzata tra le compiacenti pareti dello studio esigono un doppio passo simultaneo: oltre capacità e intelligenza espressiva, il fotografo deve usare la propria macchina fotografica con una abilità fuori del comune. Da un lato, la macchina fotografica sollecita e richiede il contatto con i soggetti, dall’altro deve essere mantenuta a necessaria distanza. E in questa breve formula, semplice da enunciare, non altrettanto da applicare, sta la statura dell’autore, che non agisce da mai da solo, ma è se stesso in accordo e sintonia con l’osservatore al quale si rivolge. Dice, senza lasciare intendere, ma aspetta/richiede anche una successiva partecipazione. Tutto questo per sottolineare che le fotografie di autore, quelle che superano la barriera del Tempo (e sarà sicuramente il caso di queste di Ingressi di Milano), non svelano completamente i propri soggetti. Raccontano istanti di vita e attimi di esistenza, senza scoprire e palesare tutto: lasciano spazio e tempo alla riflessione individuale. A ciascuno, la propria. All’interno dell’evoluzione del linguaggio espressivo, guidato anche da tappe sociali, alle quali ha peraltro offerto il proprio punto di osservazione privilegiato, è questa una fotografia dai tempi ben distribuiti,
DEZZA 49: GIO PONTI, ANTONIO FORNAROLI
IL SENSO DELLE FOTOGRAFIE
VIA
magini e parole insieme esaltano una ricchezza di abilità di architettura e design, per guidare il lettore/osservatore (milanese e/o non) attraverso i materiali applicati e i raccordi accostati, nonché le implicazioni storico-culturali di ciascuno degli ingressi presentati. Ancora, e poi stiamo per andare oltre la superficie, straordinaria guida architettonica della città come studio estetico, la monografia specifica gli indirizzi toponomastici e attribuisce ogni singola architettura all’architetto-autore e alla data di costruzione. A diretta conseguenza, il curatore Karl Kolbitz supera gli stereotipi e ignora le dietrologie, consegnando al pubblico (a noi!) un avvincente e convincente territorio di indagine nel modernismo milanese. Con il rigore della sua ricerca multilivello, la fotografia analizza il DNA progettuale della città, attraverso specifiche applicazioni architettoniche.
che non hanno nulla da spartire con le (inutili) frenesie che stanno caratterizzando questi primi anni di Terzo millennio, e che probabilmente lo stanno anche definendo. Sono fotografie a lungo pensate e meditate; e non ci si riferisce all’iter tecnico della produzione, bensì al concentrato percorso creativo della comunicazione, della condivisione con l’osservatore. Queste non sono fotografie scattate per esaurirsi in un piccolo circolo di poche visioni, ma immagini che già nelle intenzioni originarie si propongono a un pubblico ampio. In questa azione consapevole, maturata nel corso dei decenni che sono seguìti all’invenzione del mezzo e scoperta del linguaggio implicito, l’autore non si nasconde dietro la macchina fotografica, non si fa proteggere dal suo filtro tra realtà e raffigurazione. No. La usa per introdursi nel quotidiano, del quale raccoglie l’essenza, lo spirito vitale. Soprattutto in questo, non soltanto in questo, sta la sua grandezza d’autore. Nel suo peregrinare fotografico, si lascia guidare e condurre da ciò che di volta in volta l’ha toccato e sorpreso. Alla resa dei conti, pur nella manifesta e indubbia raffigurazione di soggetti presto riconoscibili (luoghi, situazioni, ambienti), nel proprio insieme, queste fotografie d’autore hanno un alto tasso di misterioso, che consente a ciascun osservatore di aggiungere proprie visioni personali. Alcune volte, le fotografie richiamano per ciò che è incluso nell’inquadratura, altre volte per quanto ne è restato fuori. L’autore non prevarica mai il proprio soggetto. Pur partecipe (e si vede bene!), sta come discosto, e lascia parlare l’immagine. E proprio l’immagine, la sua fotografia, bussa garbatamente alla porta. Noi l’apriamo e, come per miracolo, diventiamo protagonisti della storia. Veniamo presi per mano e accompagnati, scatto dopo scatto, immagine dopo immagine, in un mondo che non conosciamo. All’inizio, possiamo anche rimanere sconcertati, e concentrarci solo su quanto esplicitamente le stesse fotografie raffigurano sulla propria superficie. Poi, proseguendo, veniamo coinvolti in una atmosfera che non è più definita dall’apparenza delle forme, ma è disegnata dalla sostanza dei contenuti. Le fotografie smettono di essere tali, fotografie, e si muovono, prendono vita, costruiscono vita. Non siamo più solo osservatori, ma diventiamo protagonisti. Ci muoviamo anche noi negli stessi spazi e percepiamo la presenza delle medesime persone: ci allineiamo ai soggetti. È questa la magia della fotografia d’autore, che presto fa dimenticare la propria forma necessaria per lasciare libero il pensiero individuale. Ribadiamo: alla fine, non abbiamo più davanti agli occhi fotografie, ma siamo autenticamente nei luoghi e con le persone rappresentate. Addirittura, cominciamo a sentire i rumori della vita e le voci della gente. Non siamo più protetti negli spazi personali della nostra vita, ma sul volto sentiamo il vento dell’aria aperta. C’è di che riflettere. C’è di che discutere. Cosa sarebbe la nostra vita senza fotografia? Cosa sarebbe la nostra mente, senza fotografia d’autore? La nostra percezione della realtà ne rimarrebbe mortificata. La nostra esperienza, impoverita. Il nostro sapere, modesto. Ecco qui... ecco tutto? ❖ Ingressi di Milano; a cura di Karl Kolbitz; fotografie di Delfino Sisto Legnani, Paola Pansini e Matthew Billings; testi di Fabrizio Ballabio, Lisa Hockemeyer, Brian Kish, Daniel Sherer, Grazia Signori e Penny Sparke; Taschen Verlag, 2017 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); in italiano e inglese; 384 pagine 26x34cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro.
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte settembre 2017)
PEDRO LUIS RAOTA
a Roberto Perdía, uno dei capi dei Montoneros, guerriglieri che hanno combattuto la dittatura argentina. Lo abbiamo incontrato a Buenos Aires, nel corso di una manifestazione a sostegno della Palestina (2015). Ci siamo abbracciati, levato i pugni dalle tasche e alzati contro il cielo.
L
La pastorale della fotografia al tempo dello spettacolo integrato o della società fluida, direbbe Zygmunt Bauman, non si occupa di scenari della conoscenza o dell’indignazione, ma s’accorpa all’illustrazione galvanizzata dello spettacolo come formidabile falsità della vita contemporanea in tutti i suoi aspetti economici, politici, religiosi, culturali. E «Lo spettacolo è il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979). La pastorale della fotografia si guarda guardare, e non mostra il crimine costituito dei governi -sempre tesi ad organizzare guerre e dissertare su come fare affari con le ondate di profughi e di miserie che ne conseguono-, ma sostiene l’ingiustizia in ogni anfratto della società, in cambio di un po’ di successo, qualche premio o una manciata di dollari che insudiciano l’innocenza negata. Il fotografo che non esce dalla propria condizione di servo è parte di una recita, e -per vocazione o soltanto per incapacità creativa- s’accorpa all’egemonia della società parassitaria. [Qui, “pastorale” non va equiparata al genere letterario (Pastorale americana, di Philip Roth; Einaudi, 2005), né a quello filmico ( American Pastoral, di Ewan McGregor; 2016), né -tantomeno- a nessuna catechesi religiosa, ma -piuttostoa un’immagine idealizzata, anche sacrale, che si allarga a una sinfonia visuale della civiltà spettacolare; come il bastone ricurvo dell’autorità ecclesiastica, impugnato dai vescovi, trasmette le simbologie del potere, la pastorale della fotografia figura un linguaggio, un alfabeto,
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un dizionario di “segni” destinati alla conservazione, più ancora... alla deplorevole complicità delle vestigia ideologiche, iconografiche, comunicazionali del pensiero dominante separato dalla vita].
PASTORALE DELLA FOTOGRAFIA AL TEMPO DELLO SPETTACOLO INTEGRATO
Stando molto attenti a non istruire troppo chicchessia, come scrive Guy Debord, nei Commentari sulla società dello spettacolo (SugarCo, 1995; Fausto Lupetti Editore, 2012), lo spettacolare integrato si-
gnifica continuo rinnovamento delle tecnologie, fusione tra economia e politica, spettacolarizzazione della giustizia, dei terrorismi, dei funzionari mediali, dell’esistenza sottomessa, dell’incertezza organizzata, della paura provocata, dei servizi segreti che collaborano tra stati all’instaurazione del falso generalizzato. E tutto per provocare il dominio del desiderio e soffocare dissidenze e resistenze, fare del mercato globale un sistema finanziario coercitivo, che risponde a una teologia dei bisogni indotti e riduce l’Uomo a merce soltanto!
«Uno non ha un’anima per sé solo, ma un pezzetto d’una grande anima, che è la grande anima di tutta l’umanità... Quindi non importa, perché io non potrò mai morire. Io sarò dovunque, dovunque ci sia un uomo. Dovunque ci sia un uomo che soffre e combatte per la vita, io sarò là. Dovunque ci sia un uomo che lavora per i suoi figli, io sarò là. Dovunque il genere umano si sforzi di elevarsi, coi ricchi e coi poveri, in questa comune aspirazione di continuo miglioramento, e dove una famiglia mangerà la frutta d’un nuovo frutteto, o andrà a occupare la casa nuova, là mi troverai» dal film Furore, di John Ford (1940)
Sotto il peso delle definizioni, si celano vittime smarrite e assassini... nemmeno gentili! Senza cascare nella preghiera marcescente e nei letamai elettorali, basterebbero cinque minuti di verità autentica, per spazzare via l’eterno dolore dell’Uomo che sfrutta l’Uomo. I resti dei despoti basta darli in pasto ai maiali: del resto, è dal porcile che provengono tutti. La pastorale della fotografia è un furto dell’intelligenza. La bellezza è una creazione di nostri eccessi, sregolatezze, eresie inflitte al reale come infanzia del mondo... di nudità senza speranze, di ragioni senza rimorsi, di anime in volo verso utopie mai uccise. La fotografia dell’assurdo, allora, è quanto rivela il princìpio di soddisfazione che la nega: la rivoluzione permanente dell’Uomo in rivolta, che non prende la realtà per ciò che è, ma la supera e costruisce verità e dissidi con i quali irrompere nella libertà. «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia» (Albert Camus: Il mito di Sisifo; Bompiani, 2013): cominciare a pensare è cominciare a essere minati delle miserie del mondo e rompere barriere, muri, oltrepassare confini... definirsi commedianti o Uomini rivolta! Il senso della vita si fa luce e si precisa nella ricerca della felicità, contro secoli pretenziosi di ghigliottine! Alla dissolutezza dei buffoni non è male rispondere con la distruzione dei Cesari! Sono la medesima gente! C’è sempre una leggera incertezza all’origine di ogni crollo istituzionale, poi l’allegrezza della gioia col sapore d’eternità.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’ASSURDO Un fotografo dell’assurdo è Pedro Luis Raota. Nasce in Argentina, a Presidencia Roque Sáenz Peña (o Chaco), il 26 aprile 1934, da una
Sguardi su famiglia di contadini. La terra non fa per lui, e -ancora giovane- va a Santa Fe, per studiare fotografia. Svolge il servizio militare a Villaguay, e lavora come assistente di un fotografo dell’esercito (Quique Fabra), presso il quale scatta fototessere. Nel 1958, torna nella sua città e apre uno studio fotografico; viaggia in Argentina e raccoglie la bellezza visuale di un popolo che in quel momento è oppresso dal regime militare dei generali Juan Domingo Perón, prima, e Jorge Rafael Videla Redondo, dopo. Focolai di guerriglia s’accesero sui monti, nelle campagne e nelle città; il governatore della provincia di Buenos Aires, Ibérico SaintJean, aveva idee chiare su come trattare i dissidenti: «Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti; successivamente, quelli che resteranno indifferenti e, infine, gli indecisi». L’ora dei forni aveva inizio, e si fece cruenta sotto la repressione degli sgherri di Jorge Rafael Videla [L’ora dei forni (La hora de los hornos;1968) è un documentario, un po’ troppo perónista, di Fernando Ezequiel Solanas e Octavio Getino, dedicato a Ernesto “Che” Guevara. Venne realizzato a fianco dei moti rivoluzionari, contro il neocolonialismo e la violenza (orchestrati dalla Cia) che -alla fine degli anni Sessanta- investirono l’America Latina, e -insieme al cinema di guerriglia di Glauber Rocha- divenne un punto di riferimento per il cinema politico e militante (non solo) sudamericano]. Pedro Luis Raota sta al margine degli eventi; tuttavia, i militari che fotografa sembrano soldatini di piombo. Lavora sull’antropologia popolare come specchio antico e sofferente di un’intera nazione. Le fotografie di Pedro Luis Raota vincono premi e finiscono in gallerie internazionali: è l’occasione per viaggiare nel mondo. Sue immagini sono esposte anche al MoMA, di New York. Nel 1977, esce il suo primo libro antologico; seguiranno altre pubblicazioni, altrettanto belle... qualche volta, persino troppo. Negli anni Ottanta, s’interessa anche al colore, e diviene direttore all’Istituto Superiore
di Arte Fotografica, di Buenos Aires. Qui, muore il 4 marzo 1986. [Nota fuori margine. Dal 1976 al 1983, le forze armate argentine detennero il potere per mezzo di una giunta autoincaricatasi del cosiddetto Processo di Riorganizzazione Nazionale; il governo militare represse l’opposizione, sia da parte dei gruppi di sinistra sia dai perónisti, utilizzando metodi improntati all’illegalità assoluta, dando inizio a quella che sarebbe passata alla Storia come la Guerra sporca. Migliaia di dissidenti furono fatti sparire, mentre la Secretaría de Inteligencia del Estado cooperò con i servizi segreti sudamericani e la Cia in quella operazione che gli Stati Uniti avevano pianificato, organizzato e finanziato al fine di contribuire a eliminare il pericolo dell’instaurazione di governi di sinistra filosovietici in Sudamerica e in America Centrale: la cosiddetta Operazione Condor. Nel periodo della dittatura, oltre trentamila argentini scomparvero, e sono passati alla storia come desaparecidos: le persone venivano sequestrate, arrestate e deportate in centri clandestini di detenzione, tra i quali la Esma (Escuela Superior de Mecánica de la Armada, tramutata successivamente in Museo de la Memoria, all’indomani della cacciata dei militari): qui, venivano torturate e, molto spesso, uccise. L’occultamento dei cadaveri avveniva anche in mare, con i voli della morte, ossia il trasporto delle vittime, spesso ancora vive, a bordo degli Hercules dell’esercito argentino, fatte precipitare nel Rio della Plata (orrenda pagina della storia contemporanea). Esiste un rapporto della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas, del settembre 1984, il Nunca más, nel quale -in un aberrante tunnel dell’orrore- hanno sfilato le testimonianze di chi è sopravvissuto. Molti dei capi militari che presero parte alla Guerra sporca vennero addestrati nella School of the American, finanziata dagli Stati Uniti; tra questi, i famigerati e spregevoli generali argentini Leopoldo Galtieri e Roberto Eduardo Viola. Problemi economici, accuse di
corruzione, la condanna dell’opinione pubblica nei confronti degli abusi dei diritti umani e, infine, la sconfitta del 1982, inflitta dai britannici nella guerra delle Isole Falkland (Isole Malvine) screditarono il regime militare argentino e accelerarono il suo crollo. Restano da ricordare che anche i Montoneros, l’Ejército Revolucionario del Pueblo e il Far (Fuerzas Armadas Revolucionarias) fecero la propria parte, tra mille contraddizioni: si espressero nella lotta armata, sequestri e azioni di guerriglia metropolitana; molti furono uccisi, torturati, trucidati e scomparvero nella lunga lista dei desaparecidos. Però, resta il loro contributo di sangue versato per la sconfitta del terrorismo di Stato (Rolo Díez: “Vencer o Morir”. Lotta armata e terrorismo di stato in Argentina; Il Saggiatore, 2004)]. Va detto. Negli stessi anni del terrore dello spregevole Jorge Rafael Videla [un insulto all’Umanità tutta, ben al di sopra di quanti ancora vivono tra noi; Franti], papa Francesco, Jorge Bergoglio (gesuita), allora arcivescovo di Buenos Aires, non sembra estraneo a connivenze con il regime e, anche se la sua immagine è stata prontamente “ripulita” (da infamie probabilmente commesse) dai media internazionali e da film [Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente, di Daniele Lichetti, del 2015]. Più stupide dell’acqua dei lupini, restano le denunce di elementi sovversivi alle alte gerarchie dell’esercito e del clero: come accusa il giornalista Horacio Verbitsky (della sezione interamericana Human Rights Watch) nel suo L’isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, pubblicato in Italia da Fandango, nel 2006. Le carte dicono che dietro la faccia da imbonitore di papa Bergoglio si cela un abile doppiogiochista e connivente con i torturatori di Jorge Rafael Videla: gli oltre trentamila desaparecidos e le madri di Plaza de Mayo lo condannano [condannerebbero?; Franti] a una solitudine senza appello, in attesa che s’impicchi con un rosario a una croce di sputi. Le alte gerarchie della chiesa di Roma (come le altre religioni monoteiste) hanno
sempre benedetto guerre, terrorismi e genocidi... e tutto nel nome santificato di un impostore di bassa lega (Gesù Cristo)... se fosse morto alcolizzato su un divano, invece di farsi infilzare su una croce, per fare un po’ di spettacolo e inventare la comunicazione visiva, avrebbe fatto meno male all’intera umanità. [Qui, una nota di dovere, oltre che diritto. Spesso non condividiamo le opinioni di Pino Bertelli / Pinocchio; ancora più frequentemente, non partecipiamo alle sue invettive, a volte estranee al soggetto in essere e calzanti a una riluttanza endemica. Comunque, come spesso rilevato, lui ha il diritto di esprimersi; noi, forse, il dovere di pubblicare. Comunque, ancora, sia chiarito che non spartiamo con lui questo pensiero su Gesù (ma fosse stato anche su Mao, Lenin, Errico Malatesta, Voltaire, Jurij Gagarin, Antoine de Saint-Exupéry, tenente Colombo, Henri Murger, Galileo Galilei, Babe Ruth...); entro limiti che ci siamo imposti, approviamo tutte opinioni... entro limiti che ci siamo imposti. Franti]. Le immagini dell’assurdo, di Pedro Luis Raota, si sovrappongono alla realtà criminale, confezionata e pretestuosa dell’immaginario spettacolarizzato (non solo fotografico); restituiscono nobiltà alla sofferenza degli Ultimi e all’immutabilità del dolore attimi di Bellezza e Felicità. Non si fotografa l’evidenza, perché l’esatto è oggetto di culto! Si chiama fotografia dal vero quando il Buono, il Giusto e il Sublime s’intrecciano e, attraverso lo Spessore e il Mistero, inventano la realtà della comunità che viene.
ANCORA SULLA FOTOGRAFIA DELL’ASSURDO Quando la fotografia non aspira all’universale, e le sue storie migliori sono quelle di pentimenti e successi, tutto ciò che è valido si separa e muore in un autore. Che il diavolo sia con noi... i santi e i profeti sono già stati tutti venduti al mercato delle ideologie (e dei terrorismi che ne conseguono), per pochi soldi. Nei beatificati, come nei politici e anche negli artisti, sonnecchia un macellaio, e -quando si sveglia- c’è un po’ più violenza
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Sguardi su sulla Terra. Nella foresteria dell’assurdo restano gli Uomini di spirito, i non conciliati con tutto quanto figura il naufragio della civiltà del terrore... a fare della propria vita un’opera d’arte! La fotografia sarebbe intollerabile senza la poetica dell’assurdo che la nega. La fotografia dell’assurdo è una figurazione della realtà, e costruisce una situazione che la supera e diventa mondo. È la poetica del pensiero umiliato degli Ultimi, o di un solo Uomo. Non importa: il fotografo dell’assurdo non ha, né cerca, via d’uscita, se non per passare a distruggere i pregiudizi della ragione; la sua grandezza è l’illogicità. Il disprezzo in via assoluta per il razionale è la crocifissione della speranza e, nella belligerante nostalgia dell’assurdo, trova nella rivolta un’adesione forsennata che illumina le certezze e ne previene, o anticipa, la caduta: «L’assurdo è il peccato senza Dio» (Albert Camus). Non c’è riconciliazione nell’assurdo, né scandalo: l’assurdo è l’eterno ritorno all’infanzia intramontabile di Nietzsche, che anticipa i propri limiti e -disimparando a sperare- trova quel viatico in libertà che nasce dall’anarchia. La fotografia dell’assurdo, di Pedro Luis Raota, non si configura nella semplicità e nell’immediatezza, né -tantomeno- coglie l’attimo irripetibile (alla Cartier-Bresson, dicono). La sua fotografia -che in maniera un po’ rudimentale è stata definita “caravaggesca”, per «l’uso naturale del chiaro-scuro» (?)- non ha niente a vedere con tutto questo; semmai, ha filamenti e coordinate più teatrali che pittoriche. E, poi, la fotografia (come qualsiasi arte autentica) non ha genere... è un’invenzione sovrastrutturale dell’industria culturale: gli affari sono affari, diceva il boia di Londra!. La fotografia è una: quella bella e quella brutta! La fattualità del consenso si crea nel delirio e si disfa nella merce! Senza un’immaginazione traboccante di Bellezza e Pietà non esiste giustizia, né dignità; e solo nel disvelamento del marcio dei precetti nasce la violazione dell’imposto. Non c’è rimpianto, né rimorso, a coltivare l’imperfezione, e l’avventura del di-
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singanno... in piena coscienza; ancora, la creatività sovversiva sta nella volontà di non essere cadaveri dell’ossessione imperialista del mercato... vivere e morire a viso scoperto, sapendo che non solo nel cuore si fabbricano utopie. La forza evocativa delle fotografie di Pedro Luis Raota è una sorta di realismo magico. Le immagini sono colme di tenerezza e crudezza... anche: esprimono un linguaggio caldo e partecipativo, complice spesso di ciò che tratta. Giustamente, il fotografo afferma che «Un fotografo pensa un’immagine e, se non esiste, la crea!». La creazione del momento e la nobiltà umana espresse da Pedro Luis Raota respingono l’indifferenza, e s’accorpano all’innocenza del vissuto come destino; non c’è ottimismo nelle sue fotografie... c’è allegrezza, malinconia, inadeguatezza verso ciò che opprime. E sono proprio gli Oppressi che vengono innalzati in qualcosa di raffinato, quasi sacro, forse solo “cantati” come una canzone appassionata. L’onestà intellettuale non ha bisogno di regole: il suo princìpio è la liberazione della comunità umana dalle proprie catene. La bellezza figurale dell’intera opera di Pedro Luis Raota è, a dire poco, singolare: sempre al limite tra estetica del racconto e estetismo della tecnica. Tuttavia, a noi sembra che le sue immagini riescono a comunicare a fondo l’epica di una povertà senza rimedio. A vedere (la donna che fugge dall’incendio di un carro, con due bambini in braccio; la vecchia che tira la rete; il ragazzo che porta i pesci sulla spalla; i volti austeri di vecchi; i sorrisi dei ragazzi; i pianti e i giochi dei bambini... tutti abilmente/tecnicamente appoggiati su sfondi neri) si coglie tanto l’amarezza di un discorso amoroso, quanto la legittimazione a vivere diversamente. Non so... si resta perplessi di fronte a tanta abilità creativa, si avvertono dubbi, sensazioni, paradossi. A volte, il fotografo è così preso dalla propria idea affabulativa, che si vede solo l’immagine che desidera e poco altro. Altre volte, la creazione della propria realtà è così compiuta, che
il soggetto fotografato emerge dall’immagine e diventa Storia. Al di là dai consensi e dai successi conseguiti, sovente come “fotografia artistica”, la cartografia fotografica di Pedro Luis Raota comincia dove il pensiero comune finisce. Fuori dal senso della consolazione! Nel dissidio fondamentale che separa l’Uomo dall’esperienza, a vedere bene, le sue fotografie compongono un prontuario di immagini in stato di grazia così mirabile che commuove gli spiriti non assoggettati alle catene della colpa e alle facezie dell’altare. La sua iconografia esprime percorsi di tentazioni, vertigini, ombre e luci, che s’intrecciano e avvolgono i soggetti. C’è complicità tra fotografo e fotografati, si vede perfino turbamento, specie quando l’autore si avvicina ai volti. Quello che fuoriesce dal cuore dell’immagine è sempre accompagnato da una filosofia di dignità e rigore: il sapere estetico fiorisce là dove la partecipazione dei soggetti è totale. La donna con dietro i fumi della fabbrica, la ragazzina che versa l’acqua calda sui piedi della donna seduta, la signora col violino che suona in una strada, la signora con la pipa e il fascio di legna stretto nelle mani... sono esempi di fotografia dell’assurdo, che si spingono al margine della storiografia, poiché ne accettano la fine. Al fondo della fotografia dell’assurdo c’è lo stupore e la meraviglia mai violati: un’insubordinazione di templi e dèi, codici e leggi, morali e proclami. I valori sono quelli dell’Uomo, della Donna, dei Bambini davanti allo specchio/fotografia che non usa la terminologia dei vinti... semmai, li riscatta nella Bellezza, nella Giustizia, nel Bene comune. Non lo grida, però: lo dissemina nella decenza degli Esclusi e nella conoscenza del proprio malessere che si fa coscienza sociale, forse. La poetica dell’assurdo, di Pedro Luis Raota, lavora su piani figurativi molteplici. Gli sfondi anneriti, i bianchi accesi, i soggetti ieratici (assorti, austeri, solenni) sembrano uscire da antiche caste e religioni: sono protagonisti di un tempo sospeso, e conoscono lo spavento della verità, interpreti di
una storia rivisitata che il fotografo invita a vivere ancora in una sorta di metafisica rudimentale che non discute la fotografia... la esprime al principio di antichi tormenti! La fotografia è sempre una questione di esistenza, mai di tecnica da dizionari. Non si può fare la fotografia che vale, senza avere pietre nelle tasche, o un sigaro in bocca, o un coltello... davanti al tribunale del Vero. Solo gli angeli ribelli sarebbero assolti! Tra scegliere un mattatoio delle idee o un paradiso di mediocrità, meglio i disagi della solitudine, affollati di bambini, folli e poeti epicurei. E contrastare, anche con la fotografia, il modello di un’umanità in agonia. La filosofia dell’assurdo (non solo in fotografia) è l’esatto apprezzamento, ovvero dissoluzione dei limiti, è un’arte della sconfitta e della nuda realtà. «Lavorare e creare “per niente”, scolpire nell’argilla, sapere che la propria creazione è senza avvenire, vedere la propria opera distrutta in un sol giorno, coscienti che, in fondo, ciò non ha importanza maggiore che costruire per secoli, è la difficile saggezza che il pensiero assurdo autorizza» (Albert Camus: Il mito di Sisifo; Bompiani, 2013). Il destino sta di fronte a noi, e l’ingiustizia è l’estremo sopruso subìto dai vinti. Non si tratta né di uccidere dio, né divenire dio (come Nietzsche, Dostoevskij e anche il matto dell’osteria di porto della mia città); e là, dove tutto è bene o tutto è male, tutto è permesso! E questo è un giudizio assurdo! Estremo! Come l’esistenza assurda del capitano Achab contro Moby Dick, la musica assurda dei Pink Floyd (di Sysyphus) e l’intero cinema dell’assurdo di Lars von Trier... la Rivolta, la Libertà e la Diversità sono alla base della “creazione assurda”. E, allo scorgere di tutte le necessità della Vita (profetiche, politiche, economiche), vi si tuffano con tutti gli eccessi, senza nulla avere in cambio che la mitologia di Sisifo: una filosofia superiore dell’umano, del troppo umano, che nega gli dèi e solleva macigni contro l’impossibile, per continuare a lottare e godere di un universo senza padroni. ❖
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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?
* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].
** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].
MAURIZIO REBUZZINI
25 luglio 1917•2017
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