Politecnico di Milano
Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni Corso di studi in Progettazione dell’Architettura Anno Accademico 2019/2020
LA CASA MODERNA. GIO PONTI E VILLA LAPORTE, MILANO 1936.
Relatore: prof. Immacolata C. Forino Correlatore: prof. Michela Bassanelli Tesi di Laurea Triennale di: Francesca Bianchi 900510 Francesca Botta 901581
SOMMARIO
Introduzione
PARTE I. GLI ANNI TRENTA: GIO PONTI 1. Timeline 2. La versatilità dell’architetto 3. La ricerca del Moderno
PARTE II. LA CASA ALL’ITALIANA: UNA NUOVA CULTURA DELL’ABITARE 1. Gli interni domestici degli anni Trenta 2. L’idea pontiana dell’abitare moderno
PARTE III. UN RACCONTO MODERNO: VILLA LAPORTE (1936) 1. L’importanza dell’esterno 1.1. L’esterno domestico 1.2. L’invaso suggerito 2. L’organismo interno 2.1. Lo spazio domestico come sequenza visiva 3. Il «conforto» 3.1. Il grande ambiente 3.2. L’arredo disarticolato 3.3. La ricerca dell’intimità 3.4. Il focolare domestico
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3.5. La stanza a cielo aperto 4. La tradizione italiana 4.1. L’espressione dell’identità 4.2. L’essenzialità del materiale 5. Attualità della «casa moderna» di Gio Ponti
BIBLIOGRAFIA
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Introduzione
Gio Ponti rappresenta una figura di riferimento per l’architettura contemporanea, soprattutto per quanto riguarda gli interni. Attraverso un’analisi della vita e del pensiero del grande maestro del Novecento, ci siamo concentrate nell’approfondire il progetto di Casa Laporte, realizzata a Milano nel 1936. Tra le opere dell’architetto questo edificio è poco considerato, ma, come lo stesso Ponti afferma, Villa Laporte rappresenta un momento altamente significativo della sua attività di architetto1. L’epoca storica in cui viene concepito il progetto vede una continua evoluzione dell’abitare. Infatti, proprio in quegli anni, si iniziano a concepire nuovi spazi domestici rispondenti a rinnovate esigenze abitative. L’originalità e l’interpretazione moderna di Ponti lo portano a sviluppare il progetto della villa in cui, attraverso una mixitè di caratteri, accosta il vecchio al nuovo, l’antico al moderno, il «pezzo unico» con quello in produzione; inoltre, con questo edificio, l’architetto realizza una casa che non è un semplice appartamento, ma è un vero e proprio “tesoro” della città di Milano. La nostra attenzione è stata catturata dalla sensibilità e dalla cura per il dettaglio che Ponti adotta all’interno del progetto, scaturita soprattutto dalla sua esperienza e dalla sua formazione. Costruendo questo prototipo di casa «all’italiana», egli dà una rilettura personale delle architetture locali e con l’utilizzo di balconate, stanze con cielo per soffitto e grandi aperture in facciata, prolunga lo spazio interno verso l’esterno, rendendo questa caratteristica essenziale per la vita.
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Cfr. L.Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Electa, Milano 2001, p.164
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Dunque il progetto di Casa Laporte ha per noi un forte valore simbolico, poiché rappresenta la sintesi della storia moderna e professionale di Ponti. Per tale ragione la ricerca è accompagnata da nostri disegni interpretativi atti a illustrare, insieme al testo che segue, l’idea di modernità di questa peculiare opera pontiana.
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PARTE I. GLI ANNI TRENTA: GIO PONTI
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Timeline
Gio Ponti
1921 Laurea Politecnico di Milano
1891 Nasce a Milano
1923
1927
1928
Apre il primo studio con Emilio Lancia
Fonda la rivista Domus L’intento è quello di promuovere e diffondere una cultura dell’abitare specificamente italiana, quella che Ponti definisce “casa all’italiana”: un’abitazione che non risponde esclusivamente a necessità pratiche e materiali della vita quotidiana, ma intesa soprattutto come il luogo
Ceramiche Richard Ginori
Direttore artistico per la Società Ceramica Richard Ginori
“scelto da noi per godere in vita nostra, le bellezze che le nostre terre [..] ci regalano in lunghe stagioni.”
Gli oggetti d’uso quotidiano o come Ponti le chiamava “le suppellettili e belle opere d’arte” acquistano una nuova dignità, contribuendo direttamente a definire lo spazio dell’abitare e a raccontare il volto di un’epoca. Casa Gio Ponti, 1925
Villa Bouilhet, 1926
Domus, n.111, 1937
Domus Julia, 1931
1941 Fonda la rivista “Stile” 1935 Viaggio a Vienna, in visita alle architetture di Josef Franck
1936 VI Triennale “L’abitazione Tipo”
1938
Villa Marchesano,1938
Conosce Bernard Rudosky
Casa Laporte
Lo scopo di Ponti è la formazione di uno “stile di vita”, un approccio globale alla conoscenza che determini più consapevolmente le scelte future degli italiani.
Disegni Ponti per “Stile”
Villa Planchart, 1955
1936
Casa Laporte costituisce un esempio compiuto dell’idea pontiana di abitare moderno: i suoi ambienti non sono arredati nel senso comune del termine, ma in “essi si è sistemata liberamente la vita degli abitanti secondo comodità e simpatia e umore: e con cose (mobili, libri, riviste, ricordi, qualche oggetto d’arte) che appartengono intimamente, direttamente, alla vita loro”; ciò fa di questa casa “il luogo della nostra più intima e libera evasione, e non più uno dei luoghi dai quali evadere.”
Domus, n.111, 1937
Grattacielo Pirelli, 1956
1957
1979 Cattedrale di Taranto, 1970
Scrive “Amate l’architettura”
Muore a Milano
1. La versatilità dell’architetto
Fra i protagonisti del progetto italiano del XX secolo va annoverato l’architetto Gio Ponti (Giovanni Ponti, Milano 1891-1979), figlio di Giovanna Rigoni ed Enrico Ponti, personaggio di rilievo nel campo industriale, dirigente dell’Edison e attivo nel campo tessile. Gio Ponti inizia gli studi presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano nel 19111, dove matura un’ampia cultura storica italiana e una forte curiosità verso l’arte. Durante la giovinezza, oltre all’ambiente architettonico, frequenta manifestazioni musicali e teatri che ampliano le sue riflessioni nell’ambito artistico. Approcciandosi alla realtà del progetto, egli coglie come il Moderno, oggetto di discussione pubblica di quegli anni, derivi dall’interpretazione di diversi ambiti e discipline. Infatti, nella sua lunga vita operosa di architetto, Ponti interpreta il ruolo di ideatore, di designer, di progettista, di saggista, di direttore e di divulgatore di nuove idee2. Trasportato dalla sua passione per il disegno (si definisce «[...] un architetto fallito e un pittore mancato, perché la mia vocazione è quella di dipingere!»3) inizia la sua carriera negli anni Venti collaborando con l’azienda di ceramiche Richard Ginori, di cui curerà la parte grafica. Il suo lavoro, con il quale partecipa alla I Biennale di Monza nel 1923, rinnoverà l’intera produzione dell’azienda e lo farà promuovere a Direttore artistico. Già dalle prime opere disegnate per Ginori emerge il suo fascino per l’architettura: le sue illustrazioni rappresentano musei archeologici, gallerie e chiese visitate negli A indirizzare Gio Ponti agli studi di Architettura è Guido Semenza, ingegnere dell’impianto idroelettrico della Edison e consigliere d’amministrazione dell’Industria ceramica Richard Ginori. 2 L. Falconi, Gio Ponti. Interni, oggetti, disegni 1920-1976, Mondadori Electa, Milano 2004, p. 21. 3 U. La Pietra, Gio Ponti, Coliseum editore, Milano 1988, 1995, p. VIII. 1
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anni di studio. Ponti si cimenta costantemente con decorazioni d’ispirazione etrusca, greca, egizia e romana per la realizzazione di vasi ornamentali, grandi ciste, urne e piccoli soprammobili. La ricorrenza dei motivi classici quali colonne, frontoni, archi e soprattutto obelischi, segno chiave che esprime «l’estasi in movimento»4, sono giocati con maestria per creare motivi illusionistici quasi astratti e giustapposti a figure isolate o raggruppate che evocano scene cittadine. Scrive a tal proposito il critico Raffaello Giolli: La Conversazione Classica che Gio Ponti ha disegnato per il grande vaso chiuso di Richard Ginori è quasi un programma. È l’ideale città. Il suo bel piano di marmi contesti si allontana nell’orizzonte tra respiri calmi di misurate proporzioni; e più di una conversazione classica, una infinita conversazione di cose e di spiriti ne spiega e intesse l’ideale ritmo... È un curioso gioco. Sembra che le figure s’impetrino, e invece la città si muova nell’obliquo scorcio. Il programma teorico si dichiara in forma di fiaba5.
Un altro tema che nasce dalla collaborazione con Richard Ginori è l’organizzazione di un sistema di «famiglie» di oggetti, da grandi a piccolissimi: dalla famiglia del “Blu Ponti con oro inciso a punta d’agata” alla famiglia del “Gran rosso di Doccia”6, da cui Ponti svilupperà la produzione in serie e il valore estetico del bello e della qualità nell’oggetto industriale. Nel 1925, periodo in cui la Francia ha il primato sul prodotto industriale, l’azienda Richard Ginori viene invitata a partecipare al Salon Des Arts Decoratif a Parigi, dove vince due Grand Prix, di cui uno assegnato allo stesso Ponti. Questi premi conducono l’azienda a un mercato internazionale e sono rappresentativi della capacità del rendere l’oggetto industriale un prodotto di alta qualità estetica. Per contribuire al mutamento di indirizzi produttivi e stilistici nel campo dell’industria italiana, Ponti collabora con imprenditori U. La Pietra, op. cit., p. 16. R. Giolli, Sottovoce in 1927 problemi di arte attuale, Domino, s.l., 1927, cit. in F. Irace, a cura di, Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988, p. 10. 6 L. Licitra Ponti, Gio Ponti. L’opera, Leonardo Editore, Milano 1990, p. 26. 4 5
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dell’artigianato artistico come Paolo Venini, Carla Visconti, Pietro Chiesa, Emilio Lancia, Tommaso Buzzi e Michele Marelli per la realizzazione di nuove collezioni quali “Il Labirinto” nel 19277. In quell’anno iniziano i suoi interessi per la progettazione domestica: intraprende, infatti, una collaborazione con l’architetto Emilio Lancia, con il quale matura la passione per l’architettura e l’arredo, sperimentando un ritorno al classico dopo il periodo floreale del Liberty. Insieme i due architetti concepiscono nei primi anni di attività spazi e ambienti che, come nell’atrio della casa di Via Randaccio (1925) o di casa Borletti (1931) o nelle stanze di casa Semenza a Levanto (1928) o nella dimora francese di Bouilhet (1926), perseguivano il nuovo gusto decorativo. Per quanto riguarda l’arredo, realizzano nel 1927 una nuova linea “Domus Nova”, prodotta in serie per i magazzini “La Rinascente”, su esempio delle organizzazioni commerciali francesi. I grandi empori parigini, infatti, si avvalevano di architetti decoratori per il disegno di mobili. La collezione di Ponti e Lancia presenta interi ambienti arredati, in cui l’accostamento di mobili più pregiati ad altri più economici riesce a raggiungere fasce di acquirenti differenti. L’intenzione non è solo quella di fornire, a prezzi modesti, mobili di forme semplici ma di ottimo gusto e studiati nei particolari, sì da riuscire dotati di tutte le più moderne qualità pratiche e di perfetta esecuzione, ma di equiparare l’offerta commerciale italiana a quella dei grandi magazzini parigini [...]8.
Alla III Biennale di Monza (1927), Ponti presenta di sua mano le porcellane di Richard Ginori, i mobili del “Labirinto” e gli ambienti della linea “Domus Nova” (ravvivati da vetri di Martinuzzi per Venini, vetrate di Chiesa su disegno di Giulio Rosso e dipinti d’autore), che connotano una nuova tendenza stilistica nell’ambito domestico. Egli è anche il promotore della nuova produzione industriale italiana, nel sottolineare il fondamentale 7
Cfr. L. Falconi, op. cit., p. 41. M. C. Tonelli Michail, La Rinascente e la cultura del Design, in «Op. Cit.», n. 81, Maggio 1991, p. 178.
8 Cfr.
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apprendimento della tecnica e della maniera industriale. Secondo il suo pensiero, è necessario prestare attenzione ai materiali, ai procedimenti, allo studio del prodotto e alla sua distribuzione, così da «farsi mercato, ecco un procedimento moderno da imparare e seguire deliberatamente»9. Gli anni Venti vedono Ponti impegnato a realizzare altri oggetti con l’attenzione e la curiosità verso i materiali più diversi. Da ricordare, per esempio, i feltri e gli argenti (1955) progettati per Christofle e le piccole opere presentate alla XVI Esposizione Internazionale d’Arte (1928) a Venezia: delfini, frecce per candelabri, posaceneri e appliques o il prezioso ricamo per il gonfalone (1933) dell’Ospedale Maggiore di Milano, opera che esprime la maturata capacità di espressione figurativa dell’architetto10. Altra importante collaborazione dell’architetto è quella con l’industria Fontana specializzata nella lavorazione del vetro e nella realizzazione di complementi d’arredo: «Per Gio Ponti il mobile in cristallo è l’immagine pura, incorruttibile, del “grande oggetto di lusso”. E Fontana ne è l’esecutore eccellente»11. Infatti nel 1930 Ponti disegna per l’azienda “Il grande tavolo”, un piano in specchio nero con gambe in cristallo inciso, presentato alla IV Triennale (1930) di Monza. L’anno seguente parte la serie pontiana dei mobili a specchio e compaiono i primi mobili totalmente trasparenti. Nel 1932 Ponti fonda, insieme a Pietro Chiesa FontanaArte, assumendone la direzione artistica. Come già avvenuto con Richard Ginori, il suo intervento fa sviluppare la produzione in diverse e molteplici famiglie d’oggetti: dai fermacarte alle lampade. Una seconda cooperazione che nasce in quegli anni è quella con Paolo Venini, conseguenza di una grande ammirazione da parte di Ponti per la moderna produzione di vetri. I disegni per l’azienda illustrano oggetti in vetro e argento, lampadari, bicchieri e bottiglie (1946-1950), divertimenti con il vetro soffiato e con il colore e, infine, le “Vetrate grosse” (1966). Da qui emerge la grande capacità del G. Ponti, Le ceramiche, cit. in L. Falconi, op. cit., p. 41. U. La Pietra, op. cit., p.1. 11 L. Licitra Ponti, op cit., p. 48. 9
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designer nell’interpretazione e studio dei differenti materiali che suggeriscono, in parte, la forma dell’oggetto stesso. La forma, infatti, è un tema fondamentale per Ponti, in quanto «le forme dei recipienti bronzei e fittili, classici e arcaici, ammirati da bambino, erano esatte, finite come si conviene a oggetti di uso inconsapevole di essere arte»12. È proprio la teoria e la ricerca della forma finita che lo coinvolgono nei successivi anni di lavoro e a tutte le scale della progettazione: dagli oggetti più minuti, come le posate, all’architettura. Infatti nel 1951, in occasione della presentazione alla IX Triennale di Milano, Gio Ponti descrive così i suoi oggetti: «il nuovo modo di pensare questi arnesi, le posate, nella loro forma perfetta, è questa: coltello e lama corta con profilo obliquo, forchetta a denti corti e un po’ concava»13. Queste considerazioni lo portano ad analizzare, sintetizzare ed esasperare le caratteristiche formali dell’oggetto, in quanto egli ritiene che la funzionalità e le abitudini dell’uomo determinino la forma degli oggetti di tutti i giorni: teorie che lo portano ad emergere anche sul mercato internazionale. L’amore di Ponti per il teatro trova invece espressione nei disegni di costumi per lo spettacolo L’importanza di chiamarsi Ernesto, diretto da Corrado Pavolini nel 1939. Un altro episodio simile, agli inizi degli anni Cinquanta, lo vede coinvolto nell’opera Orfeo di Gluck al Teatro alla Scala di Milano. Dai disegni dell’architetto per i costumi emerge come il vestito sia in stretta relazione con il carattere del personaggio, per questo egli rappresenta il soggetto durante un movimento tipico del suo ruolo. Ponti si muove anche su altri registri, come nel campo tessile e negli anni Cinquanta nasce un’intensa collaborazione e amicizia fra l’architetto e Luigi Grampa, direttore della Manifattura Jsa di Busto Arsizio e fra gli artefici del connubio tra design e industria. La sinergia tra Ponti e Grampa dà vita alla produzione di raffinati ed esclusivi tessuti, con tipiche cromie mediterranee, 12 13
L. Falconi, op. cit., p. 26. L. Licitra Ponti, op. cit., p. 182.
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stampati a mano su velluti, lini e cotoni. Tra i più noti prodotti tra il 19561957: “Estate” (utilizzato anche per il rivestimento della poltrona “Mariposa”, 1958, prodotta da Cassina), “La Legge Mediterranea”, “Estate Mediterranea”, “Eclissi”, “Cristalli”, “Diamanti”, “Il Circo”, “Il Balletto”, “Rombi”. La passione dell’architetto per le stoffe parte proprio da quella per la stampa, perché «qualsiasi disegno e segno può essere afferrato e stampato, diventare stoffa»14. Rappresentativa degli interessi di Ponti per l’arte, l’architettura e il design è la rivista «Domus», da lui fondata nel 1928 nella quale, l’anno successivo, sarà affiancato dall’editore Gianni Mazzocchi con l’Editoriale Domus, costituita unicamente per pubblicare la rivista. Questa è stata ed è un media importante per la promozione dell’architettura e del design italiani e per l’informazione sull’arte degli altri paesi del mondo, diventata un simbolo internazionale per le arti visive. L’analisi dei progetti e delle prime annate di «Domus» permettono di individuare nell’attività di Ponti, dal 1928 fino ai primi anni Trenta, la ricerca di nuove soluzioni abitative in cui si esalta un’attenzione per la casa pompeiana e per l’architettura domestica anglosassone. Infatti l’obiettivo della rivista era quello di diffondere una nuova cultura dell’abitare moderno e l’educazione estetica della casa, anticipando temi fondamentali per la cultura e la progettazione d’interni del Secondo Dopoguerra: dalla bella finestra al mobile unitario o alle librerie incorporate tra mura al ruolo della luce diurna e notturna nell’edificio, dall’impiego di materiali da rivestimento tradizionali al colore nelle pareti e nei soffitti domestici, espressioni di una necessità decorativa diffusa15. La concretizzazione di questi aspetti ha i primi esordi nel segno delle “Domus” di Ponti, lunga serie di case costruite a Milano a partire dalla fine degli anni Venti, proposte come prototipi abitativi di una borghesia urbana che rinunciava al finto antico. Modello all’italiana 14 15
L. L.icitra Ponti, op. cit., p. 198. L. Falconi, op. cit., p.52.
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delle Siedlungen razionaliste, le “Domus” pontiane introducono il colore, le figure dell’architettura classica (l’arco e la pergola), balconi e terrazze destinati al verde. L’architetto vuole diffondere il gusto italiano a un più largo pubblico e nel 1941 fonda una seconda rivista, «Stile», in cui utilizza il disegno come nuovo mezzo di comunicazione. Il disegno del periodico esprime l’idea di Ponti circa l’architettura a misura d’uomo: «[...] è al tempo chiarificatore, esplicativo, illuminante, informativo, rappresentativo, espositivo, iconografico. Per dirla con un’unica parola è totalizzante»16. La nuova rivista tratta le arti con rubriche fisse che forniscono uno spaccato del cambiamento di costumi nell’adeguamento al tempo di guerra dell’architettura e degli oggetti del vivere quotidiano. Ponti mira all’educazione del gusto degli italiani per una «casa moderna» e l’immagine della rivista è un esempio dell’importanza che egli attribuisce alla forza comunicativa del disegno. Le copertine di «Stile» sono il più chiaro ed esplicito segno della sua energia nel dipingere e disegnare. Dove raggiunge la sua più alta espressione pittorica è sicuramente nei grandi affreschi del 1940 all’Università di Padova: all’ingresso del Palazzo del Bo, sede del rettorato dell’Università, si trova un grande affresco di Gio Ponti, un episodio pittorico unico nelle dimensioni. Come scrive la figlia Lisa Ponti: Il modo con cui Ponti copre di immagini le pareti dello scalone fa di questa grande superficie curva, tagliata a mezza altezza dal volo delle rampe, un «foglio» unico, continuo e senza peso, su cui le figure, frontali, campite nel vuoto, stanno sospese. I gradini della scalinata […] entrano nel gioco. Il grande foglio dipinto si svolge intorno al Palinuro” in marmo bianco di Arturo Martini17.
S. Bertocci, M. Bini, Le ragioni del disegno. Pensiero, forma e modello nella gestione della complessità, Gangemi Editore, Roma 2016, p. 864. 17 L. Licitra Ponti, op. cit., p. 117. 16
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Per l’architetto l’arte non è una decorazione, ma entra in maniera intrinseca e organica nell’architettura. Ponti non affresca soltanto a Padova, ma anche a Milano alcuni ambienti del Palazzo del Popolo d’Italia. Negli affreschi, ora distrutti, le figure non sono sospese nel vuoto, ma inquadrate in un gioco di ante dipinte che si aprono e chiudono, simile al gioco di ante degli armadi «fantastici» che Ponti progetta in questi anni18.
Infatti, fondamentale per Ponti è la collaborazione con Piero Fornasetti a partire dagli anni Cinquanta, con il quale realizza elementi d’arredo, come la sedia per l’appartamento Lucano (1952), decorandoli con un gioco divertente di superfici colorate, creando un continuum tra arte e architettura. L’architetto milanese ha un periodo di vera e propria passione per il lavoro di Fornasetti, concretizzatasi nelle collaborazioni di Casa Ceccato (1950), negli interni del Casinò di Sanremo (1950), negli uffici Vembi Burroughs (1950), nel negozio Dulciora a Milano (1949) e nella già citata Casa Lucano. Quest’ultima, denominata anche “Casa di Fantasia”, rappresenta la creazione di un ambiente irreale e teatrale: l’atmosfera viene enfatizzata dall’utilizzo delle decorazioni allegoriche su pareti dipinte in noce. Il gusto combinato della pittura di Ponti e delle finiture di Fornasetti falsificano la percezione volumetrica dello spazio. Le decorazioni di Fornasetti ispirano lo stesso Ponti a creare giochi di luce che definiscono poeticità all’interno delle architetture. Dunque, l’effetto illusionistico dell’arte e l’utilizzo dei materiali produce l’idea, che in Ponti rimarrà perenne e costante nelle sue ultime opere, che l’architettura è anche legata all’illusione. La capacità dell’architetto di esprimersi attraverso l’immagine e il disegno viene ampiamente sperimentata anche attraverso la collaborazione con un grande artigiano, Paolo De Poli, considerato il fondatore moderno di quest’arte in Italia già nel 1933. I suoi smalti affascinano Gio Ponti e la 18
Ivi, p. 121.
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collaborazione tra i due comincia nel 1940 con i pannelli disegnati dall’architetto e realizzati da De Poli per le sale del rettorato dell’Università di Padova. Altri pannelli vengono creati per gli interni navali, in quanto, durante il periodo della Ricostruzione, per rilanciare le industrie d’arte sul mercato, lo Stato affida agli artisti la progettazione degli interni delle grandi navi. Ponti stesso si occupa nel Conte Grande del salone di prima classe (1949), e nel Conte Biancamano dell’arredo di una sala di seconda classe (1949). Le navi progettate da Ponti, presentano innovazioni nei rivestimenti dei loro interni: pareti e colonne in leggerissimo alluminio e soffitti illuminati, grazie ai quali i bassi soffitti navali diventano leggeri spettacoli aerei19. Anche negli interni di navi, come negli interni di case di questi anni, Ponti scatena il divertimento decorativo per eccesso. Come nelle pagine di «Domus» di quel periodo – l’arte italiana che Ponti considera è rappresentata soprattutto dalla ceramica e dalla pittura, in dimensioni teatrali20. Infatti impiega le ceramiche di Fausto Melotti, i tessuti di Ferrari, i cristalli di Edina Altara, gli smalti di De Poli e i pannelli di Campigli, Sironi, Fiume e Santomaso. Le tendenze evolutive del design e dell’architettura sono da Ponti chiaramente evidenziate quando scrive: «Tutto va dal pesante al leggero, dal grosso al sottile, dall’opaco al trasparente, dallo scuro al chiaro, dall’incolore al colorato, dal frammentario all’unità, dal complicato al lineare. Chi va in senso inverso è in errore»21. Attraverso le Triennali tra il 1951 e 1957, le pagine di «Domus» e il libro Amate l’architettura (1957), Ponti si impegna a diffondere una serie di messaggi con la necessità di formare un nuovo gusto, una tecnica e una morale intorno all’oggetto di arredamento. Attraverso le abitazioni sperimentali presentate alle diverse edizioni delle Triennali, ingaggia un’indagine sulla distribuzione interna degli spazi, sulle nuove formule dell’abitare e sui nuovi modelli di comportamento indotti dalle trasformazioni sociali e del gusto. «Casa attrezzata» è uno slogan che Ivi, p.140. Ivi, p.136. 21 Ivi, p.157. 19 20
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riassume una serie di invenzioni pontiane, che hanno dato un’impronta nuova all’ambiente domestico e che hanno poi avuto uno sviluppo anche nella concezione spaziale degli uffici. Alla base c’è il concetto di compattare varie funzioni all’interno di un unico mobile e di progettare un oggetto plurifunzionale e polimaterico, in cui si concili il binomio forma e tecnica22. Alcune di queste invenzioni sono la parete attrezzata, la finestra arredata, i mobili autoilluminanti, gli arredi a meccanismo e gli arredi smontabili in pezzi. Esempi realizzati sono: le poltrone “Lotus” (1956) e “Due foglie” (1956), prodotte da Cassina; i tavoli con piani ribaltabili che si trasformano a seconda delle esigenze (1952-54); il divano “Arflex” (1966); la poltrona smontabile “Round” (1956). In questi esempi l’arredo assume una duplice funzione, in quanto esso viene utilizzato come dispositivo che tende alla meccanizzazione e alla dilatazione dello spazio domestico. Ponti intuisce che la nuova forma dell’abitare necessita di uno spazio domestico più flessibile, capace di accogliere molteplici funzioni, e che collabori con l’arredo stesso. Uno dei più grandi risultati di tale binomio è la sedia “Superleggera”, ideata nel 1955 e prodotta da Cassina, frutto tra tecnica costruttiva (espressa nell’incastro) e tecnica visuale (la sezione triangolare aveva assottigliato la struttura influenzando gli esiti estetici): «Una sedia-sedia, senza aggettivi, cioè una sedia normale con “quelle” qualità, una sedia-sedia e basta, leggera, sottile, conveniente[...]»23. La sua leggerezza permette all’utente di sollevarla e spostarla facilmente negli ambienti della casa, conferendole così diversi ruoli a seconda delle esigenze. Gli anni tra il 1951 e il 1954 possono essere considerati rivoluzionari per quanto riguarda la crescita e l’organizzazione dello sviluppo economico industriale italiana, che subisce un’improvvisa accelerazione, e, in parallelo, lo sviluppo dei concetti di casa economico-popolare, industrializzata, meccanizzata e permeata dall’ideologia del comfort. Verso la metà degli anni 22 23
Ibidem. G. Ponti, Senza aggettivi, in «Domus», n. 268, Marzo 1952, p.1.
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Cinquanta, infatti, prende avvio il dibattito sul good design del prodotto industriale dove l’oggetto di serie e di utilità per la casa interessa strati sociali sempre più ampi. Gio Ponti, con le sue «macchine utili», unisce la tecnica con l’eleganza formale. Infatti la macchina per cucire “Visetta” (1949) per Visa ha una forma che riassume tecnica, praticità ed economia produttiva. Tali caratteristiche sono raggiunte con un’estrema semplificazione formale e con la massima riduzione delle dimensioni24. Altri esempi sono: la macchina per caffè prodotta da Pavoni nel 1949, nota per la sua forma dinamica, e il progetto di auto per la Carrozzeria Touring (1952-53), che risponde con esattezza alle esigenze dell’utente, bellezza compresa. In tal modo Ponti sviluppa la teoria della «forma esatta», nel campo del design come per l’architettura, e si impegna per la fondazione del Collegio degli Architetti, dell’ADI-Associazione Design Italiano (1956) e del premio Compasso d’Oro (1954), per sottolineare e valorizzare la qualità dell’oggetto industriale25. I lavori versatili dell’intensa attività di Gio Ponti nel settore dell’arredo domestico sono molto più che un aggiornamento e una soddisfazione delle esigenze della nascente clientela medio-borghese. Attraverso essi viene proposta la ricerca di identità, che nello spazio della casa coincide con lo stile, e la ricerca di leggerezza, che si concretizza anche nelle architetture. Questi concetti (riflessioni proprie di Ponti nella necessità di un rinnovamento della società) vengono divulgati con il libro Amate l’architettura, l’architettura è un cristallo (1957). Nato dalla piccola architettura da tasca L’architettura è un cristallo (1945), il volume viene pubblicato come proseguimento di concetti esposti con la prima stesura. Aspetto fondamentale per l’invenzione formale e strutturale dell’architettura è la ricerca della forma finita: La forma cioè coincidente con la sua costituzione, la forma vera e non più mutabile, e, in più, una forma singolare, originale (non nel senso di bizzarro, ma in quello di non derivato da qualcosa di
La Pietra, op. cit., p. 152. Ivi, p. 157.
24 U. 25
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formalmente preesistente). Questo fatto mi indusse a rappresentarmi dunque l’Architettura come «forma di una sostanza» e non come «forma di forma»26.
Un esempio concreto di questo concetto è il Grattacielo Pirelli a Milano (1956-1961), che Ponti realizza con Giuseppe Valtolina; Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, Giuseppe Rinardi e Egidio Dell’Orto e strutture di er Luigi Nervi per le strutture la pianta è costituita da due poligoni speculari accostati, separati dal corridoio centrale che va rastremandosi alle estremità, determinando la superficie sfaccettata, “a diamante”, che si ritrova nella galleria interna. Questa architettura è «[…] pura come un cristallo, chiusa, esclusiva, autonoma […]»27; è il traguardo di una ricerca dell’edificio chiuso nella sua intangibile perfezione della struttura cristallina. Anche l’alzato è finito, già compiuto e il tetto è un coperchio, leggero come un foglio, appoggiato all’architettura del palazzo. Infatti, quello che secondo Ponti manca ai grattacieli di quegli anni è la «forma finita», poiché si potrebbero sempre ampliare sia in lunghezza che larghezza, rendendoli ripetibili all’infinito: Io oserei dire che il valore dell’architetto sta proprio nell’arrivare a far sì che l’edificio non esprima altro che quel ch’esso vuol essere, fino al risultato perfetto dell’edificio «cui niente si può aggiungere e niente si può levare»: sia esso una chiesa o una banca, uno stadio o una stazione, una villa, un ospedale, un palazzo per uffici, una casa o una scuola, […] in campagna o in città28.
Un altro tema, sottolineato nella progettazione di villa Planchart (1955) a Caracas, è la forma chiusa della casa, che però deve poter aprire delle prospettive verso l’esterno, creando scorci in tutte delle direzioni possibili:
G. Ponti, Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, Rizzoli, 1957, Milano 2015, p. 54. Ivi, p. 77. 28 L. Licitra Ponti, op cit., p. 157. 26 27
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[…] è una macchina, o se volete una scultura astratta in scala enorme, non da guardare dal di fuori, ma da guardare dal di dentro, penetrandovi e percorrendola: fatta per essere osservata girando continuamente l’occhio29.
Gli scorci visuali fanno sì che lo spazio interno interagisca in un modo continuo e interattivo con la progettazione degli interni e la loro suddivisione. Un altro importante principio di quest’architettura è la volontà di far apparire i muri di chiusura staccati gli uni dagli altri e sospesi sia dalla copertura che dal suolo e, durante la notte, l’illuminazione particolarmente studiata accentua questo distacco. Infatti, più che di volumi, l’edificio sembra fatto di piani sospesi: «senza peso né massa, […] la costruzione appare posarsi “amabilmente” sul terreno, come una farfalla»30. Negli ultimi anni della sua carriera l’impegno progettuale di Ponti è volto prevalentemente all’architettura di spazi pubblici e privati. Nei progetti realizzati tra il 1960 e il 1965 per gli alberghi di Sorrento e Roma e per l’Air Terminal Alitalia a Milano, propone soluzioni particolari come la scelta di un binomio di colori dominante (blu e bianco) e l’uso di un materiale come la ceramica, che viene utilizzata sia come espediente per giocare con luci e ombre sia per dimostrare la qualità della materia. In molte facciate di edifici studia l’effetto dinamico diurno e quello autoilluminante notturno: nei prospetti dei magazzini Shui-Hing (1978) a Singapore e in quelli del Palazzo per uffici INA (1963-1967) a Milano le aperture servono a dare luminosità allo spazio interno, ma anche a renderlo autoilluminante. Progetta inoltre edifici sacri, come, ad esempio, la Chiesa di San Francesco (1963) a Milano e la chiesa dell’ospedale San Carlo (1965) a Milano, entrambi rivestiti esternamente da piastrelle “a diamante” e lisce, di color grigio e con facciate bucate da esagoni verticali molto allungati. L’intento di Ponti è quello di creare un volume che sia sempre diverso a seconda dei punti di vista e dei momenti di osservazione. Le facciate, in quanto muri portati e non portanti, 29 30
Ibidem. Ivi, p.169.
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sono assimilabili a quinte visive, a schermi appesi alle strutture, che rispecchiano l’ultima idea di Ponti, cioè che l’architettura è anche paesaggio ed è imponente elemento di richiamo della città31.
31
Ivi, p. 321.
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2. La ricerca del Moderno
La rapidità e la concisione dello stile piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico, che in gran parte è tutt’uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per questi effetti, e non consiste in altro […]. GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, 1891
Nel periodo storico tra le due guerre (1919-1939), sotto l’influenza della cultura borghese, emerge il dibattito tra il rispetto della tradizione e la ricerca del Moderno nell’ambiente costruito. Questa ricerca deve la sua genesi da un lato alla maturità della società, in quanto la classe operaia diventa consapevole dei propri diritti, e dall’altro alle nuove possibilità tecnologiche, incentivate dalla sperimentazione e dall’utilizzo di nuovi materiali nell’architettura32. In questi anni, si sviluppano diverse correnti di pensiero, molto spesso in antitesi tra loro, che si sollecitano e influenzano reciprocamente per rispondere alle esigenze della nuova società e che portano questo dibattito ad una dimensione internazionale. Il critico d’arte Edoardo Persico scrive a tale proposito: […] Ma è possibile trovare nell’architettura di questo tempo uno stile comune alla civiltà europea? In questa domanda consiste il destino dell’arte moderna. Scuole nazionali e correnti internazionali, 32
L. Falconi, Gio Ponti. Interni, oggetti, disegni. 1920-1976, Electa, Milano 2005, pp. 21-24.
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tradizione e spirito nuovo sono problemi di tutte le epoche, ma questo secolo li ha impostati con una concretezza impressionante33.
Le Corbusier, considerato precursore dell’architettura moderna, insieme a Pierre Chareau e altri ventotto architetti, fonda nel 1928 il CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna), con lo scopo di definire i principi di uno stile comune. Ad esempio il congresso del 1930 dal titolo “Metodi razionali per gruppi di abitazioni” o quello del 1932 “La città funzionale” discutono i temi di cui l’architettura moderna deve farsi carico, come ad esempio il paesaggio e l’urbanistica, enfatizzando il valore sociale dell’architettura. Sul fronte del dibattito culturale di quegli anni, la questione tra tradizione e moderno prende in considerazione i criteri della funzionalità e i nuovi concetti estetici. In Italia si indaga su la definizione e formazione di un nuovo stile, nello specifico sul carattere architettonico italiano: «Il recupero della tradizione si avvale della mediazione dei trattati come strumento per interpretare l’antico e giunge alla definizione della casa all’italiana»34. All’interno di questa disputa riveste particolare importanza il tema della casa, che deve rispondere alle nuove esigenze, date dal cambiamento sociale, di chi abita. Più precisamente in quegli anni si pone la questione sulla villa come abitazione di campagna. La casina di campagna per una famiglia non può, dunque, riferirsi alla distinzione tra casa rurale e palazzo, né a quella tra il palazzo in città e la residenza di campagna, che non risponde alla situazione economica della borghesia terziaria […]35.
Il modello al quale i progettisti si ispirano è la villa, in particolare la villa “all’italiana”, su cui anche Ponti formula le sue prime teorie, che evidenzano E. Persico, L’architettura mondiale, in «Italia Letteraria», 2 Luglio 1933, p. 5. L. Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Mondadori Electa, Milano 2001, p. 54. 35 Ivi, p. 55. 33 34
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un forte rapporto tra l’abitazione e lo spazio aperto circostante, in quanto esso è considerato prolungamento dello spazio domestico. Scrive Giovanni Muzio: «La villa significa in ogni paese la dimora di campagna e in ogni paese si rifà ai modelli italiani»36. Lo stesso Ponti realizza “Disegno per una casina di campagna” (pubblicato sulla rivista «Domus» nell’Aprile del 1928), dove si trovano elementi che rimandano alla nuova concezione moderna della casa: «l’ingresso è costituito da un largo portico con colonne, che richiama la loggia a colonne o archi delle ville palladiane, senza, tuttavia, sporgere dalla fabbrica»37. In questa occasione il portico, elemento che rimanda alla tradizione latina, viene riesaminato da Ponti attraverso una lettura più moderna, connotandone un nuovo valore simbolico nella casa all’italiana. A tale riguardo scrive Luigi Piccinato (che collabora nel 1928-1929 con «Domus»): «Il portico risponde ad un uso pratico e ad un bisogno estetico del tutto meridionale ed italiano ed è, inoltre, una costante rintracciabile nei vari periodi storici, da Pompei a Palladio»38. Nel 1931, riguardo l’indagine sul nuovo carattere architettonico, Gio Ponti scrive una lettera a Roberto Papini, docente e storico d’arte, in occasione del suo progetto della “casa pompeiana”: […] Le costruzioni devono essere, attraverso la loro concezione, un’interpretazione della nostra civiltà, espressa essenzialmente dall’architettura e complementarmente degli arredi. Non devono essere assolutamente degli edifici rappresentativi sotto forma di una casa ma anzitutto e soltanto una nuovissima casa; la casa che noi architetti italiani moderni proponiamo alle generazioni future; una rappresentazione, in senso morale, della nostra civiltà, della civiltà che noi costruiamo. […] Noi dobbiamo interpretare, prevenire, precisare, esprimere le esigenze e lo spirito della vita moderna nell’ambiente in cui si svolge […]39.
G. Muzio, Ville italiane. La rotonda e la Villa Valmarana in Vicenza, in «Emporium», vol. LX, 1925, cit. in L. Miodini, op. cit., p. 55. 37 Ibidem. 38 L. Piccinato, Il portico nel giardino, in «Domus», n. 3, Marzo 1929, p. 12. 39 Fondo Archivistico R. Papini, Firenze, Biblioteca d’architettura, cit. in F.Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Mondadori Electa, Milano 1997, p. 31. 36
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Un altro tema che si definisce nella nascita del Movimento Moderno è la negazione e semplificazione della decorazione, in quanto non più necessaria alla rappresentazione di un potere. Un esempio tangibile è la Villa Bouilhet (1926) a Garches, progettata da Ponti insieme a Emilio Lancia. La villa è connotata da una semplificazione delle decorazioni Neoclassiche, osservabile soprattutto in facciata con l’assenza del cornicione alle finestre. La facciata, infatti, è modulata dalle aperture e dagli aggetti, mentre l’ingresso al salone centrale è caratterizzato da un’ampia vetrata, che accentua il valore dello spazio interno in dialogo con lo spazio aperto40. Verso l’inizio degli anni Trenta la casa assume una nuova concezione: non è più intesa solo come luogo fisico, ma viene definita come un «contenitore di vita». Questo principio, insieme all’applicazione delle nuove tecnologie, porta l’architettura moderna verso la teoria dell’abitazione minima, che si accosta anche, e soprattutto, all’esigenza di creare degli spazi per le classi meno abbienti, preservando, allo stesso tempo, un’ottima funzionalità. Si sviluppano molte ipotesi su questa tesi, una di queste è la machine à habiter di Le Corbusier, in cui si garantisce una qualità degli spazi per la vita dell’uomo, intendendo la casa come un vero e proprio strumento per abitare. Questa concezione porta lo spazio domestico a essere disegnato secondo le proporzioni umane, garantendo la massima comodità in uno spazio minimo. Lo stesso principio viene enfatizzato portando l’ambiente domestico a una standardizzazione, ossia creando la casa-tipo e il piano-tipo, che annientano l’individualità. […] L’estrema ed esclusiva ricerca dell’economia dello spazio ha allontanato la concezione dell’abitazione da una delle necessità naturali di noi uomini a cui le abitazioni sono dedicate: che è proprio il bisogno di spazio. […] La sola obbedienza a leggi o presupposti funzionali tecnici o teorici della casa moderna conduce a negare o a ridurre in essa proprio una delle sue elementari
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M. M., L’ange volant casa di Tony H. Bouilhet a Garches, in «Domus», n.45, Settembre 1931, p. 24.
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funzionalità la quale è quella di rispondere alle fondamentali esigenze della nostra vita amante di spazio, di quiete, di agevole riposo, di libertà41.
Questo argomento è molto sentito da Ponti, tanto che nel 1949 prende parte al piano INA-Casa in collaborazione con studio Figini Pollini, in cui vengono ricostruiti interi quartieri per dare abitazioni ai lavoratori del dopoguerra. Il quartiere è concepito disponendo al centro la zona dei servizi (scuola, asilo e negozi) e a seguire le ampie zone verdi, delimitate da edifici disposti ortogonalmente tra loro e da case unifamiliari a un piano. Per Ponti l’uniformità e la standardizzazione degli edifici «impongono all’uomo un senso di obbligatorietà» 42: infatti cerca di creare, mediante una disposizione di edifici differenti, anche per colore, un paesaggio architettonico. Insieme a Antonio Fornaroli progetta la casa bianca e gialla, mentre con l’ingegnere Gigi Ghò progetta la casa bianca e rossa. Entrambi i lavori abbracciano uno dei temi più cari a Ponti, cioè la ricerca della forma finita: infatti «entrambe non si possono accrescere né in lunghezza né in altezza»43. È fondamentale, per Ponti, che gli edifici popolari vengano progettati come delle vere e proprie architetture, in quanto “specchi” del popolo e della società. Come lui stesso scrive: Al popolo dobbiamo dare tutto; al popolo vanno cioè dedicate delle vere e proprie architetture. [...] Dobbiamo, il popolo, onorarlo con l’architettura, e bisogna che esso si onori di sentire che alla sua abitazione si è dedicata una architettura44.
Il carattere dell’abitare minimo viene interpretato anche per la progettazione dello spazio dedicato al lavoro. Infatti, nel 1936-1938, Gio Ponti, insieme ad Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini, progetta il Palazzo Montecatini a G. Ponti, La casa all’italiana, in «Domus», n. 1, Gennaio 1928, p. 7. G. Arditi C. Serratto, Gio Ponti. Venti cristalli di architettura, il Cardo, Venezia 1994, p. 111. 43 Ivi, p. 112. 44 G. Ponti, Perché oggi tanto interessa l’architettura?, in «Domus», n.55, Luglio 1932, p.39. 41 42
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Milano. L’architetto pone una particolare attenzione agli aspetti primari per il benessere del lavoratore: studia l’organizzazione interna dell’edificio in rapporto alle esigenze e allo svolgimento del lavoro all’interno nell’ambiente. Come commenta Giuseppe Pagano, direttore di «Casabella» tra il 1933 e il 1941: La storia dell’architettura moderna deve essere riconoscente in modo particolare agli industriali. Non soltanto per le costruzioni delle fabbriche, dove nuove libertà architettoniche e nuovi materiali e nuovi sistemi costruttivi sono stati imposti o suggeriti dalle stesse necessità funzionali della produzione, ma anche per la creazione più rappresentativa delle moderne organizzazioni: gli uffici delle grandi amministrazioni45.
L’edifico si allontana dalla costruzione architettonica tradizionale dei palazzi per uffici, in quanto Ponti decide di non svilupparlo ricoprendo l’intera area del lotto, la cui forma è quella di un quadrilatero. Egli realizza una pianta a forma di H rastremata: le ali laterali, posizionate rispettivamente a nord e sud, sono destinate agli uffici di tutto lo staff Montecatini, mentre il corpo centrale accoglie gli uffici dei dirigenti, i servizi e le aree principali di accesso e distribuzione ai piani. Una delle peculiarità di questo edificio è la forma atipica della pianta, che si discosta dalla conformazione classica del palazzo quadrato a corte interna. Dallo studio della facciata, caratterizzata dall’assenza di modanature e rilievi, è facilmente individuabile un modulo dato dal ritmo essenziale delle aperture in alluminio: questa ritmica del prospetto evidenzia leggerezza e semplicità costruttiva e permette di individuare il sistema distributivo interno e l’organizzazione degli uffici. Per la prima volta in Italia notevole importanza rivestono gli impianti: sono adottate tecnologie avanzate, garantendo una semplificazione della loro distribuzione e donando loro un valore estetico maggiore.
G.Pagano, Alcune note sul palazzo della Montecatini, in «Casa-bella», n. 138-139-140, Giugno Luglio Agosto 1939, pp. 2-4.
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Ponti cura tutti gli aspetti del palazzo, dalla scala architettonica e strutturale alla scelta dei materiali fino al design degli arredi. Infatti l’estetica dell’edificio è connotata dall’impiego innovativo dell’alluminio (nella copertura, nei serramenti, nelle porte interne e nei cancelli esterni), che si unisce al rivestimento esterno di marmo cipollino e cristallo, conferendo all’intera costruzione una perfetta «fisionomia estetica». Nello spazio interno Ponti attua la maggior ricerca stilistica: suddivide l’ambiente da sole pareti mobili e realizza delle cellule ufficio (dai 3,54 ai 4,12 mq) per un massimo di quattro lavoratori determinando così un modulo ripetibile. Studia e progetta i mobili in alluminio, come le sedie per la dattilografia e quelle per i visitatori, in modo da rispecchiare l’estetica dell’intero fabbricato. Nel progetto la ricerca tecnologica degli impianti, l’estrema razionalizzazione degli spazi, la sperimentazione dei materiali sono spinte al massimo ed è questo il campo dove si muove con grande audacia la modernità di Ponti46.
Il palazzo per uffici è un punto di riferimento significativo per la società dell’epoca e, soprattutto, per i progettisti futuri e può essere così definito: Il palazzo della Montecatini rappresenta nella produzione di Ponti, un «cristallo» in cui l’interazione tra architettura e ingegneria, tra arte e tecnica, tra forma e funzione raggiungono, per l’impegno dei progettisti, la loro completa espressione47.
Le ultime declinazioni stilistiche dell’architetto Ponti, che cambiano radicalmente la concezione dell’architettura moderna e ne fondano le radici, riguardano le architetture religiose, ritenute da lui stesso muse ispiratrici per il suo lavoro: «Meravigliosa ventura quella degli architetti, concessa da Dio: costruire la Sua casa e costruire per gli uomini, nella Sua ispirazione, la loro
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G. Arditi, C. Serratto, op. cit, p. 77. G. Pagano, Alcune note sul palazzo della Montecatini, in «Op.cit.», pp.138-140.
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casa, il tempio della famiglia»48. Uno degli ultimi e più importanti lavori dell’architetto è la chiesa Gran Madre di Dio (1970), concattedrale di Taranto. Egli ritiene che l’architettura dev’essere innanzitutto piacevole alla vista e realizza una facciata “a vela”; sviluppandosi in altezza e sovrastando il volume della cattedrale, essa acquisisce un carattere dominante nell’edificio: questa soluzione ha la finalità di dilatare lo spazio interno come una cupola. Come scrive Ponti in un articolo della rivista «Domus»: la facciata maggiore «deve essere accessibile solo allo sguardo e al vento»49; infatti, la superficie della facciata principale in cemento armato bianco viene traforata da ottanta aperture di diverse forme e dimensioni, affacciate sull’«immenso»50e incorniciano una ricca natura e il cielo. Una parete piena e pure traforata da ogni parte dal vento, straordinariamente iridescente di ribattiti e raggi diretti di luce, di ombra e di chiaroscuri leggerissimi. Sembra che vi si impiglino le nuvole. Una materia che gioisce nel salire verso il cielo conscia della sua trasfigurazione felice51.
Per quanto concerne la conformazione dell’edificio, esso si sviluppa su una pianta di forma rettangolare e presenta un’unica navata che si dirama ai lati nei due volumi minori. Internamente si estendono semplici pareti bianche e luminose che sono in continuità con il carattere esterno dell’edificio. «Dentro la cattedrale sono soltanto muri, bianchi, e colori dati artigianalmente a mano, su campioni di mia mano, su ispirazione del momento […]»52. Ponti reinterpreta i caratteri delle chiese tradizionali locali attraverso semplici gesti quali la scelta di un unico materiale sia all’esterno che all’interno e l’utilizzo di un impianto planimetrico unico, mantenendo sempre la monumentalità della cattedrale. La singolarità della chiesa è interamente centrata nell’alta e grande vela che, con il suo ritmo compositivo, G. Ponti, Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p. 276. G. Ponti, La religione, il sacro, in «Domus», n. 497, Aprile 1971, p. 15. 50 G. Arditi, C. Serratto, op. cit., p. 185. 51 Ivi, p. 188. 52 Ivi, p. 185. 48 49
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«la estende oltre le dimensioni fisiche»53. La posizione degli altri due fabbricati conferisce alla struttura primaria una maggiore centralità, diventando un punto di riferimento spirituale e urbanistico: simbolo di una città che si sta evolvendo. Dunque Ponti mette a punto una concezione di città che è strettamente legata allo sviluppo verticale dell’architettura e alla leggerezza delle facciate. Come lui stesso sostiene: «la storia dell’umanità avanza dal pesante al leggero, dal grosso al sottile: la profezia della “leggerezza” auspicava l’avvento di “uno stile leggero” e trasparente, semplice, collegato ad un costume sociale semplificato»54. L’architetto, infatti, concepisce la leggerezza, la smaterializzazione delle facciate e l’aspirazione alla verticalità come alcune tra le risposte moderne al nuovo modo di costruire del ventesimo secolo, mutando radicalmente lo skyline delle città e attribuendo alla natura un’importanza singolare.
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Ibidem. M. Casciato, F. Irace (a cura di), Gio Ponti. Amare l’architettura, MAXXI, Roma 2019, p. 7.
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PARTE II. LA CASA ALL’ITALIANA: UNA NUOVA CULTURA DELL’ABITARE
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1. Gli interni domestici degli anni Trenta
«Fino al 1920 la produzione e la vendita del mobilio in Italia è collegata non solo alle condizioni finanziarie dei compratori, ma anche ai modelli di produzione consolidati»1. In quegli anni, i principali produttori dell’arredo sono infatti gli artigiani locali, i quali seguono la tradizione fondata sui principi della durabilità dei manufatti e sul gusto tipico regionale. La cultura della decorazione degli interni negli anni Venti e Trenta del Novecento è sottoposta a cambiamenti dovuti a una serie di fattori, come la trasformazione del gusto, veicolata da giornali, riviste e radio, e l’utilizzo di nuovi materiali più economici, legati ai concetti dell’essenzialità e dell’igiene. «Il 1930 segna l’inizio di un cambiamento nel comportamento dei produttori e delle famiglie»2. Lo sviluppo degli interni domestici, in Italia, rivela una serie di conflitti tra l’ideologia fascista e la cultura abitativa borghese: mentre il fascismo cerca di imporre prototipi basati su valori familiari e una vita agreste, esaltando dunque i caratteri di una casa rurale, i modelli della nuova cultura borghese, incentrati sull’individuo e sul gusto, trovano una loro definizione e diventano facilmente usufruibili da tutti. Infatti durante il periodo fascista «la casa è vista come il perno della salvaguardia della cellula famiglia, nucleo portante di ogni società “ordinata”»3 e, insieme al dibattito sul valore legato alla figura della donna, si cerca di esprimere all’interno dell’abitazione i tratti caratteristici della nuova borghesia: possedere una casa rispettabile permette l’ottenimento di uno status sociale più elevato. L’attenzione verso gli interni domestici è collegata al desiderio di ricostruire S. Storchi, Beyond the Piazza: Public and Private Spaces in Modern Italian Culture, Pie Peter Lang, Brussels 2013, p. 57. Ivi, p. 58. 3 M. Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 13. 1 2
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quel valore familiare messo in dubbio dal conflitto sociale e alla volontà di progettare interni più confortevoli per i lavoratori, seguendo il principio di sobrietà e di salubrità, che vanno di pari passo con la necessità per la donna di assumere un nuovo ruolo. L’architetto Adalberto Libera, sulla base di un’indagine eseguita, durante la guerra, dall’INA-Casa, classifica quattro stili abitativi che si distinguono in Italia, cioè: La famiglia che vive praticamente, per quanto è vita collettiva, nel locale soggiorno-cucina-pranzo, unico ambiente e che quindi conforma quel locale e disciplina tutto l’alloggio secondo questo particolare modo di vivere. […] Nel napoletano, vediamo che lì c’è tutta una mentalità, una abitudine di vita ed una psicologia completamente diversa. Usano avere il salotto buono, che serve solamente per le mosche, che sta dislocato direttamente all’ingresso; poi c’è la porta di casa e la cucina dentro la casa, legata con le stanze da letto. Naturalmente, mangiano in cucina. In altre zone d’Italia abbiamo un’altra soluzione classica, della cucina che serve solamente per cucina e la stanza da soggiorno-pranzo. E infine c’è ancora un altro caso, quello della stanza pranzo e cucina e il soggiorno separato, a salotto. […]4.
La priorità nelle nuove costruzioni borghesi, che vogliono distinguersi da quelle operaie e contadine, è la rappresentazione della vita di tutti i giorni, in quanto la casa è considerata una “macchina”, che deve rispondere «al dinamismo della vita attuale»5, dove «le relazioni domestiche sono rigorosamente gerarchiche»6. La vecchia distribuzione interna degli ambienti (rappresentanza, abitazione e servizio) viene sostituita da una ripartizione moderna, basata sul modello americano e inglese, che prevede due zone distinte: la parte dell’abitazione diurna e la parte dell’abitazione notturna e di servizio. Inoltre, nella configurazione interna si demarca una forte divisione A. Libera, Problemi dell’arredamento della casa economica (resoconto del convegno tenuto alla Triennale di Milano il 10 Novembre 1945) in «La casa. Quaderno a cura dell’Incis», n. 2, Aprile 1956, p.63. M. Salvati, op. cit. p.28. 6 Ivi, p.16. 4 5
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tra interno ed esterno: «porte chiuse, finestre e tende separano l’interno e proteggono la casa dalle intrusioni dell’esterno»7. Dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento si assiste a una evoluzione funzionale ed estetica dei diversi ambienti della casa; infatti gli interni borghesi dell’Ottocento si contraddistinguono per il loro carattere crepuscolare, illuminati da una luce che viene filtrata dallo spessore delle tende e dalle piante. La finestra, lasciando penetrare l’esterno, potrebbe turbare l’unità dell’ambiente, dunque è aborrita, così come la luce del sole che rischia di sbiadire gli oggetti: la luminosità è affidata alla policromia e all’accostamento di tessuti di diversa qualità e lucentezza; l’Oriente penetra negli interni borghesi con la magnificenza dei tappeti e lo splendore delle sete […]; il bianco, il nemico del colore, è osteggiato, così come l’esposizione, nuda, di superfici in muratura8.
Alla fine del secolo, l’interno domestico borghese mira all’ostentazione del lusso, dominato dall’amore per il luccichio e lo sfavillio. Questo eccesso di decoro, come si nota anche dalle opere pittoriche del tempo, elegge gli oggetti inutili, gli addobbi e i fronzoli a protagonisti dell’arredamento. La stanza che riveste maggiore importanza all’interno della casa è quella che inizialmente viene chiamata salotto, una camera costituita dall’arredo più prestigioso e maggiormente confortevole (divani, sedie, specchi, mensole) e da suppellettili decorative e simboliche (quadri, oggetti d’argento e cristallo), che rappresentano gli affetti e lo stato sociale della famiglia. Come afferma Gino Bianchi – impiegato alla società strade meridionali, nel libro Risultanze in merito alla Vita e al Carattere di Gino Bianchi dello scrittore Piero Jahier del 1915: L’alloggio, vicinissimo all’ufficio, componevasi di vani 5, dei quali uno adibito a salotto buono, gli altri ad abitazione della famiglia. Il salotto buono serve a poter tenere in disordine le rimanenti 7 8
E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 22. M. Salvati, op. cit, p. 26.
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stanze. Sta sempre chiuso il salotto buono: tutto sanguigno di cinabrese; nel mezzo oscilla la lampada velata di tulle con duplice giro di candele a torcia, che possono anche venire accese. C’è un tappeto che serve per essere scansato […]9.
L’inutilità, l’insalubrità, la mancanza di igiene e di luce e il pessimo gusto sono alcune delle critiche che vengono mosse al concetto di casa borghese nel periodo interbellico. Ne consegue la scelta di abolire il salotto ottenendo, così «una deminutio della sfera privata, che ora si racchiude tutta nella cerchia familiare»10. Il salotto diventa l’emblema di tutto ciò che la modernità vuole superare; infatti viene sostituito dalla cosiddetta stanza di soggiorno; luogo dove si vengono a creare nuove relazioni interne al mondo familiare. In questo contesto si colloca, nel 1928, la rivista «Domus» diretta da Ponti, la quale ha l’obiettivo di diffondere e promuovere uno stile innovativo della casa borghese, orientando la società verso una nuova idea del gusto. Ponti, infatti, può essere definito l’ideatore dell’arte e dell’architettura del Novecento, come viene osservato da Giorgio Ciucci: egli si presenta come l’interprete del «gusto Novecento» rendendo stile ogni ricerca formale col fine di legare linguaggio formale e funzionalità sociale e cioè di definire una forma che abbia una precisa destinazione sociale […]11.
Dai primi numeri della rivista «Casa e lavoro: come vorremmo la nostra casa» del 1929 emerge come l’ambiente di disimpegno della zona notte, un semplice corridoio e un’illuminazione ridotta, venga sostituito dal locale soggiorno. Infatti, come scrive Mariuccia Salvati: presso gli inglesi e gli americani specialmente, ed ora nelle costruzioni moderne anche da noi, si dà a questo ambiente una particolare importanza per spazio e luminosità che lo rendono il posto
P. Jaheir, Risultanze in merito alla Vita e al Carattere di Gino Bianchi, Quaderni della Voce, Firenze 1915, p. 43, cit. in M. Salvati, op. cit, p. 27. 10 M. Salvati, op. cit, p. 28. 11 Ivi, p. 42. 9
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principale della casa, il centro intorno a cui si svolge la vita della famiglia, il posto di ritrovo, e anche l’ambiente artisticamente più curato12.
Il salotto tradizionale diventa la stanza dove trascorrere il tempo libero, chiacchierare con i parenti o gli amici e trattenere gli ospiti, poiché dall’originale disposizione degli spazi, sostituiti dalla nuova conformazione interna degli ambienti suddivisi in zona giorno e zona notte, i locali per ricevere delle residenze borghesi ottocentesche non esistono più. La sala soggiorno diviene, quindi, il centro del nucleo familiare, dove si rispecchiano le abitudini della famiglia. […] è in questa camera che dovranno preferibilmente prender posto i libri: nel «salotto moderno», cioè, nella stanza dove più si vive, dove essi non possono che essere i benvenuti, contribuendo un poco a dare all’ambiente un tono di serietà che non sarà musoneria: un tono di pensiero e di vita intellettuale che non sarà mera apparenza e vuota ostentazione13.
L’elemento decorativo floreale che caratterizza l’arredamento degli interni degli inizi del Novecento viene sostituito, con l’Esposizione di Parigi del 1925, da un ornamento lineare e pulito, assumendo un carattere più razionale, che viene definito da Le Corbusier e Robert Mallet-Stevens come «un nuovo stile nel quale ogni mobile viene ricondotto a un’equazione diretta della linea più breve e che segna, può dirsi, il trionfo della geometria in tutto l’arredamento interno»14. Infatti il mobilio moderno è dotato di una raffinatezza estetica essenziale, che «dà alla nostra mente la sensazione di assoluta semplicità e verità»15. Questo risultato è raggiunto attraverso un processo che stimola l’eliminazione di elementi inutili, quali abat-jours, consoles, tappezzerie adornate da fiori, mobili pesanti, per dare spazio a pareti nude a Ivi, p. 44. Ibidem. 14 Ivi, p. 47. 15 Ivi, p. 54. 12 13
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tinta unita, ad ambienti più intimi, privi di decorazioni eccessive, più illuminati e ariosi, caratterizzati da un mobilio semplice, utile ed economico: è così che si pone fine all’abbondanza che persisteva negli ambienti delle residenze di un tempo. Nella progettazione degli appartamenti la pianta della casa si modifica per ricavare nuovi ambienti. Quello che più simboleggia la famiglia borghese italiana è il locale studio che, con la sua presenza, rappresenta un ceto sociale in crescita e, quindi, segna un’epoca in evoluzione. Lo studio diventa il luogo più riservato all’interno dell’abitazione, dove vi è la massima intimità. Un esempio delle prime applicazioni si riscontra nella casa Marmont (1934-1936) in via Modena a Milano di Gio Ponti. Come viene illustrato in «Domus» (1934), nella planimetria si distinguono «lo studiolo (per le conversazioni, per ricevere estranei, per l’isolamento), la sala di soggiorno e [la sala] per i pasti»16. Un ulteriore punto di svolta nel dibattito sugli interni domestici della casa moderna, riguarda la cucina, che rispetto agli altri ambienti della casa, subisce un lento processo di razionalizzazione. Agli inizi del Novecento in Italia il modello di riferimento nell’organizzazione dello spazio della cucina borghese è quello della casa vittoriana. Come illustrato ne Il Manuale dell’architetto di Daniele Donghi del 1905, lo spazio della cucina si sviluppa in due ambienti principali: la cucina, adibita alla cottura del cibo, in cui perimetralmente vengono disposti i fornelli in ghisa e il focolare e nel centro un tavolo da lavoro; il retrocucina, destinato alla preparazione dei cibi e al lavaggio delle stoviglie. L’altro ambiente che interagisce con la cucina è lo spazio dedicato alla credenza, che funge anche da filtro con la sala da pranzo17. Questa organizzazione dello spazio rispecchia la gerarchia sociale: la cucina è destinata alla servitù, mentre l’ambiente riservato alla famiglia è la sala da pranzo. In America, nei primi decenni del secolo, si inizia a sviluppare l’idea di organizzazione razionale del lavoro, in cui lo spazio deve garantire la 16 17
G. Ponti, Interpretazione dell’abitazione moderna, in «Domus», n.77, Maggio 1934, p. 8. Cfr. D. Donghi, Il Manuale dell’architetto, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1925, vol. II, p. 67.
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massima funzionalità e praticità. Seguendo il saggio The Principles of Scientific Management (1911) di Fredrick Winslow Taylor, in cui si espone l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche seguendo i principi del taylorismo, Christine Frederick pubblica sulla rivista «New Housekeeping» del 1912 una serie di articoli in cui sviluppa, attraverso un metodo scientifico, la disposizione degli spazi della casa. I movimenti e i percorsi che la donna di casa esercita all’interno dell’abitazione per svolgere le varie mansioni suggeriscono l’organizzazione interna delle stanze e la sequenza di queste18. Deve essere studiata secondo i principi organizzativi di ogni altra officina. Un fabbricante organizza la sua fonderia, il suo frantoio, o la sua stamperia con l’idea di risparmiare lavoro, con lo scopo ultimo di economizzare il denaro. Quando risparmio lavoro in una cucina, noi risparmiamo le forze della casalinga, e possibilmente del denaro19.
Anche in Europa, dopo il primo conflitto mondiale, soprattutto per le case destinate al ceto medio e operaio, si cerca di comprimere lo spazio dell’abitazione garantendone la massima funzionalità. L’aspirazione del Movimento Moderno verso una miglior qualità della vita, una relazione tra spazio e arredi, un maggiore comfort e praticità induce alla realizzazione della cucina Frankfurt küche progettata dall’architetto Margarete Schütte-Lihotzky nel 1926. La cucina viene presentata per la prima volta al III Congresso Internazionale per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro tenutosi a Roma. In questo ambiente il mobilio su misura è disposto linearmente per consentire un lavoro più rapido, mentre lo spazio, largo all’incirca 190 cm, consente il suo utilizzo ad una persona alla volta. Questo progetto ha un grande impatto sui contemporanei, tanto che nel 1940 Lillian Moller Gilbreth, psicologa e ingegnere industriale, sviluppa il modello del work triangle, ancora oggi utilizzato per la progettazione delle cucine moderne, in cui la cucina viene disposta in maniera tale da creare una relazione tra i tre 18 19
Cfr. I. Forino, La cucina. Storia culturale di un luogo domestico, Einaudi, Torino 2019, p. 158. L. Gibson, Convenient Houses, s.e., s.l., 1889, p. 40, cit. in I. Forino, op. cit., p. 121.
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principali spazi del lavoro, quali i fornelli, il lavandino e il frigorifero, garantendo la massima efficienza dello spazio20. Come descritto in «Domus»: Si è chiamata assai spesso la cucina «il cuore della casa» e infatti le cucine di un tempo, tutt’altro che razionali e igienicamente perfette, emanavano un calore che non era solamente dovuto al fuoco dei fornelli, ma proveniva dai bei rami splendenti, dal profumo delle pietanze più copiose e più ricche di quelle di oggi, dalla presenza di un personale di servizio che, assai di frequente, finiva col far parte addirittura della famiglia dove rimaneva per lunghissimi anni, e perfino per tutta la vita. La cucina di oggi, se ha perduto qualcosa della sua accogliente, cordiale atmosfera, ha tuttavia guadagnato in razionalità e igiene, e le modernissime cucine, chiare, luminose, con una ben intesa disposizione dei mobili, sono in fondo soprattutto studiate in modo da facilitare al massimo la padrona di casa tanto spesso priva oggi di personale di servizio, o personale ridotto ad una sola persona e non sempre esperta, la non lieve fatica della preparazione dei pasti21.
Se da una parte la ricerca del Moderno porta a una miglior condizione di igiene e una massima funzionalità degli spazi, dall’altra allontana l’identificazione dell’individuo in un nucleo familiare che è solita crearsi all’interno della casa. Quale sarà la nostra casa, domani? È il titolo di un articolo di Ponti su «Domus»22: la risposta sembra essere una casa guidata da luce e aria, organizzata in spazi aperti qualificati da semplicità delle forme, chiarezza estetica ed impreziosita da oggetti validi: uno stile italiano, che include anche tecnologie moderne e che va in contrapposizione con la tradizione che replica falsi antichi.
Cfr. I. Forino, op. cit., p. 192. L. Rossi e F. Matricardi, Il cucchiaio d’argento (1950), cit. in I. Forino, op. cit., p. 260. 22 G. Ponti, Quale sarà la nostra casa, domani?, in «Domus», n. 49, Gennaio 1932, p. 68. 20 21
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2. L’idea pontiana dell’abitare moderno
L’epoca storica degli inizi del Novecento, in cui si studia la definizione del Moderno, vede Gio Ponti come uno dei protagonisti. Come già illustrato precedentemente, la sua attività lo porta a esplorare diversi ambiti del progetto rendendolo più consapevole dell’evoluzione della società e suggerendogli che il cambiamento moderno non può fermarsi solamente ai valori estetici, ma deve considerare valori etico-morali23. Nel 1932 Ponti definisce «il concetto moderno dell’abitazione»24, che deve essere una rappresentazione della vita contemporanea e che deve restituire, soprattutto con la forma della casa, i valori della società. Negli stessi anni egli si avvicina alla figura del critico d’arte Edoardo Persico, di cui condivide la visione della modernità e del dibattito sul rinnovamento. Quest’ultimo li definisce: come una necessità e come un accordo degli atteggiamenti del nostro tempo. La contemporaneità delle opere d’arte, applicata e industriale, ci è sempre parsa una guida necessaria e inevitabile, e l’unico criterio per giudicare avvenimenti e realizzazioni. Un problema, come si vede, non solo estetico, ma morale25.
Al contrario della casa come macchina dell’abitare, in quanto oggetto che risponde perfettamente alle funzioni dell’uomo, Gio Ponti crede che la casa sia un contenitore di vita e, mettendo al centro l’uomo stesso, indaga sulle nuove necessità e sui nuovi bisogni della società. «La casa accompagna la nostra vita, è il vaso delle nostre ore belle e brutte, è il tempio dei nostri Cfr. F. Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, Milano 1988, pp. 12-13. G. Ponti, Quale sarà la nostra casa domani?, in «Domus», n. 49, Gennaio 1932, p. 2. 25 E. Persico, Il nostro lavoro nel 1930, in «La Casa Bella», n. 36, Dicembre 1930, p. 10. 23 24
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pensieri più nobili»26. Per Ponti il valore dell’architettura non si ferma solo all’involucro esterno, ma si sviluppa anche e soprattutto nell’invaso architettonico, in cui si riesce a sviluppare l’idea di casa perfetta, che «è quella che ci arresta sulla soglia aperta intimiditi dal suo segreto umano e dalla sua bellezza architettonica»27. La sua definizione del Moderno segue lo sviluppo di uno stile in cui le persone riescono a identificarsi. Per Ponti lo stile «è il carattere comune e diffuso che renderà riconoscibili opere e oggetti per la nostra vita»28 e, ancora una volta, appoggia il pensiero di Persico, che pubblicando sulla rivista «Casa Bella» la rubrica L’ascensore in miniatura, ne dà una propria definizione: «uno Stile non è soltanto la cosa, come pretenderebbe un classico, ma è anche l’uomo, come affermano i romantici»29. Mentre nella rubrica Stile. Un modo di essere afferma: La creazione di uno stile non è mai l’impiego di uno sforzo solitario, ma la collaborazione vivente di tutta un’epoca […] Bisognerebbe guardare attentamente, non solo, come voleva Leonardo, nelle macchie che fa l’umidità sui muri o nelle nuvole, ma al gesto istintivo che facciamo per raccattare un guanto a una signora, alla linea che disegna una donna quando si mette il cappello. Lo stile è determinato, così, da un complesso di prove; si tratta, in seguito, di promuovere l’evidenza allo stato di creazione. Innalzare l’apparenza alla sfera della poesia30.
Il concetto di stile si differenzia da quello di moda: la moda si ferma in superficie rispetto al cambiamento estetico e non è una vera trasformazione ideologica; la casa, invece, essendo un elemento attivo, che accompagna la vita dell’uomo, «non deve essere di moda perché non deve passare di moda»31. G. Ponti, La casa di moda, in «Domus», n. 1, Agosto 1928, p. 26. Id., Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova 1957, pp. 107-108. 28 Id., Arte e industria, in «Domus», n. 1, Gennaio 1928, p. 73. 29 E. Persico, L’ascensore in miniatura, in «La Casa Bella», n. 33, Settembre 1930, p. 53. 30 Id., Stile. Un modo di essere, in «La Casa Bella», n. 29, Maggio 1930, p. 47. 31 G. Ponti, La casa di moda, in «Domus», n. 1, Agosto 1928, p. 26. 26 27
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Considerando lo stile un fatto attivo, che va coltivato e a cui si giunge solamente dopo uno studio accurato, Ponti si fa carico della divulgazione e dell’educazione della società al buon gusto; ne sono esempio le riviste da lui fondate, «Domus» e «Stile», e le esposizioni di cui è direttore, come le molteplici Biennali di Monza e le Triennali di Milano, in cui cerca di promuovere il concetto di modernità. L’istinto è una buona guida, ma come controllare la finezza? … più che il così detto buon gusto … conta per noi il gusto, che è voglia di essere e conoscere, buon sangue nelle vene, vita appassionata, entusiasmo. […] Alla formazione di un gusto si concorre collegando ad una scelta delle forme moderne una conoscenza umana ed appassionata d’ogni movimento d’aria e cultura. È educazione, dunque un fatto attivo, non è una moda cioè un fatto da subire. Modernità non consiste nell’adottare quattro mobili quadrati! Consiste nel vivere con il pieno interesse tutto quanto in ogni campo - e specie in quello delle arti e della cultura - è espresso dal nostro tempo32.
L’elaborazione del nuovo gusto si afferma insieme al concetto della casa all’italiana, che l’architetto approfondisce in numerosi articoli della rivista «Domus» e nei progetti domestici degli anni Trenta. Egli prende in considerazione la definizione di una nuova regola stilistica, che si dissocia dall’antico, e di un valore umano dell’architettura. La casa all’italiana ripropone i più importanti elementi dell’architettura, come il giardino, le terrazze, i portici, le pergole e i loggiati, che rimandano al modello della casa pompeiana e che vengono adattati all’abitazione moderna. «Questi elementi, ambienti, vetrate, terrazze, si devono per forza introdurre nella impostazione del progetto di una casa, come si sono introdotti bagni offices ecc…»33. Come viene delineato nelle prime pagine dell’editoriale «Domus», Ponti scrive:
32 33
Id., Formazione di un gusto, in «Domus», n. 71, Novembre 1933, pp. 573-74. Id., La casa all’italiana, in «Domus», n. 1, Gennaio 1928, p. 7.
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Una stessa ordinanza architettonica regge dunque, in diversa misura, nella casa all’italiana, le facciate e gli interni ed ancora regola d’attorno la natura medesima con terrazze e gradoni, con giardini, appunto detti all’italiana, ninfei e prospettive, orti e cortili, tutti creati per dare agio e scena ad una felice abitazione34.
Per Ponti l’abitare moderno è una questione morale, che si sviluppa intorno al concetto di conforto, il quale, a sua volta, è dato dalla percezione dello spazio che si abita, quindi che si costruisce. La primaria funzionalità della casa è «quella di rispondere alle fondamentali esigenze della nostra vita, amante – nella casa – di spazio, di quiete, di agevole riposo, di libertà»35. In relazione alla progettazione degli interni domestici, egli ridimensiona gli ambienti progettando spazi sempre più ampi e luminosi, riconoscendo all’uomo il bisogno di spazio in quanto «un uomo vuole avere almeno in qualche ambiente della casa più di una parete che gli sia distante oltre 5 o 6 metri e, se è possibile, qualche soffitto almeno a 4 metri»36. Alla VI Triennale di Milano del 1936 Ponti espone un esempio di abitazione minima dove mette a punto alcuni degli elementi propri della casa all’italiana: una pianta, anche se dalle dimensioni ridotte, deve essere in grado di ospitare un terrazzo, per godere della vita all’aperto e per essere costantemente in contatto con la natura che accompagna l’abitazione37. L’elemento della finestra assume, nella casa all’italiana, un ruolo di fondamentale importanza poiché, oltre a mettere in relazione l’esterno con l’ambiente interno, diviene un mobile trasparente. Esso prende il nome di finestra-vetrina, la quale permette una maggiore e più ampia visuale interna degli spazi e sottolinea il carattere aperto dell’abitazione. Ponti centra l’intera costruzione intorno alla presenza dell’elemento libreria, in quanto egli sostiene che i mobili e
Ibidem. Ibidem. 36 Ibidem. 37 G. Ponti, Una abitazione dimostrativa alla VI Triennale, in «Domus», n. 103, Luglio 1936, pp. 4-5. 34 35
50
l’arredamento danno beneficio allo spirito dell’individuo e, come lui stesso scrive in un articolo di «Domus»: […] debbono servire alla nostra vita, alla conversazione, alla lettura, al riposo, al lavoro e non servire alla vanità sociale, tipica debolezza borghese. Al posto di questa vanità intervenga una ambizione civile che deve far trovare nella vostra casa i segni di una vita attiva, colta, attenta e aggiornata a tutte le manifestazioni del pensiero, e della vita contemporanea 38.
Infatti, per l’architetto, l’ambiente deve riuscire ad assumere tutte le trasformazioni possibili, anche attraverso la mobilità dell’arredo, poiché «l’arredamento non deve essere una cosa fissa, ma vivente»39. Quindi, secondo l’idea pontiana dell’abitare moderno, il nuovo arredo consente all’individuo di attraversare visivamente la maggior parte degli ambienti, caratteristica propria della casa all’italiana, e si conforma alla vita dell’uomo che è in continuo mutamento. Una stanza per la vita non è uno scenario fisso; né si deve fare l’architettura disponendo, in simmetrie o composizioni immutabili, i mobili contro le pareti… I mobili, e specialmente sedie e poltrone, siano leggere40.
Emerge così l’altro tema che Ponti svilupperà durante la sua attiva ricerca sulla modernità, cioè la flessibilità e l’adattabilità del mobile, di cui è rappresentativa la sedia “Superleggera” (1957) per Cassina, che diventerà simbolo di perfezione, in quanto accoglie perfettamente l’uomo e la sua vita e, allo stesso modo, ne configura lo spazio. Modernità è un atteggiamento di vivere, di pensare, di conoscere, di giudicare, prima che di arredare… Non è una novità nel dare una forma alle cose, ma è una novità nel pensare alle cose.
Ibidem. Ibidem. 40 Ibidem. 38 39
51
In che consiste questa novità nel pensare? Consiste nell’obbedire in linea pratica a un ragionamento, ed in linea estetica ad una armonia con la vita d’oggi e ad un imperativo di bellezza che è un ritorno a purezza, semplicità, qualità, scelta. Non è un cambiamento di forma, ma una «riforma» dunque, perché profonda, perché allacciata al senso che vogliamo penetrare ed esprimere
della vita d’oggi41.
41
Id., Falsi e giusti concetti nella casa, in «Domus», n. 123, Marzo 1938, p. 1.
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PARTE III. UN RACCONTO MODERNO: VILLA LAPORTE (1936)
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1. L’importanza dell’esterno
Tra le abitazioni più esplicative dell’architetto Gio Ponti, Casa Laporte a Milano costituisce l’esempio compiuto della sua idea dell’abitare moderno. Le domus tipiche di Ponti si trovano prevalentemente nella città di Milano (fig.1). Infatti Villa Laporte, progettata e realizzata nel 1935-1936, è collocata nella zona nord ovest della città, in prossimità della nuova area di City Life, esattamente in Via Benedetto Brin (fig. 2). L’abitazione è la seconda in cui l’architetto visse con la sua famiglia prima della Seconda Guerra Mondiale ed è la massima espressione del concetto di casa all’italiana. In un articolo di «Domus» dedicato alla villa, Ponti scrive: «questa costruzione realizza, fin dove le condizioni me l’hanno permesso, il carattere d’abitazione che è nel mio pensiero»1. La casa esprime la massima semplicità costruttiva, dimostrata dal volume lineare e proporzionato, ed è composta da singolari ambienti all’aperto, quali, ad esempio, giardini pensili, aiuole e orti, che suggeriscono gesti progettuali e rappresentano «il desiderio […] di avere nello stesso tempo intimo e familiare il nostro luogo di natura e di riposo»2. Ponti concepisce la villa seguendo un modello mediterraneo, considerando la giusta esposizione alla luce, il verde, lo spazio e l’ariosità come fondamenti della progettazione3. Dunque la villa è progettata a partire da un nuovo modo di pensare l’abitazione e l’esterno, con le sue terrazze e giardini, deve essere «l’elemento
G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano, in «Domus», n.111, Marzo 1937, p. 2. Ibidem. 3 Cfr. A. Cornoldi, Architettura dei luoghi domestici. Il progetto del Comfort, Editoriale Jaca Book, Milano 1994, pp. 154184. 1 2
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di cui la nuova casa deve dotarsi per corrispondere ai principi dell’igiene sociale»4 e per conferire, a chi la abita, la massima serenità. Nella casa all’italiana non vi è grande distinzione di architettura fra esterno ed interno: altrove vi è addirittura separazione di forme e di materiali: da noi l’architettura di fuori penetra nell’interno, e non tralascia di usare né la pietra né gli intonaci né l’affresco; essa nei vestiboli e nelle gallerie, nelle stanze e nelle scale, con archi, nicchie, volte e con colonne regola e ordina in spaziose misure gli ambienti della nostra vita. Dall’interno la casa all’italiana riesce all’aperto con i suoi portici e le sue terrazze, con le pergole e le verande, con le logge ed i balconi, le altane e i belvederi, invenzioni tutte confortevolissime per l’abitazione serena e tanto italiane che in ogni lingua sono chiamate con i nomi di qui5.
2.1. L’esterno domestico Il lotto su cui sorge l’edificio è uno spazio di risulta, perimetrato da un recinto, del quale l’abitazione costituisce una parte (fig.3). Emerge dalla pianta come lo spazio esterno sia parte attiva del progetto e garantisce diversi gradi di intimità (fig.4). Partendo dall’ambiente privato (fig. 5), dato dall’edificio stesso, si passa a una zona esterna recintata (fig.6), che prolunga la zona domestica verso l’aperto, e lo spazio del giardino, che consente l’utilizzo a tutti gli abitanti dell’appartamento, costituisce la zona condivisa (fig.7). Il progetto dello spazio aperto rispecchia il pensiero di Ponti: [...] Componiamo spazi e vedute, distribuiamo un verde prorompente tra i sassi ... aggiungiamo quei personaggi meravigliosi che sono gli alberi, giochiamo coi sassi come fanno i bambini (ma sassi enormi come mostri addormentati). Mai interrompere le vedute e i movimenti del terreno;
4 5
Ivi, p. 165. G. Ponti, La casa all’italiana, in «Domus», n. 1, Gennaio 1928, p.7.
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far vivere tutti gli spazi nella loro continuità irregolare, naturale. Ad architettura rigorosa e semplice come un cristallo contrasta bene un giardino disordinato [...]6.
All’interno dello spazio aperto l’architetto disegna dei percorsi in beola, oggi sostituita da ghiaia (fig. 8), che delineano delle zone di sosta (fig. 9), caratterizzate dalla pavimentazione verde e da elementi alberati, i quali garantiscono diverse ombreggiature durante le ore del giorno e permettono l’utilizzo del giardino durante l’intera giornata (fig. 10,11,12).
2.2. L’invaso suggerito Il contesto esterno all’abitazione è estremamente importante per concepire la scelta progettuale dell’architetto riguardo la disposizione interna degli ambienti. Lo studio dell’unità del volume, del rapporto proporzionale tra le aperture è attuato in relazione alla nuova concezione spaziale, e quindi all’importanza che per Ponti assumono le piante diverse ad ogni piano ed i volumi interni7.
Dalla composizione delle planimetrie della casa emerge come i locali principali, quali il soggiorno, le camere padronali ed il tetto-giardino, siano rivolti verso giardino (sud/est), mediante ampie vetrate che affacciano sul verde della natura. Per Ponti la finestra assume un ruolo importante, in quanto, oltre a far vedere cosa vi è fuori, è un luogo d’incontri e, come sottolinea Lucia Miodini: «l’apertura è un elemento fondamentale dell’architettura, sia come innovazione costruttiva che “soglia spaziale”»8.
G. Ponti, Amate l’architettura, l’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p. 87. L. Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Electa, Milano 2001, p. 166. 8 Ibidem. 6 7
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Diversamente, la zona dei servizi, quali la portineria e i locali tecnici, è affacciata su strada (nord/ovest) (fig. 13). Lo stesso Ponti afferma: La fronte verso strada ha, per la vita, meno importanza che quella interna. Perciò essa è più chiusa, non per artificio, ma come risultato dell’orientamento medesimo delle abitazioni che l’edificio contiene e che sono tutte rivolte verso il giardino interno 9.
Rivolgendo l’attenzione alle due facciate, si nota come esse vengano trattate in modo differente (fig. 14,15). Il prospetto rivolto verso strada presenta uno stile più chiuso ed introverso, enfatizzato da una minor presenza di aperture e sottolineato da un ingresso decentrato rispetto alla facciata (fig. 16); mentre «L’ingresso è, come io lo vagheggio sovente, piccolo, discreto, senza tante pretese, differentemente da altri, che lo vogliono tale da far colpo»10. La ritmica compositiva degli elementi, come le finestre rettangolari e circolari e le due pensiline a sbalzo, conferisce all’intero volume un carattere armonioso e compatto. Ulteriormente, «l’elemento verticale del finestrone della scala gioca nel disegno della facciata un ruolo importante e regola la definizione del valore geometrico dei rapporti proporzionali tra le aperture rettangolari e rotonde»11 (fig.16). Il movimento della facciata, in questo caso, è determinato dalla presenza di aggetti (le due pensiline appena sopra le finestre e l’ingresso), che creano un gioco di ombre durante le varie ore della giornata sulle superfici lisce e nude dell’edificio (fig.17). «L’essenza chiusa e composita del fronte sulla strada, si apre in molte aperture di vario taglio sulla facciata che dà verso il giardino»12. Infatti, «su questo giardino si apre veramente la costruzione»13 e si nota subito come la facciata risulti più estroversa per la presenza di numerose aperture quali: tre grandi terrazze, situate al piano terreno, al primo e al terzo piano; ampie vetrate, che G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano, in «Domus», n. 111, Marzo 1937, p. 2. Id., Progetto per una villa in città, in «Stile», n. 2, Febbraio 1941, p. 6. 11 L. Miodini, op. cit., p. 166. 12 G. Arditi, C. Serratto, Gio Ponti. Venti cristalli di architettura, il Cardo, Venezia 1994, p. 68. 13 G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano, in «Domus», n. 111, Marzo 1937, p.2. 9
10
58
corrispondono all’ambiente interno del salone principale; e infine aperture a triplice articolazione (fig. 18). Le due facciate sono connotate da elementi comuni come la completa assenza di cornicione, che accentua l’unità del volume, la distinzione dell’ultimo piano e la presenza di aperture con differenti geometrie (fig. 19).
59
1 Casa Laporte 1936
8 Casa in via Randaccio 1925
15 Casa Marmont 1934
2
Casa di Via Domenichino 1930
9 Torre Littoria 1933
16 Villa Siebaneck 1934
3
Casa Ponti di Via Dezza 1957
10 Palazzo Ferrania 1939
17 Edificio “Trifoglio” 1964
4
Domus Letizia 1933
11 Palazzi in Piazza S. Babila 1939
18 Chiesa di S. Luca Evangelista 1955
5
Domus Adele 1934
12 Palazzo Montecatini 1936
19 Palazzo Montedoria 1970
6
Domus Julia, Fausta, Carola 1931
13 Casa Rasini 1933
20 Grattacielo Pirelli 1956
7
Casa Borletti 1928
14 Domus Alba 1936
19 18
20
Casa Laporte 17 8
12 13
9
15
2
14 10 7 6 3
11 16
5
4 N
fig. 1 Alcune delle opere di Ponti nella città di Milano.
Via Berengario
1
a Vi
B
2
,1
rin
N
fig. 2 Casa Laporte, Via Benedetto Brin 12.
fig. 5 Privato.
fig. 3 Recinto nel recinto.
fig. 6 Semi-privato.
Privato Semi-privato Condiviso
fig. 4 Tre gradi di intimità.
fig. 7 Condiviso.
Sosta Movimento fig. 9 Flussi.
fig. 8 Gio Ponti, Giardino, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 10 Mattina.
fig. 11 Pomeriggio.
fig. 12 Sera.
O
S
2
2
1 1
1
Primo piano N
Attacco a terra
E
2 fig. 13 Invaso suggerito. I locali evidenziati che affacciano su giardino: 1. Camera; 2. Sala; 3. Locale studio; 4. Terrazza interna.
3 1 4 1 Secondo piano
fig. 14 Prospetto Nord-Ovest, Casa Laporte, carattere introverso.
fig. 15 Prospetto Sud-Est, Casa Laporte, carattere estroverso.
Terzo piano
fig. 16 Prospetto Nord-Ovest, Casa Laporte, da sinistra verso destra: ingresso decentrato, doppia fila, rapporto proporzionato tra gli elementi.
Mattina
fig. 17 Prospetto Nord-Ovest (in alto), prospetto Sud-Est (in basso), Casa Laporte, studio delle ombre.
fig. 18 Prospetto Sud-Est, Casa Laporte, da sinistra verso destra: affaccio diretto, affaccio con filtro, affaccio indiretto.
fig. 19 Prospetto Nord-Ovest (in alto), prospetto Sud-Est (in basso), Casa Laporte, da sinistra verso destra: piano distinto, assenza di cornicione, differenza geometrie delle aperture.
Sera
2. L’organismo interno
Le linee guida che Ponti segue nella progettazione degli interni domestici degli anni Trenta mirano, oltre all’affermazione del gusto moderno, a una nuova organizzazione degli ambienti sulla base di nuovi concetti di vita familiare. L’architetto così scrive: «Io sono con Conctau quando egli dice che il nuovo non è nella nuova forma per esprimere una cosa, ma deve essere nel nuovo modo di pensarla»14 e Casa Laporte ne è l’emblema, in quanto in essa si vede rinnovata la tradizione della casa romana. Ernesto Nathan Rogers ben espone la definizione di domus (intesa come abitazione romana), da cui Ponti prese il nome per la sua rivista: Mi dicono che originariamente la parola greca domos, da cui la latina domus deriva, significasse la più elementare abitazione umana: recinto, ciò che protegge. Ma domus è un’espressione dotta, che i romani hanno preso nell’eccezione già in uso per definire il complesso degli elementi della casa padronale cittadina. Domus non era la casa dell’uomo, ben sì quella di una famiglia previlegiata; tutti gli altri vocaboli latini indicano piuttosto determinate costruzioni che non quella tipica, rispondente al concetto, apparentemente più astratto, ma in realtà molto più vitale, dell’abitazione umana15.
Come lo stesso Ponti afferma: «casa Laporte rappresenta un momento altamente significativo della mia attività di architetto»16, in quanto riesce a concretizzare e sviluppare la sua idea di casa moderna.
L. Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Electa, Milano 2001, p. 172. E. N. Rogers, Domus: la casa dell’uomo, in «Domus», n. 205, Gennaio 1946, p.3. 16 L. Miodini, op. cit., p. 164. 14 15
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Ponti, che ritiene di fondamentale importanza l’organizzazione dello spazio interno, scrive su «Domus»: Molti appartamenti sono suddivisi in locali in modo assai approssimativo: essi sono un assieme, un allineamento di vani, senza nemmeno il sospetto di poter creare attrattive per viverci: appartamenti che non hanno un centro, un asse, che mancano di un ambiente decorosamente grande come mancano di solito di un ambiente di raccoglimento (non importa se piccolo o piccolissimo) esso pure prezioso, se ben situato, in una casa17.
Indagando ancora una volta sul valore umano dell’architettura, il progettista milanese basa la distribuzione dei locali secondo una regola quasi geometrica, che individua un centro che deve conciliare la zona del dialogo e che si deve relazionare con tutti gli altri ambienti della casa. Dalla maturazione di questo concetto arriva, più avanti, a sviluppare l’idea di pianta libera, dove un unico ambiente, articolabile attraverso dispositivi, accoglie la zona di dialogo e di convivialità, mentre l’area di servizio si racchiude in piccoli spazi organizzati. La compenetrazione degli spazi è data da una connessione visiva che non viene interrotta da elementi architettonici come setti o da un mobilio compatto. Scrive in proposito Paolo Masera: «Quando si entra nella casa di Ponti, e qualche ora ci si vive, ne rimangono vive nella mente le prospettive»18. Di fatto, l’elemento ordinatore, sul quale Ponti presta particolare attenzione durante la concretizzazione del progetto, è il punto d’osservazione, infatti la configurazione di uno spazio interno è «arricchita da numerosi punti di vista»19, che creano un dialogo con i diversi ambienti della casa, ma anche e soprattutto con lo spazio esterno.
G. Ponti, La casa all’italiana, in «Domus», n. 52, Aprile 1932, p. 187. Ibidem. 19 Ibidem. 17 18
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Non dobbiamo mai chiudere le prospettive, dobbiamo far vedere più che si può, far infila, fughe aperture di luci, e lo spazio a disposizione non scomporlo in stanze eguali ma farne risorse per le risorse dell’architettura20.
Scorci e inquadrature giocano un ruolo fondamentale nel vivere la casa nel miglior modo possibile, in quanto essa «è fatta per essere osservata girando continuamente l’occhio»21. Dunque, l’edificio non risponde solo a tipiche funzioni, ma è ideato soprattutto per creare visuali interne, e visuali che dall’interno fuoriescono all’esterno, perché «l’architettura, senza essere scenografia, è però uno spettacolo di spazi»22. 2.1. Lo spazio domestico come sequenza visiva Seguendo i principi su cui è impostata la casa borghese di quegli anni, Ponti predispone nel seminterrato i locali di servizio per i condomini (autorimessa, lavanderia, cantina e locale tecnico), al piano terra lo spazio dedicato al personale insieme al primo appartamento, ai due piani successivi gli altri due e all’ultimo piano una terrazza condivisa (fig. 1,2). La connessione verticale tra i piani è definita da una scala principale, con ingresso che affaccia direttamente su via Brin, e da una scala di servizio, con un accesso secondario a lato sud ovest della casa (fig. 3). La soglia di ingresso principale presenta un gradino che determina due quote differenti tra l’interno dell’edificio e l’esterno (fig. 4). Questa particolarità è una rielaborazione dell’ingresso delle domus romane, di cui è un esempio la casa del Fauno di Pompei (fig. 5,6), dalle quali Ponti riprende anche l’assetto dei due ambienti, il vestibulum e le fauces, che determinano due diversi gradi d’intimità prima di entrare nell’ambiente domestico (fig. 7). Lo stesso Ponti distingue i due ambienti G. Ponti, Amate l’architettura, cit., p. 109. Id., Una villa “fiorentina”, in «Domus», n. 375, Febbraio 1961, p. 1. 22 Id., Il modello della villa Planchart in costruzione a Caracas, in «Domus», n. 303, Febbraio 1955, p. 13. 20 21
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scrivendo nelle pagine di «Stile»: «da questo ingresso si sale per una comoda scala fra mura (la scala più bella!)23» (vestibulum) «a un passaggio che è come il cuore delle comunicazioni della casa»24 (fauces). Quest’ultimo è centrale rispetto all’organizzazione dello spazio interno della casa; infatti, gli ambienti ruotano attorno a esso e si suddividono, a loro volta, in zona giorno e zona notte (fig. 8). Come egli specifica nella rivista «Domus»: le piante esprimono l’organizzazione dell’abitazione. Esse separano il quartiere diurno (salone di soggiorno e sala da pranzo), da quelle delle stanze da letto, e da quelle dei servizi 25.
La suddivisione interna è enfatizzata dall’ampiezza dei locali diurni, in quanto il soggiorno e la sala da pranzo hanno dimensioni maggiori rispetto alle altre stanze (fig. 9). A tal proposito sottolinea Ponti: la casa realizza due vecchi desideri: distinguere in pianta le abitazioni e realizzare dei volumi interni, che comprendano un ambiente alto due piani. Il mutato rapporto fra la dimensione degli ambienti, e quindi la nuova concezione spaziale, che non si vale più di un unico punto di osservazione, permette piacevoli vedute e rende estremamente vivente l’interno: la figura umana trova felici inquadrature26 (fig. 10,11).
Ponti considera l’architettura moderna una questione etico-morale: egli pone particolare attenzione al valore umano e, basandosi sulla percezione visiva dello spazio, realizza scorci che dall’ingresso, il punto centrale d’osservazione, permettono l’attraversamento visivo degli ambienti verso l’esterno (fig. 12). Scrive:
Id., Progetto per una villa in città, in «Stile», n. 2, Febbraio 1941, p. 6. Ibidem. 25 G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano, «Domus», n. 111, Marzo 1937, p. 2. 26 Ibidem. 23 24
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L’architettura vera ci rapisce nei suoi spazi, ci fa camminare, ci fa salire e scendere, guardare in su e in giù, perderci negli spazi, ci fa battere il cuore di stanza in stanza, di diversità in diversità, di gioco in gioco, di luce in luce; castello incantato27.
27
Id., L’architettura è un cristallo… cit., p. 70.
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Stanza cielo aperto Appartamento Appartamento Appartamento Autorimessa, Lavanderia Cantina, Locale tecnico
fig. 1 Sezione, Casa Laporte, organizzazione interna dell’edificio.
Attacco a terra
Primo piano
Secondo piano
Terzo piano
fig. 2 Piante, Casa Laporte, in blu è indicato lo spazio del propetario, in rosso lo spazio del personale, in giallo lo spazio comune.
fig. 3 In rosso l’ingresso principale, in nero l’ingresso secondario a Casa Laporte.
Attacco a terra
+16 cm +1
+16 cm 0 cm
fig. 4 Ingresso, Casa Laporte, soglie poste a due quote differenti.
fig. 5 Gio Ponti, Ingresso, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 7 Ingresso, Casa Laporte, in rosso è indicato l’ipotetico Vestibulum, in blu l’ipotetica Fauces. Attacco a terra
fig. 6 Ingresso, Casa del Fauno, Pompei, 120 a.C.
fig. 6 Disposizione delle finestre nel soggiorno a doppia altezza.
fig. 7 Gio Ponti, Soggiorno a doppia altezza, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 8 Josef Frank, Soggiorno a doppia altezza, Villa Beer, Vienna 1929.
fig. 9 Gio Ponti, Soggiorno a doppia altezza, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 10 Gio Ponti, Tavolino di servizio, in legno di rovere.
fig. 13 Gio Ponti, Poltroncina, in gommapiuma.
fig. 16 Gio Ponti, Divano divisibile, in tela bianca e verde.
fig. 11 Gio Ponti, Superleggera 699, Cassina, legno di frassino e canna indiana.
fig. 14 Gio Ponti, Tavolo da pranzo, in legno di rovere.
fig. 17 Gio Ponti, Libreria sospesa, in legno di rovere.
fig. 12 De Angeli Frua, Poltrona, in gommapiuma rivestita in artela verde.
fig. 15 Gio Ponti, Grande tavolo, 1936, in radica bianco e cristallo securit.
fig. 18 Gio Ponti, Luminator, metallo e legno.
fig. 19 Divano come separè.
fig. 21 Gio Ponti, Sala da pranzo, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 20 Lampada movibile.
fig. 22 Josef Frank, Salotto, Villa Beer, Vienna 1929.
3. Il «conforto»
Nella continua ricerca dell’abitare all’italiana Ponti ricorre spesso al tema del comfort, tradotto nell’italiano «conforto», in quanto per lui la casa deve essere confortevole sia agli occhi che alla vita. Il progettista milanese, superando la tradizionale planimetria, raggiunge il principio del conforto realizzando ambienti, come il salone principale, divisibili in numerosi punti di vista, angoli e spazi. È lo stesso Ponti a precisare, in un articolo del 1934, «l’importanza del “piacevole spettacolo” offerto dal complesso sistema di vetrine che collegano tra loro i diversi ambienti e la necessità di avere nella casa luoghi in cui appartarsi»28. Ponti nutre un grande interesse nei confronti dell’architetto viennese Josef Frank, in quanto anche egli afferma che «il compito dell’architetto sta nel creare ambienti […] l’ambiente suggerirà i passaggi e i posti di riposo»29. Infatti, nel progetto di Casa Laporte, Ponti accoglie molti spunti del pensiero di Frank e realizza ampi spazi che si affacciano tra di loro e che si connettono per sequenze visive: in questo modo l’architetto cerca di assicurare all’individuo la miglior casa dove vivere e riposare. Nel primo articolo della rivista «Domus», Ponti spiega precisamente il suo concetto di comfort: Il cosiddetto «comfort» non è nella casa all’italiana solo nella rispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita ed alla organizzazione dei servizi. Codesto suo «comfort» è in qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri, nel
G. Ponti, Comperando un appartamento. L’ubicazione della casa, in «Il Corriere della Sera», n. 3, Novembre 1934, p. 5, cit. in L. Miodini, op. cit., p. 70. 29 Ivi, p. 71. 28
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darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile e lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell’invito che la casa all’italiana offre al nostro spirito di ricrearsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste nel pieno senso della bella parola italiana, il conforto 30.
Infatti, Ponti in Villa Laporte realizza una sala più alta delle altre in quanto essa dà respiro a tutta l’abitazione e dà emozioni di un ordine tutto nuovo tante sono le vedute di spazi e di persone che esso suscita, le stanze non sono più infilate di scatolini o scatoloni più o meno riccamente parati e l’abitazione diventa una creazione31.
3.1 Il grande ambiente L’ultimo appartamento della villa, in cui abitò lo stesso Ponti, presenta al suo interno un salone a doppia altezza (fig. 1,2) con collegamento diretto a una stanza a cielo aperto, situata sul tetto. Il salotto è posto in continuità con la sala da pranzo (fig. 3), ma mediante l’altezza ridotta del secondo locale (fig. 4), si determina un carattere differente tra questi due ambienti, i quali a seconda del punto di vista si lasciano nascondere. Infatti, ponendosi all’ingresso del salotto, l’ambiente della sala da pranzo risulta nascosto e, allo stesso modo, collocandosi all’ingresso di quest’ultima non si ha la percezione della doppia altezza della sala (fig. 5). Richiamando il concetto di comfort, per l’architetto è fondamentale disporre, all’interno degli edifici, almeno una stanza di grandi dimensioni, in grado di accogliere la vita della famiglia: «[...] Qui entra in gioco una regola: gli ambienti grandi debbono essere grandi in tutte le dimensioni, debbono avere
30 31
G. Ponti, La casa all’italiana, in «Domus», n. 1, Gennaio 1928, p.7. Id., Una villa a tre appartamenti in Milano, in «Domus», n. 111, Marzo 1937, p. 9.
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una loro proporzione anche nell’altezza. [...]»32. Anche per questa stanza, Ponti pone particolare attenzione agli angoli visuali. Studia la disposizione delle finestre, una a doppia altezza che porta lo spettatore verso l’esterno e favorisce l’ingresso alla luce e un secondo serramento circolare, che favorisce l’attraversamento dello spazio arrivando dall’ingresso della stanza (fig. 6). Con questo ambiente a doppia altezza, Ponti pone un punto di osservazione più alto, dotando lo spazio di un balcone, rivolto verso l’interno, che si collega alla stanza a cielo aperto: «L’architetto inverte le parti: in un salotto crea una balconata che si affaccia all’interno, e di una terrazza fa uno spazio semichiuso indispensabile per vivere bene»33. L’affaccio con balconate negli ambienti alti due piani è un’interessante caratteristica che Ponti riprende dalla ricerca sull’abitazione condotta dall’architetto Josef Frank in Villa Beer (Vienna, 1929)34 (fig. 7,8). Giocando con la percezione dello spazio, configura un nuovo punto di vista che consente allo spettatore di guardare il salone dall’alto, dotandolo di un balcone che crea «piacevoli vedute e rende estremamente vivente l’interno; la figura umana trova inquadrature felici»35 (fig. 9).
3.2. L’arredo disarticolato Notevole è l’interesse dell’architetto milanese nel progettare gli spazi interni unitariamente all’arredo, infatti, nel progetto di Casa Laporte studia attentamente la disposizione dei mobili, in gran parte realizzati su suo disegno (fig.10-18). L’arredo, dunque, viene utilizzato come un dispositivo architettonico. Un chiaro esempio è il divano che si trova all’interno dell’ampia sala soggiorno del secondo piano che, non essendo addossato ad Id., Progetto per una villa in città, in «Stile», n. 2, Febbraio 1941, p. 6. G. Arditi C. Serratto, Gio Ponti. Venti cristalli di architettura, il Cardo, Venezia 1994, p. 67. 34 Cfr. J. Frank, Das Haus als weg und platz, in «Baumeister», 1931, XIX. 35 G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano… cit., p. 9. 32 33
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alcuna parete, funge da séparé tra due ambienti (il soggiorno e la sala da pranzo), permettendone l’attraversamento visuale (fig. 19). La lampada da terra, prodotta da FontanaArte, presente nel grande atrio centrale, può essere poi spostata a seconda delle necessità definendo, così, nuovi spazi (fig. 20). «Questo tipo di mobile è destinato ad un ambiente dove coesistono diversi comportamenti, appartiene, insomma, ad un sistema di arredo degli interni che nasce, appunto, dalla mescolanza delle funzioni»36. Attraverso l’arredo, Ponti sviluppa il tema della trasformabilità degli ambienti e questo concetto viene enfatizzato dall’utilizzo di arredi pieghevoli e facilmente spostabili. La concretizzazione di questo pensiero in Casa Laporte è, ad esempio, nell’utilizzo, all’interno della sala da pranzo, di poltroncine leggere e trasportabili, accostate a tavolini bassi per avere una maggiore flessibilità d’uso. In un’intervista, la figlia dell’architetto, Lisa Licitra Ponti, utilizza le seguenti parole per spiegare la scelta del mobilio nella sala da pranzo: Una cosa bella che aveva Gio Ponti era che non ci fosse una sala da pranzo con il tavolo e tutte le sedie intorno. Nel grande ambiente c’è un tavolo dove si può mangiare, un po’ basso, circondato non da sedie, ma da poltrone. In cui si può continuare a parlare, stare lì, levati i piatti si tiravano fuori i libri, i disegni37.
Come precedentemente accennato, Ponti ha preso come riferimento l’architetto Josef Frank, in quanto anche lui, nel 1929 a Villa Beer, progetta un piccolo ambiente, con tavoli bassi accompagnati da confortevoli poltrone, affacciato su un grande oblò che incornicia l’esterno (fig. 20,21). L’intera costruzione di Ponti ospita arredi, progettati da lui, dal facile utilizzo come, ad esempio, il grande tavolo da tè, in radica bianca e cristallo securit, che può essere spostato a seconda delle esigenze e può assumere diverse funzioni, così come il tavolo pieghevole ed allungabile, eseguito dalla Ditta Paolo Sala,
36 37
L. Miodini, op. cit., p. 69. L. Licitra Ponti, Vivere alla Ponti, intervista, RaiCultura, 1 Febbraio 2019.
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che serve nelle occasioni speciali e non occupa inutile spazio quando non è impiegato.
3.3. La ricerca dell’intimità «Cosa deve fare un architetto moderno? Deve costruire case in cui ogni elemento di arredo che non si muove, deve scomparire dentro i muri»38 (fig. 22). A partire da queste parole del noto architetto Adolf Loos, Ponti elabora il suo concetto di intimità domestica. Di fatto realizza nell’abitazione degli angoli-nicchia dove (come quello all’interno del suo studio) la famiglia cerca un privato rifugio: «[…] questo si configura nell’immaginario per lo più come un mondo ridotto, intimo scrigno che fisicamente e psicologicamente isola il suo abitante in una nicchia a sé rispetto a uno spazio più ampi […]» 39 (fig. 23). Conoscendo il rapporto di Ponti con la tradizione, è possibile ricondurre questa scelta linguistica come una rivisitazione dell’angle-nook, in cui è presente anche un camino, in quanto: […] L’angle-nook si configura in ogni caso un caldo rifugio protettivo soprattutto dal punto di vista psicologico oltre che termico, definito da un’altezza limitata (poco più di quella di un uomo), dalle dimensioni interne calibrate, dalle finiture e decorazioni molto caratterizzate […]40.
Infatti, confrontando l’angolo-nicchia di Ponti, rielaborato in chiave moderna, con quello del progetto “camera da letto per bambina” dell’architetto Otto Sturck (Londra, 1908) (fig. 24), è facilmente intuibile come i due ambienti presentino delle analogie: sono decorati internamente rispetto all’ambiente in cui sono inseriti (fig. 25), le nicchie sono di altezza
A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1992, p. 323. I. Forino, L’interno nell’interno. Una fenomenologia dell’arredamento, Alinea, Firenze 2001, p. 149. 40 Ivi, p. 145. 38 39
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limitata e inferiore in relazione all’altezza della stanza (fig. 26) ed entrambe sono paragonabili a un caldo e intimo rifugio (fig. 27). Un altro importante elemento dell’arredamento è il mobile realizzato «in rapporto alla concezione dello spazio»41, di cui sono esempi il pilastro con mensole (fig. 28), che divide il salone dalla sala da pranzo (fig. 29), e la pareteattrezzata presente nella scala secondaria, che funge da libreria (fig.30). La posizione e la scelta di questi arredi nei diversi ambienti «rispondono al bisogno di un luogo intimo ed appartato»42 e Casa Laporte ne è la dimostrazione perfetta.
3.4 Il focolare domestico All’interno dell’ultimo appartamento di Villa Laporte, al secondo piano, sono presenti due focolari molto simili esteticamente (fig. 31). Ponti puntualizza alcune idee sul camino in Amate l’architettura, l’architettura è un cristallo (1957) facendo emergere, ancora una volta, il valore umano che l’architettura deve saper trasmettere: a Nennella, napoletana (ciò conta moltissimo, è italiana due volte) descrissi il camino come lo realizzò Jean Michel Frank, l'esteta-architetto che si uccise: un'apertura quadrata nella parete, senza bordi, al limite estremo della semplicità: le dissi: il camino perfetto rispose: io voglio invece attorno alla bocca del camino dei rilievi; la fiamma vi si leve riflettere e vi si leve giocare e moltiplicarsi: fuoco è fuoco ragione sua, torto di Frank e mio; concezione, la nostra, del «camino senza fuoco e senza nessuno che lo miri»43.
L. Miodini, op. cit., p. 168. Ivi, p.163. 43 G. Ponti, Amate l’architettura, l’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p. 89. 41 42
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Entrambi i focolari, infatti, sono incorniciati da lastre in pietra che ricoprono anche il ruolo di mensola per posare suppellettili e oggetti personali della famiglia (fig. 32,33). Il focolare domestico disposto all’interno della sala da pranzo funge da elemento aperto verso la stanza (fig. 34). La sua posizione è attentamente studiata secondo una regola geometrica che, simile a quella della sala soggiorno di Villa Bouilhet, progettata da Ponti insieme ad Emilio Lancia nel 1926, sottolinea questa apertura (fig. 35,36): viene inserito centralmente tra due nicchie libreria laterali, che determinano un ritmo della parete ed una forte simmetria della stanza (fig. 37,38). Il secondo camino, invece, è collocato nello studio o stanza biblioteca. La sua funzione, differentemente dal primo, è quella di accogliere in intimità la persona e per questo motivo viene progettata, all’angolo adiacente, una nicchia che ospita una seduta, donando un carattere introverso al focolare (fig. 39,40).
3.5 La stanza a cielo aperto Uno degli elementi più caratteristici di questa villa è la terrazza, definita da Ponti «una sala col cielo per soffitto»44 (fig. 41), che comunica con il salone a doppia altezza dell’appartamento al secondo piano. Questa stanza a cielo aperto «è un elemento essenziale che deve entrare nell’abitazione»45, in quanto garantisce tutto il comfort della casa all’italiana, essendo un prolungamento dell’ambiente domestico verso l’esterno. Reinterpretando le altane veneziane del 1600 (fig. 42), Ponti progetta una terrazza-giardino contornata da pareti che hanno la funzione, oltre che strutturale, di semplificare i profili della costruzione, raggiungendo un volume dal carattere unitario tanto richiesto dall’architetto: «Così la terrazza chiusa da pareti, oltre
44 45
L. Miodini, op. cit., p. 163. Ivi, p. 165.
80
a sembrare una stanza all’aperto che ha al posto del soffitto il cielo, ricorda i giardini chiusi tra mura dell’antichità»46 (fig. 43). Lo storico Fulvio Irace critica positivamente la risoluzione architettonica del tetto abitabile, definendola «la versione pontiana del lecorbusieriano tettogiardino». Infatti, per la progettazione di questo spazio, Ponti si fa ispirare proprio da Le Corbusier (fig. 44), che sviluppando i cinque punti dell’architettura moderna, esprime l’importanza del toit terrasse che aiuta l’uomo a contemplare la natura. Oltre ciò Ponti arreda la terrazza con degli elementi naturali come una piccola piscina, un campo di sabbia e un orto (fig. 45) e queste «attrezzature per la vita all’aperto richiamano, inoltre, le vasche ed i pergolati dei giardini cintati da mura della casa pompeiana ed ercolanese»47. Questi elementi, inoltre, amplificano il contatto uomo-natura, di cui esprime perfettamente Giulio Minoletti la visione: Una pianta, la più grande e la più «albero» possibile, uno specchio d’acqua anche piccolo ma non tanto da non poter riflettere un pezzetto di cielo o da non increparsi quando un passo fa vibrare il pavimento, un camino che ci consenta di vedere la fiamma, un frammento di roccia che ricordi come sono le superfici non lavorate dall’uomo, un pesce, un uccello, un cane, più cielo e più sole che si può48.
La pavimentazione di questo spazio è suddivisa in un lastricato a riquadri d’erba, che suggerisce uno spazio di sosta, e in una passerella in linoleum che individua lo spazio di percorrenza (fig. 46,47). Un’altra particolarità di questo tetto-giardino è il dispositivo che Ponti progetta per garantire l’utilizzo dello spazio in tutti i mesi dell’anno, diventando così anche un giardino d’inverno (fig. 48). Mediante una tenda scorrevole, a righe grigie e blu, realizzata dal Linificio e Canapificio Nazionale di Bergamo, si garantisce la chiusura del tetto e, inoltre, questa tenda se aperta Ibidem. L. Miodini, op. cit., p. 166. 48 G. Minoletti, E. Gentili, Progetto di sistemazione del nodo centrale dei trasporti di Milano, Febbraio Marzo 1960 (Archivio Del Moderno, GMin Pro S 2/25). 46 47
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amplifica lo spazio verso il cielo, se chiusa funge da filtro. Ancora una volta, seguendo degli scorci visivi, Ponti chiude la vista verso strada, inserendo un oblò di piccole dimensioni e, contrariamente, dilata lo spazio verso il giardino inserendo delle grandi aperture (fig. 49,50). La terrazza, ampia, riparata da pareti è quasi come una sala con cielo per soffitto: essa è nelle buone stagioni, vale a dire dal marzo all’ottobre, la determinante dell’abitare ché vestiario, calzature, abitudini derivano dall’assiduo soggiornarvi e dal senso di libertà che essa concede 49.
49
G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano… cit., p. 9.
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fig. 1 Soggiorno e sala da pranzo, Casa Laporte, secondo piano. fig. 2 Gio Ponti, Soggiorno, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 3 Soggiorno e sala da pranzo, Casa Laporte, relazione visiva tra i due ambienti.
2
1
fig. 4 Soggiorno e sala da pranzo, Casa Laporte, percezione fisica dei due ambienti.
fig. 5 A seconda del punto di vista lasciano nascondersi.. ..ora il salotto.
..ora la sala da pranzo..
fig. 6 Disposizione delle finestre nel soggiorno a doppia altezza.
fig. 7 Gio Ponti, Soggiorno a doppia altezza, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 8 Josef Frank, Soggiorno a doppia altezza, Villa Beer, Vienna 1929.
fig. 9 Gio Ponti, Soggiorno a doppia altezza, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 10 Gio Ponti, Tavolino di servizio, in legno di rovere.
fig. 13 Gio Ponti, Poltroncina, in gommapiuma.
fig. 16 Gio Ponti, Divano divisibile, in tela bianca e verde.
fig. 11 Gio Ponti, Superleggera 699, Cassina, legno di frassino e canna indiana.
fig. 14 Gio Ponti, Tavolo da pranzo, in legno di rovere.
fig. 17 Gio Ponti, Libreria sospesa, in legno di rovere.
fig. 12 De Angeli Frua, Poltrona, in gommapiuma rivestita in artela verde.
fig. 15 Gio Ponti, Grande tavolo, 1936, in radica bianco e cristallo securit.
fig. 18 Gio Ponti, Luminator, metallo e legno.
fig. 19 Divano come separè.
fig. 21 Gio Ponti, Sala da pranzo, Casa Laporte, Milano 1936.
fig. 20 Lampada movibile.
fig. 22 Josef Frank, Salotto, Villa Beer, Vienna 1929.
Muro di ieri
Muro di oggi
Muro di domani
fig. 22 Muro abitabile.
fig. 25 Rifiniture interne.
fig. 28 Pilastro con mensole.
fig. 23 Gio Ponti, Angolo nicchia nel locale studio, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 24 Otto Struck, Progetto di camera da letto per bambina, Londra, 1908.
fig. 26 Altezza limitata.
fig. 27 Caldo rifugio.
fig. 29 Due ambienti.
fig. 30 Parete attrezzata.
1 2
fig. 31 Posizione dei due focolari del secondo piano, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 34 Elemento aperto verso la stanza.
fig. 37 Vuoto visivo.
fig. 39 Gio Ponti, Camino della stanza studio, Casa Laporte, Milano, 1936.
1
2
fig. 32 Gio Ponti, Camino nella sala da pranzo, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 33 Gio Ponti, Camino nel locale studio, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 35 Gio Ponti, Camino nella sala da pranzo, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 36 Gio Ponti, Camino del soggiorno, Villa Bouilhet, Garches, 1926.
fig. 38 Schema compositivo della parete.
fig. 40 Da sinistra verso destra, dall’alto in basso: vuoto visivo, intimità, assialità, orientamento dello sguardo.
fig. 41 Stanza con cielo per soffitto.
fig. 42 Altana veneziana, Venezia, 1600 circa.
fig. 43 Da sinistra verso destra: parete verso giardino, parete verso strada.
Vasca di sabbia Vasca d’acqua Orto
fig. 44 Le Corbusier, Attico Beistegui, Hotel Particulier, Parigi, 1929.
fig. 45 Elementi naturali.
Lastricato a riquadri d’erba Linoleum
fig. 46 Movimento e sosta.
fig. 47 Materiali pavimentazione.
fig. 48 Gio Ponti, Giardino d’inverno, Casa Laporte, Milano, 1936, tenda scorrevole.
fig. 49 Scorci visivi.
fig. 50 Introversione e estroversione.
4. La tradizione italiana
L’attenzione e la cura che gli italiani pongono nella progettazione della casa è sempre stato un carattere che ha affascinato il mondo delle arti applicate a livello internazionale. Agli inizi degli anni Venti Raffaello Giolli affronta questo tema nella rivista «1927. Problemi di arte attuale», dove accenna anche il concetto di casa italiana. Scrive a tal proposito il critico: Abbiamo già detto che nella crisi della casa, nella riforma igienica e sociale di questo singolare organismo della vita in cui si intrecciano tante esperienze della civiltà, ci sono da scoprire degli utilissimi segreti…Una teiera, un portacenere, un lampadario… Possono raccogliere con vivezza la passione di uno spirito, a volte anche di più di certi ideali che sono scaduti a convenzioni50.
Infatti, l’industria italiana di quegli anni aspira a una più alta qualità dell’oggetto e formula quello stile che può essere definito Made in Italy, di cui Gio Ponti può essere considerato il principale ideatore e promotore. Come già illustrato precedentemente, l’architetto ha investito la maggior parte della sua esperienza lavorativa nell’industria italiana. Infatti, nel suo lavoro Ponti presta particolare attenzione alla realizzazione di interni e oggetti, che coinvolgono le industrie locali, riuscendo a rappresentare nei progetti la massima italianità.
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R. Giolli, Consigli per la casa, in «1927. Problemi d’arte attuale», n. 1, Ottobre 1927, p. 14.
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4.1. L’espressione dell’identità All’interno dell’ambiente a doppia altezza del soggiorno e nella sala da pranzo di Villa Laporte Ponti inserisce numerosi muri abitabili che dimostrano il «significativo punto di sintesi»51 della sua idea di interno domestico. «La casa all’italiana, scrive Gio Ponti, è bellissima semplice e limpida come un cristallo, ma è forata come una grotta, irta di cose vissute e piena di tanta umanità»52. Infatti i mobili e le pareti attrezzate della casa, oltre a svolgere un ruolo tipicamente funzionale, accolgono, con le loro mensole, suppellettili e oggetti, che illustrano la vera intimità del nucleo familiare (fig. 1-3). Le pareti attrezzate sono la combinazione di due figure distinte simbolicamente e funzionalmente: la parete divide, circonda, è fondale, costituisce il limite, l’attrezzatura è oggetto d’uso è un utensile, non fa spazio, si adopera, raccoglie intorno a sé l’esperienza della manovra 53.
Più precisamente l’elemento che funge da pilastro, posto tra la zona pranzo e il salone, ospita uno scaffale con mensole, ricche di oggetti personali, statue e cornici con fotografie della famiglia dell’architetto. Questo elemento, quindi, risulta avere una duplice funzione, sia quella architettonica, suggerendo una suddivisione di due ambienti differenti, sia una funzione qualitativa dello spazio, in quanto riesce ad accogliere l’identità dell’abitante (fig. 4-6). Così come tutti gli alloggi dell’abitazione, l’atrio e la sala da pranzo sono dotati di vetrine e librerie a muro che affermano la compiutezza della nuova casa borghese. Gli ambienti in questa abitazione si può dire che non sono stati «arredati», né lo saranno nel senso che ha normalmente questa parola; in essi si è sistemata liberamente la vita degli abitanti secondo
L. Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Electa, Milano 2001, p. 174. G. Ponti, La casa all’italiana, in «Domus», n.1, Gennaio 1928, p.7. 53 M. G. Daprà Conti, P. Felisio, Una casa lunga cinquant’anni. Riscritture per Gio Ponti, CELID, Torino 2001, p.40. 51 52
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comodità e simpatia e umore: e con cose ‒ mobili, libri, riviste, ricordi, qualche oggetto d’arte ‒ che appartengono intimamente, direttamente, alla vita loro54.
Dunque dallo studio della casa emerge come tutti i mobili per Ponti devono essere intesi soprattutto come elementi utilizzati per l’esposizione di oggetti personali, in quanto raccontano la vita degli abitanti: le finestre ritagliano un immutabile scenario e, arredate con suppellettili galleggianti, silhouette e altri oggetti, raccontano dall’esterno l’ambiente domestico privato. La trama di ciascuna apertura, che diventa una «finestra arredata», un’invenzione pontiana (fig. 7), sancisce il limite tra l’ambiente privato e il paesaggio «perché da dentro l’esterno si vede sempre attraverso i primi piani dei mobili. E in questo consiste il suo incanto»55 (fig.8). La vita penetra in tutti gli ambienti e in tutte le direzioni possibili: «l’architettura l’attraversa»56.
4.2. L’essenzialità del materiale Gio Ponti, come afferma lo studioso Fulvio Irace, mette a punto un volume fondato sull’esclusivo valore geometrico di puri rapporti proporzionali, seguendo il consiglio del saggista Massimo Bontempelli: «edificare senza aggettivi, scrivere a pareti lisce»57. La villa, infatti, viene così definita dall’architetto: «È una costruzione molto semplice, senza sfoggio di materiali speciali, costosi, con una scelta invece di materiali che realizzano un carattere sereno e nitido»58. La ricerca della tradizione italiana si evince dalla scelta dei materiali utilizzati dall’architetto poiché marcano l’appartenenza al luogo e, con il volume Amate G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano, in «Domus», n. 111, Marzo 1937, p. 9. Id., La finestra arredata, in «Domus», n. 298, Settembre 1954, p. 17. 56 M. G. Daprà Conti, P. Felisio, op. cit., p. 40. 57 M. Bontempelli, L’avventura novecentista. Selva polemica (1926-1938). Dal «realismo magico» allo «stile naturale» soglia della terza epoca, Vallecchi, Firenze 1938, p.480. 58 G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano… cit., p. 2. 54 55
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l’architettura, l’architettura è un cristallo (1957), Ponti espone la sua idea sulla materia: L’architetto, l’Artista, non partecipi al culto della bella materia; nulla è meno spirituale, nulla è più materiale della bella materia. Palladio operò con materie modeste. La bella materia è uguale per tutti. Creare bellezza con una materia modesta è invece di pochi. La bella materia, poi, non esiste. Esiste la materia giusta. I cosiddetti «raffinati» sono dilettanti: non sono veri raffinati perché vogliono sempre belle materie, raffinate, dappertutto. Un intonacaccio rustico quando è al suo posto è la bella materia per quel posto. È la vera raffinatezza. Sostituirlo con «materia nobile è da cafoni»59.
L’essenzialità del materiale emerge all’interno della scala principale, che affaccia sul fronte strada, in quanto Ponti ritiene che «alla scala non va più data la vanitosa importanza d’un tempo. Il sommo dell’edificio deve costituire la parte più bella da abitare»60. Infatti non viene più utilizzata come esposizione di marmi, tipica delle case borghesi, ma segue il carattere armonioso di questa Villa. «La scala è ampia quanto basta. La scala non deve essere monumentale. […] Essa ha pareti omogenee e non divise dallo zoccolo di cattiva memoria»61. Ponti realizza la scala con materiali semplici quali l’intonaco bianco per le pareti del vano scala, il granito per gli scalini, il legno lasciato al naturale per il corrimano e lo zoccolino e il legno verniciato di bianco per gli elementi verticali della ringhiera (fig. 9,10). In questo progetto Ponti accoglie alcuni spunti dalle ricerche condotte dall’architetto Oskar Wlach, come il dettaglio del pannello di legno naturale, posto sotto la maniglia delle porte verniciate di bianco (fig. 11,12). Come afferma Ponti in «Domus»:
Id., Amate l’architettura, l’architettura è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957, p. 82. Id, Una casa, in «Domus», n. 94., Ottobre 1935, pp. 1-7. 61 Ibidem. 59 60
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Le porte, verniciate di bianco, hanno un pannelletto in legno naturale accanto alle maniglie che risulta assai pratico e non sta affatto male; questo elemento particolare, che ho imparato da Wlach conferma come accogliendo un accorgimento pratico, si realizza infine un fatto stilistico62.
Il finimento interno è trattato da Ponti in modo molto semplice. Egli impiega nella pavimentazione principalmente il legno e il linoleum con effetto marmorizzato grigio, utilizzato anche in Casa Marmont (1934-1935) a Milano (fig. 13,14), mentre per il soffitto opta per un rivestimento in cementite verde caldo, che contrasta con le pareti in ducotone bianco a tinta unita, che rappresentano un carattere del razionalismo italiano (fig. 15).
62
G. Ponti, Una villa a tre appartamenti in Milano… cit., p. 2.
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fig. 1 Gio Ponti, Sala da pranzo, Casa Laporte, Milano, 1936, dettaglio della libreria.
fig. 2 Gio Ponti, Soggiorno a doppia altezza, Casa Laporte, Milano, 1936, dettaglio mensole.
fig. 3 Gio Ponti, Ingresso, Casa Laporte, Milano, 1936, dettaglio libreria a muro.
fig. 4 Gio Ponti, Sala da pranzo, Casa Laporte, Milano, 1936, dettaglio pilastro.
fig. 5 Gio Ponti, Pilastro sala da pranzo, Casa Laporte, Milano, 1936, dettaglio pilastro.
fig. 6 Gio Ponti, Pilastro libreria.
fig. 7 Gio Ponti, Appartamento in Via Dezza, Milano, 1957, schizzo facciata.
fig. 8 Gio Ponti, Casa Laporte, Milano, 1957, prospetto Sud-Est.
Pietra artificiale
Granito
Legno naturale Legno naturale Legno verniciato bianco
fig. 9 Gio Ponti, Scala principale, Casa Laporte, Milano, 1936.
fig. 11 Oskar Wlach, Armadi, Villa Beer, Vienna, 1929.
fig. 10 Materiali.
fig. 12 Gio Ponti, Porta ingresso allo studio, Casa Laporte, Milano, 1936.
Parete a tinta unita
Rivestimento ligneo
fig. 13 Gio Ponti, Soggiorno, Casa Marmont, Milano, 1934, pavimento.
fig. 14 Gio Ponti, Soggiorno, Casa Laporte, Milano, 1936, pavimento.
Parete a tinta unita
Pannello legno naturale Legno verniciato bianco
Parquet
Linoleum
fig. 10 Da sinistra verso destra: ingresso e locale studio, materiali.
5. Attualità della «casa moderna» di Gio Ponti
Designer, architetto, grafico, realizzatore di allestimenti, Gio Ponti ha lavorato in tutto il mondo, lasciando il suo segno inconfondibile. La sua figura continua a essere di riferimento per i contemporanei, in quanto il suo modo di pensare segue il progresso della modernità: Ponti si lascia affascinare dalle innovazioni, le studia e successivamente le applica ai suoi progetti. Mediante le riviste «Domus» e «Stile», da lui dirette, motiva le persone ad accogliere le novità e sfruttarle nel miglior modo possibile. L’architetto è uno dei primi ad aver affrontato il tema dell’evoluzione dell’abitare, ancora oggi discusso in saggi e riviste d’interni. Si può dire che con la «casa moderna», egli abbia mostrato inconsapevolmente uno sguardo verso il futuro, cogliendo l’essenza e la realtà dell’abitare. Casa Laporte, così come molte altre residenze di Ponti, racconta l’abilità del progettista milanese nel valorizzare lo spazio domestico. Come l’architetto ha desiderato un’abitazione più personale, dove ricevere le persone al di fuori della frenesia cittadina, molte costruzioni, oggi, vengono realizzate per rispondere all’esigenza di questa nuova epoca: rallentare i ritmi e rafforzare il dialogo individuale. Per enfatizzare questa atmosfera domestica, il progettista milanese ha adottato una sala soggiorno connessa alla zona pranzo, rendendo lo spazio più dinamico e versatile, in quanto fulcro della vita quotidiana; inoltre, con l’utilizzo di un tavolino basso accompagnato da poltroncine, enfatizza il senso di accoglienza che lo spazio assume. L’integrazione di cucina e soggiorno è un tema che da tempo domina le scelte progettuali degli architetti e produttori contemporanei. È soprattutto nell’ultimo secolo che
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la cucina viene concepita come luogo di socialità e oggi sovente ospita zone di relax e isole arredate che dilatano lo spazio del soggiorno per creare nuove modalità di integrazione. Nel pensiero pontiano l’estetica e l’attenzione al dettaglio hanno sempre accompagnato la definizione degli interni, ricorrendo alla massima semplicità accostata allo studio di un materiale ricercato, come nelle porte verniciate bianche dell’abitazione milanese. Nell’epoca attuale, lo sviluppo degli interni segue una linea equilibrata e proporzionata, ricercando quasi sempre una forma razionale. Si definiscono, così, spazi regolari, non eccessivi, che si basano sul concetto di purezza estetica: principi utilizzati da Ponti negli anni Trenta nella definizione della nuova casa borghese. In Villa Laporte l’ampiezza e la fluidità degli ambienti è stata dettata da doppie altezze, affacci su balconate interne63 e soprattutto dalla possibilità di attraversare i vari ambienti domestici mediante lo sguardo. Quest’ultimo aspetto, molto caro a Ponti, è stato accentuato dall’utilizzo di arredi, quali finestre-vetrine, di pareti mobili e di estese aperture. Nella sua continua sperimentazione degli interni della casa, l’architetto ha sviluppato l’idea di pianta libera, in cui le pareti a soffietto suddividono lo spazio. Anche questo concetto, in cui non si ha più una suddivisione netta e predeterminata degli ambienti, si può applicare ai giorni d’oggi, in quanto le nuove esigenze abitative non hanno più necessità di spazi definiti, ma lo spazio deve essere in grado di accogliere le molteplici attività dell’individuo. Molti architetti contemporanei dichiarano una preferenza per gli spazi open space, illuminati da ampie aperture che conformano e dilatano l’ambiente. Infatti architetture che apparentemente sono compatte e introverse, come Casa Laporte, si arrendono alla natura che le circonda con strategiche aperture sul paesaggio. La centralità della «casa moderna» di Ponti e della «casa contemporanea» è il benessere dell’uomo: il dialogo fra natura, arredi, suppellettili d’arte e oggetti Cfr. A. Cornoldi, Architettura dei luoghi domestici. Il progetto del Comfort, Editoriale Jaca Book, Milano 1994, pp. 219221
63
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personali è parte integrante degli spazi abitativi. Casa Laporte è un vero e proprio racconto moderno, un punto di riferimento, un lavoro attento, sottolineato da schizzi e riferimenti visivi, che può interpellare, nella sua analisi, gli architetti odierni: «Il suo lavoro è un esempio di organica cultura: Ponti è un progettista in senso totale, formato ad un modello globale di esperienza, che interessa profondamente il rapporto tra le arti e la definizione dell’ambiente»64.
64
L. Miodini, Gio Ponti. Gli anni Trenta, Electa, Milano 2001, p. 72.
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