less is more
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MIES VAN DER ROHE Progettare è servire L’essenza del costruire Skin & Bones
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GABRIELLE BONHEUR CHANEL Nuova femminilità Corpo in movimento Semplicità iconica
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GIUSEPPE UNGARETTI Valore evocativo Parola nella sua purezza Riduzione
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La prima metà del ventesimo secolo fu un’epoca di straordinarie e necessarie trasformazioni. Per quanto la Belle Epoque avesse portato una sorta di nuova vitalità in Europa, il vecchio continente continuava a trascinarsi dietro usi e costumi che non trovavano più un riscontro effettivo con la realtà. Molte delle personalità artistiche più importanti della prima metà del XX secolo avvertirono questa dissonanza ed ognuno di essi reagì nei modi più differenti. I tre artisti presi in considerazione per la realizzazione di questo testo hanno in comune, oltre al bisogno di voltar pagina, quasi a voler prendere un respiro d’aria nuova, la necessità di semplificare. La semplicità è una chimera umana, la presunzione di voler arrivare ad una forma o ad un concetto assoluto, immortale, da mettere a servizio della più pura mortalità. Il processo di semplificazione ha una natura contraddittoria, attraverso un lavoro di scarnificazione continua si vuole arrivare ad un risultato assoluto. Tuttavia questa ricerca meravigliosamente umana è frutto di una volontà di miglioramento, per trovare un nuovo equilibrio personale, un senso di pace necessaria: è quindi un’operazione del tutto ammirabile. Nei tre artisti proposti è comune inoltre l’importanza attribuita al singolo uomo, un uomo padrone della propria vita, dei propri sentimenti e del proprio corpo. 4
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“L’architettura è porsi al servizio della vita degli uomini”
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L’essenza del costruire Mies Van Der Rohe nasce ad Aquisgrana nel 1886 e sviluppa la prima parte della sua carriera in Germania. La sua formazione si svolge presso i principali atelier di architetti di Berlino nel primo 900. È qui che apprende la purezza della forma, l’eleganza delle proporzioni e il gusto del dettaglio, elementi che caratterizzano tutta la sua opera. Subito dopo la fine della grande guerra disegna una serie di progetti rivoluzionari che costituiscono un contributo decisivo all’architettura del ventesimo secolo. Dopo aver diretto per tre anni il celebre istituto d’arte Bauhaus, nel 1938 si trasferisce negli stati uniti. Oltreoceano nascono molti dei suoi capolavori, come la nuova sede dell’Illinois institute of technology, casa Farnsworth a Chicago e il Saeagram building a New York. In questi edifici matura uno stile fondato sulla semplicità e la funzionalità, votato a evidenziare l’essenza della struttura secondo il suo celebre motto LESS IS MORE (il meno è più). Il moderno classicismo del maestro tedesco raggiunge la perfezione nella sua ultima opera: la nuova galleria nazionale di Berlino nel 1968. 7
Muore a Chicago nel 1969, lasciando uno straordinario patrimonio architettonico attraverso cui si riflette l’intera esperienza del movimento moderno. L’architetto attua un rovesciamento dell’idea di forma architettonica dominante fino a quel tempo, secondo la quale l’architettura dovesse partire da una forma che poi verrà costruita. Mies, invece, pensa che si debba partire da un problema di vita e, attraverso un processo tecnico e di costruzione, arrivare alla forma come si arriva a un risultato finale.
LUDWIG MIES VAN DER ROHE 1886-1969
La forma non è il fine, bensì il risultato.
Casa Farnsworth 1945-1951 Plano, Stati Uniti La casa presenta una struttura semplice, un parallelepipedo delimitato dalla lastra del tetto e da quella del pavimento, con i quattro lati interamente trasparenti. Una terza piastra leggermente ribassata funge da collegamento tra il suolo e il piccolo portico antistante all’ingresso. La facciata, caratterizzata da ampie vetrate a tutt’altezza, permette di creare una perfetta interazione con l’ambiente circostante. L’interno è costituito da un unico locale, organizzato attorno ad un camino centrale e impreziosito dall’arredamento dell’architetto stesso. L’edificio unisce la ricerca tecnologica a un ideale di spazio domestico aperto e fluido in continuità con la natura. Mies vuole indagare questa nuova spazialità fluida che non crea una netta distinzione, ma solamente diversi gradi tra esterno ed interno: esiste continuità tra queste due dimensioni. Si vuole creare all’interno dell’edificio uno spazio che sia flessibile, non suddiviso in stanze ma libero, disponibile a ogni azione di vita. Casa Farnsworth è un esempio lampante della relazione tra la precisione della grammatica costruttiva (costruzione
in acciaio e vetro) e questa finalità superiore di costruire un luogo, uno spazio diverso per la vita degli uomini. C’è un rovesciamento radicale del moralismo ottocentesco dell’architettura, ovvero l’idea che l’architettura possa condizionare e migliorare la vita degli uomini, possa avere una funzione di tipo sociale, quasi correttiva sui comportamenti degli uomini: l’idea di Mies è che l’architettura debba essere costruita bene. Se l’architettura è costruita bene si apre alla vita, lascia che la vita accada. Sono gli uomini a decidere. La forma è il risultato dell’osservazione attenta, la ricerca di uno spazio dell’abitare che sia libero, flessibile, modificabile nel tempo, uno spazio completamente disponibile alla struttura che le persone vorranno dare alla propria vita all’interno di quel luogo. Mies dà concretezza ad uno dei grandi sogni della modernità, costruisce una casa che non è un rifugio. Non risponde alla fragilità dell’uomo, alla sua necessità di proteggersi dal mondo, dalla natura. È una casa in cui l’uomo può abitare con un contatto immediato con la natura, ma senza l’illusione che si possa costruire l’architettura in modo naturale. L’architettura è creata dall’uomo, ma si può portare
questa creazione ad un grado zero. L’uomo deve tendere a compiere lo sforzo di trasformazione minimo necessario e cercare in questa azione di riduzione il più possibile il contatto con l’ambiente esterno. Deve nascere una nuova architettura, un’architettura che non sia un rifugio ma una concretizzazione della capacità dell’uomo di stare all’interno dell’ambiente naturale, distinto da esso ma ancora in stretto contatto con esso. Anche l’idea di trasformazione della materia deve evolversi, una trasformazione di tipo armonico e quindi differente da quella trasformazione che la rivoluzione industriale ha messo in campo e che ha portato la bruttezza nel mondo.
“Il nostro compito è liberare la pratica del costruire dalla speculazione estetica per riportarla a ciò che dovrebbe esclusivamente
essere: costruire”
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Padiglione tedesco per l’esposizione internazionale di Barcellona In occasione dell’esposizione universale di Barcellona del 1929, la Germania invita Mies a progettare il padiglione che avrebbe rappresentato il paese. Il complesso è costruito su un basamento di marmo, è chiuso su un lato da una parete dello stesso materiale e comprende un vasto patio aperto con al centro una suggestiva vasca d’acqua. La copertura piana dell’edificio è sostenuta da leggeri pilastri di acciaio cromato che danno l’impressione che il tetto sia sospeso. Con quest’opera Mies manifesta il proprio concetto di architettura con straordinaria forza espressiva. Nessun luogo è chiuso, lo spazio sembra in movimento e fluisce in ogni direzione grazie alla trasparenza e alla luminosità dei materiali. All’interno le pareti sono lastre di marmo e onice oppure di vetro colorato, preziosi elementi divisori che sembrano scorrere uno dentro l’altro creando un’armonica continuità tra interno ed esterno. Il padiglione di Barcellona venne demolito subito dopo la chiusura dell’esposizione, ma quasi settant’anni più tardi nel 1986 fu ricostruito fedelmente tornando ad essere uno dei 9
monumenti simbolo dell’architettura moderna. Mies si confronta con i nuovi materiali, saggiandone la grammatica e facendo agire insieme due sistemi costruttivi che sono nella tradizione, completamente opposti: il sistema della continuità muraria e il sistema del telaio. La casa mediterranea, ovvero una “scatola” in muratura in cui vengono ritagliate le porte e finestre per far entrare luce e persone oppure dall’altro lato la casa orientale, la casa giapponese, costruita con un telaio e successivamente ripartita con strutture di natura tessile, telai di legno, carta, vetro con una loro mobilità, che quindi consentono di cambiare la struttura dello spazio. Mies fa lavorare nello stesso edificio due modelli differenti, questi due modelli costruttivi lo portano ad un’altra intuizione di tipo spaziale: uno spazio che non distingue nettamente lo spazio fluido che collega l’interno e l’esterno, idea diventata quasi dominante nell’architettura del ‘900. Nasce quindi il bisogno di creare una nuova grammatica del sistema costruttivo che contempli vetro e acciaio come elementi fondamentali. Le superfici trasparenti creano un legame visivo con l’ambiente circostante, uno spazio
“ Il nostro compito è rimanere nel divenire, la capacità di accogliere il cambiamento, la trasformazione, l’innovazione tecnologica ma senza lasciarsi travolgere”
di mediazione tra pubblico e privato. Per mantenere ulteriormente questo rapporto uomo/natura Mies utilizza una particolare scelta costruttiva chiamata SKIN AND BONES (pelle ed ossa), che prevede l’unione armonica tra estetica e funzionalità: lo scheletro strutturale (acciaio) e la pelle, il rivestimento (vetro) non sono mai celati, ciò che si vede è tutto ciò che c’è.
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“La vera eleganza non può prescindere dalla piena possibilità del libero movimento” 12
Fashion Designer Gabrielle Bonheur Chanel, celebre stilista francese, riuscì a rivoluzionare lo stile del suo tempo imponendosi come una delle figure più importanti del fashion design del XX secolo. Diede un nuovo volto alla femminilità e all’eleganza, dando importanza alla funzionalità di un abito piuttosto che all’apparenza. Lo stile di Madamoiselle Chanel si ispirava alla vita comune delle persone che la circondavano. Questo stretto rapporto le permise di osservare e capire quali fossero i limiti dello stile imposto dalla Belle Époque, imprigionato tra bustini, corsetti e impalcature per cappelli. Gli abiti proposti da Chanel erano comodi, semplici nelle linee per intraprendere una vita quotidiana dinamica. Chanel diede a quella nuova donna il vestito giusto. Lo stesso famoso vestitino nero sembra proprio ispirato alla divisa delle commesse.
Coco Chanel trasforma la silhouette femminile. Accorcia gli abiti, svela le caviglie, libera il punto vita, elimina i corsetti, riporta in voga il jersey, i capelli corti e la pelle abbronzata e per finire introduce l’utilizzo dei pantaloni femminili. Una nuova femminilità, accentuata per paradosso non per contrasto. Chanel chiude un’era e proietta la moda in un nuovo secolo.
GABRIELLE BONHEUR CHANEL 1883 -1971
“Fino a quel momento avevamo vestito donne inutili, oziose, donne a cui le cameriere dovevano infilare le maniche; invece, avevo ormai una clientela di donne attive; una donna attiva ha bisogno di sentirsi a suo agio nel proprio vestito. Bisogna potersi rimboccare le maniche” 13
Giacca 1954, Gabrielle riapre la sua casa di moda, punta sull’eleganza, il movimento, il minimalismo e le linee dritte. La proposta nell’anno della sua riapertura è il tailleur in tweed, con una gonna che riacquista un poco di lunghezza sotto il ginocchio, la giacca corta e i bottoni dorati con l’emblema della maison (ogni bottone ha un’asola, contrariamente alla moda precedente che privilegiava un uso per lo più decorativo). La giacca, d’inspirazione maschile, è dritta, sfoderata e morbida. Tutto ciò permette la libertà di movimento . Inoltre, cucita all’interno della giacca, una catenina assicura la perfetta caduta del capo. La giacca Chanel è una giacca maschile ormai diventata un capo tipicamente femminile.
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Nel 1925 Chanel inizia la frequentazione del duca di Westminster. Fu lui che fece nascere in lei l’interesse per il tweed scozzese. ll tweed è famoso in tutto il mondo per la sua consistenza solida che ne garantisce la durata per anni.
Il 1916 è l’anno del jersey. Prodotto con macchine per maglieria, risulta elastico sia in lunghezza che in larghezza, Può essere ottenuto da qualsiasi fibra tessile: le più usate sono il cotone, la lana e la viscosa. Ritenuto inadatto alla sartoria, usato solo dai pescatori dell’isola inglese di Jersey, divenne di moda grazie alla stilista Coco Chanel.
Cos’è più difficile nel suo lavoro? “Permettere alla donna di sentirsi libera. Non farle indossare una maschera. Senza mai modificare il suo modo di essere, a seconda degli abiti che indossa. È molto difficile, il corpo è in continuo movimento.”
Coco Chanel acquistò dall’industriale tessile Jean Rodier una partita di jersey lavorato a macchina, col quale iniziò a realizzare i suoi capi.
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colore della vita
vero falso
accentua l’essenziale sublima la bellezza
naturalezza
“Ogni colore si espande e si adagia negli altri colori Per essere più solo se lo guardi.” Tappeto - Giuseppe Ungaretti
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CHANEL N°5 Nel 1921 Chanel incarica Ernest Beaux, profumiere degli zar, di creare una fragranza unica nel suo genere. N° 5 sfidò le convezioni della profumeria che esaltava la fragranza di un unico fiore. Ne risultò un bouquet con più di 80 essenze dal profumo astratto e misterioso. Per la prima volta un profumo viene presentato in un semplice flacone squadrato, all’interno di una confezione bianca profilata di nero.
Puro, sobrio, neutro, le sue linee minimali lo distinguono dalle ricercate bottiglie degli anni ’20. Il flacone originale, più piccolo e arrotondato, si era rivelato troppo fragile e fu sostituito da uno più squadrato, che negli anni successivi rimase praticamente invariato. Al contrario, il tappo nel corso degli anni è stato oggetto di numerose modifiche. Quello originale era di vetro. Al suo posto venne istituito un tappo ottagonale nel 1924, più consono al nuovo design della bottiglia. Per l’etichetta fu scelto un carattere senza grazie; N°5,
un codice, un numero d’identificazione, rese i nomi pomposi dei profumi dell’epoca fuori moda. Il flacone di Chanel N°5, nel corso degli anni, è diventato un oggetto talmente identificabile che Andy Warhol decise di commemorare il suo stato di icona a metà degli anni ottanta con l’opera pop art “Ads: Chanel”, una serie di serigrafie ispirare a pubblicità del profumo apparse tra il 1954 e il 1956. Dal 1959 viene esposto al MOMA di New York. Ancora oggi N° 5 resiste ai capricci della moda e al passare del tempo.
T e s t a ALDEIDI, BERGAMOTTO, LIMONE, NEROLI
C u o r e GELSOMINO, ROSA, MUGHETTO, IRIS
F o n d o VETIVER, SANDALO, VANIGLIA, AMBRA, MUSCHIO
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“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” 18
GIUSEPPE UNGARETTI
Girovago Giuseppe Ungaretti è una delle voci più importanti della poesia del ‘900. Intellettuale-cosmopolita, trascorre l’infanzia ad Alessandria d’Egitto e soggiorna per lunghi periodi in Francia e Brasile, oltre che in Italia. Egli interpreta il bisogno di rinnovamento che permea la cultura di inizio secolo elaborando una poetica originalissima, che costituirà un punto di riferimento essenziale per le esperienze letterarie successive e per quella ermetica in particolare. L’allegria: contenuto e poetica La fase più interessante e rivoluzionaria della poetica ungarettiana coincide con i testi della raccolta L’Allegria (1931). Nella sua particolare concezione dell’arte, Ungaretti accorda alla letteratura il compito privilegiato, quasi religioso, di cogliere e svelare il senso nascosto della vita a partire dalle esperienze fondamentali dell’esistenza. Il mezzo espressivo che permette di attingere l’essenza profonda delle cose è l’analogia, un procedimento sintetico che mette in contatto immediatamente immagini lontane, facendo vedere l’invisibile nel visibile. Questa ricerca si traduce, sul piano formale, in 19
1888 - 1970 una “scarnificazione” dell’enunciato, ridotto alle sue funzioni essenziali: la sintassi rifiuta le costruzioni complesse, i versi sono liberi e brevi per dare massimo risalto alla singola parola, il lessico predilige termini astratti o comunque capaci di trasferire gli elementi nella realtà su un piano superiore di risonanze metafisiche e spirituali. Gli aspetti formali Dal punto di vista della versificazione troviamo la distruzione del verso tradizionale e l’adozione di versi liberi per lo più brevi. Anche la sintassi rifiuta le costruzioni complesse, adeguandosi nella sue elementare e lineare essenzialità,
allo sforzo di cogliere l’attimo: la strofa è spesso costituita dalla sola frase principale e non è frequente la presenza delle subordinate; non di rado si incontra lo stile nominale, in cui la mancanza del verbo toglie all’espressione l’effetto di concretezza della determinazione e della durata. La parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza, talvolta addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso, quasi per collocarla nel vuoto e nel silenzio, oltre ogni rapporto contingente con la realtà. Si aggiunga che, proprio per potenziare questo senso di vuoto e di isolamento del flusso concatenato degli eventi, la punteggiatura è assente.
“Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l’invisibile nel visibile”
Mattina M’illumino d’immenso “Mattina” è da considerare come l’esito estremo a cui potesse giungere la ricerca poetica ungarettiana, nella sua ansia di riduzione e semplificazione, che, arrestandosi alle soglie del silenzio, cerca di raggiungere l’assoluto. Due ternari, il primo dei quali è composto di quattro sillabe. Quattro parole di cui due monosillabi, che, compenetrandosi con il termine che segue attraverso l’apostrofo, danno luogo a due sole emissioni di voce. Nella brevissima sequenza la presenza del poeta (M’) appare investita di una luce intensa (illumino). In questo modo l’individuo partecipa della vita del tutto. Ungaretti traduce così il linguaggio dell’ineffabile, la sensazione di una pienezza quasi soprannaturale che non può essere definita in termini logici e concettuali.
Ne risulta una sensazione di totalità e di pienezza di vita. Tra il titolo e il testo esiste un rapporto di corrispondenza analogica che riguarda gli imperscrutabili legami tra il tempo e l’eternità, il finito e l’infinito. A potenziare la straordinaria intensità dell’effetto ottenuto, l’accostamento sinestetico di sensazioni diverse.
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Giuseppe De Robertis “Ungaretti distrusse il verso per poi ricomporlo. Nel distruggere il verso, nel cercare nuovi ritmi, prima di tutto mirò alla ricerca dell’essenzialità della parola, alla sua vita segreta; e, com’era necessario, a liberare la parola da ogni incrostazione sia letteraria sia fisica. Da troppi mali essa fu insidiata, sul principio: quel crepuscolarismo, quel realismo minuto e scadente, quel colore narrativo e prosastico, quei lezii. Oltre a far quasi toccar con mano il graduale alleggerimento, fino a sparire, del mezzo dell’espressione. Ma dalla parola poetica, così cercata e riconquistata, così nuda, così sola, si vede generarsi il ritmo; e una letteratura il più possibile vicina, aderente, senza ritardi, diventa la figura di quel ritmo. Ungaretti tende ad alleggerire il “peso” delle parole o comunque a trasferire gli elementi della realtà su un piano più rarefatto di risonanze metafisiche e spirituali.”
Sorpresa d’un amore che riscopro dopo tanto a visitarmi
Sorpresa dopo tanto d’un amore
Sorpresa dopo tanto d’un amore.
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L’esempio che De Robertis riporta per illustrare il lavoro di rielaborazione intrapreso dal poeta sono i primi versi di “Casa mia”, che, sottoposti ad un intervento di riduzione e semplificazione per restituire alle parole tutta la loro carica espressiva (la loro “vita segreta”), si trovano trasformati anche dal punto di vista ritmico e metrico, dando vita così ad un “endecasillabo intimamente pausato e perfetto”. Si passa in questo modo alla seconda operazione compiuta dal poeta nel suo percorso di trasformazione: la ricomposizione del verso. Tra il primo e il secondo Ungaretti c’è un passaggio, con approssimazioni infinite, da una metrica elementare a una metrica complessa. In conclusione De Robertis ribadisce l’opinione secondo cui le operazioni di distruzione e di ricomposizione del verso costituiscono una parte fondamentale del percorso poetico di Ungaretti: egli ha infatti dapprima dissolto la metrica tradizionale per condurre la sua personale “ricerca dell’essenzialità della parola”, mentre in seguito è tornato ad accostarsi ai versi regolari, questi si sono adeguati perfettamente non soltanto ai nuovi ritmi, ma anche alle rinnovate esigente espressive del poeta, realizzando così un equilibrio perfetto tra libertà (d’ispirazione) e legge (il ritorno all’ordine).
Preferenza per le parole semanticamente pregnanti, fortmente allusive Uso frequente di pronomi, aggettivi o avverbi dimostrativi (questo, qui, ecc), che danno evidenza all’immagine
Verso libero
Proposizioni brevi
Versi brevi, fino a coincidere con una parola o con un sintagma semplice (ad esempio, articolo e sostantivo)
Periodi semplici, con poche subordinate, sostituzione dei legami logici con un rapporto analogico tra termini giustapposti
Strofe corrispondenti al periodo: lo spazio bianco tra le strofe sostituisce la punteggiatura, creando una pausa nel discorso
Rifiuto di proposizioni dal tono declamatorio, come le esclamative o le interrogative Uso abbastanza frequente di costrutti nominali (senza verbo) Soppressione della punteggiatura
LESSICO
METRICA
SINTASSI 22
Serena Bambara
CL 5B
2014 - 2015