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ANNO XXVI - NUMERO 255 - OTTOBRE 2019
In dodici esemplari DALLA LUNA. ANCORA!
Bernardo Bellotto CHE LEZIONE!
CLAUDIO AMADEI IN DEEP... OGGI. COME IERI!
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prima di cominciare
GRETA THUNBERG (FOTOGRAFIA DI PETER LINDBERGH / VOGUE UK )
BUONECOSE. Tutto ha inizio con lo sciopero a livello mondiale degli studenti, collegato con il discorso di Greta Thunberg, nel Palazzo delle Nazioni Unite, a New York, lunedì ventitré settembre. Lo sciopero, il global strike -il terzo Fridays for Future del 2019-, è stato indetto per venerdì mattina, ventisette settembre. Molti studenti italiani aderiscono, e anche alcune università aderiscono... gli atenei di Napoli (il Federico II), Perugia e Palermo. Anche al Politecnico di Milano, sulla lista PD (Personale Docente), si è aperto un dibattito. Alcuni colleghi proponevano l’adesione, altri facevano notare che venerdì ventisette settembre le lezioni erano già sospese per le lauree (e rinviare le lauree, a pochi giorni dalla data prevista, è una missione impossibile). Alcuni, pochi per fortuna, si spingevano ad asserire che Greta Thunberg è una sciocchina (sic!), marionettinata da chissà chi (Belzebù, mi chiedo io?). Un prezioso contributo al dibattito è stato portato dal collega Giancarlo Gioda, sempre molto brillante, acuto e graffiante con i suoi commenti che accompagnano i dibattiti sulla lista PD. In questa occasione, il professor Gioda ha offerto un suo ricordo giovanile, così straordinario, che ho proposto a Maurizio Rebuzzini, in veste di direttore, di offrirlo anche ai lettori di FOTOgraphia. Ricevuto il via libera da Giancarlo, mi onoro di presentarlo qui [in centro Sommario]. A proposito di Greta Thunberg, se non avete sentito il suo discorso all’Onu, vi suggerisco di andarvelo a sentire al sito https://video. repubblica.it/dossier/proteste-clima/greta-thun berg-all-onu-lacrime-di-rabbia-contro-i-lea der-mondiali-mi-avete-rubato-i-sogni-e-l-infan zia/344269/344852?ref=vd-auto&cnt=1. Altro che «Vieni avanti gretina», del patetico Vittorio Feltri, sul quotidiano Libero, il diciotto aprile scorso [a pagina 8, di questo stesso numero]. Lello Piazza
Cari PD, le considerazioni sulla manifestazione ambientalista del prossimo venerdì, quello delle lauree, m’hanno ricordato un episodio di quand’ero bimbetto. Se avete tempo da perdere, ve lo racconto. A quel tempo, mio padre aveva lavoro in un cantiere situato nel casertano. Una famiglia di mezzadri del circondario gli aveva dato alloggio. Anche mia mamma ed io passammo parecchio tempo in quella cascina. Non v’era elettricità. La sera, accendevano le lampade ad acetilene. L’acqua la si prendeva dal pozzo della villa dei padroni. L’unico oggetto tecnologico era una (per me, sorprendente) radio a galena, il cui funzionamento, ovvio, non richiede energia elettrica. Il patrimonio della famiglia di mezzadri era costituito da due vacche e due maiali, oltre a qualche gallina e oca. I maiali passavano il tempo a grufolare nel loro recinto, parte del quale era occupato da un grande e basso trogolo di pietra. Una volta al giorno, il mezzadro scendeva al cantiere con il carro, trainato dalle due vacche. Caricava sul carro un bidone, di quelli usati per la nafta, nel quale erano stati versati gli avanzi della mensa e la rigovernatura delle stoviglie. Tornato alla cascina, versava il contenuto del bidone nel trogolo, affinché i maiali se ne cibassero. Il pasto dei maiali aveva un aspetto singolare. Prima, entravano nel trogolo con le zampe anteriori. Poi, forse per meglio raggiungere un pezzo di pane o una buccia di patata, entravano anche con quelle posteriori. A questo punto, i maiali, ben piazzati entro il loro pasto, avevano l’abitudine di defecarvi e orinarvi. Al termine del pasto, il trogolo era vuoto. In altre parole: i maiali ingurgitavano anche i propri escrementi. Questo non piacevole ricordo ha ben più di sessant’anni. Oggi, i maiali sono allevati in altro modo, ma quella loro abitudine sembra sia stata acquisita dagli esseri umani. Voglio dire che noi lordiamo con ogni tipo d’escrementi l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’ambiente nel quale viviamo. Se qualcuno ci disturba in questa convinta e diuturna azione, ci comportiamo come si comportavano quei maiali quando, infastiditi, grugnivano, scrollavano la groppa e continuavano a ingurgitare e a defecare nel loro cibo. Un ultimo ricordo. Arrivato che era l’inverno, uno dei maiali veniva sgozzato e macellato. Chissà cosa capiterà a noi, considerando che l’inverno che ci stiamo costruendo non appare tanto lontano. Buonecose. Giancarlo Gioda (Professore Ordinario, Politecnico Milano)
OTTOBRE 2019
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
Copertina Ritorno a un progetto di Claudio Amadei. Da pagina 26
Anno XXVI - numero 255 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
3 Altri tempi (fotografici) Annuncio pubblicitario Ippolito Cattaneo, del 1929
7 Editoriale Libri e altro nel senso di “Archivio FOTOgraphia”
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Filippo Rebuzzini
CORRISPONDENTE Giulio Forti
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
8 I diversi attorno a noi In compagnia di Greta Thunberg e R. Buckminster Fuller
12 Camera oscura (?) Penniwit, l’artista, da Antologia di Spoon River
15 Robert Frank, e non solo Ricordiamo Peter Lindbergh, Robert Frank e Charlie Cole
18 Brooks... Veriwide Nella e dalla scenografia di Ghostbusters II Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
20 Commissione Warren Relazione giornalistica in Life, del 2 ottobre 1964
22 Pellicole di un tempo Parole sul gesto in raccolta fotografica di Vittorio Jannello di Antonio Bordoni
26 In Deep. Il ritorno Superato il Tempo, conferma d’Autore... Claudio Amadei
34 Vedutismo... e altro, ancora Bernardo Bellotto, in pretesto di altri approfondimenti di Maurizio Rebuzzini
40 Solo dodici!
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Claudio Amadei Antonio Bordoni Giulio Cerocchi mFranti Angelo Galantini Giancarlo Gioda Enzo Jannacci Vittorio Jannello Grazia Neri Silvana “Dora” Petrelli Lello Piazza Marco Saielli
Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 1027671617 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard e PayPal (graphia@tin.it). ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Eccezzionalità bibliografica: Lunar Rock Edition di Angelo Galantini
48 Gli “sporchi” Sox Le World Series di cento anni fa. E, poi, Fausto Coppi
51 La fotografia Parole di altri: Enzo Jannacci
www.tipa.com
Attrezzature fotografiche usate e da collezionismo Specializzato in apparecchi e obiettivi grande formato
di Alessandro Mariconti
via Foppa 42 - 20144 Milano - 331-9430524 alessandro@photo40.it
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editoriale GIULIO CEROCCHI
L’
avete notato? Avete osservato che, molto spesso, creditiamo ad “Archivio FOTOgraphia” una sostanziosa quantità e qualità di libri citati e riviste richiamate all’interno dei nostri articoli, là dove li visualizziamo con didascalia a commento? Per conseguenza diretta (e inevitabile, forse), avete preso in considerazione l’estensione ed eterogeneità di questo fatidico “Archivio”? Che qui, nei nostri spazi operativi, siano conservati e custoditi titoli fotografici essenziali è più che scontato. Però, in aggiunta, sono state raccolte e ordinate anche altre/tante testimonianze, che noi iscriviamo a quel motto di s-punto privilegiato di osservazione, che assegniamo al nostro modo personale di intendere la Fotografia e l’occuparsi di Fotografia. Per esempio, dallo scorso settembre, richiamiamo la visualizzazione della copertina del numero Uno del singolare periodico statunitense Prison Life, con il famigerato Charles Manson. Lo acquistammo a New York, nel dicembre 1990, per curiosità personale e in merito a una ipotizzabile fenomenologia latente, ed è rimasto qui fermo e tranquillo per ventinove anni, pronto per essere utilizzato in caso di necessità, Per l’appunto, ci è parso adeguato a complemento della vicenda dell’assassinio dell’attrice Sharon Tate, nel cinquantenario di date: agosto 1969-2019. In buona e sostanziosa compagnia, questo Prison Life non è un caso unico e casuale, ma aderisce a pieno diritto a una nostra impostazione di fondo e princìpio che, oggi, ci consente di attingere a fonti/accompagnamenti/testimonianze sostanziose, sostanziali e prelibate, che compongono i tratti di una fastosa ossatura redazionale/giornalistica, unica nel proprio genere e nei propri contenuti. A questo proposito. nell’articolazione cadenzata della commemorazione del cinquantenario dall’epocale allunaggio di Apollo 11 [FOTOgraphia, luglio 2019], con finalità equivalente e rivolgendoci verso chi di dovere, invitammo a una “competizione”: «e ora, provatevi voi a realizzare un numero di rivista (fotografica) altrettanto autorevole e competente». Buttiamola lì: lo stesso, siamo consapevoli di poterlo affermare per ogni edizione, per ogni numero di FOTOgraphia (rivista poco di Fotografia e tanto d’altro), questo attuale compreso, sempre compilato con materiali originali, sia nella propria visione, sia nella conseguente passerella. Rileviamolo con sincerità, e voi lasciate nel piatto eventuali interiora di sapore sgradevole (provocate da errata interpretazione delle nostre parole a seguire): dopo averla affrontata per l’impegno impersonale che richiede e pretende la sua lavorazione, una volta stampata, ogni edizione di FOTOgraphia ci appassiona come se non fossimo stati noi a confezionarla... e troviamo argomenti inattesi che ci affascinano e convincono. Tanto che saremmo disposti ad abbonarci, per poterla seguire, mese dopo mese. I libri del nostro Archivio non sono/stanno qui per propria bellezza asettica, ma esistono insieme a noi e per noi. Ed è questo rapporto di andata-e-ritorno che ne determina il fascino e “valore”. È il loro essere vivi che ci ha consentito di esistere per ciò che diciamo e in base di ciò che pensiamo. Fatti non siam! Maurizio Rebuzzini
Il silenzio della parola, il rumore della carta è un’opera di Giulio Cerocchi che attraversa Tempi e Spazi dell’Esistenza individuale. Qui, in semplicità banalizzante (e chiediamo scusa all’autore), finalizziamo alla nostra meta odierna, per certi versi trasversale. Comunque, anticipiamo e assicuriamo che Giulio Cerocchi sarà presto sulle nostre pagine, proprio a partire da questo Il silenzio della parola, il rumore della carta. A risentirci.
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Visioni dissimili
di Maurizio Rebuzzini (Franti), con contributi/apporti non rivelabili
I DIVERSI ATTORNO A NOI «Ci avete ignorato in passato, e continuerete a farlo. Siete rimasti senza scuse, e noi siamo rimasti senza più tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no»
S
Subito concordiamo (?) con certo giornalismo italiano (laddove e là quando l’identificazione “giornalismo” ha ormai abbandonato e perso ogni propria caratteristica programmatica), che ha preso di mira la sedicenne svedese Greta Thunberg, a furor di popolo paladina del Pianeta, all’indomani del suo intervento all’Assemblea dell’Onu sul clima, lo scorso ventitré settembre, al culmine di una quantità e qualità di sue precedenti esternazioni: «Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia». Conveniamo (?) con quanti l’accusano di agire come influencer dei nostri tempi: ma questi sono i nostri tempi (peraltro, chi l’ha accusata di questo, intendendo rilevarne un comportamento negativo, nel proprio agire, sogna di esserlo, a propria volta, e agisce per esserlo; a proposito, riflettendone, dobbiamo rivelare di non avere alcuna nostra frequentazione individuale social: diciamo quello che pensiamo e agiamo per quanto diciamo e pensiamo). Ancora, convergiamo verso coloro i quali hanno sottolineato che Greta Thunberg rimarca solo opinioni comuni a molti: ma lei lo fa, evidenziamo noi. In ogni caso, dà voce a chi non l’ha; dà voce a chi subisce danni del/dal mutamento climatico indotto, senza averlo provocato: vogliamo dirlo?, è ambasciatrice dei senzavoce, soprattutto in dimensione di innocenza (bambini?).
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GRETA THUNBERG (FOTOGRAFIA DI PETER LINDBERGH / VOGUE UK [SU
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
QUESTO NUMERO, A PAGINA
15])
Greta Thunberg (anche, in FOTOgraphia, del giugno 2019)
Che poi si stia anche proponendo per un inevitabile Premio Nobel alla Pace -l’unico per il quale non siano richieste competenze specifiche, invece indispensabili (speriamo) per lo stesso riconoscimento alla Medicina, alla Fisica, alla Chimica...-, è questione quantomeno secondaria, e neppure tanto nobilitante; a ritroso: 1994, a Yasser Arafat (1929-2004; figura politica palestinese quantomeno discutibile, quantomeno dal punto di vista della Pace); 1976, a Menachem Wolfovitch Begin (19131992; per sei anni Primo ministro israeliano); 1973, a Henry Kissinger (1923; tra il 1969 e 1977, famigerato Consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di stato sotto le presidenze statunitensi di Richard Nixon e Gerald Ford); 1953, a George Catlett Marshall (1880-1959; generale e politico statunitense, artefice del piano di aiuti all’Europa, all’indomani della Seconda guerra mondiale, anche per scopi di controllo delle politiche nazionali dei paesi “soccorsi”); e tanto altro, a sostegno e supporto di politiche quantomeno invasive e menzognere.
PRECONCETTI Altrettanto presto, e ancora subito, dissentiamo da molto: magari, a partire dal titolo su nove colonne del quotidiano italiano Libero (clamoroso ossimoro), di giovedì diciotto aprile scorso [ricorrenza temporale significativa: «Vi ricordate quel diciotto aprile (1948; prime elezioni politiche della Repubblica) / d’aver votato democristiani / Senza pensare all’indomani / a rovinare la gioventù», di Lanfranco Bellotti]: «Bergoglio in Vaticano: “Vieni avanti Gretina” / La Rompiballe va dal Papa». E qui, e ora, potremmo anche sorridere, se non che non c’è motivo per farlo. Ammesso, ma non concesso, che siano ancora legittime suddivisioni tra “destra” e “sinistra”, nel nostro paese, co-
Visioni dissimili «Mio padre [...] voleva essere un Uomo libero. Sosteneva che nessun Uomo può possedere la Terra, e che -quindinon può vendere quello che non possiede» Chief Joseph, condottiero della tribù dei Nez Percé, che abitavano l’Altopiano del Columbia, nell’area centrale dell’odierno stato federale dell’Idaho e in una parte degli stati di Washington e Oregon, negli Stati Uniti d’America (dal discorso di sottomissione pronunciato il 14 gennaio 1879, nella Lincoln Hall, di Washington DC, davanti a un’assemblea di deputati, diplomatici e dignitari)
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
me nel mondo, va rilevato che chi si colloca esplicitamente a “destra” ha un curioso atteggiamento con la Vita: spesso, antepone il risultato da (voler) raggiungere alla condizione matematica per raggiungerlo. Tra i tanti esempi al proposito, è emblematico e significativo quello del giornalista Mario Giordano, anche conduttore di un programma televisivo (Rete 4). Da destra, è palese e dichiarato, è seguace della teoria secondo la quale la “scienza” sarebbe di sinistra, e che gli scienziati sarebbero allarmisti e disfattisti per partito preso. In questa declinazione, lo scorso inverno ha condotto una sua puntata televisiva esprimendo la teoria che non è vero che, per colpa dell’Uomo, quantomeno di quelli avidi e indifferenti agli Altri, si starebbe verificando una pericolosa alterazione del clima, in forma di surriscaldamento della Terra. Tanto è vero, in sua motivazione, che in quei giorni il (micro)clima di Bolzano era di tre gradi inferiore alla media stagionale; e lo stesso ha riferito per altre città italiane. Per sua intenzione, il garbuglio volontario tra microclima quotidiano e clima assoluto ha adottato una formula matematica adatta al prodotto precostituito (previo, poi, ignorare gli allarmi lanciati dagli scienziati, che rivelano lo scioglimento di iceberg artici, che certificano che una grossa porzione del ghiacciaio di Planpincieux, sul versante italiano del Monte Bianco, minaccia di precipitare a valle [approfondiamo più avanti]). Ancora, in tempi più recenti, in pre-risultato in difesa del Muro che il presidente statunitense Donald Trump sta erigendo a sud del paese, in difesa fisica dall’immigrazione dal Messico, un’altra formula matematica giustificativa: «I muri e le barriere sono simbolo di civiltà... per esempio, la Grande Muraglia cinese [che lui definisce “Lunga Muraglia”, ma va bene lo stesso / in edificazione dal 215 aC, nell’ambito di una unificazione territoriale a scapito di imperi in perenne conflitto tra loro]; per altro esempio, il Vallo di
Francobollo commemorativo di R. Buckminster Fuller (1895-1983) emesso dalle poste statunitensi il 12 luglio 2004, in data di sua nascita [curiosamente, almeno per quanto ci riguarda, questa emissione è arrivata cinquanta anni dopo di quella che fu riservata a George Eastman (12 luglio 1954)]. Commemorazione del personaggio e dei suoi contributi nel campo dell’architettura e della scienza. Sono presenti alcune delle sue invenzioni. La sua testa è a forma di cupola geodetica, e si riconosce la Dymaxion Car, insieme a un impianto radar.
Adriano [dal 128 dC]». Forse, nell’elenco di “civiltà moderne”, potrebbe starci anche il Muro di Berlino, dal 13 agosto 1961!
DIRE... PER FARE Comunque, è vero e sacrosanto: la sedicenne svedese Greta Thunberg esprime sostanziose banalità... ma le esprime! Ma induce a riflettere! Ma, riconducendo a nostri princìpi, osserva, piuttosto di giudicare e pensa, invece di credere! Personalmente, siamo convinti che le lezioni di Vita ed Esistenza possano arrivare da mille e mille fonti, molte delle quali insospettabili. Certo, ci sono autorevoli sorgenti preposte (libri, filosofie, percorsi accademici...), ma possiamo abbeverarci anche da zampilli impensabili e imprevedibili, che si manifestano attorno a noi. Da e con Francesco Guccini (E un giorno..., nell’album Stagioni, del 2000): «E un giorno ti svegli stupita e di colpo ti accorgi / che non sono più quei fantastici giorni all’asilo / di giochi, di amici, e se ti guardi attorno non scorgi / le cose consuete, ma un vago e indistinto profilo / [...] / Poi un giorno in un libro o in un bar si farà tutto chiaro, / capirai che altra gente si è fatta le stesse domande, / che non c’è solo il dolce ad attenderti, ma molto d’amaro / e non è senza un prezzo salato diventare grande». Già: «Poi un giorno in un libro o in un bar si farà tutto chiaro». Già: o in un bar! Nella sceneggiatura dell’episodio Fashionable Crimes (Crimini alla moda, diventato Scatti proibiti, in Italia), della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit [per altri versi, commentato in FOTO graphia, del settembre 2017], si racconta di molestie sessuali perpetuate dal fotografo Alvin Gilbert ai danni delle proprie modelle, per la cui sostanza, nonostante avvertimenti del caso (“Eventi e persone rappresentati in questa storia sono frutto di fantasia”), abbiamo già rilevato un evidente parallelo con le vicende, anche giudiziarie, del fotografo Terry Richardson [FOTO graphia, maggio 2010].
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Visioni dissimili A integrazione, secondo i critici e i fan, la parte migliore dell’episodio riguarda il ritorno/cameo di Richard Belzer, nei panni dell’amato sergente John Munch, da tempo in pensione. Compare solo in tre scene, ma conclude l’episodio, in figura di baby-sitter di Noah, il figlio adottato del tenente Olivia Benson, nell’interpretazione della convincente Mariska Hargitay (anche produttrice della serie; in misura di società dello spettacolo, figlia di Jayne Mansfield, attrice e sex symbol negli anni Cinquanta, e dell’ungherese Mickey Hargitay, Mister Universo 1995). In questa occasione, John Munch insegna a Noah l’interrogativo “perché?”... come scuola di Vita. A memoria, chiacchierando con il tenente Olivia Benson, che tiene Noah tra le braccia: «Oggi, ho impartito a Noah una fondamentale lezione di vita: contestare sempre l’autorità» / «E come si fa?» / «Noah... fai sentire il tuo “perché?”» / «Perché?» / «Mi ringrazierai, quando diventerà un ateo ostile a ogni dogma».
DOMANDE Prima di tornare a Greta Thunberg [anche a pagina 4 e da pagina 15, su questo stesso numero], una ulteriore riflessione a proposito dello slittamento del ghiacciaio di fronte a Courmayeur, in provincia di Aosta, ai piedi del Monte Bianco. Il fenomeno della Natura, per quanto non naturale, è percepibile a occhio nudo, a differenza dei mutamenti millenari della Terra. Non siamo in grado di capire quali siano le ragioni meccaniche, fisiche e chimiche che provocano questo movimento. I ghiacciai sono sempre in movimento: la nuova neve che si deposita ogni inverno ne appesantisce la massa, e questo peso spinge verso valle le propaggini. Ma non certo cinquanta centimetri al giorno! Questo spostamento “enorme” è sicuramente legato all’Antropocene, per citare una visione della quale abbiamo appena scritto [lo scorso giugno]. Comunque, i primi crolli di ghiaccio dalle Grandes Jorasses presuppongono il rilascio di oltre duecentocin-
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quantamila metri cubi di seraccata che rischia di precipitare sulla Val Ferret, sopra Courmayeur. Sarebbe notizia da prima pagina, invece dei richiami a politici (saltimbanchi) di giro, lotte di correnti del circolo della briscola e contorni. Invece, è relegata in pagine interne, peraltro a piede di pagina. Anche per questo... questo è il nostro paese! Nello scambio, anche giornalistico tra chi racconta e chi riceve, in alterazioni di ruoli a favore della propria notorietà personale, ci sono troppe notizie svolte come aneddoti bizzarri, utili per ignorare le sostanze. La scortese ironia “contro” Greta Thunberg, colpevole soprattutto di non stare zitta [e noi abbiamo ospitato sue considerazioni in FOTOgraphia, dello scorso giugno, in allineamento con il fantastico e coinvolgente progetto fotografico Anthropocene, del canadese Edward Burtynsky], nasconde, certamente, la paura: paura della propria complicità connivente con coloro i quali sono responsabili dell’attuale Antropocene, per l’appunto.
STIAMO CON FULLER Del resto, soprattutto in Italia, ma perfino altrove, anche le visioni, i sogni e le previsioni di R. Buckminster Fuller (Richard Buckminster Fuller; 1895-1983: inventore, architetto, designer, filosofo, professore alla Southern Illinois University, scrittore e conduttore televisivo statunitense, con personalità allineabile a quella di Leonardo da Vinci... del Ventesimo secolo, e non stiamo scherzando) sono state derise e ignorate e denigrate. Lasciamo perdere il suo avveniristico progetto della Dymaxion Car, automobile a dieci posti, sicura e con sterzo (posteriore) adatto anche a piccoli raggi... degli anni Trenta del Novecento. Però, a ben vedere, non soprassediamo sulla Dymaxion Philosophy, estesa anche in edilizia, con la Dymaxion House, una casa ad alta efficienza energetica che non è mai entrata in produzione. Uno degli agglomerati così concepiti, e costruiti da R. Buck-
minster Fuller è in esposizione permanente presso l’Henry Ford Museum, di Dearborn, in Michigan. Progettato negli anni Quaranta del Novecento, questo prototipo è una struttura sferica (non una cupola), sagomata analogamente alla campana delle meduse. Per ridurre il consumo d’acqua, è dotata di una doccia a nebbia sottile; e, a seguire, contiene altre innovazioni funzionali nel mobilio e nell’impiantistica, come la cupola superiore rotante, per sfruttare i venti naturali per il condizionamento. La struttura della casa fu progettata per essere consegnata in due contenitori cilindrici, mentre gli arredi si sarebbero potuti acquistare da rivenditori locali. Insomma: usare e non sfruttare. Comunque, chi intendesse approfondire tanta e tale filosofia ha a disposizione il libro Manuale operativo per Nave Spaziale Terra, ovviamente di R. Buckminster Fuller, pubblicato da Il Saggiatore, la scorsa estate 2018, semplificato in Astronave Terra da coloro i quali sanno di cosa si tratti. L’eclettico genio ha riunito decenni di riflessioni sul futuro dell’Umanità. Messaggi lanciati nello spazio, progetti avanguardistici, profezie destinate a realizzarsi negli anni a venire, che rispondono a domande sempre più urgenti: come sopravvivremo alle crisi che stanno sopraggiungendo? come risolveremo i problemi più critici, l’inquinamento, la povertà? Dagli albori della civiltà, i Sapiens hanno dovuto specializzarsi in occupazioni e conoscenze sempre più vaste, dalla scarna illuminazione di una grotta di pochi metri al governo di un regno o di un impero, dalle precarie tecniche di caccia e allevamento a quelle di produzione industriale. Il fascino della conquista ha donato agli abitanti della Terra re, inventori, artisti, mostri, scienziati destinati a possedere un’immaginazione straordinaria e a inseguire sogni e incubi dell’esistenza, mentre miliardi di anonimi individui si sono perfezionati in un ruolo specifico per condurre gli ingranaggi del pianeta, penalizzato da risorse limitate.
Quando hanno scoperto il mare, i Sapiens si sono resi conto di quanto modesti fossero i territori fino ad allora esplorati, e una domanda infinita li ha spinti ad abbandonare il proprio status di pedoni, per conquistare, come Odisseo, nuove forme di paesaggio e sapienza. Molto più tardi, hanno capito che era possibile abitare anche il Cielo, i Pianeti, le Galassie, l’Universo. Davanti a tanta immensità, la vita del pianeta Terra è apparsa ancora più microscopica, la sopravvivenza più che mai minacciata dall’esiguità delle risorse. A guardarla dallo Spazio, la Terra è una sfera sospesa in mezzo a miliardi di altre. È una piccola nave (astronave?) che solca lo Spazio; l’Umanità è il suo Timoniere. Cosa dobbiamo fare noi, attuali Sapiens, perché questa navicella, oggi in avaria, resista all’inevitabile collasso? R. Buckminster Fuller mette in discussione il concetto millenario di specializzazione, chiede una rivoluzione progettuale e offre consigli sul modo in cui guidare questa nave spaziale verso un futuro sostenibile. Per farlo, afferma, è indispensabile distogliere il nostro sguardo dalla limitatezza del dettaglio e ammirare il mondo nell’immensità del proprio insieme. E lo stesso afferma la sedicenne Greta Thunberg... diagnosticata Asperger, sindrome di disturbo pervasivo dello sviluppo, inserito all’interno dello spettro autistico, senza però ritardi nell’acquisizione delle capacità linguistiche, a differenza di quanto avviene in quest’ultimo. Inoltre, chi soffre di questo “disturbo” non presenta un ritardo cognitivo; per questa ragione, è comunemente considerata un disturbo dello spettro autistico “ad alto funzionamento”: argomento da approfondire, argomento che ci coinvolge personalmente [ma non è questo che conta, ma non è per questo], argomento che ci sta a cuore, argomento che sottintende l’apprezzamento e la considerazione per presunte diversità, così influenti sull’evoluzione della Vita nel proprio insieme e complesso. Una volta ancora... diversità! ❖
Lapsus di Angelo Galantini
CAMERA OSCURA (?)
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Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters; a cura di Enrico Terrinoni; Universale Economica Feltrinelli, 2018; 688 pagine 13x20cm; 13,00 euro.
Edizioni “originarie”, nel senso di prime edizioni, della formativa Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, in traduzione e a cura di Fernanda Pivano. Dal nostro (capace?) Archivio [anche in Editoriale, su questo numero, a pagina 7]: Einaudi NUE, dal 1960; Einaudi Letture per la Scuola Media, 1978. In precedenza, registriamo una prima edizione parziale del 1943 e una integrale del 1945, entrambe sempre e comunque a cura di Fernanda Pivano (1917-2009 [ FOTOgraphia, ottobre 2009]).
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Cinque anni fa, con svolgimento estraneo alle banalizzazioni e velocità social dei nostri terribili giorni (quantomeno, in questo senso), studiosi della materia e dei suoi contenuti e risvolti si sono confrontati nel convegno/congresso I traduttori come mediatori culturali (Bari; 27-30 agosto 2014). A seguire, nel successivo Duemilasedici, Franco Cesati Editore ne ha raccolti gli atti, pubblicandoli in un avvincente volume eponimo (omonimo?), a cura di Sergio Portelli, Bart Van den Bossche e Sidney Cardella [Traduttori come mediatori culturali; 174 pagine?; 17,00 euro]. In sintesi estrema, oltre che semplificata, ma non banalizzata, il convegno e la sua sintesi libraria hanno ribadito che essere traduttore significa ben di più che rendere comprensibile un testo. Nello specifico: «Il passaggio da una lingua all’altra e da una cultura all’altra non può avvenire senza conseguenze. Un’assoluta fedeltà letterale può creare un effetto straniante per il lettore nella cultura d’arrivo. Tale straniamento, magari, non è presente nel testo di partenza, per via della comunanza culturale tra l’autore e i lettori dell’originale; perciò, nell’atto pratico, questo tipo di fedeltà comporterebbe un “tradimento” del testo di partenza. Oggi, per “fedeltà” intendiamo piuttosto un’attenzione complessiva per tutti gli aspetti del testo, e il traduttore cerca di rendere sia il significato sia l’effetto dell’originale nella lingua d’arrivo. Bisogna comunque sempre tener presente che una traduzione è -nel contempo- una rilettura e una riscrittura, e non potrà mai essere una perfetta trasposizione dell’originale». Ne siamo consapevoli e più che convinti, noi, lettori fedeli delle avventure seriali del commissario Maigret (Jules / Jules-Joseph Anthelme, oppure Jules Amédée François), cadenzate dalla penna di Georges Simenon [anche fotografo; FOTOgraphia, luglio 2008], che -finalmente- sono approdate a traduzioni accurate (in edizione Adelphi), dopo decenni di scempio (Mondadori). Ancora, e in sintonia, abbiamo sempre apprezzato la non traduzione di “water polo” in “pallanuoto”, che avrebbe massacrato la battuta di Tony
Curtis (Shell Oil Junior, oltre che Joe e Josephine) rivolta a Marilyn Monroe (Sugar Kane Kuwalczyk [Zucchero “Candito” Kandinsky, in italiano]), in A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot), di Billy Wilder, del 1959. Allo stesso tempo e modo, con percorso inverso, va respinta e rifiutata l’identificazione (fonetica?) di “editore e pubblicista” per il direttore del giornale di Albuquerque, Nuovo Messico, dove si svolge la sceneggiatura di L’asso nella manica (Ace in the Hole), di Billy Wilder (ancora!), del 1951; editore e pubblicista, per l’originario “editor and publisher”... rispettivamente, direttore ed editore. [Attenzione! Zanichelli Editore pubblica una avvincente serie di dizionari dedicati, che registrano le assonanze ingannevoli (per esempio, “of course”, dall’inglese, non significa “di corsa”): Dizionario dei falsi amici di francese, di Raoul Boch; Dizionario dei falsi amici di spagnolo, di Secundí Sañé e Giovanna Schepisi; Dizionario dei falsi amici di tedesco, di Carlo Milan e Rudolf Sünkel; Dizionario dei falsi amici di inglese, di Virginia Browne]. I bravi traduttori hanno aperto/spalancato le porte del Mondo, hanno fatto conoscere Pensieri e Idee che ci hanno arricchito. Cesare Pavese (1908-1950) è stato un ottimo traduttore: Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa -non importa esattamente- avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione (incipit del Primo capitolo di Moby Dick o la balena, di Herman Melville [in più attuale edizione Adelphi]). Altrettanto lo è stato Elio Vittorini (1908-1966): Ed egli la vide per la prima volta senza sorpresa, parendogli si fosse materiata d’aria nell’aria leggera così impassibile con quella sua calma adamantina che le dava un aspetto rispettabile non meno implacabilmente tranquillo del bianco guanto alto-sollevato di un policeman (da Luce d’agosto, di William Faulkner [traduzione del 1939, oggi considerata obsoleta]).
Lapsus Per non parlare, poi, di Fernanda Pivano (1917-2009 [FOTOgraphia, ottobre 2009]), grazie alla quale abbiamo conosciuto la letteratura statunitense del secondo dopoguerra e, soprattutto, avvicinato la Beat Generation. Se non che, eccoci, in tanto suo scrupolo e applicazione, che lei stessa sottolineava, richiamando perfino i mesi che spesso riservava anche a pochi passaggi (significativi), nella propria carriera di traduttrice, Fernanda Pivano è incorsa in un (solo?) errore, clamoroso, che -ahinoi- riguarda la Fotografia. Là dove Edgar Lee Masters, in Antologia di Spoon River (e anche un fotografo dorme sulla collina) fa esordire Penniwit, l’artista (Penniwitt, the Artist) con «I lost my patronage in Spoon River / From trying to put my mind in the camera / To catch the soul of the person», Fernanda Pivano traduce in «Perdetti la clientela a Spoon River / perché tentai di far entrare il cervello nella camera oscura / per afferrare l’anima della gente». A ben vedere, il senso originario c’è
La copertina della recente edizione Feltrinelli (2018) di Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, a cura di Enrico Terrinoni, è illustrata con Graveyard Kiss (diciamo, “Bacio al cimitero), dello statunitense Charles Hewitt (© Getty Images), del 1949. Per l’occasione, l’inquadratura originaria quadrata è stata alzata in verticale, con aggiunta di nero/fondo in alto, là dove sono state impaginate le identificazioni di rito. Sul sito FineArtAmerica.com, di vendita di immagini, questa fotografia è disponibile in diverse dimensioni e finiture, a partire da 93,52 dollari per stampa su canvas 20x20cm circa; e, poi, copie incorniciate, su acrilico, metallo e legno. In aggiunta, segnaliamo anche che un convincente portfolio dello stesso Charles Hewitt è pubblicato sul sito www.tumbir.com: delicate e coinvolgenti visioni stile anni Quaranta-Cinquanta.
tutto... fino a un certo punto. Perché “camera” non è “camera oscura”, ma “macchina fotografica”. [Segnaliamo anche e ancora «A Spoon River ho perso i miei clienti, / tentavo di mettere la mente nella camera oscura / per catturare l’anima delle persone» ({pessima} traduzione di Antonio Porta, in edizione Oscar Mondadori, del 1987)] Tralasciando tante edizioni farlocche della incantevole e avvincente e formativa Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters [da e con Francesco Guccini, in Canzone per Piero, del 1974: «È in gamba sai, legge Edgar Lee Masters»], sulle quali non vale la spesa soffermarsi, dallo scorso maggio Duemiladiciotto è disponibile una nuova corposa edizione Feltrinelli / Collana Universale Economica, a cura di Enrico Terrinoni, in nuova traduzione. Non entriamo in altri meriti, ma: «La clientela a Spoon River la persi / per dedicarmi anima e corpo alla macchina fotografica / e cogliere l’anima delle persone». Tant’è! ❖
DEARDORFF 8X10
POLLICI CON
KODAK WIDE FIELD EKTAR 250mm f/6,3 (FOTOGRAPHIA DI ANTONIO BORDONI)
RITORNO
AL GRANDE FORMATO
Una Ipotesi Un Sogno Un Invito Una Proposta
(graphia@tin.it)
Di tre, uno soprattutto... di Angelo Galantini
ROBERT FRANK, E NON SOLO
R
COLE E LINDBERGH Tra le molte fotografie simili/identiche e i video giornalistici che hanno documentato e raccontato la definita Primavera democratica cinese, quella di Charlie Cole si è imposta (su tutte, su tutti) in relazione all’assegnazione/indicazione di World Press Photo of the Year 1990 (sul 1989; quindi, in altre rievocazioni, World Press Photo of the Year 1989): per Newsweek, Pechino, Repubblica popolare cinese, 4 giugno 1989; dimostrante blocca i carri armati dell’esercito cinese durante le proteste per le riforme civili, di piazza Tienanmen (altrove, Tiananmen). Quindi, in tutto il mondo, la scomparsa di Peter Lindbergh ha suscitato note coincidenti e concordi di “leggen-
dario maestro della fotografia di moda”. E così è, effettivamente. Se non che, si deve attendere il verdetto della Storia, scévro da influenze in cronaca e contemporaneità. Comunque, le condizioni ci sono tutte: oltre tanta e tanta “moda”, in palmares, tre Calendari Pirelli e mezzo, in edizioni 1996, 2002, 2014 (in compagnia con Helmut Newton e Patrick Demarchelier, per il Cinquantenario) e 2017. Comunque, qui e ora, ma non solo qui e non solo ora, corre l’obbligo di segnalare l’ultimo servizio che Peter Lindbergh ha realizzato per British Vogue / Vogue UK, di settembre, che avrebbe dovuto essere solamente il più recente, se non che... Lanciato dalla copertina, Forces for CHANGE -traducibile in Forze per il
L’ultimo assignment di Peter Lindbergh, mancato lo scorso tre settembre, è stato commissionato da Vogue UK, per il suo numero di settembre (ops): quindici personalità femminili influenti sul nostro tempo. Tra queste, Greta Thunberg: in basso, backstage e posato.
cambiamento- è cadenzato sul ritmo di quindici donne influenti sul nostro Tempo. Tante le rilevazioni che si dovrebbero esprimere a commento, ma non è luogo, né momento, per farlo; ci ritorneremo... forse. Soltanto, una segnalazione sopra tutte, in allineamento con altro presente su questo stesso numero della nostra rivista (al solito: incroci, coincidenze, concomitanze... casuali, piuttosto che volute e ricercate): la giovane Greta Thunberg è una delle quindici personalità femminili considerate [anche a pagina quattro e da pagina otto, su questo stesso numero].
ROBERT FRANK Charlie Cole: World Press Photo of the Year 1990 (1989).
Ovviamente, nella nostra scala di valori, tra i tre protagonisti della fotografia venuti a mancare a settembre, Robert
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Rilevazione clinica, in propria apparenza cinica: spesso, anche la morte stabilisce gerarchie e graduatoria propria. Per quanto stiamo per considerare, né le gerarchie, né la graduatoria che si sono manifestate in occasione di tre morti eccellenti nel mondo fotografico (che, al pari di ogni altro ambito, è quotidianamente attraversato da propri interpreti che vengono a mancare, molti dei quali, quelli “quotidiani”, nel completo silenzio) non sono assolute, ma soltanto relative: a ciascuno, la propria scala di valori e reputazioni e crediti. Tre morti a settembre: il tre, a Parigi, è mancato Peter Lindbergh, eccelso interprete della moda contemporanea (nato il 23 novembre 1944, stava per compiere settantacinque anni); il nove, a Inverness, in Canada, è mancato Robert Frank, a tutti gli effetti uno dei più rilevanti fotografi del secondo Novecento, e anche regista eccelso (nato il 9 novembre 1924, stava per compiere novantacinque anni); il dodici, a Bali, in Indonesia, è mancato Charlie Cole, fotogiornalista statunitense noto soprattutto per una sua fotografia di un accadimento epocale [stiamo per riferirne] (nato il 28 febbraio 1955, aveva compiuto i sessantaquattro anni). Da qui, in ordine gerarchico nostro... inverso.
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Di tre, uno soprattutto... Robert Frank fotografa il poeta Allen Ginsberg con una Polaroid 195 (gennaio 1984; da Allen Ginsberg Photographs).
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Gli americani, fotografie di Robert Frank; introduzione di Jack Kerouac; Contrasto Editore, 2008; 83 fotografie in bianconero; 180 pagine 21x18,5cm, cartonato con sovraccoperta; 39,00 euro.
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Gli americani [prima edizione italiana, orrida nel contenuto; ma impreziosita dall’illustrazione di copertina di Saul Steinberg (1914-1999): per intenderci, quello della View of the World from 9th Avenue / Vista del mondo dalla Nona Avenue, copertina del settimanale The New Yorker, del 29 marzo 1976 (qui accanto), ri-proposta in poster di successo]; testi accompagnatori a cura di Alain Bosquet e Raffaele Crovi; Il Saggiatore, 1959; 83 fotografie in bianconero; 182 pagine 21x18,5cm; (ai tempi) 2500 lire; oggi, quotazione antiquaria prossima a millecinquecento euro.
PETER ORLOVSKY
London/Wales, in edizione Scalo Verlag, del 2003, richiamato da Grazia Neri, nel testo.
Frank è il nome più alto (ribadiamo e confermiamo, senza cinismo, ma in cadenza clinica). Per la sua Fotografia, la Storia ha già sentenziato; e con la Storia, ha sentenziato anche quel passo di approfondimento al quale ci onoriamo di appartenere. Attenzione, però, a non limitare/contenere il valore di Robert Frank al solo e unico richiamo con la sua raccolta epocale The Americans / Gli americani [in riedizioni internazionali coordinate, nel Cinquantenario, nel 2008; FOTO graphia, luglio 2008]. Attenzione: non ci si faccia confondere dai termini della questione e dall’invadenza culturale del reportage in questione, sicuramente epocale, sicuramente unico. Ma! La grandezza della fotografia di Robert Frank non può essere circoscritta a Gli americani [introduzione di Jack Kerouac; Contrasto Editore, 2008; 83 fotografie in bianconero; 180 pagine 21x18,5cm, cartonato con sovraccoperta; 39,00 euro], ma deve essere estesa a tutta la sua lunga parabola espressiva, peraltro intralciata da tragedie personali che sicuramente hanno appesantito il suo cuore. Così che, ricordiamo l’altrettanto straordinaria serie London/Wales, temporalmente precedente a Gli americani, che Scalo Verlag ha raccolto in volume nel 2003. Ce ne siamo occupati in FOTOgraphia del febbraio 2004, e qui richiamiamo quanto scritto allora da Grazia Neri: «Conoscevo qualche fotografia di Robert Frank di questo lavoro, ma non
sapevo della sua grande perfezione, e soprattutto del suo descriverlo come “story”. Per me, questo reportage fa parte della sobrietà del linguaggio, in una composizione così perfetta che mi fa venire la pelle d’oca, nella conoscenza della cronaca e della storia. [...] «Nel mio immaginario, l’Inghilterra era proprio come in queste fotografie di Robert Frank: lo smog, la City, le classi operaie, i toast con il burro, la fatica, l’austerità dopo la fine della guerra con le tessere per il cibo. Mi piacerebbe raccontare queste fotografie una per una. [...] «Non sono qualificata per approfondire la fotografia di Robert Frank, ma se volete vedere cosa è un bel libro fotografico vi garantisco che London/Wales è sublime». Quindi, in conclusione, a distanza di sessant’anni, magari in un ritorno suscitato dalla recente scomparsa dell’autore, possiamo riguardare Gli americani, di Robert Frank, senza l’affanno della cronaca, ma con tempi cadenzati di assimilazione individuale. A seguire, possiamo pensare alle fotografie per se stesse e inserite nel posto privilegiato che occupano nella Storia. Ancora, possiamo allungare le considerazioni sulla raffigurazione di una nazione, in un tempo che potrebbe anche non essere congelato al passato, ma ancora palpitante al presente. Soprattutto, però, non dobbiamo relegare il suo autore Robert Frank soltanto a questo. Tre morti a settembre. ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
BROOKS... VERIWIDE
Q
Quello dell’artigianato fotografico è un capitolo affascinante: sia nella dimensione che è rimasta tale -nobile artigianato-, sia in quella convertita in produzione industriale, o in sua prossimità: l’italiana Silvestri, sopra tutte, a partire dall’originaria SLV, del 1981 [in approfondimento tecnico sull’applicazione di focali lunghe, oltre quelle grandangolari, addirittura sul nostro numero di esordio, nel maggio 1994]. Agevolati e confortati dalla geografia, proprio in Italia, potremmo dilungarci in lungo e largo, magari proprio a partire dall’appena citato Vincenzo Silvestri, approdato a una produzione industriale evolutasi da una “originaria” costruzione grandangolare individuale. A Firenze, città rinascimentale, con strade strette e palazzi memorabili, da dove agisce Vincenzo Silvestri, registriamo anche l’esperienza del non dimenticato Luciano Nustrini, mancato in un incidente aereo a Auckland, dove nel frattempo si era trasferito, nel 1999: ancora, configurazione grandangolare privata assemblata con elementi provenienti da diversi sistemi fotografici preesistenti sul mercato, soprattutto Mamiya Press [e la differenza con Vincenzo Silvestri è discriminante e fondamentale, essendo stato lui capace di passare dal “privato” a una ingegnosa configurazione fotografica degna di essere proposta al commercio... da cui, un sistema differenziato e in evoluzione... fino ai nostri attuali tempi e modi ad acquisizione digitale di immagini: Bicam e Flexicam, in rispettive generazioni correnti].
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Dal film Ghostbusters II - Acchiappafantasmi II ( Ghostbusters II, di Ivan Reitman; Usa, 1989), secondo della serie originaria, in due puntate: rara e preziosa Brooks-Veriwide, con Schneider Super-Angulon 47mm f/8 su elicoide e otturatore centrale Synchro-Compur, per esposizioni 6x9cm su pellicola a rullo 120 o 220, con mirino ottico esterno del grandangolare Mamiya-Sekor 50mm f/6,3 dal sistema medio formato Press 23 (o Standard), evolutosi in Universal, con spin-off Polaroid 600 / 600 SE. Citazione fotografica “colta” e selettiva, all’interno della scenografia di un film “plebeo”: tra le mani del dottor Peter Venkman, interpretato dall’attore Bill Murray.
Però, qui è il caso di soffermarsi soltanto sul fronte statunitense, ricordando, prima di altri, i Globus Brothers (Rick, Ron e Steve), che -dalla fine degli Settanta del Novecento- si sono impegnati anche verso la fotografia panoramica a obiettivo rotante. In questo senso, registriamo soprattutto la GlobuScope dell’inizio degli anni Ottanta [sempre del Novecento], per fotografie orbicolari a trecentosessanta gradi su pellicola 35mm. Quindi, annotiamo anche una loro affascinante applicazione della rotazione programmata orizzontale ad apparecchi a banco ottico 4x5 pollici, con pellicola a rullo di altezza cinque pollici: ancora per fotografie orbicolari a 360 gradi. E, poi, concludiamo con la segnalazione della configurazione grandangolare in alluminio GlobuScope 4x5 pollici, con Schneider Super-Angulon 65mm f/8. La fotografia grandangolare, alla cui genìa appartiene anche la Pannaroma 1x3, su base Nikon F, impreziosita altresì dall’inquadratura panorama [presentata in FOTOgraphia, del dicembre 2007, nell’ambito del novantesimo Nikon 1917-2007], ci porta -invece- alla Brooks-Veriwide, ancora localizzata a New York City. In principio, fu una costruzione fotografica autentica: dal 1959 al 1965, Veriwide 100, con Schneider SuperAngulon 47mm f/8 su elicoide e otturatore centrale Synchro-Compur (stile Hasselblad), per esposizioni 6x9cm (56x92mm; altre fonti certificano dimensioni reali 56x81mm; altre ancora 56x79mm) su pellicola a rullo 120 o
220, rispettivamente otto e sedici pose. In identificazione, la cifra “100” identifica l’angolo di campo (approssimativo, ma certo) sulla diagonale, equivalente alla visione della focale 18mm sul piccolo formato 24x36mm; mirino ottico esterno Leica 21mm, oppure, in alternativa sostanzialmente economica e conveniente, sovietico Mir-20 (dal sistema di accessori degli apparecchi sovietici a telemetro Fed e Zorki). Quindi, dal 1965 al 1975, per dieci anni, venne realizzato un assemblaggio di elementi di diversa provenienza (come fece anche il citato Luciano Nustrini, di Firenze): riquadri di collegamento e magazzino portapellicola Mamiya 6x9cm (dal sistema Press Universal), obiettivo Schneider Super-Angulon 47mm f/5,6 o f/8 su elicoide e con otturatore centrale, mirino ottico esterno del grandangolare Mamiya-Sekor 50mm f/6,3 (ancora, del/dal sistema Press Universal... peraltro, obiettivo montato sulla Pannaroma 1x3, appena evocata), la cui inquadratura è analoga a quella del 47mm. Ovviamente, riprese 6x9cm (55x79mm) su pellicola a rullo 120 o 220. Prodotta in una contenuta quantità di esemplari, tutti artigianali, tutti su misura dell’acquirente (ognuno con piccole personalizzazioni), la Brooks-Veriwide ha avuto un effimero momento di gloria cinematografica. È tra le mani del dottor Peter Venkman (interpretato da Bill Murray), in Ghostbusters II - Acchiappafantasmi II (Ghostbusters II, di Ivan Reitman; Usa, 1989). Tutto qui... forse. ❖
Cinquantacinque anni fa di Antonio Bordoni
COMMISSIONE WARREN
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
A
Ancora una ricorrenza, una delle tante che si avvicendano sulle nostre pagine... sempre in relazione alla propria attinenza in qualche misura fotografica. Ancora una ricreazione sulla base di numeri e cifre. Non nel cinquantenario, questa volta, ma in celebrazione di cinquantacinque anni dalla vicenda che stiamo per rievocare, un’altra volta sulla base del nostro (capace?) Archivio [anche in Editoriale, su questo stesso numero, a pagina Sette]. Da cui, torniamo all’ottobre 1964, a una edizione del settimanale Life originario [con Lello Piazza, in FOTOgraphia, del maggio 2007 e giugno 2018] , con servizio giornalistico riferito all’assassinio del presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, a un anno dalla sua cronaca: 22 novembre 1963 [FOTOgraphia, novembre 2013, nel cinquantenario]. Del soggetto esplicito -il famigerato Rapporto della Commissione Warrenci interessa poco, quantomeno qui, quantomeno ora... per quanto stiamo, comunque, per richiamarlo e riassumerlo. Invece, quello che ci interessa, sul passo giornalistico di Life, è la forte componente fotografica della questione, edificata anche/soprattutto sulla base di distillati dal filmino amatoriale registrato su pellicola cinematografica a passo ridotto Otto millimetri (8mm) da Abraham Zapruder, che è passato alla Storia proprio per questa manciata di secondi memorabili fissati dalla sua cinepresa Bell & Howell Model 416 (altrove, 414 PD), oggi conservata negli US National Archives [ancora, in approfondimento e visualizzazione, in FOTOgraphia, del novembre 2013]. La prima “passerella” giornalistica di questi fotogrammi è databile alla commemorazione Four Days: The Historical Record of the Death of President Kennedy, compilata dall’United Press International e American Heritage Magazine, nel 1964, quando fu edita da numerose testate statunitensi (di molte abbiamo notizia; in nostro Archivio, conserviamo quella accreditata The News / New York’s Picture Newspaper [immancabilmente visualizzata nella già richiamata edizione di FOTOgraphia, del novembre 2013]).
Dal nostro Archivio [anche in Editoriale, su questo numero, a pagina 7]: Life Magazine del 2 ottobre 1964. La copertina “strilla” le conclusioni del Rapporto Warren, con sostanzioso servizio giornalistico interno, ampiamente illustrato con fotografie di rilevazioni d’inchiesta giudiziaria, accompagnate dalla spettacolarità di fotogrammi dal filmino a passo ridotto 8mm (Otto millimetri) ripreso da Abraham Zapruder, a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963, di assassinio del presidente statunitense John F. Kennedy. Indipendentemente da tanto altro, anche questa relazione giornalistica è sostanziosamente edulcorata, così come è sempre stato il giornalismo della testata in richiamo... leggendaria e mitica fin che si vuole. Ma!
Cinquantacinque anni fa Dopo i primi momenti dall’assassinio del presidente Kennedy, che hanno ovviamente condizionato le relazioni giornalistiche iniziali (in cronaca), la raccolta Four Days ha affrontato l’argomento potendolo approfondire, per l’appunto anche con la prima visualizzazione accreditata dei fotogrammi dell’8mm di Abraham Zapruder, il celebre filmato, dichiarato patrimonio di Stato, e restaurato, che ora fa parte della Library of Congress. Per quanto riguarda Life, del 2 ottobre 1964, in nostro Archivio, dalla copertina si lanciano le conclusioni del Rapporto Warren. Indipendentemente da tanto altro, anche questa relazione giornalistica è sostanziosamente edulcorata, così come è sempre stato il giornalismo della testata in richiamo (leggendaria e mitica fin che si vuole, ma!): così che è indispensabile segnalare che, sull’argomento, altre testate hanno relazionato in maniera diversa, non hanno aderito alle grottesche conclusioni della Commissione, an-
Il filmato 8mm ripreso da Abraham Zapruder il 22 novembre 1963 è l’unica testimonianza visiva dell’assassinio del presidente statunitense John F. Kennedy: dal terrapieno sul lato destro di Elms street, a Dallas; sequenza di ventidue secondi, con cadenza a 18,3 fotogrammi al secondo. La cinepresa Bell & Howell Model 416 è conservata negli US National Archives.
dando a individuare e segnalare altre ipotesi... effettivamente più plausibili. Ma, per nostra perversione esistenziale, qui in proiezione di professione giornalistica, ci limitiamo alla segnalazione dell’accompagnamento fotografico sull’edizione particolare di Life, del 2 ottobre 1964 (ribadiamo, in e dal nostro Archivio). E, poi, per dovere di cronaca, e soltanto per questo, ricordiamo che la Commissione presidenziale sull’assassinio di John F. Kennedy, ucciso a quarantasei anni, meglio nota come Commissione Warren, è stata un comitato d’inchiesta parlamentare costituito il 29 novembre 1963 dal presidente Lyndon B. Johnson (1908-1973) -succeduto per diritto-, per indagare sull’assassinio di John F. Kennedy, avvenuto il 22 novembre 1963, a Dallas, in Texas. Concluse che Lee Harvey Oswald sarebbe stato il solo esecutore materiale dell’omicidio [riuscendo a sparare a raffica con un fucile a bassa tecnologia, colpendo i bersagli da più punti di
vista]. Ovviamente, queste controverse conclusioni sono state frequentemente contestate, oltre che ripetutamente e assiduamente irrise da sceneggiature cinematografiche statunitensi. La Commissione assunse l’identificazione non ufficiale dal suo presidente, Earl Warren (1871-1974), che in quel tempo era anche presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti. Tutti i documenti raccolti dalla Commissione Warren, nella quantità di cinquantamila pagine, sono oggi conservati dalla Mary Ferrell Foundation, di Ipswich, in Massachusetts, dove sono custoditi molti altri documenti della storia (ambigua) degli Stati Uniti, tra i quali -in attuale collegamento supposto- citiamo anche quelli del definito Scandalo Watergate, dal 1972, che costò la presidenza a Richard Nixon (1913-1994), nell’agosto 1974... impeachment. Già, e in ripetizione/reiterazione: la Fotografia come s-punto privilegiato di osservazione, per la Vita, verso la Vita. E niente di diverso. ❖
di Antonio Bordoni
P
Le sintesi con le quali, fino alla metà degli anni Novanta del Novecento, il toscano Vittorio Jannello ha ricapitolato la storia evolutiva della Fotografia sono decollati dal proprio intendimento originario, per assumere significati nuovi. Tra i suoi tanti indirizzi, tutti di profilo alto, oggi recuperiamo un doveroso ritorno alla pellicola trentacinque millimetri: tempi di fotografia chimica, che presto cadranno nell’oblio. Presentiamo questa selezione non più per ciò che queste pellicole hanno raccontato in decenni tra/scorsi, ma per il valore culturale, espressivo ed estetico del gesto con il quale sono state raccolte e collezionate. Per presentarle, è giocoforza parafrasare una espressione di Man Ray, “oggetti d’affezione”, che esprime bene il senso dell’intera vicenda. Eccoci 22
ANTONIO BORDONI
ersonalmente, non abbiamo mai conosciuto Vittorio Jannello, fantastico personaggio vissuto a Massa, nell’alta Toscana, inconsueto appassionato di Fotografia, venuto a mancare nel 1995. Però, possiamo affermare di averne riconosciuto lo spirito e di averlo enormemente apprezzato. Ciascuno per sé, siamo vissuti separati da una geografia più avversa di quanto non si possa immaginare, allontanati anche da un’anagrafe che fino a qualche tempo fa non ammetteva contatti, e forse divisi perfino da altre questioni personali. Ma -incredibilmente-, abbiamo condotto in modo analogo i nostri rispettivi interessi fotografici, in un certo aspetto (addirittura) quantomeno coincidenti: quello della raccolta di testimonianze e documenti, archiviati con effettivo spirito museale. Per entrambi, ognuno a proprio modo, il tutto, in uno spirito lontano e divergente da qualsivoglia convenzionalità di intenzioni... aride. Non si può dire che Vittorio Jannello sia stato un collezionista accademico: lo si capisce bene quando ci si muove per le stanze nelle quali ha accumulato il suo materiale, dove i parenti hanno messo un poco di ordine tra il suo disordine solo apparente, che rispondeva a capitolati suoi propri, a visioni intime e mirate. Ed è vagando lungo quelle scaffalature e aprendo quegli armadi, che lo abbiamo conosciuto più e meglio di quanto non sarebbe potuto accadere incontrandoci casualmente a uno dei tanti mercatini antiquari. Invece, si può affermare che Vittorio Jannello è stato un grande raccoglitore (d’amore e in amore) in una identificazione che noi consideriamo alta e nobile. Non ha mai collezionato materiale fotografico in senso stretto. Ovvero, non si è mai dedicato a una ricerca sistematica monoindirizzata, ma -al contrario, e per nostra fortuna- ha raccolto testimonianze fotografiche secondo un disegno, ribadiamolo, museale e appassionato.
PELLICOLE DI UN TEMPO
ARTE DEL RECUPERO
divisi in tre file da cinque. Il passepartout è intagliato dal coperchio della scatola, e il cartone di avanzo è stato usato per sagomare i divisori orizzontali e le coste verticali di trattenimento degli stessi rulli. Insomma... Arte dell’Esistenza!
ANTONIO BORDONI
Le cornici nelle quali Vittorio Jannello ha riunito e ordinato i caricatori di pellicola 35mm raccolti nel corso dei decenni sono ricavate da scatole di carta fotografica Ilford 13x18cm, le cui dimensioni contengono alla perfezione quindici rullini
I caricatori di pellicola 35mm che contornano queste pagine sono stati recuperati dalle cornici originarie nelle quali Vittorio Jannello, di Massa, li aveva riuniti: per casa produttrice e per tipo. Rispetto la scientificità della loro prima collocazione originaria, la nostra passerella è assolutamente e volontariamente empirica, dettata più da alternanze cromatiche che da altro, guidata più da ricordi individuali che da valori storici e/o tecnici, declinata rispondendo più al cuore che alla mente. Del resto, in tutta la frequentazione fotografica che ci caratterizza e distingue, valgono più i sentimenti eterei rispetto le oggettività imposte.
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didattici che l’avevano ispirata e assume il valore di originale ed effettiva scultura, proiettata in una logica estetica assoluta. In un senso culturale che riallaccia le azioni spontanee e tecnicamente motivate di Vittorio Jannello ai gesti dissacratori e trasgressivi della Pop Art (pensiamo, soprattutto, a Roy Lichtenstein) e, addirittura, all’arte del quotidiano di Marcel Duchamp (quello della Ruota di bicicletta, del 1913, dello Scolabottiglie, del 19141964, e della Fontana, del 1917-1964), tutti gli oggetti da lui creati entrano oggi a far parte di quell’affezione a se stesso e al proprio mondo che trasforma la Vita in Arte dell’Esistenza. Pure se in queste pagine visualizziamo soltanto una limitata serie di caricatori per pellicola 35mm (selezionati da una quantità pressoché infinita), non possiamo evitare di menzionare la miniatura -perfettamente funzionante in ogni movimento- di una antica macchina in legno da terrazza, la cornice che raccoglie la tipologia dei rocchetti per pellicola in rullo, la schematizzazione dell’effetto tridimensionale delle riprese con due obiettivi accostati... e c’è ancora dell’altro. Accertato il princìpio del nuovo/odierno valore di questi “oggetti d’affezione”, passati dal gesto individuale di Vittorio Jannello alla potenziale fruizione esterna e globale, rimane solo da sottolineare come non andrebbe perduto il flusso del pensiero del loro autore, raccoglitore di materiale fotografico. L’ormai inevitabile polverizzazione di questa raccolta disperde uno zibaldone, prezioso più per intendimenti e per spirito culturale di quanto non lo possa essere per semplice somma aritmetica di cifre stabilite dall’arido mondo del collezionismo/antiquariato (dove l’anima non trova posto). Come spesso facciamo, anche qui osiamo sognare. Ovvero osiamo pensare che un ente pubblico, o qualcosa di simile (Museo della Fotografia?) possa essere interessato a comporre un definibile Fondo Jannello, nel quale riunire tutto questo materiale. Un Fondo da non concludere in sé, ma da integrare e continuare con nuovi studi, nuove acquisizioni (nello stesso spirito) e pertinenti sintesi visive: analogamente tecniche e amorevolmente composte, in grado -loro pure- di superare la fase pragmatica della prima motivazione originaria, per decollare ancora e sempre verso il mondo e i territori dell’espressione artistica che resiste alle intemperie del tempo. Osiamo sperare. ❖
ANTONIO BORDONI (...)
Delle trecento macchine fotografiche che ancora oggi fanno mostra di sé sui ripiani dei suoi robusti e capaci scaffali [nostro sogno, vent’anni dopo], poche hanno un autentico valore collezionistico (stabilito da quella scala di meriti, appunto scartati a lato, che distingue l’antiquariato codificato dal collezionismo intimo). Le più tracciano, invece, un percorso tecnologico che scandisce i tempi dell’evoluzione tecnica della stessa macchina fotografica. Dalle lanterne magiche agli apparecchi in legno da terrazza, dalle stereo di inizio Novecento a soffietti di diversa statura (semplici, ma anche della classe Ikonta e Super Ikonta), dalle box alle splendide compatte degli anni Settanta, dalle Polaroid alle reflex di penultima generazione (pre autofocus), Vittorio Jannello ha percorso una strada lineare, orientata e diretta da una pertinente conoscenza storica: peraltro testimoniata anche da una attenta biblioteca personale, edificata con testi fondamentali della Storia della Fotografia (della tecnologia dei mezzi, ma anche dell’evoluzione del linguaggio). Da cui, oltre la quantità di apparecchi e accessori, oltre la qualità di libri e di riviste fotografiche, oltre le tante fotografie e lastre amorevolmente custodite, la collezione di Vittorio Jannello comprende anche suoi attenti manoscritti, preparati -si presume- come traccia per incontri, conferenze e presentazioni pubbliche (oggi, speech). In ordine con lo spirito di queste annotazioni -riunite in quaderni che trattano di Storia della Fotografia, di stereofotografia, di evoluzione della fotografia a colori, di trasformazione degli apparecchi fotografici e di infiniti altri capitoli della grande avventura della Fotografia-, Vittorio Jannello ha pure confezionato una miriade di sintesi visive di grande effetto. Alla maniera dei più chiari e dettagliati libri tecnici -che lo fanno con mezzi grafici-, ha costruito spaccati, visioni esplose e riassunti di particolari elementi tecnici, dei quali ha isolato e messo in evidenza le singole personalità. Esaurite le proprie motivazioni originarie, oggi questi elaborati, questi manufatti, queste visualizzazioni assumono un nuovo valore culturale, espressivo ed estetico. Non si riferiscono più a ciò che raccontano, ma mettono in risalto il gesto con il quale sono stati creati. Per esempio, al giorno d’oggi, superata l’intenzione originaria, la sezione del percorso della luce in un sistema reflex, dall’obiettivo di ripresa al piano focale e al mirino di visione, ha smesso gli abiti
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A oltre vent’anni dalla sua attualità temporale, la serie In Deep, di Claudio Amadei, conferma il valore della propria personalità fotografica. Superato il Tempo, questo progetto rivela una grammatica-linguaggio immensa. Queste fotografie non appartengono alla categoria delle “fotografie realistiche”; quanto offrono di reale risiede solo nella precisione dell’immagine ottica; i loro valori sono invece decisamente “distaccati dalla realtà”. Tra la realtà e la sua raffigurazione, ci sta il passaggio fondamentale attraverso una mediazione (d’autore) etica e morale
IN DEEP IL RITORNO
di Maurizio Rebuzzini
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ipende tutto da come si affronta e considera la propria frequentazione della Fotografia; nello specifico, la nostra: in forma di osservazione, riflessione e riguardo. Soprattutto oggi, in tempi e modi di frenesia e sostanziosa semplificazione formale dell’azione fotografica, si impone una valutazione che incute timore e sollecita prudenza. Eccoci: cosa e quanto del contemporaneo resisterà alla sentenza della Storia? Quali autori, quali loro progetti sopporteranno l’inclemente scorrere del Tempo? E qui, e ora, la valutazione si definisce, oltre la veemenza del presente, oltre la imperiosità della partecipazione “in contemporaneo”. Questo è il prologo dovuto alla qualità di immagini che l’attento Claudio Amadei ha realizzato a metà degli anni Novanta del Novecento, raccogliendole in una avvincente ed elegante monografia, In Deep, sulla quale torniamo oggi, a distanza di oltre vent’anni dalla propria attualità secolare, in un Tempo che ha placato eventuali entusiasmi senza radice, per lasciare posto e spazio a crediti non inquinati da nulla e nessuno; del resto, il segreto di una buona fotografia, degna di superare i decenni, sta nel fatto che ogni volta che la guardi noti dei particolari che ti sorprendono [In Deep; Erreti Arte, 1995; 68 pagine 28,5x40cm, in cofanetto]. Quindi, sempre in premessa, ci guardiamo attorno e riflettiamo su misfatti che, in questo senso “contemporaneo-storico”, sono stati commessi nel nostro paese. Ovviamente, non ci allarghiamo oltre lo stretto ambito fotografico, di nostra presunta competenza, ed evochiamo le tante meteore che sono state affrettatamente esaltate, prima di scomparire nel Nulla di loro giusta collocazione. Per esempio, torniamo con la memoria alla fine degli anni Settanta del Novecento, quanto l’editore Fabbri pubblicò una Enciclopedia pratica per fotografare, in fascicoli settimanali da rilegare, alla fine, in sei cospicui volumi. Ogni fascicolo è composto dalla sequenza dei lemmi e da una presentazione di un autore italiano, affermato o in divenire. Ebbene, del novanta percento di quelli individuati come potenziali artefici del futuro della Fotografia, oggigiorno, non ne sappiamo più nulla; nemmeno i loro nomi sono sopravvissuti ai quarant’anni trascorsi nel frattempo. A completa differenza, dalla piattaforma del nostro frequentare la Fotografia, affermiamo che l’autorevolezza autoriale di Claudio Amadei, oggi e qui in ripresa del progetto In Deep, non subirà lo stesso destino: la sua è personalità e concretezza fotografica meritevole e capace di allungarsi sul Tempo. Prendetene nota. In effetti, una delle chiavi di osservazione e rilevazione è quella guidata dal pensiero secondo il quale la fotografia rivela molto di noi stessi, autori e osservatori in unica intenzione. E questo anche in base alla convincente ipotesi secondo la quale le coincidenze sarebbero gli unici accadimenti che rivelano, possono rivelare, che la vita abbia anche senso. È stato detto in forma poetica, ma la riflessione si declina nel quotidiano delle esistenze individuali, soprattutto nel loro incrocio. Per quanto ci teniamo personalmente lontani ed estranei da qualsivoglia forma di autoreferenza, non possiamo esimerci dal confrontare il nostro spirito, il nostro cuore, con la serie fotografica In Deep, di Claudio Amadei, sia in forma di originali, sia in raccolta monografica di integerrimo valore formale (e lo stesso non possiamo garantire per la nostra riproduzione litografica, che risponde a una economia di scala diversa/divergente da quella che può concentrarsi su una sola personalità fotografica; detta meglio, forse, sulla rivista, alcune cromie originarie possono risultate stemperate dalla uniformità necessaria in CMYK / Ciano, Magenta, Giallo, Nero). (continua a pagina 32)
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(continua da pagina 28) Da una parte, nell’intimità del pensiero, lo facciamo in quanto osservatori anonimi, come tutti quelli che hanno l’onore e piacere di avere questo libro tra le mani, e sfogliarlo nella tranquillità e serenità del proprio animo, nel conforto dei propri temi individuali. Da un’altra, assolviamo con onore la presentazione, il commento, la decodifica, nel privilegio che il nostro ruolo professionale prevede e concede. Coincidenze, dunque, ma anche consonanze e, perché no?, il loro esatto opposto: discordanze e differenze; però, mai contrasti. Così, subito riveliamo una divergenza che distingue questa fotografia di Claudio Amadei dalla nostra visione della Vita, e che, alla resa dei conti, contribuisce -paradossalmente- a certificare che la vita può avere anche senso: da fotografo, in allineamento con la propria concezione dell’Esistenza, lui guarda il Mondo, si muove, viaggia, osserva e racconta; da altro punto di vista professionale (come lui, comunque fedele al princìpio secondo il quale l’attività produttiva dell’Uomo è anche l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di comprensione), noi siamo statici. Però, anche noi osserviamo e raccontiamo. E ora, e qui, ci troviamo insieme, lui comandante sicuro, noi timidi scudieri. Nella propria forma visiva apparente, a tutti ben chiara, In Deep, di Claudio Amadei, si esprime attraverso la grazia di fiori. Ma l’autore è assolutamente disinteressato alla botanica; si è trovato ad esprimere emozioni, sentimenti, forme e colori (talmente saturi da abbagliare la vista) attraverso la mediazione raffigurativa di fiori (a completa differenza di quegli autori che hanno elevato il fiore a cifra stilistica: diciamo, Irving Penn, Robert Mapplethorpe e Gian Paolo Barbieri). Per Claudio Amadei, il soggetto principale, implicito oltre quanto rivela esplicitamente, è la Luce. Quello che In Deep comunica, nell’esuberanza dei propri cromatismi e contrasti, ha poco da spartire con i soggetti che presenta. Dotato di sentimento gentile e raffinato, Claudio Amadei assolve la condizione basilare della Fotografia, per condividere e partecipare: sia all’atto del fotografare, sia nei tempi della circolazione e veicolazione delle immagini. Autore cosciente e scrupoloso, applica una grammatica-linguaggio che manifesta una inconsueta combinazione di regole logiche e acquisite (relative soprattutto alla costruzione compositiva) e usi arbitrari, che scandiscono un tempo e ritmo che accompagnano l’osservazione, invitandola ad allineare l’irrazionale con il razionale, e viceversa: dalla mente al cuore, ma anche dal cuore alla mente. Prima ancora di aver realizzato ognuna delle sue fotografie, averle pensate o sognate, anche per un solo istante, l’autore è diverso da tutti coloro che hanno guardato (non visto) le medesime situazioni. Perché va detto: nessuno di questi soggetti raffigura se stesso; invece, ognuno rappresenta qualcosa d’altro e di diverso, sia preso da solo, sia inserito nella magistrale combinazione di tante immagini, una accanto all’altra, una dietro l’altra. Non sono fiori, ma “fotografie di...”: tra la realtà e la sua raffigurazione, ci sta la mediazione di un autore, che risponde a una propria cultura ed esperienza esistenziale, che mette cortesemente a disposizione. È fondamentale rendersi conto che tanto la fotografia espressiva (detta anche creativa; magari, proprio questa di Claudio Amadei) quanto quella di documentazione non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. Grammatica-linguaggio: il fotografo-autore, che percepisce determinati valori del soggetto, li definisce nella composizione-inquadratura e li duplica sulla stampa. Se lo desidera, può simulare l’apparenza in termini di valori di densità riflessa, oppure può restituirlo ricorrendo ad altri valori, basati sull’impatto emotivo. Ancora, grammatica-linguaggio:
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a dispetto della propria apparenza, In Deep, di Claudio Amadei, non appartiene alla categoria delle “fotografie realistiche”; quanto offrono di reale risiede solo nella precisione dell’immagine ottica; i loro valori sono invece decisamente “distaccati dalla realtà”. L’osservatore può accettarli come realistici, in quanto l’effetto visivo può essere plausibile, ma, se fosse possibile metterli direttamente a confronto con i soggetti reali, le differenze risulterebbero sorprendenti. Infatti, dipendono dal fatto che tra la realtà e la sua raffigurazione, ci sta il passaggio fondamentale attraverso una mediazione (d’autore) etica e morale. Se vogliamo vederla con un paradosso, che tale è soltanto in apparenza, potremmo anche ipotizzare una sorta di (benevola) bugia. Infatti, come tutti i fotografi, artisti che esprimono la propria espressività da centottant’anni appena compiuti (da quel fatidico gennaio/agosto 1839, nel quale è cominciato tutto), anche Claudio Amadei è un inguaribile bugiardo. Lo è perché e per quanto controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Così come un bravo narratore mente per far comprendere il proprio racconto, omettendo qui, sottolineando là, soprassedendo a destra e allungandosi a sinistra, anche il bravo fotografo mente per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio racconto. Per cui, anche individuando i soggetti fotografati da Claudio Amadei, a pretesto del suo narrare per immagini, non si percepiranno le stesse emozioni che, invece!, trasmettono le sue immagini. In ripetizione, una volta ancora, la realtà è una cosa, la sua rappresentazione un’altra. Ciò detto, è necessario rilevare e rivelare la prepotente personalità linguistica della Fotografia, che è raffigurativa per necessità (deve rivolgersi a un soggetto effettivo, naturale o costruito che sia) e rappresentativa per scelta e volontà: non necessariamente ciò che mostra è quello che vediamo, dobbiamo vedere, possiamo comprendere. Dove sta la bugia di Claudio Amadei? Paradossalmente, nella sua sincerità di intenti ed esecuzione. Offre una sua lettura e interpretazione della Fotografia / Luce, affinché ciascuno di noi, alla presenza delle sue immagini, possa esprimere pensieri suoi autonomi, partire per viaggi individuali. Ancora, dove sta, allora, la sua bugia? Nel raccontare con perizia e cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, ma imbocchi con decisione il proprio cammino, che può coincidere con le sue intenzioni d’autore, ma anche distaccarsene. Mettiamola così: con la qualità dei contenuti delle sue fotografie -eccoci-, Claudio Amadei scandisce i tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere la nostra linea retta: non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni pacate (e il riposo che l’osservazione ne guadagna non è valore da poco, né da sottovalutare), che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione con altri. Soltanto, non si cerchi la sintonia con l’autore: si è già espresso con le proprie immagini, e nulla altro ha da aggiungere. Quindi, ognuno parta da queste fotografie, da queste folgorazioni, da questi squarci nel buio per comporre i tratti del proprio percorso, che sarà avvincente per almeno due motivi: perché proprio, anzitutto, e perché sollecitato da una fotografia di alto profilo. La fotografia è magica e magia giusto per questo. ❖ È stato anche rilevato che il vero luogo natio sarebbe quello dove, per la prima volta, si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la nostra prima patria sono stati i libri. Qui, uno in più: uno che occupa una posizione di privilegio nella nostra libreria, quantitativamente consistente e qualitativamente selettiva.
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VEDUTISMO... E ALTRO, ANCORA Bernardo Bellotto: Piazza San Martino con la cattedrale, Lucca; 1740 (olio su tela, 50,8x72cm; York Art Gallery, Inghilterra). Attenzione: questa opera è stata realizzata nel 1740, come specificato (da cui, anche il riferimento temporale in titolo di mostra). Nato nel 1721, Bernardo Bellotto aveva diciannove anni... ovviamente in un tempo nel quale le aspettative di vita erano avare. Comunque, questa opera è una delle tre “toscane” presenti in mostra, l’unica realizzata a Lucca, città oggi ospite; le altre due si riferiscono a Firenze. La mostra Bernardo Bellotto 1740. Viaggio in Toscana si completa, poi, con ulteriori contributi: opere di altri autori, disegni preparatori di Bernardo Bellotto, carteggi e compendi.
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ernardo Bellotto! Vogliamo parlarne? Per quanto consideriamo fondamentale e sorprendente il suo apporto al vedutismo pittorico, della cui corrente è stato uno degli esponenti di spicco, allo stesso tempo e momento non possiamo, né vogliamo, sottostimare curiose coincidenze esistenziali, che ci hanno accolto anni e anni fa. I nostri incroci personali con la sua pittura, esperienza e sapienza sono curiosi, prima ancora di essere edificanti. Intendiamo riferirne, in alternativa e decodifica alla mostra Bernardo Bellotto 1740. Viaggio in Toscana, allestita a Lucca, dal prossimo dodici ottobre (e in cartellone fino al sei gennaio / Epifania). Eccoci qui, con due crocevia esistenziali, che -come tanti altri e meglio di tanti altri (forse, certamente)hanno contribuito alla nostra formazione, crescita e progressione esistenziale. Il primo crocicchio è di tre decenni fa, quando, il quindici settembre Millenovecentonovanta, insieme con Giovanna Calvenzi e Gabriele Basilico, ci recammo in automobile verso Padova, partendo da Milano, di nostra rispettiva residenza. Alla guida, Gabriele Basilico. Destinazione: residenza estiva del fotografo padovano Antonello Perissinotto (1933-2001), dove e quando, sui Colli Euganei, ogni anno, riuniva una combriccola di fotografi per salutare la fine dell’estate... per l’appunto, nel week-end di metà settembre. Sosta a Verona, suggerita da Gabriele Basilico, e subito accolta dalla moglie Giovanna Calvenzi e dal terzo passeggero (a scelta, fate voi, Angelo Galantini, Antonio Bordoni, Maurizio Rebuzzini, Franti...), per visitare una imponente mostra di quadri di Bernardo Bellotto, in finale di date espositive (Bernardo Bellotto. Verona e le città europee, al Museo di Castelvecchio, dal 15 giugno
© YORK MUSEUMS TRUST
Tracciato grafico relativo alla applicazione prospettica verso un centro voluto e consapevole di attenzione/convergenza visiva, con sovrapposizione di linee concordi all’utilizzo mirato e finalizzato della restituzione ottico-geometrica con la camera obscura.
di Maurizio Rebuzzini
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Dovremmo occuparci dell’entusiasmante mostra Bernardo Bellotto 1740. Viaggio in Toscana, a Lucca, fino all’inizio del prossimo gennaio. Però, data per scontata la comoda e facile reperibilità in Rete di dettagli logistici [a ciascuno, la propria Vita], non ci fermiamo su questa, ma da qui partiamo per un altro “viaggio”... tutto nostro... tutto vostro... tutto insieme, voi e noi. Del resto, per quanto ciascuno di noi abbia opinioni proprie e diverse su quanto sia degno di memoria, tutti sappiamo che, se possiamo rubare un soffio al vento (magari con una Fotografia), altrettanto possiamo creare momenti tutti nostri. Magari con una Fotografia
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al 16 settembre 1990; catalogo Electa). Ecco qui: il nostro primo avvicinamento tangibile a Bernardo Bellotto, oltre la conoscenza offerta da precedenti monografie illustrate, con Gabriele Basilico a farci da guida!
INCONTRIAMOCI A DRESDA
ANTONIO BORDONI
Dal febbraio 2010 di FOTOgraphia, un passo a lato (oppure indietro, ma invece avanti): pre-Fotografia in forma “fotografica”. Una recente monografia su Caravaggio, che legittimamente l’editore tedesco Taschen Verlag titola L’opera completa, offre spunti di riflessione sulla presenza nell’arte classica di visioni che noi identifichiamo e classifichiamo come “fotografiche”. L’esempio di Caravaggio è sintomatico: soprattutto, senso della luce e istante irripetibile.
Alla Gemäldegalerie Alte Meister, di Dresda, il dipinto di Bernardo Bellotto Dresda dalla riva destra dell’Elba sotto l’Augustusbrücke (ponte di Augusto), del 1748 [olio su tela 133x237cm], è presentato concordemente a una raffigurazione dell’autore con la propria camera obscura.
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Quindi, in secondo punto/momento di incontro privato (?), torniamo al 3 luglio 2008, oltre dieci anni fa, quando abbiamo avuto modo di seguire l’affascinante Canaletto Projekt, svoltosi a Dresda, in Germania, con scolari della città. In premessa, va rivelato che per i tedeschi, e specialmente a Dresda, dove ha lavorato a lungo, “Canaletto” è giusto e proprio Bernardo Bellotto (1721-1780), e non Giovanni Antonio Canal (1697-1768), come comunemente conferito. [Comunque, nota doverosa: Bernardo Bellotto è nato a Venezia, il 30 gennaio 1721, da Lorenzo e Fiorenza Canal, sorella di Giovanni Antonio Canal, che -dunque- gli è zio]. A parte la rilevazione che la ricostruzione urbanistica di Dresda, all’indomani delle devastazioni della Seconda guerra mondiale, fu realizzata basandosi sulle vedute pittoriche di Bernardo Bellotto / Canaletto, va osservata e sottolineata la sua appartenenza a quella schiera di pittori del/dal Vero -molti dei quali vedutisti della scuola veneziana- che si sono avvalsi degli ausili di corretta restituzione prospettica forniti dal sapiente e capace utilizzo della camera obscura (in compagnia, almeno, di Giovanni Antonio Canal / Canaletto, Luca Carlevarijs [1663-1730], Francesco Guardi [1712-1793], Gaspar van Wittel [1653-1736], Johannes Vermeer [16321675] e, perché no?, Caravaggio / Michelangelo Merisi, o Merigi o Amerighi [1571-1910]). [Ancora una nota doverosa: lo storicizzato “Bombardamento di Dresda” fu attuato dall’aviazione del Regno Unito (Royal Air Force) e degli Stati Uniti (United States Air Force), in combinazione (complicità?), tra il 13 e il 15 febbraio 1945, durante la Seconda guerra mondiale. Dresda fu rasa al suolo allo scopo di demoralizzare la popolazione tedesca: lo impose il primo ministro inglese Winston Churchill, in accordo con gli alleati Stalin, autocrate sovietico, e Franklin Delano Roosevelt, presidente statunitense. Vi furono tanti morti quanti a Hiroshima, in Giappone, per la bomba atomica statunitense del successivo sei agosto: da cento a duecentomila civili, ma la disputa sulla quantità esatta è ancora aperta. [A Dresda, era presente il giovane americano Kurt Vonnegut Jr (1922-2007), che successivamente si sarebbe imposto come uno dei capisaldi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta; in particolare, all’interno di una produzione letteraria vasta, per quantità e qualità, si ricordano almeno i suoi romanzi Ghiaccio-nove (Cat’s Cradle), del 1963, classificato come fantascienza (edizione italiana recente: Feltrinelli, 2013), La colazione dei campioni, ovvero addio triste lunedì (Breakfast of Champions, or goodbye blue monday ), del 1973 (edizione italiana recente: Feltrinelli, 2005) e Mattatoio n. 5 o La crociata dei Bambini (Slaughterhouse-Five; or, The Children’s Crusade: A Duty-Dance With Death), del 1969 (edizione italiana recente: Feltrinelli, 2014). [Sia questi qui ricordati, ed è troppo poco, sia tutta la letteratura di Kurt Vonnegut Jr è miscela di invenzione e realismo, di critica del “sistema” e umorismo,
Magia e fascino della visione stenopeica (senza obiettivo [tante e ripetute le nostre evocazioni, in FOTOgraphia]); magia e fascino del Sogno. Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta, da e con Giacomo Leopardi (in Zibaldone): «L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario [...]». Da cui, Lichtkammer, camera obscura con foro stenopeico realizzata da Martin Streit: installazione in Roncalli-Platz, accanto al Duomo di Colonia, in date che si sono allineate allo svolgimento della Photokina 2014 [ FOTOgraphia, novembre 2014]. Si trattò di una camera obscura di consistenti dimensioni, dotata di foro stenopeico, puntata sul fianco del Duomo, con proiezione su uno schermo, collocato al suo interno, dove si raccoglieva la proiezione... magica.
di pacifismo e radicalismo: compagno di strada della nostra Vita, maestro di Esistenza tra i più influenti. [Rientrando, Kurt Vonnegut Jr era a Dresda nei giorni e nelle notti degli incessanti bombardamenti alleati. Per sua stessa ammissione, quello fu l’accadimento più importante della sua vita, che lo avrebbe segnato per sempre. Era un prigioniero di guerra americano, costretto a lavorare per il Reich nelle grotte sotto un mattatoio, e grazie a questo fu uno dei pochi sopravvissuti. Da qui, andando ancora oltre (mai invano!, mai a vuoto!, mai senza profitto!), la sceneggiatura del film Mattatoio 5 (Slaughterhouse-Five), del 1972, è stata adattata da Stephen Geller, per la regia di George Roy Hill].
ANTONIO BORDONI (4)
RIMANIAMO A DRESDA
Da cui, ancora, testimonianze certificatorie dal Canaletto Projekt, che, il 3 luglio 2008, a Dresda, in Germania, ha coinvolto una sostanziosa quantità (e qualità) di scolari sul passo di Bernardo Bellotto, con richiamo e riferimento all’impiego e finalizzazione “prospettica” della sua propria camera obscura. Va rivelato che per i tedeschi, “Canaletto” è giusto e proprio Bernardo Bellotto, e non Giovanni Antonio Canal (1697-1768), come comunemente conferito. A parte la rilevazione che la ricostruzione urbanistica di Dresda, all’indomani delle devastazioni della Seconda guerra mondiale, fu realizzata basandosi sulle vedute pittoriche di Bernardo Bellotto / Canaletto, va osservata e sottolineata la sua appartenenza a quella schiera di pittori dal/del Vero che si sono avvalsi degli ausili di corretta restituzione prospettica forniti dal sapiente e capace utilizzo della camera obscura.
Rientrando con il nostro Bernardo Bellotto personale, in riferimento/richiamo individuale al Canaletto Projekt, il 3 luglio 2008, a Dresda, in Germania, dopo lunga digressione -che consideriamo indispensabile al nostro stare insieme-, il passo è stabilito dall’uso della camera obscura come ausilio per il disegno del/dal Vero: così come sono stati invitati ad agire gli scolari coinvolti, sul passo di Bernardo Bellotto [con richiamo alla sua propria camera obscura; centro pagina, in basso]. Nella sua fisionomia più semplice, oltre altri tipi di installazione, la camera obscura è un dispositivo (ottico) composto da un’area oscurata (scatola, cofanetto, scrigno) con un sistema che lascia entrare un fascio di luce controllato, per la composizione/genesi/creazione dell’immagine al proprio interno: foro stenopeico, oppure obiettivo sul fronte di un piano di proiezione dell’immagine sul retro/dorso. Si è soliti conteggiare e considerare che stia (starebbe) alle origini della “Fotografia” (la natura che si fa di sé medesima pittrice) e della “macchina fotografica”, nella propria intenzione ideologica. In questo senso, valgono le tante rilevazioni storiche che abbiamo più e più volte riportato: non più qui, non più ora. Da questo, dalla “precisione” nella osservazione e restituzione prospettica, la sua finalizzazione nella pittura e nel disegno del/dal Vero, a partire (almeno) dal Sedicesimo secolo. E, quindi, anche da Bernardo Bellotto, per certi versi soggetto odierno. Ma il Canaletto Projekt, di Dresda, non si manifesta / si è manifestato soltanto nell’esperienza didattica alla quale siamo stati testimoni, nell’estate di nove anni fa, per quanto questa ne abbia stabilito un sostanzioso e autorevole punto di partenza (e speriamo che l’evento si sia ripetuto in tempi successivi alla nostra certificazione temporale, ormai datata). Ora, nella capitale sassone, sono presenti installazioni realizzate proprio nel 2008 nell’ambito del progetto di formazione al quale ci siamo riferiti, comprensivo di visite/viste della città realizzate con la Camera Obscura. Tre vedute di Dresda, di Bernardo Bellotto, sono state contrassegnate da installazioni a profilo di cavalletto (tipico). Ognuna di queste inquadra una delle prospettive di Bellotto, nella città di oggi, ed è comprensiva di una sinossi (che riassume dettagli della posizione e dell’artista), e una visualizzazione del quadro corrispondente: in sostanziale confronto tra antico e presente [riquadro a destra, su questa stessa pagina]. In passeggiata storica nel centro di Dresda, le tre vedute sono localizzate nel
A Dresda, in Germania, tre vedute storiche di Bernardo Bellotto sono state contrassegnate da installazioni a profilo di cavalletto. Ognuna di queste inquadra una delle prospettive di Bellotto, nella città di oggi, ed è comprensiva di una sinossi (che riassume dettagli della posizione e dell’artista), e una visualizzazione del quadro corrispondente: in sostanziale confronto tra antico e presente. In passeggiata storica nel centro di Dresda: nel giardino dell’Elba, di fronte al Westin Bellevue Dresden (hotel), al fossato dello Zwinger, in Sophienstraße, e nella Brühlsche Terrasse (Georg-Treu-Platz).
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CON IL PASSO DELLE FIGURINE. LIEBIG, OVVIAMENTE
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Datata al 1966, la serie 288 delle Figurine Liebig (cronologicamente 1817) racconta la Storia della fotografia: è una delle serie moderne, pubblicate in anni successivi a quelli che, nei primi decenni del Novecento, hanno creato la fama della raccolta. Sei soggetti focalizzano momenti e passaggi ritenuti fondamentali del percorso evolutivo della Fotografia, presentato al più vasto pubblico possibile: appunto quello dei prodotti Liebig («Cento anni di esperienza al servizio della cucina moderna»), dall’estratto di carne al dado, al brodo. Dal nostro punto di vista, ovviamente ben coltivato, la sequenza di queste Figurine è oggettivamente limitata, per non dire povera (ma non impoverita). L’approssimazione è notevole, come evidenziano i testi di accompagnamento, originariamente stampati sul retro di ogni Figurina. Però, l’intenzione è onesta, oltre che valida. Accettiamo ciò che è, senza lamentare ciò che avrebbe potuto essere. Casomai, si possono rimproverare alcuni dei giudizi espressi, oltre la semplice (seppur vaga) cronaca dei fatti. Uno, sopra tutti, non può essere condiviso, perché implica un errato giudizio del passato, ideologicamente non condivisibile. Ci riferiamo a quel «Oggi noi disponiamo di apparecchi che sono autentici gioielli, tali da far apparire ridicole le cassette con le quali i nostri antenati, nell’Ottocento, seppero fare, tuttavia, eccellenti fotografie» (dal testo della Figurina 1 / La camera oscura [obscura]), qui in visualizzazione, completamente fuori sintonia. Nulla del presente fa apparire ridicolo il passato, può farlo apparire ridicolo; per quanto possibile, il confronto è sempre dialettico, e il passato è una delle chiavi di identificazione attraverso le quali capire il presente, se non già immaginare -addirittura- il futuro. Comunque, la parola al primo dei sei soggetti “storici”, quello della Camera obscura, che -come accade troppo spesso, sempre quasi- diventa “camera oscura”, in testo integrale: scrittura originaria, punteggiatura e sgrammaticature comprese.
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«La storia della fotografia comincia con la camera oscura, nota fin dal Quarto secolo a.C. al genio universale di Aristotele. Dello strumento noi abbiamo una prima descrizione per opera del fisico napoletano Giovanni Battista [Giambattista] Della Porta (1553). Nel Sedicesimo secolo, comunque, essa era largamente impiegata da pittori, grandi e piccoli, per ritrarre, con la maggior fedeltà possibile, le immagini delle persone e delle cose che dovevano fissare sulla tela. La camera oscura, allora, altro non era che un locale buio, su una parete della quale era praticato un foro, attraverso cui veniva fatto passare un fascio luminoso proveniente dall’esterno. Incontrando una superficie opaca che agiva in funzione di schermo, il fascio luminoso proiettava le immagini delle persone e delle cose poste al di fuori della stanza. «Più tardi il milanese Girolamo [Gerolamo] Cardano, dimostrò la possibilità di ottenere immagini più chiare collocando sul forellino una lente semplice. Siamo nel 1540; poco più di vent’anni dopo il veneziano Daniele Barbaro applicò al foro una lente biconvessa. «Mentre scienziati e tecnici, e spesso anche appassionati dilettanti, studiano la camera oscura nell’intento di perfezionarla e di convertirla in uno strumento utile all’umanità, i chimici compiono tentativi per fissare stabilmente le immagini ottenute nella camera oscura stessa. Ma passeranno tre secoli prima che fisici e chimici, riunendo i loro sforzi, riescano a dar vita alla fotografia vera propria, all’eliografia di Niépce e al dagherrotipo. «Oggi noi disponiamo di apparecchi che sono autentici gioielli, tali da far apparire ridicole le cassette con le quali i nostri antenati, nell’Ottocento, seppero fare, tuttavia, eccellenti fotografie. Non dobbiamo dimenticare che gli apparecchi moderni e il materiale che adoperiamo sono il frutto delle fatiche e dei sacrifici di molte generazioni, ognuna delle quali ha dato il proprio contributo perché si giungesse alle meraviglie delle quali il nostro secolo si vanta».
PER NOI (FOTOGRAFI) Sia consapevolmente, quanto inconsapevolmente, la visione e costruzione fotografica del paesaggio (e territorio?!) hanno profondi debiti di riconoscenza con la pittura vedutista, alla cui corrente Bernardo Bellotto ha proposto e offerto un contributo più che consistente. Non pensiamo tanto e soltanto alla finalizzazione della camera obscura per la definizione prospettica dei piani (ribadiamolo: dotata di una vera e propria lente/obiettivo, la camera obscura fu usata da molti pittori come ausilio per il disegno del/dal Vero), quanto proprio allo sguardo e luce, peraltro adeguatamente sottolineati su queste nostre stesse pagine, in mille e mille occasioni. Allo stesso modo, richiamando questa “pre-Fotografia” (ammesso, e non concesso che tale sia), che si è espressa con minuziosa ricostruzione e restituzione della realtà e del paesaggio (paesaggio urbano, abbiamo cominciato a dire, nei decenni più recenti), non ignoriamo, né sottovalutiamo, un altro debito con la pittura di Caravaggio (Michelangelo Merisi, o Merigi o Amerighi), alla quale riconosciamo una certa idea di “istantanea” della visione, oltre alla sapiente distribuzione della luce all’interno della composizione: diciamola anche così, e non andiamo oltre, rimandando, al caso, all’approfondimento ideologico Caravaggio fotografo (?), in FOTOgraphia, del febbraio 2010 [evocato in riquadro, a pagina 36]. Il cerchio che collega e congiunge la pittura dei vedutisti, tra i quali Bernardo Bellotto, a quella di Caravaggio, estendendosi fino all’espressività della Fotografia, all’indomani dell’invenzione di sistemi automatici che permettessero alla natura di essere “di sé stessa pittrice” (1839: centottant’anni fa esatti), si completa se e per quanto ciascuno di noi (Fotografi) sia disposto a osservare, piuttosto di giudicare e pensare, invece di credere, come spesso indicato ed esortato a fare, sia da questo (modesto) palcoscenico, sia da altre piattaforme di nostra competenza (richiamo d’obbligo per quella Coscienza dell’Uomo che si è distribuita lungo tutto il Duemiladiciannove, a Matera, con la regia di Francesco Mazza [FOTOgraphia, febbraio 2019]). Avvicinando la pittura vedutista, e oggi quella di Bernardo Bellotto, si possono mettere a frutto eccellenti opportunità per approfondire la conoscenza diretta con rappresentazioni che hanno influenzato il linguaggio fotografico, e che dovrebbero appartenere al bagaglio di apprendimenti e competenze di tutti coloro i quali si occupano di Fotografia e realizzano fotografie, sia con connotati professionali, sia con intendimenti non professionali. L’attuale autorevole Bernardo Bellotto 1740. Viaggio in Toscana, apparecchiata a Lucca, il cui allestimento ha ispirato e motivato queste nostre note odierne, per quanto le abbiamo composte in modo “particolare” (il
nostro, di sempre?) -senza che ci sia minimamente passato per la testa di riferirci alla mostra in sé-, alimenta e nutre e la sete fotografica individuale. Quantomeno, può/potrebbe farlo: a ciascuno, le proprie intenzioni; al pari e in allineamento concettuale e filosofico con don Vito Corleone / Vito Andolini (personaggio fittizio [?] della letteratura e del cinema, nell’interpretazione di Marlon Brando, nel primo passo della saga del Padrino), noi non giudichiamo come ciascuno si guadagna da vivere e conduce la propria vita. A Lucca, fino alla prossima Epifania è in scena una proposta visiva ed educativa avvincente e convincente del e sul valore delle creazioni di Bernardo Bellotto, così affini alla successiva rappresentazione fotografica, che sarebbe nata nel 1839 [centottanta anni fa], con conteggio ufficiale alle fatidiche date di annuncio e presentazione del processo dagherrotipico originario: sette gennaio e diciannove agosto; più Relazione di Macedonio Melloni, del dodici novembre [1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita / Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni, di Maurizio Rebuzzini; Graphia, 2009] e considerazione particolare e mirata per le legittime rivendicazioni di William Henry Fox Talbot, il cui processo calotipico è alla base della Fotografia così come ancora la intendiamo (negativo-matrice dal quale ottenere copie multiple, oggi file digitale) e Hippolyte Bayard. È tutto. Forse. ❖ P.S. Ufficialmente, tutto questo, è stato compilato con l’occasione della mostra Bernardo Bellotto 1740. Viaggio in Toscana: Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Complesso monumentale di San Micheletto, via san Micheletto 3, 55100 Lucca (0583-467205; www.fondazioneragghianti.it). Dal 12 ottobre al 6 gennaio 2020; martedì-domenica, 10,00-19,00. A cura di Bożena Anna Kowalczyk; allestimento di Daniela Ferretti; con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Ma non ci siamo per nulla riferiti a questo, traendone solo ispirazione per un altro tragitto. Comunque, in Rete, alla quale è giocoforza richiamarsi, sono avvicinabili tante cadenze specifiche, per quanto tutte identiche nella propria fedeltà ai comunicati stampa ufficiali (funzione taglia-e-cuci / copia-incolla alla comoda e facile portata di tutte le insulsaggini dei nostri tormentati giorni). ❯ Laboratorio didattico Lucca in viaggio nel tempo!, per bambini da sei a undici anni. In piazza San Martino, per manipolare sguardi antichi e contemporanei: disegni e dipinti di Bernardo Bellotto si sovrappongono a fotografie attuali, per un viaggio nel tempo, ricco di prospettive, palazzi e personaggi. ❍ Sabato sedici e trenta novembre; 16,00-17,30 (è consigliata la prenotazione: 0583-467205, mostra@fondazioneragghianti.it). P.S. / 2. In allineamento ideale con la mostra Bernardo Bellotto 1740. Viaggio in Toscana, sono programmati due accostamenti fotografici, nelle stesse date e nella medesima sede. ❯ Jacopo Valentini: The Hide and Extending. Trittici verticali, che vanno a comporre vedute orizzontali, come quelle di Bernardo Bellotto. ❯ Jakob Ganslmeier: La poetica del frammento. Reinterpretazione fotografica dei dipinti di Bernardo Bellotto (piazze di Lucca e Firenze), in ossequio e rispetto dei loro bilanciamenti prospettici. Non ci esprimiamo, né pronunciamo. Soltanto, rispettiamo le intenzioni dei due autori, e i loro rispettivi svolgimenti. Allo stesso momento, deprechiamo quelle curatele stolte e complici -come rivela questa combinazione a Lucca, integrativa (?!) alla pittura di Bernardo Bellotto-, che compromettono qualsivoglia competenza autentica. Così (mal) agendo, queste pensate/trovate sopravanzano il dibattito sul linguaggio fotografico, (altrimenti e altrove) tanto proficuo alle crescite individuali... che ne viene depauperato.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
giardino dell’Elba, di fronte al Westin Bellevue Dresden (hotel), in Große Meißner Straße [uno], al fossato dello Zwinger, in Sophienstraße, uno dei principali monumenti della città (complesso architettonico in stile barocco, costruito tra il 1709-1710 e il 1732-1733, per volere del duca e principe Augusto II di Polonia) [due], e nella Brühlsche Terrasse, in Georg-Treu-Platz [tre].
In presentazione dell’autorevole e imponente esposizione Canaletto. Venezia e i suoi splendori, a Ca’ dei Carraresi, di Treviso, nel 2008-2009, l’edizione veneta del Corriere della Sera, di lunedì venti ottobre, ha riservato sedici pagine alla mostra. Tra i tanti interventi giornalistici (?), un approfondimento sull’utilizzo e finalizzazione della camera obscura da parte dei vedutisti (al solito, slittata in “camera oscura”).
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SOLO DODICI! R di Angelo Galantini
ibadiamo, confermando. Della autorevole e imperiosa monografia illustrata MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11, con testi di Norman Mailer, pubblicata da Taschen Verlag, nel 2009, per il quarantesimo anniversario dell’allunaggio, ne abbiamo già riferito in due occasioni precedenti: appunto, nel quarantesimo e cinquantesimo [rispettivamente, in FOTOgraphia, del luglio 2009 e luglio 2019]. In attuale ripresa e ripetizione, finalizzata a segnalare il prestigio bibliografico di una ulteriore edizione a tiratura piÚ che limitata (!), peraltro accennata lo scorso luglio, replichiamo soltanto i termini identificatori della qualificata monografia, che ripercorre i tempi spaziali statunitensi che hanno portato Apollo 11 al primo allunaggio sulla Luna: con i primi due Uomini
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Disegnata da Marc Newson, la Lunar Rock Edition di MoonFire è ispirata al Lem di Apollo 11 (Lunar Excursion Module). Ogni volume è contenuto in una custodia composta da un singolo pezzo di alluminio, la cui superficie è una topografia 3D della Luna, e viene fornito con un pezzo unico di roccia lunare. I meteoriti della Luna sono eccezionalmente rari; ne esistono meno di settanta, con un peso complessivo di circa cinquantacinque chilogrammi: il che li rende milioni di volte più rari dei diamanti. La maggior parte dei meteoriti lunari è conservata ed esposta in collezioni museali e in istituti di ricerca; soltanto quindici chilogrammi circa sono a disposizione di singoli collezionisti di tutto il mondo: dodici esemplari accompagnano le edizioni speciali Lunar Rock Edition di MoonFire, numerate da 1958 a 1969, anno di primo allunaggio (di Apollo 11), per un peso totale di 585,40g (un terzo del totale disponibile).
Della autorevole e imperiosa monografia illustrata MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11, pubblicata da Taschen Verlag, nel 2009, per il quarantesimo anniversario dall’allunaggio, ne abbiamo già riferito in due occasioni: nel quarantesimo e, poi, nel cinquantesimo, dello scorso luglio. Ripresa e ripetizione in (sola) segnalazione di un prestigio bibliografico aggiuntivo (Sapiens), che, successivamente, sarebbero stati seguìti da altri dieci, fino alla missione conclusiva Apollo 17, del 7-19 dicembre 1972, con allunaggio l’undici (senza la missione Apollo 13, che fece ritorno a Terra). MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11 (L’epico viaggio di Apollo 11) si esprime su un binario doppio, collegato e abbinato. I raffinati testi di Norman Mailer, brillante esponente della Beat Generation, venuto a mancare nel novembre 2007, a ottantaquattro anni, originariamente scritti nel 1969 per le relazioni di Life sull’allunaggio, accompagnano spettacolari fotografie fornite soprattutto dagli archivi della Nasa. Dopo l’originaria Limited Edition, in millenovecentocinquantasette copie (1957) numerate, in confezione di plexiglas, con una stampa fotografica 40x32,5cm, incorniciata in plexiglas, del ritratto di Edwin E. Aldrin Jr in piedi sulla Luna, con l’altro astronauta Neil A.
Armstrong che si riflette nella visiera del suo casco, firmata dallo stesso Buzz Aldrin, il secondo Uomo sulla Luna, la monografia è stata ripubblicata in edizioni standard, economicamente più avvicinabili: dai 750,00 euro di partenza, slittati nel tempo a 3500,00 euro, si è passati ai quaranta euro dell’edizione 2010, anche in italiano, ai quindici euro della riduzione fisica nella collana Bibliotheca Universalis (14x19,5cm), senza l’italiano, e agli attuali quaranta euro dell’edizione 2019 celebrativa del cinquantenario, non in italiano [nel dettaglio, in FOTOgraphia, dello scorso luglio 2019]. Ora, non siamo qui a segnalare qualcosa del quale consigliamo l’acquisto, e non ce lo permetteremmo mai (anche perché, per quanto possa sembrare curioso, l’attuale Lunar Rock Edition è già andata quasi esaurita; forse totalmente esaurita una volta pubblicate queste note, successive all’aggiornamento commerciale alla
Dopo l’originaria Limited Edition, la monografia MoonFire è stata pubblicata in edizioni standard: dettagli, in FOTOgraphia, dello scorso luglio 2019. Ora, non segnaliamo qualcosa di cui consigliamo l’acquisto, e non ce lo permetteremmo. Comunque, i dodici esemplari della Lunar Rock Edition, conteggiati da 1958 a 1969, sono quotati da sessantamila a settecentomila dollari, traducibili da cinquantatré mila euro abbondanti (circa 53.700,00,00 euro) a seicentoventisette e mezzo (circa 627.500,00 euro).
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Ogni Lunar Rock Edition si accompagna a una pietra di Breccia lunare feldspatica, composta da molti tipi di roccia a grana, in visualizzazione su questa doppia pagina (nota dovuta [?]: così illustrati, i meteoriti appaiono quantomeno imbarazzanti, in aspetto di escrementi cilindrici). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1958: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Algeria; 1,40g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1959: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Algeria; 4,70g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1960: con Olivine Gabbro / Breccia Mare Basalt Regolith scoperta nel Nord-Ovest dell’Africa; 6,52g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1961: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Algeria; 6,57g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1962: con Olivine Gabbro / Breccia Mare Basalt Regolith scoperta nel Nord-Ovest dell’Africa; 8,90g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1963: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Marocco; 12,64g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1964: con Breccia lunare feldspatica scoperta nel Deserto del Sahara, al confine tra Algeria e Marocco; 15,74g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1965: con Breccia lunare feldspatica scoperta nel Deserto del Sahara, al confine tra Algeria e Marocco; 17,54g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1966: con Breccia lunare feldspatica scoperta a Dhofar, in Oman; 30,34g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1967: con Breccia lunare feldspatica Basalt-Bearing Mingled scoperta nel corridoio Nord-Ovest dell’Africa, al confine tra Algeria e Marocco; 41,88g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1968: con Breccia lunare feldspatica scoperta a Siskou, in Marocco; 91,26g. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1969 (esemplare associato): con Breccia lunare feldspatica scoperta in Marocco; 348g.
prima settimana di settembre). Soltanto, censiamo quella che potrebbe essere conteggiata e storicizzata come una delle più preziose e costose edizioni librarie di tutti i tempi; la tiratura originaria Limited Edition di millenovecentocinquantasette copie (1957) numerate di Moon Fire: The Epic Journey of Apollo 11, in confezione dedicata, si arricchisce oggi di ulteriore particolarità bibliografica in dodici esemplari, come appena annotato, tanti quanti sono stati gli astronauti sbarcati sulla Luna (da Apollo 11 a Apollo 17, senza Apollo 13, della cui “avventura” accenniamo nel riquadro pubblicato a pagina quarantasei, in racconto di allunaggi, e per la cui vicenda rimandiamo anche alla sceneggiatura del film omonimo, del 1995): conteggiate da 1958 a 1969. Disegnata da Marc Newson, la Lunar Rock Edition di MoonFire è ispirata al Lem di Apollo 11 (Lunar Excursion Module). Ogni volume è contenuto in una custodia composta da un singolo pezzo di alluminio, la cui superficie è una topografia 3D della Luna, e viene fornito con un pezzo unico di roccia lunare. I meteoriti della Luna sono eccezionalmente rari; ne esistono meno di settanta, con un peso complessivo combinato di circa cinquantacinque chilogrammi: il che li rende milioni di volte più rari dei diamanti di qualità gemma. La maggior parte dei meteoriti lunari è conservata ed esposta in collezioni museali e in istituti di ricerca; soltanto quindici chilogrammi circa sono a disposizione di singoli collezionisti di tutto il mondo: dodici esemplari accompagnano le edizioni speciali Lunar Rock Edition di MoonFire, numerate da 1958 a 1969 [anno di primo allunaggio (di Apollo 11)], per un peso totale di 585,40g (un terzo del totale disponibile). Siccome l’acquisizione di una delle rocce lunari recuperate dalle missioni spaziali statunitensi Apollo è sostanzialmente impossibile, l’unico modo realistico di possedere un pezzo di Luna è acquisire un meteorite lunare. All’impatto con l’atmosfera terrestre, una massa di meteoriti si rompe spesso in più pezzi, in seguito . La massa principale riceve un nome univoco (per esempio, NWA 2995 dell’esemplare 1958 della Lunar Rock Edition di MoonFire), e tutti i frammenti “accoppiati”, scoperti nelle vicinanze, con la stessa composizione, ricevono la designazione di “Esemplare associato”. In generale, i meteoriti abbinati a questa edizione libraria, Brecce frammentarie feldspatiche, contengono molti tipi di roccia a grana fine FHT (Feldspathic Highlands Terrain), tra i quali norite, basalto olivina, gabbro e altri. Poiché le rocce di origine del suolo lunare provengono dagli altopiani, solo i tipi di rocce lunari più antichi e più comuni sono generalmente rappresentati, con età di circa 4,2-4,3 miliardi di anni. Sono anche indistinguibili da una vera e propria roccia lunare, con i propri grandi frammenti bianchi anortosite che sono stagliati dalla matrice di sfondo grigio scuro e nero. Con ordine, ribadiamo... senza sollecitazione all’acquisto individuale... non ci permettiamo tanto. Ogni copia della Lunar Rock Edition si accompagna a una pietra di Breccia lunare feldspatica, composta da molti tipi di roccia a grana. Custodia in alluminio con roccia lunare in capsula e stampa incorniciata, 40x32,5cm, 348 pagine 36,5x44cm con quattro foldout; cartonato. (continua a pagina 46)
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BUZZ ALDRIN (APOLLO 11): IN FORMA DI STAMPA
NASA / TASCHEN VERLAG (7)
Sei fotografie epiche della missione spaziale Apollo 11, allunata il 20 luglio 1969, cinquanta anni fa [FOTOgraphia, luglio 2019], sono state edite dall’attento Taschen Verlag, di Colonia, in celebrazione di questo anniversario tondo. Le fotografie, che poi sono sette, conteggiando che un soggetto è scomposto in due copie abbinate e consequenziali, sono realizzate in dimensioni generose, in tiratura limitata, per quanto in quantità cospicue: stampe colore a sublimazione, montate su pannello in alluminio ChromaLuxe, pronte per essere appese, certificate Nasa/Taschen. Sono tutte attribuite all’astronauta Buzz Aldrin, il secondo Uomo sulla Luna; quattro lo ritraggono sulla superficie lunare, e le altre due (tre) riguardano momenti della missione Apollo 11, dei quali lo stesso astronauta è stato protagonista.
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Con l’occasione, ricordiamo che Neil A. Armstrong, il primo Uomo sulla Luna, peraltro autore accertato delle quattro situazioni appena menzionate, è mancato nel 2012, a ottantadue anni, e Michael Collins, pilota della navicella madre Columbia, coetaneo degli altri due astronauti di Apollo 11 (tutti sono nati nel 1930), ancora in vita, è raramente coinvolto nelle ricorrenze, non essendo allunato (per quanto, la Fotografia lo ricordi soprattutto per l’Hasselblad SWC che gli sfuggì di mano durante una escursione fuori navicella: luglio 1966, missione Gemini 10). Con ordine, i sei/sette soggetti della Buzz Aldrin. Apollo 11 50th Anniversary Edition Prints, certificati dalla firma dello stesso astronauta, che ha anche attestato la Limited Edition di MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11, in millenovecentocinquantasette
copie (1957) e l’attuale Lunar Rock Edition, in dodici esemplari, soggetto principale di queste nostre note. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Flag on the Moon” (Bandiera sulla Luna): tiratura centocinquanta copie (150), 101,6x101,6cm; 4000,00 euro. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Inspecting the Eagle” (Ispezionando il modulo lunare Eagle); tiratura settantacinque copie (75), 101,6x101,6cm; 4000,00 euro. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “A Man on the Moon” (Un Uomo sulla Luna... iconica dell’allunaggio); tiratura quattrocentosettantacinque copie (475), 101,6x101,6cm; 4000,00 euro. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Lunar Module Ascent” (Discesa del modulo lunare); tiratura settantacinque copie (75), 101,6x101,6cm; 4000,00 euro.
❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Solar Wind Composition Experiment” (Esperimento sulla composizione del vento solare); tiratura settantacinque copie (75), 101,6x101,6cm; 4000,00 euro. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Earthrise Sequence” (Sequenza della Terra che sorge dalla Luna); in due stampe da accostare; tiratura centocinquanta copie (150), 80x240cm; 6500,00 euro. Anche qui, come già conteggiato per la MoonFire Lunar Rock Edition, e ad altrettanto titolo di puro esercizio di stile, facciamo i conti in tasca. Cifre alla mano, arriviamo alla somma di quattro milioni e trecentosettantacinquemila euro (4.375.000,00 euro)... quando e se tutte le mille copie in tiratura limitata verranno vendute. Comunque, l’intera serie di sei/sette soggetti quota ventiseimila cinquecento euro (26.500,00 euro). Oltre i propri dati tecnici e logistici, riferiti in testo, le sei/sette fotografie epiche della missione spaziale Apollo 11, la prima allunata, proposte da Taschen Verlag in edizione fotografica coincidente con il collezionismo, esigono note di presentazione. In premessa dovuta, ribadiamo quanto già rilevato lo scorso luglio di celebrazione del cinquantenario 20 luglio 1969-2019. In nota tecnica, richiamiamo ancora l’infrastruttura delle missioni spaziali della Nasa, l’Ente preposto: una delle differenze che riguardano l’attrezzatura fotografica in dotazione agli astronauti intende la presenza di piastra reseau (reticolo a croci, al ritmo di un centimetro tra i riferimenti distribuiti sul piano focale, che si impressiona sul fotogramma 6x6cm) in accompagnamento della HDC (Hasselblad 500EL Data Camera), utilizzata sulla superficie lunare. Diciamolo a chiare lettere: diversamente da quanto hanno supposto sprovveduti di turno, tanti se ne manifestano (sempre!), l’impressione reseau non può/deve essere confusa con i watermark di tutela e protezione dei diritti di riproduzione delle immagini! E si noti l’assenza di reticolo dalle/nelle fotografie che gli astronauti hanno ripreso dalla navicella, piuttosto che nel corso delle escursioni extraveicolari (due esempi anche in questo attuale portfolio, entrambi relativi alla Terra che sorge dalla Luna). A premessa risolta, i commenti dovuti, nella sequenza ufficiale di questa serie, qui visualizzata da sinistra a destra, su due fasce. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Flag on the Moon”. Edwin E. Aldrin Jr in posa accanto alla bandiera statunitense fissata al suolo (situazione iconica ripetuta in ogni altra missione lunare). ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Inspecting the Eagle”. Edwin E. Aldrin Jr accanto al modulo lunare LM (Eagle) del quale è stato pilota, in allunaggio e in decollo per il riaggancio alla navicella madre. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “A Man on the Moon”. Immagine-simbolo di Buzz Aldrin sul suolo lunare, con Neil A. Armstrong riflesso nella visiera dorata. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Lunar Module Ascent”. Fotografato da Michael Collins, dalla navicella madre Columbia in orbita, il modulo lunare LM (Eagle, in gergo), con a bordo Neil A. Armstrong e Edwin E. Aldrin Jr (“Buzz”), primo e secondo Uomo sulla Luna, sta raggiungendo il sito di allunaggio. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Solar Wind Composition Experiment”. Attività extraveicolare sulla superficie della Luna: il titolo è esaustivo. ❯ Buzz Aldrin. Apollo 11. “Earthrise Sequence”. Dopo le fotografie epocali di Apollo 8 [ FOTOgraphia, febbraio e luglio 2019], tutte le successive missioni hanno ripetuto. Questo montaggio della porzione centrale di sei fotogrammi 6x6cm è affascinante e avvincente. Spettacolare...
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QUELLA FULGIDA DOZZINA
NASA
In origine, le missioni spaziali statunitensi con destinazione Luna sarebbero dovute essere dieci, a partire da Apollo 11, ognuna con due astronauti in allunaggio sul satellite della Terra. Per mille e mille motivi, vuoi oggettivi, nel senso di riduzione dei finanziamenti, vuoi soggettivi (lo scarso interesse del pubblico), all’indomani delle prime due missioni, ci si è fermati ad Apollo 17, l’ultima con allunaggio. In tutto, sei missioni, considerato che Apollo 13 è dovuta tornare a Terra per difficoltà tecniche (sceneggiate nell’omonimo film Apollo 13, del 1995, diretto da Ron Howard). Dunque, dodici Uomini sulla Luna, come conteggiato nella particolare Lunar Rock Edition di MoonFire, qui commentata, che dalla numerazione 1958, immediatamente successiva le millenovecentocinquantasette copie dell’originaria Limited Edition, del 2009, sono approdate alla numerazione 1969... evocativa dell’anno in cui l’Uomo è arrivato sulla Luna (Sapiens): lungimiranza editoriale, programmazione allungatasi sui decenni, dal quarantesimo al cinquantesimo anniversario? Osiamo pensare di sì, in merito e riconoscimento di un editore, Taschen Verlag, di Colonia, che ha spesso rivelato la propria cura ed attenzione libraria... caso unico, non soltanto inconsueto, nel pur vasto panorama editoriale planetario. Di questi dodici astronauti allunati, almeno otto, se non già undici (dimenticati sulla Luna), avrebbero anche potuto restarsene a casa, quantomeno dal punto di vista spettacolare delle proprie missioni spaziali, via via sempre più ignorate e sdegnate dal pubblico. Per certi versi, l’Odissea di Apollo 13 (11-17 aprile 1970; James A. Lovell Jr, Fred W. Haise Jr e Ken Mattingly; i primi due in allunaggio programmato) ha comunque riacceso gli interessi, per qualche istante. E qui, e ora, ricordiamo questi dodici personaggi che hanno illuminato il Novecento con la loro azione (in identificazione anagrafica ufficiale, spesso diversa da quella adottata nei resoconti giornalistici, tra i quali il nostro dello scorso luglio): Neil Alden Armstrong (1930-2012) e Edwin Eugene Aldrin Jr (Buzz; 1930), di Apollo 11 (20 luglio 1969); Charles Conrad (Pete; 1930-1990) e Alan LaVern Bean (1932-2018), di Apollo 12 (19 novembre 1969); Alan Bartlett Shepard Jr (1923-2008) e Edgar “Ed” Dean Mitchell (1930-2016), di Apollo 14 (5 febbraio 1971); David R. Scott (1932) e James Benson Irwin (1930-1991), di Apollo 15 (30 luglio 1971); John Watts Young (1930-2016) e Charles Moss “Charlie” Duke Jr (1935), di Apollo 16 (21 aprile 1972); Eugene “Gene” Andrew Cernan (1934-2017) e Harrison Hagan Schmitt (1935), di Apollo 17 (11 dicembre 1972).
L’equipaggio di Apollo 13 (11-17 aprile 1970) al rientro a Terra, dopo il recupero dallo Spazio, coordinato dal centro di controllo della Nasa: James A. Lovell Jr, Fred W. Haise Jr e Ken Mattingly (i primi due in allunaggio programmato... ma non raggiunto [fatalità del “13”]).
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(continua da pagina 43) ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1958 / NWA 2995: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Algeria; 34x17x1mm; 1,40g; 60.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1959 / NWA 2995: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Algeria; 50x28x1mm; 4,70g; 75.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1960 / NWA 2727: con Olivine Gabbro / Breccia Mare Basalt Regolith (il materiale lunare più giovane mai trovato) scoperta nel Nord-Ovest dell’Africa; 29x27x5mm; 6,52g; 75.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1961 / NWA 2995: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Algeria; 78x39x2mm; 6,57g; 75.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1962 / NWA 2995: con Olivine Gabbro / Breccia Mare Basalt Regolith (il materiale lunare più giovane mai trovato) scoperta nel Nord-Ovest dell’Africa; 25x21x11mm; 8,90g; 75.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1963 / NWA 2200: con Breccia lunare feldspatica scoperta in Marocco; 35x24x10mm; 12,64g; 95.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1964 / NWA 5153: con Breccia lunare feldspatica scoperta nel Deserto del Sahara, al confine tra Algeria e Marocco; 48x21x17mm; 15,74g; 95.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1965 / NWA 482: con Breccia lunare feldspatica scoperta nel Deserto del Sahara, al confine tra Algeria e Marocco; 42x50x3mm; 17,54g; 125.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1966 / NWA 160: con Breccia lunare feldspatica scoperta a Dhofar, in Oman; 53x44x18mm; 30,34g; 140.000 dollari (venduta). ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1967 / NWA 5153: con Breccia lunare feldspatica Basalt-Bearing Mingled scoperta nel corridoio Nord-Ovest dell’Africa, al confine tra Algeria e Marocco; 38x27x23mm; 41,88g; 275.000 dollari. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1968 / NWA 4936: con Breccia lunare feldspatica scoperta a Siskou, in Marocco; 69x42x17mm; 91,26g; 400.000 dollari. ❯ MoonFire / Lunar Rock Edition No. 1969 / NWA 4936 (esemplare associato): con Breccia lunare feldspatica scoperta in Marocco; 90x75x51mm; 348,00g; 700.000 dollari. In conclusione, e a solo titolo di esercizio di stile (estraneo ai novantanove folgoranti di Raymond Queneau [per l’appunto, Esercizi di stile (Exercices de style, dal 1947), in traduzione di Umberto Eco, in prima edizione italiana Einaudi, del 1983]), facciamo qualche conto, sommando i valori dei dodici esemplari della Lunar Rock Edition di MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11, composte e confezionate come appena riassunto. Cifre alla mano, arriviamo a due milioni e centonovantamila dollari (2.190.000,00 dollari), ottocentoquindicimila dei quali già realizzati. Però, lo sappiamo bene, qui non si tratta di libri... ma di qualcosa d’altro, seppure accompagnato da una eccellente edizione libraria, capace di fare sostanziosa differenza... anche nella Vita. Solo per curiosità individuale. ❖
Cento anni fa di Maurizio Rebuzzini
GLI “SPORCHI” SOX
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Chicago White Sox, per il campionato di baseball Usa del 1919 (American League). Dopo aver dominato la stagione, due anni dopo aver conquistato le World Series 1917, contro i New York Giants (National League), furono sconfitti nella finale assoluta della Major League dai Cincinnati Reds. A seguire, i sospetti e, poi, le prove della corruzione di otto giocatori, determinanti per perdere intenzionalmente, dietro pagamento di un compenso (storia di malavita locale, quando Al Capone aveva vent’anni).
Scandal on the South Side: The 1919 Chicago White Sox, di Jacob Pomrenke; Society for American Baseball Research, 2015.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Come rivelato in altre occasioni (a questa) precedenti, siamo appassionati di Baseball statunitense. Per quanto il nostro interesse personale si interrompa agli anni Sessanta del Novecento, è confortevolmente nutrito di storie leggendarie e -perfino- commoventi, alimentate da figure mitiche, ciascuna delle quali ha risposto, sempre e comunque, a un’etica (e una morale e un onore) senza compromessi: anche in e per nostro beneficio esistenziale, spoglio di confini prestabiliti. In stretti termini temporali, giusto un mese fa, lo scorso settembre, abbiamo completato le rilevazioni di Lello Piazza sul numero Quarantadue, integrando con una concentrata rievocazione di Jack Roosevelt Robinson (“Jackie”; 1919-1972, il primo afroamericano nelle Major League, dal 15 aprile 1947, all’Ebbets Field, di Brooklyn / New York City, davanti a oltre ventitremila spettatori. Questo, a seguito di un più ampio intervento redazionale temporalmente precedente [in FOTOgraphia, del giugno 2017, nel sessantesimo]. Con l’occasione, rimandiamo anche ad altri nostri precedenti sul Baseball: marzo 2009, per l’abbattimento dello storico Yankee Stadium, di New York; maggio 2010, in presentazione e commento della avvincente monografia illustrata Baseball - Ballet in the Dirt, in edizione Taschen Verlag, dell’autorevole fotografo statunitense di sport Neil Leifer [quello dell’iconica immagine del knock out con il quale Muhammad Ali ha sconfitto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, nel Maine, il 25 maggio 1965, anche copertina della fantastica monografia Greatest of All Time - A Tribute to Muhammad Ali, del 2010 (in FOTOgraphia, del dicembre 2010), e in presenza significativa nel portfolio Behind Photographs, di Tim Mantoani (in FOTOgraphia, dell’ottobre 2010)]. Ora, nel centenario dalla vicenda, riferiamo dalle World Series 1919, per l’assegnazione del primo posto assoluto nel campionato statunitense di baseball, tra i vincitori delle rispettive American League e National League, nelle quali è scomposta la potente Major
Cento anni fa FAUSTO COPPI (1919-1960)... IL CAMPIONISSIMO
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Altro centenario dallo Sport alla Vita. Lo scorso quindici settembre, sono stati ricordati i cento anni dalla nascita di Fausto Coppi, ciclista nel Cuore di molti italiani (noi, tra i tanti): dalla scorsa primavera, il suo paese natio, in provincia di Alessandria, è identificato come Castellania Coppi, così come, dal 21 dicembre 1938, si ha Torre del Lago Puccini, in provincia di Lucca, in onore dei lunghi soggiorni del compositore Giacomo Puccini (1858-1924). Nel leggendario dualismo con Gino Bartali, siamo sempre stati coppiani; fino al punto di soffrire, soffrire per davvero, quando, nel 1979, Paolo Conte inserì il suo Bartali nell’album Un gelato al limon (seconda traccia) [e alla sua pur avvincente interpretazione, preferiamo quella commovente di Enzo Jannacci, nell’album Foto Ricordo, dello stesso 1979; settima traccia]. Quindi, un decennio dopo, fummo ripagati da Gino Paoli, quando -nel 1988- inserì il motivo Coppi nei suoi album Sempre e L’ufficio delle cose perdute [testo, qui accanto, a destra]. Con Gino Bartali, ci siamo riconciliati solo di recente, quando e per quanto è stato raccontato il suo fattivo ed eroico sostegno ai perseguitati ebrei, durante la Seconda guerra mondiale. Affiliato all’organizzazione clandestina Delasem (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), dal settembre 1943 al giugno 1944, quando lavorava come riparatore di ruote di bicicletta, causa l’interruzione di ogni manifestazione sportiva, Gino Bartali compì sostanziose missioni umanitarie. Pedalando da Terontola, frazione di Cortona, in provincia di Arezzo, trasportò/trafugò documenti e fototessere all’interno dei tubi del telaio, in modo che una stamperia segreta potesse, poi, falsificare i documenti necessari alla fuga di ebrei rifugiati. A volte, venne fermato dalle guardie fasciste, con le quali faceva valere la sua fama e il suo prestigio atletico. Si è calcolato che la sua azione abbia contribuito a salvare circa ottocento ebrei: da cui, il conferimento postumo della Medaglia d’Oro al Valor Civile, consegnata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il 25 aprile 2006, alla moglie Adriana (Gino Bartali è mancato il 5 maggio 2000, a ottantasei anni).
Per la sua azione a favore degli ebrei perseguitati, il 2 ottobre 2011, Gino Bartali è stato inserito tra i “Giusti dell’Olocausto”, nel Giardino dei Giusti del Mondo, di Padova; il 23 settembre 2013, è stato dichiarato “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah, di Israele: assieme a quello di altri eroi, il suo nome è eternamente ricordato da una stele sul monte Herzl, nei pressi di Gerusalemme. Infine, il 2 maggio 2018, ha ricevuto la nomina a cittadino onorario di Israele, in occasione dell’inizio del Giro d’Italia, avviato con un circuito sulle strade della capitale, venerdì quattro maggio.
Coppi (di Gino Paoli) Un omino con le ruote contro tutto il mondo Un omino con le ruote contro l’Izoard E va su ancora e va su Viene su dalla fatica e dalle strade bianche La fatica muta e bianca che non cambia mai E va su ancora e va su Qui da noi per cinque volte poi due volte in Francia Per il mondo quattro volte contro il vento due Occhi miti e naso che divide il vento occhi neri e seri guardano il pavé E va su Ancora e va su e va su Poi, lassù, contro il cielo blu con la neve che ti canta intorno E poi giù Non c’e’ tempo per fermarsi per restare indietro la signora senza ruote non aspetta più Un omino che non ha la faccia da campione, con un cuore grande come l’Izoard E va su Ancora e va su e va su e va su e va su e va su e va su
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Cento anni fa
League, corrispondente alla Serie A del calcio italiano. Cento anni fa esatti (peraltro, con ulteriore centenario dalla nascita dell’appena menzionato Jack Roosevelt Robinson (“Jackie”; 31 gennaio 1919), dal Primo al nove ottobre, le World Series contrapposero i Chicago White Sox, campioni della American League, ai Cincinnati Reds, campioni della National League. Assolutamente favoriti, tra la sorpresa di tutti, dopo un campionato di vertice inviolato, i Chicago White Sox -peraltro vincitori nel precedente 1917- furono inaspettatamente battuti: con cinque sconfitte su tre vittorie, in una serie
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“Shoeless” Joe Jackson, esterno sinistro dei Chicago White Sox, è evocato in due film, curiosamente vicini: Otto uomini fuori, del 1988, che narra delle World Series 1919; L’uomo dei sogni, del 1989, nel quale -fantasma- appare a Ray Kinsella (Kevin Costner; qui sopra, al centro). ... Questo film approda al padre... John Kinsella (qui sopra, in basso).
al meglio di nove partite. Però, immediatamente a seguire, si scoprì che otto giocatori della squadra si erano accordati con loschi personaggi per perdere intenzionalmente, dietro pagamento di compenso (e si ritiene fosse stata determinante la figura di Arnold Rothstein, potente boss della città, consigliere di Lucky Luciano). Tutto questo, e altro ancora, è stato sceneggiato nel qualificato film Otto uomini fuori (Eight Men Out), di John Sayles, del 1988, che pone il proprio accento anche sulla “complicità” involontaria del proprietario della squadra, Charles Comiskey, avaro con i gioca-
tori, che non manteneva le promesse fatte, soprattutto in termini di stipendi e premi. Da cui, per conseguenza diretta (?), gli otto cospiratori cercarono altrove compensi per le proprie abilità atletiche... in declinazione inversa. Per quanto sia superfluo ricordarlo (ma non lo è per noi), gli otto giocatori protagonisti di questa vicenda furono: Eddie Cicotte, lanciatore; Oscar “Happy” Felsch, esterno centro; Arnold “Chick” Gandil, prima base; “Shoeless” Joe Jackson, esterno sinistro; Fred McMullin, terza base; Charles “Swede” Risberg, interbase; George “Buck” Weaver, interbase e terza base; Claude “Lefty” Williams, lanciatore. Tra tutti, il più celebre, ai propri tempi, e ancora presente nella memoria collettiva, è “Shoeless” Joe Jackson, a propria volta filo conduttore trasversale del film L’uomo dei sogni (Field of Dreams), di Phil Alden Robinson, del 1989... commovente storia d’amore per il proprio padre («Se lo costruisci, lui tornerà»): nell’interpretazione di Ray Liotta. [A proposito, in questo film, come anche in quello sceneggiato sulla vicenda delle World Series 1919, appena evocato, si fa uno stesso accenno al fatto che, in epoca di sostanziosa anonimìa fisica, “Shoeless” Joe Jackson sarebbe stato visto giocare nelle leghe minori, con altro nome: attaccamento al gioco, indipendentemente da qualsivoglia remunerazione... “quel profumo dell’erba appena tagliata”]. La storia delle World Series del 1919 è talmente radicata nella cultura e socialità statunitense, che -da cento anni- accompagna i Chicago White Sox (calzini bianchi). Tanto che, se capita di citarli a un americano, si è presto corretti nell’identificazione... che ancora oggi suona “Black Sox”, italianizzabile in “Sporchi Sox”. Ancora, questa vicenda ha avviato una “maledizione” sulla squadra, che non è più riuscita a prevalere nelle World Series per decenni e decenni e decenni: nel 1959, è stata sconfitta dai Los Angeles Dodgers [la squadra di Jackie Robinson, trasferitasi da Brooklyn in California], nelle uniche World Series raggiunte in tanti e tanti anni. La maledizione si è sciolta solo nel (recente) 2005, quando i Chicago White Sox sono riusciti a prevalere sugli Houston Astros. E che ce ne frega? Più di quanto possa apparire in superficie/superficialità: storie di Vita. ❖
Parole di altri a cura di Franti
La fotografia Uhe! No. Guarda la fotografia. Sembra neanche un ragazzino. Io, io son quello col vino. Lui, lui è quello senza motorino. Così adesso che è finito tutto e sono andati via e la pioggia scherza con la saracinesca della lavanderia. No, io aspetto solo che magari l’acqua non se lo lavi via quel segno del gesso di quel corpo che han portato via. E tu, maresciallo, che hai continuato a dire «Andare tutti via! Andate via, che qui non c’è più niente da vedere, niente da capire!». E sapeva quanto poco fosse un gioco, e giocava col destino; un destino col grilletto e la sua faccia, la sua faccia nel mirino. Credo che ti sbagli, perché un morto di soli tredici anni è proprio da vedere, perché la gente -sai- magari fa anche finta. Però le cose è meglio fargliele sapere. Guarda la fotografia. Sembra neanche un ragazzino. Io son quello col vino, lui è quello senza motorino. Era il solo a non voler capire d’esser stato sfortunato: nascere in un paese dove i fiori han paura e il Sole è avvelenato. E sapeva quanto poco fosse un gioco... la sua faccia nel mirino Daiii darai darai daraidan darai darai daraidan. È finita la pioggia, tutto il gesso se l’è portato via. Lo so che ti dispiace, maresciallo, ma appoggiato alla lavanderia era il mio di figlio, e forse è tutta colpa mia, perché, perché come in certi malgoverni se in famiglia il padre ruba anche il figlio a un certo punto vola via. E così lui non era lì per caso... no. Anche lui sparava e via, ma forse il gioco era già stanco e non si è accorto neanche che moriva. Guarda la fotografia. Sembra neanche un ragazzino. Io son quello col vino, lui è quello senza motorino. Guarda la fotografia. Sembra neanche un ragazzino. Io son quello col vino, lui è quello senza motorino. La fotografia... la fotografia... la fotografia. Tutto il resto è facce false della pubblicitaria. Tutto il resto è brutta musica fatta solamente con la batteria. Tutto il resto è sporca guerra stile stile mafieria. la fotografia. Tu che sei famoso, firma firma per piacere la fotografia. Enzo Jannacci (1935-2013) nell’album Guarda la fotografia, del 1991, il quindicesimo registrato in studio
Il brano musicale La fotografia ha esordito pubblicamente al Festival di Sanremo del 1991, il quarantunesimo dal 1951 di origine (Festival della canzone italiana), dove si classificò undicesimo, in una edizione vinta da Riccardo Cocciante, con Se stiamo insieme, e si aggiudicò il Premio della Critica, Sezione Campioni. In abbinamento, fuori concorso, fu accoppiato alla cantante tedesca Ute Lemper (1963), che ha dato una propria particolare interpretazione di Photograph (altrove, The Photograph), ovviamente diversa dal passo dell’autore... magari, non tanto al Festival, quanto nelle esecuzioni live e in disco.
La fotografia, di Enzo Jannacci, è un motivo fortemente emozionante, con un testo a dir poco toccante: da riascoltare e riascoltare, meglio se in esecuzione dal vivo (live), in concerto (tante le opportunità in YouTube, tra le quali quella originaria al Festival di Sanremo 1991, in nostro QR Code). La canzone richiama un fatto di cronaca nera legato alla mafia, del quale propone una lettura intima. Un bambino di tredici anni è stato ucciso per strada, in Sicilia, con un colpo di pistola, perché sospettato di aver assistito “a qualcosa che non doveva vedere”. Da cui, la rievocazione del padre (fittizio).