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ANNO XXVII - NUMERO 259 - MARZO 2020
Bauhaus 1919-1933 L’APPORTO DELLE DONNE Al Mast ABITI DA LAVORO
MARGARET BOURKE-WHITE HA ATTRAVERSATO LA STORIA
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firma
prima di cominciare CHRYSLER BUILDING. Nell’autunno 2014, una campagna Moncler, firmata Annie Leibovitz, ha ripreso uno dei celebri ritratti Margaret Bourke-White, dai doccioni Art Déco del Chrysler Building (anche in copertina di questo numero), dove la celebrata fotogiornalista aveva il proprio studio, al sessantunesimo piano.
Ecco perché, oggi più di ieri, sono necessari operatori culturali di chiarimento e delucidazione. mFranti; su questo numero, a pagina 9
OSCAR GRAUBNER
Apprendiamo idee altrui, che presto diventano nostre. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 7 In una considerazione (finalmente paritetica), questo è un resoconto definitivo dell’energia e rigore del Bauhaus, non solo come un movimento pionieristico nel modernismo, ma anche come paradigma dell’educazione artistica, entro la quale l’espressione creativa e le idee all’avanguardia hanno portato a creazioni funzionali e belle. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 21
Copertina
Margaret Bourke-White su uno dei doccioni Art Déco del Chrysler Building di New York, nel 1934, con una Graflex grande formato (reflex 4x5 pollici).
Tra le numerose fotografie che ritraggono l’intrepida Margaret Bourke-White che si sporge, con la propria macchia fotografica grande formato da uno degli otto doccioni dell’architettura del Chrysler Building, di New York, questa è una delle meno note (fotografia di Oscar Graubner). Oltre il lancio della presentazione della consistente mostra Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa (in probabile allestimento milanese), da pagina trentasette, richiamiamo una nota collegata, qui accanto
3 Altri tempi (fotografici) Annuncio pubblicitario di Foto Brennero, di Roma, pubblicato su Novella, del 18 febbraio 1940 (settanta anni fa). Testuale: «La donna è nata per fotografare»; in aggiunta; «Reparto dedicato al gentil sesso». In evocazione visiva della Nascita di Venere, di Sando Botticelli (1445-1510), tempera su tela 172,5x278,5cm, del 1485 circa, conservata agli Uffizi, di Firenze, declinazioni in puro e convinto sessismo
Campagna Moncler autunno 2014: con e su uno dei doccioni del Chrysler Building.
7 Editoriale Parole altrui, che contribuiscono (potrebbero contribuire) al dibattito sulla Fotografia: da e con Lucia Moholy, tra le esponenti di spicco del Bauhaus (da pagina sedici)
JOHN LOENGARD
8 Ieri e oggi
Annie Leibovitz sul Chrysler Building con il suo assistente Robert Bean: «Non ti posso aiutare; sento lo spirito di Margaret Bourke-White su di noi. Ma è bello; è davvero, davvero bello».
Ritorno (e ripensamento interiore) su una florida e intensa stagione della Fotografia italiana: Sezione Culturale del Sicof ’85, trentacinque anni fa
10 Fotografie di fantasmi L’ottima edizione libraria La grandissima illusione analizza gli artifici con i quali presunti maghi hanno evocato mondi paralleli. Anche in complicità fotografica di Antonio Bordoni
MARZO 2020
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
14 Joker, il ritorno Migliore attore agli Oscar 2020, Joaquin Phoenix, per la sua interpretazione nel film Joker: personaggio dei fumetti con allineamento fotografico. Eccolo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XXVII - numero 259 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
16 Le donne del Bauhaus
Filippo Rebuzzini
Una autorevole e ammirevole monografia racconta un capitolo fino ad oggi ignorato: il contributo femminile a una delle più acclamate esperienze artistiche del Primo Novecento: Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists (Ragazze Bauhaus. Un tributo/omaggio alle donne artiste anticipatrici ) di Angelo Galantini
Giulio Forti
23 Abiti da lavoro Visione dalla Collezione Mast di fotografie dedicate all’industria. Uniform. Into the Work / Out of the Work propone avvincenti spunti di riflessione. In quanti tanti modi si può osservare la Fotografia, andando sottotraccia, collegando tra loro immagini apparentemente lontane? di Lello Piazza
30 La linea sottile Il progetto Linea nelle Linee, di Antonella Bozzini, offre una lettura e interpretazione dell’attuale paesaggio urbano di Berlino, della sua architettura della “rinascita” nazionale e del suo orgoglio ferito
37 Attraverso la Storia
CORRISPONDENTE FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Antonio Bordoni Antonella Bozzini mFranti Angelo Galantini Mauro Negri Lello Piazza Andréa Romeiro Marco Saielli
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L’imponente retrospettiva Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa allaccia il filo del percorso esistenziale della fotogiornalista e mostra la sua capacità visionaria e insieme narrativa di Maurizio Rebuzzini
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46 Vieni avanti, Retina
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Più di ottanta anni fa, la Retina della Kodak tedesca propose una 35mm economica creando il caricatore 135, che prima di allora non era ancora stato codificato di Giulio Forti
49 Katherine G. Johnson
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Il ventiquattro febbraio è mancata la celebre matematica afroamericana artefice dell’era spaziale Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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di Alessandro Mariconti
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Lucia Moholy: autoritratto (stampa rovesciata; 1930).
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
L
eggiamo e apprendiamo idee altrui, che presto diventano nostre. Da e con Marguerite Yourcenar, in adattamento da Memorie di Adriano: «Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi». La mia prima (e unica) patria sono stati i libri. La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare; pensare, invece di credere. Non so perché qui, attorno a me, sono conservati e ordinati migliaia di libri, soprattutto inerenti la Fotografia, sia in forma di monografie illustrate, comunque introdotte e presentate da testi coinvolgenti, sia in dimensione di riflessione teorica sulla materia, o disciplina. Fate voi. Una volta, agli albori del mio frequentare la Fotografia, mi impegnai in letture programmatiche e sistematiche, grazie alle quali ho fondato basi sostanziose sulle quali, poi, ho edificato un cammino in pensiero e ragionamento. Da tempo, complici mille e mille circostanze, la marcia di “studio” pseudoscolastico ha ceduto il passo ad avvicinamenti a libri meno teorici, comunque sia periodici e programmati, non in forma di studio teorico, ma sollecitati e guidati dalla necessità ed esigenza di approfondimenti specifici e mirati, di verifica sostanziale. Così agendo, attraverso le Parole che contiene, ciascun libro non si esaurisce in nozioni aridamente teoriche, ma vive e palpita nel legame concreto che lo ha sollecitato e alimentato. In questo stesso numero della rivista, là dove e per quanto presentiamo, commentandolo, l’apporto femminile all’esperienza culturale e sociale del Bauhaus, richiamando la figura di Lucia Moholy, riprendiamo un passaggio dal suo autorevole saggio Cento anni di fotografia 1839-1939 (La fotografia nel suo primo secolo di storia); in ripetizione: «Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Di qui molti traggono la conclusione che la fotografia non sia per nulla un’arte». In cammino individuale, ciascuno di noi può elaborare proprie visioni e tesi, ma quelle confortate da profonde esperienze altrui hanno la consistenza dell’approfondimento, del pensiero condiviso. Per cui, anche qui, ancora qui, rimandiamo al valore delle rilevazioni di Lucia Moholy, estranea a tante sterilità concettuali dei nostri tempi, ma concentrata sull’essenza dell’approfondimento teorico e filosofico. Ancora, testuale: «Si è generalmente d’accordo sul fatto che il termine “arte” viene adoperato in un significato che include i migliori e più tipici esempi del genere e, nel contempo, il grande numero di risultati poco rappresentativi di una tecnica simile che non resistono ad altri standard di critica, e che tuttavia occupano una certa posizione in un dato periodo. Se, quindi, chiamiamo arte la fotografia, lo facciamo con le stesse restrizioni. La fotografia è un’arte e una tecnica. Qualunque di queste due definizioni venga adottata, nessuna delle due deve essere vista come una sfida per coloro che sostengono l’altra». Maurizio Rebuzzini
© VG BILD-KUNST, BONN 2019 / PHOTO © BAUHAUS-ARCHIV, BERLIN
editoriale
Cento anni di fotografia 1839-1939, di Lucia Moholy; a cura di Angelo Maggi; presentazione di Italo Zannier; Alinari 24 Ore, 2008; 240 pagine 11x18cm.
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Uno sguardo indietro di Maurizio Rebuzzini (Franti)
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Ci è capitato tra le mani il Catalogo Sicof ’85 - Sezione Culturale. Per anagrafe, conosciamo entrambi i riferimenti, in richiamo: Sicof (Salone Internazionale Cine Ottica Foto, alla sua undicesima edizione, dal diciannove al venticinque febbraio) e l’annessa e collegata Sezione Culturale, con denso programma di mostre a tema e personali, in accattivante richiamo accanto le attrezzature fotografiche presentate nel segmento merceologico. Trentacinque anni sono trascorsi da quei giorni, e a tanta distanza sono richieste considerazioni e riflessioni attorno il nostro mondo, identificato e letto alla luce di quanto contenuto in questo denso Catalogo (180 pagine 21,5x20,5cm). Ai tempi, già presenti nel mondo della fotografia commentata, prendemmo sempre le distanze dalla Sezione Culturale del Sicof, realizzata da Lanfranco Colombo (mancato il 7 aprile 2015, a novantuno anni [FOTOgraphia, maggio 2015]). Ora, a distanza di decadi, con il senno di poi e con questo Catalogo tra le mani, rivediamo alcuni dei severi giudizi di allora. Va rivelato che erano momenti di fervente dibattito attorno la Fotografia, con contrapposizioni e confronti su quanto ognuno di noi considerasse degno di considerazione e rilievo. In quel clima, fu giocoforza dibattere i contenuti, alla luce di quanto altro ciascuno considerava meritevole di attenzione: e raramente, allora, fummo concordi con le scelte di Lanfranco Colombo. Ora, in un tempo fotografico cambiato, non più marginale, ma autoritario nella propria proposizione pubblica, potremmo anche rimpiangere quel passato, allora mal considerato. Va sottolineato, anche senza entrare in nessuna segnalazione specifica: al pari dei precedenti e, poi, successivi, quel programma fotografico fu di alto livello e contenuti profondi, come da tempo non incontriamo più. Cosa è accaduto, nel frattempo? Che una diffusa “democratizzazione” di tanto (dall’allestimento di mostre alla possibilità di pubblicare monografie) ha abbattuto scale di valori che un tempo sono state dominanti. Non c’è
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IERI E OGGI
Per quanto, nel testo principale, abbiamo affermato di non entrare in alcuna segnalazione specifica dall’ampio e differenziato programma fotografico della Sezione Culturale del Sicof ’85 (dal diciannove al venticinque febbraio, alla Fiera di Milano), in propria ulteriore proiezione verso il Mese della Fotografia (venticinque gennaio trentuno marzo), non possiamo ignorare la lungimiranza dell’attenzione espositiva verso 11 Donne fotografe italiane.
Uno sguardo indietro modo di arginare, né bloccare questa trasformazione (involuzione?), perché -come rileviamo spesso- il Tempo va avanti con o senza di noi. Ovvero, non ci sono strategie dietro le quinte, ma semplici cambiamenti quotidiani, con i quali fare i propri conti. L’attuale facilità a proporre Fotografia, anche in spazi un tempo impensabili, è dilagata in una vasta quantità di proposte, che presenta un retrogusto amaro: la diminuzione dei valori in esposizione. Così che, in richiamo al Catalogo Sicof ’85 - Sezione Culturale, quella che un tempo è stata fotografia di vertice ed eccellenza è oggi fotografia media, con poche preziosità. Ma, attenzione, non è certo un fatto soltanto negativo, come potrebbe apparire in considerazione superficiale, ma un fenomeno che comporta anche aspetti positivi. Non tanto in misura e risposta a una presunta “democratizzazione” demagogica e populista, che non ha alcun diritto di ospitalità, né conside-
razione, ma alla luce di un fenomeno fotografico che si dilaga a macchia d’olio, e richiama attenzioni, ed esprime gratificazioni individuali. Poi, ovviamente, sta a chi di dovere indirizzare le valutazioni di rito, ristabilendo scale gerarchiche in valore e merito. Del resto, come sempre rileviamo, la Fotografia -al pari di qualsivoglia altra materia/disciplina- non può esprimersi in maniera asettica rispetto il contesto sociale e culturale entro il quale si pronuncia e manifesta. Da cui, non possiamo ignorare, e nemmeno sottovalutare, come trentacinque anni fa, il commercio della fotografia fosse florido e stesse vivendo stagioni economicamente gratificanti, alle quali facevano da contorno investimenti finanziari corrispondenti, magari rivolti anche alla Sezione Culturale del Sicof. Oggigiorno, il clima è profondamente cambiato, e si sono estinti quei margini d’azione che hanno caratterizzato tempi commerciali precedenti [e qui, rimandiamo alle nostre considerazioni
sulla compilazione di Cataloghi di vendita, pubblicati fino a qualche decina di anni fa, analizzati lo scorso dicembre 2019]. A conseguenza di questo, sono venuti meno finanziamenti cospicui che -pur nello stretto ambito degli addetti- hanno consentito approfondimenti di qualità e virtù fotografiche. Ecco perché, oggi più di ieri, oggi più profondamente di ieri, in un clima di ampi orizzonti, sono necessari operatori culturali di chiarimento e delucidazione. Per quanto sia positiva la possibilità estesa a tutti di pubblicare proprie monografie d’autore ed esporre le proprie immagini, è sempre più indispensabile e doveroso che chi di dovere tracci confini, stabilisca linee conduttrici, magari a separazione di quanto si esaurisce al suo presente da quanto, invece, è proiettato nella Storia. Non tanto in scala gerarchica, che comunque si manifesta, ma proprio sui contenuti in profondità, oltre la superficie a tutti apparente. Parole di interpretazione. ❖
In parallelo di Antonio Bordoni
FOTOGRAFIE DI FANTASMI
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Sul senso, valore e percezione della Fotografia ci si può esprimere almeno in due sensi: in approfondimento filosofico-sociale, analizzando sottotraccia con e per addetti e delegati a farlo; oppure, rispondendo alle aspettative del pubblico. I punti di partenza sono diversi tra loro, e conducono a risoluzioni altrettanto differenti. In semplificazione di pensieri, nozioni e giudizi, possiamo affermare che gli esperti possono rilevare come e quanto la Fotografia abbia più debiti di riconoscenza con il teatro, di quanti non ne abbia con la pittura (come molti credono, confondendo l’apparenza con la sostanza), perché introduce un princìpio di illusione, che non si ferma alla sola superficie a tutti evidente. Però, allo stesso tempo, anche attribuendo la sua nascita al pensiero positivista e realista di inizio Ottocento, non possiamo ignorare che la Fotografia è percepita dai più come rappresentazione del reale. Se proprio volessimo ancora distinguere, generalmente l’idea di illusione, nel senso di immaginazione, calza a pennello al Cinema, che proprio su questo ha sempre fatto leva. Ma sono ripartizioni che non approdano al pubblico, rimanendo territorio e opinione specialistici. Tutto questo, per sottolineare come e quanto l’illusione dovrebbe appartenere alla regione del sogno individuale e delle coscienze singole. Invece, è più diffusa un’altra identificazione, che riguarda l’illusione in quanto abbaglio e allucinazione (inganno dei sensi o della mente), spesso e volentieri in forma di truffa. Ancora oggi, in teatro e alla televisione, si esibiscono illusionisti, prestigiatori e maghi che accendono gli animi con loro astuzie. Ma, ormai, sappiamo bene che si tratta di questo e non di “magia”, ovvero espedienti e astuzie per intrattenere il pubblico. A cavallo tra Ottocento e primi del Novecento, invece, la “magia” è stata accolta in quanto tale, per quanto di sovrannaturale esprimeva verso animi partecipi all’ipotesi di capacità, idoneità e intelligenze fuori dal comune, appunto coltivate e maturate in territori spirituali e incorporei.
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La grandissima illusione. Magie, paranormale e inganni della mente, di Mattew L. Tompkins; Logos, 2019; 224 pagine 17,6x25cm, cartonato; 25,00 euro.
(pagina accanto, a destra) Porto di New York, 7 luglio 1912: prima esibizione pubblica di Houdini in uno dei suoi pezzi forti. Legato con catene e manette ai polsi, entra in un container sigillato, assicurato saldamente con corde e appesantito di cento chili di piombo, per essere calato in acqua. Per liberarsi, l’illusionista impiegava meno di un minuto e -quando veniva riportata in superficiela cassa era intatta e conteneva solo le catene con le quali era stato legato.
Anni Quaranta del Novecento: seduta di lievitazione, nell’abitazione del fotografo danese Sven Türck (1897-1954), convinto assertore dello spiritismo.
In parallelo
Pubblicata da Logos, in ottima edizione italiana, La grandissima illusione, di Mattew L. Tompkins, dall’originaria The Spettacle of illusion (del londinese Thames & Hudson), fa censimento e casellario dell’insieme di astuzie con le quali, appunto a fine Ottocento, una quantità di giocolieri della mente hanno intrattenuto il pubblico, spesso anche con intenzioni ingannevoli e, perché no?, fraudolente. Attenzione: in molti casi, l’effetto fantastico e la rilevazione di “altre dimensioni”, di “altri mondi”, si è basata sulla Fotografia, ovverosia sulla sua percezione di realismo oggettivo indiscutibile. Ovviamente, anche in questi casi, soprattutto in questi casi, si è sempre trattato di artifici realizzati in interpretazioni mirate delle proprietà
stesse della fotografia, magari a partire dai “fantasmi” che compaiono in situazioni spirituali (doppia esposizione, su fondo nero, con sottoesposizione volontaria del presunto e presentato “ectoplasma”). Del resto, una considerazione prima di altre, di nobile paternità: «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta, il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica» (Hubertus von Amelunxen, docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali, alla Graduate School di Saas-Fee, Svizzera; da The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History, in A New History
Fotografia falsificata, del 1920 circa. Il leggendario Harry Houdini (1874-1926) simula una seduta spiritica, con una forma spettrale alle sue spalle.
of Photography, a cura di Michel Frizot). Da cui, siamo convinti che la grande rivoluzione della Fotografia sia stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, nacque la propria diffusione e popolarità anche come documento. C’è ancora altro. Come saggiamente rilevato, a fine Ottocento, da Angelo John Lewis (1839-1919; noto come Professor Louis Hoffmann), a proposito delle presunte magie: «Gli smascheramenti più duri non turbano la fede incrollabile dei ferventi sostenitori dello spiritismo. [...] Non meravigliamoci, dunque, se le persone meno ingenue sono caute nell’accettare le loro prove!». Dunque: voglia di crederci. Come già rivelato, e ampiamente commentato [in FOTOgraphia, del lu-
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glio 2016], oltre che scrittore, sir Arthur Conan Doyle (1859-1930), creatore del celeberrimo investigatore seriale Sherlock Holmes, era appassionato di spiritismo ed esperto di fotografia [suoi scritti al proposito sono stati raccolti nella monografia Essays on Photography: The Unknown Conan Doyle, a cura di John Michael Gibson e Richard Lancelyn Green, del 1982]. Combinando assieme le sue due passioni, nel 1916, certificò l’autenticità delle fotografie di fate, create (in camera oscura) dalle cuginette Elsie Wright (1901-1988) e Frances Griffiths (19071986), di sedici e dieci anni. La più celebre di queste fotografia è Una fata offre fiori a Iris, una delle più clamorose controversie della nostra Storia [FOTOgraphia, maggio 2011].
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Manifesto del 1915 circa, che declina il fascino esercitato sul pubblico da misticismo e sovrannaturale, che il mago statunitense Howard Thurston (1869-1936) sfruttava deliberatamente negli spettatori.
Ribadiamo, esperto di fotografia, ma soprattutto appassionato di spiritismo, sir Arthur Conan Doyle si entusiasmò immediatamente per queste immagini. Convinto della loro autenticità (perché voleva crederci!) e sostenuto da una lunga indagine, pubblicò le fotografie che provocarono un tale effetto che le fate di Cottingley assunsero rilevanza nazionale (pubblicazione su Strand Magazine, del novembre 1920, numero natalizio, con il titolo Fairies photographed - an epoch making event / Fate fotografate - un evento epocale). Già: voleva crederci! Voleva proprio crederci! E questo desiderio ha condizionato il suo giudizio; testuale, dalla sua relazione: «L’autore ha visto numerose fotografie di emanazioni ec-
toplasmatiche prodotte da “Margery” e non ha dubbi nel definirle autentiche». Da cui, per estensione, si è alimentata la volontà popolare di credere nel sovrannaturale e nello spiritismo. Magari, a compensazione di vite reali amareggiate, scontente e deluse. Ecco qui, in conclusione, La grandissima illusione, di Mattew L. Tompkins, compone un affascinante casellario delle astuzie con le quali si sono alimentate queste credenze magiche; alcune delle quali (astuzie), a base fotografica. Dunque, due piani di avvicinamento e lettura: generale e specifico, in riferimento a una stagione della Fotografia, e del suo impiego popolare, raramente considerata dalle Storie più accreditate. Arte dell’inganno. ❖
Cinema (e fumetto) di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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JOKER, IL RITORNO
Come è adeguato che sia, non è nostro compito occuparci delle assegnazioni ai recenti Oscar 2020, con solenne cerimonia di consegna domenica nove febbraio, a Los Angeles. Però, in consueta visione trasversale, che riconduce sempre e comunque alla Fotografia -qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi-, non possiamo ignorare una sorta di intersecazione, che sottolineiamo e commentiamo con e per l’abituale cerchio di rimandi e collegamenti, che riporta sempre al nostro soggetto principale e statutario... per l’appunto, la Fotografia. L’Oscar 2020 come Migliore attore è stato conferito al bravo e controverso Joaquin Phoenix (affascinanti alcuni capitoli della sua storia recente), per il film Joker, di Todd Phillips, del 2019. Per quanto basata sull’omonimo personaggio dei fumetti DC Comics, storico nemico di Batman, la sceneggiatura è sostanzialmente scollegata dalla propria origine, tanto da proiettare Joker a protagonista assoluto della vicenda. In merito al valore del film, sul quale non ci esprimiamo, valgono i riconoscimenti ricevuti: Leone d’oro alla Settantaseiesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2019); due Golden Globe 2020 e due Oscar 2020 su ben undici candidature, record per l’edizione (oltre quello citato, dal quale traiamo ispirazione per proseguire, anche Migliore colonna sonora alla violoncellista e compositrice islandese Hildur Guðnadóttir). Dal nostro punto di vista, ispirati da questo Oscar (spettacolare), richiamiamo una avventura a fumetti con sostanziosa presenza della fotografia, che si allinea al personaggio. Ci riferiamo all’albo Batman: The Killing Joke, sulla cui copertina, in ogni propria edizione, spicca e impera la raffigurazione di Joke(r) che impugna una ipotetica reflex 35mm Witz, in inquadratura verticale (simil Olympus OM). Un sorriso malefico, tanto quanto lo è il personaggio, invita a sorridere: da cui, Smile e Smile!, nelle edizioni statunitensi e Sorridi e Sorridi! nelle traduzioni italiane.
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1988: prima e decima edizione statunitense di Batman: The Killing Joke (DC Comics).
The Deluxe Edition di Batman: The Killing Joke, con testi a commento (Titan Books, 2008).
Cinema (e fumetto) Prima pubblicazione italiana di Batman: The Killing Joke, in albo allegato al numero Settantasei del mensile Corto Maltese (Rizzoli, gennaio 1990).
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (5)
Riedizione italiana di Batman: The Killing Joke, dell’aprile 1997 (Edizioni Play Press).
Tutto qui, e niente di più... per quanto riguarda l’allineamento con la fotografia, nostra materia ufficialmente istituzionale, che si concretizza nel gesto dello scatto e nella stilizzazione di una reflex 35mm. Soltanto, in aggiunta, rileviamo e quantifichiamo che il valore e la fama di questa avventura, e del relativo richiamo, sono tanti e tali che la stessa stilizzazione ha dato vita a una moltiplicazione quantitativamente significativa di interpretazioni, omaggi, parodie, personalizzazioni e citazioni. Basta ricercare sul web, per incontrare una miriade di versioni derivate. A questo punto, esaurito l’abbinamento con il cinema, in attualità di Oscar, è imposto richiamare i termini identificativi e qualificanti del fumetto in questione, in essere. Batman: The Killing Joke è una avventura a fumetti che riprende il personaggio creato da Bob Kane. Sceneggiata da Alan Moore e disegnata da Brian Bolland (con colorazioni di John Higgins, lettering di Richard Starkings e redazione di Denny O’ Neil), è stata originariamente pubblicata da DC Comics, nel 1988: la copertina della prima edizione si distingue per il colore verde chiaro del titolo, che poi divenne giallo nelle edizioni successive. L’albo originario, in fascicolo unico autoconclusivo, del 1988, di quarantotto pagine 16,8x25,8cm, è stato anche accompagnato da ulteriori edizioni librarie di altro impegno bibliografico. Tra le tante, va soprattutto ricordata The Deluxe Edition, pubblicata dall’inglese Titan Books, nel 2008, accompagnata da testi a commento: sessantaquattro pagine 17,5x27,5cm, cartonato con sovraccoperta. La prima pubblicazione italiana di Batman: The Killing Joke è del gennaio 1990, in un albo allegato al numero Settantasei del mensile Corto Maltese: stessi dati tecnici dell’originario statunitense. A seguire, nell’aprile 1997, le Edizioni Play Press hanno replicato la versione italiana, ancora coerente con quella di origine. Prima di concludere, per tornare al Cinema, nell’estate 2016, l’avventura a fumetti Batman: The Killing Joke è stata sceneggiata in omonimo film di animazione (peraltro, con locandina rielaborata dalla copertina dell’albo originario, reflex compresa), dal quale è immediatamente partita anche la trasposizione in serie televisiva. ❖
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LE DONNE DEL BAUHAUS A ll’indomani della fine della Grande guerra (1914-1918), che -dalla Seconda (19391945), quando fu necessario numerarle in conteggio- abbiamo ridefinito Prima guerra mondiale, soprattutto in Europa, sono nati movimenti culturali e artistici di grande valore. A questo proposito, è indispensabile rilevare come e quanto ogni dopoguerra sia portatore di nutrimento vitale, che comunque non giustifica la propria derivazione. Ovvero, non è il caso di combattere guerre sanguinarie, per poi beneficiare di provvidenti dopoguerra. Se per il secondo dopoguerra del Novecento, possiamo considerare una sorta di rivitalizzazione sociale, per il primo dopoguerra è proprio doveroso sottolineare una sostanziosa trasformazione culturale, che definisce un dopo d’avanguardia proiettato in avanti, rispetto un prima arrivato dal passato. Senza invadere territori altrui, ma solo per collocare i contenuti di quanto stiamo per affrontare (la forte e autorevole componente femminile che ha definito la nascita del Bauhaus, in Germania), non possiamo ignorare alcuni movimenti artistici del tempo, per i quali semplifichiamo le linee ispiratrici e conduttrici. Successore del precedente Dadaismo, il Surrealismo è stato un movimento letterario e artistico d’avanguardia, sorto in Francia, che si propose di esprimere il funzionamento reale del pensiero al di fuori di ogni controllo esercitato dalla ragione e oltre qualsiasi preoccupazione estetica e morale; si ispirò all’inconscio dell’Uomo, elevato a valore profondo e vero della realtà.
Illustrata con un consistente apparato fotografico, che ne compone l’ossatura portante, l’autorevole monografia Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists (Ragazze Bauhaus. Un tributo/omaggio alle donne artiste anticipatrici ), a cura di Patrick Rössler, esplora e considera le ideatrici e promotrici al femminile dell’avanguardia artistica e culturale del Bauhaus: personalità raramente esaminate, mai studiate, oppure -nella migliore delle ipotesi- sostanzialmente sottovalutate. In un clima nel quale l’istituzione arrivava finalmente a offrire nuove opportunità alle Donne, lungo la loro strada, queste ottantasette artiste hanno dovuto affrontare aspettative irragionevoli della famiglia, l’atteggiamento ambiguo della facoltà e dell’amministrazione, convenzioni sociali antiquate e -in definitiva- la repressione politica del regime nazista 16
PHOTO © STIFTUNG BAUHAUS DESSAU
© VG BILD-KUNST, BONN 2019 / PHOTO © BAUHAUS-ARCHIV, BERLIN
di Angelo Galantini
(pagina accanto) Lotte Beese: autoritratto con macchina fotografica (silhouette; 1927).
Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists, a cura di Patrick Rössler; Taschen Verlag, 2019; edizione multilingue inglese, francese e tedesco; 480 pagine 17x24cm, cartonato; 30,00 euro.
(a pagina 16) Lucia Moholy: autoritratto (stampa rovesciata; 1930).
© MUSEUM FOLKWANG ESSEN / PHOTO © ARTOTHEK
(centro pagina, in basso) Marianne Brandt: autoritratto nel suo studio a Gotha (doppia esposizione; 1930 circa).
In ipotetica sintonia di intenti, le Avanguardie russe (poi, sovietiche), furono altrettanto innovatrici. In parallelo, oppure convergenza, dobbiamo registrare numerosi movimenti distinti, ma strettamente connessi: Suprematismo, Costruttivismo, Raggismo (in sintesi di Cubismo e Futurismo) e Neo-primitivismo. Queste avanguardie artistiche si manifestarono nella propria massima creatività durante la spinta rinnovatrice della Rivoluzione russa del 1917, fino all’inizio degli anni Trenta, quando -nel proprio paese- si scontrarono con e furono sopravanzate da un identificato “ritorno all’ordine” (diciamola così), artisticamente rappresentato dal Figurativismo stereotipato del Realismo socialista, coincidente con l’ascesa politica della figura di Stalin. In un certo senso, prossimo per date, ma non per Storia -condizionata, questa da una Guerra mondiale-, il Futurismo italiano è stato un movimento artistico, culturale e musicale predecessore, con proprie date di inizio Novecento; comunque, ha smosso le acque e va certamente conteggiato come prima avanguardia artistica europea. Di fatto, negli anni immediatamente seguenti la fine della Guerra, ebbe influenza su movimenti analoghi e attinenti che nacquero in altri paesi dell’Europa (in particolare, in Russia e Francia), negli Stati Uniti d’America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione, dalla pittura alla scultura, alla letteratura (poesia e teatro), la musica, l’architettura, la danza, la fotografia (anche questa), il cinema e persino la gastronomia. La denominazione ufficiale del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944).
IL BAUHAUS (a pagina 17) Werner Zimmermann: Albert Brown fotografa Grit Kallin nell’Atelierhaus (Dessau, 1928).
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In un fugace periodo di quattordici anni, tra due guerre mondiali, dal 1919 al 1933, nel contesto storico-culturale della (purtroppo effimera) Repubblica di Weimar, nella Germania dilaniata da cruente lotte politiche intestine, culminate poi con l’ascesa al potere del Nazismo, la
© VG BILD-KUNST, BONN 2019 / PHOTO © BAUHAUS-ARCHIV, BERLIN
(centro pagina, in alto) Margaret Leiteritz con arance (1930 circa; Walter Perterhans).
© GÉZA PÁRTAY / PHOTO © BAUHAUS-ARCHIV, BERLIN
Lo spirito malvagio: doppia esposizione di Otti Berger con la facciata dell’Atelierhaus (Dessau, 1931-1932; attribuita a Judit Kárász).
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
PHOTO © THE J. PAUL GETTY MUSEUM, LOS ANGELES
Staatliches Bauhaus (Scuola di Arte e Design, piuttosto che di Arti e Mestieri) ha letteralmente modificato e trasformato il volto della modernità. Con idee utopiche per il futuro, la Scuola ha elaborato e proposto una fusione pionieristica di belle arti, artigianato e tecnologia, applicate senza soluzione di continuità in tutta la società, nel proprio insieme e complesso. Ovvero, semplificandola, la Vita condotta anche attraverso un’arte concreta e tangibile, che accompagna il quotidiano di ogni esistenza, senza segregarsi in ambiti specifici e predisposti. Per completare la sintesi, il Bauhaus ebbe sede a Weimar, dal 1919 di origine -centouno anni fa- al 1925; si trasferì a Dessau, dal 1925 al 1932; per poi concludere in una ulteriore breve stagione, a Berlino, dove dovette chiudere subito, nel 1933, alla salita al potere del partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler (trenta gennaio). Il Bauhaus è ricondotto al suo ideatore, l’architetto, designer, urbanista e accademico tedesco Walter Gropius (1883-1969). Quindi, la Storia segnala anche altri illustri ispiratori... tutti al maschile. Ora, in momenti di maggiore capacità di lettura, anche retrospettiva, sono venuti alla luce fondamentali contributi femminili a quella singolare esperienza d’avanguardia culturale e artistica, proiettata nel quotidiano.
DONNE AL BAUHAUS Anticipato lo scorso febbraio, in accompagnamento a considerazioni preponderanti sull’attualità di un pensiero che (finalmente!) viene declinato in parità di considerazioni, senza discriminazioni sessiste, l’autorevole saggio Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists, a cura di Patrick Rössler, pubblicato dall’attento Taschen Verlag, lo scorso 2019 (nel centenario 19192019) è esattamente ciò che il titolo anticipa e promette: [brutta, la prima parte, in traduzione] Ragazze Bauhaus. Un tributo/omaggio alle donne artiste anticipatrici. Appunto nel centenario della rivoluzionaria scuola di arti e mestieri, questo percorso illustrato sposta a lato
In catalogo Taschen Verlag, editore dell’attuale Bauhausmädels. A Tribute to Pioneering Women Artists, argomento principale, si trovano altri titoli relativi all’esperienza del Bauhaus. Anzitutto, va ricordata la consistente monografia Bauhaus, di Magdalena Droste, studiosa di arte e letteratura, dal 1980 curatrice del Bauhaus-Archiv, di Berlino. Originariamente pubblicata nel 1998, anche in edizione italiana, è oggi proposta in edizione aggiornata, in due confezioni librarie: ❯ Bauhaus 1919-1933 (Updated Edition); Taschen Verlag, 2019; in edizione inglese, francese, tedesca e spagnola; 400 pagine 25x34cm, cartonato; 40,00 euro; ❯ Bauhaus 1919-1933 (Updated Edition); Taschen Verlag, 2019; collana Bibliotheca Universalis; in edizione inglese, francese, tedesca e spagnola; 552 pagine 14x19,5cm, cartonato; 15,00 euro. Ancora un’altra segnalazione di rito, un estratto rapido, essenziale, ma esaustivo: ❯ Bauhaus, a cura di Magdalena Droste e Peter Gössel; Taschen Verlag, 2006; in italiano; 96 pagine 21x26cm, cartonato; 10,00 euro.
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
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La prima e unica edizione di A Hundred Years of Photography 1839-1939, di Lucia Moholy, è stata pubblicata dall’inglese Penguin nel 1939. Cento anni di fotografia 1839-1939, di Lucia Moholy; a cura di Angelo Maggi; presentazione di Italo Zannier; Alinari 24 Ore, 2008; 240 pagine 11x18cm.
PHOTO © BAUHAUS-ARCHIV, BERLIN
LUCIA MOHOLY NEL CENTENARIO
A margine delle considerazioni sulle figure femminili del Bauhaus, ma neppure tanto “a margine”, ricordiamo anche qui un prezioso volumetto scritto da Lucia Moholy, che riguarda il nostro esclusivo territorio fotografico, osservato con occhio attento e mente aperta. Cento anni di fotografia 1839-1939 è stato pubblicato da Alinari 24 Ore, nel 2008, in una edizione italiana a cura di Angelo Maggi, che l’introduce con un approfondito saggio (Lucia Moholy: una donna del XX secolo fra fotografie e conoscenza storica); edizione con presentazione di Italo Zannier. Si tratta di una riflessione che Lucia Moholy ha compilato in occasione del centenario dall’annuncio e presentazione del processo dagherrotipico, dalla cui serrata consecuzione di date si conteggia la nascita della fotografia: appunto, 1839-1939 (che in Francia fu celebrata anche da una emissione filatelica [FOTOgraphia, febbraio 2019]). Passo dopo passo, con cadenza ben ritmata, tanto da poter essere presa a esempio, Lucia Moholy attraversa i primi cento anni di fotografia, andando a individuare momenti, fenomeni e consecuzioni sociali significativamente discriminanti. Per esempio, dopo i tratti delle origini, l’autrice sottolinea subito come la fotografia abbia presto rivelato i connotati di Una nuova arte democratica (secondo dei ventotto capitoli nei quali è suddivisa l’opera). Testuale: «Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Di qui molti traggono la conclusione che la fotografia non sia per nulla un’arte». In pochi periodi, composti di affermazioni chiare, esplicite e dirette, c’è il succo di un’annosa controversia e di un dibattito irrisolto, che accompagna l’espressione fotografica fin dal suo nascere, e che perdura ancora oggi. Bastano queste parole a far capire che siamo di fronte a un testo di concentrazione eccezionale e trasparenza assoluta, che può solo arricchire le conoscenze individuali sulla Storia della Fotografia e le relative influenze sulla e dalla società. Infatti, al pari delle nostre opinioni (e non si tratta soltanto di solo personalismo), Lucia Moholy è perfettamente cosciente che la fotografia sia un’applicazione di tecnica e creatività in reciproca intesa, così come sa bene come la società tutta influenzi il pensiero fotografico nello stesso momento in cui l’espressività fotografica agisce a propria volta verso la società. Non ci sono compartimenti stagni, e le sollecitazioni vanno avanti-indietro, danno per quanto ricevono, in un percorso a doppio senso che caratterizza e definisce anche le vicende personali, professionali e creative di ciascuno di noi. Insomma, un’altra lettura irrinunciabile. Un altro libro da non ignorare.
Ivana Tomljenoviċ: ritratto di una studentessa del Bauhaus (doppia esposizione; 1930).
© KOLEKCIJA MARINKO SUDAC/MUZEJ AVANGARDE ZAGREB PHOTO © BAUHAUS-ARCHIV, BERLIN
(pagina accanto) Anonimo: studentesse sul parapetto di un balcone del Bauhaus (Tonja Rapoport con una copia di AIZ / ArbeiterIllustrierte-Zeitung; 1929 circa).
(centro pagina, in basso) Grit Kallin: Irene Bayer con ombra (1928 circa).
le considerazioni sulla fondazione del Bauhaus, andando a esplorare e considerare sue ideatrici e promotrici al femminile raramente esaminate (prima di questa profonda riflessione), mai studiate, oppure -nella migliore delle ipotesi- sostanzialmente sottovalutate. In un clima nel quale l’istituzione arrivava finalmente a offrire nuove opportunità alle donne, lungo la loro strada, queste ottantasette artiste e artigiane hanno dovuto affrontare aspettative irragionevoli della famiglia, l’atteggiamento ambiguo della facoltà e dell’amministrazione, convenzioni sociali antiquate e -in definitiva- la repressione politica del regime nazista. L’autorevole e consistente monografia, purtroppo per noi in edizione multilingue inglese, francese e tedesco, è stata realizzata in collaborazione con il Bauhaus-Archiv / Museum für Gestaltung, di Berlino, il più massiccio casellario al mondo sulla storia del Bauhaus. Le considerazioni espresse sono supportate da un qualificato apparato visivo: circa cinquecentocinquanta illustrazioni -tra le quali piani architettonici, studi, fotografie, schizzi e modelli- registrano non solo le opere realizzate, ma anche i princìpi e le personalità di questa comunità creativa idealista e all’avanguardia. Dalle istantanee informali di ginnastica di gruppo ai disegni guidati da Paul Klee, da ampi progetti architettonici a un posacenere infinitamente elegante di Marianne Brandt, la collezione è ricca di colori, materiali e geometrie che hanno costituito la visione Bauhaus di un’opera “totale” di arte. In una considerazione (finalmente paritetica), approdati al centenario dalla fondazione e creazione, questo è un resoconto definitivo dell’energia e rigore del Bauhaus, non solo come un movimento pionieristico nel modernismo, ma anche come paradigma dell’educazione artistica, entro la quale l’espressione creativa e le idee all’avanguardia hanno portato contemporaneamente a creazioni funzionali e belle. Lezione vitale. ❖
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PHOTO © MUSEUM FOLKWANG ESSEN/ARTOTEK
(centro pagina, in alto) Annelise Kretschmer: ritratto di Elisabeth Kadow (1929 circa).
Dal passato remoto, un paio di titoli significativi sul Bauhaus, che arrivano a noi da una stagione lontana, durante la quale imperava anche la voglia di sapere e conoscere... in profondità. ❯ Il Bauhaus. Weimar Dessau Berlino 1919-1933, di Hans W. Wingler; Feltrinelli, 1972; 736 pagine 20,8x21,5cm, cartonato con sovraccoperta, in cofanetto. ❯ Walter Gropius e la Bauhaus, di Giulio Carlo Argan; Giulio Einaudi Editore, dal 1951; 212 pagine 12,5x19,5cm.
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Ancora una visione originaria dalla Collezione Mast di fotografie dedicate all’industria. A cura dell’attento e acuto Urs Stahel, concentrazione su uniformi e divise (e tute). Sul passo di immagini di quarantaquattro fotografi, più attribuzioni ad autori anonimi, Uniform. Into the Work / Out of the Work propone avvincenti spunti di considerazione e riflessione. Tra tante, una: in quanti tanti modi si può osservare la Fotografia, andando sottotraccia, collegando tra loro immagini apparentemente lontane tra loro, ma vicine nello spirito
COLLEZIONE MAST / © SONG CHAO | COURTESY OF PHOTOGRAPHY OF
CHINA.COM
ABITI DA LAVORO
Song Chao: dalla serie Minatori; 2000-2002 (Stampa ai sali d’argento, 57,5x47,5cm).
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di Lello Piazza
Q
uanto è solido il vecchio proverbio l’abito non fa il monaco? Modifico la domanda: c’è una conferma che, almeno sul lavoro, l’abito faccia il monaco? È questa, credo, l’ipotesi che l’affabile e geniale Urs Stahel, curatore della PhotoGallery e della Collezione Mast, di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), ha esplorato attraverso le immagini di quarantaquattro fotografi (a cui vanno aggiunte altre immagini attribuite ad autori anonimi), esposte nella imponente mostra Uniform. Into the Work /Out of the Work, allestita nelle sale del Mast fino al prossimo tre maggio (avendo inaugurato lo scorso venticinque gennaio). Mi sono goduto questa sapiente raccolta di immagini, che -attraverso l’esibizione di persone in abito da lavoro- conferma che la Fotografia, per essere Grande, non ha sempre bisogno di momenti memorabili, o di una particolare impostazione dell’inquadratura, o di una scelta sofisticata dell’illuminazione, o -infine- di nuove forme espressive al limite dell’improbabile.
COLLEZIONE MAST / © ARCHIVO MANUEL ÁLVAREZ BRAVO, S. C.
Manuel Álvarez Bravo: Vigili del fuoco; Messico, 1935 (Stampa al platino, 22,9x18,1cm).
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Per essere Grande, alla Fotografia bastano -talvolta- l’immediata leggibilità del risultato, le verità palesi che propone, un soggetto che lasci facilmente immaginare la realtà nella quale vive. Un bouquet di qualità che definirei intensa semplicità esplorativa e compositiva. Basta pensare ai ritratti di August Sander, per trovarne un esempio iconografico. Nove di questi ritratti sono in mostra a Bologna. A proposito della semplicità, vorrei lodare la presentazione di Urs Stahel. Avevo temuto una narrazione in curatorese. Niente affatto. E ho imparato, ascoltandola. Per esempio, durante i primi cinque minuti di questa presentazione, sullo schermo alle sue spalle, è rimasto un pannello di quattro fotografie di Stephen Waddel (Canada; 1968): un lavoratore che stende asfalto fumante su un marciapiedi, vestito di una tuta blu (i cosiddetti colletti blu, non è vero?), una hostess che indossa un vistoso cappotto rosso, un dandy atletico in un attillato abito chiaro, dal quale spunta una sgargiante cravatta, e un operaio che sta portando sulle spalle un sacco ingombrante. Inizialmente infastidito dalla apparente superficialità con cui erano
minosi dei quadri di Georges de La Tour (1593-1652), avrete modo di soffermarvi a lungo su una immagine realizzata nel 1980 e dedicata ai colletti bianchi: Ritratto di gruppo dei dirigenti di una multinazionale, di Clegg & Guttmann (Michael Clegg, irlandese, e Martin Guttmann, israeliano, entrambi nati nel 1957), in mostra in grandi dimensioni 2,38x3,22 metri. Tra i ruoli, quasi assenti quelli legati alla religione; però, gloriosamente celebrata da due impressionanti ritratti scelti dalla serie Suore e monaci (Nuns and Moks), scattata tra il 1984 e il 1986, da Roland Fischer (Germania; 1958). I due ritratti sono frutto di un laborioso lavoro di persuasione di monache e monaci dell’ordine cistercense condotto per anni in monasteri francesi. Sono proposti in stampe a colori 1,7x1,2 metri C-print (stampa cromogenica / Chromogenic color print su carta sensibile ai sali d’argento, esposta attraverso ingranditori digitali, denominati comunemente di tipo “Lambda” [attenzione: quasi tutte le immagini a colori in mostra sono stampate con questa tecnica museale]). (continua a pagina 28) Irving Penn: Macellai; 1950 (Stampa ai sali d’argento, 32,7x24,8cm).
COLLEZIONE MAST / IRVING PENN | LES GARÇONS BOUCHERS, PARIS, 1950 | © CONDÉ NAST
state eseguite le fotografie, alla fine, sono stato convinto che quelle immagini erano esemplari per collegare la professione all’abito. E, più avanti, ho molto apprezzato una riflessione di Urs Stahel, che voglio condividere. Sottolinea che -nella lingua italiana- l’abito da lavoro è definito parallelamente “divisa” e “uniforme”, il cui etimo, dividere e unire, rappresenta due concetti in conflitto: il nec tecum nec sine te di Ovidio, argomento molto intrigante da elaborare con la Fotografia. C’è, poi, molto da rilevare sulle immagini esposte. Se non siete esteti interessati solo alla (presunta) bellezza della Fotografia, ma anche al suo valore testimoniale, avrete modo di apprezzare i quarantaquattro ritratti di Marianne Mueller (Svizzera; 1966), scelti dalla serie Ritratti di M (in traduzione dall’originario MPortraits), realizzati nel 1998: sequenza di scatti in luce piatta, quasi fototessera, di dipendenti di Migros, la più grande catena di supermercati in Svizzera. Se, invece, siete esteti, appassionati all’uso della luce, ispirati da Caravaggio (1571-1610), dalla Ronda di notte, di Rembrandt (1606-1669), o dagli spot lu-
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André Gelpke: Senza titolo, dalla serie Sesso, teatro e carnevale; 1980 (Stampa digitale su carta baritata).
Sebastião Salgado: Operaio della Safety Boss Company durante una pausa; Kuwait, 1991 (Stampa ai sali d’argento, 53x36,1cm).
(centro pagina, in basso) Graciela Iturbide: Mercato; Città del Messico, 1978 (Stampa ai sali d’argento 32,3x21,9cm).
(pagina accanto, in basso) Helga Paris: dalla serie Donne nella fabbrica di abbigliamento Treff-Modelle ; 1984 (Stampa ai sali d’argento).
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COLLEZIONE MAST / © SALGADO/AMAZONASIMAGES/CONTRASTO
(pagina accanto, in alto) Herb Ritts: Fred con pneumatici; The Body Shop, Los Angeles, 1984 (Stampa ai sali d’argento).
COLLEZIONE MAST / © ANDRÉ GELPKE / SWITZERLAND
(centro pagina, in alto) Autore anonimo: Jalloy; anni Quaranta (Stampa ai sali d’argento, con viraggio seppia).
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COLLEZIONE MAST
COLLEZIONE MAST / © HERB RITTS / TRUNK ARCHIVE
COLLEZIONE MAST / © GRACIELA ITURBIDE
COLLEZIONE MAST / © HELGA PARIS
Al Mast, di Bologna, l’allestimento scenico di Uniform. Into the Work / Out of the Work si accompagna con un’altra mostra coincidente: Ritratti Industriali, del fotografo Walead Beshty (Inghilterra; 1976). Trecentosessantaquattro ritratti (364), suddivisi in sette gruppi di cinquantadue fotografie ciascuno, in base alla professione: artisti, collezionisti, curatori, galleristi, tecnici, direttori e operatori di istituzioni museali e altri professionisti. Questi ritratti sono stati scelti tra i circa millequattrocento che Walead Beshty ha scattato con pellicola 35mm, per lo più in bianconero. Su ognuno dei trecentosessantaquattro ritratti scelti, no comment. Ma forse è come al mare, sulla spiaggia: con minuscoli granelli di sabbia insignificanti, a volte, si può costruire un piccolo castello.
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COLLEZIONE MAST / © PAOLA AGOSTI
© WALEAD BESHTY (COLLEZIONISTA; LOS ANGELES, 8
OTTOBRE
2013)
Paola Agosti: Giovane operaia ferraiola in cantiere; Forlì, 1978 (Stampa ai sali d’argento).
(continua da pagina 25) Ancora poche note. Non si può non segnalare la presenza del già citato August Sander (Germania; 1876-1964), di Graciela Iturbide (Messico; 1942), Irving Penn (Usa; 1917-2009), con suoi Small Trades [FOTOgraphia, marzo 2012], Walker Evans (Usa; 1903-1975), Sebastião Salgado (Brasile; 1944) e degli italiani Paola Agosti (1947) e Paolo Pellegrin (1964). O l’eccellente lavoro di Herlinde Koelbl (Germania; 1939), che -a partire dalla caduta del Muro di Berlino, nel novembre 1989- scandisce il progetto di fotografare, anno per anno, i maggiori leader politici tedeschi. In mostra, nove affettuosi ritratti della cancelliera Angela Merkel. Altra trovata geniale della scenografia di Uniform. Into the Work / Out of the Work sono gli otto monitor che riproducono -ciascuno- un video dedicato a immaginari addetti alla sicurezza della stessa mostra in questo allestimento. Praticamente immobili, ogni tanto si spostano impercettibilmente. Se li state guardando in quel momento, trasalirete: perché sembrano fotografie che improvvisamente prendono vita.
Infine, non posso non citare la preziosa presenza di fotografie di autori anonimi. Riporto parole che ho scambiato con Urs Stahel: «Mast ha creato una Collezione di fotografia dedicata all’industria, tecnologia e lavoro. La Collezione si è arricchita con l’acquisto di molte fotografie di autori anonimi. A me è sempre interessato scoprire come le industrie si fotografano, qual è l’immagine che hanno di se stesse. Spesso, queste fotografie sono scattate da un impiegato dell’azienda. Ma oggi il suo nome si è perso, e rimangono solo immagini anonime. Per la mostra, abbiamo recuperato fotografie dagli album della fabbrica Forges et Fonderies Rémy, che aveva sede a Walcourt, in Belgio, e della Union Electric Light and Power Company of Illinois. Entrambi gli album sono degli anni Trenta. La Storia della Fotografia e la storia visiva delle industrie non è scritta solo da fotografi famosi, ma spesso anche da fotografi sconosciuti». Come non essere d’accordo. ❖ Uniform. Into the Work / Out of the Work ; a cura di Urs Stahel. Mast Gallery (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 42, 30133 Bologna; www.mast.org. Fino al 3 maggio; martedì-domenica, 10,00-19,00.
LA LINEA POSTDAMER PLATZ
Il progetto fotografico Linea nelle Linee, di Antonella Bozzini, offre una lettura e interpretazione dell’attuale paesaggio urbano di Berlino, tornata ad essere Capitale, della sua architettura della “rinascita” nazionale e del suo orgoglio ferito all’indomani dell’estate Quarantacinque di fine della Seconda guerra mondiale, affinché ciascuno di noi, alla presenza di queste fotografie, possa esprimere pensieri suoi autonomi, partire per viaggi individuali
SOTTILE
KULTURFORUM BAUHAUS-ARCHIV
di Maurizio Rebuzzini
HAUPTBAHNOF
HAUPTBAHNOF
P
assa! Come passa, il Tempo. Giusto in date coincidenti con l’inaugurazione della prima (non certo timida) uscita pubblica di questo intenso progetto fotografico dell’attenta Antonella Bozzini sulla nuova architettura urbana di Berlino -esposto alla Galleria Europa, di Modena, lo scorso novembre-, la Fotografia ha celebrato il centottantesimo anniversario dalla propria presentazione originaria in Italia (e basti questo accenno, senza ulteriori dettagli, né approfondimenti). Tanto che saremmo tentati di ignorare ed evitare il richiamo esplicito che il progetto Linea nelle Linee rivolge (invece!) al trentesimo dalla caduta / dall’abbattimento del Muro... per antonomasia. Ma -egoisticamente- non lo possiamo fare, né vogliamo farlo, perché questi trent’anni si aggiungono ai centocinquanta della Fotografia: cifra tonda, ai tempi celebrata solennemente. Da cui, 1989 in duplice sentimento: prima, universale, politico e sociale; poi, intimo e privato di e per chi -come noi- frequenta la Fotografia (autentico linguaggio visivo dal Novecento) come fondamento di Esistenza e Vita. Così che, come tutti i fotografi, artisti che esprimono la propria espressività da centottant’anni esatti (da quel fatidico 1839, nel quale è cominciato tutto... forse), anche Antonella Bozzini è una inguaribile bugiarda. Lo è perché e per quanto controlla, fino a dominarlo perfettamente, il proprio linguaggio. Così come un bravo narratore mente per far comprendere il proprio racconto,
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REICHSTAG E IL
PAUL LOBE HAUS SPIANATA DI
FRONTE ALLA
PAUL LOBE HAUS
E IL
REICHSTAG
omettendo qui, sottolineando là, soprassedendo a destra e allungandosi a sinistra, anche il bravo fotografo dissimula per lo stesso, identico motivo: per far comprendere il proprio racconto. Per cui, anche individuando i luoghi fotografati da Antonella Bozzini, a pretesto del proprio narrare per immagini, non si percepiranno le stesse emozioni che, invece!, trasmettono le sue immagini. La realtà è una cosa, la sua rappresentazione fotografica un’altra. Ciò detto, è necessario rilevare e rivelare la prepotente personalità linguistica della Fotografia, che è raffigurativa per necessità (per forza di cose, deve rivolgersi a un soggetto effettivo, naturale o costruito che sia), e rappresentativa per scelta e volontà: non necessariamente ciò che mostra è quello che vediamo, dobbiamo vedere, possiamo comprendere. Dove sta la bugia di Antonella Bozzini? Paradossalmente, nella sua sincerità di intenti ed esecuzione. Con Linea nelle Linee (progetto curato da Andréa Romeiro), offre una sua lettura e interpretazione dell’attuale paesaggio urbano di Berlino, tornata ad essere Capitale, della sua architettura della “rinascita” nazionale e del suo orgoglio ferito all’indomani dell’estate Quarantacinque di fine della Seconda guerra mondiale, affinché ciascuno di noi, alla presenza delle sue fotografie, possa esprimere pensieri suoi autonomi, partire per viaggi individuali. Ancora, dove sta, allora, la sua bugia? Nel raccontare con cognizione di causa, affinché nessun osservatore possa disperdersi in una confusa selva di tante sollecitazioni casuali, ma imbocchi con decisione il proprio cammino, che può coincidere con quello delle sue intenzioni d’autrice, ma anche distaccarsene.
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CHECKPOINT CHARLIE POSTDAMER PLATZ POSTDAMER PLATZ HENRIETTE HERZ PARK
Il progetto Linea nelle Linee, realizzato da Antonella Bozzini e curato da Andréa Romeiro, è nato oltre due anni fa, in vista dell’anniversario dei trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989. Un evento legato a fenomeni sociali e contemporaneamente ricco di memoria. Durante questi anni, oltre a viaggi effettuati a Berlino, sia per compiere ricerche, sia per fotografare -rigorosamente all’alba-, la documentazione si è focalizzata nell’interpretazione fotografica degli spazi collettivi dal punto di vista urbanistico-architettonico contemporaneo, come princìpio costruttivo delle sostenibilità funzionali e formali di avanguardia nelle grandi metropoli. Linea nelle Linee è l’inizio di un progetto fotografico che assume un particolare senso metaforico e chiama in causa il tema della trasformazione dello spazio urbanistico-architettonico. In allestimento scenico, le immagini esposte sono organizzate dal punto di vista del cambiamento del territorio urbano in un Confine: la “Linea”, che una volta era delimitata da un muro ( Il Muro?). È stato seguìto un percorso ideale nel centro di Berlino, iniziato dalla Hauptbahnhof, a nord della città, per concludersi a Postdamer Platz, circa tre chilometri a sud. Le immagini attestano opere che hanno coinvolto grandi architetti contemporanei di alto valore, quali Renzo Piano, Marg und Partner, Foster + Partners, Richter Musikowski, Arata Isozaki, Andrèy Carrera, Rafael Moreno, Hans Kollhoff, Andreas Meck, Schultes Frank Architekten. Rivelando oltre la superficie apparente a tutti visibile, l’autrice invita a notare e valutare come le nuove progettazioni architettoniche abbiano ragionato in misura democratica, innovativa e sostenibile, nel rispetto del territorio, dell’ambiente e delle risorse economiche a servizio della collettività. Per la sua capacità di proporsi come città protagonista nel divenire, la stessa autrice fa emergere una Berlino icona della scena urbanistica-architettonica contemporanea delle capitali europee. Di conseguenza, Berlino si propone e offre come punto di partenza di nuovi paradigmi del fare architettura, uno strumento per relazionarsi e includere la società, simbolo di un manifesto di innovazione, inclusione e sostenibilità.
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FRIEDRICHSTRASSE STATION PAUL LOBE HAUS
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MARIE-ELISABETH LUDERS HAUS
Mettiamola così: con la qualità delle sue fotografie (e non ci riferiamo a quella formale, che dall’accurata inquadratura passa attraverso una confortevole composizione, per presentarsi, infine, in stampe colore ottimamente eseguite), con la qualità dei contenuti delle sue fotografie, eccoci, Antonella Bozzini scandisce i tempi esatti del racconto e del coinvolgimento conseguente. Non si perde per strada, e permette anche a noi osservatori di percorrere una nostra linea retta; non racconta nulla di superfluo, per dare fiato a quanto è effettivamente necessario: visioni pacate, all’alba, senza presenze/figure umane (Sapiens ?), che impongono la riflessione, che inducono in tentazione. Da non credere, soprattutto ai nostri giorni: inducono alla tentazione di pensare, ciascuno per sé, ma anche in condivisione con altri. Soltanto, non si cerchi la sintonia con l’autrice: si è già espressa con le proprie immagini, e nulla altro ha da aggiungere. Quindi, ognuno parta da queste fotografie, da queste folgorazioni, da questi squarci nel buio per comporre i tratti del proprio percorso, che sarà avvincente per almeno due motivi: perché proprio, anzitutto, e perché sollecitato da una fotografia di alto profilo. La Fotografia è magica e magia giusto per questo. Non necessariamente racconta dei propri soggetti, spesso invitati a richiamare altre intimità che non la propria apparenza a tutti manifesta. Ma rivela sempre qualcosa dell’autore, in questo caso dell’autrice, che coinvolge tutti nella sua visione. Alla fin fine, è esattamente questo il senso di ogni Fotografia. Se la osservate attentamente, e vi allineate con il suo spirito, vi può rivelare molto su voi stessi. ❖
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LIFE
Margaret Bourke-White nel suo autoritratto preferito in tuta da volo, per una escursione con l’U.S. 8th Air Force, nel 1943 [in curiosa interpretazione paper dolls, a pagina 44].
L’imponente retrospettiva Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa presenta oltre cento immagini, provenienti dall’archivio Life, che -in passo cronologico- allacciano il filo del percorso esistenziale della fotogiornalista e mostrano la sua capacità visionaria e insieme narrativa, capace di comporre “storie” fotografiche dense e folgoranti. Per ricordare una fotografa epocale: una grande donna, la sua visione e la sua vita controcorrente
ATTRAVERSO LA STORIA
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(a pagina 42) Margaret Bourke-White: Play Street, New York, 1930.
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omanda trasversale, con risposta certa. In un tempo, come è il nostro, nel quale la Fotografia manifesta tanta contemporaneità espressiva, divulgata attraverso mille e mille canali, è ancora opportuno soffermarsi sui passi della Storia, fosse anche della propria Storia? Clamorosamente, sì! Per tanti motivi, alcuni dei quali possono anche tenere conto dell’esuberanza attuale, alla quale non corrisponde sempre analoga quantità progettuale e comunicativa. Da cui, le lezioni dal Passato -per il quale ciascuno conteggi in proprio le distinzioni tra Remoto e Prossimo- sono sempre e comunque proficue sul Presente: sia di chi agisce attivamente in Fotografia, proponendosi come autore, sia per coloro i quali ne frequentano il linguaggio e i valori incisivi. Ciò premesso, l’allestimento di una significativa e autorevole mostra di Margaret Bourke-White (19041971) si offre e propone come eccezionale momento di considerazione su una intensa stagione del fotogiornalismo, a cavallo della Seconda guerra mondiale, al quale la celebrata fotografa ha tanto contribuito da essere considerata tra le figure più rappresentative ed emblematiche del Novecento: dalla sua Fotografia alla Vita di ciascuno di noi. A cura di Alessandra Mauro, la mostra Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa è stata promossa e prodotta dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, da Palazzo Reale, che ospita l’allestimento, e da Contrasto, in collaborazione con Meredith Corporation, detentrice dell’archivio storico di Life [in date che slitteranno oltre il diciotto marzo preventivato]. L’esposizione rientra nel programma I talenti delle donne, un palinsesto promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano dedicato all’universo delle Donne, che si allunga sull’intero Duemilaventi (e speriamo che vada ancora oltre): sulle loro opere, le loro priorità, le loro capacità. Dunque, e in osservazione
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
(a pagina 42-43) Margaret Bourke-White: Al tempo dell'inondazione di Louisville (Kentucky, 1937).
allungata, continua quell’auspicata «inarrestabile marcia del progresso» alla quale si è richiamata l’edizione monografica Donne - Un secolo di cambiamenti, di National Geographic Italia, dello scorso novembre, coevo all’originario Women - A Century of Change, di National Geographic originario (Usa), che abbiamo presentato e commentato giusto un mese fa, a febbraio. Precorritrice dell’informazione visiva e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della Fotografia: dal mondo dell’industria e dai progetti corporate fino agli ampi reportage per le testate statunitensi più rilevanti degli anni Trenta del Novecento, del calibro di Fortune e Life, per la cui nascita, il 23 novembre 1936, firmò la copertina del numero Uno. Ancora, inviata di guerra nel Secondo conflitto mondiale (prima corrispondente di guerra donna) e sui fronti della Storia che si andava scrivendo (primo
di Maurizio Rebuzzini
Nel 1988, Serra e Riva Editori hanno pubblicato Margaret Bourke-White. Una biografia, di Vicki Goldberg, dall’originario statunitense del precedente 1986. Questo testo ha offerto la base per la sceneggiatura del film-biografia Double Exposure: The Story of Margaret Bouke-White, del 1989, diretto da Lawrence Schiller, con l’attrice Farrah Fawcett nei panni della fotografa. In Italia, è ufficializzata la traduzione in Margaret Bourke-White, una donna speciale. Ne possiamo registrare solo casuali passaggi televisivi in emittenti minori. Tanto che non esiste Dvd, e la sola testimonianza fisica è in videocassetta Vhs statunitense. A completamento, richiamiamo anche un altro testo analogo: Portrait of Myself, che sottotitola e specifica The Autobiography of Margaret Bourke-White (in edizione G.K. Hall & Co, del 1985, sull’originaria del 1963).
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MARGARET BOURKE-WHITE Margaret Bourke-White: Buchenwald, 1945.
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In approfondimento della personalità fotografica di Margaret Bourke-White, riprendiamo dallo Sguardo (continua a pagina 42)
MARGARET BOURKE-WHITE. 1945 THE PICTURE COLLECTION INC. ALL RIGHTS
L’allestimento scenico di Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa presenta e offre oltre cento immagini, provenienti dall’archivio Life, di New York, divise in dieci serie tematiche, che -in passo cronologico- allacciano il filo del percorso esistenziale della fotogiornalista e mostrano la sua capacità visionaria e insieme narrativa, capace di comporre “storie” fotografiche dense e folgoranti.
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PASSO, PASSO... IN MOSTRA
Ogni serie di fotografie è associata a documenti personali (ritratti, lettere, libri, reperti video...), in modo da far scorrere in parallelo la sua carriera di fotografa con la sua esistenza privata: dal numero Uno di Life, appena menzionato, alle fotografie della Seconda guerra mondiale, ai ritratti dei protagonisti del Novecento, alla letteratura (in primis, Erskine Caldwell, suo secondo marito, sposato nel 1939), fino a importanti collaborazioni con altri fotografi, come Alfred Eisenstaedt e Lee Miller. Insomma... avvincente retrospettiva per ricordare una fotografa epocale: una grande donna, la sua visione e la sua vita controcorrente.
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fotografo straniero ad avere accesso in Unione Sovietica, nell’estate 1941): dove e quando realizzò intensi ritratti di Stalin, prima, e del Mahatma Gandhi, poi, avvicinato durante un reportage sulla nascita della nuova India, fotografato nel 1946, fino al Sudafrica dell’apartheid e ai problema razziali nel Sud degli Stati Uniti e al brivido delle visioni aeree di Manhattan.
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PRIMO NUMERO DI LIFE (E ALTRO ANCORA)
Nello svolgersi del Tempo, alcune fotostorie pubblicate da Life hanno finito per rivelarsi più grandi di altre. Sono tutti fotoreportage che hanno palesato la propria portata con intento e audacia, spesso fuori dal comune. Quindi, ci sono perfino storie che si sono imposte per altri meriti, comunque sia in retrospettiva: che hanno guadagnato in statura e influenza in stretta dipendenza con i termini formali della loro pubblicazione originaria. In questo senso, oltre le proprie doti incontestabili, va assolutamente ricordata la prima storia dalla copertina, per l’appunto per il primo (storico) numero di Life, del 23 novembre 1936: reportage di Margaret Bourke-White sulla costruzione della diga di Fort Peck, in Montana, incalcolabile impegno dell’amministrazione pubblica nazionale, per l’edificazione della più grande diga del pianeta... nel pieno della Depressione, innescata dal crollo della Borsa, del 1929. Esemplare è l’annotazione con la quale, nel maggio 2007, a commento della terza chiusura di Life (quella definitiva!), Lello Piazza appuntò: «Fotografia di una diga dalle sagome inquietanti, che evocano le forme degli edifici alieni dei quadri di Sironi». Mirabile rappresentazione fotografica, eccellente metafora, che si allinea idealmente all’immagine di apertura dello stesso servizio: lavoratori vestiti della festa, che danzano in un saloon. In definitiva, quella copertina e quel fotoreportage sottolinearono adeguatamente e con piglio la dichiarazione di intenti del nuovo settimanale illustrato, che -nelle intenzioni del suo fondatore e creatore Henry R. Luce- avrebbe fatto «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi...». Dunque, a parte ogni distinguo di carattere ideologico, non soltanto filosofico, con quella fotostoria, il fotogiornalismo moderno stabilisce il proprio passo, la propria cadenza, il proprio lessico. Insomma, fino a che punto si è disposti a portare il mondo,
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in tutta la propria complessità emozionante, nelle case di tutti gli Stati Uniti! Ciò detto, la fotostoria di Margaret Bourke-White non avrebbe potuto essere migliore... forse. In qualche modo grandiose e intime, al tempo stesso, le sue fotografie -e il rilievo con il quale la messa in pagina le ha visualizzate- hanno reso chiaro che si era di fronte a un settimanale illustrato capace di affrontare veramente grandi storie in modi nuovi e brillanti. Attenzione, però: un conto sono le opinioni da addetti (magari, noi tra questi), altra è la percezione del pubblico al quale ci si rivolge, soprattutto di quello coinvolto emotivamente. Infatti, si racconta che gli abitanti di Fort Peck rimasero costernati nello scoprire che delle diciassette fotografie messe in pagina da Life, otto -che compongono l’ossatura dell’intero fotoreportageerano state scattate all’interno di locali pubblici fatiscenti.
Quindi, richiamiamo un ulteriore dietro-le-quinte di questo servizio fotografico, in aggiornamento temporale (circa). Nell’estate 2014, sul sito di Life, là dove viene raccontata la storia della celebre rivista, è stata pubblicata una notizia che rattrista. Per colpevole incuria -lo ammettono a chiare lettere-, molti dei negativi originari del fotoreportage di Margaret Bourke-White da Fort Peck, sono risultati irrimediabilmente rovinati. Nel comunicarlo, la redazione non cerca attenuanti, né giustificazioni. Addirittura, la stessa redazione si è fatta carico del fatto, del danno... e ha chiesto scusa al pubblico, verso il quale indirizza il proprio senso del dovere giornalistico. Il commento declina termini di assoluto sconforto e avvilimento. I negativi bianconero 4x5 pollici (10,2x12,7cm), dimensioni standard del fotogiornalismo statunitense dell’epoca, sono tanto gravemente
danneggiati, da non consentire più la stampa di copie positive. I dettagli chiave sono tanto degradati, da essere andati persi per sempre. In breve: i negativi sono irrimediabilmente rovinati. A parziale compensazione (soltanto morale), si sottolinea come il fatto sia sostanziosamente inspiegabile e irripetibile (per fortuna), perché altri negativi dello stesso fotoreportage, così come l’insieme dei negativi in archivio, sono invece in condizioni salutari, dopo quasi ottant’anni di conservazione. Per quanto inutile (ai fini pratici) e ininfluente sulla perdita irrimediabile, una indagine ha ipotizzato una sorta di colpevole disattenzione di qualcuno, nel corso del tempo: alcuni negativi, per l’appunto quelli danneggiati, potrebbero essere stati spostati vicino a una fonte di calore, per esempio un radiatore, e dimenticati; oppure, sono stati danneggiati da fuoriuscite di sostanze chimiche.
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
La nascita del settimanale Life, il 23 novembre 1936, con illustrazione in copertina di Margaret Bourke-White, è ricordata ed evocata nel foglio Souvenir emesso dalle Poste statunitensi, il 10 settembre 1998. A fine secolo, una serie filatelica di dieci soggetti ha scandito le decadi del Novecento, per ognuna delle quali sono stati puntualizzati accadimenti significativi e fondanti... ovviamente, dal punto di vista statunitense (americanocentrico). Segnaliamo anche la presenza della celebre Migrant Mother, di Dorothea Lange (ancora al femminile), rappresentativa della Grande Depressione.
(continua da pagina 39) su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del novembre 2005, successivamente inserito anche nel casellario La fotografia ribelle (Storie, passioni e conflitti che hanno rivoluzionato la fotografia), pubblicato da NdA Press, nel 2017 [FOTOgraphia, aprile 2017]: ventisette fotografe influenti sul cammino della Fotografia. Tra queste, ovviamente, anche Margaret Bourke-White: Della bellezza aristocratica dello sguardo. Il fascino del pericolo o la bellezza aristocratica dello sguardo sono al fondo dell’opera fotografica di Margaret Bourke-White. Le sue immagini hanno traversato un’epoca, e tra celebrazioni del suo genio e solitudini della propria esistenza randagia, Margaret Bourke-White ha eretto fortune economiche, sfasciato matrimoni e dato alla storiografia fotografica sia eccessi dello stile (i grandi lavori commerciali), sia lo
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MARGARET BOURKE-WHITE. 1945 THE PICTURE COLLECTION INC. ALL RIGHTS BY
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stile del dolore davanti agli altri (le immagini della dignità dei poveri americani o i resti degli ebrei nei campi di sterminio nazisti). «Non c’è crimine più grande della guerra» (Susan Sontag) o dell’indifferenza. [...] In alcuni libri, come Shooting the Russian War (1942) e Halfway to Freedom. A report on the New India (1949), si coglie la sensibilità per la diversità, la povertà, il disagio che la muove, in profondità. L’aneddoto di Margaret Bourke-White sulla celebre fotografia di Gandhi con arcolaio (1946; nemmeno poi tanto compiuta, ma significativa) è di quelli che piacciono agli storici, quanto ai dilettanti in tutto della fotografia. Il Mahatma, uomo spiritoso, le disse che ci sarebbe voluta calma per prendere la sua persona, e intanto la invitò a imparare a usare l’arcolaio. La fotografa ricorda così quell’esperienza: «Se volete fotografare un uomo che fila, prima di tutto dovete
TALENTI DELLE DONNE
Promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, e dedicato all’universo delle Donne, il palinsesto I talenti delle donne (www.italentidelledonne.it) intende fare conoscere al pubblico quanto, nel passato e nel presente -spesso in condizioni non favorevoli-, le donne siano state e siano artefici di espressività artistiche originali e, insieme, di istanze sociali di mutamento. In questo modo, si rendono visibili i contributi che -nel corso del tempo- le donne hanno offerto e offrono al progresso dell’umanità in tutte le aree della vita collettiva, a partire da quella culturale, Non si intende solo invitare livelli di consapevolezza rinnovati sul ruolo delle figure femminili nella vita sociale, ma anche aiutare concretamente a perseguire quel princìpio di equità e di pari opportunità che, dalla nostra Costituzione, deve potersi trasferire nelle rappresentazioni e culture quotidiane. La mostra Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa è inserita nel programma I talenti delle donne, che si allunga sull’intero 2020 (e speriamo che vada ancora oltre): sulle loro opere, le loro priorità, le loro capacità.
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BAMBOLA DI CARTA
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Autentica testimone del Novecento, con l’onore della copertina del numero Uno di Life, Margaret Bourke-White è stata una fotoreporter di spicco di una luminosa stagione del fotogiornalismo internazionale. E su questo siamo tutti d’accordo: tanto che ogni ulteriore osservazione al proposito sarebbe soltanto ridondante ripetizione. In aggiunta, segnaliamo una vicenda curiosa: una sagoma personalizzata di Margaret Bourke-White, ripresa da Notable American Women, della collana Paper Dolls dell’editore statunitense Dover, pubblicato nel 1989. È esplicito: bambole di carta da ritagliare, proposte in duplice abbigliamento. La bambola di carta di Margaret Bourke-White scandisce due tempi significativi della sua personalità, che pertanto deve essere nota anche al grande pubblico statunitense. Da una parte, abbiamo una distinta signora a passeggio, con macchina fotografica tra le mani; dall’altra, una professionista bardata per una missione fotografica a bordo di un aereo militare, nel 1943 (fatto reale, ripreso da un suo ritratto fotografico [a pagina 37]). In entrambi i casi, sottolineiamo proprio l’eleganza dei due abbigliamenti. Del resto, sappiamo bene come Margaret Bourke-White fosse una donna ricercata, tanto da essere considerata tra le dieci donne americane più eleganti della propria epoca (ed è per questo che sta sulle pagine del fascicolo sul quale l’abbiamo individuata). Nella Biografia compilata da Vicki Goldberg, pubblicata in Italia da Serra e Riva Editori, nel 1988, leggiamo che la fotografa «era perfettamente consapevole di dover vendere anche se stessa insieme alle sue fotografie». Pertanto, «si preoccupava del suo aspetto esteriore come il curatore di una mostra itinerante. Gli abiti divennero un passaporto e un sostegno al contempo». Tanto che «Margaret si fece un abito viola e un panno in velluto dello stesso colore per la macchina fotografica, di modo che quando cacciava la testa sotto il panno per scattare, la scenografia rispettava i canoni dell’abbinamento cromatico. Soddisfatta di tanta eleganza, preparò altri due panni: uno azzurro da cooordinare con guanti e cappello e uno nero per gli accessori rossi». Così è.
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riflettere un po’ perché egli fili. La comprensione, per un fotografo, è importante non meno degli apparecchi che usa. [...] Nel caso di Gandhi, l’arcolaio era pregno di significato; per milioni di indiani era il simbolo della lotta per l’indipendenza, che Gandhi stava conducendo con successo». Fin tanto che il sorriso di un utopista sboccia nell’indifferenza dei popoli inciviliti, la Terra sarà salva. [...] La vita eccentrica di Margaret Bourke-White, fuori del cerchio della socialità convenzionale, la porta ad avere affezioni politiche non proprio comode, e in piena epoca maccartista le fioccano accuse di comunismo. Risponde con un reportage sulla guerra in Corea teso a celebrare il patriottismo americano (e non è certo uno dei suoi lavori migliori). [...] Le scritture visive di Margaret Bourke-White vanno a cogliere la pregnanza della verità e la surrealtà delle forme, al di là delle codificazioni dalle quali parte. A leggere le immagini industriali degli anni Venti, o dei grattacieli dei Trenta, non è difficile scorgere la forza dell’inquadratura, la cura delle luci, il taglio audace, che rendono la fotografa americana all’altezza espressiva di Albert Renger-Patzsch, Karl Blossfeldt o Aleksandr Rodčenko. Ma, a differenza di questi eccezionali interpreti della realtà profanata a colpi d’ironia e cantori del rovesciamento di prospettiva da una società rovesciata, le immagini di Margaret Bourke-White restano materiche e lasciano negli occhi i giochi e i temi di un’infanzia interminabile. Del tutto straordinaria, ci sembra la ritrattistica che riguarda la povera gente, i bambini nelle baracche, gli alluvionati del Kentucky in fila per il pane. Le immagini dei campi di sterminio nazisti contengono una grazia e una pietà che vanno oltre l’annientamento di un popolo. [...] La fotografia d’impegno civile di Margaret Bourke-White è qualcosa che travalica il fatto estetico, e nella propria compiutezza formale o nella visualità atonale alla cultura fotografica corrente individua, senza gridare, precise responsabilità istituzionali, culturali, ideologiche di guerre, vessazioni, violenze, delle quali si è fatta testimone, non sempre compresa. La fotografia soggettiva di Margaret Bourke-White stimola il risveglio dello sguardo e lo porta verso una reattività altra della coscienza critica, verso una foto-interpretazione dell’esistenza senza santi né eroi, che partecipa all’ingiustizie della Terra, rivendica le condizioni di “vivenza” e il rispetto dei diritti più elementari dell’umanità intera. Ancora in risposta alla domanda trasversale d’apertura: sì, è sempre lecito e necessario incontrare tanta fotografia autoriale, indipendentemente dalla sua anagrafe, che può arrivarci da decenni lontani. Lezione dal Passato. ❖ Prima, donna. Margaret Bourke-White fotografa; a cura di Alessandra Mauro; mostra Comune di Milano / Cultura, Palazzo Reale, Contrasto (con il contributo di Fondazione Forma per la Fotografia); Digital Imaging Partner Canon. Palazzo Reale, piazza del Duomo 12, 20122 Milano; dal 18 marzo al 28 giugno [ordinanze alternative permettendo]. ❯ Durante il periodo espositivo è prevista una serie di incontri pubblici con donne del mondo della fotografia, del cinema, dello sport e dell’impresa.
RITORNO
SINAR NORMA 4X5
POLLICI
(FOTOGRAPHIA DI ANTONIO BORDONI)
AL GRANDE FORMATO
Una Ipotesi Un Sogno Un Invito Una Proposta (graphia@tin.it)
Dal Passato di Giulio Forti
VIENI AVANTI, RETINA
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Più di ottanta anni fa, la Retina della Kodak tedesca propose una 35mm economica lanciando il caricatore universale 135, che prima di allora non era ancora stato codificato. Come accadeva a Wetzlar, dove e quando gli ingegneri Leitz (Leica) ritenevano il 35mm / 24x36mm un formato troppo piccolo per stampe di qualità e prive di grana, così a Rochester anche i tecnici di Eastman Kodak Company, incluso il capo della ricerca Charles Mees, condividevano la stessa opinione. Poi, con il successo della Leica (1925) e il lancio della Contax (1932), le opinioni al proposito furono riviste. Kodak, era sbarcata in Europa, aprendo un filiale a Londra, nel 1885. Nel 1891, sempre in Inghilterra, edifica la fabbrica di Harrow (pellicola e carta) e apre un centro per la distribuzione di prodotti in Francia. Nel 1897, apre la filiale di Parigi, e poi la rete cresce con Canada, Australia e Germania. Qui, nel 1927, acquista la Glanzfilm, fabbrica di pellicola a Berlino Köpenick, che munì di nuove attrezzature. Il formato 35mm si stava affermando, e Kodak ritenne di dover scendere in campo con proprie macchine fotografiche. Ma come? Nel 1926, Carl Zeiss aveva costituito la Zeiss Ikon, nella quale vennero fuse la sua Ica con Ernemann, Goerz e Contessa-Nettel, creando un gruppo fotografico potente e all’avanguardia tecnica. Kodak sa che le sue sono macchine semplici e di massa, e quindi molto lontane dalla qualità che si aspettano gli europei.
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I generosi bottoni di riavvolgimento e di avanzamento con sblocco. Accanto, il bottoncino da ruotare per avanzare al fotogramma successivo. A destra, sul fondello, il regolo per la profondità di campo e il pulsantino per aprire l’obiettivo.
Accade che August Nagel, proprietario di Contessa-Nettel, conclusa la fusione in Zeiss Ikon, nel 1928, abbandoni il gruppo per divergenze con il consiglio di amministrazione e si ritiri a Stoccarda, per fondare la Dr. Nagel-Werke. Produce modelli a soffietto 6x9cm e versioni formato 3x4cm su pellicola a rullo 127, la Pupille e le Vollenda. Kodak la vede come l’occasione giusta, e offre a August Nagel di acquistare l’azienda, nominandolo direttore generale e capo della progettazione. L’incarico è di realizzare una 35mm poco costosa, ma di alta qualità. L’affare si conclude a dicembre 1931 e Nagel-Werke con Glanzfilm vengono incorporati nella Kodak AG, con base a Stoccarda. La fabbrica continuò a produrre apparecchi fotografici per pellicola in rullo, come la Vollenda, e due versioni Junior più l’americana Brownie 620 Art Déco. Ancora nei primi anni Trenta, le macchine fotografiche portatili a soffietto erano progettate per pellicola in rullo
120, nei formati da 6x9cm a 4,5x6cm, e pellicola 127 per il formato 3x4cm. Nel frattempo, August Nagel lavora al nuovo progetto e la Retina (117) giunge in vendita nell’estate del 1934, al prezzo base di 52,50 dollari. Il modello era offerto in tre combinazioni: con obiettivo Schneider Xenar 50mm f/3,5 con otturatore Compur o Compur-Rapid e con obiettivo Kodak-Anastigmat e otturatore Compur. Era dunque più economica rispetto ai novanta dollari di una Leica, come ai centoventicinque della Contax. Alla fine, non fu nemmeno popolare, perché piacque soprattutto agli amatori esigenti. La Retina ebbe un rapido successo per il prezzo e la compattezza (sessantamila unità vendute nei primi due anni), ma va ricordata in particolare come la prima ad adottare il caricatore 35mm (Daylight Loading Cartridge), progettato da August Nagel. Fino ad allora, Leica, Contax ed altre utilizzavano magazzini metallici ricaricabili in cui avvolgere la pellicola. Il DLC divenne lo standard industriale che tutti conosciamo come formato 135. L’obiettivo rientrante a soffietto -protetto dalla classica anta- si apre premendo un pulsantino sul fondel-
Dal Passato
lo. Il sistema di leve a forbici è solido. Per richiudere, si premono i due pulsantini sulla base metallica cui è fissato l’obiettivo con messa a fuoco minima di un metro. I tempi dell’otturatore Compur vanno da un secondo a 1/300 di secondo più le pose B e T. Chiusa, è realmente tascabile, ma può essere portata a tracolla solo con la borsa pronto. La Retina è una macchina fotografica essenziale e ben progettata, dotata di un’ottica di qualità, prima 35mm del
La Retina (117, No. 454130) del 1934: la prima ad adottare il caricatore 135, tuttora in uso. Il fregio sul frontalino si apre e dispone per l’appoggio verticale.
suo genere, che ispirò produttori come Wirgin, Beier e Certo. Va detto che ad aiutare il suo successo e quello del formato 35mm hanno contribuito le pellicole Kodak Panatomic e Super Sensitive Panchromatic, che diventerà la Super-X Panchromatic del doppio più sensibile. Tutte fornite nel caricatore 135 per trentasei pose e dotate, per la prima volta, dei numeretti lungo il bordo, per identificare i fotogrammi. A queste, faranno seguito il Kodachrome invertibile, nel 1936, e poi la nuova generazione delle Panatomic-X, Plus-X e Super XX bianconero, del 1938. Le prime Retina sono rivestite in pelle nera con la calotta laccata nera. Qui si trovano due comodi bottoni nichelati: a destra, quello di avanzamento (con levetta coassiale di sblocco per riavvolgere la pellicola); a sinistra, quello di riavvolgimento. Ai lati del minuscolo mirino, il contapose e il bottoncino che, ruotato, consente di avanzare al fotogramma successivo, che ruota a mostrare il corretto avanzamento e riav-
volgimento del film. Sul fondello, la filettatura per il treppiedi e il regolo per la verifica della profondità di campo. L’anno dopo, la Retina 118, dotata di otturatore Compur-Rapid fino a 1/500 di secondo e con sistema di avanzamento migliorato. Fino al 1941, seguì la serie delle Retina I e delle più economiche Retinette. Da quell’anno, la fabbrica sforna spolette a orologeria da 88mm per la Wehrmacht. Tuttavia, Stoccarda riuscirà a realizzare modelli americani destinati ai PX, gli spacci militari Usa. La valutazione delle Retina è modesta, e nei cataloghi delle aste WestLicht di Vienna appaiono molto di rado. Solo i prototipi pre e postbellici hanno quotazioni di rilievo. Notevole invece la... rottamazione via eBay a prezzi stracciati. Un’onta per il valore del prodotto, ma una opportunità per chi volesse approfondire il tema con una collezione non comune. Ricco di informazioni il sito dell’Historical Society for Retina Cameras (hsrcjournals.org). ❖
TAU Visual si presenta
Ciao! Probabilmente ci conosci già, ma ci presentiamo ugualmente: l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual è un’associazione di fotografi professionisti che lavora per offrire strumenti concreti di lavoro. L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nell’aiutare il fotografo nelle sue necessità professionali di ogni giorno, con consulenza, informazioni, incontri, testi, documentazione e attività gratuite, per risolvere i problemi immediati della professione. Nel medio termine, poi, lavoriamo assieme per elevare la cultura e la preparazione specifica di tutti gli operatori del settore. Ci sforziamo di affrontare i problemi in chiave positiva: più che contrastare gli aspetti negativi, lavoriamo per favorire gli elementi positivi della vita professionale di tutti.
Diventare Socio TAU Visual
Per avere un’idea delle attività dell’Associazione, la cosa migliore sarebbe che tu chiedessi a qualche collega già Socio, in modo da avere un parere diretto, e non una “pubblicità”. Puoi associarti solo se eserciti l’attività fotografica con una corretta e definita configurazione fiscale. Se sei un professionista, puoi presentare domanda partendo da: www.fotografi.org/ammissione.
Un regalo utile per i lettori di
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Come accennavamo, lavoriamo moltissimo per supportare i Soci nella loro attività, ma produciamo anche documentazione utile per il settore fotografico nel proprio complesso. Fra le altre cose, esiste un volumetto di 125 pagine, che raggruppa le risposte ad alcune delle tematiche su cui ci vengono poste domande con maggior frequenza. Se desideri ricevere via email il file in pdf di questo volumetto, è sufficiente che tu ce lo richieda mandando un’email alla casella associazione@fotografi.org, scrivendo nell’oggetto: “FOTOgraphia - Mandatemi il volume in pdf Documentazione TAU Visual per il Fotografo Professionista”. Indice dei contenuti del volume che ti invieremo Copyright diritto d’autore Tesserini, Pass e Permessi di ripresa Menzione del nome dell’autore Esempi di contratti standard Proteggibilità delle idee Tariffe professionali Pubblicabilità del ritratto Compendio documentazione sulla postproduzione fotografica
In ricordo di Maurizio Rebuzzini
KATHERINE G. JOHNSON
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Ha fatto in tempo a ricevere riconoscimenti, onorificenze e decorazioni che le spettavano di diritto, ma che per decenni le sono stati negati per una politica segregazionista statunitense di radici profonde, che è andata ben oltre l’ufficialità di tante e tante ordinanze, continui decreti e infinite leggi sull’integrazione nel proprio paese. Ancora, ha fatto in tempo a veder riconosciuto il proprio ruolo fondamentale nell’ambito dei progetti spaziali della Nasa, culminati con l’allunaggio di Apollo 11, il 20 luglio 1969 [FOTOgraphia, luglio 2019, nel cinquantenario]. Ha fatto in tempo a leggere la sua vita romanzata e a vederne l’avvincente ed emozionante trasposizione cinematografica che ne è seguìta. Dal romanzo Hidden Figures: The Untold Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race (Figure nascoste: la storia non raccontata delle donne afroamericane che hanno contribuito a vincere la corsa allo Spazio), di Margot Lee Shetterly (in Italia, con il titolo Il diritto di contare), è stato sceneggiato il film Il diritto di contare -sempre in titolo italiano-, di Theodore Melfi, del 2016. Il libro e il film (meglio il film del libro) espongono una storia fino a oggi tenuta all’oscuro per due discriminanti /discriminazioni: donne (come va sottolineato) e afroamericane. Per quanto il libro sia lento e sovraccarico di dati storici che distolgono dal cammino principale, la vocazione spettacolare del film è brillante e avvincente, con interpretazioni di alto profilo; tra altri riconoscimenti, tre candidature agli Oscar 2017: Miglior film, Miglior attrice non protagonista e Migliore sceneggiatura non originale. Storia suggestiva, questa delle tre matematiche afroamericane Katherine Coleman Goble Johnson, Dorothy Johnson Vaughan (1910-2008) e Mary Winston Jackson (1921-2005), che furono e agirono ai vertici scientifici dei progetti spaziali statunitensi fin dal primo lancio orbitale di John Herschel Glenn, il primo astronauta in orbita attorno alla Terra (Mercury 6 / Friendship 7, il 20 febbraio 1962; tre orbite).
24 novembre 2015: il presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama consegna alla novantasettenne Katherine Coleman Goble Johnson la Presidential Medal of Freedom, massima decorazione degli Stati Uniti.
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In ricordo [Ahinoi, c’è voluto un film perché questa storia potesse raggiungere il pubblico, per il solito frastornato da altre spettacolarizzazioni effimere, banali e superflue]. Bambina prodigio, Katherine Coleman (poi, Katherine Coleman Goble Johnson, a seguito dei suoi due matrimoni), ottenne il diploma superiore a quattordici anni, e a sedici iniziò a frequentare il West Virginia State College: laurea in matematica e francese Magna cum laude, nel 1937, a diciotto anni. L’anno dopo, nel 1938, fu la prima donna afroamericana a superare le barriere segregazioniste dell’Università della Virginia Occidentale, a Morgantown, nella Contea di Monongalia. Fu uno dei tre studenti afroamericani, nonché l’unica donna, selezionati per integrare la scuola di specializzazione, dopo la sentenza della Corte Suprema del Missouri, storicizzata come Gaines versus Canada. Nata Katherine Coleman, il 26 agosto 1918, da Joshua e Joylette Coleman, a White Sulphur Springs, nella Contea di Greenbrier, in Virginia Occidentale, è stata una matematica, informatica e fisica di prima grandezza nel Novecento. Suo padre boscaiolo e contadino e sua madre insegnante assecondarono e sostennero il suo talento per la matematica, sollecitandola nello studio, in una situazione sociale che non assicurava l’istruzione agli studenti afroamericani (così diciamo oggi; ma, ai tempi, i sostantivi e aggettivi erano denigratori e calunniosi). Originariamente impegnata nell’ente spaziale statunitense (Nasa), per verificare calcoli elaborati da altri matematici, presto fu coinvolta in programmazioni proprie. Come appena annotato, ha contribuito alla scienza dell’aeronautica statunitense e ai programmi spaziali, fin dagli esordi dei voli nello Spazio. Per decenni, fu riferimento privilegiato per l’accuratezza che poneva nel calcolo della navigazione spaziale computerizzata e per il lavoro tecnico dirigenziale pluridecennale svolto alla Nasa. Fu lei a calcolare le traiettorie delle orbite, paraboliche e iperboliche, le finestre di lancio e i percorsi di ritorno di emergenza per molti voli, dalle capsule Mercury alla successione delle missioni Apollo, continuando poi, ancora, con il programma Space Shuttle e la progettazione di piani per missioni su Marte.
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Primi anni Sessanta: Katherine Coleman Goble Johnson al tavolo dal quale controllava e dirigeva i calcoli per le missioni spaziali della Nasa. Fu lei a calcolare le traiettorie delle orbite, paraboliche e iperboliche, le finestre di lancio e i percorsi di ritorno per molti voli, dalle capsule Mercury alla successione delle missioni Apollo. Storia di Figure nascoste tra le pieghe della stolta segregazione sessista e razziale.
Nella fantasia della sceneggiatura del film Il diritto di contare si racconta di un episodio dichiarato come vero e autentico: prendiamolo per buono. In procinto di entrare nella capsula Mercury 6 / Friendship 7, per il primo volo orbitale degli Stati Uniti, l’astronauta John Herschel Glenn venne preavvertito che i dati forniti dai primi calcolatori elettronici in dotazione erano contraddittori. Stava a lui decidere il rischio del volo. A questo punto, avrebbe richiesto di far ricalcolare tutto a “quella sveglia” (per l’appunto, Katherine Coleman Goble Johnson): «Se lei mi dice di decollare -avrebbe affermato-, io vado. Di lei mi fido». Suo è stato il calcolo della traiettoria per la missione sulla Luna dell’Apollo 11; e determinate fu il suo contributo per il salvataggio, con rientro a Terra, della missione Apollo 13 (11-17 aprile 1970), in avaria tecnica. Numerosi i riconoscimenti, le onorificenze e le decorazioni attribuite a Katherine Coleman Goble Johnson nel corso della sua lunga carriera scientifica. Le prime, in ambito spaziale, e via via, poi, insegne universitarie e statali. In cronologia. 1967: Nasa Apollo Group Achievement Award. 1967: Nasa Lunar Orbiter Spacecraft and Operations team Award (per il lavoro pionieristico di supporto ai problemi di navigazione dei cinque veicoli spaziali che orbitavano e mappavano la Luna in preparazione degli allunaggi).
1971, 1980, 1984, 1985, 1986: Nasa Langley Research Center Special Achievement Award. 1998: Honorary Doctor of Laws (Suny Farmingdale). 1999: West Virginia State College Outstanding Alumnus of the Year. 2006: Honorary Doctor of Science (Capitol College, Laurel, Maryland). 2010: Honorary Doctorate of Science (Old Dominion University). 2015: Ncwit Pioneer in Tech Award. 2015: Presidential Medal of Freedom (durante il secondo mandato della presidenza di Barack Obama; la medaglia presidenziale della libertà (Presidential Medal of Freedom) è una decorazione conferita dal presidente degli Stati Uniti; assieme alla Medaglia d’oro del Congresso, concessa con un atto del Congresso, è la massima decorazione degli Stati Uniti). 2016: Astronomical Society of the Pacific’s Arthur B.C. Walker II Award. 2016: Silver Snoopy Award (da Leland Melvin). Ha fatto in tempo a ricevere riconoscimenti, onorificenze e decorazioni che le spettavano di diritto, ma che per decenni le sono stati negati per una politica segregazionista statunitense di radici profonde, che è andata ben oltre l’ufficialità di tante e tante ordinanze, continui decreti e infinite leggi sull’integrazione nel proprio paese. Katherine Coleman Goble Johnson è mancata lunedì ventiquattro ❖ febbraio, a centodue anni.
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