Momenti di una Passione (di Franco Filograna)

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I QUADERNI DEL BROGLIACCIO Collana di testi, saggi, documenti diretta da Luigi Montonato

Tutti i diritti riservati all’autore


Franco Filograna

MOMENTI DI UNA PASSIONE

A cura di Emanuele Filograna


dedicato a chi crede ancora che le tradizioni popolari, le credenze e le consuetudini che un popolo tramanda alle generazioni future hanno un valore e servono a non smarrire il contatto col proprio passato con le proprie radici e i propri valori e a non farsi schiacciare dal mondo globalizzato.

Progetto grafico e impaginazione Franco Filograna Cura redazionale Lucianna Lazari Filograna

In copertina: F. Filograna, Cristo alla colonna 4


No, credere a Pasqua non è giusta fede: troppo bello sei a Pasqua! Fede vera è al Venerdì Santo quando Tu non c’eri lassù. Quando non una eco risponde al suo grido e a stento il Nulla da’ forma alla Tua assenza. David Maria Turoldo

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PREFAZIONE In questo piccolo volume compaiono solo una parte dei disegni che componevano una mostra presentata nel lontano 1974. Alcuni dei riti del Venerdì Santo che Franco Filograna aveva documentato con la sua personale sensibilità artistica sono andati perduti. Ciò che invece resiste nella tradizione religiosa e popolare apparirebbe probabilmente sbiadito, se non addirittura sfilacciato, ad un osservatore di quegli anni che si trovasse catapultato nella nostra era digitale. Eppure, il potente fascino della “Processione” si conserva in qualche modo e oggi rivive ancora in quelle istantanee a carboncino che hanno fissato una volta per sempre i momenti della Passione. E’ il senso del colligite fragmenta che risuona nel Vangelo di Giovanni: raccogliere e preservare i frammenti affinché nulla vada perduto. Se è vero che, proprio come fa il rito con la sua ripetizione, l’arte tenta di strappare la bellezza alla sua caducità attraverso le formule dell’ordine estetico, ripresentare quelle opere ha la preziosa importanza di ogni slancio volto al salvataggio di ciò che un tempo è stato dotato di senso. Si tratta, dunque, anche della conversa di quel composita solvantur trapassato dall’epitaffio di Francis Bacon alla poesia di Franco Fortini: no, le cose composte non si dissolvano, il disordine non succeda all’ordine! Il tempo fa già sin troppo bene questo suo implacabile mestiere, corrodendo spesso e inghiottendo proprio ciò che è più significativo, quasi si trattasse di briciole senza importanza. Per questo recuperare le permanenze di un’esperienza spirituale ed artistica quale fu oltre quarant’anni fa Momenti di una passione, significa continuare ad interrogarsi sul senso di quelle manifestazioni antropologiche che vi sono raffigurate e, al contempo, sul senso del raccontarle per mezzo della rappresentazione artistica. A suo tempo, per rendere efficace la trasposizione figurativa delle atmosfere e del sovraccarico emotivo e spirituale dei riti del Venerdì Santo, Franco Filograna intraprese tra l’altro un’esperienza affatto inedita anche dal punto di vista tecnico. Era la scelta non solo del carboncino, ma anche di un suo utilizzo non convenzionale, con tratti larghi come solchi, fitti come una sassaiola, grassi di nero come la pece della notte.Tratti inferti ‘di taglio’: come se si trattasse di incidere sul foglio il tremore e la commozione dell’intero mondo magico-rituale della Processione. Anche sotto questo profilo quell’esperienza andava ripresa e riassaporata. Non lasciare nulla da parte, ma al contrario, tutto integrare, assumere e trasfigurare: così ci ha suggerito Raimon Panikkar. Oggi, in effetti, alcuni di questi carbon7


cini appaiono trasfigurati allo stesso Autore che, giunto quasi alla soglia degli ottanta anni, è abitato sempre più dal pensiero e dalla premura che nulla vada perduto. Questo è solo il primo tentativo di collazionare alcuni momenti di una vita artistica per tenere viva la bellezza racchiusa in quella esperienza personale, spirituale ed estetica. Affinché il disordine non succeda all’ordine… E. F.

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MOMENTI DI UNA PASSIONE Luigi Scorrano

Dal 10 al 16 aprile 1974, nella Biblioteca Comunale di Piazza San Domenico in Casarano, Franco Filograna, impegnato da tempo a catturare aspetti significativi della vita del suo paese d’origine, mise in mostra una serie di disegni su un tema vivo nella coscienza dei suoi concittadini: quello dei riti della Settimana Santa. Non era alla ricerca di un pretesto folcloristico, né lo spingeva il desiderio di mostrare la sua capacità illustrativa (da “musica a programma” si sarebbe detto in campo d’altra arte!); voleva procedere, ricorrendo a quello che era il suo ‘mestiere’, all’esplorazione partecipe di un atto di devozione da lui vissuto, nella coralità dell’evento, come eredità della religio familiare. C’era, nell’atto, una sorta di struttura gerarchica formatasi nel corso di alcuni secoli; ed era, essa, rispettata nella scansione dei suoi vari momenti: quelli che sollecitavano le emozioni profonde e quelli che aprivano una via al sorriso o al riso schietto per qualche piccolo incidente di percorso in cui gli itineranti inciampassero. Al primo posto s’accampava il sacro in una veste fastosa e luttuosa quali si addicevano al carattere meridionale e a tradizioni giunte fino a noi da terre in cui si respirava un’aria affine; e, di seguito, il concorrere all’asta per avere l’onore di portare a spalla le statue della Madonna Addolorata o di Gesù morto, quasi sempre montate su basi lignee di complicato disegno barocco e baluginanti di dorature fatte un po’ stanche dall’uso; e pesantissime. C’erano altre statue evocanti momenti della passione di Gesù, ma quelle – per così dire – dei protagonisti attiravano l’attenzione e nutrivano l’ambizione di chi, almeno in una circostanza ritenuta eccezionale, si serviva di un atto di devozione per esibire ricchezza e potere. Quelle statue, quella cerimonia funebre della sera del Venerdì santo offrivano, a chi avesse avuto la voglia di annotarne momenti diversi, un miscuglio di sentita pietà e di superficiale partecipazione. Affiora, a riprova, qualche episodio in cui anche ciò che può sembrare meschino, ha una sua dignità per le intenzioni che lo reggono. C’erano uomini che, nell’occasione delle feste pasquali, ‘venivano a casa’, ritornavano a respirare l’aria familiare dopo mesi e mesi d’assenza.Tornavano con un’intenzione precisa: per partecipare all’asta, vincerla e vincere, orgogliosamente, la gara che avrebbe consentito di portare in spalla, nella processione, la Madonna o il Cristo morto. Poiché nel suo passo d’avvio i due simulacri dovevano affrontare un tratto di pochi ma scomodi gradini, i concorrenti ad ogni gradino proponevano un prezzo più alto per impedire ad altri di prevalere. Al capitolo dell’aneddotica appartiene anche l’apparizione, colorita ma incongrua, di un drappello di soldati romani (comparse da 9


cinematografo!) variamente distribuite in tratti cruciali del percorso o in semplice funzione di accompagnamento. Ne venivano improvvisazioni bislacche ed invenzioni improbabili. Il clou fu raggiunto da certi bracieri che, sistemati lungo il tragitto della processione, bruciando della pece o una materia affine ottennero un effetto spettacolare, certo, ma anche di brutta sorpresa quando, ancor prima di tornare a casa, sacerdoti, chierichetti, affiliati a varie confraternite, componenti la banda, semplici devoti si trovarono – guardandosi gli uni con gli altri e poi interrogando gli specchi domestici – trasformati in uomini e donne di colore. Per rimuovere lo strato un po’ grasso e fastidioso da vestiti, facce, mani e da qualunque parte della persona o del vestiario fu necessario impiegare un bel po’ di tempo; non era facile restituire uomini e cose alle loro riconoscibili fattezze. Si può facilmente immaginare che Filograna non cede all’aneddotica: insegue un tema ch’è più di un tema figurativo. Alle spalle di quei disegni altri se ne sono accatastati, e poi possono – alcuni – essere stati perduti; altri giacciono chi sa dove in attesta che una fortunata circostanza chiami l’artista ad un ripensamento, a una messa in luce stimolata dalla riconsiderazione del fascino che le immagini addensate intorno al nucleo vivo di quel tema esercitano più o meno sotterraneamente, più o meno visibilmente. Si tratta pur sempre di un cammino d’artista, che si trova a fare i conti, ad una svolta della sua riflessione estetica e delle figure che la realizzano, con una materia non del tutto assorbita. Bisogna che l’osservatore accompagni l’artista, lo affianchi in qualche modo, ne rifaccia mentalmente il processo di maturazione. Quando, nel 1974, Filograna espone i disegni recentissimi delle cerimonie religiose della settimana santa, già si è lasciato alle spalle altri tentativi e altri risultati. I disegni della processione, che sta per porre il suo sigillo sulla mestizia quaresimale e attendere ansiosa le note d’oro della gioia pasquale, consentono sia di vedere il cammino che l’artista ha percorso attraverso il suo lavoro precedente, sia a rilevare gli approfondimenti su un tema che si può dire “religioso” al di là del riferimento esterno a espressioni di religione, a un fatto che potrebbe essere solo incidentale. È evidente, nei due momenti accennati, una volontà di scavo che conduce ad esiti sempre nuovi sul filo di un coerente svolgimento. Nei disegni, ora raccolti in queste pagine, il tratto appare più corposo, ispessito in una più robusta plasticità: il carboncino lascia segni minuti, precisi, che tagliano il bianco del fondo e l’uno accanto all’altro, moltiplicandosi l’uno sull’altro, producono un effetto di incisione. Ma accanto al tratto minuto, rapido, nervoso, franto, prismatico a tratti, s’affermano a contrasto campiture più vaste, piatte, omogenee o risaltano zone abbandonate a spazi la cui luminosità concorre a drammatizzare – nero e grigio – il vortice d’ombra che intorno ad esse si scava. L’oggetto della rappresentazione non è tanto il mistero cristiano della redenzione, quanto il terrestre dramma della Passione (che in tempi ed in forme diverse è presente alla coscienza dell’uomo) e i riflessi che esso suscita in chi vi partecipa. 10


È, insomma, un mistero doloroso attraverso il quale emergono e nel quale si riflettono le piccole o grandi sofferenze quotidiane: un nodo di religione-superstizione (ma con quello, si vuol dire, che la superstizione stessa può avere di intimamente e oscuramente religioso) e di profonda umanità. Questa viene in primo piano in un luogo d’incontro drammaticamente colto; chi voglia approfondire la conoscenza di questo discorso deve poi riferirsi – o, se ancora non li conosce, vederli – ai bassorilievi eseguiti dal Filograna per il santuario “La Grazia” dei frati francescani di Galatone. Da quei bassorilievi a questi disegni il discorso continua e s’allarga su piani differenti che s’integrano vicendevolmente, non si elidono. Le figure, nei disegni, sono colte ora nella loro assorta partecipazione, ora in una momentanea distrazione: fede ed abitudine conviventi. Incappucciati membri di confraternite nascondono, ma non tanto che non la si possa cogliere, in positure o in gesti involontari, sorpresi e fermati nel momento in cui si compiono, la loro identità. L’impassibilità enigmatica del volto coperto non vela il moto umano; lo svela, anzi, attraverso altro. Ci si può soffermare sulla figura di un robusto porta-croce che viene avanti, massa lapidea su cui si libra – aerea e lievitante pur nella sua monumentalità – la croce. Gli occhi delle donne, invasi dall’ombra, hanno uno sguardo immobile; si specchiano, attraverso la tragedia ricordata, nella propria oscura sofferenza. Se qualche figura è rimasta, ma ai margini, tra rappresentazione macchiettistica o manierata, è facile vederla riassorbirsi nell’insieme e trovare, a suo modo, il proprio posto. Né il tema è aneddotico né la realizzazione è meramente illustrativa: perciò occorre non cedere, guardando, alle tentazioni, assai facili in casi del genere, del colore locale. L’obiettivo dell’artista punta ora sulla compattezza di gruppi in cui le singole fisionomie tendono ad una specie di livellamento. Facce apparentemente tutte uguali; volti segnati dalla fatica quotidiana che trovano, nel momento di partecipazione richiesto dal rito, un battito di distensione. La folla vive del respiro che la accomuna, del passo trattenuto per la necessità di adeguarsi a un ritmo lento e meditativo richiesto dalla circostanza. Il segno grafico che costruisce figure ed ambienti è il frammento di linea frantumatasi nella tensione di ricomporsi in immagini note: la Madre che cerca il Figlio perduto adegua le sue forme allo stereotipo, necessario, dell’Addolorata: le braccia semiaperte in un gesto di dolorosa sorpresa, lo sguardo inquieto posato tra cielo e terra in attesa che da essi venga una risposta. Intorno a lei, al suo simulacro, i portatori sembrano estranei al suo dolore e il tratto inquieto del carboncino addensa in un angolo l’ombra che risucchia nel buio i muri delle costruzioni, fondali provvisori di una scena destinata a ripetersi. I personaggi portati fuori dalla scena d’insieme sono gli abitanti del luogo, cui non bisogna un qualunque travestimento per dare consistenza all’atto devoto e alla sacra rappresentazione: un tentativo di alterarne i tratti si risolverebbe in un’azione falsificatrice. I ‘figuranti’ dell’azione restituita dai disegni di 11


Filograna sono la casalinga, il contadino, l’operaio che in quella giornata, chiamato a sostenere una ‘parte’, ha smesso più in fretta gli abiti del suo lavoro quotidiano. Sono , uomini e donne, gente comune dai tratti duri, facce rassegnate di chi rumina crucci e malumori ma non mancherebbe alla chiamata. Nessun travestimento potrebbe attribuire loro un ruolo al di fuori di quello assegnatogli dalla vita. I tratti del carboncino, veloci, a volte isolano una sola figura, o un gruppo: il risultato (forse già nelle intenzioni di Filograna) non è quello di adeguare l’idea a una forma di scontato ‘realismo’ quanto quella di ottenere un amalgama in cui la distanza tra memoria storica (la rievocazione della vicenda di Gesù) e ‘ripetizione’ scenica (la processione del Venerdì santo) si assottiglia fino al punto di consentire solo, si direbbe, a un filo d’aria di circolare tra le due situazioni. Nulla s’addensa in simboli, tutto s’affida a figure. Sembra che tutto debba ritrarsi nello sguardo fermo delle figure maschili, nell’occhio ostinatamente rivolto alla strada in quelle femminili. Notazioni, sembra di poter concludere, ovvie: ma esprimono una verità che con la verità delle ragioni umane tende continuamente a confrontarsi. Non c’è di più; e può essere poco. Per chi sappia vedere, c’è però ben altro: un’umanità la cui sola silenziosa presenza è già voce, grido.

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UN’ANTICA PASSIONE, SOLENNE E FRAGILE Enrico Sciamanna Franco Filograna è un uomo del nostro tempo, che recupera tesori del passato, fa sì che non si disperdano. Coglie l’offerta che i suoi concittadini fanno alla tradizione e con la sua abilità la fissa sulla carta, la rende fruibile e perenne. Potrebbe sembrare anacronistico proporre un’ulteriore rappresentazione grafica della liturgia del Venerdì Santo, espressa secondo sentimenti popolari. La storia figurata delle ultime vicende della vita di Cristo e della sua morte pare datata, relegabile ad epoche in cui la richiedeva una particolare dolente sensibilità, per provarne, sulla propria anima, la vivezza. La visione odierna, per non credenti e credenti, è confinata nel suo senso diretto in un ambito poco elevato, quasi volgare, anche se il termine non deve essere inteso in senso spregiativo. All’artista di oggi per un tale tema si richiede, eventualmente, astrazione, concettualità, ricorso al simbolo; la dichiarazione diretta dei fatti e delle sensazioni si relega ad un passato perduto e ad un’emotività bassa. Dipende dall’obiettivo che si stabilisce. Perciò tornare sull’argomento utilizzando le tracce consolidate della narrazione, significa esporsi al rischio dell’incomprensione, dovuta, come si diceva in apertura, all’anacronismo della scelta. A meno che non si voglia estendere il senso alla condivisione, non astratta o forzata, delle sofferenze. Nel basso medioevo la fase in cui l’occidente è in disgregazione e in abbandono si avvia alla conclusione con il sorgere delle comunità, che si uniscono anche per celebrare una reinterpretazione della religiosità, tramite le sacre rappresentazioni teatrali e figurate. È il periodo in cui nasce questo modo artistico di leggere la Passione di Cristo, e che perdura nei secoli a venire. Il devoto sentiva su di sé, grazie all’efficacia della proposta grafica o scultorea, il peso della croce, ne era il Cireneo, grondava del sangue della flagellazione, riceveva le stimmate dei chiodi e lacrimava, sentendosene addirittura indegno. Tanto che in alcuni casi la rappresentazione assumeva un connotato di verità e, nell’ineludibile immanenza, si partecipava fin nelle più intime fibre alla passione: si era il crocifisso, la madre disperata, fratelli e amici sconvolti. Questo erano le sacre rappresentazioni, che in periodo pasquale risuonavano con grida, lacrime e sangue nelle vie, nelle chiese e nelle piazze delle nostre città. Era la condivisione della sofferenza di Cristo che prendeva forma, che penetrava in profondità nell’anima dei credenti, grazie al trasferimento operato dagli artisti che la mostravano non soltanto con affreschi o tempere, ma allestivano veri e propri gruppi scultorei, lignei, in cui i protagonisti evangelici apparivano e acquistavano vita grazie alla mobilità degli arti e alle voci 13


che risuonavano con la melodia triste delle laudi. Attori e spettatori si trovavano avvolti in un'unica allucinazione fideistica collettiva, ovvero nella consustanzialità dei fatti. Finché quell’epoca non si è conclusa e quelle forme sono scemate, scomparendo in alcune aree. Ma si sa che non è così dappertutto. Il retaggio medievale perdura in molte città, specie del sud, in molte manifestazioni che rievocano la passione con un grado di partecipazione non dissimile da quello antico, talvolta anche nelle modalità: carnalità, esternazione del dolore, immedesimazione. Misurarne l’intensità è complicato, se mai si volesse fare, ma coglierne la profondità, appurare la sincerità dei sentimenti è possibile. Esiste ancora uno strumento a disposizione, ed è l’arte. Con tutti i limiti che le sono propri, è insostituibile. E specificamente nelle forme più vicine a quelle del tempo passato, secondo scansioni figurative che non se ne allontanano. La narrazione per immagini del Venerdì Santo di Franco Filograna segue questo criterio e ottiene il risultato di offrire una visione del dramma mistico nel cuore dei partecipanti, che è schietta verità. Non sono soltanto i volti, le espressioni, le mani, le posture, i passi tra le mura del borgo, per le vie, tra le case, gli strumenti tradizionali del rito che attestano la vicinanza spirituale all’atto di fede, ma gli stessi abiti, i copricapi, le calzature che compongono un linguaggio di oggetti, sono l’architettura del mistero, della compenetrazione nell’esaltazione del più elevato momento del Vangelo, in cui anche l’artista è coinvolto. La scelta stilistica di Franco, che riversa su una superficie candida i suoi affetti e ne raccoglie un cospicuo catalogo, è legata ad un’intuizione decisamente originale e accresce l’intrinseco valore del risultato artistico. Al tratto si sostituisce il carboncino picchiettato sulla carta candida, che va quasi ad impregnare la superficie, percuotendola – verrebbe da dire come lo scudiscio sulla pelle di Gesù – asserendo l’impossibilità di proporre con distacco un racconto così sconfinato nel senso, permeato di arcano. Il momento creativo si correda di un impegno che rimanda a dimensioni in cui l’essere artisti e pregare rappresentava un unicum esistenziale, come per gli esecutori delle icone dell’Europa orientale, del mondo ortodosso e non soltanto. Franco colleziona una serie di ritratti che riferiscono di corpi modesti, partecipi della sofferenza. Sono persone apparentemente semplici coloro che svolgono il ruolo di figuranti del dramma: madri di famiglia, contadini, operai, bambini del popolo, i loro vestiti dichiarano con evidenza l’appartenenza, ma ciò non diminuisce la portata del progetto, anzi, tutt’altro, l’umiltà ne esalta il valore. Scaturiscono da un’antichità remota, da una dimensione spirituale ancestrale, per proporre un sentimento attuale. I loro aspetti sono definiti con una maestria che si mescola con la certezza della fede. Le donne e gli uomini che nascono dal segno che Franco Filograna 14


spande sulla superficie dei fogli, ci avvertono della necessità di coltivare la speranza, riescono a comunicarcelo perché l’artista, profondendovi le sue convinzioni, li investe di tale responsabilità e a loro volta le figure commuovono gli osservatori; la dedizione con cui vengono prodotte queste immagini le fa abitare nel clima del mistero, le rende da semplici attori a protagonisti e “martiri” di una fede che si proietta al di là del credo cristiano, diviene uno specchio per gli sfiduciati di buona volontà. Le composizioni si sostanziano in due masse, una bianca e una scura, vuoti e pieni che si affrontano dando vita ad una comparazione simbolica. Dai pieni emergono i volti, i corpi, le membra, portatori di sentimenti che paiono diffondersi nell’ambiente e divenire un tutt’uno con lo spazio, essere frammenti di luce. Intorno ai muri delle case si raccolgono, gli uomini, i pensieri, le aspirazioni, i dubbi, in un tempo bloccato, sono la città che celebra nel dolore l’attesa. Di alcuni soggetti presenti nella raccolta cogliamo la monumentalità e la solennità, ma anche la fragilità e la leggerezza. I cruciferi e i tedofori dal volto coperto che mettono a disposizione la loro identità, rinunciandovi svolgono un ruolo determinante come coro e scenografia del dramma; così come sono attori e insieme spettatori ogni donna col fazzoletto annodato sotto il mento, ogni uomo con il berretto, ogni bambino dallo sguardo curioso e partecipe. I volti adusti che la polvere del carboncino esalta, le rughe insistite, gli occhi vivi, sono la dinamo del movimento e il trasparire della psiche collettiva della funzione. Perché il rito è energico, di un moto atemporale, i personaggi, con i loro accessori, si spostano, materialmente e con lo spirito, da un luogo della città ad un altro e dalla terra ad un desiderato cielo. Di volta in volta si vede apparire la croce. Una geometria che si staglia netta. Chi la porta pare volerla trattenere verso terra, piuttosto che patirne il peso. È un vessillo che sventola sull’alito del credo, dello spiritus che inflat ubi vult. Quasi in disparte le icone del Cristo e della madre, confuse con la folla, un tutt’uno con essa.

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IMAGO AGENS

Emanuele Filograna

1. Le processioni del Venerdì Santo rappresentano sul piano antropologico il meccanismo attraverso il quale si tenta di addomesticare la tensione che si scatena al confine fra il luogo del Sacro e il luogo dell’Immanenza: i simulacri,che hanno riposato all’ombra delle navate, fra gli altari e nelle teche a vetro illuminate da candele perenni, venerate e protette all’interno delle chiese,improvvisamente escono per le strade, attraversano le piazze. Sono immagini migranti, che esportano il tempio fuori dal tempio. Ondeggiando sulle spalle dei portatori, le statue sembrano barchette in un mare agitato dai marosi della folla orante, costantemente instabili, sempre in pericolo di incappare in un inciampo, in qualche incidente di percorso. Arca di salvezza riservata alla contemplazione venerante, ogni scultura si aggira ora, varcata la soglia della chiesa di appartenenza, fra vetrine spente di negozi e semafori lampeggianti. Quasi immediatamente dopo il passaggio del corteo muto, accompagnato da uno scalpiccio come si può sentire solo sul catrame del cimitero il giorno dei morti, si accendono i motori: dalle strade laterali dove si erano assiepate, le auto sciamano via, solo per andare ad intercettare di nuovo, più avanti, la fiumana della processione. Non cambia l’oggetto della visione, ma il punto di vista: tutto ruota intorno alle emozioni, dalla visione frontale di un’immagine si passa alla partecipazione a tutto tondo ad una scena. Il dolore della Passione è così forte da distruggere ogni possibilità di linguaggio. L’unico vocabolario residuo è quello dei gesti che trasmettono, quasi per contagio diretto, le sensazioni rappresentate in una semantica affettiva che è necessariamente collettiva: dalla res sacrata alle resgestae. Passa il Cristo Morto, il glorioso vanificatore del male trasformato in vittima inerme, nell’immobilità del consummatum est: i volti dei confratelli al seguito si fanno ancora più funerei. Il simbolo della trascendenza, insieme ai fedeli che lo sorreggono, lo accompagnano e lo seguono, sembra esplorare lo spazio profano. Si vive il passaggio come un ingresso prorompente del sacro nel mondo ordinario dei marciapiedi, dei parcheggi, delle case in costruzione ancora a rustico, delle piazze transennate per problemi di sicurezza. Ma il sacro uscito in processione per coinvolgere e trasformare il mondo routinario in una sospensione numinosa, rischia in ogni momento di essere contaminato e riassorbito dal prosaico che impera “là fuori”. Dalla voga armonica dei primi passi, il corteo inizia a sfiorare ogni momento il ri17


schioso sparpagliamento. Ora a un confratello si spegne il cero; il vessillifero si lascia sfuggire la pesante asta d’argento e il drappo di velluto viola listato a nero si incattivisce all’inferriata di un balcone come una vela che fileggia. Il megafono tenuto dal chierichetto davanti alla bocca del parroco gracchia e si perde completamente la recita di quella stazione nella quale viene sgranato il florilegio della barocca aggettivazione di ciascuna delle piaghe. Più volte, prima che il periplo termini, si verifica il capovolgimento temuto: non è più il sacro itinerante ad assumere ed elevare il profano, ma è un’appendice dell’immanenza ordinaria che si incista nel sacro con la sua disordinata e imperfetta accidentalità.

2. La processione non è una mera rammemorazione, ma letteralmente un andare avanti e uno stare innanzi (processio). L’incedere è scandito dalla ripetuta e costante creazione di scene mentali ed ancor più da un’esperienza profondamente fisica, perché il corpo è il locus in cui trovano spazio e prendono forma le percezioni e le emozioni. Si contemplano i misteri, guardandone le immagini. Ma è un guardare che non ammette distacco. Ogni figura della passione (il Cireneo, il Cristo alla Colonna, l’Addolorata, la Maddalena, il centurione, l’Ecce Homo, ecc.) è una imago agens: dopo la rivoluzione dello sguardo iniziata da Sant’Anselmo, i riti della passione hanno fatto passare i fedeli dal sentire (nel senso di ‘ascoltare’ un racconto) al “sentire in prima persona”. Le immagini hanno iniziato ad agire efficacemente, pretendendo una postura emotiva di cum-passione che ha cambiato completamente la prospettiva dei misteri pasquali. Quelle immagini hanno smesso di essere mimetiche (cioè solo di ‘riprodurre’ qualcosa), per trasformarsi in qualcosa che rende possibile (ri-)provare il dolore del Cristo qui ed ora, uno stimulus amoris. La fonte di uno sguardo attivo che genera l’imitatio/conformatio:non “fare come Cristo” semplicemente, ma “farsi come Cristo”, cioè letteralmente trasfigurarsi. Il Christus ligatus, perflagellatus, punctus, plagatus, circumcoronatus, ed infine Passus: cioè letteralmente “passionato”, fatto passare attraverso il dolore e che con il suo corpo disteso dopo la deposizione è un sommo coagulo di perfetto teatro. La necessità dello spettacolo del dolore derivava dalla necessità di universalizzare la compassione puramente individuale. Ricordando Agostino, nessun fedele poteva più fare come quegli spettatori del teatro tragico che dopo aver versato abbondanti lacrime dinanzi alle storie inventate di personaggi fittizi sulla scena, una volta sortiti dal teatro rimanevano indifferenti alla visione di persone infelici in carne ed ossa e alla loro sofferenza ed indigenza. Lo “spettacolo” della passione doveva servire a ricordare che l’asse orizzontale della fraternità umana non può sorreggersi da solo, senza l’asse verticale (della Croce) che congiunge terra e cielo. 18


3. Vieni Maria, a prendere tuo figlio! Ecco l’altro climax, il definitivo coup de theatre. Ben oltre la superfetazione dei suoi pesanti velluti neri e dei pizzi inamidati che ne fanno la maestà, l’Addolorata rappresenta il prototipo della relazione parentale perfetta, e della perfetta compassione: se esiste per l’umanità un simbolo del sommo dolore, è quello di una madre per il figlio. Se la processione non è affatto una semplice cerimonia, ma anche uno spettacolo, con il pianto di Maria si passa definitivamente dalla liturgia al dramma. La compassione della Vergine assurge al posto di una vera e propria passione parallela. La potenza della pietà popolare crea qualcosa che neppure il più geniale antropologo visuale poteva escogitare: il raddoppio dello sguardo. Con l’ingresso, in un preciso momento storico, del nuovo e diverso punto di vista dell’Addolorata si raddoppia lo sguardo. Attraverso il vedere della madre, che con gli occhi al cielo inondati di lacrime disegnate come quelle di un pierrot, contempla il martirio della carne della sua carne, si trasmette la sensazione di provare su sé stessi la carne piagata del Figlio: perché il corpo di un figlio continua per sempre ad appartenere alla madre che lo ha portato in grembo. La madre piange come se avesse nuovamente le doglie. Non tutti hanno partorito, tutti però sono stati partoriti: nessuno può rimanere indifferente al dolore di una madre.

4. Tutti osservano, tutti sono coinvolti. Non c’è distinzione fra chi agisce e chi guarda: è uno spettacolo che si guarda e si interpreta contemporaneamente, per qualcun altro, ma innanzitutto per sé stessi. La modalità cinetica della meditazione e della preghiera struttura la percezione di tutto l’evento. Non solo chi prende parte al corteo, ma anche chi raggiunge, non senza fatica, il punto di osservazione prescelto, si mette in cammino, predispone il corpo e tutti i sensi alla ‘pasqua’, cioè al ‘passaggio’. Si inalano i fumi degli incensi. Si ripetono le litanie ascoltando la propria voce fondersi alle altre, trasportata sul fiume delle altre voci come una foglia secca accartocciata in gola. Si ricevono sul capo le gocce dell’aspersorio. Si è penetrati nella mente dal silenzio in cui tutto cade, a tratti, come la carne dal coltello. Subito dopo si è quasi travolti dalla musica possente della banda al suo passaggio, come da uno ‘striunizzu’, mentre sousaphone e grancasse, con le loro e gravi vibrazioni, rivoltano l’anima come fa il macellaio del mercato coperto con le interiora degli animali. Arie melodrammatiche di sapore verdiano sono ascoltate in un deliquio agrodolce, le parole lamentevoli e tremende bisbigliate a mezza voce…: “le sacre vesti…. sono stato io l’ingrato…”. Tutto attraversa il corpo e il cuore, l’emozione è tale che la processione sembra passare addosso, dentro, attraverso di noi. È il marchingegno sinestetico: la congiura delle sensazioni per riconfermare, insieme all’unità dei sensi, anche quella del Senso ultimo di tutte le cose. 19


Il corpo del Cristo, vero uomo oltre che vero Dio, non è più costretto in una particola minuscola e rarefatta, diafana e purissima, ma è a tutto tondo, percorso dai segni della passione sotto forma di una miriade di gocce di sangue di un rosso brillante sul colore così realistico dell’incarnato delle statue. La passione si può toccare, come fanno i bambini, con un tremito di terrore, quando baciano un piede ligneo piagato dal foro dei chiodi, quasi potesse animarsi il quel momento e prendere a muoversi. Non è una liturgia, nella quale la spiritualizzazione impera, la mente è messa al lavoro e le percezioni subordinate o esiliate. E’ un enfatico trionfo dei sensi, che non sanno più cosa percepiscono: che vedono e sentono la realtà sovrasensibile dentro le vesti di cui le statue sono ornate, o nelle movenze dei figuranti. Quegli ‘attori’ che – pur amici e parenti ben noti – sono ‘magicamente’ trasfigurati, resi irriconoscibili dai cappucci inquietanti oppure da un mimetismo estremo che fa scordare per un attimo persino l’atavico agonismo delle confraternite. La partecipazione diventa, attraverso la mediazione fisica, profondo turbamento.

5. Alla fine, mentre già l’animo provato per lo sconquasso emotivo si predispone a gustare il dolcissimo sursum corda e i luminosi alleluja della domenica mattina, ancora permane una ambigua sensazione di incertezza, di smarrimento: è la rinnovata consapevolezza che la trascendenza non alberga qui tra noi, sulle strade che i piedi hanno calcato, le preghiere hanno percorso, fra le porte delle case di ogni giorno, verso le quali ognuno comincia a rifluire. E’ la ritrovata coscienza, dopo l’ebbrezza sensoriale e l’esperienza extraordinaria, che il sacro viene solo a visitarci. Nella feria quotidiana non possiamo contare sull’emancipazione che l’Agnello garantisce raccogliendo nella sovrumana, ma umanissima passione, tutti i mali, tutti i dolori. E’ stato detto che si piange la passione come si balla il carnevale. Non è una finzione: forse nel travestimento di una notte c’è l’essenza più veritiera dell’animo di ciascuno. Si tratta di drammi, ossia di azioni che accadono in presenza, che stabiliscono una relazione e divengono esperienza che non passa, perché è stata, appunto, inscritta nella carne. Quella presenza è stata vista non solo con gli occhi, neppure soltanto con gli occhi del cuore, ma è come fosse stata vista con l’occhio della carne. Il Dio che per la pietà popolare assume spesso le vesti paludate di un giudice si è trasformato in un figlio: da trionfatore a sofferente. Tutto è avvenuto di notte. Al buio, come in un teatro. Come nel ventre della balena. Nel contorcimento delle fiammelle di fiaccole e candele, ma anche delle budella immedesimate nel dolore. Il buio che, nel ricordo, assomiglia ai fitti colpi di carboncino che riempiono lo spazio del foglio, per creare una tenebra dalla quale emergono le figure, le immagini di quei momenti di una passione. 20


Disegni a carboncino


Crucifero, cm 70x50 22



Crucifero (particolare) 24


Crucifero con boffa (particolare) 25




Nella pagina precedente: Cristo alla colonna, cm 50x70 Cristo alla colonna 2, cm 70x50 28





Nella pagina precedente: Processione I, cm 50x70 Qui: Processione I (particolare) 32


Cristo alla colonna 3, cm 50x70 33


Cruciferi con boffa in sosta, cm 70x50 34


35


Cristo nella bara, cm 29x42 36


Cristo nella bara (particolare) 37


L’Addolorata 1, cm 70x50 38



L’Addolorata 1 (particolare) 40


Portatore di cuscino per le offerte, cm 70x50 41




Nella pagina precedente: Processione 2, cm 50x70 Qui: L’addolorata 2, cm 50x70 44


Fedeli in processione, cm 46x35 45


Fedeli in processione (particolare) 46


Fedeli in processione (particolare) 47


48


Disegni a matita


Confratelli, cm 40x30 50



Confratelli con boffa, cm 40x30 52


Banda e coro, cm 30x40 53


Banda e coro (particolare) 54


Banda e coro (particolare) 55


Volto, cm 50x33 56


57


Volto, cm 50x33 58


Donna con bambino, cm 50x33 59


Chierichetti cm 70x50 60


Chierichetti (particolare) 61


NOTIZIE SUGLI AUTORI Franco Filograna (Casarano 1940), studia scultura presso l’Istituto Statale d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce sotto la guida del Maestro Marcello Gennari e nel ’64 consegue l’abilitazione all’insegnamento di Disegno nelle Scuole di Istruzione secondaria. Attualmente vive ed opera a Galatina (LE). Nel corso degli anni è presente in varie mostre collettive, dove ottiene riconoscimenti e premi. Si propone con alcune personali tra cui: Momenti di una Passione sui riti della Pasqua e Vi racconto la mia città sui luoghi scomparsi della città natale. Lavora a opere pubbliche quali: I bassorilievi in terracotta per l’altare del Santuario La Grazia a Galatone, un Monumento ad Aldo Moro ad Acquarica del Capo, un Monumento ai Marinai d’Italia a Galatina, un Monumento a Don Tonino Bello a Ugento, una scultura in occasione del 30° anniversario della morte di Don Giovanni Rossi in Assisi, una grande Crocifissione in acciaio per la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli ad Angri. Collabora con la Pro Civitate Christiana di Assisi traducendo in linguaggio artistico le suggestioni che gli vengono da un confronto profondo con il Gruppo Convegni realizzando opere di scultura e disegni per le attività dell’Associazione. Continua a dedicarsi alla ricerca personale di forme sempre più stilizzate ed essenziali su varie tematiche, usando materiali non esperiti quali il rame, il ferro, l’acciaio e il legno. Emanuele Filograna ha compiuto studi in giurisprudenza e filosofia, conseguendo un Dottorato in Teoria generale del diritto e svolgendo attività di pubblicista. E’ cultore della materia in Filosofia del Diritto e Logica giuridica e argomentazione presso l’Università degli Studi di Perugia. Enrico Sciamanna, già professore di Storia dell’arte. È collaboratore di Oicos Riflessioni e Presidente della Libera Università Popolare dell’Umbria. Critico d’arte di Micropolis è attivo nella vita politica e culturale del Territorio Umbro ed assisano in particolare. Luigi Scorrano, già Docente di Lettere e Storia negli Istituti d’Istruzione Secondaria Superiore, è stato allievo di Aldo Vallone assieme al quale è autore di un noto commento a La Divina Commedia (Napoli, Ferraro, 1985-1988). E’ nel prestigioso comitato scientifico de “L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca”, nonché Socio Corrispondente dell’Accademia Letteraria dell’Arcadia. E’ stato invi62


tato a partecipare a importanti Lecturae Dantis presso le più prestigiose istituzioni dantesche in Roma, Firenze, Ravenna. I suoi studi si sono soprattutto concentrati sulla “presenza” di Dante nella letteratura italiana del Novecento, spaziando comunque in altri campi e momenti di storia letteraria. Si segnalano particolarmente fra le sue monografie: Modi ed esempi di dantismo novecentesco (Lecce, 1976); La fenice, la cenere. Saggi e note su Gabriele d’Annunzio, (Napoli, 1988); Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, (Ravenna, 1994); Il polso del presente. Poesia, narrativa e teatro di Cesare Giulio Viola, (Modena, 1994); Tra il “banco” e “l’alte rote”. Letture e note dantesche, (Ravenna, 1996); Carte inquiete. Maria Corti Biagia Marniti Antonia Pozzi, (Ravenna, 2002).

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Finito di stampare nel mese di marzo 2020 da Editrice Salentina s.r.l. Galatina (Le)




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