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ANNO XXIV - NUMERO 236 - NOVEMBRE 2017
Playboy primo numero MARILYN FANTASTICA Wpoty 2016 NATURA IMPERIOSA I sogni di George Eastman FUMETTO AFFASCINANTE
FENOMENO PLAYBOY HUGH HEFNER (1926-2017)
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prima di cominciare Quanto tempo è passato da quel giorno d’autunno di un ottobre avanzato, con il cielo già bruno, fra sessioni di esami, giorni persi in pigrizia, giovanili ciarpami, arrivò la notizia... Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto, sapere a brutto grugno che Guevara era morto: in quel giorno d’ottobre, in terra boliviana era tradito e perso Ernesto “Che” Guevara... Si offuscarono i libri, si rabbuiò la stanza, perché con lui era morta una nostra speranza: erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni, erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni... “Che” Guevara era morto, ma ognuno lo credeva che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva... “Che” Guevara era morto, ma ognuno lo credeva che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva... Passarono stagioni, ma continuammo ancora a mangiare illusioni e verità a ogni ora, anni di ogni scoperta, anni senza rimpianti: “Forza Compagni, all’erta, si deve andare avanti!” E avanti andammo sempre con le nostre bandiere e intonandole tutte quelle nostre chimere... In un giorno d’ottobre, in terra boliviana, con cento colpi è morto Ernesto “Che” Guevara... Il terzo mondo piange, ognuno adesso sa che “Che” Guevara è morto, mai più ritornerà, ma qualcosa cambiava, finirono i giorni di quelle emozioni e rialzaron la testa i nemici di sempre contro le ribellioni... “Che” Guevara era morto e ognuno lo capiva che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva... “Che” Guevara era morto e ognuno lo capiva che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva... E qualcosa negli anni terminò per davvero cozzando contro gli inganni del vivere giornaliero: i Compagni di un giorno o partiti o venduti, sembra si giri attorno a pochi sopravvissuti... Proprio per questo ora io vorrei ascoltare una voce che ancora incominci a cantare: In un giorno d’ottobre, in terra boliviana, con cento colpi è morto Ernesto “Che” Guevara... Il terzo mondo piange, ognuno adesso sa che “Che” Guevara è morto, forse non tornerà, ma voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni e voi, a decine, che usate parole diverse, le stesse prigioni, da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non l’aspettate, il “Che” ritornerà, da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non l’aspettate, il “Che” ritornerà! Francesco Guccini Stagioni (seconda traccia dell’album Stagioni, del 2000, successiva a Addio, di introduzione) In nostro allineamento a Guerrillero Heroico, nel cinquantenario dalla morte di Ernesto “Che” Guevara (9 ottobre 1967-2017), da pagina 13, su questo stesso numero.
Noi non dimentichiamo. mFranti; su questo numero, a pagina 66 Autentico principe rinascimentale, Lorenzo Cattaneo ha finito per trovarsi solo in tempi e modi altrimenti orientati, ormai. Magari, solo fino a un certo punto. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 11 Io ho potuto cominciare a giocare a Fotografia intorno ai tredici-quattordici anni. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 52 Così che, a conti fatti, ci si trova a raccontare di un mondo che si è sciolto come neve al Sole, rivolgendoci, magari, a chi neppure sa quanto sia stata Kodak in tempi neanche troppo remoti. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 22
Copertina Pericolosa (!) riproposizione d’annata (più che d’annata, oltre che dannata, senza apostrofo: calembour ). Sorridente Marilyn Monroe, così come è apparsa sulla copertina del numero Uno di Playboy, del dicembre 1953, in evocazione al fenomeno sociale e culturale stabilito dall’innovativo mensile, creato da Hugh Hefner, mancato lo scorso ventisette settembre, a novantuno anni di età. Ne riferiamo, da pagina 34
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione pseudo filatelica dell’Unione Sovietica, degli anni Cinquanta (?). Chiudibusta (erinnofilia) con raffigurazione di una reflex Zenit-C, in produzione dal 1955 al 1961. In allungo e richiamo alla rievocazione della (esaurita) produzione fotografica sovietica, da pagina 60
7 Editoriale Allora! Società dello spettacolo, in consueto richiamo da Guy Debord, autore del saggio filosofico di continuo riferimento, e con il caustico Pino Bertelli / Pinocchio e le sue pertinenti citazioni. In fotografia... anche
10 Lorenzo Cattaneo Mancato la scorsa primavera, e ne riflettiamo in ritardo volontario e consapevole, Lorenzo Cattaneo ha interpretato il proprio commercio fotografico con spirito rinascimentale
13 Guerrillero Heroico Nel cinquantenario della scomparsa di Ernesto Guevara, il “Che” (9 ottobre 1967-2017), non è tanto la persona, quanto l’icona del ritratto fotografico di Alberto Korda
NOVEMBRE 2017
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
17 Et... volet Trasversalmente alla presenza della fotografia al cinema -sceneggiature e scenografie senza alcuna soluzione di continuità-, gli apparecchi grande formato rivelano la propria fantastica gestualità del volet. Con châssis Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XXIV - numero 236 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
20 George Eastman
FOTOGRAFIE
Signori, in risposta alla vostra lettera del 12 novembre... Cordialmente, George Eastman. Nel 1887, addirittura
SEGRETERIA
Rouge
Maddalena Fasoli
HANNO
22 Alle origini di Kodak (Leitmotiv odierno: da Lorenzo Cattaneo a Leo Matiz) Noi non dimentichiamo: racconto a fumetti, dal quale partiamo per un percorso rievocativo della memoria di Antonio Bordoni (e Maddalena Fiocchi)
34 E, tra noi, Playboy Non commemoriamo la scomparsa di Hugh Hefner, a novantuno anni, che appartiene ad altro tragitto giornalistico. Ma, con l’occasione, ripercorriamo tratti della fantastica epopea Playboy, con contorni di gusto di Maurizio Rebuzzini
44 Nikon al cinema In un consistente insieme, che qui scandisce tempi e modi del centenario (1917-2017), molte e consistenti le partecipazioni Nikon F. Magari, perché così vogliamo di Angelo Galantini
52 Natura! Una volta ancora, una di più, mai di una di troppo, commentiamo lo svolgimento del prestigioso e autorevole Wildlife Photographer of the Year, alla sua edizione 2016. Fotografie che offrono e propongono visioni e situazioni difficilmente raggiungibili nel nostro quotidiano. È così! di Lello Piazza
60 Attorno la Zenit-E
COLLABORATO
Gian Paolo Barbieri Antonio Bordoni Maddalena Fiocchi mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Emmanuele Carlo Randazzo Mora Franco Sergio Rebosio Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Urss addio: produzione fotografica scomparsa
64 Leo Matiz
Rivista associata a TIPA
Ancora e imperiosamente: non dimentichiamo. Trascurato, forse, Leo Matiz è stato fotografo eccelso Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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editoriale S
oprattutto questo: siamo fermamente convinti di saper decifrare attorno a noi, di saper riconoscere e collegare fatti, accadimenti e consecuzioni. Non è forma di presunzione, come probabilmente è... anche, ma tranquilla e serena constatazione, a volte aggravata e appesantita da fardelli altrui, che opprimono il nostro quotidiano, per quanto possano farlo e sappiano farlo. Così, e a diretta conseguenza, non possiamo, né vogliamo, ignorare rilevazioni che ci arrivano in redazione (nonostante l’assenza di pagine di dialogo, in forma di consueta “posta dei lettori”), e che -in trasversalità sollecitata da molti- ci invitano a chiarire i continui e ripetuti riferimenti a La società dello spettacolo, che siamo soliti attribuire all’autore (del saggio omonimo) Guy Debord e ai suoi richiami originari di Pino Bertelli (alias Pinocchio), rigoroso fustigatore di atteggiamenti e impegni, riuniti nelle pagine (solitamente) conclusive della rivista, in forma di ammirevoli Sguardi su... ammirevoli quanto opinabili... a ciascuno, il proprio. Per quanto il valore del testo originario di Guy Debord sia di ben altro/alto profilo e intendimento, gli estratti con i quali Pino Bertelli dà peso e valore alle proprie riflessioni non sono mai a sproposito. Magari, se proprio vogliamo sofisticare, le altre evocazioni (soprattutto mie... mRebuzzini), in testi pubblicati sulla rivista, sono soprattutto sottolineatura del e dal titolo esplicito, Società dello spettacolo, nella propria affermazione perentoria di appello e, perché no?, invito e convocazione. Edizione italiana dell’originale francese del 1967 (quest’anno, il cinquantenario, come tanti altri richiami della nostra vita!), La Société du Spectacle / La società dello spettacolo è un saggio folgorante e illuminante dello scrittore e filosofo Guy Debord (1931-1994). La più nota edizione italiana è quella alla quale ci riferiamo di solito: Vallecchi Editore, 1979; in precedenza, De Donato Editore (1968); a seguire, si segnalano anche Massari Editore (2002) e Baldini & Castoldi (2013, con orrenda copertina, che esilia il testo nella sezione “televisione” dei supermercati del libro, a partire dalla catena La Feltrinelli). Tendenzialmente ricondotto a una propria ispirazione marxista, La società dello spettacolo ha poco a condividere con questa filosofia (combattuta, osteggiata ostacolata “a priori” e “a prescindere”); semmai, è più opportuno ricondurla a ben altra filosofia: quella dell’Internazionale Situazionista, movimento politico e artistico della seconda metà del Novecento, le cui radici scartano a lato l’ortodossia marxista (eccoci!), per attingere soprattutto all’anarchia e alle avanguardie artistiche del proprio tempo. Ma non sono queste attribuzioni che contano, né hanno valore, quanto la sostanziosa e penetrante analisi della società delle immagini in essere (appunto, dagli anni Sessanta), come mistificazione volta a giustificare i vigenti rapporti sociali di produzione. Tutto qui, tutto rivelato... forse. A conseguenza, senza vergogna, né ritrosia, i nostri richiami a volo alto e visione palese ed evidente: tante volte, ci basta, ci è bastato, il titolo, La società dello spettacolo, per sottolineare un’idea, una visone, un concetto, una interpretazione: la nostra.
Neanche sprechiamo commenti e/o parole: Società dello spettacolo, allo stato puro (oltre che becero).
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Altri tempi. Altra televisione: spettacolo... ma! Dal 1954 al 1959, sei stagioni del varietà Un Due Tre, condotto da Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi (interrotto per pressioni politiche, a seguito di una satira sull’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, all’indomani di un incidente, al Teatro alla Scala, di Milano, del 23 giugno 1959). Dal 1960 al 1968, trasmissione educativa quotidiana (oggi, tutorial?) Non è mai troppo tardi, condotta dal pedagogo Alberto Manzi (comunemente “Maestro Manzi”), al pomeriggio, da lunedì a venerdì.
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Comunque, La società dello spettacolo è uno di quei (tanti) libri che molti segnalano; e in molte indicazioni cogliamo un retrogusto amaro e tragico (appunto, in ulteriore forma conveniente di società dello spettacolo): abbiamo la netta e chiara sensazione che pochi lo abbiano letto, sicuramente non lo hanno letto molti di coloro i quali lo evocano! In doverosa onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che la nostra lettura individuale (mRebuzzini / mFranti) è datata indietro nei decenni, e approda a tempi e modi di un’altra vita che non l’attuale... forse. La nostra copia, annotata come di consueto (per noi) e come d’obbligo negli anni Sessanta e Settanta di utopie e sogni, è andata perduta: in traslochi, in divisioni di proprietà (ma lo escludiamo, consapevoli del senso e povertà del nostro divorzio), in tormenti esistenziali. Recentemente, Pino Bertelli / Pinocchio ci ha donato una copia Vallecchi, del 1979. È lì, sul comodino, accanto ai polizieschi dei quali ci nutriamo da anni, e non abbiamo il coraggio di tornare a leggerla. Consapevoli di non essere più quelli di un tempo, assecondiamo la nostra codardia intellettuale. Ci domandiamo se oggi, in altra vita, in altra esistenza, con altri affanni che non i sogni di allora, possiamo ancora allinearci alla visione eretica e visionaria di chi (Guy Debord) ha saputo immaginare il giorno d’oggi con una lucidità a dir poco disarmante. Le sue duecentoventuno tesi enumerate, e suddivise in nove capitoli, hanno ancora modo di impressionarci? Visto e considerato che non sono più immaginazioni, ma realtà quotidiana? [E, per altro canto, abbiamo timore di tante e tante altre possibili/ probabili/necessarie riletture: da 1984, di George Orwell, a Flatlandia (Racconto fantastico a più dimensioni), di Edwin A. Abbott, a La cultura del piagnisteo (La saga del politicamente corretto), di Robert Hughes, a Il Piccolo Principe, di Antoine de Saint-Exupéry, a Pinocchio, di Collodi (Carlo Lorenzini), al Vangelo, alle Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar, a Moby Dick, di Herman Melville, a Don Chisciotte della Mancia, di Miguel de Cervantes, a Il processo, di Franz Kafka, a Madame Bovary, di Gustave Flaubert, a I ragazzi di via Pál, di Ferenc Molnar, a Scene della vita di Bohème, di Henry Murger... a tanto altro, ancora]. Oggigiorno, non abbiamo necessità di pre-visioni... viviamo immersi nella Società dello spettacolo: in un suo necessario adattamento alle mutazioni genetiche introdotte e condizionate da tanto e tanto (e da altrettanta tecnologia acquisita per la sua sola superficie, non per la sostanza dei propri contenuti), è estesa anche a manifestazioni quotidiane della fotografia (per quanto ci interessa statutariamente, soprattutto a queste). Sia che ci si occupi di autori contemporanei, sia che si ragioni sulla loro presentazione (da parte di critici e contorni), sia che si pensi alla Fotografia, nel proprio insieme e complesso, non possiamo ignorare come e quanto gli stilemi di certo spettacolo prestabilito (stile televisivo, con complicità di maniera) siano trasmigrati oltre, e abbiano inquinato tutto. La presentazione connivente di libri, che passano di trasmissione televisiva in trasmissione televisiva, è approdata alla Fotografia. L’accordo che Tizio partecipi alla trasmissione di Caio, in modo che, in seguito immediato, Caio sia ospite di Tizio in altro palinsesto... si è allungata sulla Fotografia. L’annullamento di valori, sacrificati alla Società dello spettacolo, è regola, stile di vita, ragione di essere... oggi. Oppure, e qui intendiamo chiamarci fuori, chiamarci oltre, chiamarci lontani, se e per quanto rimproveriamo la Società dello spettacolo, si può evitare di frequentarla e assecondarla. In parole chiare: si può continuare a rispondere a un’etica e morale che nulla abbiano a spartire con favoreggiamenti complici e colpevoli. Risposta d’obbligo a coloro i quali, richiamati in incipit, «ci invitano a chiarire i continui e ripetuti riferimenti a La società dello spettacolo, che siamo soliti attribuire all’autore (del saggio omonimo) Guy Debord e ai suoi richiami originari di Pino Bertelli (alias Pinocchio)»: nel titolo/richiamo è compresa l’idea (negativa) che mobilitiamo; nel suo appello sono incluse le nostre avversioni e repulsioni. Ovverosia, il nostro disgusto... nello specifico, per quanto riguarda le fenomenologie della Fotografia. Punto. Maurizio Rebuzzini
Non dimentichiamo di Maurizio Rebuzzini
LORENZO CATTANEO
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Mancato la scorsa primavera, e lo ricordiamo in volontaria dilazione e proroga di data (anche così viviamo i nostri dolori), Lorenzo Cattaneo è stato uno straordinario operatore commerciale della fotografia: tale, “straordinario”, in una scala di valori che scarta a lato aride considerazioni di conduzione aziendale, che qui e ora non ci interessano, per dare senso e fiato ad altro, che presuppone talento e doti di sapori diversi e distinti. Dunque, intendiamo “straordinario” nel senso di “non comune”, anzitutto, “singolare”, in accezione più che positiva, più che ammirata, “sorprendente”, in misura di qualità, virtù e merito. E tutto questo lo sottolineiamo in doveroso prologo, per quanto siamo altresì consapevoli che il dietro-le-quinte del commercio, al quale anche risponde qualsivoglia interesse fotografico (qualsiasi cosa questo significhi per ciascuno di noi), non debba necessariamente incuriosire nessuno... oltre gli addetti. Del resto, come spesso abbiamo già annotato, e qui ripetiamo, una volta di più, una volta ancora, mai una di troppo, siamo fermamente convinti che le esistenze individuali attive, e non passive (comunque, a ciascuno il proprio), siano anche regolate dalla successione a giro tondo teoria-praticateoria, che allunghiamo nella consecuzione di “la conoscenza e la pratica, il sapere e il fare”. A parte che questa idea (filosofia?) è stata a lungo materia di incontro, scambio e confronto con Lorenzo Cattaneo, negli anni di nostro tragitto affiancato, è ora chiave di lettura e interpretazione del suo aver vissuto. Da cui, eccoci qui, la contestualizzazione professionale in proiezione esistenziale. Nel passato remoto, una certa forma di materialismo ha (mal) esaminato il problema della conoscenza, senza tener conto della natura sociale dell’Uomo e dell’evoluzione storica della società; per-
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ciò, non ha potuto comprendere che la conoscenza dipende dalla pratica, cioè dalla produzione e dalla propria attività professionale. Oggigiorno, non possiamo ignorare che l’attività produttiva dell’Uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco, ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci tra gli Uomini. Tutte queste conoscenze non possono essere acquisite al di fuori dell’attività produttiva. Nella società, nel corso della propria attività professionale, ogni persona collabora con altri, entra in determinati rapporti di produzione con il prossimo e s’impegna nell’attività produttiva, per risolvere i problemi della vita materiale. A tutti gli effetti, questa è la principale fonte di sviluppo della conoscenza umana, ed è logico ritenere che la conoscenza individuale evolva passo a passo, dagli stadi più bassi ai più alti, cioè dal superficiale al profondo, dall’unilaterale al multilaterale. Ancora, la pratica professionale è uno dei criteri con i quali raggiungere il senso della Realtà e della Verità, ovvero l’autentica Conoscenza del mondo esterno. Però, ciascuno di noi riceve conferma della Verità della propria Conoscenza solo dopo che nel corso del processo esistenziale materiale ha raggiunto i risultati previsti. Lorenzo Cattaneo è stato commerciante (in fotografia) per necessità, oltre che eredità di famiglia (quell’originaria Ippolito Cattaneo, che ha caratterizzato il mondo fotografico per decenni e decenni). E lo è stato in maniera mirabile, for-
te di una propria capacità e caparbietà alla comprensione e all’onestà intellettuale dei ruoli. Con etica e morale, ha appreso molto dalla propria esperienza, concedendo poi altrettanto al bene comune, se così vogliamo vederla e dirla (e tanto concluderemo, circa). Un giorno, ormai lontano, ma ancora qui presente e palpitante nel nostro cuore e nella nostra mente, Lorenzo Cattaneo ci notificò l’essenza di un suo pensiero. Ci disse che se il professionista vuole riuscire nel lavoro, cioè arrivare ai risultati previsti, deve conformare le proprie idee alle leggi del mondo oggettivo esterno; in caso contrario -completò-, nella pratica, fallirà. Però, aggiunse: se fallisce, ne trarrà insegnamento, correggerà le proprie idee e le conformerà alle leggi del mondo esterno, trasformando così la sconfitta in vittoria; è questo il significato delle massime “Sbagliando s’impara” e “La sconfitta è madre del successo”, concluse. Questa sua/nostra teoria della conoscenza pone la pratica al primo posto; inoltre, stabilisce come la conoscenza umana non possa in nessun modo essere separata dalla pratica e respinge tutte le idee che negano l’importanza della pratica e scindono la conoscenza dalla pratica. Insieme, trovammo solidarietà e accordo in una sua lettura: «La pratica è superiore alla conoscenza (teorica), perché possiede non solo il pregio dell’universalità, ma anche quello dell’immediata realtà». In seguito a vicende commerciali che qui non hanno alcun diritto di ospitalità, né considerazione, nel corso del tempo e di relative trasformazioni, a cavallo degli anni Settanta-Ottanta (del Novecento), l’originaria Ippolito Cattaneo perse i connotati mercantili che, precedentemente, l’avevano annoverata tra le aziende di riferimento della fotografia italiana: oltre l’antica origine chimica, con differenziazioni
da e verso altre merceologie confinanti, vanno soprattutto ricordate le distribuzioni delle produzioni Leica (avviata all’indomani della sua presentazione pubblica, alla fine degli anni Venti), Sinar (subito affrontata, all’inizio dei Cinquanta), Schneider, Vivitar e altro. Per questo, in proseguimento professionale, Lorenzo Cattaneo, ultimo erede del blasone, indirizzò la propria Importazioni Cattaneo -per la cui identificazione conservò la doppia iniziale originaria- verso le produzioni fotografiche della Germania dell’Est (Praktica, Exakta) e dell’Unione Sovietica (Zenit e Lomo e contorni). Quindi, in proprio, e in impegno individuale, creò anche uno spin-off -come usiamo dire oggi, sull’onda lunga di indotti televisivi- di prodotti di nicchia. Tutto cominciò con l’Alpa Rotocamera 6070, a visione orbicolare di trecentosessanta gradi sulle pellicole a rullo 120 e 220 o film 70mm a doppia perforazione (fotogramma a rotazione completa, appunto di trecentosessanta gradi, 6x47,5cm, con visione grandangolare da Rodenstock Grandagon 75mm f/6,8). E qui, nacque la nostra amicizia, che va raccontata, per approdare alla conclusione che ci siamo prefissi. Inclusa la valigia metallica di contenimento e trasporto, riscattata dalle forniture militari dell’Esercito svizzero (Schweizer Armee, in tedesco, Armée suisse, in francese, e Armada svizra, in romancio: le quattro lingue ufficiali della Confederazione), questa Alpa Rotocamera 6070, ancora rintracciabile sul mercato dell’usato e antiquariato, pesa parecchio, ed è oltremodo onerosa da spostare: qui risiede la base della confidenza e del rapporto stretto che nacquero con Lorenzo Cattaneo. Allora, avevamo domicilio professionale in uno spazio coincidente con un grossista di materiale fotografico (Smaf, guidato dalla signora Rosa, e tanto ci basti
Non dimentichiamo [FOTOgraphia, giugno 1997], in via Timavo 32, a Milano), comodo per coloro i quali frequentavano il mercato. Lorenzo Cattaneo veniva a Milano, dalla Liguria, per quanto concerneva Importazioni Cattaneo, facendo coincidere tempi e modi con presentazioni ad personam dell’Alpa Rotocamera 6070. A un certo momento, per motivi logistici (non lasciare la pesante e preziosa dotazione fotografica in auto), ipotizzò di poter far deposito della pesante valigia nel nostro studio: in modo da poter svolgere con tranquillità gli appuntamenti commerciali primari per e con Exakta, Praktica, Zenit e dintorni. Così, ci rendemmo disponibili, e diverse sere al mese, concludevamo le rispettive giornate in colloquio: educato, da parte di entrambi, oltre l’utilitarismo di base. Lui veniva a ritirare la valigia, noi lo intrattenevamo in chiacchiere. Rigorosamente, ci davamo del “lei”, reciprocamente. A differenza di precedenti contatti ufficiali, quei momenti cominciarono a sciogliere formalismi precedentemente d’obbligo (Ippolito Cattaneo da una parte, giornalismo fotografico dall’altra). A un certo momento, per una casualità che non vale la spesa scandire (oltre il fatto che le coincidenze potrebbero anche essere i soli accadimenti che rivelano che la vita possa avere un qualsivoglia senso), in Svizzera, a Zurigo, venimmo a conoscenza dell’esistenza di un apparecchio fotografico a rotazione orbicolare più performante dell’Alpa Rotocamera 6070. Si trattava, e tratta ancora, se vogliamo, della Seitz Roundshot, allora nella sola versione 70mm, successivamente approdata anche alla pellicola 35mm, ed ora presente sul mercato in adeguate configurazioni ad acquisizione digitale di immagini. Rientrati in Italia, avvertimmo Lorenzo Cattaneo. Lui colse la palla al balzo, anche per impedire una qualsivoglia concorrenza tecnicocommmerciale, e organizzò un viaggio a Zurigo, per incontrare l’allora responsabile delle esportazioni, con escursione alla sede produttiva di Lustdorf, a qualche chi-
lometro di distanza (allora, come oggi ancora, in un’appendice della residenza dell’ideatore e produttore Hermann, alla cui scomparsa gli sono succeduti i figli Peter e Werner, che hanno traghettato la produzione originaria al presentefuturibile; ricordo personale, ottima la torta artigianale che fu preparata per l’occasione). Ci invitò alla missione, riconoscendoci una qualche responsabilità in merito. Viaggiammo in auto, la sua. Eccoci qui: (in ripetizione) «rigorosamente, ci davamo del “lei”, reciprocamente». Se non che, nel bel mezzo del Passo del San Gottardo (Gotthardpass), che collega Airolo, nel Canton Ticino, a Göschenen, nel Canton Uri -se vogliamo, uno dei più importanti valichi alpini europei-, espresse la sua volontà di darci del “tu”. Fin qui, tutto nella norma. Se non che, in immediata prosecuzione, Lorenzo Cattaneo propose anche di non tornare immediatamente in Italia, una volta conclusa la missione esplorativa, finalizzata al contratto di distribuzione della Roundshot, ma di proseguire a Nord, fino ad Amsterdam... al fine di andare a farci tatuare un drago sulla schiena. Declinammo, con garbo. Comunque, se vogliamo e intendiamo rileggerla in questo modo, ma non ce la stiamo certo raccontando come “vogliamo”, dopo anni di frequentazione casuale o obbligata/condizionata, quello fu l’inizio di una amicizia: confessione d’obbligo, una delle due che hanno scandito la nostra vita fino a oggi. Siamo sinceri, per mille e mille cause, la nostra frequentazione non è stata fisicamente consistente. Sono passati mesi di silenzio reciproco... ma! Ma, da allora, sono stati anni e cammino in comune, in comunione di intenti. Siamo altrettanto sinceri: le convergenze d’opinione sono state inferiori alle divergenze. Ma noi gli siamo grati di tutto ciò che abbiamo ricevuto, non solo di molto. Soltanto, speriamo in una sorta di reciprocità, per quanto questa non sia determinante, né condizionante. Ancora, nel dettaglio, gli riconosciamo di averci indirizzato a un sano realismo, in tempi nei quali
ancora vagavamo nelle nebbie dell’esistenza. «Maurizio -ci disse una volta, tra le considerazioni tra il valore di diaframma e l’efficacia dei tempi di otturazione-, bisogna essere senza cuore, per non essere socialisti (comunisti) a vent’anni; senza cervello, per esserlo ancora a quaranta» (non sua originaria, ma arrivata a noi suo tramite). Caro Lorenzo, ahinoi, per quanto sia grottesco rivelarlo, siamo ancora comunisti (per quanto a noi questo significhi esserlo), ancora alla soglia dei settanta! Dunque, con Lorenzo Cattaneo condividemmo questa vicenda Roundshot, arricchita di un dettaglio che va divulgato, soprattutto qui, magari ora: contrariamente a quanto si possa pensare, nel nostro percorso professionale siamo sempre stati discosti e lontani da connivenze, magari in forma di omaggi, sempre rifiutati e rispediti al mittente. Soltanto, nei giorni di Natale di quel tempo con Lorenzo/Roundshot, non rifiutammo una orbicolare 35mm donataci con il cuore (e non l’interesse). L’andammo a ritirare assieme, spedita dalla fabbrica a un referente italiano in visita familiare a Cremona, approfittando per fermarci al paese natale di mia mamma: Capergnanica, a due passi da Crema, a metà strada verso il rientro a Milano. Nebbia, ricordi, sogni. Con analogo spirito anti-commerciale, in tempi immediatamente successivi a questi appena rievocati, Investimenti Cattaneo si propose come distributore nazionale e internazionale della produzione Silvestri, per la quale, subito, interloquì con una referenza newyorkese di spicco e prestigio: altra storia, ma stessa storia. A parte il fatto che ci fu assegnata la realizzazione di una sintesi grafica (in forma di dépliant) chiarificatrice delle combinazioni del sistema originario Silvestri, edificato attorno la configurazione fotografica a decentramento micrometrico per esposizioni 6x7cm e 6x9cm su pellicola a rullo 120 e 220 -a un tempo e allo stesso tempo onore e onere-, registriamo ancora oggi la
nostra perplessità circa le scelte distributive di Lorenzo Cattaneo. Interrogato al proposito, fu esplicito, chiaro e diretto. «Il commercio fotografico -ci disse- mi ha dato molto, forse addirittura il tenore di vita che potrei concedermi. Fatto salvo che Investimenti Cattaneo si basa anche/soprattutto sull’infrastruttura operativa di Importazioni Cattaneo (sede, telefoni, logistica e altro, che riducono a zero le spese aziendali), penso di dover restituire al mondo della fotografia una porzione di quanto ho ricevuto. Così, distribuisco prodotti che è giusto che esistano e vengano diffusi, ma che esulano da logiche imprenditoriali strette e vincolanti». Lorenzo Cattaneo è mancato la scorsa primavera, già l’abbiamo scritto. Da allora (e lo avremmo comunque fatto da allora), ci abbiamo riflettuto. Lo abbiamo fatto secondo i nostri tempi (e modi). È mancato all’affetto dei suoi cari, ai quali esprimiamo ed esponiamo il nostro cordoglio. Purtroppo per noi, la sua lezione non gli può sopravvivere; addirittura, si è consumata ed esaurita da tempo, da troppo tempo. Forse, addirittura, non è stata mai accettata, né acquisita, dal mondo fotografico entro il quale e verso il quale si è manifestata. Ovvero, dal mondo fotografico in cui è cresciuta... sapientemente. Lorenzo Cattaneo ha avuto una vita risolta. Ha vissuto e agito per essere il più povero del cimitero: ci è di conforto ipotizzare/sapere che ci è riuscito (se si capisce cosa stiamo intendendo). Autentico principe rinascimentale, Lorenzo Cattaneo ha finito per trovarsi solo in tempi e modi altrimenti orientati, ormai. Magari, solo fino a un certo punto: quantomeno, fino al punto in cui, ora, anche noi siamo più soli che mai. Guardandoci attorno, siamo consapevoli che quanto ci è stato donato da lui è vivo in noi, ancora per qualche istante palpitante nella (ormai scarsa) volontà di continuare a fare ciò che ipotizziamo di saper fare, di fare ciò che sappiamo di essere. Onore e merito. E gratitudine... la nostra. ❖
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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?
* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].
** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].
Altro cinquantesimo di Angelo Galantini
GUERRILLERO HEROICO
N
Non ne abbiamo scritto lo scorso ottobre, in anticipo/coincidenza di data con il cinquantesimo anniversario dalla morte di Ernesto “Che” Guevara, personalità del Novecento: per l’appunto, 9 ottobre 1967-2017. Non lo abbiamo fatto volontariamente, per almeno due motivi, il primo dei quali è fondante. A conti fatti, non abbiamo inteso aggiungere altra ricorrenza alle due, a un tempo sostanziose e settoriali, del centenario della Rivoluzione d’ottobre (19172017: che abbiamo evocato per la propria propaganda illustrata, in forma di costruttivismo, ovvero idea dell’arte della produzione), e del coincidente centenario del marchio Nikon (luglio 1917-2017: che stiamo scandendo a passi a nostro modo di vedere consequenziali, con relativa puntata verso la linea di obiettivi Nikkor per grande formato fotografico, dopo una precedente cronologia, circa, nel precedente numero di settembre, e prima dell’odierna rievocazione della presenza Nikon al cinema, su questo stesso numero, da pagina 44, e di quanto rileveremo sul prossimo numero di dicembre). Quindi, per altro verso, abbiamo evitato una celebrazione estranea al nostro percorso e alle nostre intenzioni. Comunque, e a questo proposito, segnaliamo che il settimanale L’Espresso ha realizzato una monografia (anche illustrata), in edicola da venerdì sei ottobre: Che Guevara. Cinquant’anni dopo (288 pagine 18,8x25,3cm, cartonato; 12,90 euro). Ovviamente, la figura di Che Guevara non ci interessa direttamente... se non che! Se non che, come si sa bene, un suo ritratto, realizzato dal fotografo cubano Alberto Korda (Alberto Díaz Gutiérrez; 1928-2001), il 5 marzo 1960, è una delle fotografie più celebri al mondo, sempre inclusa in ogni rievocazione storica, sempre considerata tra le fotografie più significative della Storia (non soltanto della Fotografia), a qualsivoglia quantità i casellari si limitino. Ufficialmente, il ritratto è intitolato Guerrillero Heroico. Con Giuliana Scimé: «Questo ritratto è la fotografia più famosa del mondo. Tutti, in quasi tutti i paesi del mondo,
la riconoscono, sanno di averla già vista, anche se ignorano chi sia il personaggio e la sua storia, chi sia l’autore, al di là delle ideologie politiche. È il “Che”, Ernesto Guevara, il simbolo di... tante cose diverse: il giovanile entusiasmo, la lotta per gli ideali, la noncuranza del pericolo, la bellezza e l’ardore... «La sua immagine, questa immagine, è stata riprodotta su tutto ciò che può riportare una fotografia: poster, magliette, posacenere, quaderni, cartoline, gadget, scatole di sigari... ed è l’effigie sui dieci pesos cubani. «Manifesti pubblicitari degli oggetti più diversi e delle manifestazioni più disparate, utilizzo da parte di artisti, enormi striscioni dei movimenti studenteschi... hanno riprodotto questo ritratto, scattato per “fortuita” abilità». Nel dettaglio, va comunque osservato come la leggenda sia spesso sovrapposta alla storia, tanto è vero che il dietro-le-quinte del ritratto di Che Guevara, realizzato da Alberto Korda, è spesso raccontato e commentato
Il celebre ritratto del “Che”, Ernesto Guevara, icona del Novecento, è stato ripreso il 5 marzo 1960, da Alberto Korda, durante un comizio di Fidel Castro.
con ricostruzioni non sempre pertinenti: come è la definizione di “nuovo Cristo sulla croce”, di Oliviero Toscani al canale televisivo francese Arte, nel 1999, ripreso nella monografia Le immagini di un secolo, a cura di Marie-Monique Robin (Evergreen, 2001): un eccesso! una esagerazione! una enormità!
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Altro cinquantesimo In commento, specifichiamo che il ritratto noto e utilizzato è porzione di un fotogramma a inquadratura orizzontale, e -ancora- evidenziamo che nel foglio di provinatura del rullino trentacinque millimetri di Alberto Korda, oltre al Che e Fidel Castro (da poco scomparso, lo scorso ventisei novembre, a novant’anni), si riconoscono Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre. Il momento è noto. In una solenne cerimonia, il 5 marzo 1960, Fidel Castro ha commemorato i morti della nave francese La Coubre, fatta saltare da una mina nel porto di L’Avana (probabilmente, molto probabilmente dalla Cia). Alla cerimonia, erano presenti migliaia di persone, e tra i tanti Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, per l’appunto. Il Che apparve d’improvviso alle spalle di Castro, e subito rientrò dietro le tende del palco. Il tempo di due scatti e uno solo era buono. Dopo sette anni, l’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli, visitando Cuba, vide quella fotografia nello studio di Alberto Korda, e ne rimase impressionato. Korda gliela regalò, e l’editore la diffuse in tutto il mondo. L’autore, Alberto Korda, non ha mai preso una lira per i diritti d’autore, ma è stato comunque grato a Feltrinelli che, sia pure involontariamente, ha creato il mito del Che. Da qui, segnaliamo la coinvolgente commemorazione Quella foto rubata al Che, dello scrittore spagnolo Ignacio Paco Taibo II (Francisco Ignacio Taibo Mahojo; 1949), pubblicata dal quotidiano la Repubblica, il 27 maggio 2001 (nella traduzione di Luis E. Moriones). Ho, con alcune fotografie, un rapporto d’amore molto particolare. Mi piace narrarle, raccontarle. C’è una mezza dozzina di foto che racconto a più riprese nel corso degli anni, e ogni tanto qualcuno scopre la foto che gli ho raccontato e mi guarda con un misto di rimprovero e sospetto. Dire che ci sono foto che valgono più di mille parole è una frase facile, ma io credo, piuttosto, che vi siano foto che meritano mille buone parole. Alcune in particolare, a forza di raccontarle, sono rimaste nella mia memoria in versioni diverse. Sono fotografie che adoro, senza le quali non potrei amare il secolo Ventesimo come lo amo, senza le quali la fiducia negli esseri umani che mi sostiene giorno per giorno si dissolverebbe negli acidi al vetriolo della quotidianità.
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Sono una foto di Cartier-Bresson, a Parigi, un paio di foto di Robert Capa, a Barcellona, una foto del mio amico Javier Bauluz, in Ruanda, cinquant’anni dopo, e una foto di L’Avana, nel 1959. Quest’ultima mostra un guajiro, un contadino cubano, con un cappello di paglia sfilacciato, che ha come coccarda una bandiera cubana, arrampicato in cima a un enorme, enorme, gigantesco lampione. Sotto di lui, si raccoglie una folla, ma il fotografo lo guarda di fronte, anche se da lontano. Credo di ricordare che quell’uomo ha i baffi, la camicia aperta, che lascia intravedere la canottiera, e sta fumando. Nella memoria, è un vecchio. E nessuno potrà mai spiegarmi razionalmente come è salito e si è seduto in cima a quel palo. La foto riguarda la rivoluzione in fermento e l’uomo che, serenamente, fuma in cima al lampione, la fa sua. Dentro e fuori. Quando la Alliance Française organizzò in Messico una mostra fotografica del cubano Alberto Korda, scomparso l’altro ieri, mi chiesero di presentarlo in pubblico. Pensando che quella foto che ricordavo dell’uomo sul fanale fosse sua, accettai. Quella foto: la foto. Volevo inoltre contribuire a sciogliere un malinteso. Perché Korda era molto di più della foto del Che riprodotta milioni di volte in tutto il mondo. Autore della fotografia che è stata probabilmente riprodotta più volte nella storia dell’umanità, Alberto Díaz, Korda (pseudonimo adottato in gioventù in onore ai cineasti ungheresi), è ad essa legato indissolubilmente, nel bene e nel male. Quest’altra storia è stata raccontata molte volte, e Korda stesso l’ha ripetuta in numerose interviste: 1960, quattro marzo, mentre Ernesto Guevara si dirige verso il Banco Nacional de Cuba, che casualmente presidia, avviene l’esplosione del La Coubre, una nave francese con un carico di settanta tonnellate di armi belghe. Il Che, nell’udire la terribile detonazione, devia verso il molo dell’Arsenale. È una tremenda sciagura, ci sono settantacinque morti e circa duecento feriti. Collabora nelle opere di soccorso. Il dubbio pervade tutti, incidente o sabotaggio? Il fotografo Gilberto Ante, di Verde Olivo, lo trova mentre salva i feriti, ma il Che, infuriato, gli proibisce di fare fotografie.
Gli sembra un’impudicizia essere oggetto di curiosità in un incidente. Il giorno dopo, si celebra il funerale delle vittime. A un isolato di distanza dal cimitero di Colòn, nella strada 23, si innalza una tribuna coperta con una bandiera cubana listata a lutto. Gli animi sono esaltati. Da quella tribuna, Fidel pronuncerà per la prima volta la consegna “Patria o Muerte”. Il fotografo Alberto Korda, del giornale Revoluciòn, va scorrendo con l’obiettivo da novanta millimetri della sua Leica i personaggi della tribuna e si trova, al secondo passaggio, il Che che avanza su uno dei lati. Il gesto dell’argentino lo sorprende e scatta due volte. «Trovarmelo nell’inquadratura della macchina fotografica, con quell’espressione, mi fa quasi fare un sobbalzo. Intuitivamente schiaccio l’otturatore». Alberto Granado avrebbe detto a Korda, poco dopo, che quel giorno il Che aveva una faccia che, se vedeva uno yankee, se lo mangiava vivo; ma non è questo ciò che si mostra nella foto. Nel negativo, appare un uomo non identificato, sul lato sinistro della foto, e le foglie di una palma a destra; abilmente, Korda sopprime gli elementi che distraggono e si concentra sul volto, un’immagine molto particolare: il volto teso, il sopracciglio sinistro lievemente alzato, il basco con la stella, il giaccone di capretto stretto al collo, il vento che gli agita i capelli. Korda sa di avere una grande fotografia. Stranamente, il redattore fotografico di Revoluciòn non sceglierà quella foto, ma altre, e la fotografia del Che non sarà pubblicata sui giornali. Anni dopo, l’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli vedrà la foto appesa a una parete della casa di Korda e gliene chiederà una copia. Korda gliela regala. Alla morte del Che, Feltrinelli decide di farne un poster. Decine di migliaia di copie e poi milioni di esemplari si diffondono in tutto il mondo. È l’immagine più conosciuta del Che, quella simbolica, che inonderà muri, copertine di libri, riviste, coperte, cartelloni, T-Shirt. Quella che affronterà la foto distribuita dai militari boliviani del Che morto sul tavolo dell’ospedale di Malta in un duello simbolico e non per questo meno potente. Ma Alberto Díaz è molto di più di quella foto. A trent’anni, è un grande fotografo di moda, che ha intrapreso
Altro cinquantesimo
Nel 2014, in occasione delle celebrazioni dei propri Cento anni (dal prototipo UR-Leica, del 1914, altrove 1913 [ FOTOgraphia, giugno e luglio 2014]), Leica ha realizzato una campagna pubblicitaria (autenticamente minimalista e evocativa), in quattro soggetti; uno dei quali è proprio il ritratto identificato Cuba Che: a riprova, se servisse confermare, che si tratta di «una delle fotografie più celebri al mondo, sempre inclusa in ogni rievocazione storica, sempre considerata
questa carriera perché voleva fotografare la sua fidanzata Yolanda con una macchinetta Kodak quasi d’antiquariato. È brillante, espressivo, potente quanto Avedon, e improvvisamente si trova davanti una rivoluzione e si trasforma in fotoreporter. Paradossalmente, è nella velocità della fotografia giornalistica, nelle condizioni professionalmente difficili di una rivoluzione, sotto la pressione di un’informazione immediata, che una generazione di brillanti fotografi matura, e stranamente lo fa intorno al quotidiano Revoluciòn, organo del 26 Luglio, diretto a quell’epoca da Carlos Franqui. Sono molto lontani dai rigidi modelli di stampa della burocrazia socialista, molto lontani dal funzionalismo delle agenzie statunitensi, molto vicini, da un punto di vista politico ed estetico, all’esperimento della Magnum nel ventennio precedente. Stranamente, alcuni anni dopo, avrebbero fatto l’immagine e la storia della fase più duramente romantica della rivoluzione cubana. E, quando un giornalista gli chiederà se erano consapevoli che in qualche modo stavano creando l’iconografia, i simboli mondiali del riconoscimento emotivo della rivoluzione, Korda e i suoi colleghi risponderanno di no, che non è così, che non è vero niente, che stavano semplicemente raccontando una storia. Inevitabilmente, la rivoluzione si mostra anche come festa e Korda registra il Cristo rumbero, Camilo Cienfuegos, che entra con i suoi cavalieri armati a L’Avana, in mezzo al giubilo e alla baldoria. Il realismo rumbero e festaiolo come contrapposto alle simulazioni dell’iperrealismo o allo scenario fraudo-
tra le fotografie più significative della Storia (non soltanto della Fotografia), a qualsivoglia quantità i casellari si limitino»; in questo caso, una di quattro! Gli altri tre soggetti evocati, per i quali non visualizziamo la fotografia (non dovrebbe servire, quantomeno non qui, tra noi): Spain Falling Soldier (di Robert Capa, del 1936), Sailor Nurse Kiss (di Alfred Eisenstaedt, del 1945), Vietnam Napalm Girl (di Nick Út, del 1972).
lento e facilone del realismo socialista, compresi i ritocchi. Le foto di Korda che colgono quello spirito sono molte: la rivoluzione nel baseball e il Che senza canottiera. Dobbiamo in gran parte a questa generazione di fotografi la desacralizzazione dell’idea della rivoluzione. Ad essi e al Che. Torno alla mia foto preferita, all’uomo su quell’enorme lampione. È vero, è di Korda, l’ha intitolata “Il don Chisciotte del lampione”, quel guajiro in mezzo alla folla, molti metri al di sopra di essa, seduto in alto. È più giovane di quel che dicevo. Il cappello di paglia non è sfilacciato. Come è arrivato lassù? Come lo scoprì Korda? Da dove lo ritrasse? In America Latina, la rivoluzione ha una componente kafkiana, il realismo kafkiano abita con noi. Senza di essa, moriremmo di noia e di serietà. E nella foto questo si concentra. Spiega tutto: la rivoluzione come il duplice spazio del noi e dell’io. Dove vado? Che c’entro con tutto questo? È mia e me la gioco. Quando Korda, barbuto, molto cubano, ascoltò, in un salone dell’Alliance Française, la mia versione dei fatti, mi prese per mano e mi tirò per andare insieme verso la mostra. Davanti alla foto del don Chisciotte del lampione ci vennero le lacrime agli occhi, ci abbracciammo. – Cazzo, come la raccontano bene gli scrittori. – La raccontano meglio i fotografi. Ancora tre annotazioni, poi basta. Uno. Prima di approdare a Cuba, l’argentino Ernesto “Che” Guevara è stato anche fotografo (molto modesto). Una sua mostra fu allestita a Milano, nell’autunno 2003: ne scrivemmo in FOTOgraphia, dell’ottobre 2003.
Due. Nel 2011, nell’ambito di una propria collana libraria dedicata alla cronaca politica e sociale del Novecento, l’editore BeccoGiallo ha pubblicato il fumetto Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso (128 pagine 15x21cm; 15,00 euro). Abbiamo approfondito, in FOTOgraphia, dell’aprile 2012. Tre. Nel 2014, in occasione delle celebrazioni dei propri Cento anni (dal prototipo UR-Leica, del 1914, altrove 1913), la produzione fotografica tedesca Leica ha realizzato una campagna pubblicitaria (autenticamente minimalista e evocativa), in quattro soggetti; uno dei quali è proprio il ritratto identificato Cuba Che: a riprova, se servisse confermare, che si tratta di «una delle fotografie più celebri al mondo, sempre inclusa in ogni rievocazione storica, sempre considerata tra le fotografie più significative della Storia (non soltanto della Fotografia), a qualsivoglia quantità i casellari si limitino»; in questo caso, una di quattro! Gli altri tre soggetti evocati: Spain Falling Soldier (fotografia di Robert Capa, del 1936), Sailor Nurse Kiss (fotografia di Alfred Eisenstaedt, del 1945), Vietnam Napalm Girl (fotografia di Nick Út, del 1972) [qui sopra]. Comunque, sia chiaro e assodato che qui e ora non abbiamo affrontato alcuna ipotesi ideologica, che non ci compete e che -entro limiti accettabili- non ci interessa, neppure. Altrettanto, sia chiaro e assodato che, comunque la si pensi (a ciascuno, il proprio), soltanto noi italiani possiamo ancora permetterci il lusso di parlare/ipotizzare di comunismo. Coloro i quali l’hanno vissuto sulla propria pelle... ❖
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Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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Pochi film con presenza di fotografia, verso i quali rivolgiamo la nostra attenzione mirata e specifica, hanno raffigurato e/o rappresentato apparecchi grande formato. In effetti, e in misura più che legittima, la fotografia al cinema è soprattutto accostata e collegata ad azioni sostanzialmente dinamiche, svolte e assolte da apparecchi piccolo formato 24x36mm e dintorni, con qualche moderata escursione verso reflex 6x6cm, soprattutto Hasselblad e biottica Rolleiflex / Rolleicord (soltanto queste?), per lo più elegantemente collocate su treppiedi, a propria volta altrettanto accattivanti e, perché no?, scenograficamente fascinosi. Da cui e per cui, rimandiamo a due nostri precedenti interventi redazionali di osservazione degli apparecchi fotografici Tra le mani di attori interpreti: in sequenza temporale, in FOTOgraphia, del settembre 2011 e febbraio 2012. In effetti, va constatato, che la fotografia grande formato al cinema dipende da almeno due fattori, e su questi si basa. Da una parte, c’è il racconto storico, datato tra la seconda metà dell’Ottocento, quando e per quanto la fotografia si è espressa -per l’appunto- con pesanti e ingombranti dotazioni, soprattutto in legno, che sarebbero poi confluite -in propria crescita tecnica/tecnologica- nelle successive configurazioni a banco ottico, oltre che folding, a base ribaltabile. Dall’altra, si individua la rappresentazione di condizioni e situazioni sostanzialmente e sostanziosamente professionali, che, per propria personalità, raramente accompagnano la sceneggiatura cinematografica. Però... qualcosina c’è, e l’abbiamo anche sottolineata come e quando e per quanto è stato necessario farlo. Ora, torniamo in qualche modo sull’argomento -magari con escursione a volo più alto/altro-, a integrazione di quanto già annotato, in riferimenti cinematografici specifici e individuati, e con altro punto di osservazione dettagliato. Detta meglio, forse: ci tratteniamo soprattutto sul gesto del volet di protezione, proprio e caratteristico dell’uso di châssis portapellicola, indugiando solo su questo... oppure, soprattutto su questo.
ET... VOLET
Volet allo châssis Fidelity 4x5 pollici della Sinar-f usata dalla fotografa Alice (nell’interpretazione di Julie Depardieu, figlia d’arte) nel film L’œil de l’autre, di John Lvoff, del 2004 [ FOTOgraphia, aprile 2015]. Quindi, châssis collocato al piano focale dal fotografo di La famiglia, di Ettore Scola, del 1987 (cameo del fotografo fiorentino Maurizio Berlincioni [ FOTOgraphia, ottobre 2008]), e volet nella sessione fotografica di E. J. Bellocq, nel film Pretty Baby, di Louis Malle, del 1978 (nell’interpretazione di Keith Carradine [ FOTOgraphia, febbraio 2010]).
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Cinema
Come sottolineato con un parallelo calzante, nel settembre 2014, una sostanziosa differenza tra l’attenzione scenografica dei film italiani e quella della cinematografia statunitense è evidente. Scartate a lato tante altre osservazioni sulle rispettive capacità professionali, queste differenze balzano presto all’occhio. Nello specifico, illustrammo accostando la presenza della biottica Rolleiflex 6x6cm, ruotata per improbabili inquadrature orizzontali, della fiction Rai Gino Bartali. L’intramontabile, e il volet del filmpack Graflex di The Notorious Bettie Page. A questo solo ci riferiamo oggi. Quando Paula Klaw (interpretata dall’attrice Lili Taylor) fotografa Betty Page (l’attrice Gretchen Mol), nella fiction La scandalosa vita di Bettie Page (titolo italiano; di Mary Harron, del 2005, per la HBO), usa filmpack Graflex nella sua Speed Graphic 4x5 pollici: lo si capisce dall’anello del volet, tanto caratteristico, visibile al piano focale. Qui, i costumisti e gli scenografi rivelano di aver avuto attenzioni anche per i particolari minimi, ininfluenti sulla storia, ma significativi ai fini della ricostruzione temporale degli anni Cinquanta della fotografia professionale americana: è il cinema statunitense, bellezza, e tu non puoi farci niente.
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Da una parte, le illustrazioni qui in accompagnamento visualizzano proprio questo, la presenza del volet; dall’altra, a complemento e integrazione, ci sono azioni con lo châssis; quindi, per rafforzare il cammino, rimaniamo con gli apparecchi grande formato, per i quali diamo per scontato il fantastico e appagante rito dello châssis e relativo volet di protezione alla luce... con quanto/tanto abbiamo più volte attribuito al piacere formale ed estetico, fino a diventare feticistico (o quasi), del Ritorno al grande formato, con quanto intende e comporta nella concentrazione di pose a lungo meditate. Per quanto lontani dal voler comporre alcun casellario enciclopedico, la cui eventuale stesura riguarderebbe altre situazioni, che non questa, e, magari, comporterebbe un che di noiosamente accademico, dal quale stiamo in guardia, i film presi in esame sono sostanzialmente eterogenei, in tutti i propri sensi. Sia dal punto di vista contenutistico, e dunque di valore, sia da quello scenografico, e per questo a tutti accessibile, si tratta di sceneggiature che spaziano verso ogni possibile direzione del cinema di tutti i tempi.
Apparecchi grande formato, senza e con châssis, senza e con relativo volet, in quattro film di sostanza, ciascuno per motivi propri: Speed Graphic 4x5 pollici per il fotogiornalismo di Margaret Bourke-White (Candice Bergen), in Gandhi, del 1982; volet in Il pianeta delle scimmie, del 1968; apparecchio in legno in C’era una volta in America, del 1984; Sinar Norma 13x18cm in Fur - Un ritratto immaginario di Diane Arbus, del 2006.
Comunque, e ne siamo perfettamente consapevoli, la visione è adeguatamente ampia, per quantità e qualità: non a dispetto e in contraddizione con il nostro attuale incipit («Pochi film, molto pochi film con presenza di fotografia, verso i quali rivolgiamo la nostra attenzione mirata e specifica, hanno raffigurato e/o rappresentato apparecchi grande formato»), ma in suo sostegno e supporto. Infatti, come spesso annotiamo e come siamo convinti, una certa socialità della fotografia si può misurare anche dalla sua presenza cinematografica (e in altri fenomeni di costume: dal fumetto alla narrativa, alla filatelia, alla vita quotidiana). In questo senso, le nostre segnalazioni hanno giusto questo scopo: quello di sottolineare ciò che tutti hanno avvicinato, hanno incontrato, senza dare peso e disegno allo sguardo d’insieme. È per questo, quindi, che la somma delle rilevazioni ospitate in questo spazio redazionale dedicato ha senso e scopo. È nella quantità e qualità di attraversamenti che possiamo individuare e leggere, perfino, socialità e università da elevare a unità di misura. La fotografia al cinema. ❖
Centotrenta anni fa di Maurizio Rebuzzini
GEORGE EASTMAN
ANTONIO BORDONI
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P
Pubblicata nel 1887 nella collana Photographic Series, dell’editore newyorkese Scovill Manufacturing Company, l’History of Photography, di W. Jerome Harrison, affronta la materia da un punto di vista, diciamo così, di stretta attualità, quasi in cronaca. A meno di cinquant’anni dalle date ufficiali del 1839, alle quali riferiamo la nascita della fotografia, i fatti sono raccontati di prima mano, basandosi su documentazioni originarie e non già su resoconti successivi, comunque sia filtrati, come accade inevitabilmente oggi. A parte la validità storica del testo, e la preziosità bibliografica del pregevole volumetto, altresì arricchito da una copertina di grande fascino, annotiamo che la copia arrivata fino a noi, regalataci da Lino Manfrotto [mancato lo scorso febbraio], è associata a una lettera che offre un proprio valore aggiunto significativo. Eccolo qui. Inviata dalla Eastman Dry Plate and Film Co, un anno prima del primo apparecchio Kodak (Box Kodak, per il quale fu coniato il celebre slogan You Press the Button, We Do the Rest / Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto [tante le nostre rievocazioni]), la lettera autografa è firmata nientemeno che dallo stesso George Eastman, in anticipo sulla Eastman Kodak Company, che sarebbe nata l’anno successivo. Il 16 novembre 1887, esattamente centotrenta anni fa, accompagnò l’invio della copia dell’History of Photography, appena evocata, alla Church & Church, di Washington. Si tratta di una corrispondenza professionale, che fa riferimento al portapellicola in legno Eastman-Walker, successivamente adattato sulla prima macchina fotografica Kodak, ragionevolmente il soggetto implicito della comunicazione. Church & Church furono i procuratori legali che, all’inizio del 1888, depositarono il brevetto del-
Signori, in risposta alla vostra lettera del 12 novembre, vi spediamo in allegato una copia di History of Photography, che fa riferimento a una pubblicazione della Bombay Photographic Society, del 1855, dove viene descritto il dispositivo portapellicola. Se potete usarla traendone qualche profitto, vi prego di farlo. Se non riuscite a trovare una copia delle note e delle specifiche nella biblioteca di Washington, possiamo provare a procurarcene una da Mr. Walker. Sarebbe meglio che voi preparaste una esposizione basata sulla lettera di Mr. Walker, nel caso sia menzionato qualcosa di brevettabile. Pensando che non sareste stati in grado di trovare lo scritto al quale si riferisce l’ History of Photography, abbiamo richiesto delle copie a Mr. Walker. Nel frattempo, probabilmente il vostro ufficio dovrà ritardare l’azione legale in attesa del loro arrivo. Cordialmente, George Eastman.
la Kodak originaria, della Box Kodak. Al proposito, la approfondita biografia scritta da Elizabeth Brayer (per l’appunto, George Eastman. A Biography; The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1996 / riedizione University of Rochester Press, 2015) annota che verso la fine del gennaio 1888, George Eastman scrisse ai propri procuratori: «Vi invio due apparecchi Kodak da utilizzare come modelli per i disegni da allegare ai brevetti. Per cortesia, esaurite tutto il rullo e inviatecelo per lo sviluppo [...]. Fate una ricerca [...]. Secondo voi viola qualche altro brevetto?». Attenzione: il riferimento in questa lettera rappresenta il primo uso pubblico del nome “Kodak”. Di assoluta fantasia, era facile da pronunciare... e, poi, altre dietrologie, che fanno parte della Mito. La traduzione testuale della (nostra) lettera autografa. «Signori, in risposta alla vostra lettera del 12 novembre, vi spediamo in allegato una copia di History of Photography, che fa riferimento a una pubblicazione della Bombay Photographic Society, del 1855, dove viene descritto il dispositivo portapellicola. Se potete usarla traendone qualche profitto, vi prego di farlo. Se non riuscite a trovare una copia delle note e delle specifiche nella biblioteca di Washington, possiamo provare a procurarcene una da Mr. Walker. Sarebbe meglio che voi preparaste una esposizione basata sulla lettera di Mr. Walker, nel caso sia menzionato qualcosa di brevettabile. «Pensando che non sareste stati in grado di trovare lo scritto al quale si riferisce l’History of Photography, abbiamo richiesto delle copie a Mr. Walker. Nel frattempo, probabilmente il vostro ufficio dovrà ritardare l’azione legale in attesa del loro arrivo. «Cordialmente, George Eastman». ❖
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Probabilmente, potremmo anche vantare che “Noi non dimentichiamo”. Non è tanto un esercizio di memoria, ma -come spesso annotato- di ricordi. Ancora: curiosità e conoscenza, anche a partire dalla fotografia, magari per migliorare la nostra partecipazione alla stessa fotografia... e non soltanto. Con l’occasione di un racconto statunitense a fumetti, che traduciamo in George Eastman e la Box Kodak, torniamo a considerare una delle personalità fondamentali del nostro piccolo-grande mondo. Senza, peraltro, circoscrivere necessariamente a questo
ALLE ORIGINI DI KODAK di Antonio Bordoni (e Maddalena Fiocchi)
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
R
George Eastman and the Kodak Camera, di Jennifer Fandel; illustrazioni di Gordon Purcell e Al Milgrom; consulenza di David Silver; Capstone Press, 2007 (per ragazzi da otto a quattordici anni); 32 pagine 17,3x22,3cm; 8,10 dollari in brossura; 30,65 dollari cartonato. Considerato il tema, traduciamo in George Eastman e la Box Kodak, per comprensione certa dalla nostra conoscenza italiana. Così come abbiamo interpretato i testi (da pagina 24): traduzione di Maddalena Fiocchi. In quattro capitoli: Dall’hobby all’industria; Un sogno semplice e chiaro; La fotografia per tutti; La fotografia, in un istante!. Quindi, note finali.
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agionare e scrivere oggi di Kodak è quantomeno incongruente. Forse, è addirittura inopportuno e illogico, nella propria sostanziosa assurdità temporale. Fino a ieri l’altro colosso inviolabile del mercato fotografico, in modo e misura più determinanti di altri marchi storici della fotografia, Kodak -che negli Stati Uniti di origine e evoluzione è Eastman Kodak Company, dal nome del suo fondatore (al quale intendiamo riferirci oggi)- non ha saputo affrontare l’evoluzione tecnologica verso l’acquisizione digitale di immagini, e filiera conseguente. E qui, e ora, non si può soprassedere sull’incapacità manageriale di una dirigenza cresciuta in regime di monopolio, con margini finanziari astronomici: è ormai accertato che, ai tempi, un rullino 35mm, venduto a sei-sette dollari, tanto per riferirci a una moneta non trasformatasi nel tempo, a differenza del passaggio italiano dalla Lira all’Euro, avesse un costo industriale nell’ordine di qualche centesimo. Inadeguatezza e incompetenza che hanno demolito un’azienda che per decenni è stata tra le prime trenta degli Stati Uniti, sempre e comunque la prima tra quante estranee al mondo del petrolio, dell’automobile e contorni. Così che, a conti fatti, ci si trova a raccontare di un mondo e un clima che si sono sciolti come neve al sole, rivolgendoci, magari, a chi, per diritto di anagrafe, neppure sa quanto sia stata Kodak in tempi neanche troppo remoti: da cui... giornalismo «incongruente, inopportuno, illogico e, perfino, assurdo». Ovvero, giornalismo datato nei propri riferimenti e richiami a un’epoca tramontata, a un momento che non ha alcuna relazione con quanto si sta esprimendo in attualità temporale. Comunque, facciamolo lo stesso.
Approfittiamo di un anniversario tondo, che si concretizza nel centotrentesimo anniversario di una lettera autografa di George Eastman, in nostro possesso (con annotazione da pagina 20, su questo stesso numero), che fa parte del carteggio con i procuratori legali, per la richiesta del brevetto della Box Kodak, la prima delle quattro svolte senza ritorno fondamentali della tecnologia fotografica di tutti i tempi, in proiezione sociale e di linguaggio (da e con Maurizio Rebuzzini, in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita; Graphia, 2009]. Ne approfittiamo, richiamando, prima di altro, prima di tutto, un’edizione a fumetti rivolta e indirizzata al pubblico più giovane (dagli otto ai quattordici anni di età, per dichiarazione esplicita dell’editore). Pubblicato nel 2007 dalla statunitense Capstone Press, nella sua collana Inventions and Discovery (invenzioni e scoperte), George Eastman and the Kodak Camera è un racconto di Jennifer Fandel, illustrato da Gordon Purcell e Al Milgrom: trentadue pagine 17,3x22,3cm (8,10 dollari in brossura; 30,65 dollari cartonato). Considerato il tema centrale del resoconto, noi traduciamo in George Eastman e la Box Kodak, ai fini di una comprensione certa dal nostro punto di vista e conoscenza italiano.
A FUMETTI Per quanto doverosamente semplificata, sia per spazio, sia per indirizzo, con sollecitazione ad approfondimenti, la narrazione è esposta con precisione adeguata e accortezza apprezzata. Certo, l’intenzione è lontana dalla visione enciclopedica, verso la quale rimandano, comunque, indicazioni a fine resoconto. Ma quanto c’è rivela competenza e capacità di sintesi. (continua a pagina 28)
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George Eastman in un ritratto di Joseph DiNunzio, realizzato nel 1914 (circa) con pellicola Two-color Kodachrome. Nel centocinquantenario dalla nascita (12 luglio 1854-2004) abbiamo celebrato la sua straordinaria figura con una rievocazione dei primi anni di vita, antecedenti le invenzioni che hanno creato il concetto di fotografia come oggi ancora l’intendiamo. In un certo senso, qui e ora, torniamo sugli stessi argomenti, sollecitati a farlo da un eccellente fumetto, che racconta proprio questa vicenda originaria (in traduzione, dalla prossima pagina 24).
Nel 1888, la Box Kodak, con la quale nacque il marchio di fabbrica (Kodak / Eastman Kodak, appunto), stabilì una linea spartiacque; anzi, due. Almeno. Da un punto di vista commerciale, da e con questa idea comincia il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo; quindi, anche l’espressività fotografica cambiò radicalmente, rendendo la pratica fotografica accessibile a tutti. E tanto altro ancora (da e con 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini: una delle quattro svolte senza ritorno). E altro.
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Capitolo 1. Dall’hobby all’industria 1877, George Eastman ha ventitré anni e lavora come impiegato di banca, a Rochester, nello Stato di New York, sua città natale. Suo padre George Washington Eastman era mancato all’improvviso, il 27 aprile 1862: la famiglia Eastman fu colpita da un tragico destino; fu uno shock totale. George aveva solo sette anni. Avendo conosciuto le difficoltà economiche, era determinato a guadagnare molto. Una sua idea era di comperare terreni in America Centrale, per trarne profitto. Stava addirittura organizzando un viaggio di ricognizione.
George, hai davvero intenzione di andare in America Centrale? Tutti quelli con cui ho parlato dicono che è lì che si trovano i soldi.
A quei tempi (1877), l’attrezzatura fotografica era costosa e difficile da usare: oltre le capacità espressive, il fotografo doveva essere competente di tutte le laboriose fasi tecniche.
Così, devo emulsionare la lastra... Quale di questi?
Quando George Eastman si sentì preparato, testò le proprie capacità fotografando i dintorni di Rochester.
Questa attrezzatura pesa, è faticosa da trasportare! Ma quando avrò tra le mani la mia prima fotografia, sarò ripagato.
Non sono un chimico; spero non esploda qualcosa!
Da qui, la veduta della città è perfetta.
Collodio umido: stendere i chimici per sensibilizzare la lastra di vetro (in modo da creare un’emulsione).
Dopo aver preparato la lastra, George Eastman è pronto per scattare.
Collodio umido: scattare immediatamente dopo la stesa e sviluppare subito la lastra, dopo la sua esposizione.
Dovresti imparare a fotografare le terre che compri. George Eastman seguì il consiglio dell’amico Frank, e comprò l’occorrente per fotografare (collodio umido). Non andò mai in America Centrale. Però, cominciò a interessarsi alla fotografia.
Una volta asciugate le lastre sensibili, George Eastman testò la sua emulsione.
Perché è così striata e sfuocata?
La macchina di George Eastman era facile da usare.
Okay, Frank. Resta in posa!
Basta un giro di manovella, per ricoprire uniformemente le lastre.
Com’è venuta?
Credo che sia un mio errore, inevitabile se si stende a mano l’emulsione. È difficile ricoprire in modo uniforme queste lastre a secco.
Hmm. Riesco a riconoscerti, Frank. Ma...
Avresti bisogno di una macchina che lo faccia al posto tuo. George Eastman progettò un congegno per rivestire uniformemente le lastre di vetro. Nell’aprile 1880, ottenne il brevetto a tutela della sua invenzione. Per i venti anni successivi, nessun altro poté sfruttare la sua idea.
Non posso essere io l’unico fotografo a desiderare lastre di qualità migliore. Grazie a questa nuova macchina, scommetto che -se mettessi in vendita le mie lastrepotrei guadagnare molto.
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Henry Strong, un amico di famiglia, lo finanziò affinché avviasse un’impresa industriale. Era convinto che l’idea di George Eastman avrebbe fruttato molto denaro ad entrambi.
Fammi vedere come funziona, George. Le ventose trattengono la lastra di vetro, mentre scorre su un rullo impregnato con l’emulsione. Quando la lastra è ricoperta, inizia l’essicazione. Ventose / Lastra di vetro / Rullo
Senza otturatore, il tempo di posa, comunque prolungato, è determinato dalla rimozione del tappo dell’obiettivo, per i secondi, o minuti, ritenuti adeguati.
Uno, due, tre. Dovrebbe bastare. Come tutti i fotografi del tempo, George Eastman sviluppa velocemente la lastra sotto una tenda adibita a camera oscura. In seguito, con negativo asciutto, espone per contatto una carta fotosensibile, ottenendo una copia positiva [ovvero, copie positive in quantità desiderata].
Spero che questo sia il modo giusto
Capitolo 2. Un sogno semplice e chiaro
Bella fotografia, George. Allora, a cosa stai lavorando?
George Eastman elaborò presto un processo fotografico semplificato, come desiderava. Nel frattempo, in Europa, erano state create lastre a secco, per rimpiazzare le lastre umide, scomode e impiastricciate.
Sto preparando un’emulsione a secco di mia invenzione. Devo fare in modo che la mia miscela aderisca alla lastra di vetro. Adesso, dobbiamo solo lasciarle asciugare.
Queste lastre a secco sono più facili da usare, ma la qualità è bassa. Scommetto che posso migliorarle. Nei tre anni successivi, George Eastman mantenne il lavoro in banca. Di notte, si dedicava alla fotografia.
Ce l’ho fatta! Ecco la mia prima fotografia!
Hai l’aria stanca, George.
Man mano che la passione per la fotografia aumenta, il lavoro di George Eastman diventa più impegnativo.
Questa notte, ho lavorato fino a tardi; sto elaborando un’idea per semplificare il processo fotografico.
Dev’esserci un modo più semplice.
Passa da me qualche volta. Ti farò un ritratto, e ti parlerò di questa idea.
Ti faccio vedere come vengono bene le fotografie con queste mie lastre a secco.
Qualche mese dopo aver brevettato la sua invenzione, nel 1880, George Eastman avviò la propria impresa industriale. Era certo che i fotografi avrebbero apprezzato le sue lastre a secco. [Da cui, l’identificazione aziendale “The Eastman Dry Plate and Film Co”, in intestazione della lettera firmata dallo stesso George Eastman, in data antecedente la nascita di “Eastman Kodak Company”, dal 1888, che presentiamo e commentiamo da pagina venti, su questo stesso numero].
Oh, no! Queste lastre di vetro sono così fragili.
Ho sentito molto parlare di queste nuove lastre. Come funzionano?
Pensi di poter creare qualcosa per fissare un rotolo di pellicola all’interno della macchina fotografica?
Stai fermo. Uno, due, tre. Ecco fatto. Questa fotografia è stata realizzata con una lastra a secco che ho steso a mano. E questa è stata scattata con una delle mie lastre emulsionate a macchina. È incredibile, George! Sono entusiasta di questa tua invenzione.
Le provi. Poi mi dica cosa ne pensa. George Eastman prometteva lastre perfette e si impegnava a sostituire gratuitamente quelle eventualmente difettose. Presto, divenne noto tra i fotografi statunitensi ed europei.
Alcune lastre avevano difetti, ma Eastman me ne ha mandate di nuove. Consiglio a tutti la sua azienda.
Presto, George Eastman sostituì le lastre di vetro (originarie) con supporti di carta. Nel 1883, era al lavoro con l’ingegner William Hall Walker [richiamato nella lettera pubblicata da pagina venti] sulla loro prima pellicola (flessibile).
Lasceremo asciugare la carta trattata e la collocheremo nella macchina fotografica al posto delle lastre.
Qualcosa come un rocchetto da cucito dovrebbe funzionare. La pellicola viene avvolta intorno al rocchetto, proprio come un filo. Il 27 giugno 1884, George Eastman e William Hall Walker ottennero il brevetto per il loro Eastman’s American Film: la prima pellicola del genere. Il 5 maggio 1885, ne ottennero un altro, per il portarulli. Era adattabile alla maggior parte delle macchine fotografiche del tempo.
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I dipendenti dell’azienda rimasero molto colpiti dalla novità.
Abbiamo creato una pellicola fotografica flessibile. Presto, la metteremo in vendita. Pellicola al posto del vetro? Che idea grandiosa. George Eastman presentò al pubblico il suo nuovo prodotto, in Inghilterra, a Londra, durante una fiera di invenzioni. La sua pellicola fotografica innovativa vinse diversi premi, ma i fotografi non ne rimasero convinti.
Ero talmente eccitato all’idea di rendere la fotografia qualcosa di più facile, che ho tralasciato la qualità dell’immagine. In fatto di qualità, i fotografi sono molto esigenti. Cercherò un materiale migliore della carta. Però, la gente comune potrebbe essere meno esigente in fatto di qualità, specialmente se potesse scattare facilmente le proprie fotografie. Walker, ho un’idea!
Queste nuove pellicole e il portarullo sono una grande idea, ma le fotografie non sono di buona qualità.
Capitolo 3. La fotografia per tutti Mentre William Hall Walker era in cerca di una pellicola migliore, di un supporto migliore, George Eastman ipotizzò un nuovo tipo di macchina fotografica. Su suo disegno, un ebanista costruì l’involucro. Un tecnico locale creò un otturatore che scattava rapidamente. Un laboratorio di ottica di Rochester, di proprietà di immigrati tedeschi, Baush & Lomb [che creeranno gli occhiali Ray-Ban], fornì l’obiettivo.
Il rullo di pellicola si inserisce perfettamente... Basta tirare il cordoncino... girare la chiave... ... e premere il pulsante di scatto.
Ci sono molte sbavature.
È facilissimo.
Penso che rimarrò fedele alle mie lastre.
Come la chiamerà? Kodak.
Capitolo 4. La fotografia, in un istante! Nei dieci anni seguenti, la domanda di Box Kodak fu molto alta. George Eastman allargò la propria impresa. Aprì fabbriche e centri di distribuzione in tutto il mondo. Nel novembre 1898, la Eastman Kodak Company era già considerata come la più grande compagnia fotografica del mondo.
George Eastman si rendeva conto che altre imprese avrebbero cercato di competere con la sua. Finanziò ricerche mirate a mantenere la leadership della Kodak Eastman Company.
Le nostre Box Kodak costano venticinque dollari. È più di quanto la maggior parte della gente possa permettersi. Beh, se semplificassimo il processo di sviluppo, potremmo venderle a un prezzo inferiore. Lavora in questa direzione. Mr Eastman, produrre questa nuova macchina fotografica costa meno di un dollaro, ed è così semplice che può usarla anche un bambino. Un bambino, hai detto? Questa è una grande idea!
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La Brownie è la macchina fotografica per bambini. Costa solo un dollaro, e ci faremo dei clienti a vita. Nel febbraio 1900, Kodak lanciò la Brownie [obiettivo a menisco semplice, per pellicola a rullo 117]. In vendita a un dollaro soltanto, è stata la prima macchina che tutti potevano usare e (quasi) tutti potevano permettersi.
Cosa significa “Kodak”?
Nel 1888, George Eastman iniziò a vendere la Box Kodak originaria.
All’inizio, l’idea della Box Kodak sembrava incredibile.
È un termine che ho inventato io. D’ora in poi, “Kodak” significherà “macchina fotografica semplice per gente comune”. Tutti possono usarla. Tutti la useranno.
State fermi. Così posso fotografare questo momento.
Quindi, spedisci la macchina alla fabbrica, e loro ti rimandano le fotografie stampate?
Con il successo della sua nuova macchina fotografica, George Eastman adottò l’aspetto ben rasato di un autentico uomo d’affari del tempo.
Proprio così. Non ho mai sentito nulla del genere.
Come faranno a sviluppare le loro fotografie?
Non è fantastico? Dovrò comprarmi una Kodak anch’io.
Questo è il bello. Il nostro slogan sarà “You Press the Button, We Do the Rest”. [Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto; in realtà questa dicitura compare, per la prima volta, in un annuncio pubblicitario del 1890].
La gente vedeva la Box Kodak in mano ai loro amici, e la compravano anche per sé. [Depositato il brevetto, il 4 settembre 1888: numero US 388.850] Nel primo anno, George Eastman ne vendette più di tredicimila esemplari.
Cioè? Ci invieranno le loro macchine fotografiche, e noi svilupperemo le fotografie. Gli invieremo le copie insieme alla macchina ricaricata di pellicola vergine.
Come c’era da aspettarsi, George Eastman continuò a perfezionare la Brownie, le cui venticinque versioni, allungatesi fino agli anni Sessanta del Novecento, raggiunsero i tempi del colore e flash incorporato.
Wow! Una Brownie tutta per me. Grazie, zio Dan. Mi ricordo ancora quanto mi sono divertito con la mia prima Brownie.
Ispirati dalla macchina e dalla pellicola di George Eastman, all’inizio del Novecento, scienziati e inventori fecero esperimenti su colore e cinema [tra questi, soprattutto, Thomas Alva Edison, titolare di millenovantatré brevetti depositati in tutto il mondo: record assoluto].
Da quando George Eastman realizzò la prima Box Kodak, la fotografia è molto cambiata. Però, l’idea è sempre la stessa. La fotografia è rapida, semplice ed economica, e permette di immortalare istanti della propria vita e momenti storici. George Eastman approdò alla fotografia per denaro, continuò perché imparò ad amarla [forse, addirittura, a capirla e... anticiparla: nel delicato e inquietante rapporto tra tecnica (che si può imparare e insegnare) e creatività (che si deve coltivare, educare e assecondare)]. [Sulla pagina, fotografie simboliche di “momenti storici”, evocati dal testo di accompagnamento: V-J Day, bacio tra un marinaio e una crocerossina, in Times Square, a New York, il 14 agosto 1945 (di Alfred Eisenstaedt; su questo stesso numero, a pagina 15); a Washington, nel 1963, afroamericani manifestano per uguali diritti nelle scuole; Marilyn Monroe nel celebre posato promozionale del film Quando la moglie è in vacanza, del 1955); lancio di uno Shuttle].
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Tra i biglietti da visita a disposizione del pubblico, allo stand Eastman Kodak Company del PMA, di Las Vegas, del febbraio 2000, uno inconsueto, oltre che gradito. Per impostazione identico a quelli coevi, con tanto di ritratto ufficiale, l’ address di “George Eastman” riporta la qualifica di “Fondatore”. Un’idea geniale.
(continua da pagina 22) Estrapoliamo dalla traduzione, di Maddalena Fiocchi, che in queste pagine completa la proposizione della sequenza del fumetto (in dimensioni ridotte: l’originale offre ben altro impatto visivo; ne sollecitiamo l’acquisto, che vale bene la sua spesa): ci sono i propositi di George Eastman, dei quali relazioneremo più avanti («Questa attrezzatura pesa, è faticosa da trasportare! Ma quando avrò tra le mani la mia prima fotografia, sarò ripagato»); la sua tenacia e risolutezza («Dev’esserci un modo più semplice»), la costanza verso il meglio («Sto preparando un’emulsione a secco di mia invenzione. Devo fare in modo che la mia miscela aderisca alla lastra di vetro»); l’inventiva e ricerca di nuove strade («È incredibile, George! Sono entusiasta di questa tua invenzione»); la sua consapevolezza del proprio ruolo sociale, dopo la barba degli anni giovanili («Con il successo della sua nuova macchina fotografica, George Eastman adottò l’aspetto ben rasato di un autentico uomo d’affari del tempo»). Quindi, cadenza storica dal collodio umido -con relativa indispensabile camera oscura portatile, magari in forma di tenda- alle lastre a secco (da cui, l’identificazione aziendale “The Eastman Dry Plate and Film Co”, in intestazione della lettera firmata dallo stesso George Eastman, in data antecedente la nascita di “Eastman Kodak”, dal 1888, che presentiamo e commentiamo da pagina venti, su questo stesso numero), dal vetro alla pellicola flessibile.
Ottima, poi la consecuzione dalla Box Kodak originaria alla Brownie. Infatti, per quanto più economica di apparecchi fotografici precedenti, oltre che semplificata nell’uso, la stessa Box Kodak costava, comunque, venticinque dollari e il trattamento della pellicola e stampa delle copie ne richiedevano altri dieci. Ecco! Alcuni storici riferiscono questi valori anteponendo l’avverbio “soltanto”, pensandola con termini economici attuali. Invece, per quanto convenienti (relativamente al rapporto tecnico-commerciale di quell’apparecchio fotografico indirizzato a un pubblico vasto), venticinque dollari erano tutt’altro che “soltanto venticinque dollari”. Un rapporto: il dollaro (circa) della Coca-Cola d’oggi è stato un centesimo all’inizio del Novecento, una dozzina d’anni dopo la nascita del prodotto, nel 1886, in sostanziale simultaneità con il 1888 della Box Kodak. Da cui, i venticinque dollari di allora si profilano come duemilacinquecento dollari... neppure di oggi, ma di un potere economico considerevolmente più modesto, che richiede un ulteriore moltiplicatore sociale. Ecco, quindi: «Le nostre Box Kodak costano venticinque dollari. È più di quanto la maggior parte della gente possa permettersi». / «Beh, se semplificassimo il processo di sviluppo, potremmo venderle a un prezzo inferiore». E, allora... «Nel febbraio 1900, Kodak lanciò la Brownie. In vendita a un dollaro soltanto, è stata la prima macchina che tutti potevano usare e (quasi) tutti potevano permettersi».
BOX KODAK, LA PRIMA
Dal 1888, la Box Kodak di George Eastman ha reso la pratica fotografica accessibile a tutti. Con l’occasione, ricordiamo che “Kodak”, termine che nacque appunto con questo apparecchio originario, significa nulla, ma è soltanto un’espressione facile da ricordare. Come altre definizioni, nasce prima di tutto dal gioco di anagrammi che George Eastman faceva con la madre Maria Kilbourn, e poi è costruito attorno la presunta forza visiva e fonetica della lettera “K” (peraltro l’iniziale del cognome della madre, alla quale George Eastman rimase sempre profondamente legato). Dopo aver depositato il marchio anche in Inghilterra (4 settembre 1988), George Eastman diede la propria spiegazione ufficiale del nome Kodak: «Primo, è corto; secondo, non rischia di essere malpronunciato; terzo, non assomiglia a nulla di esistente e non può essere associato ad altro che all’apparecchio Kodak». La realizzazione della Box Kodak, con la quale nasce il marchio di fabbrica (Kodak, appunto; e tanto altro ancora, analizzato
e approfondito nel capitolo 1888. Box Kodak, la prima, dell’analisi 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini), stabilisce una linea spartiacque: con questa idea prende avvio il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo. Dal successivo 1890, la sua commercializzazione fu promossa con il richiamo che sarebbe diventato più che celebre: «Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto». In un’epoca nella quale i procedimenti fotografici erano assai complessi, con “il resto” si intendevano tutte le lavorazioni di trattamento della pellicola e stampa delle copie. Venduto a venticinque dollari, l’apparecchio era caricato con pellicola flessibile (invenzione fondamentale) sufficiente per cento esposizioni. Esauriti gli scatti, l’intero apparecchio andava spedito alla Eastman Kodak, di Rochester: dieci dollari per il trattamento del negativo, la stampa delle copie (tonde, di 64mm di diametro) e il ricaricamento con pellicola vergine. La Box Kodak è dotata di un obiettivo di 57mm di lunghezza focale, con apertura relativa f/9. Era precaricata con pellicola flessibile di 70mm, per cento esposizioni tonde di 64mm di diametro. Una volta esaurite le pose, la Box Kodak doveva essere spedita a Rochester, dove si provvedeva a trattare il materiale fotografico e a stampare le copie. Una volta sviluppata la pellicola flessibile caricata nella Box Kodak, le copie su carta venivano esposte per contatto, alla luce del sole, in appositi laboratori creati a Rochester (antesignani degli attuali laboratori conto terzi di sviluppo e stampa); i tempi di restituzione dipendevano anche dagli agenti atmosferici: da cinque a dieci giorni, veniva precisato.
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mandiamo, soprattutto, alla ripetizione odierna, da pagina venti, nel centotrentesimo anniversario. Nel luglio 2004, è stato celebrato il centocinquantesimo anniversario della nascita di George Eastman (12 luglio 1854), una delle figure fondamentali (di più, addirittura) della storia della fotografia [FOTOgraphia, giugno 2014]. Oggi, tredici anni dopo, nel centotrentesimo della lettera autografa appena evocata, precisiamo subito e presto che il peso delle sue invenzioni fu addirittura discriminante, tanto da avviare la tecnologia fotografica lungo una linea evolutiva nuova e originale, che è arrivata fino ai nostri giorni. Tra tanto, si può affermare che è da George Eastman che la fotografia acquisì una propria dimensione e personalità industriale. E altro ancora: capitolo 1888. Box Kodak, la prima, in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini. Nel 1880, a ventisei anni di età, George Eastman divenne uno dei primi fabbricanti americani di lastre a secco: The Eastman Dry Plate and Film Co. Quindi, nel 1888, contribuì alla crescita e diffusione della fotografia con un proprio sistema semplificato (l’originaria Box Kodak) e, nel 1889, realizzò la prima pellicola di celluloide trasparente, da cui dipende anche la nascita del cinema. Per la produzione e commercializzazione dei propri prodotti, fondò una azienda che per decenni e decenni è
Il 12 luglio 1954, in occasione del centenario della nascita, le poste statunitensi dedicarono un proprio francobollo a George Eastman, utilizzando un ritratto eseguito dall’inglese Nahum Ellen Luboshez, il 27 giugno 1921 (in alto, a sinistra). Valore di tre centesimi (tariffa base del servizio postale), in sostanziosa tiratura di ben centoventotto milioni di pezzi.
In occasione di questa emissione filatelica, furono messe a punto diverse iniziative a cura di istituzioni pubbliche ed enti privati; tra queste, segnaliamo quella di una cartella commemorativa contenente cinque buste a tema, con annullo del primo giorno. Come recita la confezione: «Un tributo filatelico americano a George Eastman, inventore, uomo d’affari e filantropo».
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
GEORGE EASTMAN
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (6)
A margine, e per chiudere qui con il fumetto, nella tavola a pagina quindici (dello stesso fumetto) fa capolino una figura storica molto importante per la nascita della Box Kodak, e per tanto altro ancora. Nel 1880, a Rochester, William Hall Walker avviò la produzione Wm. H. Walker & Co. di una macchina fotografica. Realizzò diverse varianti della Walker’s Pocket Camera, tutte basate su un efficace telaio in legno. È da questo portarulli che si conteggia la possibilità e diffusione di pellicola flessibile (carta), che poi sarà alla base della successiva Box Kodak e della sua svolta senza ritorno [da e con 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini; Graphia, 2009]. Ancora, è alla descrizione di questo portarulli che fa riferimento George Eastman, nella lettera inviata ai propri procuratori legali Church & Church, di Washington, nell’ambito del carteggio per la richiesta del brevetto per l’originaria Box Kodak: «Signori, in risposta alla vostra lettera del 12 novembre, vi spediamo in allegato una copia di History of Photography, che fa riferimento a una pubblicazione della Bombay Photographic Society, del 1855, dove viene descritto il dispositivo portapellicola. Se potete usarla traendone qualche profitto, vi prego di farlo. Se non riuscite a trovare una copia delle note e delle specifiche nella biblioteca di Washington, possiamo provare a procurarcene una da Mr. Walker». Ne abbiamo riferito molte volte, attingendo al nostro Archivio, dove è conservata la lettera originaria, e ri-
Quando affermiamo che Kodak (Eastman Kodak Company), colosso inviolabile del mercato fotografico, non ha saputo affrontare l’evoluzione tecnologica verso l’acquisizione digitale di immagini, sottolineiamo anche l’incapacità manageriale di una dirigenza cresciuta in regime di monopolio. A differenza, Fujifilm è la sola azienda storica della fotografia chimica che è stata capace di sopravvivere e proliferare ancora nel passaggio alla tecnologia digitale. Lo si deve, soprattutto, a una persona: il presidente e Ceo della Fujifilm Holdings Corporation, Shigetaka Komori, che ha scandito tempi e modi della sua lungimiranza e azione in un saggio di straordinario valore. Le pagine di Innovating. Out of Crisis - How Fujifilm Survived (and Thrived) As Its Core Business Was Vanishing (Come Fujifilm è sopravvissuta -e ha prosperatoquando il suo core business stava svanendo) sono folgoranti e illuminanti; purtroppo, per ora, disponibili in sola edizione inglese originaria: Stone Bridge Press, 2015; 216 pagine 12,7x20,6cm; 24,95 dollari.
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Annuncio Fujifilm: George Eastman, primo soggetto della serie Personaggi e cultura della fotografia ( FOTOgraphia, del luglio 2001). «La pellicola flessibile di George Eastman e la sua originale Box, del 1888, resero la pratica fotografica accessibile a tutti. La realizzazione della Box stabilisce una linea spartiacque: con questa idea nasce il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo. La sua commercializzazione fu promossa con il richiamo che sarebbe diventato più che celebre: “Voi schiacciate il bottone,
Ritratto di George Eastman ripreso con il materiale sperimentale al quale stava lavorando con il proprio staff tecnico. Dal 1880, già fabbricante di lastre a secco (The Eastman Dry Plate and Film Co), George Eastman avrebbe cominciato a produrre materiale fotografico su carta in rotoli, dal 1885. La scritta riportata su questa stampa recita: «Stampata su carta sensibilizzata sviluppata dopo il trasferimento; 18 febbraio 1884».
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stata ai vertici internazionali della fotografia. Negli Stati Uniti, si dice Eastman Kodak; in Italia, è bastato Kodak. Sessant’anni fa (abbondanti), il 12 luglio 1954, in occasione del centenario della nascita di George Eastman (a Waterville), le poste statunitensi gli dedicarono un francobollo, per la cui realizzazione fu utilizzato un ritratto eseguito a Londra dal fotografo di origine russa Nahum Ellan Luboshez. Si tratta del ritratto preferito da George Eastman, che viene ancora oggi utilizzato come sua immagine ufficiale, scattato in occasione della cerimonia di consegna della medaglia della Royal Photographic Society, il 27 giugno 1921, undici anni prima della scomparsa, avvenuta nella casa di Rochester, il 14 marzo 1932. Il francobollo, del valore di tre centesimi, ai tempi tariffa base del servizio postale statunitense, fu coniato in centoventotto milioni di esemplari. George Eastman fu l’ultimo genito della famiglia, composta dai genitori George Washington Eastman e Maria Kilbourn Eastman (che altrove viene erroneamente chiamata Kilburn) e dalle sorelle Emma Kate, maggiore di quattro anni, e Ellen Maria, nata otto anni prima. La famiglia viveva a Waterville, una piccola cittadina nel nord dello stato di New York, a settanta miglia da Rochester. Il giovane George Eastman crebbe pieno di interrogativi e curiosità, e, conseguentemente, domande. Sembrava che stesse già cercando di capire come funzionassero le cose. Crescendo, non avrebbe mai perso questa curiosità. Anche da adulto, avrebbe
sempre cercato di comprendere i princìpi che stavano alla base del funzionamento di ogni apparecchiatura nella quale si imbatteva. Nel 1860, la famiglia si trasferì a Rochester, dove il padre di George aveva fondato e dirigeva l’Eastman Commercial College, un istituto scolastico a indirizzo multiplo. Già in quei tempi, Rochester era una cittadina vivace e attiva, nella quale si respiravano pensieri progressisti. A Rochester, viveva Frederick Douglass (Frederick Augustus Washington Bailey; 1818-1895), lo scrittore afroamericano che aveva passato i primi vent’anni della propria vita come schiavo. In seguito, divenne uno dei più energici oratori degli Stati Uniti e un leader del movimento per l’abolizione della schiavitù. A Rochester, era anche residente Susan Brownell Anthony (1820-1906), altra figura di primo piano del movimento anti-schiavista. Anni dopo, sarebbe divenuta una delle leader suffragiste, per l’emancipazione, e avrebbe lottato per l’estensione del diritto di voto alle donne. In un momento in cui tutto sembrava andare per il meglio, la famiglia Eastman fu colpita da un tragico destino avverso. Il 27 aprile 1862, George Washington Eastman morì all’improvviso. Fu uno shock totale per la famiglia. George aveva solo sette anni. Il mondo di George Eastman venne sconvolto. Dopo la morte del padre, dovette crescere in fretta. Desiderava contribuire in modo sensibile alle finanze familiari, prendendo il posto di suo padre. Andare a scuola stava
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
noi facciamo il resto”. In un’epoca nella quale i procedimenti fotografici erano assai complessi, con “il resto” si intendevano tutte le lavorazioni di trattamento della pellicola e stampa delle copie. Venduto a venticinque dollari, l’apparecchio era caricato con pellicola flessibile (invenzione fondamentale) sufficiente per cento esposizioni. Esauriti gli scatti, l’intero apparecchio andava spedito a Rochester: dieci dollari per il trattamento del negativo, la stampa delle copie (tonde, di 64mm di diametro) e il ricaricamento con pellicola vergine».
diventando sempre meno importante per lui, se confrontato all’importanza di lavorare e portare a casa uno stipendio regolare. L’otto marzo 1868, quattro mesi prima del quattordicesimo compleanno, George lasciò la scuola e cominciò a lavorare in una compagnia di assicurazioni. Fu questa la fine della sua istruzione formale. Ma in nessun modo ciò segnò la fine dell’amore di George Eastman per la conoscenza e il miglioramento di se stesso e degli altri. Ai tempi, era un ragazzino magro, di statura media, con i capelli neri e gli occhi grigio-azzurri. Sembrava naturalmente timido, ciò che si sarebbe potuto definire un ragazzo dai modi educati. Sebbene parlasse solo quando interpellato, era brillante ed entusiasta. Quando parlava, aveva sempre qualcosa di valido da dire. Altrimenti, rimaneva in silenzio. In quel primo anno, il giovane George Eastman fece la propria carriera da fattorino a impiegato. Dopo aver pagato alcuni conti di casa, realizzò un guadagno netto di trentanove dollari. Con una parte dei soldi extra, acquistò delle fotografie e delle cornici. Fu la prima indicazione del proprio interesse per la fotografia. L’anno seguente, George Eastman passò a un’altra compagnia di assicurazioni, con uno stipendio di trentacinque dollari al mese. Nei due anni successivi, vide crescere lo stipendio e le responsabilità che gli erano state affidate. Non solo riusciva a dare più soldi a sua madre, per il mantenimento della casa, ma riusciva
anche a comprarsi un numero sempre maggiore di utensili. Insieme alla propria curiosità riguardo al funzionamento delle cose, George Eastman stava sviluppando una notevole abilità nei lavori manuali. Nell’aprile 1874, all’età di diciannove anni, lasciò la compagnia di assicurazioni, per lavorare come giovane contabile presso la Rochester Savings Bank. Nel giro di due anni, si ritrovò a guadagnare millequattrocento dollari l’anno (plausibilmente corrispondenti a circa quarantamila dollari attuali). Sebbene promettesse bene, una carriera nel campo assicurativo o in quello bancario non sembrava interessarlo. I suoi pensieri si perdevano in diverse direzioni. Verso il giorno del Ringraziamento del 1877, il ventitreenne George Eastman prelevò del contante dal libretto di risparmio e acquistò quasi cento dollari di materiale fotografico. Contemporaneamente, prenotò una serie di lezioni presso George H. Monroe (1851-1916), un fotografo locale. Come era logico aspettarsi, George Eastman finì con l’interessarsi più all’aspetto tecnico della fotografia che a quello artistico. Come funzionavano le attrezzature e le lastre di vetro, come si sarebbe potuto farle funzionare meglio: questo era quanto lo appassionava realmente. Sebbene la fotografia fosse cominciata solo come un hobby, non rimase tale per lungo tempo. La fotografia sarebbe diventata presto la sola passione e la vita di George Eastman. ❖
Realizzati da U.S. Camera Publishing Company, dall’ottobre 1944 all’estate 1946, i nove numeri del fumetto Camera Comics hanno sostenuto lo sforzo bellico degli Stati Uniti, impegnati sui fronti europeo e del Pacifico della Seconda guerra mondiale [ FOTOgraphia, giugno 2012]. Tra le tante vicende a fumetti raccontate in ogni fascicolo, si segnalano anche presentazioni di personaggi storici della fotografia; dal secondo numero, con partenza d’obbligo: George Eastman.
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dicembre 2017
ANCORA: QUEL RITORNO AL GRANDE FORMATO. ABC ORIGINARIO. Con contorni.
GUIDO CREPAX: VALENTINA (FOTOGRAFA CON LINHOF SUPER TECHNIKA V...
CIRCA), DA IL FALSO
KANDINSKY,
DEL
1991
La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.
Non commemoriamo la scomparsa di Hugh Hefner (Hugh Marston “Hef” Hefner), a novantuno anni, la cui vita è stata abbondantemente raccontata in Rete e dal giornalismo planetario. Soltanto, e non soprattutto, ci soffermiamo sulla sua fantastica invenzione, che ha influito sulla socialità planetaria dai secondi anni Novanta del Novecento. Epopea Playboy, in racconto cronologico, con contorno di altre tante considerazioni. Al solito... forse
E, TRA NOI, PLAYBOY
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M
ercoledì ventisette settembre, è mancato Hugh Marston “Hef” Hefner, sempre semplificato in Hugh Hefner. Aveva novantuno anni. Data la sua statura (sociale e altro), è stato ricordato e celebrato dal giornalismo di tutto il mondo: se lo è meritato. Se non che, per quanto ci interessa e riguarda, siamo qui a rilevare e rivelare che la sua biografia, proposta in tutte le commemorazioni, non ci interessa. Per niente! A questo proposito, un parallelo è ora doveroso, a testimonianza e certificazione sia della nostra affermazione (perentoria), sia della sua ispirazione a monte. Chi ci conosce, quantomeno da e per quanto appare sulle pagine di questa rivista, può aver intuito un nostro interesse (speriamo, soltanto professionale: alibi!) verso la fenomenologia di Betty Page (altrimenti e altrove Bettie Page [tra altro ancora, soprattutto in FOTOgraphia, settembre 1997, maggio 2006, novembre 2010, novembre 2011 e aprile 2013]). Ebbene, quattro anni fa, ci fu chiesto un intervento, una testimonianza (considerata autorevole, ahinoi) per
PLAYBOY, ALLE ORIGINI Ufficialmente, il numero di Playboy che è arrivato in distribuzione internazionale all’inizio del dicembre 2003, con tradizionale data di copertina allungata in avanti (gennaio 2004), è stato speciale e particolare da svariati punti di vista. L’edizione è stata celebrativa dei cinquant’anni della testata, conteggiati da quell’originario numero Uno tenuto a battesimo, come viene sempre ricordato e come stiamo per rievocare, da Marilyn Monroe: copertina e nudo a piena pagina su drappo rosso (che ri-proponemmo nella nostra copertina del luglio 2033, in anticipo di celebrazione, e che replichiamo anche oggi, a pagina 37). In questo senso, la cronaca
Nell’ambito di questa nostra rievocazione del fenomeno Playboy, in ricordo del fondatore Hugh Hefner, mancato recentemente, ci limitiamo a considerazioni, soprattutto trasversali, sulle sue celeberrime fotografie di nudo e sull’invenzione delle Playmate. A conti fatti, rivista tra le mani, la percentuale di nudo nella fogliazione è limitata e contenuta: statisticamente limitata a una presenza contenuta. La sostanza di Playboy si edifica soprattutto sulla qualità dei suoi testi, a partire dalle consistenti interviste che introducono ciascuna edizione.
Nato il 9 aprile 1926, a Chicago, Hugh Hefner, è mancato lo scorso ventisette settembre, a Los Angeles: nella Playboy Mansion (10236 Charing Cross Road, Holmby Hills), sua residenza privata e sede della rivista Playboy, da lui creata alla fine del 1953 e condotta nei decenni. Ancora, in visione storica, lo stesso Hugh Hefner, all’inizio della sua carriera editoriale, su una lussuosa Cadillac Eldorado, a Chicago, nel 1955, simbolo di successo.
PLAYBOY ENTERPRISES INTERNATIONAL INC / TASCHEN
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una biografia, in occasione dei novant’anni dalla nascita: 22 aprile 1923-2013 (Betty Page. La vita segreta della regina delle pin-up, di Lorenza Fruci [FOTOgraphia, giugno 2013]). Allora... la scrivemmo, dopo aver precisato che della vita di Betty Page / Bettie Page ce ne frega nulla: Betty Page / Bettie Page non è un personaggio, una figura reale. No! Betty Page / Bettie Page è soltanto, non soprattutto, le fotografie che ci sono arrivate (a partire da quelle di Paula Klaw). Da cui, eccoci qui in cronaca, della vita (vera!) di Hugh Hefner ci frega altrettanto niente. Invece, ciò che conta, ciò sul quale intendiamo soffermarci, è la sua fantastica ideazione/intuizione/realizzazione, nello spirito (di sempre) che osserva, sottolinea e rileva come e quanto la fotografia (e altro, ancora) influenza la nostra vita e ha influenzato sulla nostra vita. Hugh Hefner ha inventato Playboy, mensile originale, rivoluzionario e devastante... poi, è sopraggiunta la società dello spettacolo (da e con Guy Debord e Pino Bertelli / Pinocchio, in tanti nostri richiami ripetuti; in Editoriale, su questo stesso numero, da pagina sette). Dunque, in ricordo di Hugh Hefner, meritevole di ricordo, anche nostro, forse, mancato in età plausibile e accettabile, raccontiamo soltanto di Playboy, così come sappiamo farlo. O, quantomeno, crediamo di saper fare, speriamo di saper fare.
di Maurizio Rebuzzini
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Liv Lindeland, Miss gennaio 1971: il primo (timido) pelo pubico.
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GIAN PAOLO BARBIERI (3)
Nell’estate 2015, è stata rilanciata l’ennesima edizione italiana di Playboy, che segue altri precedenti tentativi effimeri. Con data di copertina luglio/agosto, si è sottolineata subito una sostanziosa indipendenza dalla testata statunitense originaria, il cui gusto per l’immaginale erotico dipende da altri segnali che non quelli trasversali alla nostra educazione e formazione. Così che, certifichiamolo a chiare lettere, la copertina è stata allineata al volume allegato Brividi d’estate. Da cui, consegue il servizio fotografico portante, firmato nientemeno che da Gian Paolo Barbieri (tante le nostre passerelle, fino al più recente rimando a Fiori della mia vita, dello scorso settembre), declinato sul sottile filo conduttore del cinema noir. Più che eccellente!
dei fatti è curiosa. Infatti, per quanto ancora oggi si consideri sostanziale e sostanziosa l’esperienza editoriale di Playboy, e si elogi spesso il luminoso cammino della testata, a volte definito perfino “solenne”, in origine ci furono poche certezze. Tanto è vero che il leggendario numero Uno avrebbe anche potuto non avere seguito, e rimanere solo e tale: Uno e basta. Playboy portò fortuna a Marilyn, ma -certamenteMarilyn ne portò di più a Playboy. Non fosse stato per lei, affascinante nudo d’altri tempi (in momenti nei quali, tanto per dire, alla radio italiana non si poteva usare il termine “amante”), il sogno di Hugh Hefner, giovane e intraprendente editore, coetaneo dell’attrice (entrambi ventisettenni), si sarebbe concluso con quel primo/unico numero di una nuova rivista, appunto Playboy, mandato in distribuzione privo di data di copertina, in modo da poter recuperare gli eventuali (e previsti) invenduti, da riciclare altrimenti. A favore delle vendite, la differenza la fece il famoso nudo di Marilyn Monroe, del quale negli Stati Uniti molti parlavano, ma che -causa le limitazioni legali alla distribuzione postale- non aveva ancora avuto diffusione reale: assicurarselo fu un autentico colpo di fortuna.
Con il senno di poi, e nonostante i timori dell’ideatore Hugh Hefner, che -per l’appunto- non datò quel fascicolo, ipotizzandone anche un clamoroso fallimento, possiamo affermare che quel nudo garantì lo squillante successo della neonata rivista. Il numero Uno vendette più di cinquantamila copie a cinquanta centesimi l’una: quegli originari venticinquemila dollari costituirono la base (economica) per la fondazione di un impero, non soltanto editoriale, la sfaccettata e molteplice Playboy Enterprises.
FANTASTICA MARILYN Guardandoci indietro, magari sollecitati a farlo dalla commemorazione della scomparsa di Hugh Hefner, e soprattutto alla luce delle nostre considerazioni (solite) circa le fenomenologie dirette e trasversali dell’immagine, sono obbligatorie e spontanee alcune considerazioni. Alla propria fortunata partenza, con il nudo di Marilyn Monroe, la testata sconvolse il comune senso del pudore. Lo ripetiamo: quei primi anni Cinquanta manifestavano una socialità della vita e dei rapporti interpersonali che oggi non sono facilmente comprensibili ai più, né richiamabili in modo credibile.
TOM KELLEY
Il primo numero di Playboy fu pubblicato nel dicembre 1953, senza data di copertina; così, se non avesse ottenuto riscontri, avrebbe potuto essere commercializzato ancora avanti nel tempo. Celeberrimo e leggendario è il nudo su drappo rosso, di Tom Kelley (riproposto in alto, a destra), pubblicato nel servizio di tre pagine... La fidanzata del mese.
Comunque sia, è doveroso inquadrare la dimensione moderna e attuale del fenomeno di Playboy all’interno del contesto sociale che a nostro modo di vedere l’ha favorito. Per questo, scartiamo un poco a lato, rilevando termini di un’epoca nella quale ciò che la rivista ha rappresentato (lo scandalo e la licenziosità, soprattutto) ha fatto parte di un più generale clima di speranze e allegria. All’indomani del buio di un devastante conflitto mondiale, il dopoguerra portò con sé uno stile di vita e una narrativa positivi. Lo stato d’animo era ottimista; le automobili, i primi elettrodomestici per la casa e perfino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione della guerra, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo, la visione di una esistenza solida e tranquilla si concretizzò nelle menti di tutti: ogni ipotesi e ogni conclusione parevano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. Ora, noi non approdiamo ancora al sesso e contorni, materia principale di Playboy (che, tra l’altro, ha aperto la strada a un’editoria che si è allargata in lungo e largo), ma sorvoliamo ancora alti, per definire l’atmosfera sociale degli anni Cinquanta. Tanto per dire, in un romanzo di Georges Simenon, scritto nel 1951,
A favore delle vendite del primo numero di Playboy, alla fine del 1953, la differenza la fece il famoso nudo di Marilyn Monroe (scattato da Tom Kelley, ufficialmente intitolato Sogni d’oro), del quale negli Stati Uniti molti parlavano, ma che -causa le limitazioni legali alla distribuzione postalenon aveva ancora avuto diffusione reale.
si racconta del commissario Maigret che, in una calda sera d’agosto, cena davanti alla finestra aperta, per godere di un poco di fresco. Guardando verso i palazzi di fronte, riconosce “il bianco delle camice di mariti che, mettendosi a tavola, si sono tolti la giacca”. E poi, ancora e ancora e ancora, quei giovani e temerari anni Cinquanta avevano nulla di tutto ciò che ci circonda al giorno d’oggi. Quindi, nello specifico dell’argomento odierno, in celebrazione e commemorazione di Hugh Hefner, annotiamo come più di chiunque altro nel nostro tempo, Marilyn Monroe abbia reso la nudità socialmente accettabile. Tanto che, a seguire, altre Playmate e altre (tante) attrici hanno additato in quelle sue pose antesignane la ragione che le avrebbe spinte ad apparire, a propria volta, nude su Playboy : per alcune, questo fu un modo per rendere immortale la propria bellezza sulle pagine della rivista; per altre, una strada maestra (una scorciatoia?) verso una vivace e redditizia celebrità. In ogni modo, la popolarità di Marilyn incoraggiò un buon numero di imitatrici biondo platino, e -soprattutto- tracciò le indelebili linee di una personalità ancora oggi imitata, ancora oggi viva e palpitante. Tanto è vero
Janet Pilgrim, Miss luglio e dicembre 1955 e ottobre 1956.
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Miss agosto 1995: Rachel Jeán Marteen, che successivamente ha seguìto una luminosa carriera di modella. Per quanto ci fa piacere, registriamo la presenza di una Deardorff 8x10 in legno e un apprezzato trompe-l’œil. Rachel Jeán Marteen tiene in mano un polaroid 8x10 pollici della medesima posa, che -a propria voltacontiene un altro polaroid 8x10 pollici, che -a propria volta- contiene un altro polaroid 8x10 pollici, che -a propria volta-...
Jennifer Jackson, Miss marzo 1965: prima Playmate afroamericana (anche se sulla gradazione dell’incarnato potremmo discutere per anni). Attenzione, il primo pelo pubico/pubblico sarebbe arrivato nel gennaio 1971 [a pagina 36].
che, come abbiamo annotato in precedenti considerazioni sul Mito, lo stereotipo di Marilyn è il più concreto nel particolare mondo dell’erotismo visivo, e non soltanto in questo. Addirittura, come abbiamo avuto modo di rilevare tanto e tanto tempo fa (in FOTOgraphia del dicembre 1999, numero speciale di fine/inizio millennio), Heather Kozar, Playmate dell’anno 1999, appunto l’ultima del Novecento [a pagina 42], ha conquistato i favori del pubblico presentandosi come versione anni Novanta (dello stesso Novecento) di Marilyn Monroe. Circa. Però, attenzione, c’è stata e sempre ci sarà una sola e unica Marilyn Monroe.
PRIMO NUDO
(centro pagina) Ellen Stratton, Miss dicembre 1959: prima Playmate dell’anno (ovviamente, 1960).
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Per certi versi, e per una curiosa combinazione di coincidenze (che a volte sono i soli accadimenti che rivelano che la vita abbia senso, possa avere senso), alcune date di Marilyn Monroe sono transitate parallele a quelle di Hugh Hefner, il fortunato editore di Playboy, che è diventato plurimiliardario grazie alla testata e alle sue consecuzioni (riunite nella Playboy Enterprises). Entrambi sono nati nel 1926 (e Marilyn sarebbe morta nell’agosto 1962: 26-62, curiosa inversione di cifre): lui a Chicago
e lei a Los Angeles. Di origine tanto diversa, avevano un sogno comune: le sfavillanti luci di Hollywood. Nel 1946, la Twentieth Century Fox fece firmare a Marilyn un contratto annuale per centoventicinque dollari la settimana; lo stesso anno, Hefner venne congedato dall’esercito ed entrò in un college dell’Università dell’Illinois. Qui, in una domenica pomeriggio, vide il film che segnò il debutto cinematografico di Marilyn Monroe, Scudda-Hoo! Scudda-Hay!, di F. Hugh Herbert (che la critica ha finito bene per dimenticare). In seguito, con le piccole parti in Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle, di John Huston, del 1950) e Eva contro Eva (All About Eve, di Joseph L. Mankiewicz, dello stesso 1950), la carriera di Marilyn cominciò a decollare, così come continuò a crescere l’ammirazione di Hugh Hefner. Oltre le interpretazioni cinematografiche, la fama di Marilyn Monroe fu allora alimentata dalla notizia che avrebbe posato nuda per un calendario. A quel punto, i pezzi del mosaico cominciarono a comporsi, e -nel 1953-, quando Marilyn apparve in Niagara (di Henry Hathaway), Hugh Hefner convogliò la propria personale ammirazione per l’attrice nel costituente progetto di una rivista illustrata con fotografie di nudo femminile.
Dorothy Stratten, Miss agosto 1979 e, successivamente, Playmate dell’anno 1980: il 13 agosto 1980, fu uccisa dal marito geloso. La vicenda è raccontata dal film Star 80, di Bob Fosse, del 1983.
Comprò i diritti sui nudi di Marilyn da John Baumgarth, di Melrose Park, in Illinois: per cinquecento dollari, ottenne anche i negativi a colori. Oggi, possiamo affermare che si trattò certamente di uno dei migliori investimenti di tutta la storia dell’editoria. Forse. La famosa fotografia del calendario, scattata dal fotografo specializzato in pin-up Tom Kelley (1914-1984), era intitolata Sogni d’oro [a pagina 37]. Un titolo perfetto; Hefner stesso scrisse il testo che avrebbe accompagnato il servizio di tre pagine per La fidanzata del mese (di Playboy), che nella propria (prima) copertina presentò una Marilyn sorridente, che saluta con il braccio alzato (fotografia acquistata dalla Globe Photos e ritoccata dal direttore artistico Arthur Paul, per adattarsi meglio all’impaginato [ancora, a pagina 37 e sulla copertina di questo stesso numero]). Da qui, ribadiamo grazie a Marilyn Monroe, Playboy cominciò la propria precipitosa e fortunata storia editoriale.
PLAYMATE Dopo quel primo numero originario, senza data, dal gennaio 1954, ogni fascicolo di Playboy ha regolarmente celebrato una propria Miss al mese. Anche se
la testata vanta di aver coinvolto nei propri testi, nelle proprie inchieste, nelle proprie interviste e nei racconti pubblicati il meglio del giornalismo internazionale e una identificata alta classe di scrittori di fama (alcuni dei quali portati al successo proprio da Playboy ), non possiamo certo annoverare la testata tra le riviste letterarie. Nonostante un certo alto livello degli scritti, Playboy è soprattutto legata ai propri nudi, pubblicati sempre in abbondante quantità su ogni numero: oltre la Miss, non mancano mai ulteriori servizi di contorno. Però alla storia, quantomeno del costume, passano soltanto -non già soprattutto- le Miss mensili, che dal marzo 1956 vengono ingrandite sul paginone centrale triplo (in gergo centerfold ). Tra le dodici che si alternano dal numero di gennaio a quello di dicembre, successivamente, si sceglie la Playmate dell’anno, che solitamente mette a frutto questa ulteriore consacrazione per proporsi nel mondo dello spettacolo. Tutte le pubblicazioni sono retribuite, e nel corso dei decenni le tariffe sono -ovviamente- slittate in avanti: dai cinquecento dollari degli anni Cinquanta, si è raddoppiato a mille dollari nei primi cinque anni dei Sessanta e si è passati a duemilacinquecento dol-
Missy Cleveland, Miss aprile 1979: Playmate nata il venticinque dicembre, giorno di Natale.
(centro pagina) Monica Tidwell, nata il 14 gennaio 1954, Miss novembre 1973: la prima Playmate più giovane di Playboy.
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Margie Harrison, Miss gennaio 1954: prima Playmate in assoluto (nel dicembre 1953, Marilyn Monroe fu La fidanzata del mese).
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Nel giugno 1958, Playboy lanciò dalla copertina un proprio servizio interno, immediatamente anticipatore le pagine della Playmate, alla quale si è riferito, dedicato a Come si fotografano in proprio le Playmate (in libera traduzione). Dieci pagine di consigli tecnici e osservazioni di rito, con richiami fotografici espliciti, ovviamente riferiti alla tecnologia del tempo: con visualizzazioni Nikon a telemetro, Alpa e Exakta... ammesso e non concesso che gli ultimi due appelli possano significare qualcosa per coloro i quali vivono l’attualità della fotografia, nel proprio presente-futuribile.
lari nei secondi anni Sessanta; e poi, ancora, a tremila dollari fino al 1977 e a cinquemila dollari fino al 1983; nella seconda metà degli anni Ottanta, si è arrivati a diecimila dollari, e a quindicimila dollari nei primi Novanta. Attualmente, le Playmate sono compensate da venti a venticinquemila dollari; per il numero celebrativo dei cinquant’anni, Miss gennaio 2004, Colleen Shannon, ha ricevuto cinquantamila dollari. Anche i compensi delle acclamate Playmate dell’anno sono andati crescendo, e ora percepiscono almeno centomila dollari, più altri bonus di sostanza, tra i quali un’automobile di prestigio. Statisticamente, è stato calcolato che le misure medie delle Playmate sono 92-58-89 centimetri, prossime a quell’assoluto di bellezza che è stato quantificato nel tondo 90-60-90 centimetri. Di età media di ventidue anni, il quarantadue percento delle Playmate sono state bionde, il quarantuno percento con gli occhi azzurri e il ventiquattro percento bionde con gli occhi azzurri. Tutte le altre statistiche, relative ai segni zodiacali o al ripetersi di risposte uguali nelle rispettive schede di presentazione (pubblicate dal luglio 1977), appartengono a un costume che ci è
estraneo. La fotografia delle Playmate, che riguarda il nostro punto di vista, ha affinità soprattutto con i valori esteriori appena ricordati.
UN POCO DI COLORE La storia delle Playmate è ricca di aneddoti, alcuni probabilmente autentici, altri certamente inventati di sana pianta, tanto per aggiungere sapore e colore alla leggenda. Tra i tanti aneddoti, ci piace sempre ricordare quello di Elisa Bridges, Miss dicembre 1994: quando ha rivelato al proprio fratello che sarebbe stata una Playmate, lui, sconsolato, avrebbe affermato che «Finalmente si avvera il mio sogno di incontrare una Playmate, e chi è? Mia sorella!». Oppure, apprezziamo le citazioni di Playboy nel cinema: per dire, pensiamo alla sequenza di Animal House (di John Landis, del 1978), nella quale -durante la tormentata parata di fine anno scolastico- una coniglietta vola nella stanza di un ragazzino, che sta ammirando un paginone centrale (centerfold ); gli finisce in grembo e lui, rivolgendo gli occhi al cielo, esclama un clamoroso «Grazie, Dio!». Per il numero speciale dei cinquant’anni, ricordato in incipit, il pubblico è stato chiamato in causa: ecco
Pubblicata nel 2013, in celebrazione del sessantesimo dalla nascita del mensile Playboy, la sontuosa antologia in sei corposi volumi (riuniti in cofanetto) Hugh Hefner’s Playboy celebra l’epopea della celebre rivista meglio e più approfonditamente (con la forza di sei volumi!) di ogni altra rievocazione bibliografica: e tanti sono i titoli a disposizione... basta una semplice ricerca in Rete. Compilato con attiva partecipazione del leggendario creatore, dopo la sua originaria edizione limitata (da 1200,00 euro), questo zibaldone è da tempo disponibile a un prezzo sostanziosamente abbordabile: 99,99 euro (cento!), da dividere per i sei corposi tomi. Si può fare. Oltre la cronaca della rivista, viene scandita anche la vita privata di Hugh Hefner -dalla giovinezza passata a disegnare fumetti allo stupefacente successo di Playboy-, meglio e più approfonditamente di quanto è stato recentemente compilato, in annuncio giornalistico di scomparsa. Da cui: selezione dei più piccanti centerfold, articoli di arte, design, architettura, interviste e interventi firmati da icone della letteratura contemporanea, del calibro di Gore Vidal, Norman Mailer, Ian Fleming e Ray Bradbury. Il liberalismo e il dibattito sui diritti civili pubblicati sulle pagine della rivista non possono che essere definiti avanguardistici, in un’epoca nella quale la sola idea di un presidente afroamericano era a dir poco fantascientifica; e così, tanti altri valori conquistati in queste decadi. Ancora: un gran numero di oggetti effimeri dagli archivi personali di Hugh Hefner mostra opere d’arte originali, fumetti, corrispondenza personale e un lungo testo autobiografico sulla sua giovinezza, il servizio militare, un inizio di carriera come disegnatore di fumetti, le tante fidanzate (troppe?) e poi il successo con Playboy.
un’altra di quelle “particolarità” alle quali abbiamo accennato in apertura; e altre tante furono annunciate. Perfino, si parlò di mettere in vendita -abbinata?- una opinabile bambola a grandezza naturale con l’effigie di Marilyn, in tiratura limitata di cinquemila esemplari: non se ne è fatto nulla. Tramite la connessione al sito internet www.playboy.com, il pubblico ha, comunque, votato la propria Playmate preferita. Le segnalazioni hanno dato vita a una sorta di classifica divisa per decadi. Ovviamente, dall’alto della propria immortalità, Marilyn è stata esclusa dalla gara; personalmente, per gli anni Cinquanta non avremmo avuto dubbi: Betty Page / Bettie Page (ancora e sempre lei, Miss gennaio 1955 in costume da Babbo Natale [FOTOgraphia, febbraio 2015, in commemorazione della scomparsa della fotografa Bunny Yeager]. Poi, ci sarebbero piaciute annotazioni e segnalazioni trasversali. Così non è stato; dunque, in questa occasione, ne ricordiamo qualcuna... in un casellario che eleva la casualità a protocollo. Tish Howard, Miss luglio 1966, è l’unica Playmate nata il quattro luglio, festa statunitense dell’Indipendenza; e Missy Cleveland, Miss aprile 1979, è nata il
venticinque dicembre, giorno di Natale [a pagina 39]. Carol Eden è stata Miss dicembre 1960 e sua figlia Simone Fleurice l’ha seguita quasi trent’anni dopo, Miss febbraio 1989: è l’unico caso di Playmate madre e figlia [a pagina 42]. Invece, nei decenni, non sono mancate le sorelle. A distanza, Janice e Ann Pennington sono state, rispettivamente, Miss maggio 1971 e Miss marzo 1976 [a pagina 42]. Insieme, sono state Playmate le gemelle Mary e Madeleine Collinson (diciottenni, prime gemelle in assoluto, ottobre 1970 [a pagina 42]), Karin e Mirjam van Breeschooten (diciottenni da Rotterdam, settembre 1989 [ancora, a pagina 42]), Erica, Jaclyn e Nicole Dahm (The Dahm Triplet, dicembre 1998) e Darlene e Carol Bernaola (gennaio 2000). A margine, segnaliamo anche le cugine Elaine e Karen Morton, Miss giugno 1970 e Miss luglio 1978.
LA PRIMA VOLTA Per quanto riguarda la successione di “primati”, annotiamo che Margie Harrison, Miss gennaio 1954, è stata la prima a essere identificata come Playmate [pagina accanto]; infatti, sul numero precedente, il primo in assoluto, Marilyn Monroe fu presentata come La fidanzata
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Hugh Hefner’s Playboy. Taschen Verlag, 2013 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); sei volumi in cofanetto, con venticinque foldout; 1910 pagine totali 17,7x24,8cm; 99,99 euro.
Nell’agosto 1994, uno dei servizi di nudo, complementari a quello centrale della Miss del mese, ha presentato Carol Shaya, agente dell’NYPD (New York Police Department, come abbiamo imparato a conoscere dalle serie televisive [LAPD / Los Angeles Police Department - LVMPD / Las Vegas Metropolitan Police Department - SFPD / San Francisco Police Department]). A seguito di quei nudi, Carol Shaya ha perso il lavoro, perché -nel servizioappare anche nella propria divisa d’ordinanza.
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Carol Eden, Miss dicembre 1960: ventotto anni dopo, sua figlia Simone Fleurice è stata Miss febbraio 1989.
(a destra, centro pagina) Ann Pennington, Miss marzo 1976: sua sorella Janice era stata Miss maggio 1971.
(centro pagina) Proveniente dall’Ohio, l’avvenente ventitreenne Heather Kozar, Miss gennaio 1998, è stata presentata e si è proposta autonomamente come la versione anni Novanta di Marilyn Monroe: quindi, nel giugno 1999, è stata l’ultima Playmate del Secolo.
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Mary e Madeleine Collinson, Miss(es) ottobre 1970: le prime Playmate gemelle. Altre arrivarono negli anni successivi: per esempio, Karin e Mirjam van Breeschooten, nel settembre 1989.
del mese. Il primo paginone centrale triplo (centerfold ) fu pubblicato nel marzo 1956, con Mirian Stafford. Il primo pelo pubico fu quello di Liv Lindeland, Miss gennaio 1971 e Playmate dell’anno 1972 [a pagina 36]. La prima Playmate dell’anno venne eletta nel 1960: Ellen Stratton, Miss dicembre 1959 [a pagina 38]. Ancora altri primati delle Playmate: prima canadese Pamela Anne Gordon, Miss marzo 1962; prima asiatica China Lee, Miss agosto 1964 (fotografata da Pompeo Posar, leggendario autore nato a Trieste; 1921-2004); prima afroamericana Jennifer Jackson, Miss marzo 1965 [a pagina 38]; prima Phi Beta Kappa (potente confederazione universitaria) Alice Denham, Miss luglio 1956; prima più giovane di Playboy Monica Tidwell, Miss novembre 1973 [a pagina 39]. A seguire, rimaniamo nel costume con una sequenza di altre segnalazioni: Janet Pilgrim è stata tre volte Playmate, nel luglio e dicembre 1955 e nell’ottobre 1956 [a pagina 37]; Jayne Mansfield è stata Playmate un mese dopo Betty Page / Bettie Page, Miss febbraio 1955; Pamela Anderson è stata Miss febbraio 1990 e ha avuto sei copertine di Playboy ; Kimberley Conrad è la sola Playmate che può vantare il titolo di Playmate
per la vita: dopo essere stata Miss gennaio 1988 e Playmate dell’anno 1989, il Primo luglio 1989 ha sposato l’editore Hugh Hefner (quindi è riapparsa su Playboy nel settembre 1995, in un servizio fotografico realizzato dopo la maternità, con testo di accompagnamento del romanziere Pat Booth); Erika Eleniak, Miss luglio 1989, è approdata al cast del televisivo Baywatch, che -a partire da Pamela Anderson- ha sempre fatto man bassa di Playmate; Eve Meyer, Miss giugno 1955, è stata pubblicata in un servizio firmato dal marito, il fotografo e regista Russ Meyer. Tra tanto costume, e molta allegria, bisogna -però- registrare anche una drammatica nota di cronaca nera. Dorothy Stratten fu una sfortunata Playmate dell’anno 1980, già Miss agosto 1979: venne uccisa dal marito, geloso del regista Peter Bogdanovich, con il quale Dorothy voleva andare a vivere [a pagina 39]. Oltre a un tributo sulla rivista, nel maggio 1981, la vicenda ha ispirato un film TV con Jamie Lee Curtis, il film Star 80, di Bob Fosse, del 1983, con Mariel Hemingway nella parte di Dorothy, e un documentario commissionato dall’editore di Playboy Hugh Hefner. Appena mancato. ❖
Tante le Nikon presenti in sceneggiature e scenografie cinematografiche. Spesso, in ruolo primario; a volte, in complemento. In ogni caso, è sempre Nikon quando ci si allinea al professionismo fotografico. Molte le partecipazioni Nikon F (magari, anche perché il nostro cuore antico là ci invita), e poi si spazia in lungo e largo, senza alcuna soluzione di continuità
NIKON AL CINEMA Nikon F assolute e inviolabili, fino a essere considerabili icone della presenza al cinema: dal solito Blow-Up, di Michelangelo Antonioni, del 1966 (speriamo in ultima citazione su queste pagine), a I ponti di Madison County, di e con Clint Eastwood, del 1995 (nel quale si ipotizza il fotogiornalismo di Robert Kincaid, inviato di National Geographic ).
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di Angelo Galantini
A
ncora centenario Nikon 1917-2017. Da una parte, c’è la storia Nikon, segnata e tratteggiata da una identificata serie di consecuzioni ufficiali, stabilite da date certe (per certi versi, riassunte lo scorso settembre). Dall’altra, il concreto e fattivo contributo che Nikon ha dato alla storia espressiva della fotografia, che assegna propri capitoli fondamentali e discriminanti al fotogiornalismo che si è distribuito sui decenni, a partire dai Sessanta (almeno), e che ha vissuto un proprio momento (tragicamente) epocale con la guerra del Vietnam: tra l’altro, efficacemente rievocata in una identificata serie di
film, tra le cui sceneggiature e scenografie fa appunto capolino sempre l’immancabile Nikon F, nella propria versione semplice, come anche nella configurazione dotata di pentaprisma esposimetrico Photomic. Proprio dal cinema, e al cinema, Nikon ha tratto straordinario beneficio, con relativa proiezione nel costume e socialità internazionali. Il riferimento d’obbligo è per Blow-Up, di Michelangelo Antonioni (Italia e Gran Bretagna, 1966) -film già evocato in tante occasioni, su queste stesse pagine, per il suo sostanzioso tasso fotografico-, del quale la Nikon F è in qualche misura coprotagonista, tra le mani del fotografo Thomas (l’attore David Hemmings), a tutti gli effetti protagonista della vicenda, narrata attorno le sue azioni e a partire da queste.
Per una generazione, come anche per generazioni successive, è stata una autentica folgorazione. Avvolti dal racconto cinematografico, siamo stati anche ammaliati dalla presenza continua e costante di quella Nikon F (accompagnata da Hasselblad 500C, coeva), che abbiamo osservato con intrepida commozione e partecipazione. Il resto, sarebbe arrivato dopo. Quindi, se bisogna individuare e sottolineare una data in qualche modo e misura discriminante della presenza Nikon in sceneggiature e/o scenografie fotografiche, dobbiamo giocoforza richiamarci a BlowUp, che ha affascinato milioni di spettatori in tutto il mondo. Però, diamine, alla metà degli anni Sessanta, la Nikon F fluttuava già nell’aria. Tanto è vero che, segnalazione da un punto di vista meno universale di quello cinematografico, possiamo riferirci anche al mondo del fumetto d’autore... con una vicenda curiosamente coincidente, nei modi e nei concetti.
UN PRECEDENTE Nei panni di Neutron, fantasioso investigatore con poteri sovrannaturali, il critico d’arte Philip Rembrandt utilizza una Novak N, che altro non è che una Nikon F Photomic. Il fumetto è di Guido Crepax, mancato l’estate 2003 [FOTOgraphia, settembre 2003 e luglio 2015, nel cinquantenario del personaggio]: Ciao Valentina!, apparso per la prima volta in LinusGiallo, dell’ottobre 1966, e ripubblicato in numerose antologie. Oltre l’attenzione che qui richiamiamo su Nikon F / Novak N, come appena anticipato, va sottolineato che questo fumetto ha uno straordinario collegamento con il cinematografico Blow-Up, al quale è cronologicamente anteriore: anche qui, dettagli casualmente e involontariamente inclusi nel secondo piano di fotografie di moda rivelano (svelano?) un omicidio. Ancora, estraniandoci per un istante dal percorso principale Nikon, non possiamo non ricordare che, in origine, l’autore Guido Crepax aveva intenzione
di sceneggiare e disegnare proprio le avventure di Neutron, che esordì nel maggio 1965, sul secondo numero di Linus, con La curva di Lesmo. La fotografa Valentina Rosselli compare nella terza puntata, a pagina settantatré del numero quattro di Linus, del luglio 1965. Qui comprimaria, diventa presto protagonista, anche se le prime cinque avventure, fino a La discesa (in ProvoLinus, del febbraio 1967), continuarono a essere attribuite a Neutron. Lo sappiamo tutti, Valentina è fotografa. Soprattutto usa la biottica Polly Max, oppure la reale Rolleiflex. Perché? In una intervista rilasciata nell’estate 1989, pubblicata in PRO, del settembre 1989, e ripresa in FOTOgraphia, del settembre 2003, in commemorazione alla scomparsa, Guido Crepax motivò la scelta della macchina fotografica biottica: «Era la più bella da disegnare, tutto lì. Aveva belle forme e poi era bella da tenere tra le mani; se si potesse dirlo, era fotogenica. Poi, mi piaceva anche perché lasciava libero il viso, mentre altre macchine fotografiche si debbono portare all’altezza dell’occhio. La Polly Max era congeniale alle esigenze del disegno».
Il film Gorilla nella nebbia, di Michael Apted, del 1988, è trasposizione dell’omonimo libro dell’etologa statunitense Dian Fossey (qui sopra), studiosa dei gorilla, assassinata in Ruanda per la sua protezione dell’ambiente naturale degli stessi gorilla. L’attrice Sigourney Weaver replica l’uso di Nikon F.
ANCORA BLOW-UP (POI, BASTA!) Tornando a Blow-Up, occorre ribadire ancora quanto abbiamo già considerato in altre occasioni precedenti. Ovvero, si deve sottolineare che si tratta di una sceneggiatura discriminante nel percorso della rappresentazione della fotografia e del fotografo al cinema, argomento che abbiamo particolarmente caro e approfondito nei decenni, scrivendone parecchio, riferendone in conferenze a tema e allestendo persino mostre di riferimento (sopra tutte, Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri e Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, entrambe curate a quattro mani da Maurizio e Filippo Rebuzzini, la cui passione per il cinema è sicuramente più concreta di ogni altra [FOTOgraphia, dicembre 2006, maggio 2007 e novembre 2008]).
In Ciao Valentina!, del 1966, Neutron, fantasioso investigatore con poteri sovrannaturali, utilizza una Novak N... Nikon F Photomic. Fumetto di Guido Crepax, che avviò la propria serie dedicandola -appuntoa Neutron, cui subentrò presto Valentina, di professione fotografa.
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Nikon F2 e Nikon F in guerra: Nick Nolte in Sotto tiro (1979) e John Malkovich in Urla del silenzio (1984).
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Per quanto fondamentale nella storia Nikon, come appena rilevato, ed è per questo che indugiamo ancora, Blow-Up rappresenta uno spartiacque, sia della più generale vicenda cinematografica della fotografia, sia della raffigurazione del proprio mondo e dei propri personaggi: c’è un prima e c’è il dopo. All’indomani del film di Michelangelo Antonioni, in un tempo di sommovimenti, ma di inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale. In definitiva, Blow-Up innescò una triviale escalation. All’alba del 1966, per la prima volta, il fotografo diventa il protagonista liberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene anche al pubblico... interprete di una angoscia da mass-media. Ispirata al racconto Le bave del diavolo, di Julio Cortázar (nella raccolta di racconti Le armi segrete; Einaudi, 2008), sceneggiato dal regista con Tonino Guerra e Edward Bond, per quanto riguarda i dialoghi in inglese, la vicenda del fotografo di moda londinese che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «è una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti: Dizionario dei film; Baldini & Castoldi). Rivista oggi, e francamente, questa testimonianza sull’angoscia esistenziale contemporanea ha perso un poco della propria sottigliezza originaria e ha smarrito per strada pure la persuasione dei primi giorni di proiezione. Anche se il film è considerato un capolavoro della cinematografia italiana, le schematizzazioni narrative sono precocemente appassite. Però, ai propri tempi, Blow-Up ottenne un grande successo, soprattutto relativamente ai contenuti più facili: nel clima della swinging London, il fascino del presunto giovane fotografo di moda con Nikon F, circondato da incantevoli modelle, avvicinato da donne affascinanti e disinibite, in perenne movimento, al volante di una Rolls-Royce cabriolet. A conseguenza, Blow-Up va considerato discriminante anche per la semplificazione scenica, che ha finito per influenzare tanto brutto cinema. Dunque, alla sua rappresentazione va addebitata la linea divisoria tra una visione cinematografica della fotografia precedente e una seguente. In particolare, le va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia vizioso, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi. Tutto questo tanto dilungarsi su Blow-Up non è senza scopo. A nostro modo di vedere, è sintomatico che i valori e le competenze che gli abbiamo appena assegnato si accompagnino, nella sceneggiatura e scenografia, con la Nikon F. La combinazione non è affatto casuale, e rappresenta uno degli elementi complementari che segnano il Tempo e il proprio scorrere (non scorrere invano). Per quanto
Nikon abbia sostanziosi debiti di riconoscenza con il film, dopo il quale si registrarono anche consistenti impennate di vendita (altro discorso, che va tenuto in proprio conto), alla stessa Nikon dobbiamo attribuire il merito di aver visualizzato con efficacia uno spirito e un clima. Come per un attore che interpreta bene il personaggio assegnato, tanto che non riusciamo a immaginarci altri nella stessa parte, Nikon ha rappresentato la Fotografia (maiuscola non casuale) come meglio non si sarebbe potuto fare. Dunque, in Blow-Up c’è Nikon: non ci sarebbe potuta essere nessuna altra macchina fotografica. Così che, l’annotazione sociale e di costume è presto ribadita. Con fantastica personalità, nei momenti in cui questo era concesso, Nikon ha rappresentato non tanto se stessa -come pure ha fatto-, ma la Fotografia nel proprio insieme. In precedenza, ci sono stati altri esempi -non possiamo ignorare le personalità di Rolleiflex e Leica-, ma nulla e nessuno è stato altrettanto fondamentale e sostanziale, definito dal carisma dell’autentica Leggenda, del Mito.
OLTRE LA NIKON F Nikon F, diciamo sempre, ma non tutti potevano permettersela; così, per rimanere accanto al Mito, molti comperavano e usavano la Nikkormat (noi, tra i tanti). Non era a sistema, non vantava le intercambiabilità della reflex di vertice, ma era una trentacinque millimetri di invidiabile efficacia. Solo che... non era la Nikon F, e dunque -spesso- la si viveva come ripiego, privandola così di una propria dignità e personalità. Giustizia cinematografica le sarebbe stata fatta decenni dopo, in tempi a noi vicini. In Ospite d’inverno (The Winter Guest ), film inglese del 1997, diretto da Alan Rickman, la protagonista Frances (Emma Thompson) usa proprio una Nikkormat, riflettendo sulla quale sottolinea che «Vede quello che dico io. Di volta in volta, scopre l’animo delle persone, vede quello che hanno dentro, se si lasciano andare. [...] Se sono fortunata, mi mostrerà anche i loro segreti, li porterà allo scoperto, uno ad uno». Certo, non solo la Nikkormat è tale, ma la citazione si riconduce a una Nikkormat, e così la registriamo. Allo stesso tempo, alleggerendo i toni, ricordiamo che è ancora Nikkormat per il confusionario neolaureato ingegner Colombo (interpretato da Maurizio Nichetti, qui alla sua prima regia) di Ratataplan, del 1979. A seguire, dopo che dal 1977 tutte le reflex sono diventate “Nikon”, a partire dalla FM (e EL2), il cinema sollecita due citazioni, sopra tutte, separate nel tempo, spazio e contenuto. Nikon FE e/o FM di generazione non identificata in Gli occhi di Laura Mars (Eyes of Laura Mars, di Irvin Kershner; Usa, 1978 [FOTOgraphia, settembre 2015]), usata dalla protagonista, interpretata da Faye Dunaway, fotografa di moda che si scopre chiaroveggente (dall’occhio fotografico a quello che penetra l’inconscio) e collabora con la polizia nell’individuazione di un feroce assassino. Ancora, lo stesso per l’agente della Cia Tom Bishop (Brad Pitt), che agisce nella guerra civile in Libano, nascondendosi dietro la facciata di
fotoreporter inviato: Spy Game, di Tony Scott (Usa e Gran Bretagna, 2001 [FOTOgraphia, maggio 2012]). Allo stesso momento, riprendendo il filo della constatazione secondo la quale «il richiamo e riferimento Nikon è presto emigrato dal solo ambito specialistico, per abbracciare tutto il pubblico della fotografia», non possiamo ignorare, né sottovalutare, il modo nel quale il marchio è universalmente considerato. Tanto che è uno dei collegamenti marchioprodotto più affermato: Nikon uguale Fotografia. Ancora dal cinema: in Toccato! (Gotcha!, di Jeff Kanew; Usa, 1985), al ragazzo che gli chiede in prestito la macchina fotografica, il padre risponde testuale: «Non è una macchina fotografica... è una Nikon!».
ALLORA... AL (TANTO) CINEMA A questo punto, e in classificazione più ragionata rispetto i richiami fin qui distribuiti, è giocoforza riferirsi alla presenza di Nikon nel cinema, nel cui ambito ribadiamo il ruolo protagonista in Blow-Up, con il quale abbiamo esordito e sul quale ci siamo già soffermati a lungo. In Nicaragua, nel 1979, Russell Price, reporter da prima linea nei giorni più caldi della rivoluzione sandinista (visualizzato da un convincente Nick Nolte), non abbandona mai una fascinosa reflex Nikon F2 nera, completa di motore per l’avanzamento rapido della pellicola dopo lo scatto. Siamo in Sotto tiro (Under Fire, di Roger Spottiswoode; Usa, 1983), film di guerriglia che fa gruppo/genere omogeneo con Salvador (di Oliver Stone; Usa, 1986), Urla del silenzio (The Killing Fields, di Roland Joffé; Gran Bretagna, 1984) e Un anno vissuto pericolosamente (The Year of Living Dangerously, di Peter Weir; Australia, 1982), rispettivamente am-
bientati tra le pieghe della guerra civile centro americana (1980), nella Cambogia dei Khmer rossi (1975) e nell’Indonesia di Sukarno (1965). Il dominio Nikon, incontrastata reflex delle guerre che hanno insanguinato il mondo nei decenni scorsi, e di quelle che ancora perdurano (quando e dove è stata affiancata anche da altri apparecchi), è cinematograficamente sottolineato in tutti questi film, le cui scenografie sono fedeli alle realtà narrate, quantomeno dal punto di vista fotografico (sul resto, non abbiamo competenza per esprimerci). Dunque, reflex Nikon nere per il reporter Alan “Al” Rockoff di Urla del silenzio (l’attore John Malkovich), dove si segnala anche la Nikon F cromata di Sydney Schanberg (l’attore Sam Waterston). Nikon F anche per il fotografo cinese nano Billy Kwan (interpretato da una attrice donna, Linda Hunt), che accompagna il giornalista australiano Guy Hamilton (Mel Gibson) in Un anno vissuto pericolosamente, che, tra l’altro, mette perfettamente in scena la coerente combinazione giornalistica di parole e immagini. Ancora Nikon e Vietnam in altre tre occasioni cinematografiche. Uno: è Nikon F Photomic nera nella cruenta battaglia evocata in We Were Soldiers, del regista Randall Wallace (Usa, 2002), con il soldatofotografo Joe Galloway (Barry Pepper) frastornato tra il suo compito istituzionale e la sensazione di dover lasciar perdere la macchina fotografica, per imbracciare un’arma [FOTOgraphia, febbraio 2015]. Due: è ancora Nikon F nera tra le mani del fotogiornalista che fa capolino in Apocalypse Now (di Francis Ford Coppola; Usa, 1979 [FOTOgraphia, novembre 2010]), interpretato da Dennis Hopper, attore che nel proprio privato ha vantato una consistente personalità di fotografo creativo di eccellente successo Fotogiornalismo al femminile (evviva!), sceneggiato sull’interpretazione di due attrici di spicco nel panorama internazionale del cinema: Sharon Stone, nei panni della fotoreporter statunitense Alison King, inviata in Italia negli anni di piombo, culminati con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro ( L’anno del terrore, di John Frankenheimer, del 1991), e Annie Girardot, nei panni della fotogiornalista Danièle Gaur, in Distanza zero, di Jean-Claude Tramont, del 1977. In entrambi i casi, con Nikon F2 motorizzate.
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[FOTOgraphia, dicembre 2009]. Tre: è inviolabilmente Nikon F in Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick (Usa, 1987), nel quale il soldato-fotografo Joker, o fotografo militare (qual è la differenza?), è interpretato dall’attore Matthew Modine, che nella vita reale è a propria volta appassionato di fotografia (alcuni suoi fuori-scena del film sono stati impaginati nella monografia Stanley Kubrick. Una vita per immagini, commentata in FOTOgraphia, dell’aprile 2004). A proposito, lo stesso volume (Rizzoli libri illustrati, 2003) ribadisce l’origine fotografica del regista, che prima di dedicarsi al cinema fu per lungo tempo fotoreporter inviato della rivista Look. Negli anni Quaranta e Cinquanta fotografava con Nikon a telemetro; la Nikon F sarebbe arrivata più tardi: si racconta che durante le riprese dell’apocalittico Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), lui e l’attore Peter Sellers, altro appassionato fotografo, si siano allontanati dal set per andare in un negozio a comperare una Nikon F ciascuno. Quindi, rimanendo allo stesso film, va ricordato che Stanley Kubrick ingaggiò come fotografo di scena Weegee, il leggendario fotocronista, che aveva conosciuto nel 1948 sul set di The Naked City, diretto da Jules Dassin e liberamente ispirato alla vita del fotografo (e alla sua prima raccolta di immagini, appunto Naked City, pubblicata nel 1945), dove era stato inviato da Look. Durante le riprese del Dottor Stranamore, l’accento anglotedesco di Arthur H. Felling (questo il vero nome di Weegee, oriundo austriaco, di Zloczew, oggi in Polonia) fu adottato da Peter Sellers per caratterizzare il personaggio dello scienziato nazista pazzo che ama la bomba. Sia in propria attualità tecnico-commerciale, sia in richiamo e ricostruzione storica, tre Nikon a telemetro in sceneggiature di spicco. Nikon S2 tra le mani di Celeste Holm, accanto a Frank Sinatra nella commedia High Society, di Charles Walters, del 1956, tradotto letteralmente in Alta società. Nikon S usata dal fotografo Harvey Milk, candidato al consiglio comunale di San Francisco, nell’interpretazione di Sean Penn (ovviamente, il film è Milk, di Gus Van Sant, del 2008). Nikon SP impugnata da Anthony Franciosa, per un posato del film La ragazza yè yè, terribile titolo italiano dell’originario The Swinger, di George Sidney, del 1966.
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QUALCHE TELEMETRO Niente di che... forse. Non film con consistente presenza della fotografia, come sarebbe auspicabile, ma solo tre incroci con apparecchi fotografici Nikon a telemetro, in un caso con un ulteriore rimando in avanti nel tempo tecnologico, oltre che cinematografico. Risolviamo subito la Nikon S2 tra le mani di Celeste Holm, accanto a Frank Sinatra nella commedia High Society, di Charles Walters, del 1956, tradotto letteralmente in Alta società. Nei panni della cantante Liz Imbrie, la brava attrice statunitense fa da corona a una partecipazione cinematografica di spicco e valore e pregio: quella di Bing Crosby, musicista eccelso, qui nei panni di C. K. Dexter-Haven. Ancora, si storicizza che Celeste Holm è stata la prima interprete di Who Wants to Be a Millionaire?, in duetto con Frank Sinatra, motivo appositamente scritto da Cole Porter, proprio per il film. Quindi, passiamo all’attore statunitense di origine italiana Anthony Franciosa (Anthony George Papaleo Jr, i cui nonni emigrarono partendo da Melfi, in provincia di Potenza). Nel film La ragazza yè yè, terribile titolo italiano dell’originario The Swinger, di George Sidney, del 1966 (ovviamente, pieni anni Sessanta), impugna una affascinante Nikon SP: in un posato che fece anche da promozione dello stesso film.
Infine, approdiamo a Sean Penn, attore che ha incrociato più volte la fotografia. Anzitutto, nel film The Assassination (in originale The Assassination of Richard Nixon), di Niels Mueller, del 2004, nel quale si racconta la storia vera del disadattato Samuel J. Bicke, che, nel 1974, durante la seconda presidenza di Richard Nixon, quella interrotta ad agosto, dalle dimissioni a seguito dello scandalo Watergate, cercò di dirottare un aereo in decollo, per farlo precipitare sulla Casa Bianca, ma venne ucciso in aeroporto. Qui, nel panni del protagonista, Sean Penn usa una Kodak Instamatic per fotografare i figli in posa davanti alla casa, che vivono con la madre, che sta intentando le procedure di divorzio: con quanto ne consegue a titolo individuale, a monte (o valle?) di una esistenza che slitta verso la paranoia. Quindi, per quanto ci riguarda più da vicino, in questa carrellata (non enciclopedica) della presenza Nikon al cinema, Sean Penn è straordinario interprete della parabola politica di Harvey Milk, consigliere comunale a San Francisco, il primo componente delle istituzioni statunitensi apertamente omosessuale, ucciso il 27 novembre 1978, assieme al sindaco George Moscone, dall’ex consigliere comunale Dan White. In ordine con la realtà, sulla base della quale è stata compilata la sceneggiatura del film Milk, di Gus Van Sant, del 2008, il protagonista Harvey Milk (Sean Penn, per l’appunto) è impegnato nella lotta per i diritti civili agli omosessuali. Nella vita quotidiana, gestisce un negozio di sviluppo e stampa fotografica a San Francisco, nel tollerante quartiere Castro: per l’appunto, Castro Camera. Oltre le sequenze ambientate nel negozio stesso, centro di ritrovo della comunità gay della città, si registra un passaggio nel quale Harvey Milk fotografa con un apparecchio a telemetro Nikon S: bella e colta citazione. Niente di più, né diverso, se non che, in forma di cameo, più che partecipazione sostanziosa al film, lo stesso Sean Penn è il fotografo Sean O’Connell, protagonista assente della vicenda di I sogni segreti di Walter Mitty, di e con Ben Stiller, del 2013, del quale ci siamo occupati in tre occasioni concatenate (nel maggio, giugno e dicembre 2014). Preziosa annotazione conclusiva. Quando Walter Mitty, a seguito di infinite peripezie, raggiunge finalmente il fotografo Sean O’Connell, a cinquemila metri di altitudine, in un luogo impervio, seduto dietro il suo treppiedi sul quale è collocata, per l’appunto, una Nikon 3/T dotata di lungo teleobiettivo (e Leica M6?, in spalla), la sceneggiatura/scenografia rende omaggio, citandola di fatto, alla fotografia del leopardo delle nevi (Panthera uncia), dello statunitense Steve Winter, affermatasi al BBC Wildlife Photographer of the Year 2008 [FOTOgraphia, febbraio 2009], che l’ha realizzata dopo dieci mesi di osservazioni delle abitudini dell’animale e tentativi successivi.
AVANTI CON IL CINEMA Dopo questa ennesima parentesi, torniamo tra noi, lungo il percorso intrapreso, non prima di aver sottolineato, una volta ancora, che la nostra è una selezione: in casellario completo, le citazioni sareb-
bero quantitativamente più sostanziose e assolutamente trasversali a tutto il cinema. In onore di cronologia, una Nikon F motorizzata scandisce i tempi fotogiornalistici che accompagnano il racconto del golpe militare dei colonnelli greci (21 aprile 1967): Z - L’orgia del potere (Z, di Costa-Gavras; Francia e Algeria, 1969). La Nikon è tra le mani del fotoreporter che sostiene e accompagna le indagini del magistrato sull’oscuro assassinio di un deputato: in ordine, gli attori Jacques Perrin, Jean-Louis Trintignant e Yves Montand. Quindi, al pari di Russell Price / Nick Nolte di Sotto tiro, con il quale abbiamo avviato questo “percorso di guerra”, ricordiamo ancora il già annotato agente della Cia Tom Bishop, che in Libano si nasconde dietro la facciata di fotoreporter inviato armato di Nikon FE o FM: Spy Game, di Tony Scott (Usa e Gran Bretagna, 2001), interpretato dall’attore Brad Pitt, del quale si conosce l’autentica passione fotografica. A seguire, molte sono le Nikon F, dotate di potenti teleobiettivi, tra le mani di investigatori privati, in vicende girate o ambientate negli anni Sessanta e primi Settanta. Tre, le menzioni d’obbligo: John Wayne, in originale tenente Lon McQ, di È una sporca faccenda tenente Parker (McQ, di John Struges; Usa, 1974); Bob Hoskins / Gus Klein di Prova schiacciante (Shattered, di Wolfgang Petersen; Usa, 1991); e Owen Wilson / Ken Hutchinson del remake cinematografico Starsky & Hutch (di Todd Phillips; Usa, 2004; con Ben Stiller nei panni di David Starsky). Reflex Nikon sono disseminate praticamente in tutti i film nelle cui sceneggiature la fotografia è sostanzialmente comprimaria. A titolo di esempio, ricordiamo tre casi. Anzitutto, il cambio dell’obiettivo Nikkor sull’elicottero in Incontri ravvicinati del terzo
tipo (Close Encounters of the Third Kind, di Steven Spielberg; Usa e Gran Bretagna, 1977 [FOTOgraphia, giugno 2009]); quindi, l’esagerazione delle caratteristiche tecniche della Calypso/Nikkor subacquea (Nikonos I) in Agente 007, Tunderball - Operazione tuono (Tunderball, di Terence Young; Gran Bretagna, 1965), che nella fantasia della sceneggiatura approda addirittura a improbabili otto fotogrammi al secondo. Ancora, la gag fotografica in cucina, con aragoste in fuga sul pavimento e reflex Nikon tra le mani di Diane Keaton, in Io e Annie (Annie Hall, di Woody Allen; Usa, 1977). Come abbiamo attestato per altri attori, annotiamo che anche Diane Keaton ha una sostanziosa attenzione fotografica, che l’ha portata anche a curare significative monografie illustrate [la sua raccolta Mr Salesman, in FOTOgraphia, del novembre 2009]: si allunga l’elenco dei personaggi del cinema che frequentano la fotografia per proprio conto. Altre presenze cinematografiche Nikon sono più sostanziali. Richiamiamone ancora qualcuna. Insieme alle immancabili Speed Graphic dei fotocronisti statunitensi, le Nikon F, Nikkormat e Nikon F Photomic segnano lo scorrere del tempo di Ray, biografia cinematografica di Ray Charles (di Taylor Hackford; Usa, 2004); ne abbiamo riferito in FOTOgraphia, del settembre 2005: all’arrivo in Georgia (1960), per un concerto che verrà annullato causa la segregazione, e costerà a Ray Charles l’espulsione dallo Stato; al primo arresto per uso di sostanze stupefacenti (1961); e durante la cerimonia pubblica di solenne riammissione di Ray Charles in Georgia (1979). Nikon F per Sigourney Weaver, nella biografia dell’etologa statunitense Dian Fossey, studiosa dei gorilla, assassinata nella provincia rwandese del Ruhengeri per la sua tenace protezione dell’am-
Due attori di spicco e valore, con relative Nikon F. Gian Maria Volonté, capo della Sezione Omicidi della polizia di Roma in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri, del 1970); Sidney Poitier, nei panni del consulente militare Ben Munceford, nella scenografia di Stato d’allarme ( The Bedford Incident, di James B. Harris, del 1965).
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Nel film brasiliano City of God (in distribuzione internazionale; Cidade de Deus, in originale, di Fernando Meirelles, del 2002), il protagonista Alexandre Rodrigues (nei panni di Buscapé) usa una Nikon F particolarmente consumata per il suo fotogiornalismo sul campo. (In alto) Nel film Piccoli omicidi ( Little Murders, di Alan Arkin, del 1971, dalla commedia di Jules Feiffer), Elliott Gould interpreta il fotografo Alfred Chamberlain... con Nikon F. (al centro) Nel film-documentario Quando eravamo re ( When We Were Kings, di Leon Gast, del 1996), Muhammad Ali impugna una Nikon F motorizzata: è più probabile che sia una improvvisazione estemporanea che un passaggio in sceneggiatura.
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biente naturale degli stessi gorilla: Gorilla nella nebbia (Gorillas in the Mist: The Story of Dian Fossey, di Michael Apted; Usa, 1988). Nikon F Photomic motorizzata per Ray Sharkey, nei panni di Phil D’Amico nell’apprezzato Io, Willy e Phil (oppure Io, Willie e Phil ; Willie and Phil, di Paul Mazursky; Usa, 1980). Nikon F5 per Julianne Moore, la dottoressa Sarah Harding della seconda puntata del sequel Giurassico: Il mondo perduto - Jurassic Park (The Lost World: Jurassic Park, di Steven Spielberg; Usa, 1997). Altra Nikon F, al collo dell’attore Sidney Poitier, nei panni del consulente militare Ben Munceford, nella scenografia di Stato d’allarme, di James B. Harris, del 1965 (in originale, The Bedford Incident ). Ancora Nikon F5 per Julia Roberts, l’odiata matrigna Isabel Kelly di Nemiche amiche (Stepmom; di Chris Columbus; Usa, 1998). Con l’occasione, ricordiamo che la stessa Julia Roberts interpreta la fotografa Anna Cameron in Closer (di Mike Nichols; Usa, 2004), nel quale esegue il ritratto dello scrittore Dan, con il volto di Jude Law, il killer-fotografo necrofilo Harlen Maguire di Era mio padre (Road to Perdition, di Sam Mendes; Usa, 2002): straordinari incroci della fotografia al cinema, che abbiamo rispettivamente presentato in FOTOgraphia, dell’ottobre 2006 e novembre 2005. Nikon F nera con curioso flash a lampadine per Gian Maria Volonté, capo della Sezione Omicidi in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri; Italia, 1970 [FOTOgraphia, maggio 2017]), che, prima di uccidere la propria amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan), si fa coinvolgere da lei in morbosi giochi fotografici, basati sulla sollecitata ricostruzione di scene del delitto. Al femminile e professionali, ancora, la già ricordata Nikon FE e/o FM, di generazione non identificata, della fotografa di moda interpretata da Faye Dunaway in Gli occhi di Laura Mars (Eyes of Laura Mars, di Irvin Kershner; Usa, 1978) e le Nikon F2 motorizzate tra le mani di Sharon Stone, nei panni della fotoreporter statunitense Alison King, inviata in Italia negli anni di piombo, culminati con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro (L’anno del terrore / Year of the Gun, di John Frankenheimer; Usa, 1991), e Annie Girardot, la fotogiornalista Danièle Gaur di Distanza zero (Le point de mire), di Jean-Claude Tramont, del 1977. Oltre una Kodak Instamatic e una Kodak Retina Reflex, Buscapé, il protagonista dello straordinario film brasiliano City of God (in distribuzione internazionale; Cidade de Deus, in originale; di Fernando Meirelles, del 2002), interpretato da un autorevole Alexandre Rodrigues, usa una Nikon F particolarmente consumata per il suo fotogiornalismo sul campo, corredata di teleobiettivo 135mm f/3,5 altrettanto malconcio. Il film narra le vicende criminali di una favela ai margini della sontuosa Rio de Janeiro, per l’appunto la Città di Dio. Il giovane Buscapé è il personaggio chiave, che illustra e rievoca le consecuzioni dagli anni Sessanta: la sua predisposizione fotografica è il collante della sceneggiatura [FOTOgraphia, marzo 2012].
Meno fondamentali alla sceneggiatura, ma avvincenti in scenografia, sono le Nikon digitali di Spider-Man 3, di Sam Raimi, del 2007, e Superman Returns, del 2006. Ma nulla di più, né meglio. Invece, sono affascinanti e avvincenti, le Nikon F nere di Robert Kincaid, interpretato da Clint Eastwood, anche regista, nella trasposizione cinematografica dal romanzo best seller di Robert James Waller, del quale ha conservato il titolo: I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County ; Usa 1995). Si ipotizza un fotografo del National Geographic Magazine che, durante un reportage, incontra una donna sposata (Francesca Johnson / Meryl Streep). Si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare assieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze [FOTOgraphia, novembre 1995]. In relazione agli incroci della fotografia al cinema, non possiamo non sottolineare una combinazione che riguarda proprio Clint Eastwood, regista di Flags of Our Fathers, del 2006 [FOTOgraphia, maggio 2013], che richiama una vicenda discriminante del fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale, consegnata alla Storia da una fotografia epocale. Il 23 febbraio 1945, le forze armate statunitensi conquistano un prezioso territorio: per l’occasione, cinque marine e un medico issano la bandiera stelle-strisce sulla sommità del monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima. Fotografato da Joe Rosenthal dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e un’icona per l’eroismo americano [FOTOgraphia, marzo 2006], anche se sappiamo che la composizione fu frutto di un’abile messa in scena [FOTOgraphia, luglio 2007]. Nel momento in cui riconosciamo che le Nikon F di Robert Kincaid dei Ponti di Madison County sono affascinanti, in correlazione con l’interpretazione di Clint Eastwood, ci torna alla mente un altro abbinamento cinematografico altrettanto avvincente. Parliamo del fotografo Alfred Chamberlain, interpretato da Elliott Gould, che aggiunge la propria naturale “mollezza” all’atteggiamento disincantato del personaggio, che all’inizio di Piccoli omicidi (Little Murders, di Alan Arkin, dalla commedia di Jules Feiffer; Usa, 1971), si aggira per New York con una Nikon F al collo, fotografando soltanto escrementi di cane sui marciapiedi. Partiti con Blow-Up, film italiano, chiudiamo il lungo casellario con una citazione finale d’obbligo, appunto italiana. L’episodio finale di Pacco, doppio pacco e contropaccotto (di Nanni Loy; 1993), che dà il titolo al film, racconta una truffa basata sull’acquisto-vendita di un pacco contenente due Nikon F4. Ovviamente, con abilità, i truffatori sostituiscono il pacco originario con uno contenente mattoni di peso identico. Alla fine dell’episodio, quando un amico si offre per comperare effettivamente le due Nikon F4, il proprietario/truffatore rifiuta, perché, nel modo appena sintetizzato, le due reflex rappresentano l’unico sostentamento di tre famiglie. Tanto è! ❖
di Lello Piazza elebriamo la mostra BBC Wildlife Photographer of the Year 2016, a Milano, dallo scorso sei ottobre, con un elogio dedicato a un ragazzino spagnolo straordinario, Carlos Perez Naval. Nella categoria 10 Years and Under (fino a dieci anni), è risultato primo nelle edizioni 2016, 2015 e 2014 del concorso organizzato dalla BBC, in collaborazione con il Natural History Museum, di Londra. Ancora: nel 2014, gli è stato anche assegnato il titolo di Young Wildlife Photographer of the Year, per la fotografia che ha visualizzato uno scorpione africano, di quelli gialli, molto pericolosi per il loro veleno [FOTOgraphia, ottobre 2015; e qui accanto, in basso]. Il titolo di giovane fotografo dell’anno corrisponde al massimo riconoscimento che la giuria può attribuire al migliore tra i partecipanti di età che non supera i diciassette anni. Carlos Perez Naval è stato premiato in altre selezioni dedicate a giovani fotografi; ha vinto in importanti concorsi europei: in Germania, al Glanzlichter e al GDT (Gesellschaft Deutscher Tierfotografen); in Francia, al MontPhoto; in Inghilterra, allo ZSL Animal Photography (Zoological Society of London); e in Italia, all’Oasis Photocontest. Ha un sito web, nel quale presenta fotografie da fare invidia: https://carlospereznaval.wordpress.com/. Dunque, invece di parlare subito della mostra, mi sono permesso di iniziare questo articolo con un volo pindarico su un fotografo giovanissimo. Non essendo Umberto Eco, mi sono preso questa libertà perché FOTOgraphia, la rivista per cui sto scrivendo, non disdegna i voli pindarici [Pindaro, poeta lirico greco, 517-438 aC. «La locuzione volo pindarico viene usata per indicare, in un qualsiasi discorso scritto o parlato, un passaggio rapido, senza espressa connessione logica, da un argomento a un altro, o un’ardita digressione dall’argomento principale»: da Vocabolario Treccani ]. Spero che i lettori continuino a seguirmi, perché in questo breve volo voglio parlare di un gioco: la Fotografia, al quale Carlos Perez Naval ha cominciato a giocare prestissimo. Quando ero piccolo (inizio anni Cinquanta), c’erano giochi molto coinvolgenti, dove erano impegnati il pensiero, la concentrazione, la riflessione e anche l’abilità manuale del bambino. Mi ricordo, con nostalgia, il Meccano e il Piccolo Chimico. Erano molto diversi dai giochi elettronici del Terzo Millennio, che si praticano digitando su una playstation, un iPad, uno smartphone o il computer. Oggi, l’abilità manuale non entra quasi mai in causa. Tra i giochi della mia infanzia non c’era, purtroppo, il Piccolo Fotografo. Comunque, io ho potuto cominciare a giocare a Fotografia intorno ai tredici-quattordici anni, quando ebbi il permesso di usare la Contaflex di mio padre, una delle sue macchine fotografiche, insieme con una Leica g (non ho mai approfondito la cronologia/attribuzione esatta) e una Rolleiflex biottica. Nello stesso periodo, fui anche invitato a frequentare la camera oscura provvisoria che veniva allestita nel bagno di casa, dove si utilizzava un ingranditore Durst 609. [Alla maniera di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), che iniziò a comporre a cinque anni: la sua prima composizione, un andante per clavicembalo, è datata ai primi mesi del 1761] Carlos Perez Naval gioca a Fotografia da quando aveva cinque anni, molto prima di me. E in questo gioco, che si pratica con una macchina fotografica al collo, è diventato una star a una età alla quale io non avevo ancora neppure realizzato un solo scatto. Lode, dunque, a lui, ai suoi genitori e alla Fotografia Naturalistica, che hanno permesso questo miracolo. Meditate gente, meditate. (continua a pagina 58)
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Carlos Perez Naval con i propri genitori. Vincitore nella categoria 10 Years and Under al BBC Wildlife Photographer of the Year 2016 (fino a dieci anni) [pagina accanto], ha bissato i premi già ottenuti nelle edizioni precedenti, oltre altri premi in concorsi europei analoghi (https://carlospereznaval.wordpress.com/).
Carlos Perez Naval: vincitore nella categoria 10 Years and Under 2015.
Carlos Perez Naval: Young Wildlife Photographer of the Year 2014.
NATURA! Organizzato dalla BBC, con la partecipazione attiva del Natural History Museum, di Londra, senza ombra di dubbio, il Wildlife Photographer of the Year è il più prestigioso concorso di fotografia naturalistica del mondo. Le sue segnalazioni e indicazioni sintetizzano una applicazione fotografica che ha del magico, nel momento in cui presenta visioni e situazioni difficilmente raggiungibili nello svolgimento quotidiano delle esistenze. Spesso con sacrifici enormi, straordinari autori superano disagi e difficoltà, per rivelare la vita naturale sul nostro pianeta. Oltre le consuete affermazioni, si comincia con il giovane spagnolo Carlos Perez Naval, meno di dieci anni!, alla sua terza affermazione consecutiva. Un esempio (da seguire?)
Carlos Perez Naval (Spagna): vincitore nella categoria 10 Years and Under. Luì piccolo ( Phylloscopus collybita). Usando l’automobile della mamma come nascondiglio, Carlos Perez Naval ha ripreso questa immagine di un piccolo migratore sotto una leggera nevicata.
Siamo all’inizio della primavera, nelle prime giornate calde, in Europa, e l’uccellino è appena tornato dai territori mediterranei di svernamento. Calamocha (Spagna) / Nikon D7100, AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II con AF-S Teleconverter TC-14E III (1,4x); 640 Iso equivalenti.
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Walter Bassi (Italia): finalista nella categoria Invertebrates. Spirografo ( Sabella spallanzanii). Quando viene disturbata, la femmina di spirografo scompare nel proprio tubo protettivo. Walter Bassi si è accostato lentamente: è riuscito ad avvicinarsi tanto da realizzare questa visione, nella quale il soggetto riempie quasi completamente l’inquadratura.
I delicati tentacoli dai colori accesi dello spirografo si estendono per circa cinque centimetri, allo scopo di filtrare particelle in sospensione nell’acqua di mare. Gli spirografi sono ormai diffusi negli oceani di tutto il mondo. Noli (Italia) / Olympus Pen E-PL1, custodia subacquea, M.Zuiko Digital ED 60mm f/2,8 Macro; due flash Sea & Sea YS-110; 100 Iso equivalenti, 1/100 di secondo a f/14.
Marco Colombo (Italia): vincitore nella categoria Reptiles, Amphibians and Fish. Testuggine palustre europea ( Emys orbicularis). In Sardegna, c’è un singolare fiume che diventa quasi secco d’estate. Lì vive una specie minacciata, la timida testuggine palustre europea ( Emys orbicularis). Le minacce alla sopravvivenza di questa specie vengono soprattutto dall’introduzione, nel nostro paese, di altre specie straniere, aggressive, come la tartaruga dalle orecchie rosse ( Trachemys scripta elegans): soprattutto a causa degli scarichi
in natura di acquisti incauti per i terrari domestici (pratica ormai diffusa). Per documentare gli aspetti della vita della tartaruga Emys orbicularis, Marco Colombo si è immerso in una delle pozze rimaste lungo il fiume (profondità meno di due metri), con reflex scafandrata. Mettendo a frutto un particolare momento di luce, ha scattato una magnifica fotografia, rara e preziosa. Sardegna (Italia) / Nikon D90, custodia subacquea Isotta, Tokina AT-X 10-17mm f/3,5-4,5 DX Fish-Eye a 10mm; 400 Iso equivalenti, 1/60 di secondo a f/11.
Stefano Unterthiner (Italia): vincitore nella categoria Land. Gipeto ( Gypaetus barbatus) e gracchi alpini ( Pyrrhocorax graculus). Stefano Unterthiner stava fotografando per l’ennesima volta vecchi larici spogli, nella propria veste invernale, quando un gipeto (il più grande avvoltoio europeo) apparve come un fantasma sopra uno stormo di gracchi alpini.
Dopo decenni, i gipeti sono tornati nel Parco nazionale del Gran Paradiso. Volteggiando sulle montagne, vanno alla ricerca di carcasse nelle valli sottostanti. I gracchi, un tipo di corvo, non sono nel menu dell’avvoltoio. Ma... Parco nazionale del Gran Paradiso (Italia) / Nikon D3S, AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II a 350mm; 400 Iso equivalenti, 1/400 di secondo a f/8.
Valter Binotto (Italia): vincitore nella categoria Plants. Nocciòlo ( Corylus avellana). Valter Binotto ha affrontato e risolto un problema che presentava soluzioni contrastanti. Aveva bisogno di una esposizione lunga, per dare l’idea del polline trasportato dal vento, rilasciato dagli amenti scossi dalla brezza; e, al contempo, aveva anche bisogno di una esposizione breve, per catturare i fiori rossi femminili, mentre gli amenti si muovevano. Il risultato è stato ottenuto provando e riprovando; finalmente, è riuscito a fotografare mentre il vento non era così forte da muovere
i fiori, ma abbastanza forte da soffiare il polline. Ogni amento maschile produce milioni di microscopici granuli di polline. Perché l’impollinazione abbia successo, almeno un granulo deve essere portato dal vento fino a un fiore femminile, su un altro albero. All’inizio della primavera, i pollini di nocciòlo, ricchi di proteine, rappresentano un’importante risorsa per le api. Possagno (Italia) / Nikon D4, AF-S Nikkor 200mm f/2G ED VRII; 200 Iso equivalenti, 1/80 di secondo a f/10; commando remoto; pannello riflettente.
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Stefano Baglioni (Italia): finalista nella categoria Plants. Cactus Berretta del vescovo ( Astrophytum myriostigma). Durante una spedizione di quindici giorni nel deserto messicano di Chihuahuan, Stefano Baglioni ha incontrato un giovane cactus Berretta del vescovo ( Astrophytum myriostigma: quella specie di palla somigliante, appunto, a un cappello di prete), che stava crescendo su ciò che rimaneva di una pianta di agave. La fotografia è stata scattata attendendo che una nuvola coprisse il sole, in modo che le ombre risultino più lievi e la luce più distribuita ed equilibrata. Il deserto di Chihuahuan è il più grande del Nord America, ma l’aumento della popolazione umana e l’uso non corretto delle risorse idriche minacciano il suo delicato ecosistema. Chihuahuan Desert (Messico) / Nikon D800, AF-S Nikkor 85mm f/1,8G; 200 Iso equivalenti; 0,3 secondi a f/19; treppiedi Gitzo con testa Manfrotto.
Thomas P. Peschak (Germania / Sudafrica): finalista nella categoria Invertebrates. Granchio del cocco ( Birgus latro). Straordinaria padronanza tecnica degli strumenti fotografici (utensili!); scatto staged (messo in scena), come si dice. Utilizzando una potente torcia a Led per uso militare, l’autore ha proiettato sulla parete di un edificio in rovina l’ombra di un granchio del cocco (assente nella fotografia). Poi, ha utilizzato un flash per illuminare discretamente tutta la scena, sistemando una piccola torcia sulla testa del biologo Otto Whitehead, inserito nell’inquadratura insieme a un secondo granchio, illuminato con un’altra torcia. Se questo scatto non è stato ripetuto più volte, per ottenere lo straordinario risultato finale, aggiustando le posizioni relative, siamo di fronte a un miracolo di probabilità pari quasi a Zero. Il remoto atollo di Aldabra, nelle Seychelles (Oceano Indiano), è una delle ultime roccaforti dove vive il granchio del cocco. Può essere largo fino a un metro e pesare fino a tre chilogrammi: il più grande artropode terrestre. Aldabra Atoll, Isole Seychelles / Nikon D3S; AF-S Zoom-Nikkor 17-35mm f/2,8D IF-ED a 20mm; 3200 Iso equivalenti, due secondi a f/6,3; torcia Led e flash Profoto B1; comando a distanza.
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Fortunato Gatto (Italia): finalista nella categoria Land. Anche in questo caso, l’esplorazione preventiva è risultata indispensabile, per realizzare un’immagine di successo. Fortunato Gatto ha studiato attentamente la tempistica del suo viaggio. Voleva la neve sulle montagne scozzesi di Rùm, la bassa marea, e la luce dell’alba. Quando le prime luci hanno illuminato le cime in lontananza, tutti i tasselli si sono collocati al proprio posto. Le isole di Eigg e Rùm, nelle Ebridi scozzesi, una di fronte all’altra, sono separate
Imre Potyó (Ungheria): finalista nella categoria Invertebrates. Effimere ( Ephoron virgo). L’autore è rimasto affascinato dalla caotica massa di effimere che sciamavano intorno a lui, sulle sponde del fiume Rába (Raab), in Ungheria. Subito dopo il tramonto, gli insetti iniziarono a riempire il cielo con milioni di ali di seta, avvolgendo il fotografo e il suo equipaggiamento. Una doppia esposizione realizzata in ripresa gli ha permesso di registrare le effimere (con un colpo di flash) e le stelle di sfondo, con una seconda esposizione. Questi insetti trascorrono la maggior parte della propria vita sott’acqua. A fine primavera, escono dall’acqua e riescono a volare solo per poche ore, al fine di accoppiarsi, badando di sfuggire ai predatori. Il ritorno in alcuni fiumi europei di questi insetti sensibili all’inquinamento mostra che i progetti per rendere i fiumi più puliti funzionano. Fiume Rába / Raab (Ungheria) / Nikon D90; zoom Sigma 17-70mm f/2,8-4 DC Macro OS HSM a 17mm; 800 Iso equivalenti, doppia esposizione 1,3 secondi a f/14 e trenta secondi a f/3,2; flash della reflex; treppiedi Manfrotto con testa Uniqball.
da un profondo canale. Eigg si è formata da una colata lavica, e quello che è rimasto del vulcano è diventato l’isola di Rùm. La sabbia dalla lucentezza metallica della Laig Bay, su Isle of Eigg, è un miscuglio di gusci bianchi e lucenti di conchiglie e granelli neri di origine vulcanica. Laig Bay, Isle of Eigg (Scozia) / Canon Eos 5D Mark III, Zeiss Milvus 21mm f/2,8, filtri Lee polarizzatore, ND 1,8 e Hard-Edge Graduated; 100 Iso equivalenti, 121 secondi a f/11; controllo remoto Canon; treppiedi Manfrotto.
Lars Andreas Dybvik (Norvegia): finalista nella categoria Impressions. Ùria comune ( Uria aalge). L’autore si è disteso sulla cima di una scogliera con la sua macchina fotografica, per non disturbare gli uccelli e catturare i riflessi dorati del sole del tardo pomeriggio sul mare. Concentrandosi su una coppia, Lars Andreas Dybvik ha realizzato una serie di scatti leggermente fuori fuoco, per celebrare in un’immagine astratta la cerimonia del loro corteggiamento. Una grande colonia di ùrie costituisce parte delle migliaia di uccelli marini che si riproducono sulla piccola e disabitata isola di Hornøya, in Norvegia. Dopo essersi accoppiata con lo stesso partner dell’anno precedente, la femmina depone un singolo uovo direttamente su un anfratto di roccia della scogliera. Hornøya (Norvegia) / Nikon D800, AF-S Nikkor 500mm f/4G ED VR; 50 Iso equivalenti, 1/1600 di secondo a f/4,5.
Mario Cea (Spagna): vincitore nella categoria speciale People’s Choice. Martin pescatore ( Alcedo atthis). Oltre conoscenze naturalistiche (sapere che un martin pescatore frequenta regolarmente uno stagno e si tuffa sempre nello stesso posto), il fotografo di natura deve possedere competenze tecniche: per registrare una scia inesistente che l’uccello crea nell’aria durante il tuffo; luce continua, per ottenere il mosso (scia), e flash elettronico, per congelare la sua figura e renderla riconoscibile. Salamanca (Spagna) / Canon Eos 7D, Canon EF 100-400mm f/4,5-5,6L IS II USM a 160mm; 250 Iso equivalenti, 1/15 di secondo a f/7,1; quattro flash Godox V860II; illuminatore a luce continua Led; treppiedi Benro; comando a distanza; capanno.
Ronan Donovan (Usa): finalista nella categoria Mammals. Scimpanzé orientale ( Pan troglodytes schweinfurthii). A mio modo di vedere, questa è un’immagine di importanza straordinaria, che testimonia il fatto che gli scimpanzé uccidono e si nutrono di altre scimmie. Una fotografia che è tanto potente, quanto gli straordinari fotogrammi dell’incipit del film 2001: Odissea nello spazio. Avrebbe meritato il primo premio di categoria. Racconta l’autore: «La foresta risuonava delle urla sempre più forti dei maschi di scimpanzé. Lo scimpanzé dominante tolse le viscere della scimmia. Poi, i maschi mangiarono il cervello e gli altri organi e due femmine di alto rango si batterono per la carcassa». Chissà se episodi come questo, di pseudo cannibalismo, hanno costellato la vittoria della specie Homo sapiens nei confronti degli altri Homo ( habilis, rudolfensis, ergaster, erectus, neanderthalensis, Denisova...)? La frutta costituisce -comunque- la fonte principale di cibo per gli scimpanzé. Una rara caccia a piccole scimmie può essere causata dall’aumento di livelli di aggressività e stress nel gruppo di scimpanzé. Kibale National Park (Uganda) / Canon Eos 5D Mark II, Canon EF 100-400mm f/4,5-5,6L IS II USM; 4000 Iso equivalenti, 1/400 di secondo a f/8 (+1 EV).
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Guillaume Bily (Francia): finalista nella categoria Birds. Sula bassana ( Morus bassanus). Encomiabile la scelta dell’autore di rappresentare il suo lavoro sulle sule con un’immagine nella quale questo uccello è quasi invisibile e la sua esistenza (sottolineo, esistenza) è solo suggerita da una sottile silhouette nella nebbia. «La nebbia aveva creato una sorta di immensità blu, nella quale l’unico punto di riferimento era il riflesso del sole. Era un’atmosfera intensa, che cambiava continuamente e dava un forte senso di libertà», racconta l’autore. Hermaness, Shetland Islands (Scozia) / Nikon D4, AF-S Nikkor 50mm f/1,4G; 200 Iso equivalenti; 1/640 di secondo a f/13 (-1 EV).
(continua da pagina 52) Ma veniamo al BBC Wildlife Photographer of the Year 2016 e alla mostra milanese che gli è dedicata. Tra le immagini presentate, ce ne sono otto di autori italiani: bella quantità e qualità, che conferma, anche in questa occasione, l’ottimo livello internazionale raggiunto dalla fotografia naturalistica del nostro paese. Tre sono vincitori di categoria: Marco Colombo (Reptiles, Amphibians and Fish), Stefano Unthertiner (Land ) e Valter Binotto (Plants). Gli altri cinque sono “soltanto” finalisti, ma comunque tra coloro che sono conteggiati come premiati: Walter Bassi (Invertebrates), Hugo Wassermann (Urban), Fortunato Gatto (Land ), Stefano Baglioni (Plants) e Nicola Di Sario (Black and White). Da notare, volendolo fare, la doppia presenza italiana nelle categorie Land e Plants. Vi presentiamo le immagini di alcuni di loro, insieme alla fotografia vincente di Carlos Perez Naval, con il quale abbiamo
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Lance van de Vyver (Nuova Zelanda / Sudafrica): finalista nella categoria Black and White. Pangolino ( Manis sp) e leone ( Panthera leo). Da diverse ore, il fotografo era all’inseguimento di un branco di leoni,
avviato le attuali considerazioni. Le altre immagini che pubblichiamo sono le mie preferite e le ho selezionate senza badare al fatto che siano finite o meno sul podio di qualche categoria. Le abbiamo scelte per confermare ancora una volta la nostra autonomia da ogni giuria; e che, quindi, se cambi giuria, cambiano anche i vincitori: legge quasi matematica. Forse. Eccoci, infine, alle informazioni sulla mostra, che rimane allestita fino al dieci dicembre nelle sale della Fondazione Luciana Matalon, in Foro Buonaparte 67, nel centro di Milano, ed è dedicata alle circa cento immagini premiate nell’edizione 2016 del BBC Wildlife Photographer of the Year, la cinquantaduesima della sua nobile e autorevole storia. Si tratta di un appuntamento annuale reso possibile dal patrocinio del Comune di Milano, dal generoso impegno dell’Associazione culturale Radicediunopercento, di Roberto Di Leo, e dal supporto di LifeGate. Alcune cifre del concorso 2016: sono
quando si è imbattuto in questo pangolino, che -sentendosi minacciato da un giovane leone- si è raggomitolato “come una palla da calcio”. Ci sono volute quattordici ore prima che i leoni, alla fine, perdessero interesse nei confronti
del pangolino. Le sue scaglie dure e impenetrabili lo hanno salvato dai predatori. Tswalu Private Game Reserve, Kalahari (Sudafrica) / Canon Eos 5DS R, Canon EF 500mm f/4L IS II USM; 1600 Iso equivalenti, 1/1600 di secondo a f/4.
pervenute più di cinquantamila fotografie, realizzate da professionisti e non, in rappresentanza di novantacinque paesi. Durante il periodo di apertura della mostra, Radicediunopercento propone le consuete serate di approfondimento. Si comincia presso la Casa della Cultura, nella centrale via Borgogna 3, a Milano, alle 21,00: sabato ventotto ottobre, con Marco Urso, Autore Italiano Fiaf 2017; poi, sabato venticinque novembre, si incontra Marco Colombo, vincitore di categoria (Reptiles, Amphibians and Fish), altresì presente in mostra; infine, sabato due dicembre sono ospiti Stefano Baglioni, finalista (Plants), anche lui presente in mostra, e il botanico ed esploratore Davide Donati. Altri incontri, sono programmati presso la Fondazione Luciana Matalon, sede della mostra, alle 19,00: giovedì nove novembre, con Valter Binotto, vincitore di categoria (Plants); giovedì trenta novembre, ancora con Marco Urso, Autore Italiano Fiaf 2017. Marco Colombo, premiato anche nel Wildlife Photographer
of the Year 2011 (Animal Portraits), è, inoltre, a disposizione per visite guidate alla mostra presso la Fondazione Matalon: ogni venerdì, dalle 19,30 (tranne venerdì dieci novembre); prenotazione obbligatoria, cinque euro. Durante il periodo di apertura della mostra, presso la propria sede in via Stresa 13, a Milano, Radicediunopercento organizza workshop tenuti da Marco Urso e Marco Colombo. Per informazioni su date e costi www.radicediunopercento.it. È disponibile il catalogo con tutte le immagini premiate: Wildlife Photographer of the Year Portfolio 26, in inglese, pubblicato dal Natural History Museum, 160 pagine 25x25,4cm, 35,00 euro. È tutto. ❖ BBC Wildlife Photographer of the Year 2016. Fondazione Luciana Matalon, Foro Buonaparte 67, 20121 Milano; www.radicediunopercento.it. Fino al 10 dicembre; martedì-domenica 13,00-19,30, venerdì 10,00-22,00 (sabato 18 novembre, 10,00-18,00).
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Urss addio di Antonio Bordoni
ATTORNO LA ZENIT-E
A
A integrazione di quanto rievocato lo scorso ottobre, in ricorrenza del centenario dalla Rivoluzione bolscevica (1917-2017), compiliamo qui una nota particolare a margine, relativa alla produzione di fotografica dell’Unione Sovietica. In definitiva, possiamo affermare che la controversa storia degli apparecchi fotografici sovietici non può sempre contare su fonti attendibili. A differenza di tante altre storiografie tecniche, tutte ben cadenzate e raccontate (magari, anche con termini di assoluta fantasia... a posteriori), in questo caso vengono meno dati certi. Comunque, in base a documentazioni affidabili, forniteci dalla fonte -questo va sottolineato-, oggi e qui, ufficializziamo il conteggio di diciassette milioni di macchine fotografiche uscite dagli stabilimenti di Krasnogorsk, nel lungo periodo che va dal 1946 di origine al 1988, quando possiamo fissare una conclusione attendibile. Ciò che è seguìto, fino al dissolvimento ufficiale, sancito il 26 dicembre 1991, ha risentito della confusione in odore di fine. Generalmente, due sono i motivi per cui le proliferanti storie dell’evoluzione di apparecchi fotografici girano sempre attorno ad argomenti soliti... triti e ritriti: Leica, sopra tutti. Anzitutto, perché i volumi dedicati alla Leica (rimaniamo a questo esempio) sono comunque remunerativi, indipendentemente dalla propria stesura e qualità di racconto; poi, perché le notizie su certe macchine fotografiche -una volta ancora Leica più di altre- sono facilmente reperibili. Addirittura, può non servire la ricerca storica di prima mano, ma si può procedere di riflesso, basandosi sull’abbondante offerta di testi preesistenti. In questa situazione, la storia della produzione fotografica sovietica soffre invece dell’impossibilità di accedere a fonti ufficiali, o comunque sia attendibili. Pur volonterosi, e malgrado loro, due titoli noti mostrano evidenti i segni di inevitabili lacune. Con tutto, sia l’antica First Complete Guide to 110 Russian Cameras: From 1929 to 1984, di Isaak Maizenberg (Chicago, metà degli anni Ottanta), sia la più esaustiva The Authentic Guide to Russian and Soviet
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La Moskva-1, copia della Zeiss Super-Ikonta, è stata la prima macchina fotografica di Krasnogorsk, fabbrica ubicata nei pressi della capitale sovietica. Dal 1946 al 1949, ne sono stati prodotti 31.632 pezzi. Per i cinque modelli differenti, in catalogo fino al 1960, si è raggiunta la quantità totale di 519.746 pezzi.
Il secondo progetto di Krasnogorsk si è palesemente ispirato alle forme e caratteristiche della Leica. La Zorki originaria è del 1948, ed è rimasta in produzione fino al 1956. Nel corso degli anni, fino al 1980, sono state realizzate tredici varianti, per una quantità complessiva di 4.928.678 di pezzi. (pagina accanto, in alto) La reflex 35mm Zenit nacque nel 1952 come palese modificazione della Zorki a telemetro. (pagina accanto, al centro) Tra le macchine fotografiche sovietiche poco note, la passerella d’onore spetta alla bizzarra e fantomatica Kristall, del 1961-1962.
Cameras, di Jean Loup Princelle (Hove Foto Books, 1995; edizione riveduta, del 2004), sono proficuamente utili per mettere ordine in una materia tanto sconosciuta. Sul fronte italiano, si segnala -a complemento- l’azione conoscitiva promossa e svolta alla fine degli anni Novanta (del Novecento) dal Fotocircolo CCCP, che con il proprio Bollettino ha avviato una analisi dettagliata del materiale fotografico sovietico.
ORMAI RUSSIA Mettiamola così. Perlomeno, un capitolo della storia tecnica della fotografia è definitivamente chiuso, e i suoi
confini sono consequenzialmente definitivi. Non possiamo più parlare di Unione Sovietica, e -dunque- anche commentando la produzione fotografica, fino a ieri l’altro centralizzata, oggi dobbiamo scomporre i riferimenti tra le fabbriche localizzate all’interno delle singole repubbliche, ormai autonome e ormai indipendenti. Fino a ieri l’altro, in Urss, la sequenza produttiva-commerciale non ha avuto alcun legame con la struttura del mercato di libera concorrenza a noi noto. Andando a collegare tra loro tutti i settori vitali della nazione, l’economia pianificata sovietica, i cui risultati
Urss addio Produzione fotografica di Krasnogorsk (1946-1988) Quantità Anno 1946 1947 1948 1949 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1956 1957 1958 1959 1960 1961 1962 1963 1964 1965 1966 1967 1968 1969 1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988
Modelli in produzione Quantità Nel quinquennio (*) 1 1.007 2 14.608 3 25.992 3 31.312 3 59.649 132.568 4 91.121 4 150.287 4 181.568 5 291.892 10 339.557 1.054.425 12 393.831 6 418.891 9 429.053 10 443.599 12 400.894 2.086.268 13 295.637 12 327.014 8 346.022 12 320.553 12 306.876 1.596.102 10 367.972 10 406.884 12 427.863 10 402.805 10 423.492 2.029.016 8 470.372 10 527.173 10 583.932 7 587.544 7 596.342 2.765.363 7 623.012 8 611.896 7 635.131 6 666.601 9 677.733 3.214.373 12 675.193 12 675.026 10 566.036 11 397.097 9 374.856 2.688.208 9 421.992 9 454.036 9 477.292
Totale
16.919.643
(*) Come è noto, i piani produttivi dell’Unione Sovietica venivano preventivati e poi conteggiati in quinquenni: il periodo che va dal 1946 al 1950 fu il quarto piano quinquennale, a cui fece seguito il quinto (1951-1955), il sesto (1956-1960), il settimo (1961-1965), l’ottavo (1966-1970), il nono (1971-1975), il decimo (1976-1980) e l’undicesimo (1981-1985). La nostra fonte si conclude al 1988, e -dunque- non può tenere conto del dodicesimo piano quinquennale, che si è concluso nel 1990, precedente al dissolvimento dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991).
Quantitativamente, la Zenit-E è la macchina fotografica prodotta in maggior numero di pezzi dalla fabbrica sovietica di Krasnogorsk: 3.334.540 pezzi. È rimasta in produzione per diciotto anni: dal 1965 al 1982. Dal punto di vista della notorietà “aggiunta”, va rilevato che ha potuto godere di una notevole fama commerciale planetaria.
sono stati ampiamente discussi e contestati, ha creato una serie di vincoli estremamente estesi. Plausibile in teoria, e affascinante sulla carta, nella propria messa in pratica, il progetto socialista di economia programmata si è burocraticamente inquinato in una sequenza di contraddizioni, che -di fatto- hanno generato qualcosa che possiamo anche definire economia dell’assurdo del senso comune. Con questo, prima dello specifico fotografico, ci sia consentito di osservare che le teorie del pensiero socialista appartengono ormai e comunque a un tessuto collettivo stratificato an-
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Urss addio Produzione fotografica di Krasnogorsk (1946-1988) Apparecchi Apparecchio Moskva Zorki Zenit Start FT-2 Mir Junkor Drug Iskra Kristall Narciss Fotofucile Horizont Foton (*) Zenit commemorative
Modelli in produzione 5 13 26 1 1 1 1 1 2 1 1 3 1 1 5
Totale
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Periodo 1946-1960 1948-1980 1952-1988 1958-1964 1958-1965 1959-1961 1959-1962 1960-1962 1960-1964 1961-1962 1961-1965 1965-1988 1967-1973 1969-1976 1979-1986
Quantità 519.746 4.928.678 10.656.666 76.503 16.662 156.229 168.836 23.702 44.840 65.433 10.939 199.307 49.849 1.839 414 16.919.643
(*) Ufficialmente, non sono mai stati specificati modelli diversi, ma noi siamo a conoscenza di più versioni Foton; dunque, accreditiamo il resoconto ufficiale, pur riferendo anche la nostra esperienza personale.
che nel mondo occidentale. Coniugare il profitto, che è condizione base del capitalismo, con la crescita culturale della società e dell’individuo è ormai un obbligo al quale nessuno dovrebbe più sottrarsi... se non che! Burocrazie a parte, la cui disamina servirebbe per capire dove e come sono nate tante incoerenze (anche fotografiche), apparentemente inspiegabili, l’ufficialità della fotografia sovietica è scandita da date e dati oggettivi. Anzitutto, rileviamo che il marchio indiscutibilmente più noto, quello della reflex Zenit, è nato nella fabbrica di Krasnogorsk, alle porte di Mosca, che è la terza tra le produzioni fotografiche avviate in Unione Sovietica. La prima fu edificata alla fine degli anni Venti, a Leningrado (l’antica Pietroburgo e l’attuale San Pietroburgo): nel corso del tempo, l’originale marchio Gomz si è evoluto fino all’odierno Lomo. Poco dopo, nel 1932, a Kharkow, iniziò la produzione delle 35mm a telemetro Fed, una delle versioni sovietiche della Leica. La fabbrica ottica di Krasnogorsk ha cominciato a dedicarsi alla fotografia dopo la Seconda guerra mondiale: la sua originaria Moskva-1 è del 1946 e gli altri suoi marchi ampiamente noti si riferiscono alle famiglie Zorki e Zenit (oltre alla recuperata Horizon, nata Horizont, panoramica a obiettivo rotante). Nella stessa seconda
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metà dei Quaranta, partì anche la grande unità produttiva di Kiev, marchio omonimo, che nel corso dei decenni ha attivamente partecipato al programma spaziale sovietico. Assolutamente più recente, storia da anni Settanta, è la fabbrica di Vileika, sobborgo di Minsk, che ha portato a cinque le produzioni fotografiche sovietiche, che negli anni si sono anche arricchite di una decina di unità satellite, destinate alla produzione e assemblaggio di parti ottiche, obiettivi completi e accessori.
KRASNOGORSK Non a torto, la Zenit-E è indiscutibilmente il più noto tra gli apparecchi fotografici prodotti negli anni a Krasnogorsk, una delle cinque industrie di settore dell’Unione Sovietica. Per molto tempo, nella fabbrica principale di Krasnogorsk, a venti chilometri dal centro di Mosca, si sono prodotte circa cinquecentomila macchine fotografiche all’anno, e sono stati assemblati cinquantamila obiettivi intercambiabili: in questa realtà industriale, la Zenit-E è arrivata al ragguardevole valore di oltre tre milioni di pezzi totali. Assieme alla fabbrica di Kiev, oggi in Ucraina, dove sono nate le omonime reflex 24x36mm e 6x6cm, Krasnogorsk può essere considerata al vertice della programmazione fotografica in Unione Sovietica.
Per una serie di circostanze assolutamente favorevoli, da tempo, siamo in possesso di una sintesi ufficiale -fornitaci nientemeno che da Alexander Goyev, nel frattempo mancato, per decenni direttore della fabbrica-, che riassume numericamente la produzione fotografica di Krasnogorsk, a partire dal 1946, anno ufficiale di fondazione (anche se le origini ottiche affondano in epoca antecedente la Seconda guerra mondiale). Dal 1946 fino al 1988, la sequenza delle cifre racconta l’essenza di una industria fotografica, con l’evidenza propria delle quantità che esprime. Sulla tabella originaria, dalla quale recuperiamo estratti significativi alla nostra odierna narrazione (a pagina 61 e qui accanto), l’insieme è sistematicamente suddiviso nelle proprie componenti fondamentali. Per ogni apparecchio fotografico, sono precisate le cifre degli anni della sua produzione: quantità annuali e totale dei pezzi prodotti nel tempo. La tabella originaria riporta anche il conteggio produttivo annuo complessivo, durante il quale diversi apparecchi possono aver occupato le linee di montaggio; ovviamente, oltre alla suddivisione annuale, non manca la quantificazione produttiva riferita al relativo piano quinquennale dell’economia sovietica programmata. La consultazione della tabella completa, dalla quale -in estratto ragionato- abbiamo ricavato le nostre sintesi (a pagina 61 e qui accanto), consente una serie di valutazioni, che riportiamo. A partire da un valore assoluto: dal 1946 al 1988, a Krasnogorsk, sono stati prodotti quasi diciassette milioni di apparecchi fotografici; 16.919.643, per l’esattezza. L’anno record è stato il 1980, i cui seicentosettantasettemila e settecento trentatré pezzi prodotti (677.733) sono arrivati al culmine del decimo piano quinquennale (1976-1980, appunto, che raggiunse la quota produttiva di 3.214.373 apparecchi fotografici), durante il quale la produzione non è mai scesa sotto i seicentomila apparecchi: punta minima seicentoundicimila ottocento novantasei, nel 1977 (611.896). Nel corso degli anni Ottanta, quasi in stretta connessione con l’evoluzione politica avviata dalla perestrojka, la spinta propulsiva innescata nella seconda metà dei Settanta è andata affievolendosi: dopo i primi due anni sul livello di
Urss addio In sintesi e oltre: tra le diverse scomposizioni che si possono realizzare, a partire dalla quantificazione globale della produzione fotografica di Krasnogorsk, fabbrica sovietica alle porte di Mosca, una riguarda il riassunto degli apparecchi fotografici messi a punto negli anni (pagina accanto) e l’altra i valori annuali della produzione (a pagina 61). Incredibilmente, tra le righe, traspare l’essenza di una industria che si rivela sostanzialmente ignota al mondo occidentale, nel quale sono conosciuti e riconosciuti soltanto pochi degli apparecchi fotografici sovietici prodotti nei decenni.
più di seicentosettantamila apparecchi all’anno (670.000), si è presto scesi a meno di seicentomila (1983: 566.036) e a meno di quattrocentomila (1984 e 1985, rispettivamente 397.097 e 374.856). Da qui, la parabola è risalita, e -nella seconda metà degli OttantaKrasnogorsk ha viaggiato in una media di poco inferiore ai cinquecentomila apparecchi fotografici annui.
MODELLI Dalla prima Moskva-1 al prototipo della Zenit AM (in tempi antecedenti alla nota Zenit-122), a Krasnogorsk, sono stati ufficialmente conteggiati sessantatré apparecchi diversi. Come abbiamo anticipato in apertura, quantitativamente, la Zenit-E sovrasta di gran lunga ogni altro apparecchio fotografico. Dopo l’alto valore dei suoi oltre tre milioni di pezzi prodotti nel lungo arco di diciotto anni (3.334.540, dal 1965 al 1982), si segnalano le versioni Zenit-TTL e Zenit-11, che si sono rispettivamente fermate a 1.632.212 e 1.230.328 pezzi (attenzione, però: i valori sono conteggiati fino al 1988, quando ancora la Zenit-11 era in produzione; dunque, è lecito supporre che la sua cifra sia stata incrementata negli anni seguenti... forse). Sopra il milione di pezzi, c’è anche la Zorki-4 (19561973): 1.715.677.
Quantità a parte, che per dovere di cronaca abbiamo esteso alla somma tra le diverse versioni dello stesso apparecchio fotografico (tipo il discorso della serie Zorki e della linea Zenit; pagina accanto), ciò che risulta curiosamente evidente è il numero degli anni in cui ogni apparecchio sovietico è rimasto in produzione. Record assoluto per la Zorki-4 e la Zenit-E, rimaste ambedue in catalogo per diciotto anni, in una situazione industriale nella quale la media globale e planetaria è stata comunque alta e la regola scese raramente sotto i sette anni, se non per i modelli sperimentali. Visto che Krasnogorsk non ha ancora confessato le sue copie Leica truffaldine dell’immediato dopoguerra -per l’appunto, identificate “Leica”-, che forse venivano prodotte altrove, comunque sul territorio dell’Unione Sovietica, qual è l’apparecchio fotografico sovietico più raro? Difficile da dire, perché la scelta si distribuisce su diversi nomi. Ufficialmente, un rifacimento commemorativo della Zenit-4 -originariamente prodotta dal 1964 al 1968- è stato confezionato in un pezzo unico nel 1984. Ma anche altre commemorazioni, tutte concentrate tra il 1979 e il 1984, si sono limitate a pochi esemplari: Zenit (del 19521956), duecentonovantadue pezzi (292); Zenit-2 (del 1955-1961, come Zenit-C), undici pezzi (11); Zenit-3 (del
La fabbrica sovietica di Krasnogorsk va ricordata anche per alcune produzioni oggettivamente fuori norma. La panoramica a obiettivo rotante FT-2 (a destra [ FOTOgraphia, maggio 1994]) è in qualche modo anticipatoria del successivo progetto Horizont-Horizon 202 [diverse le considerazioni in FOTOgraphia]; e la fantomatica Foton (a sinistra) è una macchina fotografica per pellicola polaroid a sviluppo immediato delle origini.
1960-1962), dieci pezzi (10); Zenit-6 (del 1964-1968), cento pezzi (100). Non molto comune, è -poi- la Foton, per pellicola polaroid a sviluppo immediato: milleottocentotrentanove pezzi nell’arco di otto anni di produzione discontinua, dal 1969 al 1976 (attenzione la sua quantità, 1839, riprende l’anno di nascita della fotografia: la forza del Caso!). E decisamente rara è -infine- una fantomatica Zenit-D, della quale furono prodotti soltanto sessantatré pezzi (venticinque, nel 1969, e trentotto, nel successivo 1970: e sessantatré è anche la quantità dei modelli di macchine fotografiche progettate e prodotte a Krasnogorsk fino al 1988!). Tra le tante cifre, molte delle quali in valori di migliaia, una curiosità sopra le molte possibili riguarda ancora una volta la Zenit-E, autentica star delle officine di Krasnogorsk. Nel 1982, suo ultimo anno ufficiale, ne fu prodotto un solo pezzo. La domanda è addirittura spontanea: perché? ❖ Le fotografie che accompagnano questo intervento redazionale sono state realizzate nell’ambito dell’unità produttiva di Krasnogorsk, dove sono stati fotografati i modelli conservati nel museo della fabbrica o nell’annesso museo pubblico della tecnologia fotografica. L’insieme da cui abbiamo ricavato gli esempi odierni ci è stato regalato dal(l’allora) direttore Alexander Goyev. Dunque, si tratta di illustrazioni ufficiali raccolte alla fonte.
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Non dimentichiamo (ancora) di Maurizio Rebuzzini (Franti)
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Promossa dalla figlia Alejandra, e consacrata da grandi mostre e acquisizioni da parte di importanti musei di Parigi, New York e Bogotá, oltre che da significative aggiudicazioni presso la prestigiosa casa d’aste Christie’s, nella seconda metà degli anni Novanta (del Novecento), si concretizzò una sostanziosa operazione di riscoperta della personalità fotografica di Leo Matiz, grande autore colombiano. Svolgendo la propria attività fotografica, e prima di essere soltanto fotografo, a partire dagli incarichi assegnatigli dai periodici El Tiempo, El Espectador e Estampa, nel 1939, come molte altre significative figure della cultura internazionale, Leo Matiz è stato anche altro: giornalista, illustratore, operatore cinematografico, gallerista, grafico pubblicitario e pittore. All’indomani di tutto questo, negli anni a seguire, è di nuovo sopraggiunto l’oblio internazionale, a certificazione ulteriore -se ancora ne avessimo bisogno- di due elementi concomitanti, negativamente concomitanti: da una parte, e predominante, l’impero della cultura americanocentrica, che tutto sovrasta; dall’altra, in aggiunta, le spire e i nodi della società dello spettacolo (al solito, e mai a sufficienza, da e con Guy Debord e Pino Bertelli; oltre che, in sottolineatura, sull’Editoriale di questo stesso numero, da pagina sette). Per quanto possa servire, ma anche se non serve a molto, non ci tiriamo indietro, noi non dimentichiamo. E cerchiamo di non far dimenticare. Del resto, ricordare è un dovere individuale e un diritto collettivo. Sempre. Da cui... eccoci qui. Attraverso i continenti, e volando sui decenni, Leo Matiz è stato testimone oculare e partecipe di molte vicende del nostro tempo. A Bogotá, inviato da Life alla prima conferenza Panamericana del dopoguerra, dopo aver conosciuto un giovane ventiduenne con baffi da ballerino di tango («Mi chiamo Fidel Castro. All’Avana, ho qualche problema...»), rimane coinvolto nell’attentato al leader contadino Jorge Eliécer Gaitán. Ferito, le gambe e un polmone trapassati dalle pallottole, prima
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LEO MATIZ
di essere trasportato in ospedale, riuscì comunque a documentare la vicenda. Proprio questo spirito e il coraggio dimostrato a Bogotá gli valsero altri incarichi in situazioni calde; a partire dalla
Leo Matiz in un ritratto di Javier Sampietro, dell’estate 1995 (dettaglio da inquadratura orizzontale originaria).
Sequenza di Leo Matiz fotografato con la propria attrezzatura da studio, dispiegata nella galleria d’arte allestita a Bogotá, capitale della Colombia, negli anni Cinquanta del Novecento.
Palestina, dove fu inviato con un doppio ruolo, di fotografo e osservatore delle Nazioni Unite. Appena dimesso dall’ospedale di New York, dove era stato ricoverato
Non dimentichiamo (ancora) dopo l’attentato di Bogotá, raggiunge il medio oriente. In Palestina, una sera, la sua auto segue quella di Folke Bernadotte, il conte svedese che svolge un illusorio ruolo di mediatore tra arabi e israeliani. Il 17 settembre 1948, Folke Bernadotte, Leo Matiz e altri membri della delegazione internazionale stanno tornando a Gerusalemme, dopo il tè alla menta nella piccola reggia di Abdullah, nonno di Hussein. Quando il
corteo sta traversando il posto di blocco israeliano, un soldato si avvicina al mediatore svedese: «Tu rappresenti l’Onu?», ricorda Leo Matiz, che aveva in mano la Leica per fermare ogni gesto. «Lo rappresento...», e Folke Bernadotte cade sotto i colpi dei terroristi della famigerata Banda Stern (Lohamei Herut Israel / Combattenti per la Libertà d’Israele, organizzazione paramilitare di origine sionista; suggeritori
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Non dimentichiamo (ancora)
più che verosimili Menachem Begin, Yitzhak Shamir e altri: i soliti terroristi, che poi vengono definiti altrimenti, se e quando vincitori; nel 1978, a Begin è stato anche conferito il Premio Nobel per la Pace). Continuano gli spari: uno taglia la guancia di Leo Matiz. Nato a Aracataca, la Macondo nella quale Gabriel García Márquez cresceva nella casa della nonna che parlava con i morti, il Primo aprile 1917, Leo Matiz è mancato il 24 ottobre 1998, a ottantuno anni. L’anno precedente, nella primavera 1997, per la celebrazione del suo ottantesimo compleanno, il leggendario caffè fiorentino Giubbe Rosse, di piazza della Repubblica, offrì le proprie pareti a una mostra che ne ripercorse tutta la parabola esistenziale. Testimoni oculari, testimoni partecipi, lo ricordiamo bene. Nella sua accidentale realizzazione, la combina-
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Leo Matiz: Otturatore; Messico, 1945.
(in alto, a sinistra) Leo Matiz al lavoro in Messico, nel 1945, con una “Press” 4x5 pollici a mano libera.
(in alto) Leo Matiz nel suo atelier fotografico in Messico, nel 1944.
zione Leo Matiz - Giubbe Rosse fu addirittura straordinaria ed eroica. Mise assieme uno dei testimoni della cultura internazionale, amico e compagno dei pittori centro-sudamericani degli ultimi decenni, con uno dei luoghi principi della cultura italiana. Giubbe Rosse è stato il caffè fiorentino dei futuristi, negli anni incendiari 1913-1915 (cantato in una rievocazione di Alberto Viviani, appunto Giubbe Rosse, pubblicato da Barbera, nel 1933, e ristampato da Vallecchi Editore, nel dicembre 1983); e, poi, è stato il caffè letterario degli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale: Elio Vittorini, Eugenio Montale, Tommaso Landolfi, Carlo Emilio Gadda, Carlo Bo, tra i tanti. Note critiche esaurienti e riferimenti biografici completi sull’opera e la vita di Leo Matiz -del quale, in tempi lontani, in momenti anticipatori della espressività dell’autore italiano oggi
celebrato (anche da chi, allora, lo ignorava o disdegnava e disprezzava, addirittura), abbiamo pubblicato un ritratto eseguito da Maurizio Galimberti [FOTOgraphia, maggio 1995]- si possono rintracciare in tre volumi di editi a cavallo del Novecento. Pubblicato da Electa, in occasione dell’antologica allestita a Parigi, nella primavera 1995, il volume-catalogo Leo Matiz - L’Objectif Magique (Leo Matiz - El lente mágico) è redatto con testi in francese e spagnolo: novanta fotografie; centocinquantadue pagine 25x28cm. Dopo di che, va segnalata la monografia Leo Matiz. Fotografie (Art Studio Edizioni; Milano, 1992; 144 pagine 24x30cm, cartonato con sovraccoperta). Quindi, nel 2000, De Luca Editori d’Arte realizzò la raccolta Leo Matiz. L’occhio divino, a cura di Silvana Turzio: centoventi pagine 22x22cm. Noi non dimentichiamo. ❖
MAURIZIO REBUZZINI
25 luglio 1917•2017
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