Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXVII - NUMERO 262 - GIUGNO 2020
Auto.scatto COMPRENSIVI DEL GESTO Chicago anni Venti BEAUTIFUL E CRIMINI
ASTRID KIRCHHERR BABY’S IN BLACK
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
prima di cominciare AUTORITRATTO. Su questo stesso numero della rivista, da pagina 40, osserviamo e riflettiamo nei termini di Auto.scatto, intendendo soprattutto la presenza di elementi specifici nella composizione/inquadratura. Quindi, approdiamo anche alla personalità dello statunitense Lee Friedlander (1934), evocato giusto per proprie considerazioni sull’assenza del fotografo dalla propria azione. Vi arriviamo, invitati a farlo, da una delle Verifiche attraverso le quali, nei primi anni Settanta del Novecento, Ugo Mulas analizzò e accertò condizioni fondanti del gesto fotografico, in passi adeguatamente cadenzati. In chiusura di intervento, riveliamo di conoscere la monografia Vivian Maier. SelfPortraits, ma di non averla considerata in quanto estranea al nostro passo odierno. Per rimuovere eventuali dubbi al proposito, qui presentiamo il titolo. Però, non prima di aver rivelato che -a dispetto della sua beatificazione- non consideriamo la parabola fotografica di Vivian Maier oltre la propria personalità “mercantile”, che da una dozzina di anni si è proiettata nel mondo della Fotografia. Nel concreto, consideriamo modesta la sua Fotografia, assolutamente priva di progettualità e continuità espressiva, fatto salvo quella autoanalisi che può averne rasserenato la vita. Comunque, anche solo questo, è un valore positivo dell’applicazione e frequentazione della Fotografia. Da qui, l’ufficialità. Oltre e a parte l’insieme della fotografia dell’autrice statunitense (19262009), la raccolta specifica Vivian Maier. SelfPortraits (Random House, 2014; 120 pagine 25x27,5cm, cartonato) si offre e propone come catalogazione cadenzata, forse anche ragionata (?), dei suoi autoritratti, soprattutto riflessi da specchi o vetrine di negozi. La cadenza è incessante e, a nostro modo di vedere e considerare, conferma la trasversalità terapeutica di questo impegno fotografico: liberatore, gratificante e, perché no, redentore di una esistenza sostanziosamente solitaria (ma non in solitudine), propria di un carattere vitale che ci è ben noto e chiaro. Da cui e per cui, pur rispettando la quantità (non sempre qualità) delle immagini impaginate e presentate nell’edizione libraria Vivian Maier. SelfPortraits, il nostro odierno Auto.scatto è altro. Ne siamo consapevoli e convinti: non necessariamente è migliore; ma, sicuramente, è stato declinato altrimenti. Di fatto, dalle proprie considerazioni, ha escluso quanto è gesto d’arte e di sopravvivenza individuale.
Questo numero di FOTOgraphia è datato “giugno 2020”, come da sua lavorazione e intenzione originaria. Nel frattempo, sono intervenuti fatti a tutti noti, relativi alla tutela preventiva da contagi Coronavirus. Manteniamo la data di copertina, come faremo sui numeri immediatamente a seguire, confortati dal fatto che il ritardo in arrivo, per quanto possa compromettere alcuni degli argomenti affrontati e trattati, in cronaca, sia sostanzialmente ininfluente sul nostro modo di intendere la relazione attorno la Fotografia. E lo speriamo.
Nel momento in cui si piangono le scomparse... si celebrano le loro vite e gli affetti che hanno lasciato. mFranti; su questo numero, a pagina 8 A volte, la riflessione fotografica richiede anticipazione di ragioni o sintesi di svolgimenti precedenti: sempre e comunque con quell’occhio/cuore fotografico che distingue l’apparenza a tutti evidente dai contenuti impliciti e allusivi. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 33 Stu Sutcliffe è mancato ad Amburgo, in Germania, il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni; era nato il 23 giugno 1940. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 26 La conoscenza comporta sempre responsabilità. E altrettanto vale per la coscienza, che -in metaforaequipariamo a uno strumento musicale. Il messaggio sta nella musica; ma se non teniamo in ordine lo strumento (la conoscenza e la coscienza) e non lo usiamo esercitandoci regolarmente, otterremo soltanto risposte villane. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 18 Non fotografare... Ando Gilardi; su questo numero, a pagina 48
Copertina Autoritratto allo specchio di Astrid Kirchherr (1960). Oggi e qui celebriamo la talentuosa fotografa, mancata lo scorso tredici maggio, a ottantadue anni. La sua parabola esistenziale e professionale si rimanda al suo incontro con i Beatles/pre-Beatles. In approfondimento e ricordo, da pagina 24
3 Altri tempi (fotografici) In estratto, da un annuncio pubblicitario Luigi Piseroni, del 1930, novanta anni fa, in anticipo sulla successiva denominazione aziendale Piseroni e Mondini, a Milano
7 Editoriale Archiviato il Covid-19 (forse, non è ancora detto), consecuzioni che travolgono il commercio fotografico
8 Vite celebrate A partire e con pretesto di un avvincente e convincente giornalismo del quotidiano The New York Times, coincidenze e paralleli in forma fotografica. Eccoci qui
GIUGNO 2020
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
13 L’altra Chicago A complemento delle considerazioni espresse su sollecitazione di un affascinante fascicolo illustrato statunitense, del 1932 (da pagina 18), eccellenti visioni giornalistiche di una città e un tempo controversi
Anno XXVII - numero 262 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
16 Solennità fotografiche
Filippo Rebuzzini
Nel film Il segno di Venere, di Dino Risi, del 1955, interpretato da Peppino De Filippo, Mario è un fotografo che esprime una commossa dichiarazione di intenti. Da qui, completiamo con fumetti in sintonia/dicotomia Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Giulio Forti
CORRISPONDENTE FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
18 Ciò che dice la Fotografia Al pari di ogni buona compagnia, che arriva soprattutto dai libri e dalla loro frequentazione, l’agile monografia Chicago Beautiful, del 1932, offre e propone lezioni fotografiche delle quali fare prezioso tesoro. La Fotografia arresta misteriosamente il Tempo, fondendo in un unico momento il Passato, il Presente e il Futuro di Angelo Galantini
24 Baby’s in Black In ricordo di Astrid Kirchherr, fotografa tedesca che ha realizzato i primi ritratti dei Beatles/pre-Beatles, ad Amburgo, nel Millenovecentosessanta di Maurizio Rebuzzini
33 Propaganda e sogno
COLLABORATO
Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Lello Piazza Marco Saielli Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
Trama inquietante: la giustificazione e glorificazione storica delle azioni dei nostri giorni. Un esempio di finalità “altre” della Fotografia: linguaggio visivo interpretabile e manipolabile (a piacere), come ogni altro di Antonio Bordoni
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40 Auto.scatto
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Selezione di autoritratti moderni, e sostanzialmente attuali, comprensivi del gesto della Fotografia
48 Ando Gilardi (dal 1921)
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
L’otto giugno, avrebbe compiuto novantanove anni Rivista associata a TIPA
50 Alla maniera di Proditoria campagna Atm Milano, sul passo di Liu Bolin Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.
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OF
DA PICTURE MACHINE - THE RISE
Bambina e bambola con maschere respiratorie durante una manifestazione anti-inquinamento; Pasadena, California, 21 ottobre 1954.
WEEGEE
C
erto! A differenza di nostre consuetudini giornalistiche, qui e ora, non ci esprimiamo dopo verifiche approfondite, ma ci basiamo su considerazioni e opinioni che abbiamo elaborato in proprio, senza andare a cercare e rintracciare riscontri oggettivi. Del resto, siamo sinceri, non ce n’è proprio bisogno, perché quanto stiamo per rilevare è di banalità sconcertante, oltre ad essere più che palese e inevitabile. Per quanto il commercio fotografico sia da tempo debilitato da disaffezione al consumo, non è più il caso di far notare (all’industria produttrice, prima che ad altri) come e quanto sia stato deleterio avvicinare e affrontare senza alcuna preparazione mercantile la trasformazione tecnologica da pellicola fotosensibile (e suoi margini di guadagno e sua filiera) all’acquisizione digitale di immagini. Ovviamente, stiamo pensando alla prematura (?) scomparsa di apparecchi fotografici popolari, in forma compatta, che hanno sempre alimentato la redditività del nostro comparto tecnicocommerciale. Altrettanto ovviamente, siamo coscienti che l’evoluzione tecnologica chiara e manifesta è stata sottovalutata, e non affrontata come lo tsunami che poi è stato: ed era prevedibile, ed era da prevedere per quanto l’Industria abbia il dovere di guardare in avanti... spesso, molto avanti. Va da sé che l’altro tsunami che ha travolto il Mondo, in forma di Covid-19 (la Natura non tiene conto degli equilibri finanziari necessari alla nostra sopravvivenza come specie), si sia aggiunto, rendendo l’ondata ancora più travolgente. Siamo certi che in lockdown/confinamento/arresti domiciliari non siano state vendute macchine fotografiche. Anzitutto, i negozi preposti erano chiusi; non certo in subordine, ognuno aveva altro da preoccuparsi, senza approdare all’acquisto di macchine fotografiche. In definitiva, se vogliamo essere concreti e realisti, senza sognare a occhi aperti, questa ulteriore disabitudine all’acquisto fotografico non dovrebbe concludersi con l’emergenza sanitaria, ma potrebbe aggiungersi a nuovi approcci con la Fotografia: che non è più soltanto quella che abbiamo vissuto per decenni, ma si è allargata a macchia d’olio, senza pre-informazioni, prenozioni, pre-intenzioni che un tempo consideravamo indispensabili. Oggi, si fotografa, soprattutto con smartphone, senza preoccuparsi di declinare un linguaggio affinato nei secoli! Detto questo: complice la recente socialità in maschera e senza contatti fisici, è ora di affrontare il problema alla radice (sempre che di problema si tratti). Quella che molti di noi hanno sempre considerato Fotografia appartiene ancora a una nicchia di persone consapevoli e concentrate, forse numericamente insufficienti a mantenere vivo e palpitante un Commercio. L’immagine si è trasferita altrove, e non richiede più minuzie tecniche fino a ieri indispensabili. Si scatta e condivide, ci si gratifica senza che sia necessario accompagnare il gesto con relativi approcci consumistici. Dal nostro microcosmo, indicativo di un macrocosmo (?), in rivolta della Natura, la società capitalista sta mostrando le proprie incongruenze. Maurizio Rebuzzini
AMERICAN NEWSPICTURES [ARCHIVIO FOTOGRAPHIA]
editoriale
Space Patrol; 1954 circa.
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Giornalismo di Maurizio Rebuzzini (Franti)
T
Titolo sulle proverbiali nove colonne (che poi sono sei), sulla prima pagina dell’autorevole quotidiano The New York Times, di domenica ventiquattro maggio: Morti negli Stati Uniti prossimi a 100.000, una perdita incalcolabile. Quindi, l’intera prima pagina riporta un elenco di persone morte nel paese, con rimando alla pagina dodici, dove il casellario continua la propria inesorabile marcia. Il titolo è esplicito, è evidente e -in momenti di Coronavirus/Covid-19non ammette errori di interpretazione. Ma non è nulla di gelido, quanto tanto di partecipe. Il sottotitolo, senza sottintesi: They Were Not Simply / Names on a List. / They Were Us, traducibile in Non sono semplicemente / nomi in un elenco. / Erano [Sono stati] Una parte di noi. Ancora, in avvio, prima del doloroso elenco: «Per quanto controllate e verificate, le cifre da sole non possono misurare plausibilmente l’impatto del Coronavirus sull’America; anche se certificano il numero di pazienti trattati e altri interventi medici, non approdano alla quantificazione di lavori interrotti e vite abbreviate. Mentre il paese si avvicina al tragico traguardo di centomila morti attribuiti al virus, The New York Times ha scorso i necrologi e gli avvisi di morte delle vittime pubblicati in tutta la nazione. Le mille persone qui ricordate riflettono solo l’uno percento del tributo. Nessuno di loro era un semplice numero». Da cui, nel momento in cui si piangono le scomparse... si celebrano le loro vite e gli affetti che hanno lasciato sulla Terra. Ispiratore di una prima pagina di nomi, completi di età, località e professione/attività, è un progetto giornalistico esemplare: sia di se stesso (giornalismo), sia di una delicata emotività in un momento drammatico e doloroso. Di fatto, questa presentazione di necrologi dai giornali di tutti gli
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VITE CELEBRATE Stati Uniti compone un commosso casellario che inquadra perdite incalcolabili. La sola sequenza di nomi e attribuzioni è per se stessa misurazione e specifica di quanto è accaduto: forse, lo è in misura maggiore di (inutili) parole a commento, per lo più di circostanza.
GIÀ... GIORNALISMO Singolare ed eccellente lezione di giornalismo (della quale fare
prezioso tesoro): invece degli articoli, delle fotografie e della grafica che appaiono normalmente sulla prima pagina del New York Times, domenica ventiquattro maggio è stato riportato solo un elenco: un lungo e solenne elenco di persone le cui vite sono state perse a causa della pandemia di Coronavirus, alla vigilia del conteggio di centomila morti, raggiunte di lì a qualche giorno. L’autorevole quotidiano newyor-
The New York Times, 24 maggio 2020: Morti negli Stati Uniti prossimi a 100.000, una perdita incalcolabile. Non sono semplicemente / nomi in un elenco. / Erano [Sono stati] Una parte di noi.
kese ha pianificato come segnare il tragico traguardo. Il dietro-le-quinte è stato raccontato nella apposita sezione Times Insider del sito ufficiale, là dove, per il solito, si racconta, commenta e chiarisce il senso del loro giornalismo. Simone Landon, assistant editor of the Graphics desk, ha inteso rappresentare il numero / la cifra in modo che trasmettesse sia la vastità sia la varietà delle vite perse. Per mesi, le sezioni del New York Times hanno affrontato e “coperto” la pandemia di Coronavirus. Oltre alle cronache, lo staff di Simone Landon ha inteso che «sia tra noi, sia presso il pubblico, c’è un poco di stanchezza da dati freddi e, forse, aridi». Ancora testuale: «Sapevamo di avvicinarci a questo traguardo [centomila morti]. Sapevamo che serviva un modo forte e diretto per fare i conti con quel valore». In (nostra) ripetizione: «Nel momento in cui si piangono le scomparse... si celebrano le loro vite e gli affetti che hanno lasciato sulla Terra». Allora: «Collocare centomila punti o figure stilizzate su una pagina, non dice davvero molto su chi fossero queste persone, le vite che hanno vissuto, cosa significhi per noi come paese», ha ribadito Simone Landon. Quindi, ha avuto l’idea di compilare necrologi e avvisi di morte delle vittime di Covid-19 da giornali grandi e piccoli in tutto il paese, e di sottolinearne passaggi vividi. Alain Delaquérière, uno dei ricercatori del quotidiano (che vanta un’attenzione giornalistica d’eccellenza), ha consultato centinaia di quotidiani nazionali, estrapolandone necrologi e avvisi di morte per Covid-19, certificati tali. Ha compilato un elenco di mille nomi. Un team di redattori, oltre a tre giornalisti studenti in stage, li ha letti e ha sintetizzato espressioni che descrivono l’unicità di ogni vita persa: «Alan Lund, ottantuno
Giornalismo anni, Washington, direttore d’orchestra con “l’orecchio più incredibile”»; «Theresa Elloie, sessantatré anni, New Orleans, conosciuta e apprezzata per la sua capacità nel realizzare spille e corpetti»; «Florencio Almazo Morán, sessantacinque anni, New York City, veterano»; «Coby Adolph, quarantaquattro anni, Chicago, imprenditore e avventuriero». Simone Landon ha equiparato il risultato a un “ricco arazzo”, tessuto con partecipazione dai giornalisti del quotidiano newyorkese: Clinton Cargill, assistente alla redazione, è stato il “copilota di montaggio”; Matt Ruby, vicedirettore di Digital News Design; Annie Daniel, ingegnere informatico; e gli editor grafici Jonathan Huang, Richard Harris e Lazaro Gamio. Andrew Sondern, art director, ha rifinito il design della messa in pagina. L’impostazione e realizzazione fa riferimento a quello dei quotidiani storici, ai quali Tomi Bodkin, direttore creativo del New York Times, è profondamente interessato. Per molti anni, dopo che il Times ha iniziato a pubblicare, nel 1851, non ci sono stati titoli né impaginazioni, in senso moderno e attuale.
Life, 27 giugno 1969: One Week’s Dead (i morti americani nella guerra in Vietnam di una settimana, dal ventotto maggio al tre giugno) [quattro di undici pagine].
ALTRE LISTE A questo punto, e come nostra consuetudine, richiamiamo alla memoria precedenti di giornalismo analogo, che hanno affidato a una simbologia esplicita e diretta la propria partecipazione a vicende della Vita. Ci indirizziamo all’uso della Fotografia, declinata in modo analogo alla Parola (del New York Times) dalla quale siamo partiti. Al solito non è un casellario enciclopedico ed esaustivo, ma si tratta di una elencazione soltanto selezionata da... tanto che ci dovrebbe essere ancora e ancora. Procediamo in ordine cronologico, dal passato remoto a quello prossimo. Il 27 giugno 1969, il settimanale statunitense Life, allora alla prima delle sue tre vite [FOTOgraphia, maggio 2007 e giugno 2018], pubblicò un servizio “fotografico” distribuito su undici pagine. Breve testo introduttivo e svolgimento
Rolling Stone, 21 ottobre 1976, in occasione di solenni celebrazioni del bicentenario degli Stati Uniti: The Family, di Richard Avedon (personalità del mondo politico statunitense che gestiscono da dietro le quinte) [quattro di ventotto pagine].
con duecentoquarantadue (242) ritratti di militari americani, recuperati dalle schede ufficiali delle forze armate: One Week’s Dead. Ovvero, i morti americani nella guerra in Vietnam di una settimana, dal ventotto maggio al tre giugno. Li abbiamo guardati allora, questi volti. Ancora oggi, possiamo riesaminarli: duecentoquarantadue volti che, oggi come ieri, osserviamo chiedendoci chi siano stati, che speranze hanno avuto, che sogni sono riusciti a concretizzare, se sono stati felici, oppure hanno subìto sventure o eventi dolorosi prima della loro prematura scomparsa. Pur estranei a questo pensiero, qui e ora ci sta: fotografie / ritratti che valgono più di mille parole... sul tema della guerra in Vietnam e della guerra più in generale e assoluto. Sul proprio numero del 21 ottobre 1976, in occasione di solenni celebrazioni del bicentenario degli Stati Uniti, che il che il 4 luglio 1776 si separarono dal dominio inglese, il settimanale Rolling Stone ne affidò una interpretazione a Richard Avedon (1923-2004). Da cui, anche qui introdotte da un breve testo, ventotto pagine con ritratti “alla Avedon” [bianconeri verticali, fondo bianco neutro, inquadrature perfino ardite, immancabile cimosa di contorno disegnata dalle guide di trattenimento della pellicola piana Otto PerDieci (pollici) nello châssis grande formato]: The Family ha inteso segnalare, con il ritratto specificato con nome e cognome, e basta, personalità del mondo politico statunitense che gestiscono da dietro le quinte, oltre le chiassose evidenze della facciata visibile a ognuno. Tra tutti, anche due futuri presidenti statunitensi, che allora erano conosciuti solo dai gestori del Potere vero: Ronald Reagan (1911-2004), quarantesimo presidente, per due mandati, dal gennaio 1981 al gennaio 1988; George H.W. Bush (Herbert Walker; 1924-2018), quarantunesimo presidente, dal gennaio 1989 al gennaio 1993 [suo figlio George W. Bush (Walker; 1946), ne
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seguì le orme come quarantatreesimo presidente, per due mandati, dal 2001 al 2009]. In ripetizione (e altre ne stanno per arrivare): «pur estranei a questo pensiero, qui e ora ci sta: fotografie che valgono più di mille parole... ritratti di personaggi fieri, alienati e compresi in se stessi».
FOTOTESSERE Nell’estate 1996, durante la seconda delle sue tre vite [FOTO graphia, maggio 2007 e giugno 2018], Life a cadenza mensile realizzò un numero monografico dedicato alla generazione dei Boomers -i nati nell’epoca del “baby boom”, dal 1946 al 1964-, andando ad analizzare cinquanta personaggi influenti sulla storia contemporanea degli Stati Uniti. A parte altre considerazioni, che abbiamo approfondito in un tempestivo intervento redazionale [FOTOgraphia, settembre 1996], nell’odierno contesto, sottolineiamo la copertina costruita con ventiquattro fototessere semi-adolescenziali dei personaggi, ascoltate bene... recuperate dalle rispettive adesioni al Club di Topolino! Alcuni sono riconoscibili; altri sono autentiche sorprese. Alcuni nomi sarebbero prevedibili, nel proprio riferimento al Club, altri meno. Tra gli insospettabili, riconoscibili o meno, citiamo: Spike Lee, John Belushi, Hillary Clinton, O.J. Simpson, Bill Clinton, Madonna, Steven Spielberg, Steven Jobs, Michael Jackson, Bill Gates, Michael Jordan, Karen Silkwood, Stephen King, Oliver Stone. Approdati così alla fototessera nel giornalismo, e scavalcando per un attimo la cadenza temporale intrapresa, registriamo un caso clamoroso. Singolare è la raccolta di fotoritratti di guerriglieri talebani, recuperata dal reporter Thomas Dworzak (Magnum Photos) in uno studio fotografico abbandonato di Kandahar, Afghanistan, quartier generale del teorico dell’integralismo Mullah Omar. Li ha trovati entrando in città assieme alle truppe vittoriose, che ha seguìto per conto del settimanale The New Yorker. L’insieme dei ritratti rivela l’immagine che i
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Giornalismo Life, estate 1996: i cinquanta Boomers più influenti negli Stati Uniti; nati nell’epoca del “baby boom”, dal 1946 al 1964 (copertina con ventiquattro fototessere semi-adolescenziali dei personaggi presi in considerazione, recuperate dalle rispettive adesioni giovanili al Club di Topolino).
Taliban, a cura di Thomas Dworzak (Magnum Photos): fotoritratti di guerriglieri talebani, recuperati dal fotogiornalista in uno studio fotografico abbandonato di Kandahar, Afghanistan, sede del teorico dell’integralismo Mullah Omar (Trolley Books, 2003; 65 fotografie; 128 pagine 15x20cm, cartonato).
Vanity Fair, novembre 2001: One Week in September, di Jonas Karlsson (commosso omaggio a chi ha agito e/o subìto l’Undici settembre, a New York) [due pagine dall’intero servizio].
guerriglieri avevano di sé e avrebbero voluto esternare, indipendentemente dalle oscurantiste imposizioni religiose dei propri capi. I contesti sono sconcertanti; a parte l’immancabile presenza di armi, soprattutto il famigerato Kalashnikov, le vistose colorazioni artificiose danno risalto a fondi di alpi svizzere, con tanto di immancabili chalet, e alle tinte grigie e marroni ufficialmente proibite. Soli o in coppia, sono assassini fuggiti di fronte all’avanzata del nemico, che lasciano una irragionevole annotazione della propria presenza. Che, appunto, diventa consistente materia di reportage, raccolto anche nel volume Taliban (Trolley Books, 2003; 65 fotografie; 128 pagine 15x20cm, cartonato). Per questa monografia e per Life / Boomers, ancora in ripetizione (altre hanno preceduto e altre ne arriveranno): «pur estra-
nei a questo pensiero, qui e ora ci sta: fotografie che valgono più di mille parole... ritratti rivelatori».
QUEI VOLTI L’Undici settembre (2001) è stato affrontato e svolto da tutto il giornalismo planetario. Non serve tornare sull’argomento, quantomeno qui, quantomeno ora. Però! Però, soltanto una segnalazione che rientra in questa nostra cadenza odierna, avviata con i mille nomi di vittime statunitensi del Coronavirus riportati da The New York Times, domenica ventiquattro maggio. Il numero del novembre 2001 dell’edizione originaria (americana) di Vanity Fair ha riportato un intenso servizio fotografico: ritratti realizzati dallo svedese Jonas Karlsson a New York, nei giorni immediatamente seguenti l’attentato alle Twin Towers / World Tra-
de Center. One Week in September si è proposto e offerto come commosso omaggio a chi ha agito e/o subìto in quel tragico frangente [per quanto sia indelicato rilevarlo, messa in pagina con cimosa “fotografica” di contorno ai fotogrammi 6x7cm originari]. Il Primo novembre 2004, The New Yorker -da poco arrivato all’illustrazione fotografica, dopo decenni e decenni di sola illustrazione grafica- ha pubblicato un resoconto intensamente fotografico di Richard Avedon (postumo: il celebre fotografo è mancato il precedente Primo ottobre [FOTOgraphia, febbraio 2005]). Formalmente, può essere allineato con The Family, di Rolling Stone, del 21 ottobre 1974, del quale abbiamo già riferito: ritratti “alla Avedon”, verticali, fondo bianco neutro, inquadrature ardite, immancabile cimosa di contorno disegnata dalle guide di trattenimento della pellicola piana OttoPerDieci (pollici) nello châssis grande formato; questa volta, con alternanza tra bianconero e colore. Dal punto di vista del contenuto... anche. Democracy è una summa di personalità e personaggi che difendono la “democrazia” statunitense: soldati impegnati in missioni all’estero, l’anonima delegata alle Convention presidenziali, politici dietro le quinte [tra questi, l’ex presidente Jimmy Carter, il trentanovesimo, dal 1977 al 1981, influente in materia di tutela del Pianeta, e l’allora sconosciuto ai più Barack Obama, senatore dell’Illinois, che sarebbe poi diventato il quarantaquattresimo presidente, per due mandati, dal 2009 al 2017, primo di origini afroamericane a entrare alla Casa Bianca non per servire a tavola]. Inevitabile ripetizione (altre hanno preceduto e altra ancora ne sta per arrivare): «pur estranei a questo pensiero, qui e ora ci sta: fotografie che valgono più di mille parole... rivelando un’ideologia con la quale facciamo i nostri conti tutti i giorni». Finale esaltante: la prima pagina del quotidiano Giornale di Sicilia, del 18 novembre 2017, che interpretiamo “Sia Lode”.
Giornalismo
The New Yorker, Primo novembre 2004: Democracy, di Richard Avedon [servizio fotografico postumo] (personalità e personaggi che difendono la “democrazia” statunitense) [due pagine dall’intero servizio].
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Giornale di Sicilia, 18 novembre 2017: Pace all’anima loro (in occasione della morte di Totò Riina, considerato a capo della Mafia, sono ricordate, in celebrazione, alcune delle sue vittime).
Salpiamo dal nostro territorio fotografico, per quanto lo intendiamo s-punto privilegiato di partenza (per l’osservazione della Vita, magari anche solo nel proprio svolgersi). A volte, il titolo originario del saggio di James Agee, accompagnato da un sostanziale apparato fotografico di Walker Evans, Let Us Now Praise Famous Men, è stato mal tradotto verso una ipotesi di “Uomini Famosi”. No, non ci siamo proprio, e non si risponde all’etica e morale originarie: Sia lode ora a uomini di fama è la dizione più corretta e legittima. Sulla stessa lunghezza d’onda, osservando la Vita nel proprio svolgersi, magari a partire da nostre maturazioni in Fotografia e con la Fotografia, rileviamo come, sabato 18 novembre 2017, il quotidiano Giornale di Sicilia ha dato notizia della morte di Salvatore (Totò) Riina, considerato a capo della Mafia, in carcere con una condanna a ventinove ergastoli (!). Per quanto, all’interno, siano ricordate le sue famigerate gesta, la prima pagina ha celebrato, ricordandole, alcune delle sue vittime: Pace all’anima loro. Merito e onore da riconoscere e sottolineare. Nel farlo, a differenza di tanto/troppo giornalismo spettacolare, ormai endemico nel nostro paese, il Giornale di Sicilia non si è limitato agli uomini “famosi”, ma si è ricordato di tutti gli uomini “di fama” caduti nel compimento del proprio dovere: agenti di scorta, cittadini comuni, danni collaterali. Al pari di quella dalla quale siamo partiti, del New York Times, dello scorso ventiquattro maggio, questa emozionante prima pagina del Giornale di Sicilia è luminoso e coinvolgente esempio di utilizzo giornalistico del ritratto più comune, quasi della fototessera: a differenza di altri abusi che il fotogiornalismo sta facendo del ritratto... quando non sa raccontare altrimenti. Ultima volta, almeno per oggi. Pur estranei a questo pensiero, qui e ora ci sta: fotografie / ritratti che valgono più di mille parole. Punto. ❖
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In complemento di Angelo Galantini
Sul marciapiedi, il cadavere di Earl “Hymie” Weiss, ucciso in State street, l’11 ottobre 1926.
Settembre 1937: locale in West Madison street, distrutto con una bomba dalla gang di Al Capone.
Historic Photos of Chicago Crime. The Capone Era, a cura di John Russick: Turner Pub Co, 2007; 206 pagine 26x26cm (in copertina: gangster italo-americani allineati nella prigione di Chicago; da sinistra, Mike Bizzarro, Joe Aiello, Joe Bubinello, Mick Manzello e Joe Russio). Remembering Chicago: Crime in the Capone Era, a cura di John Russick; Turner Pub Co, 2010; 134 pagine 27,5x21cm (in copertina: febbraio 1929, rievocazione della polizia della Strage di san Valentino, del quattordici).
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Su questo stesso numero di rivista, da pagina 18, presentiamo e commentiamo un affascinante fascicolo fotografico statunitense, del 1932, intitolato Chicago Beautiful. A parte e oltre la sua personalità esplicita e annunciata, prendiamo spunto da quelle fotografie e da quella messa in pagina per andare al di là della sola superficie a tutti apparente: di fatto, ci esprimiamo in termini di conoscenza, con responsabilità collegate, che dovrebbe appartenere al gesto fotografico contemporaneo, sia in esecuzione di immagini, sia in loro considerazione teorica e analisi. Insomma, quel fascicolo del passato (remoto) è pretesto per occuparci del Presente in proiezione Futuribile, almeno per quanto riguarda qualsivoglia impegno fotografico dei nostri giorni. E questo è quanto. Ora, in complemento dovuto, qui ci avviciniamo a un’altra monografia illustrata, per certi versi complementare a quella, che riguarda la stessa città statunitense, Chicago, e i medesimi anni Venti-Trenta del Novecento. Là in nota a margine, qui in soggetto esplicito, Chicago Beautiful è la Chicago di Al Capone, del sindaco corrotto William Big Bill Thompson e della malavita organizzata che diventa gangsterismo. Da cui, la convincente Historic Photos of Chicago Crime. The Capone Era, a cura e con testi di John Russick (autore anche di un analogo Remembering Chicago: Crime in the Capone Era, del 2010, con apparato fotografico più modesto). Il volume mantiene ampiamente una promessa del titolo, Historic Photo (dall’archivio del Chicago History Museum) ma -siamo sinceri- il suo valore dipende dai testi, e su questi stessi si basa. Le tante e tante fotografie di accompagnamento valgono l’impegno del titolo, ma sono complementari, e non avrebbero alcun senso, né significato, se e quando separate dalle parole. Se, però, persistiamo e insistiamo nel nostro punto di vista viziato, che antepone la Fotografia a molto, queste immagini riacquistano proprio valore senza alcuna altra dipendenza, che non quella della didascalia esplicativa.
CHICAGO HISTORY MUSEUM (4)
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L’ALTRA CHICAGO
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CHICAGO HISTORY MUSEUM (4)
In complemento
La definita Strage di san Valentino, del 14 febbraio 1929, è stata il massacro della banda di gangster di George “Bugs” Moran compiuto da sicari di Al Capone, che sancì il sopravvento della mafia italo-americana a Chicago, dando avvio alla Capone Era. È conteggiata come uno dei più cruenti regolamenti di conti nella storia della malavita americana: furono assassinate sette persone [in alto]. Per prendere di sorpresa gli avversari, i membri della banda di Al Capone si travestirono da poliziotti e fecero incursione in un garage al 2122 North Clark street, nell’area della comunità Lake View di Chicago [al centro, ricostruzione della polizia per i giornalisti]. A margine, ricordiamo che, in chiave di brillante commedia cinematografica, questa strage è evocata nel film A qualcuno piace caldo ( Some Like It Hot ), di Billy Wilder, del 1959: è il nocciolo della vicenda, che costringe i due musicisti Joe e Jerry, involontari testimoni, a fuggire travestiti da donna (Josephine e Daphne, nelle interpretazioni di Tony Curtis e Jack Lemmon).
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Al Capone, all’uscita del tribunale, dopo una sessione giudiziaria. Verrà rinchiuso nel carcere di Alcatraz, a San Francisco, nel 1939. (in alto, in senso orario) Automobile e armi della banda di Charles Birger, che agì nel sud dell’Illinois. Ufficiale di polizia di Chicago esamina fori da proiettile sulla vetrina di un locale pubblico. Il capitano della polizia di Chicago John Stege mostra un mitragliatore nascosto / occultato in una custodia di violino.
Ciò rilevato, le fotografie qui impaginate sono effettivamente consistenti, almeno in dipendenza dell’interesse che si dovrebbe riservare alla Fotografia tutta, se e quando e per quanto se ne vanta un interesse specifico. Il percorso è ben scandito, dalle visioni della città al costume sociale dell’epoca, prima di approdare allo specifico del Chicago Crime / Crimine di Chicago e alla particolare visione della Capone Era / Epoca di Al Capone. È qui, è in quel tempo, a partire dai primi anni Venti del Novecento, che la malavita organizzata pianifica la propria “industrializzazione”, dando vita a quei gangster che la Storia del nostro mondo ha reso famosi, spesso mitizzandone le gesta. Tra ritratti posati e istantanee quotidiane, si compone un percorso visivo che racconta un’epoca e un luogo di grande personalità. Una storia da scrivere, forse, ma non è detto, alla quale la Fotografia offre a piene mani i termini visivi della propria capacità di sintesi e narrazione. Nessuna di queste fotografie è
stata realizzata con e per questo scopo, ma la loro combinazione razionale e mirata finisce per definire proprio questo: la proprietà della Fotografia di fissare per sempre istanti che avrebbero dovuto rimanere effimeri. Questa proprietà di fondo della Fotografia, che induce anche responsabilità nei fotografi (questo va rivelato), è uno dei fondamenti sui quali si basa quella convinzione che ci fa spesso rilevare il suo essere l’autentico linguaggio visivo dal Novecento. Certamente, l’argomento esplicito, riferito al crimine a Chicago negli anni Venti e Trenta del Novecento, può anche non interessare, oppure essere di interesse specifico e mirato, ma noi, dalla nostra disposizione verso tutto quanto fa Fotografia, non ci fermiamo al soggetto. Al contrario, e come sempre, da questo partiamo per approdare a quegli s-punti di riflessione privilegiati ai quali ci riferiamo spesso, e che altrettanto frequentemente richiamiamo. Ognuno per se stesso. ❖
Cinema (con fumetto) di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
SOLENNITÀ FOTOGRAFICHE
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Commedia di Dino Risi, del 1955, Il segno di Venere è ancora oggi (soprattutto oggi, sessantacinque anni dopo) un film estremamente piacevole e divertente. Non ci sono cadute di stile, e tutto il paradosso delle situazioni è adattato in punta di penna: soggetto di Edoardo Anton, Luigi Comencini e Franca Valeri; sceneggiatura di Edoardo Anton, Franca Valeri, Ennio Flaiano e Dino Risi (con la collaborazione di Cesare Zavattini). Insomma, tutte personalità di garanzia assoluta e raffinato umorismo (non da barzelletta triviale, che sarebbe arrivato dopo, nei decenni a seguire). Il tutto si combina, quindi, con un cast di alto valore; solo attori di spicco entrati nelle rispettive parti con magistrale capacità interpretativa: tra gli altri, Sophia Loren, Franca Valeri, Vittorio De Sica, Ralf Vallone, Tina Pica, Maurizio Arena, Leopoldo Trieste, Peppino De Filippo e Alberto Sordi. Nessuno di loro va sopra le righe, nessuno esce dal seminato e tutti sono beneficiati da dialoghi di sostanza, ribadiamo ben caratterizzati e interpretati. Sopra tutti, si eleva una Franca Valeri da primato. La vicenda è semplice, ma non banalizzata. Due cugine di diversa provenienza geografica -la meridionale Agnese Tirabassi (Sophia Loren) e la milanese Cesira (Franca Valeri)-, vivono insieme a Roma, con il padre della prima e la zia nubile napoletana Tina (Tina Pica). La trentacinquenne Cesira è alla ricerca (disperata?) di marito, e non capisce come mai ogni uomo che avvicina sia più interessato alla cugina Agnese: una ventunenne Sophia Loren! [il prossimo trentuno luglio, Franca Valeri compie cento anni]. I siparietti scenografici sono tanti e incrociati tra loro, così come i personaggi che ruotano attorno il tema principale. Per quanto ci riguarda direttamente, dal punto di vista protocollare della presenza della Fotografia al Cinema, non c’è molto. Anzi, c’è proprio poco: il personaggio fotografo Mario (Peppino De Filippo), che opera all’albergo diurno La casa del passeggero, di fronte alla Stazione ferroviaria, dove Cesira lavora come dattilografa.
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In Il segno di Venere, film di Dino Risi, del 1955, Peppino De Filippo interpreta il fotografo Mario. Dal dialogo con Romolo (Alberto Sordi): «I fotografi, caro mio, sono degli artisti. Io scruto, io osservo, io guardo, io penetro lo sguardo, io sono l’obiettivo vivente».
Cinema (con fumetto)
Da Fotografa di successo offresi (in Il monello, Primo febbraio 1977): con una Polaroid. E: «Una piccola camera oscura in cui “creare”».
Da Onirico infrarosso (in Il monello, 4 agosto 1978), una gustosa scena (o scema) d’amore: «È una cosa eccitante essere amata da un famoso reporter di guerra!».
Da Mary Perkins Flash Story, di Leonard Starr: «Ho dedicato tutta la vita a scattare foto[grafie] che io solo potevo fare... Ho i riflessi rapidi e la mia macchina è pronta sempre un secondo prima che qualcosa accada... Sono io stesso come una macchina...». E: «... Ho fotografato guerre, terremoti e inondazioni e non-so-cos’altro per anni, che sarà una vacanza dover puntare l’obiettivo su una ragazza graziosa!».
Nel film non si vede mai Mario al lavoro, ma lo si incontra nella sua sala di posa per ritratto, attrezzata con una mastodontica macchina fotografica da terrazza, grande formato in legno. Da cui, segnaliamo solo un dialogo con Romolo Proietti (Alberto Sordi), personaggio truffaldino che cerca insistentemente di vendergli un’automobile equivoca (senza documenti di circolazione; ovviamente, rubata). Romolo entra in sala di posa mentre Mario sta parlando con Agnese, che subito esce per lasciarli soli. A domanda specifica, Mario risponde: «Quella è cugina a una mia collega... e abbiamo combinato questa sera, è vero, di uscire un po’... di divertirci. Facciamo una cosa... Tu sei libero? E vieni anche tu». «Dove?», chiede Romolo. «Uhm... In casa di certi pittori, miei amici»; «E hanno invitato a te?», si stupisce Romolo. Eccoci qui, con un Mario ispirato e compreso in se stesso: «Si capisce. Perché sono fotografo? E che vuol dire. I fotografi, caro mio, sono degli artisti. Io scruto, io osservo, io guardo, io penetro lo sguardo, io sono l’obiettivo vivente». Ovviamente, qui siamo in ironia pura, in sarcasmo. A differenza, certe volte, la presenza della Fotografia nei Fumetti, alla quale ci allacciamo prontamente, fa recitare ai propri protagonisti dichiarazioni analoghe, nella convinzione di interpretare pensieri effettivi a proposito della Fotografia. Da Mary Perkins - Flash Story, di Leonard Starr (Usa, 1957; in Italia, 1971), una significativa dichiarazione di princìpio del fotoreporter Peter Fletcher, personaggio chiave della storia: «Ho dedicato tutta la vita a scattare foto[grafie] che io solo potevo fare... Ho i riflessi rapidi e la mia macchina è pronta sempre un secondo prima che qualcosa accada... Sono io stesso come una macchina...». Da Onirico infrarosso (in Il monello, del 4 agosto 1978), una gustosa scena (o scema) d’amore: «È una cosa eccitante essere amata da un famoso reporter di guerra!». Infine, da Fotografa di successo offresi (in Il monello, del Primo febbraio 1977): «Nei “posti caldi” l’obiettivo fotografico è di pragmatica»... con una Polaroid. E, poi, «Una piccola camera oscura in cui “creare”». Non serve altro. ❖
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di Angelo Galantini
Michigan Avenue, da nord, dall’Art Institute.
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Guardando a sud, sopra il ponte di collegamento del Michigan Boulevard. Ingresso settentrionale del grande quartiere commerciale della città.
ncora e sempre, come sempre, una lezione fotografica che arriva dal passato remoto (anticipiamolo subito, dagli Stati Uniti del 1932), che si offre e propone come esempio di cadenza narrativa di passo composto, di calma e disinvoltura assolute. Abbiamo già osservato a questo proposito, e qui la ripetizione si impone, per ribadire come e quanto l’esercizio individuale della Fotografia non possa prescindere dalla conoscenza del suo linguaggio espresso in rigorosa forma professionale di raccolta dati e comunicazione coerente degli stessi elementi visivi. Ogni volta che incontriamo progetti fotografici, d’autore come anche informalmente anonimi, nel loro avvicinamento e nella loro frequentazione, abbiamo il dovere di agire in doppia direzione: verso l’appagamento privato, magari fine a se stesso (come la lettura di un buon libro, di buone Parole), e verso l’apprendimento individuale, certamente non fine a se stesso (come la lettura di un buon libro, di buone Parole). Quegli attimi di affermazione, al cospetto del lavoro fotografico altrui, sono sempre un appagamento e una promessa, al tempo stesso: non la conclusione di un percorso proprio, ma l’inizio di una scoperta. Che la Fotografia non sia mai arido punto di arrivo (sia quella realizzata, sia quella assorbita), ma sempre e comunque un fantastico e privilegiato s-punto di partenza. La conoscenza comporta sempre responsabilità. E altrettanto vale per la coscienza, che -in metaforaequipariamo a uno strumento musicale, magari uno strumento a corde. Il messaggio sta nella musica; ma se non teniamo in ordine lo strumento (la conoscenza e la coscienza) e non lo usiamo esercitandoci regolarmente, otterremo soltanto risposte imperfette: che, al giorno d’oggi, in epoca di tanta/troppa fotografia misera, si manifesta come analfabeta, e poi
Al pari di ogni buona compagnia, che arriva soprattutto dai libri e dalla loro frequentazione, l’agile monografia, in forma di fascicolo illustrato, Chicago Beautiful, del 1932, offre e propone lezioni fotografiche delle quali fare prezioso tesoro. Educa e istruisce sul più corretto e augurabile stile compositivo e di inquadratura della fotografia di architettura; insegna il ritmo e passo del racconto per immagini; certifica un valore encomiabile della Fotografia, che arresta misteriosamente il Tempo, fondendo in un unico momento il Passato, il Presente e il Futuro
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CIÒ CHE DICE LA FOTOGRAFIA
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Pubblicato da Conine and Millner, Chicago Beautiful si offre e propone come «Una foto-storia della New Chicago, la più grande città dell’entroterra del mondo (A Picture story of the New Chicago, the Greatest Inland City in the World). Affascinante pubblicazione fotografica del 1932: monografia, nella propria sostanza; fascicolo, nella propria forma editoriale. Quarantotto pagine, in stampa Phototone su carta opaca, che equivale a una intonazione seppia. Oltre il soggetto esplicito, oggi e qui, il ritrovamento di questa raccolta è spunto per riflessioni su individuati valori della Fotografia: che fonde il Passato con il Presente e Futuro.
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arrogante e villana. Certo, al pari della Scienza, anche la Fotografia valida è sempre creativa, qualunque cosa ne dicano i seguaci delle discipline umanistiche; ma ci sono scienziati e fotografi che hanno una visione particolare, che possiedono un intuito geniale anziché un semplice talento, l’ispirazione unita alla necessaria scrupolosità: in proiezione verso un rispetto solenne di se stessi, dei soggetti e di coloro ai quali si rivolgono (osservatori delle loro Fotografie).
QUESTA LEZIONE
Visione notturna del Palmolive Building e del faro Lindbergh, la cui luce è una delle più potenti al mondo.
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L’essenza di queste riflessioni oggi introduttive è stata sollecitata, come soltanto accennato in incipit, dal ritrovamento (casuale?, ma il Caso...) di un affascinante fascicolo fotografico pubblicato negli Stati Uniti, nel 1932. È monografia, nella propria sostanza; è fascicolo, nella propria forma editoriale: quarantotto pagine 23,5x30,5cm, in stampa tipografica Phototone su carta opaca, che equivale a una delicata intonazione seppia (che viene inevitabilmente umiliata nella nostra attuale riproposizione/riproduzione in offset, su carta lucida).
In frontespizio, oltre la seducente copertina a colori, con messa in pagina Art déco (considerati i tempi di produzione), è subito specificato che questa Chicago Beautiful, edita da Conine and Millner (221 N. La Salle street, Chicago), è «Una foto-storia della New Chicago, la più grande città dell’entroterra del mondo» (A Picture story of the New Chicago, the Greatest Inland City in the World). Le fotografie pubblicate sono attribuite/creditate alla Chicago Architectural Photographing Co, che equivale a certificare un’agenzia fotografica con più operatori, ma -badate bene- lo stile espressivo (creativo?) è costante su tutte le pagine, a certificazione di un protocollo comune a tutti gli operatori fotografi coinvolti [e lo stesso vale, in Italia verso il Mondo, per il riconoscimento “Fratelli Alinari”, il cui tratto fotografico distintivo, tra fine Ottocento e inizio Novecento, era coerente a tutti i circa cento operatori fotografi inviati a documentare l’architettura, l’arte e il paesaggio del nostro paese]. Comunque, nota a margine: questa Chicago Beautiful è la Chicago di Al Capone, del sindaco corrotto
Insolita raffigurazione della Tribune Tower ripresa da un punto di vista lungo il fiume, guardando verso nord-est.
Twenty North Wacker Drive Building, alto quarantacinque piani, meglio conosciuto come Chicago’s New Civic Opera Building.
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Travel & Transport Building, l’unico edificio a cupola in sospensione al mondo.
William Big Bill Thompson e della trasformazione della malavita organizzata che diventa gangsterismo [su questo numero, da pagina 13].
ORIZZONTI ALLARGATI Da un punto di vista individuale e utilitaristico, pagina dopo pagina, Chicago Beautiful educa e istruisce sul più corretto e augurabile stile compositivo e di inquadratura della fotografia di architettura: quantomeno, rimanda a lezioni sull’adeguato punto di ripresa e sulla più confortevole restituzione prospettica (ovviamente, linee verticali che rimangono tali e non convergono verso l’alto: ci mancherebbe altro!). Ancora, la sequenza in impaginazione insegna il ritmo e passo del racconto per immagini, stabilito da un lessico inviolabile che prende per mano l’osservatore, accompagnandolo nel cammino: nessuna sbavatura, ma una sana grammatica che mette in riga e sequenza il soggetto con il verbo e il complemento oggetto. Niente di diverso. Quindi, in simultanea, piuttosto che in tempi e modi separati, da un altro punto di vista, meno grezzo, la le-
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zione è più intima, meno di superficie. Riguarda il Tempo che si arresta misteriosamente, fondendo in un unico momento il Passato, il Presente e il Futuro. Avvicinarsi alla Fotografia altrui per rafforzare la propria, sia in senso di realizzazione, sia per sua competenza, è esercizio fondamentale. Prosaicamente, si devono rispettare i propri strumenti (siano tecnici, siano culturali), al fine di non ottenerne soltanto risposte imperfette: soprattutto in chiave di visione orizzontale nei confronti delle proprie sole poche conoscenze... troppo presi da se stessi. Ribadiamo, la conoscenza comporta sempre responsabilità. Il che significa fare spesso un passo a lato (come sottolinea anche l’insieme delle fotografie di Chicago Beautiful, oggi pretesto e giustificazione), nel rispetto del soggetto e di tutto l’iter di visualizzazione e presentazione della Fotografia. Anteporsi, prevaricare sia il soggetto sia i fruitori, serve a nulla: mortifica il Presente in se stesso, non consentendogli di diventare Futuro alimentato dal Passato. Forse. Certamente. ❖
RITORNO
SINAR NORMA 4X5
POLLICI
(FOTOGRAPHIA DI ANTONIO BORDONI)
AL GRANDE FORMATO
Una Ipotesi Un Sogno Un Invito Una Proposta (graphia@tin.it)
In ricordo di Astrid Kirchherr, fotografa tedesca che ha realizzato i primi ritratti -autenticamente tali- dei Beatles/pre-Beatles, ad Amburgo, nel Millenovecentosessanta, e a questa frequentazione è rimasta legata per tutta la vita. Ancora, e in aggiunta, la sua personalità è stata influente sulla parabola dei Fab Four, la cui musica ha fornito colonna sonora di un decennio e ha inciso sulla socialità a seguire. Astrid Kirchherr è mancata a metà maggio, a ottantadue anni
BABY’S IN BLACK di Maurizio Rebuzzini
KLAUS VOORMANN
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ll’indomani della sua scomparsa, lo scorso tredici maggio, a quasi ottantadue anni, tutto il Web l’ha ricordata e celebrata per il suo rapporto privilegiato con i Beatles, in proprio inizio di carriera, nella Amburgo del Millenovecentosessanta. In effetti, la vita di Astrid Kirchherr (20 maggio 1938 - 13 maggio 2020) è stata indelebilmente segnata da questa sua frequentazione, avviata in quell’autunno. Tanto che, lo ricordiamo anche qui, la sua più significativa mostra fotografica si è intitolata Astrid Kirchherr with the Beatles, con passaggio italiano al bolognese Palazzo Fava, nel 2017. Ne abbiamo riferito in cronaca, in due occasioni: a luglio, in presentazione e commento; a ottobre, in riflessione e approfondimento scenico (con attenta e commossa documentazione di Alcide Boaretto). Oltre questi due interventi redazionali dovuti/voluti, ci siamo occupati della personalità di Astrid Kirchherr in altre due occasioni... e mezzo precedenti. Da ognuna delle quali riprendiamo per questa occasione. Nel dicembre Duemilaotto, abbiamo approfondito la sceneggiatura del film Backbeat, di Iain Softley, del 1994 (in Italia, con orrenda postilla: Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore). La sceneggiatura racconta dell’avventura dei Beatles, ingaggiati da un locale di Amburgo, nell’estate 1960, attardandosi sull’amore sbocciato tra la stessa Astrid Kirchherr e il quinto Beatle, lo scozzese Stu Sutcliffe, che sarebbe rimasto in Germania per lei, mancando poi prematuramente, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni. A seguire, nel giugno Duemilaquattordici, è stata la volta della presentazione commentata della graphic novel Baby’s in Black, sottotitolata La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe, di Arne Bellstorf, in edizione italiana Black Velvet, del 2011.
(pagine precedenti, a sinistra) 1960: la ventiduenne Astrid Kirchherr con il magistrale fotografo Reinhart Wolf (1930-1988), del quale era allieva e assistente. Per quanto irriverente, una nostra osservazione è obbligatoria: Linhof 4x5 pollici folding su treppiedi e testa Gitzo. (pagine precedenti, a destra) Autoritratto allo specchio di Astrid Kirchherr (1960).
Astrid Kirchherr: The Beatles al luna-park; Amburgo, novembre 1960.
(pagina accanto, in alto) Astrid Kirchherr: John Lennon e Stu Sutcliffe al luna-park; Amburgo, novembre1960.
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Quindi, si arriva a due e mezzo se e quando ci si allunga anche e ancora sulla combinazione tra il celebre e celebrato fotografo tedesco Reinhart Wolf e la stessa Astrid Kirchherr, sua allieva e assistente, che abbiamo pubblicato nel luglio 2017 a complemento e integrazione della presentazione del passaggio italiano della mostra Astrid Kirchherr with the Beatles, in cartellone a Bologna, quella stessa estate.
BABY’S IN BLACK Baby’s in Black è una canzone dei Beatles, firmata da John Lennon e Paul McCartney, la terza dell’album Beatles for Sale, il quarto pubblicato dai Fab Four, il 4 dicembre 1964. Il testo non è particolarmente elaborato, né può vantare alcuna pretesa letteraria. In quegli anni, altri furono gli autori-musicisti degni di nota per le loro parole -a partire, magari, da Bob Dylan-, e anche nella discografia dei Beatles bisognò aspettare ancora qualche anno per incontrare qualcosa di degno... musica a parte, socialità a parte. Il refrain è ripetitivo: «Oh dear, what can I do / Baby’s in black and I’m feeling blue / Tell me, oh, what can I do / She thinks of him / And so she dressed in black / And though he’ll never come back / She’s dressed in black» (Accidenti, cosa posso fare? / La pupa è in nero, e io mi sento triste / Dimmi, cosa posso fare? / Lei pensa a lui / E così si veste di nero / E anche se lui non tornerà mai / Lei è vestita di nero). Il richiamo a Stu Sutcliffe è esplicito. Chi conosce la storia dei Beatles, immagina il soggetto della canzone: per l’appunto, Astrid Kirchherr, la giovane tedesca, che conobbe i Beatles all’inizio della loro parabola musicale, in occasione di un ingaggio in uno dei locali sulla famigerata Peeperbah, di Amburgo, nel quartiere di St. Pauli, centro della vita notturna e della prostituzione legalizzata, nell’agosto 1960. Non ancora Beatles, il gruppo era allora composto da cinque elementi che si presentavano come The Quarry Men: John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Stu Sutcliffe (Stuart Fergusson Victor Sutcliffe) e Pete Best, che successivamente sarebbe stato sostituito alla batteria da Ringo Starr. Da cinque che erano, diventarono quattro al loro ritorno in Inghilterra, senza Stu Sutcliffe, modesto chitarrista basso (per sua stessa ammissione), che -come già anticipato- rimase ad Amburgo per e con Astrid Kirchherr. Stu Sutcliffe è mancato ad Amburgo, il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni; era nato il 23 giugno 1940. Dalla cronaca alla storia, oggi è ricordato come promettente pittore, e le opere che ha lasciato sono apprezzate, ammirate e, per quanto valga rilevarlo, quotate (www.stuartsut cliffeart.com). Come anticipato, questa breve parabola esistenziale è stata sceneggiata da Michael Thomas e Iain Softley, anche regista, per il film Backbeat, che in Italia si è accompagnato con un sottotitolo banalizzato: Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore [FOTOgraphia, dicembre 2008]. Analogamente, la stessa vicenda, con maggiore concentrazione proprio sul rapporto tra Astrid Kirchherr e Stu Sutcliffe, è raccontata in una avvincente graphic novel, che prende il titolo dalla canzone dei Beatles, che
in un certo modo richiama questo loro amore: Baby’s in Black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe, di Arne Bellstorf, pubblicata in Italia da Black Velvet Editrice, nel 2011 [FOTOgraphia, giugno 2014]. Tra tanto altro a suo merito, va annotato che l’esistenzialista Astrid Kirchherr, così compresa nella cultura tedesca, che all’esordio dei Sessanta si risollevava dalla devastazione della Seconda guerra mondiale e del nazismo, inventò il look che rese famosi i Beatles: taglio di capelli (ai tempi, considerati lunghi!), abbigliamento (con giacca priva di colletto) e postura in scena. Ma non è questo che interessa, non è solo questo che interessa, quantomeno a noi, quantomeno qui. Invece, siamo incuriositi e attratti dalla personalità fotografica di Astrid Kirchherr, ai tempi allieva e assistente di uno dei grandi fotografi tedeschi del secondo Novecento, Reinhart Wolf, che ha segnato indelebilmente tempi e modi del suo avvicinamento ai Beatles,
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ben visualizzati da questo affascinante racconto a fumetti, che scorre parallelamente a tanta altra socialità, magari proprio a partire dalle lacerazioni lasciate in Germania dagli anni dell’ideologia nazista. La graphic novel Baby’s in Black e il film Backbeat non vanno oltre i primi anni Sessanta, di Amburgo; ovvero, non si approda alla beatlemania, che sarebbe esplosa di lì a qualche tempo. Le luci della ribalta sono puntate soltanto sulla storia di Astrid Kirchherr e Stu Sutcliffe.
CON I BEATLES A questo punto, va precisato che, dopo decenni di esilio volontario, Astrid Kirchherr ha spolverato le sue fotografie di allora soltanto a fine degli anni Novanta del Novecento, dando avvio a mostre e monografie. Della sua fotografia dei Beatles, si è soliti considerare originaria una sessione di posa in un parcheggio di carrozzoni da luna-park, al Der Dom di Amburgo,
CINEMA E GRAPHIC NOVEL
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Come ampiamente annotato nel corpo centrale di questo odierno intervento redazionale, l’incontro di Astrid Kirchherr con i Beatles è stato sceneggiato nel film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley, del 1994, e raccontato nella graphic novel Baby’s in Black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe, di Arne Bellstorf, del 2010 (in Italia, 2011; traduzione di Anna Zuliani). Abbiamo approfondito le due trasposizioni, nel dicembre 2008 e giugno 2014. Da cui, comunque, una doverosa sintesi, a margine e complemento dell’attuale ricordo della fotografa tedesca. Backbeat, in Italia Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore (orrendo!), è il film di Iain Softley (Inghilterra e Germania, 1994) che racconta la storia d’amore tra la fotografa tedesca Astrid Kirchherr e Stu Sutcliffe, che lasciò i Beatles per rimanere
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del novembre 1960, che, peraltro, rivive anche nella rievocazione graphic novel e nella ricostruzione cinematografica di Backbeat, nella cui scenografia, l’affascinante sequenza passa dai volti dei Beatles alla loro proiezione sul vetro smerigliato 6x6cm della Rolleicord, alle fasi di sviluppo della copia bianconero, alle stampe tra le mani dei musicisti inglesi. Leggiamo da Shout!, di Philip Norman, sottotitolato La vera storia dei Beatles (dalla prima edizione negli Oscar Mondadori, del novembre 1981). Quando alla fine Astrid acconsentì ad andare al Kaiserkeller, Stu e Klaus Voormann [intimo di Astrid Kirchherr, a propria volta musicista: dal 1966 al 1969, con i Manfred Mann; quindi, con la Plastic Ono Band] erano diventati buoni amici. Klaus la portò lì una sera, vestita con la sua giacca nera di pelle da exi [esistenzialista], il viso pallido, i capelli cortissimi e spettralmente fredda. Quando i Beatles cominciarono a
ad Amburgo con lei. Gli attori Sheryl Lee e Stephen Dorff sono adeguatamente allineati alle personalità che interpretano, a margine dei primi passi dei Fab Four, in anticipo temporale sulla loro autentica esplosione planetaria. Stu Sutcliffe è prematuramente mancato il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni. Baby’s in Black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe è una graphic novel di Arne Bellstorf (Black Velvet Editrice, 2011; traduzione di Anna Zuliani; 216 pagine 16,5x24cm). In particolare, questa sceneggiatura ben cadenzata sottolinea l’esistenzialismo di Astrid Kirchherr, così compresa nella cultura tedesca che, all’esordio dei Sessanta, si risollevava dalla devastazione della Seconda guerra mondiale e del nazismo.
Rievocazioni sceniche della prima sessione fotografica di Astrid Kirchherr con i Beatles, al Der Dom di Amburgo, nel novembre 1960, alla quale ci riferiamo nel testo, anche con testimonianza dalla biografia Shout!, di Philip Norman, rispettivamente, nel film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore (a sinistra) e nella graphic novel Baby’s in Black. La storia di Astrid Kirchherr & Stuart Sutcliffe (qui sopra).
suonare, anche lei ne fu conquistata, istantaneamente. «Mi innamorai di Stuart quella stessa notte. Era molto piccolo, ma perfetto in ogni suo lineamento. Molto pallido, ma tanto, tanto bello. Era come un personaggio di un racconto di Edgar Allan Poe». A propria volta, i Beatles erano lusingati dall’interesse di questa ragazza delicata, bellissima, dagli occhi spettrali, così diversa dalle solite frequentatrici della Freiheit. E furono ancora più lusingati quando, con le sue poche parole di inglese, Astrid chiese se poteva fotografarli. Si incontrò, il giorno dopo, con tutti e cinque, al Reeperbahn e li portò a Der Dom, il parco cittadino, dove c’era un luna-park che veniva ad Amburgo due volte l’anno. Astrid li mise in posa, con le loro chitarre e col tamburo militare di Pete Best, vicino a uno dei carrozzoni del luna-park, poi sull’ampio cofano di un trattore. Poiché John aveva ormai la sua nuova chitarra Rickenbacker, Paul si era
fatto prestare il vecchio modello Club 40, reggendolo, ancora una volta, con il battipenna capovolto. Oltre alle costose macchine fotografiche e alla giacca di pelle, Astrid aveva una piccola automobile personale. Finito di scattare le fotografie, la ragazza invitò i cinque Beatles a prendere il tè a casa sua, ad Altona. Pete Best rifiutò, dicendo di dover andare a comprare delle pelli nuove per i tamburi della sua batteria. Gli altri quattro si stiparono in men che non si dica intorno alla ragazza. «Conobbero mia madre, che ne rimase profondamente impressionata, così come lo ero stata io. Appena li vide, volle dare loro da mangiare». Astrid li portò di sopra, nello studio bianco e nero che aveva progettato personalmente. Loro rimasero a bocca aperta, vedendo il tavolo col piano di vetro e le lenzuola di raso nero del letto. Rimasero lì seduti, al lume di candela, bevendo tè e mangiando panini al prosciutto. «Avrei voluto parlare con loro, ma a quel
Astrid Kirchherr: John Lennon, Stu Sutcliffe e George Harrison su un furgone al luna-park; Amburgo, novembre 1960.
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ULRICH PERREY /
DPA
/ AFP
MAX SCHELER
Nata ad Amburgo, il 20 maggio 1938, e mancata lo scorso tredici maggio, Astrid Kirchherr ha conosciuto quelli che sarebbero diventati i Beatles nella seconda metà del 1960, ai tempi del loro primo ingaggio in città. Qui sotto è all’esterno del The Cavern Club, di Liverpool, storico locale delle prime esibizioni dei Beatles, nel 1964 [anno di Baby’s in Black ], e a Itzehoe, in Germania, capoluogo del circondario di Steinburg, nella regione dello SchleswigHolstein, il 6 ottobre 2000, a una sua mostra sui Beatles, davanti a un ritratto di John Lennon. Si considerava esistenzialista. A questo proposito, in una intervista rilasciata alla stazione radio della Bbc, sabato 26 agosto 1995, affermò che «Eravamo solo degli adolescenti; la nostra filosofia era di vestirci di nero e incamminarci osservando con malinconia il mondo attorno. Naturalmente, avevamo un riferimento in Jean-Paul Sartre. Ci ispirammo agli artisti e scrittori francesi, perché erano vicini a noi, mentre l’Inghilterra era talmente lontana e gli Stati Uniti erano fuori questione. Così, provammo a vivere come gli esistenzialisti francesi. Perseguivamo la libertà, volevamo essere distaccati, scettici». La sua Fotografia è pervasa da questa filosofia.
(centro pagina) Astrid Kirchherr: Paul McCartney (con biottica Rolleiflex) e George Harrison; 1963.
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tempo conoscevo solo qualche parola d’inglese. John sembrava duro, cinico, sarcastico, ma anche qualcosa di più. Paul sorrideva... sorrideva sempre ed era diplomatico. George non era che un ragazzino con i capelli alti e le orecchie a sventola. Disse che non sapeva che la Germania avesse panini al prosciutto. «Volevo parlare con Stuart. Cercai di chiedergli se potevo fargli il ritratto, ma lui non capiva. Sapevo che avrei dovuto per forza chiedere a Klaus di aiutarmi a parlare meglio in inglese». Il piacere di essere fotografati da una bellissima ragazza tedesca dai capelli biondi non fu nulla rispetto a quello provato alla vista delle fotografie stesse, che non erano le solite istantanee scattate dalla prima persona di passaggio, in genere nel momento meno adatto possibile. Si trattava di stampe di formato grande e a grana grossa, fatte apparire, come per incanto, dalle nicchie della stanza di raso nero, e mostravano
i Beatles così come loro non si erano mai immaginati prima. L’obiettivo di Astrid, infatti, aveva colto quell’aspetto di loro che attirava intellettuali come Klaus e lei: il paradosso di teddy boy con la faccia da bambini; di pretesa durezza e di indistinguibile candore onniprotettivo. Le massicce e pesanti macchine del luna-park, su cui sedevano, sembravano simboleggiare il loro lieve ma fiducioso posarsi sulla vita adulta. John, con il suo colletto rialzato, che stringeva con forza la sua nuova Rickenbacker; Paul, inclinato, scontento di una chitarra scartata da un altro; George, così infantile; Pete Best, così riservato, un po’ di lato: ogni immagine aveva in sé la propria vera profezia. In una fotografia, Stu Sutcliffe gira le spalle agli altri. Questa fu la prima di molte sedute fotografiche con Astrid nelle settimane che seguirono. Ogni volta lei li metteva in posa, con o senza chitarra, sullo sfondo di qualche parte dell’Amburgo industriale:
le banchine o lo scalo di smistamento delle ferrovie. Era prodiga di copie di fotografie e di inviti a pranzo a casa sua. «Preparavo loro tutte le cose inglesi di cui sentivano la mancanza: uova strapazzate e patatine fritte». Intanto, con l’aiuto di Klaus Voormann, il suo inglese continuava sempre a migliorare. Al Kaiserkeller, una parte del pubblico era ormai costituita da exi portati da Astrid e da Klaus. Diventò di moda, tra loro, vestirsi, come i rockers, di pelle e con i jeans attillati. La musica dei Beatles apparteneva alla stessa conversione intellettuale. Ben presto gli exi ebbero i loro tavoli riservati vicino al palcoscenico. E sempre tra loro sedeva, con Klaus Voormann o da sola, la ragazza che non seguiva nessuna moda se non la propria, in attesa del momento in cui, a notte inoltrata, John e Paul si facevano da parte e si faceva avanti Stu Sutcliffe, con il suo pesante basso, per cantare la ballata di Elvis Love Me Tender.
Questo e tanto altro è stato il coinvolgente allestimento scenico di Bologna, nell’estate 2017, alle cui date di esposizione sopravvive l’appagante monografia illustrata Astrid Kirchherr with the Beatles, volume-catalogo della mostra, pubblicata da Damiani Editore, confezionata nel sessantesimo anniversario dell’incontro di John Lennon e Paul McCartney, a Woolton, Liverpool, il 6 luglio 1957, la cui evoluzione avrebbe portato ai Beatles. Questo e tanto altro è uno sguardo indietro, verso il nostro Passato prossimo, così utile, se non già addirittura necessario, alla comprensione del Presente. Ne abbiamo già riflettuto: dove collocare questo volume sugli scaffali dei propri libri? Sì, potrebbe anche essere musica e spettacolo. Ma è soprattutto società e costume. Comunque... una parabola affascinante e convincente, alla quale il lessico della Fotografia di Astrid Kirchherr ha offerto eccellente immediatezza visiva. Nel suo ricordo. ❖
Astrid Kirchherr: The Beatles sul set di A Hard Day’s Night; 1964.
(in alto) Astrid Kirchherr: ragazzini fuori dal The Cavern Club, Liverpool; 1964.
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Dal 1991, i logotipi dei TIPA Awards identificano i migliori prodotti fotografici, video e imaging dell’anno in corso. Da ventinove anni, i qualificati e autorevoli TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità , prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi. In cooperazione con il Camera Journal Press Club of Japan. www.tipa.com
PROPAGANDA E SOGNO di Antonio Bordoni
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CON PRECEDENTI Nell’estate di diciassette anni fa, che in termini social equivalgono al paleolitico (inferiore, medio o superiore, fate voi), registrammo come il mensile tedesco Geo avesse infranto, abbattendolo, il muro di silenzio, pudore e ritegno che la Germania ha steso sopra le vicende della Seconda guerra mondiale: nel sessan-
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
orsi e ricorsi della cronaca, che presto diventano Storia. Il nostro osservare la Fotografia (qualsiasi cosa questa significhi per ciascuno di noi), non può esimersi da una certa Memoria: quantomeno da quella che riguarda il proprio rivolgersi (della Fotografia) al pubblico, al quale si indirizza e orienta in base e dipendenza del proprio lessico, del proprio modo di raccogliere e raccontare. In conseguenza, oppure per conseguenza, dal nostro punto di vista, la Fotografia non deve essere considerata materia/disciplina asettica e disinfettata, ma forza viva e palpitante; ribadiamolo una volta ancora: autentico linguaggio (non solo visivo) dal Novecento. Da cui, a volte, la riflessione fotografica emigra dalla propria cronaca impellente, che impone e prescrive di segnalare quanto accade in attualità. A volte, la riflessione fotografica richiede anticipazione di ragioni o sintesi di svolgimenti precedenti: sempre e comunque con quell’occhio/cuore fotografico che distingue l’apparenza a tutti evidente dai contenuti impliciti e allusivi. Eccoci qui.
Le imminenti glorificazioni dei fasti della Seconda guerra mondiale, che verranno richiamati in occasione del prossimo settantacinquesimo anniversario (1945-2020), peraltro anticipato, all’inizio dell’anno, da solenni celebrazioni della Giornata della Memoria, il ventisette gennaio [ripetute e sempre originarie le nostre precedenti rievocazioni... anche “soltanto” fotografiche], nascondono una trama inquietante. Quella della giustificazione e glorificazione storica delle azioni dei nostri giorni. Chi agisce nell’informazione, scritta e visiva, deve conservare altre indipendenze, altre autonomie d’azione. Un esempio antico di finalità “altre” della Fotografia: linguaggio visivo interpretabile e manipolabile (a piacere), come ogni altro 33
Propaganda e sogni: Mark Markov-Grinberg, Traffico e vigile sulla Vecchia Arbat ; Mosca, 1936. John Vachon, Clark Street, Chicago, Illinois; 1940. (pagina accanto, dall’alto) Propaganda e sogni: Dimitri Debabov, Costruzione di Magnitka; 1930. Jack Delano, Lavori a Fort Loudon Dam, Tennessee; 1942. Propaganda e sogni: Boris Ignatovich, Pianerottoli in un edificio disegnato da Le Corbusier, Mosca; 1933. Carl Mydans, Case a schiera, Manville, New Jersey; 1936. Propaganda e sogni: Georgy Zelma, Mosca; 1931. Arthur Siegel, Traffico a Detroit, Michigan; 1942.
(pagina precedente) Oltre l’esposizione alla Concoran Art Gallery, di Washington DC, la selezione Propaganda & Dreams (fotografia sovietica e statunitense negli anni Trenta, in comparazione) è stata raccolta in volume: a cura di Leah Bendavid-Val; Edition Stemmle, 1999; 224 pagine 25x28cm, cartonato con sovraccoperta.
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tenario dai fatti, con lancio dalla copertina, sul numero di febbraio 2003, fu pubblicato un lungo servizio sui bombardamenti alleati che dal 1943 devastarono il territorio nazionale [FOTOgraphia, luglio 2003]. In altra attualità, nell’ottobre 2004, registrammo la rievocazione giornalistica nel sessantesimo anniversario del fallito attentato a Hitler, 20 luglio 1944, affrontato con piglio dai periodici tedeschi, a partire dall’autorevole e diffuso settimanale Stern, arrivato in edicola a fine giugno con una lunga e dettagliata ricostruzione dei fatti, richiamati da una copertina appositamente allestita: in combinazione, ritratto del Führer e del barone colonnello Claus Schenk von Stauffenberg [interpretato da Tom Cruise, nella sceneggiatura del film Operazione Valchiria (Valkyrie), del 2008, di Bryan Singer], che collocò la bomba nella sala delle conferenze della “tana del lupo”, il rifugio di Hitler nella Prussia orientale. Quindi, gli effetti dell’esplosione, che procurarono al dittatore nazista soltanto qualche graffio, e il sopralluogo di Benito Mussolini, che era in visita proprio quello stesso giorno. La storia racconta che -all’indomani del fallito attentato- venne scatenata una caccia alle streghe, che colpì gli alti gradi dell’esercito tedesco. Il colonnello Claus Schenk von Stauffenberg venne fucilato a Berlino, poche ore dopo il suo gesto; nei mesi seguenti, vi furono migliaia di arresti e centinaia di esecuzioni, che non risparmiarono neppure il generale Erwin Johannes Rommel, l’eroe del fronte nordafricano, coinvolto solo marginalmente nell’opposizione militare al regime, che fu inquisito e successivamente costretto a suicidarsi (14 ottobre 1944).
QUALI INTENZIONI? Ma non è questo il punto giornalistico / fotografico della questione, quanto lo è, invece, la capacità di affrontare un capitolo doloroso della propria storia, per lunghi decenni lasciato in un autentico limbo. Domanda, perché
in quei giorni? Perché nel sessantesimo anniversario, che nel gioco delle cronologie ha un valore sostanzialmente relativo? Infatti, come sappiamo, in genere si rievocano altre ricorrenze: i decennali, a volte i vent’anni, sempre i cinquanta; raramente le altre date. A questo punto è obbligatorio il parallelo con la stampa internazionale del tempo, in particolare con quella francese. Per quanto, nel 1994, i periodici francesi non si siano lasciati sfuggire i cinquant’anni dallo sbarco in Normandia (6 giugno 1944-1994; FOTOgraphia, giugno 1994), ancora hanno nuovamente rievocato quei giorni anche nel sessantesimo anniversario, del giugno 2004. A parte la considerazione parallela, che annota che i francesi traducono il D-Day nel nazionalistico Jour-J (peccato veniale?), bisogna assolutamente riflettere sul pensiero, sulle onde del pensiero. In un clima di guerra reale, come è quello che stiamo vivendo alla luce di tante/troppe ingerenze nella conduzione (per quanto discutibile) di sovranità nazionali, diventa obbligatorio celebrare ogni guerra possibile, ogni precedente guerra “giusta” che glorifichi e giustifichi le azioni attuali, che cercano nobiltà e motivo di esistere nella Storia. Tanto è vero che, quest’anno, le celebrazioni pubbliche dello sbarco in Normandia saranno più solenni, nel bizzarro (ma plausibile) settantacinquesimo anniversario, di quanto non lo furono quelle nel tondo cinquantenario.
ANCORA EMBEDDED A questo punto, la riflessione si allarga, spostandosi anche sul territorio, a noi congeniale e proprio, della Fotografia in quanto tale. Ovvero al fantastico e irrinunciabile ruolo di comunicazione visiva che la Fotografia svolge. Magari, come abbiamo scritto in tante occasioni e come ripetiamo spesso, la Fotografia non ha modo né mezzi per influire sui fatti, per modificare i grandi equilibri. Certamente, però, come abbiamo scritto in tante altre occasioni e come ripetiamo al-
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PROPAGANDA ESPLICITA
personale (qui in archivio) e quella di Domenico Strangio, ora raccolta nell’identificazione Archivio Fiume Giallo, presso la Biblioteca Comunale di Vado, in provincia di Bologna, l’immancabile Taschen Verlag ha ricavato la corposa monografia Chinese Propaganda Posters (2003). La raccolta è esattamente ciò che promette e anticipa di essere: un casellario sui e dei manifesti politici cinesi della lunga stagione maoista, che si è allungata nei decenni, soprattutto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. In questa raccolta, il valore della presentazione dipende in grande misura dalle identificazioni che certificano i soggetti e li commentano (anche in italiano). In questo senso, oltre ad essere più completo di precedenti raccolte, Chinese Propaganda Posters, di Taschen Verlag, ha giusto il merito della attestazione, preziosa per comprendere appieno il fenomeno. Analoga è la catalogazione del già citato Archivio Fiume Giallo, accessibile dal sito www.tempiodelcielo.org. Sempre a proposito di Cina, in questi nostri attuali termini di Propaganda, non si sottovaluti il fenomeno delle carte intagliate, che abbiamo approfondito in FOTOgraphia, del luglio 2016.
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Soprattutto nei paesi a regime socialista -Unione Sovietica, dal 1917; Repubblica Popolare Cinese, da 1949-, la propaganda politica è stata esercitata con manifesti affissi per strada; la Fotografia, che noi consideriamo fondante, si è mossa sottotraccia e si è espressa per metafore... quasi. Semplificando al massimo, e banalizzando la sostanza (ne siamo consapevoli), oltre la propaganda propriamente tale, il Realismo Sovietico ha comunque dato avvio a un intenso approfondimento culturale, che ha influito non poco sul patrimonio visivo del Novecento. A differenza, la Cina non è riuscita ad andare oltre una grafica modesta, spesso infantile, che si è racchiusa in se stessa. Per quanto ci siano anche esempi eccellenti, si tratta di eccezioni casuali lungo il cammino. Comunque, per quanto riguarda la lunga esperienza cinese, gravitata attorno la (famigerata) Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, va menzionata un’ottima monografia pubblicata da Taschen Verlag. Dalla collezione di Michael Wolf, sostanzialmente coincidente con l’ipotetica combinata tra la nostra
Chinese Propaganda Posters; dalla collezione di Michael Wolf; Taschen, 2003; 320 pagine 24,5x37cm. ❯ Chinese Propaganda Posters; Taschen, 2005; Collana Bibiotheca Universalis; 608 pagine 14x19,5cm; 15,00 euro.
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PROPAGANDA Oltre il fotografo “embedded”, intruppato e a-servizio-di, rimane il fatto che il fantastico valore dell’immagine, con quanto può influire sulle coscienze (ricordiamo ancora che il movimento interno statunitense
La copertina del tedesco Geo del febbraio 2003 ha richiamato uno dei servizi più consistenti riportati all’interno dell’autorevole mensile. Dopo decenni di silenzio, pudore e ritegno, la Germania si è interrogata sui bombardamenti alleati, che dal 1943 hanno devastato il proprio territorio nazionale. Quella massiccia controffensiva rappresentò l’inizio della fine per l’esercito tedesco, fino allora apparentemente invincibile; allo stesso tempo, come sottolinea l’immagine di copertina, che raffigura la disperazione dei civili, loro malgrado coinvolti nel conflitto, avviò una tragica inversione dell’indirizzo delle guerre (tutte). Dopo aver annotato che con questo corposo intervento redazionale la Germania ha abbattuto uno dei propri tabù giornalistici, osserviamo anche che da allora le guerre non riguardano più i soli eserciti, tra loro contrapposti in identificati campi di battaglia, ma si sono estese alla popolazione.
Nel sessantesimo anniversario del fallito attentato a Hitler, perpetrato il 20 luglio 1944 da un consistente gruppo di cospiratori, soprattutto alti gradi dell’esercito, il settimanale Stern del Primo luglio 2004 ha rievocato i fatti, affrontando uno degli argomenti che la Germania solitamente evita. A nostro modo di vedere, magari, si tratta di una rievocazione giornalistica sollecitata dagli odierni venti di guerra.
Ancora lo sbarco in Normandia, nel sessantesimo anniversario dal D-Day (Jour-J per i francesi?!): edizione speciale di Le Figaro, dell’estate 2004. Siccome la ricorrenza dei sessant’anni non è solita nel giornalismo internazionale, che per proprio costume celebra altre ricorrenze “tonde”, siamo confermati nell’idea che i venti di guerra dei nostri giorni stiano guidando, condizionandola, una certa informazione giornalistica.
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trettanto spesso, può sicuramente influire sulle coscienze, coltivando ed educando il pensiero, la riflessione, le opinioni personali. Per questo, arriviamo a teorizzare che non esista una sola Fotografia, trasparente e inequivocabile, ma, come ogni linguaggio, come ogni comunicazione, la Fotografia possa essere usata dal Potere, possa essere al servizio dei Potenti. Prima di arrivare a una comparazione allestita in mostra alla Concoran Gallery of Art, di Washington DC, nell’estate-autunno 1999, sulla quale intendiamo riflettere oggi, finalizzando le nostre osservazioni agli attuali “venti di guerra”, sono necessari altri richiami in giornalismo mirato e accreditato. Anzitutto, a distanza di quindici anni dall’attualità originaria di quelle riflessioni e osservazioni, torniamo ancora sulla figura dell’inviato “embedded”, quello che in Iraq seguiva/segue le truppe statunitensi, soprattutto, fotografando ciò che gli veniva/viene concesso di fotografare, in una sorta di dipendenza. Nel dicembre Duemilatré, a margine dalla cronaca dal festival francese del reportage internazionale, abbiamo riportato dichiarazioni di Jean-François Leroy, attento e capace direttore di Visa pour l’Image. È opportuno riprenderne qualche passo: «Sono anni che ci ripetiamo che la fotografia è morta. Sepolta dalla televisione. La guerra in Iraq ne è stata la più convincente smentita. È l’unico e magro vantaggio di questa triste attualità... È sotto gli occhi di tutti che la televisione è passata da reportage di valore -si pensi alla guerra del Vietnam- ai “non reportage” della Prima guerra del Golfo. E ora siamo arrivati ai reportage da majorettes di quest’ultimo conflitto [...]. Siamo seri: a chi si vuole far credere che le immagini delle webcam che abbiamo subìto per ventiquattro ore su ventiquattro siano della vera informazione? Al più, si tratta di telesorveglianza. Può essere divertente per la tele-realtà, ma al limite dell’oscenità dal punto di vista dell’informazione. Sia che si tratti di Al-Jazira o Fox News, vediamo gli stessi filmati, solo il commento è un po’ diverso. «Non vorrei essere frainteso. Non voglio parlar male dei giornalisti che, sul campo, lavorano per la televisione, e che, sfortunatamente, pagano un prezzo pesante in termini di vite umane per informarci. Io voglio semplicemente dire che bisogna spesso aspettare il ritorno dei fotografi non embedded per avere delle immagini veritiere. È sicuramente troppo presto per trarre conclusioni riguardo questa nuova figura del giornalista embedded. [...] Mi chiedo che fine possa fare l’informazione se chi la fa è a bordo di un carro armato senza alcuna libertà di muoversi come gli sembra più opportuno. [...] Sono convinto che i non embedded riusciranno a scattare delle immagini senza la censura dei permessi e senza obbedire a nessuno, in base alle convinzioni personali di ogni fotografo, al proprio desiderio di essere testimone, secondo la propria visione del mondo [...]».
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Propaganda e sogni: Fotografo sconosciuto, Ritrovo pubblico a Yalta, Crimea; 1938. Russel Lee, Sala da ballo, Raceland, Louisiana; 1938.
Nota. Propaganda (sostantivo femminile): Opera e azione esercitate sull’opinione pubblica per diffondere determinate idee, o per far conoscere determinati prodotti commerciali. [Familiarmente] Complesso di idee e notizie scarsamente attendibili, perché alterate dai propalatori: non fidatevi, è solo propaganda. (Da Lo Zingarelli Vocabolario della lingua italiana ; Zanichelli Editore).
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contro la guerra in Vietnam, negli anni Sessanta del Novecento, si deve soprattutto agli orrori mostrati da coraggiosi e motivati fotoreporter), viene comunque gestito e manipolato: dal Potere, direttamente, e da chi vi si accoda, magari in buona fede (?). E le imminenti rievocazioni, che glorificheranno i fasti della Seconda guerra mondiale in una luce di giustificazione dei gesti di oggi, ne sono un clamoroso esempio. Non dovrebbero servire esemplificazioni, perché modelli e prove sono sotto i nostri occhi, tutti i giorni e giorno dopo giorno. Però, è il caso di sottolineare il concetto. Per farlo, come abbiamo appena anticipato, ci allontaniamo dalla cronaca, che potrebbe indurre qualcuno di noi a posizioni (di pensiero) preconcette: magari declinate su proprie posizioni politiche e sociali di stretta attualità. Spostiamoci su un esempio storicamente lontano, ma fotograficamente e giornalisticamente vicino. Andiamo a una fonte che non può proprio essere definita di parte, almeno non “di quella parte”. Una fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art, di Washington DC, nel 1999, visualizzò un parallelo che oggi ci è congeniale. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate
da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati. Da una parte, la Propaganda di regime; dall’altra, i Sogni di uno stile di vita da proporre al mondo intero. La curatrice Leah Bendavid-Val ha lavorato con efficienza, puntualizzando bene la contrapposizione tre due stili fotografici, ognuno in linea con se stesso e con le proprie intenzioni. La selezione Propaganda & Dreams: Photographing The 1930s In The USSR And The US è stata raccolta anche in un ben allestito volume: Edition Stemmle, 1999. Sicuramente, con il senno di poi, possiamo considerare benevoli certe visioni di Propaganda, e altrettanto consenzienti le rappresentazioni del Sogno. In tutti i casi, la Fotografia si prestò come arma, comunque la si veda, di sola Propaganda [nota a sinistra]. Ed è quello che si vorrebbe ancora oggi, con mezzi meno ingenui, con messaggi più sottili, sicuramente meno didascalici, ma con le stesse identiche intenzioni. Non pensiamo che esista una sola verità assoluta, non pensiamo che la nostra visione del mondo sia giusta e corretta. Però, chiediamo ai giornalisti e ai fotogiornalisti di svolgere con coscienza il proprio mestiere: osservare e raccontare, sapendosi indignare e non servendo alcun preconcetto. Non accodandosi ad alcun pensiero prefabbricato. ❖
In tempi precedenti l’odierno (e orrendo!) selfie, è stato lecito definire l’autoritratto fotografico con termini e valori che ne hanno stabilito la grandezza (non sempre, per il vero). Da cui, in selezione, autoritratti moderni, e sostanzialmente attuali, comprensivi del gesto della Fotografia, così da censire una sorta di casellario in misura. Di fatto, intendiamo Auto.scatto l’evidenza del richiamo esplicito ai modi dello scatto fotografico, sottolineato in inquadratura/composizione: soprattutto, la presenza dell’accessorio indispensabile a...
POLAROID COLLECTION
AUTO.SCATTO
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
di Maurizio Rebuzzini
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ecenni fa, nei pressi di Zurigo, a casa di un amico italiano emigrato in Svizzera, fui invitato a sedermi su un divano del soggiorno. Mentre l’amico trafficava di suo, e non ci feci caso, mi fu mostrato un album fotografico di immagini private. Il novanta percento dei soggetti comprendeva lo stesso divano sul quale stavo seduto; il cento percento erano fotografie di due persone accostate, che guardano verso l’obiettivo. Dei due, uno si ripeteva costantemente, istantanea dopo istantanea: il mio stesso amico. Lo assicuro ancora oggi, a distanza di tempo, quel casellario aveva (ha) un che di inquietante: tutte persone in posa rigida e innaturale che guardano avanti a sé, in attesa di qualcosa. Alzai gli occhi, e vidi che l’amico aveva collocato una macchina fotografica su treppiedi in fronte al divano. Ecco, cos’erano quei ritratti: pose realizzate con l’autoscatto, con le quali l’amico stesso certificava coloro i quali l’avevano visitato in casa, erano stati con lui. Ovverosia, la Fotografia come certificazione di verità e realtà. Da e con Hubertus von Amelunxen, autorevole e accreditato docente di Filosofia dei Media e Studi
Culturali, alla Graduate School di Saas-Fee, in Svizzera: «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta, il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica» (in The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History, nella storia della fotografia A New History of Photography, a cura di Michel Frizot). Da cui, probabilmente, aggiungendo di nostro: la grande rivoluzione della Fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, nacque la propria diffusione e popolarità anche come documento. Ora, in quell’album “delle cere” faccio parte anch’io; ovvero, sono uno degli ospiti che la Fotografia certifica di essere passati da quell’appartamento, di essere stati in qualche modo e/o misura “amico”. A parte finalizzazioni individuali e utilitaristiche, come non toccare il pulsante di scatto quando e per quanto potrebbe introdotte un micromovimento della macchina fotografica (meccanica), l’autoscatto, che è una dotazione base di ogni apparecchio (oggi, telecomando), ha giusto questa funzione: consentire di essere presenti nell’inquadratura, invece che latenti al mirino.
Dalla campagna Wolford autunno-inverno 2004-2005. (dall’alto, in senso orario) Self-Images: 100 Women; Edition Stemmle, 1996. Do it yourself, di Uwe Ommer; Taschen Verlag, 2008. Vogue Italia, agosto 2019, una delle quattro copertine: Claudia Schiffer.
Da The New Yorker, del 6 novembre 1995: In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort, di Richard Avedon.
(pagina accanto) Oliviero Toscani: autoritratto con flessibile, in polaroid 8x10 pollici, per l’edizione speciale dell’autorevole Camera, del settembre 1978.
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Da Self-Images: 100 Women, ritratti liberatori di giovani donne berlinesi raccolti in monografia Edition Stemmle, del 1996. Di fatto, per quanto valutiamo oggi e qui, casellario di nudi, con immancabile peretta di autoscatto. Nel concreto, e secondo intenzione dell’ideatore André Rival, fotografo di Zurigo, psicologia personale e sociale, come approfondito dai colti testi a commento della monografia. Qui sotto, in ordine orario: Maike, Andrea e Cosima, Angelika; a pagina 41, in copertina di monografia, Sophie.
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Ovviamente, in rapporto tecnologicamente attuale, dobbiamo riferirci al selfie, alla portata di qualsivoglia smartphone di generazione attuale, la cui inquadratura ampia, diciamo equiparabile a quella del grandangolare 28mm sul formato di ripresa 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo, consente alla distanza del braccio della mano che sostiene lo smartphone di inquadrare due volti accostati. E non sappiamo ancora se l’elevata quantità di (orrendi!) selfie, sia autenticamente amicali, sia “rubati” in situazioni pubbliche, accanto al personaggio del momento, verrà considerata e giudicata così come abbiamo appena valutato le pose dell’autoscatto: inquietanti a angoscianti. Ma non importa, quantomeno qui e ora.
SCATTO PNEUMATICO Per autofotografarsi, diciamola anche così, gli apparecchi fotografici del tempo trascorso disponevano di un’altra opportunità: quella dello scatto pneumatico collegato al pulsante di scatto. Si tratta di un cavo di varie lunghezze, anche cinque metri, che agisce sul pulsante di scatto per aria complessa inviata da una peretta comandata dal soggetto, che si è collocato a distanza adeguata per l’inquadratura.
Senza sconfinare oltre, senza partire dall’autoritratto di fotografi, immediatamente successivo a quello di pittori, e senza considerare la raffigurazione di se stessi / se stesse nel mondo dell’arte (da Francesca Woodman a Cindy Sherman), dal passato prossimo, arrivano tre esempi di spessore, per quanto riguarda lo scatto pneumatico. Parliamone. Pubblicati dalla stampa tedesca, nel 1996, e ripresi anche dall’edizione italiana di Marie Claire, del marzo 1996 [FOTOgraphia, maggio 1996], gli autoscatti liberatori di giovani donne berlinesi sono stati raccolti in volume da Edition Stemmle di Zurigo. Ideata dal fotografo franco-tedesco André Rival, l’operazione corre su un binario multiplo. Da una parte, non possiamo che riferirci alla psicologia personale e sociale, e in questo senso si esprimono i colti testi a commento, che introducono la monografia; dall’altra, c’è chi ha puntualizzato soprattutto l’aspetto volontariamente erotico dell’insieme delle immagini: anche se la stampa italiana che se ne è occupata non ha mancato di sottolineare una ipotesi di “eros ironico”. Dal nostro punto di vista, educato e maturato con frequentazioni fotografiche assai concentrate e rigorosamente attente, la raccolta Self-Images: 100 Women
va soprattutto inclusa nel compendioso territorio della fotografia antropologica, che per il solito viene ignorata dalla critica ufficiale: fototessere, fotografia giudiziaria e quanto viene composto con metodologie ripetitive e schematiche di tipo documentativo. Così come l’incessante sequenza di Yellow 2.0, che commentammo tanto tempo fa, trasuda il proprio intendimento segnaletico, pure la libertà di cui hanno potuto godere le cento donne berlinesi ha delineato i contorni del casellario. Per quanto il risultato sia alla portata di ciascuno, appunto raccolto in un volume di eccellente manifattura editoriale, una parola in più va scritta per descrivere il metodo. Il giovane fotografo franco-tedesco André Rival ha allestito un set con fondo bianco-luce, e ha disposto un apparecchio fotografico con inquadratura fissa. Un collegamento video con il mirino di visione della Mamiya 6x7cm (lo deduciamo) ha consentito alle ragazze, munite di uno scatto pneumatico di buona lunghezza, di controllare su monitor la composizione fotografica. Loro hanno scelto le proprie pose, loro hanno scattato nei tempi e modi che hanno voluto: qualcuna lo ha fatto in fretta, altre si sono attardate delle ore. Il risultato è intrigante, con piani di lettura molteplici e stratificati. Un libro da non sottovalutare.
Operazione fotografica analoga è stata quella del tedesco Uwe Ommer, capace di passare dalla registrazione di intendimento sociale, attraverso i ritratti posati di mille famiglie [1000 Families, per l’appunto], all’evocazione di un sottile erotismo visivo dei nostri giorni. Con altrettanta cura e meticolosità, Uwe Ommer ha allestito i set del progetto fotografico Do it yourself, raccolto in volume dalla poliedrica casa editrice tedesca Taschen Verlag, che frequenta la fotografia d’autore senza soluzione di continuità dalla storia al contemporaneo. Come specifica subito il titolo, che appunto definisce la fotografia eseguita da se stesse (i soggetti sono tutti inviolabilmente al femminile), ufficialmente, si tratta di Auto.scatti. Però, rileviamolo subito, oltre questa dichiarazione di intenti, alla quale è giocoforza attenersi, immagine dopo immagine, si riconosce qualcosa di diverso: autentiche pose, costruite e allestite dallo stesso fotografo. Inquadrature apparentemente casuali sono state predisposte con minuziosa attenzione: quella che si deve sempre riservare alla finzione (al tableaux ) che simula la realtà, rappresentandola. Così che, l’elemento comune che collega tra loro tutte le fotografie, definendone sia il progetto sia la serie, è l’inviolabile presenza dell’elemento fotografico
Con l’identificazione Regards sur le corps, i pseudo-autoritratti del progetto Do it yourself [qui sotto, in selezione], del tedesco Uwe Ommer, hanno animato il programma dell’Ottavo Festival Europeen Photo, ad Arles, in Francia (nulla a che vedere con i Rencontres, di luglio), dal 2 al 12 maggio 2008, di propria attualità... anche editoriale.
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Ancora e impreterritamente Auto.scatto, in grafia odierna, con tanto di cavo che arriva all’apparecchio fotografico (non è detto; non importa) tramite un comando a peretta tenuto dal soggetto inquadrato e raffigurato. Soggetto dalla campagna Wolford autunno-inverno 2004-2005, per la collezione di moda Vivienne Westwood incontra Wolford, nel segno del gioco Stick or Twist (appuntare o contorcere?).
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relativo e collegato allo scatto (cavo pneumatico apparente e raffigurato). Ogni soggetto, ogni modella ha tra le mani il cavo con peretta collegato con il pulsante di scatto della macchina fotografica, piuttosto che il comune flessibile o un comando a distanza, che a propria volta compaiono in tutte le inquadrature. Secondo lo stile espressivo di Uwe Ommer, ogni immagine è adeguatamente sofisticata, sì da comporre i tratti di un erotismo volontariamente raffinato. Ma pure sempre erotismo, sia chiaro. E qui, e ora, si impone una considerazione a complemento. Per quanto si possano spendere parole per motivare l’eleganza di queste fotografie, come di immagini di analogo svolgimento (erotico, non autoritratto), la determinazione originaria rimane sempre dominante: raffigurazioni che sollecitano il piacere, soprattutto maschile, dell’osservazione di un corpo femminile offerto, nudo o quasi... un corpo, senza anima, che si propone esclusivamente per se stesso. Quindi, in terzo passo, riprendiamo i termini visivi (coincidenti) della campagna Wolford autunno-inverno 2004-2005. Soprassediamo su altre considerazioni, per soffermarci sull’azione pubblicitaria/promozionale/ conoscitiva della prestigiosa e qualificata linea di biancheria femminile e dintorni.
La comunicazione visiva della collezione Vivienne Westwood incontra Wolford è declinata nel segno del gioco (Stick or Twist / appuntare o contorcere?): serie di sei immagini coerenti tra loro, basate sul gesto fotografico dello scatto a distanza: ed è proprio questo che sottolineiamo, iscrivendo questa serie fotografica nella lunga vicenda del costume fotografico. Con intenzioni proprie e partecipazione differente rispetto le radici profondamente “fotografiche” delle due menzioni precedenti -rispettivamente, Self-Images: 100 Women e Do it yourself-, tanto da trasformare lo scatto a distanza perfino in microfono (ahinoi!), le sei illustrazioni Wolford riprendono inconsapevolmente lo stesso cammino, andando ad aggiungere il proprio nome nella storia evolutiva del costume fotografico: quello del quale soprattutto noi siamo testimoni, archivisti e narratori.
ALTRO SCATTO PNEUMATICO Sullo stesso passo appena intrapreso, segnaliamo altri tre esempi che rientrano nella medesima fenomenologia. Procediamo in ordine temporale. Anzitutto, ricordiamo l’autoritratto in polaroid di Oliviero Toscani, realizzato per un’edizione speciale di autoritratti polaroid dell’autorevole periodico Camera,
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del settembre 1978. In inquadratura verticale polaroid 8x10 pollici, Oliviero Toscani salta su un fondo bianco (nella sala di posa della sorella Marirosa Toscani Ballo e del cognato Aldo Ballo), tenendo tra le mani lo scatto pneumatico, azionato al culmine dell’azione. [Per la cronaca, altri tre italiani compaiono nella monografia e sono stati successivamente acquisiti nella prestigiosa Polaroid Collection (riunita in monografia The Polaroid Book, a cura di Barbara Hitchcock e Steve Crist; Taschen Velag, 2008; collana Bibliotheca Universalis; multilingue italiano, spagnolo e portoghese): Gian Paolo Barbieri, pure in polaroid 8x10 pollici, come anche Will McBride (ai tempi, residente in Italia), e, poi, il bergamasco Pepi Merisio in bianconero da negativo/positivo]. Quindi, richiamiamo la favola in ventidue immagini In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort (In memoria dei compianti signor e signora Comfort), che Richard Avedon realizzò con la modella Nadja Auermann per il settimanale The New Yorker, del 6 novembre 1995. Realizzato con la collaborazione di Doon Arbus, figlia di Diane, grande amica di Richard Avedon, il servizio si è allungato su ventisei pagine. In apertura: scheletro che si autofotografa con lungo cavo flessibile tra le mani.
Infine, riprendiamo l’edizione di Vogue Italia, dello scorso agosto, in quattro copertine diverse e coerenti tra loro: due più due, con le modelle Claudia Schiffer e Stephanie Seymour, in atteggiamento fotografico da autoscatto: rispettivamente, «Claudia by Claudia» e «Stephanie by Stephanie». Con relativa analoga declinazione dei rispettivi servizi interni.
Vogue Italia, agosto 2019: quattro copertine diverse. Due più due, con le modelle Claudia Schiffer e Stephanie Seymour, in atteggiamento fotografico da Auto.scatto [la quarta, a pagina 41].
AUTORITRATTO?
Vogue Italia, agosto 2019: dall’interno, Claudia Shiffer in Auto.scatto.
Per quanto, come dichiarato, abbiamo scartato a lato l’autoritratto in forma d’arte, non possiamo ignorare la personalità dello statunitense Lee Friedlander. Tra tanti meriti fotografici, misurati sulle immagini realizzate nel corso dei decenni, Lee Friedlander ne ha conquistati anche con considerazioni a margine dell’atto fotografico in sé. In questo senso, per diritto di anagrafe, qualcuno di noi, qui in Italia, lo ha conosciuto di riflesso a un fantastico approfondimento fotografico di Ugo Mulas dell’inizio degli anni Settanta. La Verifica 2, di Ugo Mulas, intitolata L’operazione fotografica, si presenta anche con il sottotitolo-dedica di Autoritratto per Lee Friedlander. Così facendo, Ugo Mulas sottolineò una delle considerazioni di Lee Friedlander, che -per l’appunto- ha notato come la figura
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(centro pagina, dall’alto) Lee Friedlander: San Juan, Puerto Rico, 1979; New York City, 1966. (qui sopra, dall’alto) Lee Friedlander. Self Portrait; con prefazione di John Szarkowski; Haywire Press, 1970 (riedizione MoMA, 2005). Lee Friedlander. In the Picture Self-Portrait 1958-2011; Yale University Press, 2011. Lee Friedlander. Family; Fraenkel Gallery, 2004.
Da America by Car, di Lee Friedlander [ FOTOgraphia, dicembre 2011]: ironico autoritratto con T-Shirt... personalizzata (?).
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più presente emotivamente al momento dello scatto -il fotografo stesso- sia assente dall’immagine. Da cui, nelle sue fotografie di quegli anni, spesso, Lee Friedlander è presente nell’inquadratura e composizione come ombra o riflesso. Comunque, la Verifica 2 - L’operazione fotografica (Autoritratto per Lee Friedlander ): Ugo Mulas, in gesto fotografico esplicito, riflesso in uno specchio appeso alla parete, attorno al quale si proietta anche la sua ombra. In presentazione dello stesso Ugo Mulas: «Qualche tempo dopo l’Omaggio a Niépce [Verifica 1], ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina [fotografica]. Contro la finestra c’è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l’ombra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da quest’ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue i casi c’è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di
conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo Autoritratto con Nini [Verifica 13 ], c’è l’ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente». Sia con autoritratti espliciti, sia con la sua presenza nell’inquadratura (spesso, ombra), Lee Friedlander ha fatto linguaggio proprio dell’autoritratto; in almeno due monografie esplicite: Lee Friedlander. Self Portrait, con prefazione di John Szarkowski (1925-2007, dal 1962 al 1991 direttore del dipartimento fotografico al Museum of Modern Art / MoMA, di New York), Haywire Press, 1970 (riedizione MoMA, 2005); e Lee Friedlander. In the Picture Self-Portrait 1958-2011, Yale University Press, 2011 (alle quali, per coerenza, allineiamo un’altra raccolta sostanzialmente coincidente: Lee Friedlander. Family, Fraenkel Gallery, 2004). E conosciamo anche la selezione Vivian Maier. SelfPortraits, ma si tratta di altro, intimo e privato, più che lessico [su questo stesso numero, a pagina 4]. E, poi, basta. ❖
Novantanove anni di Maurizio Rebuzzini
ANDO GILARDI (DAL1921)
N
Novantanove e non Cento. Centouno dalmata in carica e non Cento. Queste cifre, per le quali a noi interessa oggi il Novantanove (ci arriviamo), sono state declinate anche dal consistente e autorevole gruppo di scrittori aderenti all’OuLiPo (acronimo dal francese per Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero Officina di Letteratura Potenziale), le cui opere sono basate sull’utilizzo di limitazioni formali, letterarie o matematiche. Ne abbiamo già riferito [FOTOgraphia, dicembre 2013], e non è il caso di soffermarsi troppo. Umberto Eco (1932-2016) ha scritto una lunga poesia, La mamma, utilizzando una sola vocale, la “a”. Leggiamo: «Casta, santa, brava, allatta, alata gatta, cavalla, capra (narra Saba). «Fa sana panna, sala la pappa al baccalà, la dà alla panza, alla garganta, all’amata ragazza nata. Canta la nanna. «S’alza all’alba, s’attarda, abbassa tarda la lampada, ramazza, s’arrabatta, paga la rata. «Salda, parca, accatta la patata, la castagna, l’ananas, la lasagna, l’anatra, la bacca, la lana, la matassa all’arca, alla cassapanca. «Mamma: apax. [...] «Basta. Amara, s’ammazza all’Asmara. Cala la bara». Si tratta di un lipogramma (dal greco lèipo = lascio; e gramma = lettera) costituito -quasi a gioco linguistico- da un testo nel quale non può essere usata una determinata lettera. Invece, il tautogramma, altro raffinato gioco linguistico, è un componimento nel quale tutte le parole hanno la medesima lettera iniziale. A proposito: Georges Perec (1936-1982) ha composto un lipogramma di trecento pagine, La scomparsa (La Disparition; 1969), scritto senza l’utilizzo della vocale “e”, al quale ha fatto seguito un secondo lipogramma in forma di specchio, intitolato Le ripetizioni (Les revenentes; 1972), nel quale
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Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati. Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte. Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società ha già preso loro tutto, non prendergli anche la fotografia. Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perché non possono respingerti. Non fotografare la suicida, l’omicida e la sua vittima. Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo. Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già sopportato la violenza, non aggiungere la tua. Loro debbono usare violenza, tu puoi farne a meno. Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino. Non ritrarre un Uomo solo perché la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare, con il flash, la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro, gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie. Non fotografare la madre dell’assassino e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante, e nemmeno gli orfani dell’amante. Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del “diritto all’informazione”. Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare un ospizio di vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica. Non fotografare chi fotografa; può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale. Come giudicheremmo un pittore in costume bohémien seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all’ergastolo, all’impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, a un corpo lacerato che affiora dalle rovine? Perché presumi che il costume da free-lance, una borsa di accessori, tre macchine appese al collo e un flash sparato possano giustificarti? Ando Gilardi (1978)
utilizza come sola vocale in tutto il testo la lettera “e” (dunque, si tratta di un lipogramma in a, i, o, u e y: anche quest’ultima lettera vocale in francese). Mentre Esercizi di stile, di Raymond Queneau (1903-1976; fondatore dell’OuLiPo), pubblicato in Italia nella traduzione di Umberto Eco (Einaudi, 1983) è composto da Novantanove varianti narrative di uno stesso accadimento. Se non fosse mancato il 5 marzo 2012, l’otto giugno, Ando
Gilardi, personaggio italiano di spicco della Fotografia ragionata, avrebbe compiuto novantanove anni: da celebrare solennemente nello spirito, che gli apparteneva, degli impedimenti formali e delle limitazioni volontarie e ricercate. I suoi impeccabili valori fotografici hanno attraversato stagioni e riferimenti molteplici [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del luglio 2004]. L’ho conosciuto nell’autunno Millenovecentosettantatré, lui cin-
quantenne e io ventenne, come direttore di Photo 13 (con Roberta Clerici), presso la cui redazione andai a sostituire il redattore Fabio Amodeo, che sarebbe tornato nella sua Trieste, per il quotidiano locale. L’ho frequentato nell’ultimo anno di edizione del (successivamente) celebrato mensile di riflessione fotografica e in trasmigrazioni giornalistiche seguenti, a partire dall’autorevole trimestrale Phototeca. Ancora, per tre anni, alla fine dei Settanta, abbiamo condiviso lo studio. Sono più che convinto, d’aver ricevuto più di quanto possa aver offerto. Anche così va la Vita. Come già fatto in ricordo tempestivo, ancora oggi voglio ricordare i nostri attraversamenti fotografici, in tempi che appartengono al nostro passato e alle nostre reciproche esperienze. Ando Gilardi ed io abbiamo avuto opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti e due abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro (magari con una fotografia). E così, ciascuno per sé, ciascuno per quanto ha potuto/voluto, lo ha fatto. Ando Gilardi (mantengo il rispettoso “lei”, che non abbiamo mai rimosso tra noi): prima di conoscerla e frequentarla personalmente, fino a condividere gli spazi del lavoro, per tre anni, alla fine dei Settanta, l’ho incontrata -da lettore- sulle pagine di Photo 13, in edizione quindicinale, nel 1972, qualche anno dopo l’inizio delle sue edizioni. Per un curioso gioco del destino, dopo una precedente esperienza editoriale, nell’autunno 1973, sono approdato alla redazione, e lei è stato il mio direttore per un anno, fino alla chiusura di quella indimenticabile esperienza. Quelle furono stagioni strane e controverse, addirittura contraddittorie, e ognuno di noi ha contribuito a tanta confusione (alla
Novantanove anni quale, oggi, qualcuno guarda con ammirazione e nostalgia, soprattutto rievocando le edizioni di Phototeca, che hanno vitalizzato la seconda metà degli anni Settanta: secoli fa). Gilardi, non sempre ho condiviso le sue concezioni e interpretazioni; soprattutto, siamo rimasti autonomi nelle rispettive visioni: le sue, assolute e intransigenti; le mie -causa mille e mille motivi individuali-, flessibili e adattabili alle situazioni, soprattutto nell’attenzione e deferenza per le opinioni altrui, in qualsiasi modo queste si esprimono (con debiti confini, oltre i quali anch’io non arrivo). Ripeto ancora, ribadendolo una volta ancora: lei ed io abbiamo avuto opinioni diverse su ciò che è degno di memoria. Comunque sia, per quanto l’abbia incontrata in anni aspri e combattivi, magari anche un po’ troppo tignosi, non posso non considerare che quelli sono stati
i tempi del mio ingresso nel mondo della Fotografia, entro il quale ho finito per restare... ingabbiato. Di quel tempo conservo un ricordo sereno e gradito; soprattutto, non posso che ringraziarla per avermi invitato a una osservazione a tutto tondo, non indirizzata, non prevenuta: l’ha fatto, anche
se sia fermamente convinto che le sue intenzioni di allora fossero addirittura diametralmente opposte. Ma così è stato. Per ricordarla come merita, qui e ora, richiamo un mio pensiero, una mia opinione, una mia convinzione. È un concetto che ho fatto mio, certamente mutuan-
«Al mondo, c’è gente che crede di saper fare almeno tre cose: fotografare, parlare di fotografia, andare a cavallo. Ahimè, solo il cavallo protesta» Ando Gilardi e Maurizio Rebuzzini (1974)
dolo dalle letture; del resto, rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura (?) e istinto, il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Dunque: ogni vita umana, se dura abbastanza a lungo, alla fine ha un senso. Gli avvenimenti che riempiono un articolo, una conversazione... le faccende di scarsa importanza che fanno trascorrere il tempo, un istante dietro il precedente... alla fine hanno un senso. Vite fotografiche come la sua possono non avere senso per la gente comune. Per noi, invece, sì. ❖
Creatività di Antonio Bordoni
L
ALLA MANIERA DI
La domanda che poniamo è retorica: non richiede risposta, in quanto contiene una affermazione di princìpio. In un’azione “creativa” -per quanto ci riguarda a base fotografica-, è lecito ripetere uno stilema che si è affermato come linguaggio visivo (altrui)? Lo scorso autunno Duemiladiciannove, la municipalizzata milanese dei trasporti pubblici (Atm: nata Azienda Tramviaria Municipale; dal 1999, Azienda Trasporti Milanesi) ha promosso presso il pubblico una campagna pubblicitaria/conoscitiva Impatto Zero - Atm Full Electronic, facciata ufficiale del rinnovamento di mezzi di trasporto ecologici. E fin qui, ci siamo. Almeno due sono stati i soggetti dell’affissione stradale e di altre presentazioni: la visualizzazione di un Electric Bus, uno di una flotta di mezzi in circolazione, in un paio di localizzazioni ecologicamente accattivanti. Anzitutto, un bus è stato posizionato nel parco dietro la Basilica di san Lorenzo; quindi, un altro bus è stato abbinato alla nuova architettura sorta attorno piazza Gae Aulenti, nuovo richiamo della città, magari proprio a partire dal palazzo qui raffigurato, in gergo “Bosco verticale”, in virtù del folto avvolgimento di piante che arricchiscono i singoli balconi, da piano terra al vertice in alto. In prospettiva grafica, i paesaggi cittadini di riferimento si sovrappongono alla sagoma dei due bus, che conservano una propria moderata identità in richiamo ecologico e panoramico. A colpo d’occhio (educato a questa decifrazione), si tratta di un risultato visuale equiparabile a quello del gesto artistico del cinese Liu Bolin, che abbiamo presentato nel febbraio 2018, con lancio dalla copertina, in occasione della mostra The invisible man, al Complesso del Vittoriano, a Roma. Riprendiamone i termini salienti. In mimetismo espressivo, il cinese Liu Bolin ripete e replica coerentemente la propria azione, andandosi a collocare nei pressi di architetture celebrate e accreditate. Dopo aver predisposto l’inquadratura, rimane immobile come una scultura vivente,
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Impatto Zero (Atm Full Electronic): facciata del rinnovamento di mezzi di trasporto ecologici della municipalizzata milanese: parco di san Lorenzo e Bosco verticale... alla maniera di Liu Bolin [ FOTOgraphia, febbraio 2018].
per integrare il proprio corpo, camuffato da un accurato body-painting, con il contesto alle sue spalle e, infine, si fa fotografare. Dunque, e in definitiva, sintesi di molteplici linguaggi creativi, in reciproca contaminazione: performance, pittura e fotografia... non necessariamente in questo ordine. Da qui, l’essenza di un’azione d’arte che trova la propria celebrazione (a tutti visibile, da tutti raggiungibile) nella Fotografia. Attenzione, però, a non confondere i termini della vicenda. Liu Bolin non è un fotografo, almeno non lo è secondo la prassi che stabilisce contenuti e azioni in coordinamento con un lessico preposto alla rivelazione di elementi e accadimenti che palesino la vita nel proprio svolgersi, sia dal vero, sia in allestimenti scenici preordinati e predisposti. Il suo mimetismo (proditoriamente applicato per la campagna Atm-Milano in commento), che prende a prestito dalla condotta esistenziale del camaleonte, si realizza con soggetti, per lo più architettonici (incarichi pubblicitari inclusi), entro i quali e nei pressi dei quali la sua presenza fisica è mascherata in una combinazione tra prospettiva ottica e messinscena visiva. Semplifichiamo: si fa dipingere il corpo per sovrapporsi al soggetto, in una composizione/inquadratura entro la quale si occulta, si nasconde all’occhio superficiale, per rivelarsi soltanto all’osservazione concentrata.
Elevando a cifra stilistica il suo camouflage -per allinearci al lessico acquisito della sua critica ufficiale e colta [camouflage deriva dalla fusione della parola “camuffare” con il termine francese “maquillage”: da cui, tecnica di trucco volta a nascondere più che evidenziare]-, Liu Bolin ripete e replica coerentemente la propria azione, andandosi a collocare nei pressi di architetture celebrate e accreditate. In tutti i casi, mimetismo esplicito, prima che consapevole. Certamente diversa è la creatività Atm-Milano, che si basa ed edifica su una sovrapposizione in post produzione digitale. Ma, in bocca, rimane l’amaro di una invasione in territorio altrui, di una razzia di linguaggio visivo altrui. Del resto, lo sappiamo bene, molte azioni della Fotografia (in informazione visiva) si basano su itinerari realizzativi semplificati e -per questo- ripetibili da ciascuno. Ma! Ma, qui in redazione, abbiamo un affascinante “Mondrian” (Piet Mondrian: 1872-1944). Lo abbiamo realizzato in Photoshop, al computer, riprendendo linee e colori originari; formalmente è più “pulito” ed “esatto” dell’originale pittorico. Ma! Ma ripetere Mondrian e molta arte contemporanea non è difficile; è addirittura vero l’esatto contrario. Per gioco individuale si può fare, arricchendosi di opere alla maniera di. Ma... per gioco. ❖
SETTEMBRE 2020 9 AUTORI 9 FOTOGRAFIE ICONICHE 9 COPERTINE NUMERO SPECIALE