Shopping experience: Tecnologie ed interattività - Il caso studio Jamais Sans Toi

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Francesca Scarcelli

Tecnologie ed interattivitĂ Il caso studio Jamais Sans Toi



Tesi di laurea di I livello Corso di laurea in Design e Comunicazione Visiva Politecnico di Torino Anno accademico 2017/2018 Candidato: Francesca Scarcelli Relatore: Andrea Di Salvo Luglio 2018



Tecnologie ed interattivitĂ Il caso studio Jamais Sans Toi



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Introduzione

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Origini del retail design

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Fondamenti del retail design

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Il retail store

11 Evoluzione dello spazio vendita

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46 Definizione e ruolo

55 Il marketing emozionale 58 Il design emozionale 61 La dimensione emozionale del punto vendita 64 Tra shopping online e offline

Visual merchandising

del visual merchandising 48 Visual communication come linguaggio 49 Linguaggio esterno al punto vendita

12 Il punto vendita come

66

42

“point of meeting and permanence” 13 Il consumatore post-moderno 14 Categorie di consumatori

design nel retail 24 Brand knowledge

90

110 130 158 176

Communication Il ruolo dei social mix nell’era digitale

19 Progettazione retail 22 Le leggi del good

Il ruolo della tecnologia nel retail

29 Tipologie di retail store

Analisi di un caso studio reale: Jamais Sans Toi

50 Linguaggio interno al punto vendita

Progetto

113 Il punto vendita interattivo

116 Strumenti di

supporto: augmented reality e digital signage

95 Social media

marketing

98 Le figure che

influenzano lo shopping: gli influencer

84 Il ruolo di testimonial

e product placement

87 Equilibrio tra le leve del mix

Emotional shopping experience

105 Nuovi modelli di vendita: social commerce e social shopping 106 Casi studio 107 Instagram 108 21Buttons

118 Casi studio a

supporto della user experience

119 Zara AR 121 Memory mirror 122 H&M voice interactive mirror

123 Casi studio a supporto della strategia aziendale 124 Eye see mannequin 129 Sistemi RFID

132 Chi sono 133 Metodo progettuale 135 Analisi del punto vendita

141 Tipologia di punto

vendita 142 Esterno dello store 144 Interno dello store 146 Shopping experience 153 Communication mix 156 Ruolo dei social

161 Utenza 162 Storyconcept 163 Possibilità tecnologiche 164 Obiettivi 165 Scaletta 166 Storyboard di utilizzo 174 Conclusioni

Bibliografia


Introduzione


I

n un contesto come quello odierno, caratterizzato da un mercato sempre più competitivo e da consumatori sempre più esigenti, il punto vendita ha la necessità di evolversi da semplice spazio contenitore di prodotti a luogo relazionale contenitore di messaggi. Viene visto infatti come luogo di aggregazione sociale, in cui il consumatore viene considerato come individuo e non più come massa. Proprio per questo motivo le aziende del fashion retail stanno continuamente investendo nella sperimentazione di tecniche e strumenti innovativi utili alla gestione ed all’evoluzione del proprio mercato. Si parla in questo ambito di discipline come il visual merchandising, cioè dell’insieme di tutte le attività che influenzano il consumatore verso l’acquisto di prodotti. In questo modo viene messa in luce l’importanza fondamentale della comunicazione durante la customer experience, unitamente al coinvolgimento emozionale che si genera nel fruitore. Inoltre, viene poi analizzato il rilievo che internet, i social media e la tecnologia rivestono nell’epoca del retail 4.0, in particolare le modalità con le quali questi strumenti riescono ad aggiungere valore al prodotto durante tutto il processo d’acquisto, dal momento della scelta fino all’acquisto vero e proprio. In questo scenario, l’analisi di un atelier torinese ha la funzione di evidenziare sia la rilevanza che tutti questi elementi rivestono nell’ambito della shopping experience, sia il contributo che danno alle aziende del fashion retail per permettere loro di rimanere al passo con i tempi. Inoltre, viene proposto un prototipo di realtà aumentata da inserire all’interno del punto vendita, analizzando i benefici che questa porterà al brand e ad i consumatori che la utilizzeranno.


Origini del retail design


“Excite the mind, and the hand will reach for the pocket.� Harry Gordon Selfridge, founder of Selfdridges&Co.

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I

primi cenni di retail design risalgono all’Inghilterra di inizio Novecento, quando un giovane americano visionario, Harry Gordon Selfridge, ha dato vita alla famosa catena di grandi magazzini Selfridges. A partire dallo store di Oxford Street, a Londra, ha iniziato a ridefinire le regole dello spazio di vendita e a stabilirne di nuove. In pochi anni la tradizione è stata modificata, le usanze trasformate e lo store è diventato il nuovo mantra del secolo. Merito delle vetrine invitanti, realizzate come se fossero quadri, pronte a raccontare una storia: è stato il primo a illuminarle e a

La Rinascente; sede di Roma, 1960 (fonte: designboom.com)

lasciarla accese persino di notte, facendo un grande utilizzo di elettricità. Merito dell’idea di posizionare il reparto profumi e cosmetici subito oltre l’ingresso principale, mossa che ha cambiato per sempre la disposizione e il fatturato dei luoghi di vendita. Merito della merce di qualità esposta che è riuscita con il tempo, ad inculcare nella nella mente delle clienti l’importanza di prendersi cura del proprio aspetto, di viziarsi con abiti belli e di classe. Selfridge, nei suoi stores, ha creato un’esperienza: ha convinto il mondo che lo shopping non significava solo comprare, bensì apprezzare e

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godere di tutta quell’attesa che precede il momento della scelta. Si è trattato però di un episodio sporadico, sebbene significativo, poiché si è cominciato a parlare ufficialmente della disciplina del retail design a partire dagli anni ’60 negli Stati Uniti e in Inghilterra. Nello stesso periodo in Italia, tra il 1967 e il 1969, Tomàs Maldonado ha progettato l’immagine coordinata dei magazzini Rinascente-Upim, uno dei primi esempi di “corporate identity”, che è diventato uno dei più importanti department store all’interno dello scenario italiano (Trevisan, Pegoraro, 2007).


S

EVOLUZIONE DELLO SPAZIO VENDITA profumazione, della musica, del visual merchandising, della grafica di comunicazione e attraverso la combinazione di molti altri elementi (Trevisan, Pegoraro, 2007). Lo scopo principale dell’intero processo di design è pertanto quello di trasformare l’organizzazione spaziale in organizzazione segnica, dove l’allestimento diventa il codice attraverso il quale si esprime una forte identità, che comunica un suo linguaggio al suo pubblico. Ma le finalità del progetto di design non si esauriscono in un soddisfacimento pratico, tecnico, economico o funzionale; lo spazio per essere elemento integrante dei reali cambiamenti in atto nella nostra società, deve tendere al soddisfacimento e all’esaltazione delle caratteristiche distintive dell’uomo consumatore. Emerge infatti il valore crescente dell’estetica, dove il design viene classificato secondo queste percentuali: elegante (45,1%); bello (33,2%); solo moda (20,6%); intramontabile (12.4%); bello e inutile (7,9%); inutile (3,8%); non so (12,0%) (Provenzano, 2012). In questo contesto assumono un’importanza fondamentale gli spazi commerciali, spazi che oggi cambiano completamente prerogativa: una metafora concettuale, necessaria e indispensabile che diventa strumento di vendita, di relazione ma anche e soprattutto strumento di marketing.

i è visto quindi come il mondo dello shopping sia stato protagonista di radicali cambiamenti: se prima si trattava semplicemente di acquistare un capo, oggi è diventato un vero e proprio passatempo, un momento di svago da condividere con la famiglia e dimenticare per qualche ora gli impegni lavorativi e di studio. L’azione dello shopping oggi si può definire “shopping experience”, momento in cui il retail design ha il potere, attraverso le sue capacità creative, di influenzare positivamente l’acquisto nei negozi e trasformare i visitatori distratti in clienti soddisfatti e fedeli. Il design sembra aver assunto un ruolo principale nelle strategie retail che permette di distinguersi dai competitors nello stile, nell’esposizione del prodotto, nel layout, nel packaging e nello store design (Trevisan, Pegoraro, 2007). Quando si parla di retail design, si intende quindi una disciplina che contempla al suo interno una moltitudine di aree di competenza. Non si tratta solamente di progettare il layout del negozio o ciò che è apprezzabile visivamente, ma vuol dire coordinare un insieme di attività che trascendono la serialità, atte a comunicare un messaggio chiaro al consumatore: il valore del brand e la filosofia aziendale del retailer. Questo messaggio passa attraverso la scelta dei materiali, dei colori, della luce, delle essenze di

45,1%

Elegante

33,2% Bello

3,8% Inutile

12% Non so

7,9%

12,4%

Intramontabile

Bello e inutile

20,6% Solo moda

Classificazione del design secondo i valori estetici; Provenzano, 2012.

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È

IL PUNTO VENDITA COME “POINT OF MEETING AND PERMANENCE” brand può trasferire i propri valori, la propria cultura e valorizzare così uno dei più efficaci mezzi di comunicazione nei confronti del proprio target, cioè lo spazio vendita (Provenzano, 2012). Un altro parametro fondamentale da tenere in considerazione è la fiducia verso il brand, come presupposto per conquistare la fedeltà del consumatore, ancor più in situazioni di scelta caratterizzate da numerose alternative. Si può certamente affermare che la tendenza in atto di spazi vendita “design oriented”, è da leggersi in modo chiaro in un cambiamento nel modo di presentarsi al pubblico, in un passaggio dal concetto di strategia del commercio a filosofia del commercio, in un’ottica in cui l’emozione e la sensorialità fanno la differenza, in una sorta di nuova economia comportamentale (Provenzano, 2012).

proprio in questo scenario che gli spazi della comunicazione si stanno modificando. Lo spazio vendita viene ad essere concepito come luogo privilegiato di comunicazione; diventa, cioè, parte integrante dell’articolato sistema dei mezzi di comunicazione: un uso strategico oltre che funzionale dei cosiddetti luoghi ludici, offre ottime potenzialità in termini sia di notorietà, sia di visibilità che di positioning del brand. Si tratta di strategie che messe in atto intorno ad un concept coerente, rispettano ed accentuano la personalità del luogo attraverso un allestimento idoneo, che mira al reale dialogo con il consumatore e tra i consumatori (Provenzano, 2012). Il consumatore privilegia gli spazi che offrono un’esperienza nuova di fruizione; se in passato si acquistava per soddisfare un bisogno, oggi si compra per soddisfare un desiderio. Lo spazio non è più solo una sorta di contenitore di merci: al suo interno va in scena una più completa forma di comunicazione, diventando così un luogo relazionale, che ha la funzione di “contenitore di messaggi”. È infatti in questo senso che la progettazione e il design contribuiscono a dare a questi luoghi l’immagine di uno spazio dove è piacevole stare, uno spazio che nella memoria rimane per il suo valore di luogo dove provare nuove esperienze. Questa tendenza, che vede lo shopping come momento di piacere, porta a considerare il moderno punto vendita come luogo d’incontro, di coinvolgimento. Si tratta di uno spazio che, pur commercializzando una ben definita tipologia di prodotti, la presenta in un ambiente unico, in cui ogni dettaglio serve a far entrare il cliente in un mondo irripetibile. Questo nuovo format diviene un luogo di sperimentazione dove il brand può osare fondendo stili e prodotti che altrove risulterebbero incompatibili. La teoria economica è infatti d’accordo nell’affermare che negli spazi contemporanei di vendita non si entra necessariamente per comprare, ma anche per aggiornarsi ed esplorare. Il punto vendita deve pertanto trasformarsi da luogo di acquisto in punto di incontro e permanenza, sviluppando le sue potenzialità di luogo multisensoriale. È chiaro che attraverso tale procedura il

Evoluzione del ruolo del punto vendita

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P

IL CONSUMATORE POSTMODERNO

er decenni, l'unica priorità del brand è stata quella di creare il miglior prodotto possibile al prezzo più competitivo per garantire le vendite. Ma poiché i consumatori hanno sviluppato una comprensione più ampia di temi come sostenibilità, autenticità e trasparenza, i brand e i rivenditori si sono visti costretti a cambiare il modo di vendere per poter sopravvivere. Inoltre, la presenza di una domanda instabile e tendenzialmente eterogenea ha creato, con maggiore evidenza rispetto al passato, una frammentazione del mercato che determina la nascita di stili di vita differenti, caratterizzati da una crescente necessità di identità personale, dalla ricerca di prodotti di alta qualità e a costi contenuti, differenziati da quelli acquistati dagli altri consumatori (Provenzano, 2012). Ecco perché oggi il consumatore, non più definito “moderno”, bensì “postmoderno”, necessita di un forte risvolto emotivo in qualsiasi decisione razionale d’acquisto. Il mercato oggi viene inteso come un “universo relazionale in cui è immerso l’attoreconsumatore, un particolare attore sociale che, nella molteplicità dei ruoli che esplica, in qualche modo o in qualche momento produce, consuma e sviluppa relazioni con gli altri” (Provenzano, 2012). Il consumatore è alla ricerca di un dialogo profondo con l’azienda per soddisfare il proprio bisogno di identificarsi con i valori promossi da essa. Tale bisogno nasce dal fatto che quegli stessi valori sono modellati proprio a partire dalle esigenze che il consumatore stesso esprime. In altre parole è il consumatore a decidere il mercato e allo stesso tempo vuole essere sedotto da esso. Non si tratta più quindi di un soggetto debole, da educare attraverso i mezzi di comunicazione, ma di un individuo che ha bisogno di giocare un ruolo attivo nel consumo e di rivalutare le proprie priorità; è disincantato, laico, autonomo e responsabile, consapevole che i consumi sono diventati una forma di linguaggio. “Si tratta di un consumatore eclettico che segue lo slalom e adotta lo skate per muoversi e districarsi nel mondo delle merci e in un mondo di percorsi sempre più flessibili e variegati rispetto a quelli tradizionalmente lineari” (Fabris, 2009).

La rapida evoluzione di nuove tecnologie di comunicazione visiva e nell’uso del computer negli ultimi due decenni ha reso i giovani consumatori molto esigenti e molto critici verso tutto ciò che rappresenta l’immagine, dalle campagne pubblicitarie, al packaging di prodotto all’interior design dei negozi. L’avvento delle trasmissioni satellitari e la diffusione di internet hanno creato dei consumatori esperti ed informati, in alcuni casi molto influenzati dalle mode, ma spesso attenti alla coerenza dei messaggi legati ai prodotti e allo stile che questi rappresentano. Inoltre, va tenuto in considerazione come il web sia diventato uno strumento di aggregazione tra “tribù”, che permettono a queste di avere una stretta interazione con le aziende, anche se si trovano lontane geograficamente. A tutto ciò va aggiunto il non trascurabile fatto che i consumatori sono ormai “saturi”, subissati da continui messaggi e stimoli commerciali, e il conseguente crescente aumento dell’offerta di prodotti e servizi ha inevitabilmente accresciuto il livello di esigenza nei consumatori al punto che i criteri di valutazione in fase di acquisto sono aumentati. Cappellari definisce infatti il nuovo consumatore come un “individuo che non segue più un modello lineare, condizionato da variabili come il reddito disponibile o la classe sociale di appartenenza, ma è invece eclettico e pragmatico e i suoi modelli di consumo sono assimilabili ad un “patchwork costantemente cangiante”. Oggi, infatti, di un prodotto si ricercano, non necessariamente a livello conscio, valori nuovi legati al visual merchandising, alla customer service, all’immagine e all’etica aziendale, all’utilizzo di tecnologie di produzione ecocompatibili, all’attenzione alle implicazioni ergonomiche (Trevisan, Pegoraro, 2007). Tutto ciò ci induce a fare una riflessione sul significato delle mutazioni dei consumatori e dei loro bisogni: si può ragionevolmente affermare che il mercato ha subito negli ultimi quindici anni un profondo cambiamento e che i consumatori, fatte le debite eccezioni, oggi non vogliono prodotti, ma ricercano soprattutto emozioni. La nostra epoca vede il consumatore come un soggetto sempre meno disposto ad omologarsi agli altri e

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ispirazione all’acquisto, vuole acquistare ma non sa bene cosa; 3. Qualcosa da fare: il consumatore non ha come obiettivo l’acquisto immediato, ma vuole informarsi. Trasformare un potenziale acquirente in un acquirente effettivo è il primo obiettivo dello spazio retail. L’offerta di prodotto deve innanzitutto essere in grado di soddisfare la richiesta di acquisto specifico. La varietà di prodotto, la possibilità di scelte alternative e la disponibilità di quanto il consumatore cerca sono i fattori cruciali per questa tipologia di cliente, e devono quindi essere garantiti; oltre a questo, l’immagine dello spazio e il customer service devono allineare l’offerta ad un livello coerente con l’immagine del brand. Per quanto riguarda i consumatori incerti, che stanno cercando motivazioni all’acquisto o che desiderano informarsi sulla disponibilità o varietà dell’offerta, possiamo dire che essi rappresentano un’importante occasione per il retailer. Per queste categorie lo spazio di vendita deve non solo garantire la varietà e la profondità dell’offerta, ma anche essere in grado di convincere e persuadere il potenziale consumatore, stimolando le sue motivazioni all’acquisto. Sia l’immagine dello spazio, che la professionalità e preparazione dei venditori sono cruciali per questa categoria di consumatori, e possono fare la differenza nel passaggio da consumatore potenziale a cliente effettivo.

per questo nel processo di scelta chiede prodotti rispettosi della sua unicità di individuo. Egli si allontana dall’ideologia di un tempo, dalla dipendenza alla marca, da comportamenti inerziali, per abbracciare un pragmatismo accentuato. Lo shopping quindi non soddisfa più solo bisogni elementari, ma desideri più complessi e articolati di rassicurazione e di seduzione. Si può quindi dire che emozioni e seduzione sono i due cardini attorno cui ruotano, da un lato le strategie di comunicazione delle aziende, e dall’altro la definizione di nuovi concept creativi nell’ambito del retail design. In sostanza, oggi come non mai, l’atto della vendita si identifica come un atto di seduzione, e chi acquista molto spesso preferisce alcuni prodotti ad altri proprio per la forza di seduzione e coinvolgimento che il sistema di presentazione riesce ad esercitare. Soprattutto nel fashion business sempre più spesso le aziende sviluppano strategie che propongono in maniera più sofisticata e mirata un “lifestyle” anziché una serie di prodotti (Provenzano, 2012). Lo stile è ciò che distingue, che caratterizza e che seduce, ed esso viene venduto tanto meglio quanto più forte e coerente è l’identità estetica del negozio con la strategia di immagine dei prodotti e la filosofia aziendale, e tanto più seducente è la storia con la quale si raccontano questi elementi.

Intenzioni

CATEGORIE DI CONSUMATORI

A

nalizzando le motivazioni che spingono all’acquisto, si possono individuare diverse categorie di consumatori, e definire di conseguenza il migliore approccio per ciascuna di esse. I meccanismi che influenzano le motivazioni all’acquisto sono le leve su cui si concentrano tutte le filosofie di retail design (Trevisan, Pegoraro, 2007). Si possono quindi stabilire tre diverse intenzioni che il potenziale consumatore può avere quando entra in contatto con il negozio: 1. Acquisto specifico: il consumatore sa già cosa vuole e dove trovarlo; 2. Incertezza di acquisto: il consumatore cerca

CONSUMATORE

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Acquisto specifico Ricerca di motivazioni Qualcosa da fare


Si possono definire cinque motivazioni di base all’acquisto; esse sono valide per ciascuna delle categorie di consumatori analizzate e definiscono i fattori che influenzano la scelta del brand o di un prodotto specifico all’interno di una scelta articolata. 1. Attrazione; in generale dipende da come l’azienda sceglie di parlare al consumatore, da come comunica i suoi valori e la sua offerta. L’attrazione può essere stimolata in due modi: attraverso i canali di comunicazione caratteristici del brand, e nel punto vendita attraverso le vetrine e i focal point interni. 2. Chiarezza e facilità di fruizione; definisce la capacità di esprimere, all’interno del punto vendita, la varietà dell’offerta con semplicità. È sicuramente giocata con lo studio di un layout logico e funzionale, attraverso la definizione di aree specifiche, la suddivisione dell’offerta in categorie merceologiche, il mix di prodotto proposto ed il suo corretto posizionamento all’interno del negozio.

Obiettivi retail Motivazioni

Soddisfare Convincere Persuadere

3. Freschezza e cambiamento; rappresentano un’altra importante motivazione all’acquisto e sono garantiti da uno strutturato processo di merchandising e visual merchandising atto a rendere l’offerta presente nel negozio sempre nuova ed in continua evoluzione. L’interior design del negozio può essere pensato con soluzioni flessibili per rendere l’ambiente facilmente reinterpretabile 4. Piacere; è certamente uno degli elementi che costituiscono la base dello shopping. Piacere nel visitare uno spazio, nel vivere un’esperienza e nell’acquistare, per poi possedere un certo prodotto. La chiave per la stimolazione sta sicuramente nel creare ambienti con soluzioni innovative e sorprendenti nei quali il cliente sia catturato in un progetto multisensoriale. La creazione di aree dedicate ad attività di intrattenimenti e non necessariamente legate alla vendita, come pure un ottimo livello di customer service, incrementano

la percezione di piacere da parte del cliente. 5. Lifestyle; ossia la consapevolezza che il brand rappresenti uno stile di vita prima ancora che un prodotto, è un’altra forte motivazione all’acquisto. La possibilità per il consumatore di entrare in un circolo esclusivo, di cui condivide i valori e i simboli, rappresenta uno dei principali fattori che determinano la preferenza di un brand sui competitor. Queste caratteristiche sono state ormai oggi ampiamente e necessariamente assimilate dalle imprese, dato che è stato proprio il cambiamento del consumatore il punto di partenza per la revisione delle strategie di marketing moderne. Bisogna tuttavia rendersi conto della rapida mutevolezza e della netta impermanenza di un comportamento assoluto, che richiede uno studio costante e un’attenzione sempre proattiva, e mai passiva, dei bisogni del consumatore.

Tecniche

Cardini

Attrazione

Supporto al brand (advertising) Vetrine come strumento di comunicazione

Brand

Chiarezza

Layout strutturato e funzionale Product mix, posizionamento

Prodotto

Freschezza e cambiamento

Temi di merchandising POP material

Merchandising

Piacere

Dettagli inaspettati Customer service

Design

Lifestyle self image

Esclusività e innovazione Creazione di un lifestyle

Servizio

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Fondamenti del retail design


“A designer is a planner with an aesthetic sense.� Bruno Munari, artist, designer and writer

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C

ome anticipato nel Cap. 1, la figura del retail designer è nata ufficialmente negli anni ‘70 e da allora ha assunto un’importanza maggiore, evolvendosi e diventando essenziale nello sviluppo delle strategie del retailer. Essa si è evoluta da semplice progettazione di interni ad un ambito multidisciplinare nel quale vengono integrate diverse attività. Non si parla più quindi della sola progettazione dello spazio di vendita, ma della progettazione di vere e proprie strategie di comunicazione.

Nel “caos” derivante dall’interdisciplinarietà del progetto, il designer “è spesso il solo che cerca di conoscere e di capire gli svariati linguaggi tecnici e propri di discipline diverse, e probabilmente in virtù della propria preparazione culturale e storica, il ruolo del designer è sempre più quello di interprete e regista dei disomogenei contributi degli esperti del gruppo. […] il designer può essere considerato come una sorta di “sintetizzatore” dell’equipe di progettazione” (Gerosa, 2008).

MARKETING GRAPHIC DESIGN

TECNOLOGIA SOUND DESIGN

RETAIL DESIGNER

ERGONOMIA INTERIOR DESIGN

PSICOLOGIA

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L’area di conoscenza tecnica del retail designer spazia infatti dalla psicologia alla tecnologia, dal marketing all’ergonomia, dall’illuminotecnica al sound design, dall’interior al graphic design, nel tentativo di rendere protagonisti del sistema finale il consumatore e il prodotto, enfatizzando il lifestyle che l’azienda vuole trasmettere e cercando di anticipare le tendenze in quel preciso campo d’azione. Questo si traduce anche nel riuscire a dare il giusto stimolo motivazionale al consumatore: analizzare le differenti modalità d’acquisto, capire come nascono, per poi trovare il giusto mix a seconda del target, del luogo, del prodotto di riferimento. Il modo in cui il retail designer interpreta lo spazio, il ruolo delle luci che mettono in risalto un prodotto rispetto ad un altro, le vetrine, il layout distributivo, i focal point e la presenza di loghi interni ed esterni contribuiscono a trasmettere un messaggio ben definito. Egli deve essere abile nell’orchestrare ogni minimo dettaglio affinché sia valorizzata al massimo la merce sia a livello materiale che a livello immateriale; il progetto deve avere un approccio globale, non necessariamente legato alle teorie estetiche del progettista, ma allo stesso tempo utilizzare queste ultime per mettere in atto le strategie e le richieste dell’azienda, mettendo così in risalto la sua mission (Trevisan, Pegoraro, 2007).


PROGETTAZIONE RETAIL

Oltre al ruolo fondamentale che riveste la valorizzazione del prodotto, è molto importante che azienda e progettista tengano sempre a mente un altro aspetto; il rispetto per il cliente. La progettazione e la comunicazione ad ogni livello passano proprio attraverso il concetto di “rispetto” per il fruitore del progetto. Un retail di successo è quello che non metterebbe mai in secondo piano il punto di vista del cliente e la sua fedeltà. Il retailer deve saperlo ascoltare, creando prodotti sempre adatti alle sue esigenze. Dal canto suo il retail designer ha il compito di progettare ambienti nei quali il potenziale consumatore possa sentirsi gratificato dalla scelta di un determinato prodotto e di una determinata azienda. Questo diventa possibile non soltanto grazie all’acquisto, ma anche grazie all’attesa che lo precede e ad altre attività dette di “decompressione” come la musica, la conversazione, la lettura o l’offerta di un cioccolatino. In questo modo il fruitore si può sentire maggiormente coinvolto e quindi spinto a considerare le proposte d’acquisto (Trevisan, Pegoraro, 2007). La peculiarità della figura del retail designer, nel nuovo panorama del consumo, sta diventando sempre più richiesta e così si assiste da un po’ di anni alla nascita di veri e propri studi professionali dedicati, team di più persone la cui attività concerne tutti gli aspetti sopra elencati. Alcuni dei più significativi nel panorama italiano sono Paolo Lucchetta + RetailDesign S.r.l. con base a Venezia; RED, la divisione di retail e design di MarketingTrade, con base a Milano; lo studio Costa Group con base a La Spezia, insieme a studi di architettura che ormai da anni lavorano continuativamente con il mondo del retail, come lo studio +Arch, Studio Fuksas, Fabio Novembre, Citterio&Partners e molti altri.

P

er permettere ai consumatori di comprendere a pieno i valori del brand all’interno dello spazio commerciale, il retail designer deve essere in grado di fondere accuratamente tutti gli elementi che definiscono il progetto. Egli si trova al centro del processo, in un ruolo in cui l’obiettivo finale è quello di sintetizzare e raccogliere dati provenienti da fonti diverse, sia interne che esterne, per realizzare uno spazio in cui i valori dell’azienda, i suoi obiettivi economici e la presentazione del prodotto sono in perfetta sintonia (Trevisan, Pegoraro, 2011). La raccolta delle varie informazioni deve essere condotta a tutto tondo a partire dalle indicazioni fornite dall’azienda per passare poi all’analisi del contesto in cui il progetto si inserisce (luogo, competitors, spazio architettonico) e quindi, successivamente, all’analisi della domanda attuale (il target di riferimento) e delle tendenze di mercato future. Per quanto riguarda le fonti interne, le informazioni vengono raccolte dai vari dipartimenti dell’azienda: il dipartimento retail è in possesso dei dati di vendita, il dipartimento di marketing conosce il posizionamento e il target del prodotto, il dipartimento di visual merchandising definisce le linee guida per poter esporre nel miglior modo il prodotto e il dipartimento di comunicazione controlla le strategie comunicative del brand e supporta l’attività dell’azienda con campagne ad hoc. La perfetta integrazione dei suggerimenti raccolti dai dipartimenti specifici consentirà di definire gli obiettivi di business e le competenze delle diverse professionalità aziendali, tali da creare uno spazio che si integri perfettamente con il concept del brand (Trevisan, Pegoraro, 2007). Le fonti esterne derivano dal contesto in cui si andrà ad operare, dal cambiamento dei mercati, dai trend del momento e dalle innovazioni di design. Essere in grado di captare tutte queste informazioni è essenziale per riuscire ad affrontare il mercato in modo attivo, cercando di tracciare un profilo futuro e riuscendo a gestire l’immagine dello spazio commerciale, per consentire al marchio di confrontarsi continuamente con nuove realtà e nuovi competitor. (Trevisan, Pegoraro, 2007)

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Il prodotto è il protagonista assoluto del progetto di retail design. Lo studio del layout, dei colori, dell’illuminazione, dei materiali: tutto è teso unicamente alla valorizzazione di ciò che lo spazio andrà a contenere. È importante quindi analizzare con attenzione le caratteristiche del prodotto: in primo luogo le caratteristiche fisiche (colori, forma, dimensioni, che andranno a definire le proprietà degli espositori), in secondo luogo il valore, sia quello reale, sia quello che percepirà il cliente. Il valore del prodotto è inoltre definito dalla presentazione, dalla location in cui si trova lo spazio commerciale, e dall’idea di esclusività che ne deriva (Trevisan, Pegoraro, 2007).

In questa fase preliminare, l’obiettivo del retail designer è quello di identificare e chiarire quali sono i fattori che influenzano e contribuiscono alla definizione dello spazio vendita, e quali le informazioni da raccogliere prima di poter iniziare il progetto. Questi fattori comprendono:

Valori del brand e filosofia dell’azienda

Tipologia e caratteristiche del prodotto

Quando si parla di brand si intende una passione, un sentimento forte nei confronti di un prodotto, un’azienda o un servizio, che si esprime e si identifica in una serie di valori che lo rendono unico e irripetibile. I valori dell’azienda vengono espressi in una varietà di modi: attraverso il prodotto, per mezzo delle campagne di comunicazione, attraverso un evento oppure associando il proprio nome ad altre aziende, o associazioni, o personaggi più o meno famosi, ed infine attraverso la realizzazione di uno spazio commerciale monomarca (Trevisan, Pegoraro, 2007).

Visual merchandising

I criteri espositivi del prodotto dipendono sia dalle caratteristiche intrinseche al prodotto, sia dall’immagine che si vuole far percepire al consumatore. Si tratta di una disciplina basata sia su criteri quantitativi (prezzo, quantità di prodotto esposto), sia qualitativi (struttura dell’offerta complessiva, accostamenti, possibili sinergie tra diverse categorie di prodotto e stagionalità dell’offerta) (Trevisan, Pegoraro, 2007).

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Targ riferi


rget di erimento

La definizione del target implica considerazioni sociodemografiche, sulla composizione di gruppi sociali, definiti da età, reddito, area di residenza e valori di riferimento. Bisogna però tenere in considerazione l’importante effetto della globalizzazione e del continuo formarsi di tribù tra consumatori: infatti, nel momento in cui un brand globale si presenta su mercati diversi, deve tenere presente le caratteristiche peculiari dei suoi consumatori in quell’area specifica. La progettazione di uno spazio commerciale implica la localizzazione sul territorio, in una precisa area della città, nella quale si muove una precisa tipologia di utente.

Concept

Le caratteristiche dei competitor con cui ci si confronta, ovvero un brand con il quale misurarsi in termini di immagine, di offerta di prodotto, di target di riferimento. La presenza dei competitor sul mercato pone due ordini di problemi distinti: settare un riferimento per il brand e differenziare sia l’offerta di prodotto, sia l’esperienza d’acquisto.

Caratteristiche dei competitor

Il concept e i riferimenti estetici a cui l’azienda si vuole associare sono elementi che permettono differenziazione dai competitor, l’abbassamento dei costi e l’aumento della produttività nella realizzazione, in quanto il concept fornisce una griglia, uno schema di layout, finiture e soluzioni tipiche a cui attenersi e da cui declinare soluzioni ad hoc.

Location

Nei nuovi contesti in cui si sviluppano le tribù di consumatori, le aree della città si specializzano, si segmentano, e appaiono zone dedicate alla residenza, al lavoro, al divertimento, allo shopping. Risulta quindi evidente che la scelta della location è assolutamente strategica. È importante ricordare che diverse location hanno diversi valori di costo e diversa redditività, e che l’apertura di uno spazio non può mai prescindere dal costo economico, per cui la scelta della location non è solamente una scelta di innovazione, ma anche e soprattutto una scelta tra opzioni possibili.

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LE LEGGI DEL GOOD DESIGN NEL RETAIL

D

2.

all’analisi svolta fino ad ora si può affermare che per una progettazione retail eccellente, i brand devono essere sempre al passo con i tempi e con le nuove tendenze, ed essere quindi disposti a cambiare e modificarsi continuamente. Oltre ai fattori precedentemente citati, è necessario analizzare la progettazione retail da un altro punto di vista: quello del good design. I principi di questa disciplina sono stati sviluppati da Dieter Rams, un designer industriale tedesco famoso all’epoca della Scuola di Ulm, che è stato responsabile per molti anni del design dei prodotti dell’azienda Braun. Circa 50 anni fa, nel suo tentativo di rispondere alla domanda "Il mio disegno è un buon design?", ha sviluppato i 10 principi del buon design, a volte anche noti come 10 comandamenti, declinabili a qualsiasi progetto di design. Come già anticipato nel capitolo precedente, i consumatori e le loro tendenze d’acquisto si stanno modificando considerevolmente, e con essi i prodotti di consumo e la loro estetica. Nonostante ciò, tali principi rimangono preziose linee guida, in particolare per i retail designer che, oltre allo spazio di vendita, devono progettare sapientemente una corretta e funzionale user experience. Seguendo i dettami di Rams, un buon retail design deve:

RENDERE LO SPAZIO UTILE Uno spazio di vendita deve soddisfare determinati criteri, non solo funzionali, ma anche psicologici ed estetici. Un buon retail design enfatizza la sua utilità trascurando qualsiasi cosa che possa eventualmente sminuirla.

3.

ESSERE ESTETICO La qualità estetica di un prodotto è parte integrante della sua utilità, perché i prodotti che usiamo ogni giorno influenzano la nostra persona e il nostro benessere. Ad esempio, un punto vendita ben progettato, sia esteticamente, sia funzionalmente, porterà il fruitore ad uno stato di appagamento ed è probabile che si sentirà più invogliato a farvi ritorno. Ciò accadrà solo se lo spazio di vendita è stato frutto di una buona progettazione.

4.

1.

RENDERE LO SPAZIO COMPRENSIBILE

ESSERE INNOVATIVO Lo sviluppo tecnologico offre sempre nuove opportunità di design innovativo, in particolare nell’ambito del retail, in cui si stanno sviluppando nuovi sistemi tecnologici a supporto della disciplina. Ma il design innovativo si sviluppa sempre insieme alla tecnologia innovativa e non può mai essere fine a se stesso, ne’ tantomeno deve oltrepassare il prodotto/servizio.

Esso deve chiarire la struttura del punto vendita. Ancora meglio, può farlo parlare e, nella migliore delle ipotesi, renderlo auto-esplicativo. Ad esempio, progettando un percorso espositivo corretto, la percorrenza dello spazio sarà molto più fluida ed intuitiva.

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5.

8.

ESSERE DISCRETO

CURARE I DETTAGLI

I prodotti che soddisfano uno scopo sono come strumenti, non sono né oggetti decorativi né opere d'arte. Nel caso dei punti vendita, il loro design dovrebbe quindi essere neutro e sobrio, per lasciare spazio all'espressione personale dell'utente.

Come disse l’architetto e designer Ludwig Mies van der Rohe: “God is in the details”. Il buon design deve infatti essere accurato fino all'ultimo dettaglio. Nulla deve essere arbitrario o lasciato al caso, poichè cura e accuratezza nel processo di progettazione mostrano rispetto nei confronti dell'utente.

6.

9.

ESSERE ONESTO

ESSERE SOSTENIBILE

Un punto vendita non deve mai tentare di manipolare un cliente con promesse che non possono essere mantenute. Per esempio, gli schermi di uno store non dovrebbero mai ritrarre un prodotto in un modo che lo rende più innovativo, più potente e più prezioso di quanto sia attualmente. Molto rapidamente i clienti possono perdere la fiducia costruita nel corso degli anni nel prodotto o, peggio ancora, nel brand.

Un buon design è ecologico. La progettazione apporta un contributo importante alla salvaguardia dell'ambiente, conserva le risorse e riduce al minimo l'inquinamento fisico e visivo durante tutto il ciclo di vita del prodotto o, come in questo caso, del servizio.

7.

10.

ESSERE DURATURO

ESSERE ESSENZIALE

L’obiettivo dello store design è quello di essere duraturo nel tempo, tralasciando le tendenze momentanee senza risultare mai antiquato. A differenza del design che segue la moda dura molti anni, anche nella società usa e getta di oggi.

Il mantra di ogni retail designer dovrebbe essere “Less is more”, come suggeriva Ludwig Mies van der Rohe. Un buon store design deve essere progettato concentrandosi sugli aspetti essenziali, e i prodotti non sono gravati da elementi non essenziali. Tutto deve girare intorno a purezza e semplicità.

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N

BRAND KNOWLEDGE realizza attraverso il soddisfacimento delle aspettative di quest’ultimo vissute come valore culturale-globale. In altre parole l’azienda crea una brand identity, cioè un sistema di valori, di sentimenti, attorno alla propria offerta in base alle necessità dei consumatori e quindi, attraverso i luoghi e momenti della vendita, esaspera tali richieste generando aspettative cariche di un significato che va ben oltre il valore d’uso di ciò che viene venduto. Ma da cosa è dato il valore della marca? Dal punto di vista teorico si tratta di un concetto molto semplice: il valore di un brand è dato dalla differenza di prezzo che il consumatore è disposto a pagare per avere prodotti che si caratterizzano per l’utilizzo di una determinata marca rispetto a quanto pagherebbe per quegli stessi beni senza marca. Si noti quindi che la differenza tra i due prodotti può quindi consistere “semplicemente” nella presenza del brand, come accade ad esempio con il vassoio Gucci per produrre cubetti di ghiaccio, cubetti che non saranno diversi dagli altri dal punto di vista organolettico, ma che potranno essere preferiti dai consumatori per il solo fatto di essere dei “cubetti Gucci” (Cappellari, 2011). In una visione oggi considerata anacronistica questo atteggiamento veniva bollato come irrazionale, ma è stato osservato che ha del tutto perso rilevanza la stessa contrapposizione tra razionalità e irrazionalità nell’analisi dei comportamenti di consumo (Fabris, 2008). I beni si sono trasformati in simboli, in comunicazione, motivo per il quale tali categorizzazioni risultano pressochè inutili. I prodotti moda sono quindi l’output di una fabbrica dell’immateriale “che produce i simboli e le conoscenze associate all’oggetto mettendo insieme competenze scientifiche […], immaginazione creativa e capacità di comunicare” (Rullani, 2004) e l’esperienza di consumo è “un’esperienza cognitiva che ha valore per il significato che le viene dato” (Cappellari, 2011). Il valore della marca dipende quindi soprattutto dalla capacità di “attribuire un cuore e un’anima” agli oggetti, trasformando l’acquisto di un oggetto da puramente funzionale in “un comportamento dotato di

el sistema di offerta dei prodotti della moda e del lifestyle, la marca (o brand), rappresenta un attributo importante ancora di più di quanto non lo sia negli altri settori. Questa affermazione oggi appare pressochè scontata, dal momento che quasi tutte le aziende hanno incentrato le loro strategie sulla gestione di un brand il cui impiego è esteso ad un numero sempre più ampio di prodotti. Si tratta però di un cambiamento relativamente recente, perché poco tempo fa l’attenzione era invece concentrata soprattutto sul prodotto, e la marca era “poco più che un nome” (Corbellini, Saviolo, 2007). Secondo la definizione ufficiale dell’American Marketing Association, la marca è “un nome, un termine, un simbolo, un design o una combinazione di questi elementi che identifica i beni o i servizi di un venditore differenziandoli da quelli dei concorrenti.” Si tratta di un concetto immateriale, un segno di riconoscimento, distintivo, come lo è il tema di righe incrociate che rende attribuibile a Burberry prodotti diversi come borse, impermeabili o t-shirt (Cappellari, 2011). Il processo di branding consiste quindi nel differenziare i prodotti, dotandoli del potere di un brand. Vuol dire creare una connessione emotiva ed emozionale: le persone si innamorano delle marche, hanno fiducia in loro, sviluppano una forte fedeltà, le acquistano e credono in loro” (Wheeler, 2003). Secondo Kotler, si tratta però di un fenomeno che avviene nella “testa del consumatore”, il quale ha cambiato atteggiamento nei confronti della marca. È infatti diminuita la dipendenza da essa, situazione che vedeva il consumatore passivo di fronte ai messaggi e alle proposte dell’azienda (Fabris, 2008). In quest’ottica e tenendo in considerazione la volontà del consumatore postmoderno di entrare in rapporto con la marca, risulta chiaro come il punto vendita diventi momento di contatto, fisico ed emozionale, e di confronto sia tra cliente e azienda, sia tra gli stessi clienti. La marca è altresì identificativa non solo di uno status sociale (inteso più in senso comunitario, “tribale”) ma anche di una disponibilità all’acquisto che ha come fine la rassicurazione emotiva del consumatore, che si

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senso” (Fabris, Minestroni, 2004). Si tratta di una capacità sempre più importante, perché di fronte all’incertezza che caratterizza il contesto odierno i consumatori sono alla ricerca di prodotti che abbiano la capacità di entrare in contatto con la loro parte spirituale e di rispondere a bisogni di condivisione di emozioni e di valori più che di soddisfare specifiche esigenze. La gestione strategica del brand passa attraverso tre momenti (Keller, Busacca, Ostillio, 2005): la definizione del posizionamento e dei valori del brand; la pianificazione e l’attuazione di strategie di marketing rese a far sì che i consumatori siano consapevoli dell’esistenza della marca e stabiliscano con lei delle associazioni forti; infine, le attività di sviluppo e sostegno della brand equity, il capitale di valore accumulato dalla marca. L’obiettivo è generare quella che viene definita una brand knowledge, l’insieme di pensieri, sensazioni, immagini, esperienze e convincimenti associati al brand (Kotler, 2015), che si traduce in maggiore fedeltà alla marca, minore sensibilità a eventuali aumenti del prezzo dell’offerta del brand, così come a riduzioni del prezzo della concorrenza, e in una maggiore efficacia della comunicazione (Keller, Busacca, Ostillio, 2005).

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Il retail store


“Retail is detail.” James Gulliver. founder of Argyll Foods

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I

consente di avere personale dedicato, che conosce il prodotto e potrà assicurare un livello di customer service adatto (Trevisan, Pegoraro, 2007). La differenza con uno spazio multimarca è proprio quella di non dover mettere in comune ambiente, finiture, illuminazione e personale che, essendo condivisi con altri brand, saranno generici e non riusciranno a trasmettere pienamente i valori e lo stile propri. Da non sottovalutare, dal punto di vista del business, la possibilità di raccogliere dati e fare un’analisi sul mix di prodotto venduto, ottimizzandone la presentazione e traendo informazioni sulle preferenze e sugli orientamenti del consumatore. Un retail store monomarca ha quindi una serie di vantaggi e consente di coinvolgere il consumatore in una varietà di esperienze sensoriali tali da:

l retail store, secondo Trevisan, è “un negozio monomarca di un unico brand dove lo spazio è dedicato esclusivamente all’esposizione di quest’ultimo”. Lo spazio è solitamente racchiuso da pareti e vetrine che circoscrivono un’area, e porta all’esterno l’insegna o il logo del brand. Si tratta di una grande occasione per la marca di mettere in mostra il prodotto in un ambiente conosciuto e controllato. Il principale vantaggio per il brand di uno spazio retail monomarca è infatti la possibilità di controllare tutti gli aspetti di immagine: definire, attraverso il layout, il percorso del consumatore, stabilire quali categorie merceologiche possono essere affiancate e in quale modo, identificare materiali, illuminazione e visual merchandising che esaltino il prodotto e il messaggio che il brand vuole comunicare. Inoltre, va ricordato che lo spazio monomarca

È auspicabile infatti che l’investimento maggiore dell’azienda, l’attenzione al dettaglio e al servizio, al visual merchandising e al mix di prodotto presentato portino ad un ritorno in immagine per il brand, e di conseguenza alla possibilità di segmentare i prezzi nel canale retail.

È chiaro come la conoscenza del consumatore sia cruciale per il raggiungimento di questo obiettivo e come un livello adeguato di customer service si possa ottenere solo con personale dedicato.

Assicurare la soddisfazione del cliente e la sua fedeltà

Creare e mantenere la personalità del brand

Consentire il premium pricing

Presentarsi in uno spazio autonomo fa trasparire maggiore autorità e dichiara l’intenzione del brand di voler comunicare un messaggio originale ed unico.

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Proteggere il brand dal rischio di imitazione

Uno spazio personalizzato crea con il consumatore un rapporto che va oltre il semplice acquisto. Si tratta infatti di una vera e propria esperienza, la rappresentazione di uno stile di vita, più difficile da imitare di quanto lo sia un prodotto singolo.


TIPOLOGIE DI RETAIL STORE

L

a realizzazione di un retail store è preceduta dalla definizione di un concept, una serie di suggestioni, messaggi da comunicare e modalità per farlo, ma anche regole e soluzioni tipiche che serviranno da base alla progettazione specifica. La successiva applicazione del concept dipende dalle caratteristiche e dalle necessità dello spazio, e può dare origine ad una serie di tipologie diverse. Si sceglie una tipologia rispetto ad un’altra in base ad alcune variabili strategiche, tra cui le esigenze di mercato, di location e d’immagine del brand che si vogliono trasmettere. Risulta però difficile dare una classificazione precisa secondo delle categorie univoche, dato il continuo processo evolutivo di tali spazi e data l’attuale fluidità interdisciplinare che li caratterizza. È però possibile fornire delle chiavi di lettura per meglio comprendere, in tale diversificazione, le varie modalità adottate per meglio evidenziare l’identità di marca nello spazio vendita. Come suggerisce Giulia Gerosa nel suo testo “Il progetto dell’identità di marca nel punto vendita” si possono considerare due variabili principali:

spazio e tempo.

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SPAZIALE Si intende, in questo caso, la dimensione che un punto vendita può assumere in termini di grandezza degli spazi, posizionamento e tipologie espositive.

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TOTEM “Si presenta come unità minima di comunicazione del brand all’interno di uno spazio multimarca.”

P

er quanto riguarda la variabile dimensionale si parte dal ridotto ingombro del totem espositore. Esso, per comunicare efficacemente, deve essere caratterizzato da un’immagine dalla forte riconoscibilità; deve sfruttare inoltre la sua verticalità per catturare l’attenzione in mezzo alle altre merci esposte. In questo caso fondamentale importanza è assunta dalla componente ergonomica: non potendo “contenere” il fruitore, il totem deve invogliarlo al contatto diretto, ad interagire con i prodotti da esso esposti e con la sua stessa struttura. Il totem può essere progettato a partire dai prodotti da esporre oppure può essere costituito dai prodotti stessi, sostenuti da una sottile e discreta struttura.

Totem espositori di Viktor&Rolf e Dior (fonte: ideavetrina.com)

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CORNER SHOP “Si tratta di un vero e proprio negozio nel negozio, un elemento autonomo rispetto al contenitore architettonico in cui è inserito.”

S

i passa poi al corner, uno spazio dedicato al brand all’interno di un negozio multimarca o department store. In queste aree l’acquisto avviene principalmente in modalità self-service, per cui la disponibilità di prodotti sia in display che in stock è fondamentale. Per quanto riguarda il layout, il corner è definito come un’area del piano di vendita, non delimitata da pareti, in cui gli arredi vengono disposti liberamente. Le dimensioni solitamente sono inferiori ai 130 mq, rendendo possibile la variazione degli assortimenti quando necessario, così da rendere lo spazio flessibile. Camerini, cassa e stock sono condivisi da altri corner. La mission di questa forma di distribuzione è quella di far percepire in maniera più nitida la valenza distintiva della marca, anche se le piccole dimensioni non permettono di rappresentare il brand nella sua interezza (Cecconi, 2005).

Corner shop di Miu Miu, Parigi, Galeries Lafayette (fonte: personale)

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“E’ un negozio monomarca all’interno di un centro commerciale o shopping mall.”

SHOP -INSHOP

L

o shop-in-shop, o concession presenta, in termini di offerta, le stesse caratteristiche dei regular stores. Normalmente uno shop-in-shop beneficia del traffico generale del department store in cui è inserito. Ha dimensioni più piccole rispetto ad un negozio standard ma redditività più alta, dovuta ai minori costi di gestione. Gli ingressi sono aperti sulle vie commerciali, senza porte, ma gli spazi sono comunque delimitati da pareti (Trevisam, Pegoraro, 2007).

Shop-in-shop Zara Torino, Centro Commerciale Le Gru (fonte: fashionmagazine.it)

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REGULAR STORE L o show-room o negozio monomarca, detto anche regular store, è un ambiente che diventa personificazione della marca. In questi spazi la brand identity si impone in modo chiaro e coerente: tutto parla dell’azienda e dei suoi valori. Caratteristica peculiare degli show-room è la sistematicità e la riproducibilità degli elementi

interni: la progettazione modulare, coerente dal punto di vista comunicativo, è facilmente riproponibile in diversi ambiti, adattandosi di volta in volta alle particolarità del luogo prescelto senza perdere la forza d’immagine complessiva che risulta in un’immediata riconoscibilità da parte del consumatore (Trevisan, Pegoraro, 2007).

Regular Store di Michael Kors, Torino, Via Roma (fonte: torinoshoppinglam.it

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“Uno spazio dalle generose dimensioni, solitamente organizzato su uno o più livelli, che grazie alla vastità dell’offerta del brand si può definire come lo specchio del marchio.”


FLAGSHIP STORE “Una sorta di negozio show-room situato in location prestigiose delle grandi città, creato per far vivere ai clienti nel migliore dei modi la customer experience.”

L

etteralmente “negozio capitano, porta bandiera”. Con il flagship store le aziende riescono a dare una rappresentazione completa sia dell’offerta, sia dell’immagine del brand, creando grandi ambienti che interpretano le tendenze e i valori dello stesso. In questi spazi si riesce ad avere una relazione ancora più profonda con il brand grazie anche ad un tipo di allestimento più esclusivo, che prevede l’inserimento di elementi che vanno oltre l’immagine standardizzata dello showroom (Trevisan, Pegoraro, 2007).

Vista esterna ed interna del flagship store di Givenchy, Seoul Progetto dello studio milanese Piuarch (fonte: architetto.info)

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CONCEPT STORE “È uno spazio costruito per un tema specifico, dove i prodotti sono esposti in un contesto spettacolare ed espressivo.”

I

l concept store è uno spazio particolare, in cui il punto focale è la ricerca di modalità per proporre il prodotto e attirare l’attenzione del cliente. Presenta un carattere esclusivo dato da esposizioni temporanee, eventi e opere d’arte che vengono ospitate al suo interno. L’obiettivo è quello di trasmettere un lifestyle e un nuovo concetto di vendita, che mescola oggetti diversi in un’esposizione curata nel minimo dettaglio; in questo caso le leve come la location, il visual merchan-

Water Bar nel seminterrato di Colette, Parigi (fonte: artslife.com)

dising, e l’arredo devono essere coordinati per trasmettere lo “spirito del brand” (Di Gregorio, 2006). Uno degli esempi più famosi è Colette, eclettico concept store parigino, chiuso definitivamente nel dicembre 2017, che ha ospitato al suo interno ogni genere di prodotto. Una delle attrazioni più stravaganti era il Water Bar nel seminterrato, dove si servivano più di 100 marchi d’acqua, persino quella ottenuta dallo scioglimento degli iceberg (artslife.com).

Interno di Colette, Parigi (fonte: fashionology.com)

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EDIFICIO MONOMARCA “Edificio dedicato all’azienda, al suo mondo e ai suoi valori, per imporsi comunicativamente. anche a livello urbano, portando lo spazio della vendita al massimo livello di esclusività.”

L

’edificio monomarca rappresenta una tendenza soprattutto dell’ultimo decennio. L’azienda affida la progettazione solitamente a progettisti di fama internazionale. Ecco così che marchi come Prada, Tod’s, Hermes, Louis Vuitton e Adidas si affidano ad archistar del calibro di Rem Koolhaas, Renzo Piano, Herzog&DeMeuron e Judge Gill per la realizzazione dei loro headquarters.

Edificio monomarca di Louis Vuitton, Parigi, Place Vendôme Progetto dell’architetto Peter Marino (fonte: luukmagazine.com)

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TEMPORALE In questo ambito, il progetto degli spazi del retail viene declinato secondo i concetti di temporaneità, trasformabilità e trasportabilità. Concetto strettamente legato a questo tipo di approccio è la fluidità che contraddistingue la relazione tra marca e consumatore, che risulta in continuo mutamento: si arriva allo pseudo paradosso di progettare gli spazi della vendita non necessariamente per la vendita, ma declinandoli sottoforma di eventi, esperienze in cui l’acquisto immediato del prodotto è un aspetto marginale.

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POP-UP STORE “Si tratta di ambienti retail esclusivi che aprono per periodi limitati in location temporaneamente vuote delle principali città.”

I

temporary store, o pop-up store, sono spazi che appaiono e scompaiono. Espongono edizioni limitate, collaborazioni con designer e brand. In molti casi non tutti i prodotti esposti sono in vendita, rafforzando così l’idea di uno spazio destinati a pochi. Questo tipo di negozio è sicuramente tra i più innovativi. Qui non è presente la tradizionale figura dell’addetto vendita, in quanto non c’è il tempo per creare un rapporto con il cliente. Un esempio recente è Trussardi, che ha aperto un temporary store all’interno della galleria Alberto Sordi a Roma, in cui sono esposti esclusivamente gli accessori: la boutique è stata arricchita da una grafica multicolore con il coinvolgimento del famoso graphic designer milanese Guido Duty Gorn.

Temporary store di Trussardi, Roma, Galleria Alberto Sordi (fonte: dutygorn.com)

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SHOP SHARING “Uno stesso spazio viene destinato ad ospitare ambienti monomarca ma per periodi limitati.”

O

ltre che spazi temporanei, i luoghi della vendita possono essere anche trasformabili, o meglio, non è lo spazio in sé che cambia ma “è l’uso che ne viene fatto che determina una variazione dell’ambiente in cui l’utente è immerso” (Gerosa, 2008). In questa “categoria” rientra il fenomeno dello shop-sharing. Troviamo quindi nello show-room Prada di New York progettato da OMA di Rem Koolhaas una particolare soluzione allestitiva che, all’occorrenza, si trasforma da rampa di ingresso a spazio per live performance, o ancora viene variato l’allestimento interno a seconda del momento della giornata in relazione alla tipologia di utenza di passaggio. A differenza dei pop-up store, in questo caso il luogo rimane sempre lo stesso e per questo la struttura viene progettata appositamente per poter accogliere differenti tipologie merceologiche.

Shop-sharing di Prada, New York Progetto dell’architetto Rem Koolhaas (fonte: oma.eu)

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PUNTI VENDITA TRASPORTABILI I n questo caso si possono avere o mezzi di trasporto-icone, che vengono di volta in volta interpretati secondo i dettami del brand con l’uso di colori, materiali e forme specifiche, oppure delle strutture leggere e flessibili dal facile montaggio/smontaggio in grado di adattarsi nel migliore dei modi ad ogni possibile contesto, come lo spazio Nivea presentato al Fuorisalone di Milano nel 2008 alle colon-

ne di S. Lorenzo, o ancora dei container che con un semplice comando elettronico possono aprirsi e diventare dei piccoli corner point itineranti, come la Push Bottom House di Illy Café, esposta alla 52° Biennale di Venezia. Essa comunica, oltre l’idea di trasportabilita, l’attenzione dell’azienda nei confronti della sostenibilità, grazie alla progettazione di un allestimento composto da materiali riciclati e

California Bee di California Bakery, Fuorisalone Milano, 2014 (fonte: cosmopolitan.com) Push Bottom House di Hilly, 52° Biennale di Venezia (fonte: stile.it) Spazio Nivea, Fuorisalone Milano, 2008 (fonte: pianob.it)

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riciclabili (Vaudetti M., Canepa S., Musso S., 2014). O ancora, il food truck di California Bakery, la “California Bee”, una vera e propria “estensione motorizzata” dell’azienda.


Il visual merchandising


“If eyes are the windows to the soul, then shop windows are just as revealing. They reveal the soul of the shop.� Debra Templar, retail consultant

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C

oerentemente con questa visione dell’evoluzione dei fenomeni legati alla vendita al dettaglio si può intuire come sia parallelamente cresciuta l’importanza di alcune discipline come il marketing, il visual merchandising, il retail design, le discipline legate alla comunicazione, quelle focalizzate sul contatto diretto prodotto-utente e non solo: entrano in gioco con un ruolo sempre più decisivo la sociologia, la psicologia e quelle discipline che analizzano la sfera emotiva ed emozionale: insomma, un ricco e completo contributo da diversi approcci disciplinari, che ha come fine ultimo la centralità del consumatore e la sua attenzione verso il marchio. Grazie all’avvento delle moderne tecnologie di comunicazione di massa, fenomeni

quali marketing e visual merchandising hanno potuto davvero permeare la vita delle persone, in ogni momento della loro giornata, tanto negli spazi pubblici quanto in quelli privati. Anzi, è lecito affermare che la linea di separazione tra pubblico e privato non esiste quasi più, data la crescente tendenza a caricare di affetti privati gli spazi pubblici (il famoso “sentirsi accolti come a casa”) e viceversa, riproporre nel privato le modalità comunicativo-espressive utilizzate nel pubblico. Il visual merchandising vero e proprio, nome che identifica l’arte di esporre merci al fine della loro vendita, ha fatto la sua comparsa a metà dell’Ottocento a Parigi, con l’apertura del primo grande magazzino al mondo: Le Bon

Le Bon Marchè, Parigi (fonte: forbes.com)

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Marché. È proprio con l’avvento di questo tipo di punto vendita che l’esposizione delle merci subisce un forte passo avanti: le grandi vetrine e i grandi spazi interni diventano perfette scenografie, distaccandosi fortemente dalle modalità fino ad allora usate dai piccoli commercianti che, come Tony Morgan ricorda, “cercavano di allettare i clienti mettendo in evidenza il proprio nome ed esponendo i prodotti nelle vetrine o su bancarelle in strada, per dimostrare che il negozio era aperto e che erano orgogliosi dei loro prodotti”. Da quel momento in poi cominciarono a diffondersi, soprattutto negli Stati Uniti, i grandi magazzini, i quali creavano un legame emotivo con coloro che si soffermavano ad osservare tali esposizioni.


Un forte cambiamento, una vera rivoluzione in questo ambito, si è verificata nei primi del Novecento con l’apertura di uno dei più importanti centri commerciali inglesi: Selfridges, già citato nel Cap.1. Gordon Selfridge, di origine americana, dopo aver aperto altri grandi magazzini a Chicago, si è trasferito nella Londra edoardiana con l’intento di portare al pubblico inglese i moderni “centri dell’acquisto”. La grande novità era data dall’illuminazione continua nelle 24 ore: in tal modo le vetrine potevano essere ammirate anche di notte, quando le persone tornavano a casa da teatro passeggiando per la principale strada della città. Questa è solo una delle numerose innovazioni che si sono susseguite, tutte mirate ad attirare l’attenzione dei passanti, a incuriosirli, a stupirli, creando una cornice

magnetica in cui inserire i prodotti in vendita, quasi a trasformare la merce in un’opera d’arte. Anche per questo motivo già dagli anni Venti si assiste ad una commistione tra esposizione vetrinistica e arte. La moda, e l’insieme di simboli, significati, emozioni, sogni che girano attorno ad essa, è stata, più di ogni altra disciplina, di fondamentale importanza per lo sviluppo e il cambiamento delle modalità

Vetrine di Selfriges, Londra 1921 (fonte: wallpaper.com)

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di esposizione e vendita delle merci o anche solo di comunicazione del marchio. Proprio come in una sfilata di moda i prodotti vengono mostrati al pubblico con un contorno di luci, colori, suoni, odori, materiali particolari ed accattivanti. Inoltre, grazie all’utilizzo di moderne tecnologie si sta andando molto oltre, sfruttando il digitale e il virtuale alla ricerca della migliore esperienza d’acquisto da offrire.


I

DEFINIZIONE E RUOLO DEL VISUAL MERCHANDISING

l punto vendita rappresenta una fase fondamentale della shopping experience. È l’unico luogo dove si possa dialogare con il consumatore per condurlo ad una decisione. Risulta evidente l’importanza che riveste nel complesso itinerario della vendita l’attrattività della vetrina, la corretta disposizione dell’interno e l’adeguata esposizione del prodotto nelle strutture di arredo. Nessuno di questi momenti può essere lasciato al caso, ma deve essere gestito con molta attenzione e, rispondere a tecniche precise, studiate e collaudate. L’insieme di queste tecniche, denominato visual merchandising, viene definito dall’American Marketing Association, come “una serie di metodi e tecniche congiunte, dei produttori e dei distributori per rendere il prodotto in azione che comprende competenze di business, di semiotica, al fine di migliorare la presentazione dei prodotti.” Oltre ai contenuti meramente logistici del merchandising tradizionale (layout delle attrezzature, layout merceologico e display), il visual merchandising associa la gestione di altre leve fondamentali per un’ottimale stimolazione della dimensione sensoriale della vista, come le insegne, le vetrine, l’ingresso, il design degli ambienti, la segnaletica e l’arredamento, l’illuminazione. Il visual merchandising è volto in particolare alla valorizzazione in chiave comunicativa del punto vendita. Più in generale, riguarda l’atmosfera prodotta dagli stimoli sensoriali che il prodotto esposto è in grado di indurre nel cliente per attirarne maggiormente l'attenzione, facilitare la preselezione e l’acquisto, aumentare i volumi di vendita. Tale disciplina cerca di ottimizzare tutte le possibilità offerte dalla vendita visiva in qualsiasi spazio vendita, grande o piccolo che sia. Esso si occupa di valorizzare al meglio il prodotto, il reparto, il punto vendita, facendo sì che il prodotto giusto sia nel posto giusto, al momento giusto ed al prezzo giusto. Un’adeguata collocazione delle merci all’interno di un punto vendita permetterà al cliente di capire fin dall’esterno se può o meno soddisfare il suo bisogno d’acquisto e, una volta dentro, il cliente sarà libero di destreggiarsi nello spesso caotico mondo dei prodotti, trovando da solo ciò

che cerca. Rendere autosufficiente il cliente tramite la facilità di lettura dello spazio visivo significa ridurre il personale di vendita e quindi le spese, oltre a fare cosa gradita al cliente stesso, il quale ama scegliere in autonomia. Una disposizione ottimale delle merci sul punto vendita è inoltre sinonimo di una gestione scrupolosa e ordinata ed evita il peregrinare inutile e stressante di chi non trova ciò che cerca. Tutte le principali catene di retail progettano, sviluppano, mantengono e monitorano strategie e politiche di visual merchandising. Da tempo i gestori dei principali canali distributivi hanno compreso l’importanza di questa leva sul processo di decisione d’acquisto del cliente finale ed insieme a loro tutte le aziende produttrici di beni di largo consumo. Numerosi studi e politiche commerciali di successo testimoniano che i vantaggi, concreti e misurabili, portano ad aumenti della redditività del punto vendita. Tali vantaggi sono: rendere più attraente l’esposizione dei prodotti, favorire l’acquisto d’impulso, fidelizzare la clientela, eliminare le rotture di stock e facilitare il lavoro di riassortimento. Il visual merchandising è una componente della gestione del punto di vendita di grande importanza, che si colloca nel più complesso mondo della grammatica visiva e della teatralizzazione delle vendite. Una corretta gestione espositiva passa attraverso le risposte ad alcune questioni strategiche che si sollevano al momento di vendere i prodotti, di progettare l’area di vendita e soprattutto di presentare le merci lungo la superficie espositiva. Si può dividere la disciplina del visual merchandising in due categorie, una strategica, o di presentazione e una funzionale, o di gestione (Provenzano, 2012). Nella prima categoria il visual merchandising si pone tre obiettivi: trasmettere l’immagine di ciò che è e di ciò che vuole vendere il brand, generare un buon flusso di traffico clienti e aumentare gli acquisti multipli e non programmati. I fattori che in questo primo caso influenzeranno il visual merchandising sono: il design del punto vendita, il packaging del prodotto e la space-allocation su cui si andrà a sviluppare la divisione merceologica.

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ta. Le quattro aree chiave a loro volta sono suddivise in funzioni molto specifiche ed attività volte a raggiungere l’obiettivo di soddisfare i clienti e ottenere una massina resa del prodotto.

Nel secondo caso invece, il merchandising di funzione sostiene le sue decisioni verificando quattro aree chiave, analisi di mercato, politica commerciale, gestione dell’assortimento e visual communication interna ed esterna al punto vendi-

- Design del punto vendita - Packaging del prodotto - Space allocation

VISUAL MERCHANDISING STRATEGICO

VISUAL MERCHANDISING FUNZIONALE

Analisi di mercato Politica commerciale Gestione dell’assortimento Comunicazione interna ed esterna -

Nel prossimo futuro i retailer si spingeranno sempre più verso prodotti ad alto valore aggiunto, alto margine e con uno stock limitato, per evitare giacenze. Il tutto per essere sempre più vicini ad un tipo specifico di clientela che sia più propensa ad acquisti d’impulso che programmati e quindi la gestione espositiva da adottare dovrà essere ad

alta attrazione impulsiva. Si deve però tener conto anche dei prodotti complementari che consentono la differenziazione vera e propria tra i vari competitor. Bisogna considerare il visual merchandising come una disciplina ad ampio spettro votata ad istituire un rapporto diretto prodotto-cliente-punto vendita (Provenzano, 2012).

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VISUAL COMMUNICATION COME LINGUAGGIO

I

n una situazione come quella odierna l’uso della comunicazione risulta sempre più importante. Il luogo fisico ha la necessità di trasformarsi da macchina per esporre a macchina per comunicare, assottigliando il confine tra exhibit e graphic design (Vaudetti M., Canepa S., Musso S., 2014). All’interno del punto vendita, l’occhio è attratto da una serie di messaggi visivi che non si limitano solo a informare, ma cercano di catturare l’attenzione del cliente grazie a diverse forme e colori. Grafica istituzionale e store directory comunicano l’immagine del brand e sono utilizzati anche per educare il cliente. I colori, lo stile delle lettere, i disegni e i materiali adottati servono per enfatizzare l’immagine dello store e dei prodotti esposti, nonché a completare il disegno complessivo del punto vendita. L’utilizzo di vetrine con allestimenti accattivanti può essere utilizzato per far acquisire consapevolezza al cliente annunciando l’identità del punto vendita senza l’utilizzo della parola. Questi strumenti sono progettati con lo scopo di attirare il cliente nel punto vendita utilizzando il fascino visivo e la comodità fisica come catalizzatore (Provenzano, 2012).

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È

LINGUAGGIO ESTERNO AL PUNTO VENDITA

chiaro quindi come il punto vendita sia il mezzo di comunicazione più immediato e diretto che può influenzare il cliente nel momento dell’acquisto. L’architettura esterna del punto vendita rivela la vera identità e la personalità del marchio, contribuendo a trasmettere l’immagine aziendale sia fisicamente, sia psicologicamente. L’affaccio sull’esterno costituisce infatti il contatto principale, un veicolo pubblicitario che va creato sapientemente, composto da due elementi principali: insegna e vetrina (Provenzano, 2012). Nell’insegna viene specificato il nome, il simbolo distintivo del brand, che formano l’etichetta commerciale che mira ad identificare i prodotti o i servizi del venditore. La vetrina è il principale veicolo di comunicazione tra l’azienda e i clienti, sintetizza e riflette lo stile del negozio. È uno strumento considerato persuasivo e coercitivo del concept aziendale. Il suo scopo principale è quello di catturare l’attenzione del passante, facendolo passare da una condizione di movimento ad un momento di pausa, ad un successivo sforzo motorio che lo spinge all’ingresso del punto vendita. Ciò avviene se la composizione dei prodotti presentati in vetrina come un racconto, che ne esalta il significato, ha saputo mantenere attivo il rapporto percezione-attenzione. Dividendo ideologicamente la vetrina in 3 spazi orizzontali si possono identificare le zone fredde, quelle calde e quelle tiepide. Il visual merchandising è una componente della gestione del punto di vendita di grande importanza, che si colloca nel più complesso mondo della grammatica visiva e della teatralizzazione delle vendite. Una corretta gestione espositiva passa attraverso le risposte ad alcune questioni strategiche che si sollevano al momento di vendere i prodotti, di progettare l’area di vendita e soprattutto di presentare le merci lungo la superficie espositiva. Si può dividere la disciplina del visual merchandising in due categorie, una strategica, o di presentazione e una funzionale, o di gestione (Provenzano, 2012). La zona calda in figura, indica lo spazio che più frequentemente viene colpito dallo sguardo dei passanti, pertanto, guardando la vetrina frontal-

mente, la zona calda si troverà ad altezza occhi, a circa 140/170 cm. Le altre, come facilmente intuibile, indicano gli spazi aventi un’importanza relativamente minore. A livello pratico è importante privilegiare anche i punti di vista di provenienza dell’acquirente (centrale, destra-sinistra, sinistra-destra), in relazione anche alla zona, ad esempio, se è frequente il passaggio di mezzi pubblici, ipotizzare un ulteriore punto di vista, più alto rispetto al pedone, oppure in relazione all’ampiezza della via, più è stretta e maggior profondità verrà data alla vetrina. Non va trascurato il carattere narrativo della vetrina e come gli elementi sono messi in relazione tra loro. Il rapporto figura-sfondo è determinato anche dall’uso corretto dei colori, dettati dalla trasposizione fittizia della prospettiva aerea, dei contrasti, delle luci e degli elementi che distorcono la percezione dello spazio, quali la prospettiva e tutte le teorie delle illusioni ottiche.

ZONA FREDDA 80 cm

ZONA CALDA 80 cm

49

140 cm

ZONA TIEPIDA


LINGUAGGIO INTERNO AL PUNTO VENDITA

I

l percorso percettivo dell’acquirente inizia dall’ingresso: questa è una zona chiamata “area di adattamento ambientale”, in cui è attiva solo la ricerca di riferimenti ed elementi riconducibili a qualcosa di già conosciuto. È un’area dove l’emotività dell’utente tende ad uno stato di agitazione, dettato dal fatto di trovarsi in un ambiente nuovo e sconosciuto, ed è importante, per tale motivo, curare l’accoglienza, attraverso elementi progettuali che interagiscono con gli aspetti cognitivi e sensoriali, dando inizio alla relazione con lo spazio vendita; la comunicazione visiva gioca un ruolo decisivo poiché ha il maggior livello di attrazione e una comprensibilità immediata. Si predilige l’uso di forme circolari, rassicuranti e visibili nella loro totalità; la percezione tattile e ambientale dipende anche dai materiali utilizzati, ad esempio un rivestimento lapideo, anche se pregiato, perde il proprio pregio se è lucido, infatti riflettendo la luce perde i propri caratteri qualitativi; così come una superficie tessile a pavimento,

Ruolo di guida per i clienti.

Il punto di accesso

rende più familiare l’atmosfera e più piacevole il contatto, rallentando il flusso dei percorsi (Castaldo, 2001). Gli elementi che costituiscono gli interni di uno spazio destinato alla distribuzione di servizi sono strettamente connessi tra loro. Per stabilire l’architettura del luogo si dovrà seguire un percorso concettuale, prendendo in esame il punto di accesso, le zone calde e fredde, i vari tipi di layout fisico e il layout delle strutture. La pianificazione è quindi un processo che deve tener conto contestualmente delle parti costituenti per ottenere un’atmosfera coerente con il messaggio dell’impresa: così lo studio dei flussi determina il layout delle attrezzature, ma anche al contrario il layout delle merci determina la distribuzione dei flussi. Prima di prendere in analisi tutto ciò che riguarda gli aspetti tecnici qui citati, andranno prese in considerazione due fondamentali variabili: la comodità del cliente, ovvero la progettazione di corsie ampie e con buona visibilità, con un giusto mix di comunicazione, e la capacità di redditività,

Area in cui il flusso di clienti è minore.

La zona calda

La zona fredda

Area maggiormente percorsa dai clienti. Architettura degli interni Rielaborazione grafico pag. 71, Provenzano, 2012

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I punti freddi

Aree ai vertici della superficie commerciale. Sono i più inaccessibili e meno visibili.


L’ultimo obiettivo è quello di comunicare al cliente la convenienza e la qualità dei prodotti, informandolo sui servizi offerti. Si può quindi affermare che l’architettura del punto vendita e le attrezzature costituiscono uno degli strumenti di lavoro più importanti del visual merchandising. Va ricordato però, che le attrezzature non devono mai prevalere sul prodotto. Non è la merce che deve essere esposta in funzione delle strutture a disposizione, ma sono queste ultime che si devono adattare ad essa (Provenzano, 2012).

cioè l’uso dello spazio completo, un buon impatto pubblicitario e promozionale e un alto livello di assortimento (Provenzano, 2012). L’obiettivo dello store design è quello di generare tre principali flussi di percorrenza dei clienti, che vengono a crearsi in seguito alla corretta progettazione dell’architettura interna al punto vendita. Seguendo quindi gli otto punti sottostanti, si formano tre diversi flussi, strettamente collegati agli obiettivi del consumatore citati nel cap.1: 1. Aspirazione; il cliente entra nel punto vendita senza avere le idee chiare, vorrebbe comprare ma non sa bene cosa. 2. Destinazione; il cliente entra nel punto vendita consapevole di cosa cerca, con una destinazione precisa. 3. Impulso; il cliente non ha un obiettivo, ma entra per informarsi. Il ruolo della strategia espositiva è quello di indurlo ad effettuare acquisti di impulso tramite la disposizione dei livelli espositivi ed i tipi e le forme di presentazione proposti. Oltre alla generazione delle percorrenze, l’architettura deve perseguire altri obiettivi. I principali sono quelli di marketing; infatti il punto vendita deve rispecchiare l’immagine aziendale e facilitare l’ingresso e la circolazione della clientela.

Aree con un significativo flusso. Sono le più visibili e accessibili.

I punti caldi

Disposizione delle attrezzature di vendita e di servizio, all’interno dell’area di vendita.

La zona calda naturale

Il layout fisico

Area che si sviluppa dal punto di accesso e include principali corsie e punti di passaggio.

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Le percorrenze

Stabilite dalle corsie, luoghi dove circola il flusso di clienti all’interno deil punto vendita.


Emotional shopping experience


“Customer experience is the future of how physical retailers will generate revenue. Experiences won’t just sell products. Experiences will be the products.” Doug Stephens, retail prophet

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G

li aspetti che caratterizzano l’esperienza di shopping e lo spazio di vendita in epoca postmoderna sono molteplici e raggiungono un livello sempre più elevato di complessità per gli operatori di comunicazione, marketing e design. Attualmente il consumatore non si accontenta più dell’acquisto di prodotti di qualità, ma esige di vivere una vera e propria esperienza. Per questo motivo i beni vengono sempre più spettacolarizzati, sono ricchi di coinvolgimento e permettono al consumatore stesso di mettersi in scena come protagonista. L’attività di shopping sta cambiando, sta entrando a far parte della sfera dell’esperienza ludica e dell’intrattenimento. In uno scenario come quello attuale, il prodotto deve portare con sé questa nuova esperienza e sarà il consumatore a decidere se parteciparvi attivamente, o come semplice spettatore. Il momento dell’acquisto, come affermato negli scorsi capitoli, non è più guidato solo da motivazioni funzionali alla mera soddisfazione di un bisogno, ma anche edonistiche ed emozionali. Sono proprio queste che apportano maggiore valore al piacere e al divertimento legato alla visita di un punto vendita, unico luogo in cui quest’esperienza può prendere vita. Questo è il motivo per il quale sono sempre maggiori gli investimenti in studi di comunicazione e marketing, in un’ottica di aggiornamento e di differenziazione rispetto ai propri competitors. Uno tra i principali obiettivi degli studi sul comportamento del consumatore, infatti, è quello di comprendere le motivazioni alla base delle sue scelte, per definire le modalità attraverso le quali si verifica il processo decisionale dell’individuo che intende realizzare i suoi sogni. Non a caso si utilizza il termine “sogno” dato che, in passato, sia le decisioni legate alla morfologia del punto vendita, sia i comportamenti di acquisto, erano considerati attività puramente razionali. Solo negli ultimi anni si registrano sempre più tentativi di comprendere al meglio la dimensione emozionale dello shopping, imprescindibilmente legata allo spazio di vendita in cui si svolge e alla sua atmosfera (Provenzano, 2012).

Dopo aver appurato l’importanza che le emozioni rivestono durante l’esperienza d’acquisto del consumatore, dal momento della scelta a quello dell’acquisto effettivo, è necessario comprendere come esse influiscono sulle campagne di marketing e sui processi di design di un prodotto che vengono messi in atto, facendo appello a due importanti metodologie progettuali: quelle che vengono definite CEM e SEM dal professor Bernd H. Schmitt, e i tre livelli di emotional design definiti da Donald Norman.

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IL MARKETING EMOZIONALE

I

l marketing esperienziale, detto anche emozionale, si occupa appunto di studiare tutte quelle modalità e attività di coinvolgimento del cliente, rendendole sempre più efficaci, differenziando l’offerta commerciale sempre di più, per incrementare il suo valore intrinseco e fornire varie combinazioni di stimoli e servizi (Provenzano, 2012). Si possono quindi riassumere le strategie di questa tipologia di marketing in tre obiettivi fondamentali: Mettendo in atto strategie ben precise.

Coinvolgimento emotivo

Anticipazione e soddisfacimento dei desideri inconsci

Facendo vivere ai clienti esperienze uniche e memorabili grazie ai prodotti.

Fidelizzazione

Consolidando il legame tra azienda e consumatore.

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Feel EXPERIENCE

I tre obiettivi appena elencati possono essere conseguiti facendo vivere ai clienti esperienze, emozioni e sensazioni uniche. È importante, in questo contesto, focalizzare l’attenzione sulla creazione di esperienze volte ad interessare l’acquirente al prodotto. Schmitt nel 1999 fu il primo a parlare di Customer Experience Management (CEM). Si tratta di una metodologia capace, sulla base di studi e ricerche sulle scienze cognitive, sulla psicologia sociale e sull'antropologia applicata, di elaborare strategie adattate alle effettive dinamiche di funzionamento del cervello ed ai conseguenti processi che regolano e determinano i meccanismi di socialità tra le persone. In questo modo è possibile sviluppare nuovi business, permettendo un upgrade delle metodologie di marketing tradizionale, ormai obsolete. Le esperienze che vengono proposte dal marketing esperienziale si identificano in cinque diversi tipi, definiti come Strategic Experiential Module (SEM):

Si tratta di quelle esperienze che coinvolgono sentimenti ed emozioni, a volte anche quelli più intimi. Esperienze di questo tipo sono molto potenti in quanto gli stimoli emozionali sono soprattutto “tasselli di vita”, ovvero momenti che aggiungono gradualmente emozioni all’esperienza. Questo permette all’azienda di creare un legame con il cliente, il quale ricorderà il brand e l’esperienza vissuta ogni volta che vedrà un prodotto o servizio di quel marchio. Molte aziende si avvalgono di questo tipo di marketing emozionale, quando lanciano campagne “feel good”, che vengono utilizzate dai brand proprio per entrare in sintonia con i consumatori e creare delle esperienze emozionali con cui “legare” un cliente al marchio.

Sense EXPERIENCE

Think EXPERIENCE

Si tratta di quelle esperienze che coinvolgono la percezione sensoriale, quindi i 5 sensi (vista, udito, tatto, olfatto e gusto). Gli stimoli sensoriali risultano essere molto efficaci in quanto esercitano una forte influenza sul cliente, il quale, una volta attratto, avrà una piacevole impressione del prodotto o servizio. Inoltre il marketing, chiamato sensoriale, può essere utilizzato sia nelle fasi di prevendita che durante e dopo la vendita, per aggiungere valore al prodotto o servizio e rendere riconoscibile l’azienda.

Sono esperienze di tipo creativo e cognitivo, che basano il coinvolgimento del cliente sulle azioni mentali. Questi stimoli risultano essere più duraturi rispetto ad altri tipi di esperienze e rendono questa categoria di marketing molto efficace, perché spinge i clienti ad interagire con l’azienda ed il prodotto o servizio in modo cognitivo o creativo; per esempio spesso vengono poste domande oppure vengono sfidati i clienti offrendo loro esperienze di problem solving. Le aziende che utilizzano la think experience sono spesso brand di moda che comunicano con un target giovanile, come per esempio Desigual, che punta molto su questo genere di comunicazione durante le sue campagne di marketing.

Un esempio di sense experience lo forniscono Zalando, Asos ed altri e-commerce che, avendo capito l’importanza del “toccare con mano” i capi d’abbigliamento acquistati, danno la possibilità di provare i vestiti potendoli restituire dopo un periodo di tempo se non hanno convinto il cliente.

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Act EXPERIENCE

L’esempio perfetto per rappresentare questo tipo di relazione fra cliente ed azienda è Apple: con i suoi prodotti tecnologici ha creato delle vere e proprie community di appassionati ed ambasciatori in tutto il mondo, i quali sono accomunati non tanto dai dispositivi Apple, ma dallo status e stile di vita esclusivo che contraddistingue chi utilizza i suoi prodotti.

Si tratta di esperienze che coinvolgono il cliente in prima persona, ovvero che lo portano a compiere con il prodotto o servizio interazioni fisiche o mentali (infatti “act” si riferisce alla persona nel suo complesso, quindi corpo e mente). Questa categoria del marketing emozionale si avvale di messaggi motivazionali, persuasivi e istintivi che servono per spingere il cliente ad agire in modo diverso rispetto a come si comporterebbe normalmente ed a provare esperienze nuove che potrebbero cambiare in meglio la sua vita. L’esempio più istantaneo sono gli spot Nike, che spingono il cliente sempre oltre il suo limite. Non a caso il claim di Nike è “Just do it”, che si può tradurre con “semplicemente fallo”, ovvero buttati in questa impresa senza pensarci.

Relate EXPERIENCE Sono esperienze che pongono il consumatore in relazione con un gruppo di soggetti aventi le stesse aspirazioni e gli stessi interessi. Questo perché gli stimoli relazionali evidenziano che le persone che rientrano in un target specifico, per interessi ed aspirazioni, saranno più propense ad acquistare un prodotto o servizio se altri membri del gruppo avranno sviluppato un’opinione su tale prodotto o servizio. Inoltre queste esperienze che, uniscono i singoli consumatori con altri individui ed il contesto culturale, stimolano le aspirazioni ed ambizioni personali di ognuno e creano una relazione con il proprio io ideale. Questo porterà i clienti ad analizzare la propria vita ed a trovare la soluzione per migliorarla nell’acquisto del prodotto o servizio proposto dall’azienda. La chiave del successo di queste esperienze sta quindi nel fatto che fanno leva sul desiderio di progresso personale e di elevazione della propria immagine e posizione sociale.

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IL DESIGN EMOZIONALE

S

econdo gli studi effettuati da Donald Norman, ciascuno di noi elabora l’informazione che riceve da stimoli esterni, e di conseguenza assume una propria consapevolezza di sé secondo 3 gradi di elaborazione diversi:

Il piacere e l’efficacia d’uso. È la zona che controlla, dandone valore, la maggior parte delle azioni umane, ovvero tutte le attività abitudinarie eseguite (esperienza).

Livello Viscerale

Livello Comportamentale

Apparenza, reazione iniziale. In questa parte ci sono quei processi biologici con carattere automatico determinati dalla percezione.

Livello Riflessivo

Immagine di se stessi, soddisfazione personale, ricordi. È la dimensione contemplativa del cervello, in cui avvengono tutte le operazioni che richiedono un’attività di pianificazione (pensiero).

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DESIGN viscerale

Queste dimensioni dell’emozione sono continuamente in conflitto tra loro, interagendo e “modulandosi reciprocamente”. I processi dal livello più basso a quello più alto sono guidati dalla percezione, mentre quelli diretti dall’alto verso il basso sono attivati dal pensiero. Le emozioni hanno un ruolo determinante nella vita di ogni individuo, poiché forniscono aiuto durante i processi decisionali. Le emozioni modificano il nostro comportamento in un arco di tempo breve, poiché sensibili agli eventi immediati, a differenza di quanto avviene per gli stati d’animo, i tratti caratteriali e la personalità di una persona, che hanno una durata ampia e prolungata nel tempo. Le emozioni durano poco e suscitano stati positivi o negativi. Nella realizzazione di sistemi interattivi entrambi gli stati sono necessari; le emozioni positive facilitano i processi di apprendimento e più in generale la curiosità rispetto ad un determinato aspetto. Un’affezione positiva espande i processi intellettivi favorendo il pensiero creativo. In uno stato d’affezione negativo, invece, i processi cognitivi si contraggono e ci permettono di concentrarci esclusivamente sugli aspetti connessi ad un problema. Queste emozioni non consentono di valutare modi alternativi per svolgere un’attività, tuttavia, gli stati negativi si rivelano utili in situazioni di pericolo canalizzando l’attenzione su un’unica questione. Partendo dalla comprensione delle attività un buon processo di design stabilisce quali aspetti del sistema affettivo enfatizzare in ogni compito. Un’affezione negativa è necessaria quando i compiti sono abitudinari e non richiedono un particolare processo creativo. Viceversa per attività che necessitano decisioni, in cui è richiesto un pensiero creativo, è più appropriato suscitare emozioni positive in grado di espandere i processi intellettivi della cognizione. Come precisa Norman «i tre livelli di elaborazione dell’affezione portano alle tre forme di design corrispondente […]. Ciascuno gioca un ruolo critico nel comportamento umano e svolge un ruolo parimenti critico nel design, nel marketing e nell’uso del prodotto». I tre livelli di elaborazione descritti precedentemente, vanno collegati ai loro rispettivi processi di design.

Il design viscerale è quello fisico. Riguarda le reazioni iniziali e si osserva agevolmente mettendo le persone di fronte ad un oggetto e valutando le reazioni. Gli aspetti viscerali del design sono legati ad elementi come aspetto, forma, struttura dei materiali, peso. Il design viscerale riguarda, quindi, le impressioni iniziali, l’impatto immediato che segna l’inizio del processo di affezione ed i primi giudizi sull’esperienza d’uso. Queste valutazioni sono correlate a comportamenti subconsci, senza un processo di elaborazione, perché le informazioni sono già presenti nell’apparato percettivo umano.

DESIGN comportamentale Il design comportamentale è influenzato, invece, dall’uso dell’oggetto e dalla conseguente piacevolezza ed efficacia che ne deriva nello svolgimento di un’attività. Non è tanto la logica comunicativa, ma piuttosto la prestazione. Questo è l’aspetto su cui si concentrano i test di usabilità. Il design comportamentale riguarda aspetti come la funzione, comprensibilità, usabilità e sensazione fisica rispetto al compito. Il livello comportamentale si basa sul piacere, sulla prestazione e dunque sull’efficacia d’utilizzo. Nel sistema affettivo umano il livello comportamentale dell’emozione è il luogo ove risiedono la maggior parte delle informazioni e dei giudizi che ci permettono di agire quotidianamente con un comportamento da esperto. Anche in questa dimensione, dunque, le nostre opinioni si formano in modo automatico e subconscio senza un processo vero e proprio di elaborazione dell’informazione.

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DESIGN riflessivo Il design riflessivo è legato al messaggio, alla cultura e al senso. Da un lato riguarda la realtà e il significato dell’oggetto, dall’altro concerne la proiezione mentale che si ha dell’oggetto stesso. Il design riflessivo è influenzato dalla conoscenza, dall’apprendimento e dalla cultura. Determina l’impressione generale di un prodotto, contenendo in sé il concetto personale di bellezza. Il bello riguarda qualcosa che va al di là della superficie derivando dalla riflessione e dall’esperienza cosciente. Mentre i livelli viscerali e comportamentali hanno a che fare con l’adesso, il presente, la dimensione riflessiva riguarda invece l’esperienza a lungo termine: i servizi post-vendita, la personalizzazione del prodotto, ecc. Quando un cliente riflette su un prodotto per prendere una decisione riguardo gli acquisti futuri, un ricordo piacevole può superare anche eventuali esperienze negative precedenti. Nel livello riflessivo il consumatore riflette sulle proprie azioni attraverso un comportamento conscio che favorisce l’apprendimento di nuove idee e concetti. In conclusione, progettare un prodotto emozionale significa porre particolare attenzione alle sensazioni e alle percezioni dei consumatori, i quali si sentiranno appagati da un’esperienza positiva, che li ha fatti sentire bene. Ogni individuo interpreta le emozioni a vari livelli, ma un design appropriato li stimola tutti e tre.

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LA DIMENSIONE EMOZIONALE DEL PUNTO VENDITA

O

Secondo un’analis effettuata al Politecnico di Milano nel 2010 su quelle che sono le componenti sensoriali dell’esperienza d’acquisto, è emersa una posizione predominante circa la necessità di agire nella sfera cognitiva dei consumatori, trasformando l’esperienza dell’acquisto dei clienti in una sorta di messa in scena del punto vendita in tutte le sue componenti. Ne è emersa una classificazione di questo genere:

ggi il punto vendita, come luogo del comunicare prima ancora che dell’acquisto, è senza dubbio il nodo più critico e al tempo stesso importante che i brand devono disciogliere. Insieme alla rivoluzione dei consumi, che negli ultimi tempi è andata accelerando in modo vertiginoso, si vede il mutamento progettuale del punto vendita, che diventa un modello di comunicazione ricco di rimandi e corrispondenze.

57,2%

52,4%

Store design

Visual merchandising

1,9% Altro

20,3%

37,8%

Musica

Personale di vendita

17,4% Profumi

48,5%

Animazione del punto vendita

Accorpamento merceologico Rielaborazione grafico pag. 21, Provenzano, 2012.

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Questo tipo di sollecitazione, indicata come strategia del condizionamento mediante una esperienza sensoriale, agisce concretamente attraverso uno stimolo che influenza direttamente lo stato d’animo del visitatore, determinandone una reazione. Sono tre, infatti, le componenti che hanno la funzione di accumulo di idee, garantendo al contempo un corretto uso dello spazio vendita nel suo complesso.

ficante fine a se stessa, spesso slegata dall’acquisto, che diventa però significativa in quanto affermazione di una tendenza. È evidente che la necessità prioritaria sia sempre quella di creare atmosfera nello spazio espositivo, sorprendere al contempo il visitatore, generando in lui un ricordo positivo e valorizzando altresì il suo tempo. Oggi la tendenza è sempre più quella di spettacolarizzare i consumi, innovando il modo di comunicare, informare, fidelizzare, sempre e comunque con il supporto del visual merchandising. I consumatori moderni hanno infatti, in qualsiasi decisione razionale d’acquisto, un forte risvolto emotivo, tanto che i moderni modelli d’acquisto parlano di un consumatore alla ricerca di realizzare meglio se stesso. Eppure i nove decimi dei punti vendita stanno trascurando questa cruciale componente emotiva: l’emozione, il desiderio e l’attualità stanno scalzando il razionalismo; una persona è irripetibile, il cliente, come già espresso nel cap.1, sente la necessità di giocare un ruolo attivo (Provenzano, 2012).

STIMOLO Inteso come studio di musica, colore, disposizione, odori, percorsi.

STATO D’ANIMO Inteso come esaltazione del piacere, dell’eccitazione, dell’emozione, del coinvolgimento.

30%

REAZIONE Intesa come dell’esplorazione, dell’acquisto.

Acquisto d’impulso

implementazione della sosta,

Si evince come queste problematiche possano essere caratterizzate come un sistema di input su cui agire in grado di generare output in termini sia di aggancio al prodotto/servizio, sia di possibile fedeltà nel tempo. Ikea costituisce l’esempio più interessante, in questo senso, di stimoli che condizionano i comportamenti: la costruzione di un percorso prestabilito insieme alla strategia di shopping shop, come interazione diretta con il prodotto, cioè il poter guardare, toccare, provare, aumenta decisamente tutte quelle che sono le opportunità di acquisto di tipo impulsivo, tipologia che rappresenta circa il 30% sul totale degli acquisti. La Rinascente invece, mette in scena la sua offerta merceologica mitizzando i brand mediante un sofisticato sistema di luci, colori, arredamento, con l’obiettivo sottile di creare un’esperienza grati-

70%

Acquisto programmato

100%

Acquisti totali

Statistica sugli acquisti Rielaborazione grafico pag. 30, Provenzano, 2012.

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Citando Pine e Gilmore, l’azienda deve quindi diventare una vera e propria “regista di esperienze”, non può solamente vendere beni o servizi, ma deve vendere l’esperienza che ne deriva. Esperienza che è ricca di sensazioni e che viene creata dal cliente, per il quale ha un valore personale. Diventa quindi sempre più importante la personalizzazione dell’offerta e l’instaurazione di una relazione con il cliente. L’esperienza, infatti, si forma su base soggettiva, e dipende dai propri gusti e dalle proprie esigenze. Il consumatore non acquista solo il prodotto o servizio, ma acquista anche l’esperienza che ne può trarre. Non si tratta più solamente di razionalità nelle scelte d’acquisto, piuttosto di una ricerca di fattori emotivi, di una ricerca di esperienze d’acquisto e di consumo che siano coinvolgenti e piacevoli (riccardoperini.com). Infatti, secondo l’esperto di marketing della Harvard Business School Gerald Zaltman, la scelta d’acquisto è composta da meccanismi razionali e consci solo per il 5% (net-expert.it).

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G

TRA SHOPPING ONLINE E OFFLINE gestite prevalentemente in modo indipendente tra loro. Tuttavia, ci si è resi conto che, se nei primi anni il tipico acquirente online era un giovane amante della tecnologia mentre il consumatore più maturo continuava a preferire il negozio, in seguito è andata sempre più sfumando la distinzione tra i profili sociodemografici dei clienti che facevano acquisti nei due canali e oggi il consumatore che frequenta entrambi i canali è sostanzialmente lo stesso. Non solo: il consumatore sempre più spesso utilizza alternativamente il negozio e il web anche nel corso del medesimo processo d’acquisto e sono diventati comportamenti abituali tanto il cosiddetto “ROPO” (Research Online, Purchase Offline), l’abitudine cioè a ricercare informazioni online prima di andare in negozio, quanto lo speculare “showrooming” fenomeno che si verifica quando un cliente si reca in negozio per vedere o provare un prodotto, ma poi lo acquista online (Cappellari, 2011). Un’attività che si afferma ogni giorno di più, alimentata soprattutto dalla diffusione di siti di e-commerce, di mobile device e nuove applicazioni che permettono di acquistare prodotti direttamente online. La tendenza è quella di recarsi nel punto vendita per poter testare e toccare con mano il prodotto che si desidera, per poi procedere con l’acquisto online, cercando molto spesso lo stesso prodotto ad un prezzo più vantaggioso. Uno studio condotto tra i consumatori di dieci paesi (Achille, 2015) ha calcolato che nel 2014 per la prima volta la quota delle vendite realizzate attraverso un processo d’acquisto che si è svolto almeno in parte sul web ha raggiunto il 62% sul totale, superando quindi il 38%, che è la quota di vendite realizzate da clienti che prendono le decisioni d’acquisto interamente in negozio. In questo scenario non avrebbe più senso trattare i singoli canali distributivi separatamente. Occorre invece spostare l’attenzione sul consumatore e gestire in modo integrato il processo d’acquisto affinchè si svolga in maniera fluida (ovvero “seamless”, cioè senza cuciture) tra tutti i canali secondo un approccio detto “omnichannel”. Ecco allora che, ad esempio, il consumatore potrà ritirare in nego-

li obiettivi che marketing e design emozionale si pongono di raggiungere in relazione all’esperienza d’acquisto, possono essere declinati sia allo shopping online, sia a quello offline. Si potrebbe pensare, però, che il negozio online debba essere una sorta di dimensione “altra” rispetto al tradizionale negozio offline. Così come si potrebbe pensare che il negozio offline possa essere una dimensione “altra” rispetto alle necessarie avanguardie dei negozi digitali. Entrambe le visioni sono però parziali e non possono più essere considerate sufficienti: il concetto di “commercio” deve essere il risultato di una visione olistica nella quale la vendita è il contratto tra azienda e cliente, a prescindere dal canale, dal tipo di pagamento o da qualsiasi altra considerazione. L’importanza del cliente rimane il vero punto di contatto tra le due tipologie di shopping experience, le quali riescono ad avere accesso ad una moltitudine di dati, che nell’incrocio tra online e offline consentono una profilazione ancora più completa e profonda dei consumatori. Tutto ciò permette di personalizzare messaggi e servizi, così da aumentare il coinvolgimento della persona attorno al brand, al prodotto, alle offerte, ai servizi. Altro punto saldo legato al consumatore è la comunicazione: il messaggio deve avere priorità sulla conversione, perché quest’ultima deve essere la conseguenza di quanto posto in essere a livello di offerta e a livello comunicativo. L’empatia ha un’elevata valenza soprattutto online, poiché completa quel che viene a mancare rispetto all’offline: gli aspetti emozionali sono il simulacro degli aspetti sensoriali, solleticano la fantasia con modalità alternative per giungere al medesimo risultato, ovvero la vendita. Più che di contrapposizione tra acquisti online e offline, risulta quindi più opportuno parlare di commistione. Le aziende hanno apportato un cambiamento di approccio nei confronti del web. Fino a qualche anno fa, infatti, si parlava della necessità di adottare una distribuzione multicanale, intendendo che fosse necessario essere presenti sia online sia offline, ma le attività venivano

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zio i prodotti acquistati online ma anche acquistare online quello che non c’è in negozio, come avviene da Zara, i cui sistemi di loyalty management sono integrati e condividono le informazioni rendendole disponibili sul cellulare dell’addetto vendita nel negozio (Cappellari, 2011). Questi atteggiamenti non lineari e in continua evoluzione dei consumatori hanno comportato un radicale cambiamento nelle strategie dei retailers. I player del settore, infatti, devono pensare a delle strategie multicanali, e quindi basate non solo sulla local search del consumatore, ma anche su un tipo di ricerca incrociata, fatta di azioni online e offline. Oggi, in quest’ottica, la priorità di tutte le aziende è infatti la ricerca della perfetta seamless omnichannel experience da offrire ai consumatori (Cappellari, 2011).

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Communication mix nell’era digitale


“Communications is at the heart of e-commerce and community .� Meg Whitmsn, President and CEO of Hewlett Packard

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D

ata l’importanza rivestita dalla marca nel sistema di offerta delle aziende della moda e del lifestyle, non stupisce che la comunicazione occupi un posto centrale tra le leve del marketing mix perché ad essa è affidato il ruolo di “voce del brand” (Kotler, 2015). La strategia di comunicazione è una leva del marketing mix, da gestire in coerenza con prezzo, prodotto e scelte distributive. A sua volta però stabilire la strategia di comunicazione significa in primo luogo definire il peso e il ruolo che rivestono al suo interno le leve del communication mix, che sono sei: la pubblicità, la promozione delle vendite, gli eventi, le attività di PR, il marketing diretto e la vendita personale.

PUBBLICITA’ PROMOZIONE V E N D I T E

EVENTI

COMMUNICATION

M

I

X

V E N D I TA PERSONALE MARKETING PUBLIC DIRETTO RELATIONS

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“Forma non personale di presentazione e promozione di beni o servizi finanziata e svolta da un soggetto ben identificato.� Kotler

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L’

acquisto di una pagina su una rivista di moda, di uno spot televisivo in prima serata o l’affissione di un cartellone pubblicitario sono esempi di scelte pubblicitarie caratterizzate dal fatto che consentono di raggiungere un numero elevato di persone con un costo a contatto (cioè per ogni persona esposta al messaggio) relativamente contenuto. L’utilizzo di immagini, colori, suoni rende la pubblicità uno degli strumenti più sfruttati dalle aziende del lusso per enfatizzare le caratteristiche del prodotto, ma anche per trasmettere l’immagine del brand. È infatti alla pubblicità che spetta il ruolo di trasformare le merci in significati e la “fisicità dei prodotti nell’immaterialità di un sogno” (Fabris, 2003). Nella scelta del mezzo, le aziende della moda hanno privilegiato la stampa, in particolare quella periodica, rispetto alla televisione. Essa consente infatti di raggiungere un numero più elevato di persone, ma richiede un elevato investimento. A ciò si aggiunge la difficoltà di trovare un programma coerente in termini di immagine e di target con il proprio brand. Esistono comunque alcune eccezioni: la categoria dei profumi ad esempio, per cui la possibilità di utilizzare immagini in movimento e musica rappresenta un modo efficace per trasmettere l’atmosfera e lo stile di vita associati al prodotto con una comunicazione coinvolgente.

Copertina di Vogue (fonte: today.it)

Il ricorso alla stampa ha un costo sicuramente inferiore, anche se fare pubblicità su testate di un certo prestigio può risultare molto oneroso. L’inserzione su una rivista consente di colpire in modo più preciso il target di riferimento: il lettore di “GQ” ha, infatti, caratteristiche diverse da quello di “Vogue” o “Cosmopolitan”. Molto spesso il messaggio viene rafforzato dal contesto in cui viene inserito, perché le riviste preferite dagli inserzionisti di moda sono soprattutto riviste lifestyle, che propongono uno stile di vita con cui il brand può ritrovarsi. Dal canto suo, il lettore che può ritrovarsi in questo stile di vita utilizza le inserzioni presenti per trarne spunto, ed è quindi più attento e ricettivo rispetto allo spettatore dei programmi televisivi.

Copertina di GQ (fonte: antoniogenna.com)

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Non va comunque dimenticato che tra stampa e televisione i costi di realizzazione del messaggio possono presentare notevoli differenze. Se un servizio fotografico con fotografo e art director di primo livello può arrivare a un centinaio di migliaia di euro, la realizzazione di uno spot pubblicitario con un grande regista può raggiungere diversi milioni di euro. Esempi di questo tipo sono gli spot realizzati da David Lynch per Gucci e di Baz Luhrmann per Chanel. Inoltre, nel valutare il ritorno di investimenti di questo tipo, è necessario considerare le visioni e le condivisioni sul web: filmati pubblicitari di culto come quelli di Chanel arrivano a totalizzare milioni di visualizzazioni su YouTube, più preziose di quelle televisive se si pensa che sono i consumatori che ricercano e guardano volontariamente video promozionali del brand. Spot di David Lynch per Gucci (fonte: vimeo.com)

Spot di Baz Luhrmann per Chanel (fonte: vogue.it)

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Un terzo mezzo che trova largo impiego nella moda è rappresentata dalle affissioni. Le aziende del settore cercano in particolare affissioni di grandi dimensioni e impatto, in grado di veicolare con efficacia la loro immagine. Anche in questo caso però, non si tratta di una soluzione economica: infatti, per rivestire la facciata di un palazzo in ristrutturazione di Venezia, o acquisire spazi di rilievo in una grande stazione o in un aeroporto, è possibile spendere anche centinaia di migliaia di euro.

Affissione di Coca Cola a Venezia, Palazzo Ducale (fonte: veniceboats.com)

Affissione di LiuJo a Firenze, Palazzo dell’arte della Lana (fonte: mediafirenze.it)

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Si fa riferimento a tutti quegli strumenti come buoni sconto, concorsi e altre offerte, che costituiscono un incentivo all’acquisto, spingendo a una risposta immediata da parte del consumatore. Inoltre, la diffusione dei diversi tipi di social network apre le porte a nuove possibilità di utilizzo mirato della leva promozionale.

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e modalità con le quali viene effettuata la promozione, poi, sono esse stesse un modo di comunicare. Ha un effetto diverso distribuire buoni sconto a tutti nella cassetta delle lettere o consegnare quasi furtivamente dei biglietti simili a banconote, una valuta “illegale” che da diritto ad uno sconto del 30% in alcuni negozi come ha fatto Diesel nel 2009 con lo slogan “Sopravvivi alla crisi con il Diesel black money”, una promozione perfettamente allineata allo stile ironico e trasgressivo del brand. La promozione può inoltre contribuire a rafforzare i valori del brand.

essere esercitato da eventuali ricompense sul modello delle raccolte punti ormai familiari ai clienti della grande distribuzione, dato che la letteratura ha da tempo messo in dubbio l’efficacia delle cosiddette “carte fedeltà” nel promuovere una vera fedeltà con i soli cataloghi a premi (Ziliani, 2008), quanto piuttosto al desiderio di stabilire una relazione interattiva con il consumatore acquisendo informazioni sulle sue caratteristiche e sui suoi comportamenti. Sulla base di tali informazioni l’azienda può gestire in modo più efficace le leve del marketing mix. Sembra inoltre che l’efficacia di questi strumenti sia maggiore quando vengono erogati benefici percepiti come esclusivi, facendo avvertire l’appartenenza ad un club di clienti privilegiati. In questa direzione stanno andando anche le iniziative di loyalty management di aziende quali Coin e la Rinascente.

Una seconda direttrice di crescita di utilizzo della leva promozionale è rappresentata dalle diverse forme di loyalty management, comunemente ricondotte all’etichetta di “programmi di fidelizzazione”. Qui l’interesse delle aziende del settore è dovuto non solo all’incentivo agli acquisti che può

Diesel Black Money, campagna di promozione del 2009 (fonte: styleandfashion.blogosfere.it)

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Si tratta di una leva che fino a poco tempo fa veniva considerata dai manuali di marketing come assorbita nelle altre, ma che si è ritagliata un ruolo sempre più rilevante nella cosiddetta “economia delle esperienze” (Pine, Gilmore, 2009), al punto che Kotler le assegna un ruolo autonomo all’interno del mix di comunicazione.

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on questa strategia si fa riferimento all’organizzazione, o alla sponsorizzazione, da parte dell’azienda di attività non collegate in modo esplicito alla vendita dei prodotti ma che consentono di vivere direttamente delle interazioni con il brand, dandogli quindi visibilità e, inoltre, associandolo a situazioni gradevoli o valori condivisi. Un esempio in tal senso è il premio “Hugo Boss”, uno dei maggiori riconoscimenti internazionali per opere d’arte contemporanea che si tiene annualmente con la collaborazione della Fondazione Guggenheim. Spesso gli eventi di moda e lifestyle sono abbinati ad iniziative di beneficenza (o charity): ad esempio, PittaRosso propone ogni anno la “PittaRosso Pink Parade”, una camminata di beneficenza che oltre ad essere un’iniziativa coerente con il core business dell’azienda, ovvero vendere scarpe, sostiene progetti della Fondazione Umberto Veronesi con i quali promuovere la ricerca scientifica finalizzata alla lotta contro il cancro al seno. Yoox e Dsquared2, invece, hanno organizzato insieme un evento per promuovere le attività in favore degli animali abbandonati di Much Love Animal Rescue, lanciando con l’occasione dei guinzagli Dsquared2 in edizione limitata disponibili solo su Yoox. Eventi di questo tipo possono anche essere promossi per aumentare il senso di vicinanza al brand per i migliori clienti. Essi mirano a gratificare la clientela più affezionata trasmettendo il senso di appartenenza ad un club esclusivo, ma consentono spesso di ricavare anche una buona visibilità sulla stampa che ripaga in parte gli investimenti effettuati.

Dall’alto: Premio Hugo Boss (fonte: collezionedatiffany.com) Pittarosso Pink Parade (fonte: endu.net) Dsquared2 x YOOX (fonte: petsblog.it)

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presentati in intimo di rivestirsi gratuitamente in negozio. Tra gli eventi non rientrano però solo quelli di natura straordinaria, ma anche tutte le esperienze quotidiane di interazione con il brand che contribuiscono a forgiare l’immagine che se ne costruisce il consumatore.

na strategia di gestione degli eventi alternativa affermatasi negli ultimi anni è quella riconducibile ai principi del cosiddetto guerrilla marketing (Cova, Giordano, Pallera, 2012), che consiste nel dare vita ad azioni coinvolgenti ed eclatanti in grado di attivare un passaparola virale tra le persone per ottenere una risonanza elevata anche con investimenti contenuti. Non è consigliabile cercare di perseguire la visibilità a tutti i costi, ma si deve fare grande attenzione a far risultare l’evento coerente con l’identità del brand. Ad esempio, non per tutte le aziende potrebbe funzionare un’iniziativa come quella di Desigual, che ha animato l’apertura di alcuni negozi con l’evento “Come in underwear, leave dressed”, che consentiva ai primi 100 clienti che si sarebbero presentati

Evento di Desigual “Come in underwear, leave dressed” (fonte: dailymail.co.uk)

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Consistono in una serie di programmi per promuovere l’immagine dell’azienda o dei suoi prodotti presso l’opinione pubblica, e che nella moda ha come aspetto centrale l’attività di gestione delle relazioni con la stampa.

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“Consiste nell’intrattenere rapporti diretti con il consumatore tramite telefono ed e-mail. Nelle aziende della moda l’impiego di questa strategia si limita per lo più all’invio dei cataloghi delle nuove collezioni a clienti selezionati o di e-mail e sms con le iniziative promozionali; uno sviluppo delle attività dirette è però pronosticabile con il procedere delle iniziative di customer intelligence, cioè di raccolta ed elaborazione delle informazioni sui clienti, in parallelo con la creazione di un programma di fidelizzazione e soprattutto con le possibilità offerte da app dedicate.” Cappellari, 2011

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Si tratta dell’attività di interazione faccia a faccia con potenziali clienti da parte del personale dell’azienda, con l’obiettivo di concludere vendite o anche semplicemente fornire informazioni sull’azienda e i suoi prodotti. In questo ambito, è doveroso fare un accenno alle fiere, che le aziende maggiori utilizzano come vetrina per presentare la propria immagine e come piattaforma per le attività di PR.

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In realtĂ fra gli strumenti di comunicazione andrebbe citato anche il punto vendita; è importante considerare che si tratta a tutti gli effetti di una delle forme con le quali le aziende di moda comunicano con il proprio consumatore finale, e che a volte gli investimenti nei punti vendita possono essere considerati anche un’alternativa ad altre leve della comunicazione.

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ue casi scuola da questo punto di vista sono Zara e Abercrombie & Fitch: l’azienda spagnola si distingue tra i suoi competitor per uno scarso utilizzo della leva pubblicitaria, ritenendo che il modo migliore per comunicare con i propri clienti sia quello di aprire negozi in location ad altissima visibilità. Abercrombie & Fitch, invece, non solo investe importi trascurabili in pubblicità, ma nei suoi negozi rinuncia addirittura ad avere vetrine: la sua strategia si basa sull’immagine trasmessa da musica, profumi e atmosfera del punto vendita e da quelle rappresentazioni viventi dell’essenza del brand che sono i giovani che vi lavorano (Cappellari, 2011).

Sopra: Ingresso Abercrombie&Fitch di Milano, corso Matteotti (fonte: businessinsider.com) A destra: Interno di Zara di Corso Vittorio Emanuele, Milano (fonte: elle.com)

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e decisioni di communication mix non consistono quindi nello scegliere quali leve utilizzare a scapito di altre, bensì nello sviluppare un piano di comunicazione integrata che le bilanci in funzione del tipo di prodotto e degli obiettivi dell’azienda, ponendo particolare attenzione alla coerenza che deve esistere nei messaggi veicolati con le diverse leve. Esse svolgono spesso un ruolo complementare e il ruolo del web è ormai persuasivo: per il lancio di un nuovo profumo, ad esempio, è efficace l’utilizzo di campioni omaggio per far conoscere la fragranza, ma questa leva funziona meglio se contemporaneamente viene veicolato, attraverso spot televisivi, l’immaginario associato al profumo e se il consumatore condivide poi sui social network l’emozione per l’acquisto. Ciò che caratterizza la strategia di comunicazione nell’era digitale è, infatti, da un lato il nuovo protagonismo del consumatore che “non è più seduto comodamente in poltrona” (Bettiol, 2015) pronto a subire messaggi standardizzati, ma vuole essere fortemente coinvolto nelle conversazioni sui brand, e dall’altro, in parte anche come conseguenza di questo cambiamento, la perdita di importanza delle classificazioni tra categorie di strumenti di comunicazione che venivano spesso utilizzate in passato e che rimangono ancora nel gergo degli addetti al settore. Non ha quindi oggi più senso una distinzione come quella tra comunicazione above the line, riferita alle attività pubblicitarie, e below the line (tutte le altre possibili iniziative, dal PR alla promozione) dal momento che la comunicazione deve essere vista come una “costellazione di strumenti” nella quale i mezzi tradizionali sono sempre più collegati tra loro attraverso il web ed i nuovi mezzi di comunicazione digitali (Favaretto, 2013). Accade quindi che strumenti vecchi e nuovi, come il web, il packaging, il blog e il libretto delle istruzioni convivono e si rinforzano a vicenda (Cappellari, 2011).

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IL RUOLO DI TESTIMONIAL E PRODUCT PLACEMENT

trettamente legata tanto alla strategia di PR quanto a quella pubblicitaria è la scelta di avvalersi di testimonial, persone note che, per scelta personale o per contratto, utilizzano i prodotti di un’azienda. Disporre di un testimonial noto consente di rendere più visibile la pubblicità: si pensi alle campagne di Versace realizzate utilizzando come soggetti Madonna o Patrick Dempsey, di Dior con Natalie Portman e Charlize Teron, tutte campagne nelle quali la presenza di un personaggio noto attira l’attenzione sul messaggio e facilita la memorizzazione. Quando la scelta del testimonial è coerente con il target e l’immagine del brand, la possibilità di identificazione da parte del consumatore rafforza ulteriormente il messaggio. Inoltre, è necessario cercare una persona che non soltanto sia nota, ma che abbia uno stile e dei comportamenti il più possibile coerenti con i valori del brand. A volte il ruolo del testimonial può diventare più attivo, come quando questi sceglie di legare il suo nome al brand diventandone addirittura co-designer (Cappellari, 2011). Un esempio recente è la capsule collection di Kylie e Kendall Jenner per OVS.

Dall’alto: campagna di Versace con Madonna (fonte: repubblica.it) Campagna di Dior con Charlize Teron (fonte: alpifashionmagazine.com Capsule collection di Kylie e Kendall Jenner per OVS (fonte: spendilgiusto.com)

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n altro strumento importante è il product placement, cioè l’inserimento del prodotto o del brand all’interno di film, telefilm o altri spettacoli. La sua forza sta nel fatto che il prodotto è immerso in una storia e può quindi prendere forza da essa e dalle sue atmosfere, molto più di quanto possa avvenire con un intermezzo pubblicitario di trenta secondi. A volte il prodotto diventa il vero protagonista e viene esplicitamente nominato, come ad esempio le scarpe Manolo Blahnik, oggetto del desiderio di Carrie Bradshaw in “Sex and the City”. Con “Il diavolo veste Prada”, poi, il nome del prodotto arriva al titolo del film: e sempre in questa pellicola si trova anche un altro particolare esempio di product placement dato che compaiono degli abiti di Valentino in una sfilata e lo stilista impersona se stesso in un piccolo cammeo. La spinta verso un’intensificazione del product placement rappresenta un’altra risposta all’indebolimento del ruolo degli spot nell’era di Netflix e del video on demand; per intercettare target di consumatori che dedicano sempre meno tempo alla televisione, inoltre, la nuova frontiera si sta spostando anche verso il mondo del gaming (Cappellari, 2011). Lo dimostra, ad esempio, la creazione di un’espansione a pagamento denominata “H&M Fashion Stuff” per il famosissimo gioco The Sims; o ancora, sempre per lo stesso gioco della Electronic Arts ma questa volta per la versione mobile, il più recente inserimento di una serie di missioni da completare per sbloccare gli abiti del famoso brand di abbigliamento Asos.

Dall’alto: Carrie Bradshaw in Manolo Blahnik (fonte: whowhatwear.com) Miranda Priestly, Il Diavolo Veste Prada (fonte: blogdicultura.it) Asos per The Sims Mobile (fonte: ea.com)

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na strategia che può essere considerata un ibrido tra pubblicità e product placement è, infine, l’inserimento di prodotti nelle foto pubblicate da fashion blogger o fashion influencer. Attraverso personaggi come Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, peraltro entrambi imprenditori, è possibile raggiungere rapidamente su Instagram diversi milioni di consumatori (Cappellari, 2011). Essendo quest’ultimo un argomento particolarmente importante, verrà ripreso più nello specifico nel capitolo 7.

A destra: Chiara Ferragni, 13.4 milioni di followers (fonte: smudailycampus.com) Sotto: Mariano Di Vaio, 6.2 milioni di followers (fonte:fashionweekdaily.com)

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IN EQUILIBRIO TRA LE LEVE DEL MIX

È

tramontata quindi la visione di un approccio alla comunicazione di tipo lineare, dove l’azienda sceglieva il messaggio e il mezzo per “recapitarlo” al consumatore. I processi comunicativi sono sempre meno lineari e più complessi e interattivi e, soprattutto, “risulta sempre più sfumata la separazione di ruolo tra emittente e ricevente” (Favaretto, 2013). Queste considerazioni vanno lette alla luce del fatto che nel 2014, per la prima volta nell’analisi dei fattori che influenzano maggiormente le decisioni di acquisto, il passaparola è stato rilevato come il mezzo più importante, scavalcando le riviste che erano indicate come lo strumento principale fino all’anno prima (Achille, 2015).

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prodotto e sulla marca che avvengono tra i consumatori che interagiscono di persona o sui social network non possono però essere comprate e sono al di fuori del controllo delle aziende. Dal momento che si tratta di comunicazioni sempre più importanti nell’orientare gli acquisti, e che in più hanno la possibilità di raggiungere un numero elevatissimo di persone, le aziende devono però ugualmente cercare in qualche modo di influenzare tali conversazioni. Questa capacità di influenza che non si può acquistare deve essere allora guadagnata; si tratta quindi di punti di contatto che vengono indicati come earned (Cappellari, 2011). La chiave per riuscire ad influire sulla comunicazione spontanea tra clienti e potenziali clienti, consiste nel creare contenuti interessanti per il target che si vuole colpire e, soprattutto, che abbiano la capacità di incentivare la condivisione per rendere il messaggio virale. Spesso, per far decollare il passaparola online, si utilizzano i metodi “tradizionali” visti in precedenza, come eventi, sponsorizzazioni, testimonial o anticipazioni o dietro le quinte di campagne pubblicitarie.

Non solo, il passaparola è anche sempre più multimediale visto che nel 49% di consumatori che attribuiscono a questa fonte di informazione un ruolo nel processo d’acquisto, circa metà fa riferimento ad un passaparola fisico, mentre l’altra metà si riferisce ad un passaparola virtuale sui social media, e inoltre a questa percentuale va aggiunto un altro 19% che dichiara come la decisione di acquisto sia stata influenzata dall’aver visto il prodotto utilizzato da qualcun altro, di persona o, sempre più spesso, sul web. Il selfie scattato in un camerino e postato su Instagram, la condivisione su Facebook del racconto di un’esperienza d’acquisto gratificante, la foto di una vetrina scoperta durante un viaggio inserita nella propria bacheca di Pinterest dedicata ai negozi preferiti o un Tweet di commento su una sfilata appena vista su YouTube sono quindi strumenti del mix di comunicazione oggi non meno importanti della quarta di copertina su una rivista. C’è però una differenza sostanziale: mentre su una rivista si acquista uno spazio per pubblicare la foto realizzata con cura e scelta per comunicare in modo migliore il mood del prodotto di punta della nuova stagione, negli altri casi citati il controllo sul messaggio è molto più limitato, se non addirittura nullo. Questo non vuol dire che è giunto il momento di abbandonare pubblicità e sfilate per focalizzare la comunicazione sui social network e più in generale sul web, perché sarebbe un errore. Infatti i vari mezzi sono, proprio grazie al web, sempre più interconnessi. Può essere allora utile vedere il processo di comunicazione, come anche l’intero processo di trasferimento di valore al cliente, come la gestione di un insieme di punti di contatto, detti touchpoint, che si differenziano per il diverso grado di controllo che l’organizzazione può esercitare su di essi e possono essere categorizzati secondo il modello POE: paid, owned, ed earned (Troilo, 2014) che vanno integrati tra loro. I punti di contatto owned sono posseduti dall’azienda che vi può quindi esercitare un controllo totale: rientrano in questa categoria i punti vendita di proprietà, il sito web aziendale, eventi come le sfilate e anche la confezione dei prodotti. I punti di contatto paid sono invece di proprietà di soggetti terzi ma possono essere utilizzati nella comunicazione pagandone il prezzo: è il caso ad esempio della pubblicità, delle sponsorizzazioni, del product placement e dei cartelli vetrina nei punti vendita indipendenti. Le conversazioni sul

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Raramente risulta però sufficiente presentare una foto di un prodotto appetibile, mentre funziona meglio una situazione o una storia che incuriosisca, inviti alla scoperta, diverta, sorprenda, emozioni. In tal modo è possibile aumentare di molto la portata di questi strumenti giustificando anche investimenti ingenti: ingaggiare Rafael Nadal è, per Tommy Hilfiger, un investimento impegnativo, ma il ritorno dell’operazione è dato non solo dalla possibilità di esibirlo come testimonial, bensì anche dal fatto che milioni di ammiratori in giro per il mondo hanno condiviso spontaneamente sulle loro bacheche i filmati del talentuoso tennista che si toglie maglietta e pantaloni per esibire l’underwear del brand americano (Cappellari,

2011). Una modalità andata diffondendosi negli ultimi anni è poi la cosiddetta gamification, il coinvolgimento della community di seguaci attraverso veri e propri meccanismi di gioco con ricompense virtuali o a volte anche reali. Già nel 2013 il marchio di acqua Perrier aveva coinvolto milioni di utenti con il geniale Perrier’s Secret Place. Il gioco consentiva di entrare in un mondo di fantasia e dall’atmosfera magico-trasgressiva con l’obiettivo di trovare una bottiglia speciale tra le numerose bottiglie Perrier. Stesso discorso per il gioco Magnum Pleasure Hunt, ispirato al celebre videogame Super Mario e lanciato da Magnum per promuovere il nuovo gelato Temptation. (vanityfair.it)

Rafael Nadal per Tommy Hilfiger (fonte: mode.newsgo.it)

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Il ruolo dei social


“Marketing is about telling good stories. Social media is about getting your customers to tell them for you.� Corey Eridon, inbound marketer

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È

ne ancora gli strumenti tradizionali (tv, radio, carta stampata), mentre un esiguo 16% utilizza ancora il direct marketing tradizionale (direct mail o telemarketing). All’interno dell’universo digitale, i social media risultano ormai utilizzati dal 59% delle aziende e presentano un trend in costante crescita (at-media.it). Non sempre però risulta semplice per le aziende farsi strada sui social. Man mano che le piattaforme diventano sature, i marchi sono impegnati in una lotta sempre più intensa per distinguersi nei feed. La loro concorrenza spazia da celebrità a influencer, per non parlare di amici e famiglie degli utenti. Anche le regole cambiano costantemente. Le piattaforme di social networking spesso modificano gli algoritmi che determinano in quale ordine gli utenti visualizzeranno i feed. All'interno della moda, Instagram rimane "il posto perfetto dove stare", rappresentando circa il 50% dei post del brand (rispetto al 30% di due anni fa), secondo un rapporto del 2017 di Exane BNP Paribas.

evidente come, nella società odierna, i social media rivestono un ruolo sempre più rilevante nella vita di ogni individuo, incrementando giorno dopo giorno la loro importanza. Gli utenti che hanno un profilo su almeno uno di essi sono sempre in aumento, il numero dei contenuti condivisi con la propria rete di contatti cresce a livelli esponenziali, la durata del tempo trascorso sui social network diventa sempre più consistente. Oltre a tutto ciò bisogna aggiungere l’influenza che ha avuto l’introduzione sul mercato di dispositivi, come smartphone e tablet, i quali rendono l’utilizzo dei social ancora più semplice ed immediato. È importante sottolineare che, nel mondo del retail, stanno assumendo un ruolo cruciale, poichè sono in grado di influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori facendo sì che, nel momento in cui insorge un bisogno, tra le varie fonti informative a cui l’utente può attingere per informarsi, tra cui motori di ricerca, sito del venditore e mondo offline, ci siano anche i social media, diventati appunto il canale chiave tra brand e consumatori. In particolare, per le aziende, rappresentano un canale di comunicazione da cui non si può prescindere per poter attuare una strategia efficace. Se l’idea è di aprirsi un profilo aziendale su un social network con il solo obiettivo di aumentare le vendite, la strada intrapresa non porterà ai risultati sperati. A monte deve essere fatta un’analisi dettagliata di tutto ciò che riguarda la comunicazione legata all’azienda, la quale possa permettere di realizzare una strategia di marketing a 360° che prenda in considerazione anche i social network come canali per veicolare il messaggio. La difficoltà maggiore per qualsiasi tipo di azienda è, infatti, sapere cosa comunicare e come comunicarlo, ma soprattutto capire chi sono gli utenti e cosa si aspettano. Prima di ciò è necessario capire quali obiettivi si vogliono raggiungere attraverso il contenuto dei messaggi, che avranno il fine di far conoscere il brand nel suo complesso. L’obiettivo finale è quindi, oltre ad aumentare la brand awareness, quello di incrementare i rapporti con i consumatori, sviluppando in loro sentimenti quali fedeltà e fiducia nei confronti del marchio. Gli strumenti digitali sono utilizzati dal 58% delle aziende, a fronte di un 26% che mantie-

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Così le aziende stanno abbandonando ampie strategie di comunicazione per campagne su misura destinate ad un'unica piattaforma (BoF.com). Infatti, il 91% delle aziende utilizza due o più canali social per entrare in relazione con clienti e prospect. A livello mondiale sono oltre 65 milioni i business che possiedono una pagina Facebook e 25 milioni i profili Instagram associati a marchi commerciali. Questo impegno sui social network sembra essere apprezzato, dato che l’80% degli utenti segue almeno un’azienda su Instagram e che un terzo delle Instagram Stories più viste provengono proprio dai brand (ninjamarketing.it). Ad esempio, Gucci produce un flusso costante di campagne su misura per diverse piattaforme di social media. Una delle campagne più in voga del momento è quella realizzata dall’illustratore spagnolo Ignasi Monreal per la collezione P/E 2018, “Utopian Fantasy”. Affidare una campagna alle immagini di un artista, per quanto siano iperrealiste, rappresenta un ulteriore atto di coraggiosa superiorità rispetto alle dinamiche standard del marketing. Monreal ha già realizzato con le sue illustrazioni il Gucci Gift Catalogue, letteralmente un catalogo di regali, trasformandolo in un gioco, in una opera di videoarte, in un’animazione che eleva il concetto di applicazione. Le immagini della campagna esprimono perfettamente quella filosofia alchemica che unisce mille riferimenti per rappresentare un mondo abitato da figure oniriche, da ricordi che convergono irrazionalmente, alterando la fisionomia delle cose. Emergono memorie delle opere conservate alla Galleria degli Uffizi, ma c’è anche tanta mitologia contemporanea, ad esempio Ofelia e la Sirenetta che aprono altre porte: quelle del cinema, della fotografia, in un grande affresco pubblicitario (artribune.com).

Illustrazioni di Ignasi Monreal per Gucci (fonte: artribune.com)

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Anche per ciò che concerne i consumatori i social network si stanno rivelando un mezzo che sta acquistando sempre più rilevanza. Tramite Instagram, Facebook e Twitter, gli utenti possono non soltanto esprimere se stessi e le proprie preferenze, ma hanno la possibilità di confrontarsi con altri utenti, prendere ispirazione, trovare ciò che stanno cercando e, soprattutto, acquistare. Come già specificato negli altri capitoli, anche in questo caso il consumatore ha la necessità di sentirsi parte attiva in tutto il processo che riguarda la shopping experience. Egli mette in atto un insieme di azioni in modo da sentirsi il più sicuro possibile al momento dell’acquisto. Ecco perché, anche qui, i social media svolgono un ruolo fondamentale, sia perché riescono a mettere in contatto i fruitori con le aziende, sia perché si creano delle community di consumatori cosiddetti “digitali”, i quali comunicano tra di loro, confrontandosi in merito a determinati prodotti e alle personali esperienze con essi. Le abitudini di acquisto dei nuovi consumatori digitali sono sempre più orientate al commercio elettronico. Sono in particolare i millennials (67%) a dimostrare una preferenza netta per gli acquisti online, a dispetto dello shopping tradizionale. Spesso si compra direttamente attraverso il proprio smartphone, e questo trend è destinato a crescere in quanto è previsto che entro il 2020 il 45% delle vendite online saranno effettuate da mobile. Questa nuova tipologia di consumatore utilizza i canali online per tutte le fasi della shopping journey e non solo per finalizzare la transazione. Sempre sul web, infatti, si informa su prezzi, dettagli del prodotto, feedback di altri utenti e nel 53% dei casi lo fa tramite mobile (ninjamarketing.it). È proprio in questo scenario in continua evoluzione che le aziende dovranno puntare sempre di più a dare attenzioni al consumatore digitale, rispondendo in modo immediato e mirato alle sue richieste, mantenendosi in stretta relazione con il proprio target, grazie ai social media e alla tecnologia digitale.

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I

SOCIAL MEDIA MARKETING

n questa visione è essenziale comprendere l’importanza che riveste il social media marketing, strumento dalle molteplici funzionalità, che ha il compito di congiungere i parametri d’azione della tradizione con le tecniche e i nuovi strumenti forniti dal dinamismo della dimensione 2.0. Sintetizzando, il marketing tradizionale rimane la base concettuale su cui sviluppare un approccio pensato e costruttivo di fare business online. Il social media marketing, dunque, rappresenta l’evoluzione del marketing tradizionale che si occupa di dare visibilità ad un’azienda o ad un brand sui social media, sulle comunità digitali e sulle diverse piattaforme e applicazioni del web 2.0. La comunicazione che il social media marketing opera tra le imprese e i clienti è a un livello paritario poiché le relazioni, le interazioni e i commenti generano il cosiddetto “engagement” che consente di ottenere consigli, recensioni e feedback sui beni e servizi offerti, in modo rapido ed efficiente. Per definizione, il social media marketing è una forma di internet marketing che sfrutta la capacità di social media e applicazioni web di generare interazione e condivisione, al fine di aumentare visibilità e notorietà di una marca o brand. Esso include attività come la promozione/vendita di particolari beni e servizi o di se stessi, la generazione di nuovi contatti commerciali e l’incremento del traffico verso il sito web di un brand. Insieme al social customer service, il social selling ed altri, è considerato una componente del social business (digital-coach.it). I principali benefit offerti da questa disciplina sono molti, tra cui:

1

Miglioramento della customer satisfaction, con conseguente incremento della fedeltà del cliente e possibilità che questo sia propenso al riacquisto della marca (brand loyalty).

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2

Miglioramento del customer service, sia che si tratti di un servizio svolto da una persona reale o da un chatbot. L’importante è ottenere le risposte che si stanno cercando e reperire informazioni utili.

3

Incremento dei contatti commerciali e vendite.

4

Aumento del traffico web verso il sito o il blog.

5

Migliore posizionamento del sito sui motori di ricerca.

6

Incremento della notorietà o consapevolezza di marca (brand awareness).

7

Connessione e sviluppo di relazioni interattive con il proprio target audience.

8

Sviluppo di una reputazione come esperto o leader nel settore di appartenenza (brand authority).


I social media sono per loro natura dinamici e, per questo, si caratterizzano per tendenze e modalità comunicative che possono variare nel tempo. La conoscenza di queste tendenze può rivelarsi cruciale nella scelta delle strategie di social media marketing più dirette ed efficaci. Di seguito si riporta una breve descrizione delle strategie di social media marketing che, come sembra, più caratterizzeranno questo 2018 (digital-coach.it).

Il social media marketing presenta però anche degli “svantaggi” riconducibili a:

NECESSITÀ DI MAGGIORI RISORSE le piattaforme social sono svariate e differenti, conseguentemente le varie forme dei contenuti (testo, video, ecc.) da pubblicare e condividere, che vanno adattate alle specificità di ciascuna di loro. Allo stesso modo una campagna social media marketing richiede tempo e risorse umane dedicate.

1.

DECLINO DELLA REACH Con un post apparso su Facebook a gennaio 2018, Zuckerberg ha annunciato ulteriori cambiamenti nell’algoritmo che regola il news feed e che condurranno a “Facebook zero”. Con l’intento di privilegiare l’interazione degli utenti, i contenuti promozionali avranno sempre meno visibilità sulle fan page per cui le aziende dovranno pagare per raggiungere i consumatori. Da una analisi di Shareaholic emerge che sia per il fenomeno delle fake news, sia per le modifiche all’algoritmo, Facebook ha visto ridurre nel 2017 la sua forza del 12, 7%.

NATURA DEI SOCIAL MEDIA Un post negativo di un cliente, o mal gestito, può diventare virale e danneggiare seriamente la reputazione di un brand.

2.

LIVE VIDEO Nel 2017 il 90% di tutti i contenuti condivisi dagli utenti sui social media erano dei video, e secondo Smart-Insight, nel 2020 essi costituiranno l’80% dei contenuti di tutto il traffico online. Facebook, Snapchat, Instagram e Twitter stanno già investendo molto in questi contenuti. Tool come Facebook Live e Instagram Live sono dei validi strumenti per creare contenuti unici e avvincenti con i quali generare engagement e aumentare i followers.

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6.

3.

INFLUENCER MARKETING

ASSISTENTI VIRTUALI

I social media influencer riescono a generare un ROI (ritorno sugli investimenti) 11 volte maggiore di qualsiasi altra strategia di marketing digitale. Non a caso il 94% dei social media marketer dichiara di avere raggiunto, grazie alla loro collaborazione, degli ottimi risultati e li considera parte integrante delle loro strategia di social media marketing.

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale (chatbots e assistenti virtuali) consentirà sempre più ai marketers d’interagire con i consumatori in tempo reale e in maniera personalizzata. Facebook si prepara a rilanciare un assistente virtuale che sarà in grado di offrire suggerimenti agli utenti e di rispondere a tutte le loro richieste attraverso la chat di Facebook Messenger. Secondo Gartner, una società multinazionale leader mondiale nella consulenza strategia, ricerca ed analisi nel campo dell’Information Technology (IT), il 20% dei contenuti business potrebbero essere generati quest’anno da macchine assimilabili ad intelligenza artificiale.

4.

REALTA’ AUMENTATA

A questo punto è opportuno affermare che lo sviluppo dei social media ha posto le basi per una vera e propria rivoluzione culturale, che ha mutato l’anima del marketing tradizionale, allontanandolo dagli schemi metodici del business e rendendolo più orientato alla sfera emozionale e valoriale dei consumatori. Non è scontato sostenere il parallelismo tra evoluzione del digitale e sviluppo delle strategie di marketing, ma la comunicazione d’impresa ha il dovere di adattarsi e, così come la società si è innalzata alla dimensione 2.0, anche il business ha dovuto fare lo stesso. Le aziende che sapranno adattarsi ai nuovi paradigmi del digitale, ovviamente, otterranno un maggiore vantaggio rispetto ai concorrenti; tutto sta, però, nella corretta interpretazione delle nuove dinamiche.

L’uso della AR rappresenta uno dei modi più innovativi e interattivi per raggiungere e creare engagement con i clienti. Molti social hanno in programma di introdurre questa tecnologia nelle loro piattaforme. Snapchat utilizza già una nuova funzionalità di AR che permette ai suoi utenti di creare un avatar 3D e posizionarlo su un’immagine o sulla scena inquadrata.

5.

SICUREZZA RAFFORZATA Un altro trend in crescita è la sicurezza degli utenti. Le misure di tutela della privacy per i fruitori di social network dovranno essere sempre più adatte a contrastare l’hacking, il furto d’identità, il phishing e svariate altre minacce alla sicurezza.

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LE FIGURE CHE INFLUENZANO LO SHOPPING: GLI INFLUENCER

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ella sempre più sviluppata era digitale, si stanno affermando nuove figure professionali sempre più apprezzate ed utilizzate da tutte le strategie di marketing. Una delle più discusse del momento è quella dell’influencer, un individuo che, come suggerisce il termine stesso, ha il potere di influenzare le decisioni di acquisto degli altri grazie alla sua autorità, conoscenza, posizione o relazione con il suo pubblico. Si tratta di un soggetto che ha un seguito in una nicchia particolare, che può essere quella dei viaggi, della moda, del cibo o del design, con la quale si impegna attivamente. È importante notare che questi individui non sono solo semplici strumenti di marketing, ma piuttosto risorse di relazione sociale con cui i marchi possono collaborare per raggiungere i loro obiettivi di marketing. 98


In particolar modo nell'ultimo decennio i social media sono cresciuti rapidamente in importanza. Secondo il Global Digital Statshot dell'agosto 2017 di We Are Social e Hootsuite, 3 miliardi di persone utilizzano attivamente i social media, ovvero il 40% della popolazione mondiale (influencermarketinghub.com). Inevitabilmente queste persone seguono gli influencer sui social media per essere guidati durante il loro processo decisionale. Gli influencer sono persone che hanno costruito una reputazione ed una credibilitĂ grazie alle loro conoscenze e competenze su un particolare argomento. Fanno post regolari in relazione a quel tema sui loro canali social preferiti e generano un gran numero di follower entusiasti che prestano molta attenzione alle loro opinioni. La maggior parte degli influencer si inserisce nelle seguenti categorie:

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CelebritĂ

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Esperti del settore e leader del pensiero

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Blogger e content creator

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Microinfluencer


Celebrità I

l marketing dell'influencer è cresciuto grazie all'approvazione delle celebrità. Le aziende hanno scoperto per molti anni che le loro vendite aumentano di solito quando una celebrità promuove il loro prodotto. Ci sono ancora molti casi di aziende, in particolare i brand del lusso, che utilizzano le celebrità come influencer. Il problema per la maggior parte delle marche è che ci sono molte celebrità tradizionali disposte a partecipare a questo tipo di campagna di influencer, ed è improbabile che arrivino a buon mercato. L'eccezione si verificherà se un'azienda produrrà un prodotto che una celebrità già ama e utilizza.

Beyoncè (fonte: beyoncetribeitalia.it)

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Esperti del settore O

Se un’azienda è in grado di ottenere l'attenzione di un giornalista su un quotidiano nazionale, che a sua volta parla positivamente di essa in un articolo, allora lo sta usando come influencer nello stesso modo in cui farebbe con un blogger o un social media influencer. C'è un ulteriore vantaggio in questa situazione in quanto il giornalista molto probabilmente scriverà il suo rapporto gratuitamente.

ttengono rispetto a grazie alle loro qualifiche, posizione o esperienza riguardo al loro ambito di competenza. Grazie ai loro post e alla loro reputazione, sono in grado di offrire enorme visibilità a notizie, video, prodotti o servizi, determinandone anche il successo o un fallimento. Questi esperti includono: - Giornalisti - Accademici - Esperti del settore - Consulenti professionali

Eva Chen, beauty editor di Teen Vogue e influencer (fonte: elle.uk)

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Blogger e content creator I

l blog è stato collegato al marketing di influencer già da qualche tempo. Se un blogger popolare menziona positivamente un prodotto in un post, può portare i suoi follower a provarlo. Molti blogger hanno sviluppato un numero di follower significativi in settori specifici, come ad esempio, quelli inerenti a finanza, salute, educazione, musica, moda e molti altri argomenti. La cosa fondamentale che i blog di successo hanno in comune è il rispetto da parte dei loro lettori. Oltre ai blog, un'altra tipologia di contenuto molto utilizzato sul web è il video. La maggior parte dei videomaker apre il proprio canale YouTube, promuove diversi prodotti e servizi che sponsorizza anche tramite gli altri social network, il che li rende anche dei potenziali micro-influencer.

Veronica Ferraro, blogger e youtuber di moda e fitness (fonte: profilo Instagram)

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Microinfluencer S

Alcuni sono felici di promuovere un marchio gratuitamente, altri al contrario si aspetteranno una qualche forma di pagamento. Indipendentemente dal prezzo, è improbabile che un influencer voglia essere coinvolto con un marchio "inappropriato" per il proprio pubblico. La natura dell'influenza da essi generata sta cambiando. I microinfluencer stanno infatti diventando più comuni e più famosi: alcuni sono passati dall'oscurità virtuale ad essere quasi conosciuti come celebrità tradizionali. In realtà, i microinfluencer sono gli influencer del futuro, dato che internet ha portato alla frammentazione dei media in molti piccoli argomenti di nicchia.

i tratta di persone comuni che sono diventate famose per la loro conoscenza in una nicchia specialistica. In quanto tali, di solito hanno acquisito un considerevole numero di follower tra i devoti di quella nicchia. Naturalmente, non è solo il numero di follower che indica il livello di influenza, ma anche il tipo di relazione e l'interazione che un microinfluencer ha con i suoi seguaci, detto anche “engagement”. Uno dei requisiti principali per questi individui è che qualsiasi relazione tra loro e i brand deve allinearsi con il loro pubblico di destinazione, come nel caso dei fashion influencer, che rimangono sempre fedeli al loro ambito, promuovendo abiti, scarpe, accessori ecc.

Arianna Calvitti e Alice Perrella, fashion influencer (fonte: profili Instagram)

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Tutte le figure professionali citate sono chiaramente declinabili all’ambito della moda. In particolare fashion blogger e fashion influencer sono due delle personalità più richieste all’interno delle strategie di social media marketing, in quanto sono degli ottimi strumenti di guadagno e visibilità per le aziende che ne richiedono l’intervento. La differenza principale sono i canali che utilizzano: i blogger usano il proprio blog, mentre gli influencer prediligono social network come Instagram e Snapchat. Inoltre, i blogger basano il loro lavoro più che altro su immagini e testi, mentre gli influencer su fotografie e video. Nonostante questa diversificazione, se un fashion blogger utilizza oltre al blog anche i social, può essere definito anche influencer. I brand amano entrambe le figure perché possono creare tendenze e incoraggiare i loro follower ad acquistare i prodotti che promuovono, sia che si tratti di blogger, YouTuber o influencer. 104


NUOVI MODELLI DI VENDITA: SOCIAL COMMERCE E SOCIAL SHOPPING

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opo aver appreso quanto sia fondamentale il ruolo che i social rivestono nell’era del web 2.0. e dopo aver analizzato le figure che lo abitano, è importante comprendere quali sono e come funzionano i nuovi modelli di vendita che si sono evoluti tramite il web. È chiaro ormai che parallelamente al classico acquisto in negozio, che ha visto il consumatore passare da un ruolo passivo ad un ruolo attivo, ci si trova di fronte ad un incremento degli acquisti online attraverso piattaforme di e-commerce. Alla luce di questo è possibile affermare che dalla tendenza all’acquisto online e dalla sempre più massiva presenza di utenti sui social media nasce il social commerce, ovvero la possibilità di acquistare prodotti o servizi tramite i social e, allo stesso tempo, l’opportunità di condividere questa esperienza. Il social commerce, infatti, non si limita esclusivamente a promuovere l’acquisto da una piattaforma di e-commerce, ma coinvolge anche le fasi che lo precedono e che lo seguono, fidelizzando i clienti e migliorando i propri prodotti secondo i suggerimenti dei consumatori. Sicuramente bisogna tener conto del fatto che vendere sui social network non è semplice, in particolare perché nascono come piattaforme dedicate all’intrattenimento e ricche di stimoli che distraggono l’utente dal completamento dell’acquisto. È più importante che i siti di e-commerce e le app avviino un processo di metabolizzazione della user experience dei social e ne traggano effetti positivi (insidemarketing.it). Un esempio di questo miglioramento della user experience è sicuramente la novità “Shopping” di Instagram, che attraverso la presenza di un tag specifico offre ulteriori informazioni sul prodotto e soprattutto garantisce agli utenti/clienti un’esperienza immersiva che verrà approfondita nel paragrafo successivo.

Prima di analizzare alcune delle piattaforme che offrono questo servizio, è opportuno chiarire la differenza fra social shopping e social commerce. Come afferma Gianluca Diegoli, il social shopping è molto più rilevante del social commerce. I social media sono una componente fondamentale della scoperta, della scelta e della valutazione di un prodotto per la maggior parte dei consumatori. L’azienda deve quindi monitorare e gestire il social shopping, cioè le conversazioni e i contenuti correlati alla vendita, anche se non fa social commerce (insidemarketing.it). Il social shopping, definito e-shopping 2.0, è infatti un nuovo fenomeno in crescita, che combina il classico shopping online con gli elementi tipici che caratterizzano il social networking. Si presenta con tutti gli aspetti chiave del social web fondato sulla condivisione (amici, gruppi, commenti, discussioni), e li convoglia sull’attività di shopping online, creando una community che aiuta nell’acquisto con suggerimenti, proposte di nuovi prodotti, promozione di prodotti di maggior interesse globale ecc (giovannifracasso.it). Lo sviluppo del social shopping apre una reale possibilità di sviluppo del business di un brand, raggiungendo i potenziali clienti in maniera diretta ed efficace, in quanto ciò che spesso spinge ad acquistare un determinato prodotto è la consapevolezza di un feedback positivo da parte di chi l’ha già acquistato.

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Casi studio

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Logo di Instagram (fonte: diylogodesigns.com)

INSTAGRAM

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A differenza dello shopping appena introdotto anche su Facebook, Instagram guadagna dalle sponsorizzazioni che le aziende fanno per attirare gli utenti che non seguono il marchio, anche perché su Instagram, a differenza di Facebook, il pagamento di un prodotto avviene tramite il sito dell’azienda. Questa funzione è disponibile gratuitamente ma riservata ai soli profili business di Instagram (circa 25 milioni, su scala globale), come ad esempio la pagina Instagram del brand di abbigliamento Kate Spade NY che conta 2,3 milioni di followers. Facebook e Instagram, in particolare, sono un luogo di scoperta di marchi e articoli di moda, rispettivamente per il 53% e per il 47% dei Millennials. Al momento è possibile taggare soltanto prodotti materiali, ma esiste la concreta possibilità che lo shopping su Instagram in futuro venga esteso anche ai servizi (ictbusiness.it).

nstagram conta circa 800 milioni di utenti attivi ed è diventato in pochi anni uno dei social network più utilizzato e preferito, scavalcando anche Facebook. L’applicazione, nata per essere usata come diario visivo della propria giornata, in questi anni si è trasformata, diventando un catalogo patinato per persone e brand. Secondo la ricerca di Blogmeter “Italiani e Social Media” il 14% degli italiani lo usa per condividere esperienze, ma il 17% lo sceglie per seguire personaggi famosi. Le aziende italiane, dalla fine del 2015, possono usare la piattaforma per veicolare la pubblicità. Ecco perché diventa fondamentale capire meglio qual è la composizione demografica degli “Instagramers”, anche rispetto a Facebook, in quanto la sinergia tra i due social può portare ottimi benefici commerciali (vincos.it). Instagram è diventato inoltre un catalogo per lo shopping. Seguire le ultime tendenze e le nuove collezioni non è mai stato così facile, data la crescente apertura di profili dedicati interamente ad un brand o ad un negozio, ed alla grande quantità di fashion influencer che pubblicizzano prodotti di vario genere. In questo ambito, l’awareness generata da post dei brand e dei relativi influencer riesce a creare molto spesso una grande allure al prodotto. Da qualche settimana è diventato possibile anche fare shopping tramite l’app. Oltre alla possibilità di incorporare link nelle “stories”, che con un semplice “swipe up” rimandano ai siti di e-commerce, è stata introdotta l’opportunità di aggiungere direttamente sulla foto il tag dedicato allo shopping. Attraverso un semplice tap sull’icona a forma di borsetta gli utenti possono così accedere alle informazioni sui prezzi e sui prodotti direttamente dal feed di Instagram e, dopo aver scoperto di più su un prodotto interessante possono premere il tasto “acquista ora” ed essere rimandati all’e-commerce dove concludere quella che sul blog di Instagram viene definita «un’esperienza di shopping fluido».

Profilo Instagram Kate Spade NY

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Logo di 21Buttons (fonte: tuttoandroid.net)

21BUTTONS

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n altro social network che presenta lo stesso concept di Instagram è 21Buttons, app fondata negli USA nel 2015 e approdata in Italia all’inizio del 2017. Si tratta di un social shopping dedicato agli amanti della moda, che hanno voglia di pubblicare foto dei propri outfit, taggando tutti i capi che indossano, specificando brand, materiali, colori e così via. Ciò che la differenzia da Instagram è il tema delle foto, ovvero la moda, e l’e-commerce: infatti, tramite 21Buttons, si può acquistare direttamente e addirittura guadagnare.

Gli utenti che si registrano si chiamano buttoners e le loro 3 parole chiave sono comprare, salvare e abbinare. Una volta che la foto di un outfit viene postata online, i tag che vengono inseriti per i capi indossati sono detti buttons; cliccandoci sopra si viene rinviati alla pagina dello store che vende l’abito a cui si è interessati, che dà informazioni su prezzo, taglie e colori. Qui si può decidere se acquistarlo, salvarlo in una wishlist o inserirlo nell’armadio virtuale, il closet, per poi abbinarci un altro vestito e/o accessorio.

Foto di Giulia Gaudino, fashion influencer

Possibilità di salvare, abbinare, condividere e acquistare

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La novità assoluta riguarda il guadagno, che viene calcolato sul numero di utenti che hanno acquistato o anche solo salvato i buttons inseriti in una foto. Questi punti accumulati possono poi essere usati a loro volta per poter comprare ciò che si desidera. Inoltre, ogni volta che un follower acquisterà un vestito, una maglia e così via tramite la foto della persona seguita, quest’ultima avrà una ricompensa del 4% o 6% in base al prezzo. Tutti i guadagni saranno visibili sul profilo tramite la sezione “le mie ricompense”.

Una volta raggiunti i 10€ si potranno trasferire i guadagni sul conto PayPal. Vi è oltretutto un collegamento diretto con il proprio account Instagram, che permette di riprendere vecchie foto e ripostarle su 21Buttons. I fashion addicted considerano questa applicazione la nuova frontiera dello shopping online e a trarne benefici sono anche i diversi brand che possono usarla come trampolino di lancio per le nuove collezioni, una strategia di web marketing a tutti gli effetti che funziona perfettamente.

Sezione “Le mie ricompense”

Caricamento foto da Instagram

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Il ruolo della tecnologia nel retail


“The biggest upside to technology in fashion will be the ability to offer consistency, and being able to personalise the customer’s shopping patterns,” Robert Burke, chief executive of retail consultancy firm Robert Burke Associates

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Ancor prima dell’ingresso nel punto vendita la tecnologia consente di intercettare lo shopper con offerte personalizzate, consigli, promozioni ad hoc e call to action realmente personali ed efficaci che invitano all’acquisto. QR code, tablet NFC, specchi, vetrine interattive e riconoscimento facciale sono solo alcune delle tecnologie che il retail sperimenta in store, e che consentono di creare un ponte tra digitale e negozio reale.

er anni, i rivenditori al dettaglio hanno impegnato i loro clienti attraverso il merchandising e il layout del negozio. Ora, tuttavia, devono concentrarsi sulla creazione di un'esperienza per il consumatore. Diversi brand di moda lo hanno fatto con successo con l'aiuto della tecnologia, dell'istruzione e dell'intrattenimento. Questi strumenti dovrebbero servire come base per tutti i marchi che desiderano connettersi con i loro clienti e creare un'impronta duratura. Quando si parla di integrazione della tecnologia nella vendita al dettaglio, molti hanno provato, ma solo pochi hanno avuto successo. Il ruolo della tecnologia dovrebbe andare al di là del miglioramento della user experience; dovrebbe, infatti, dare ai rivenditori la possibilità di conoscere i loro clienti come mai prima d'ora. Inizialmente si pensava che l’e-commerce avrebbe interamente sostituito il commercio tradizionale nei negozi fisici. Invece, il futuro del retail marketing non è solo digitale. Secondo un’analisi di McKinsey, i negozi fisici produrranno ancora approssimativamente l’85% delle vendite nel 2025 (shopify.com). Sicuramente il passaggio al commercio multicanale ha cambiato radicalmente il retail marketing. Ora, l'esperienza in store è complementare a quella digitale. Il negozio offline non è più alternativo a quello online; piuttosto, rappresenta il punto di contatto fisico tra clientela e brand. Ma il retail del futuro va ben oltre le opportunità di vendita multicanale. L’evoluzione della tecnologia, l’aumento della concorrenza e i cambiamenti nel comportamento dei consumatori creano continue sfide e opportunità per i dettaglianti. A riscuotere il maggior successo, in definitiva, sono i retailer lungimiranti: essi si stanno muovendo verso la riduzione delle superfici di vendita, con l’obiettivo di spostare investimenti sempre più significativi su aree e strumenti di innovazione tecnologica utili a migliorare la shopping experience in-store. La tecnologia viene finalmente vista come una opportunità concreta, una risorsa da utilizzare in modo creativo per offrire un miglior servizio allo shopper e rendere l'esperienza di relazione con il retailer sempre più personalizzata ed i punti di vendita sempre più emotivamente coinvolgenti.

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IL PUNTO VENDITA INTERATTIVO

ongiuntamente al digitale, un altro ambito in forte espansione è quello dell’interaction design, utilizzato sempre di più durante la progettazione di strategie per il retail. Per Interaction Design (IxD) si intende la progettazione di prodotti e servizi interattivi in cui l'attenzione del designer va oltre l'elemento in sviluppo, per includere il modo in cui gli utenti interagiranno con esso. Pertanto, un attento esame delle esigenze, delle limitazioni e dei contesti degli utenti, consente ai progettisti di personalizzare l'output in base alle esigenze precise (interaction-design.org). Il termine è stato coniato nel corso degli anni ’80 da Bill Moggridge, co-fondatore di IDEO, e Bill Verplank, Interaction Designer e Human Factor Engineer, per differenziarsi da ciò che era noto come “user interface design”. La progettazione dell'interazione può essere compresa in termini semplici: è la progettazione dell'interazione tra utenti e prodotti. Molto spesso quando le persone parlano di interaction design, i prodotti tendono ad essere prodotti software come app o siti web. L'obiettivo del design dell'interazione è creare prodotti che consentano all'utente di raggiungere il proprio obiettivo nel modo migliore possibile. L'interazione tra un utente e un prodotto spesso implica elementi come l'estetica, il movimento, il suono, lo spazio e molti altri, e naturalmente, ognuno di questi elementi può coinvolgere anche campi più specializzati, come ad esempio il sound design per la creazione di suoni usati nelle interazioni dell'utente. Esiste però un'enorme sovrapposizione tra interaction design e UX design. Dopotutto, il design di UX riguarda l'esperienza di utilizzo di un prodotto, e gran parte di questa esperienza comporta alcune interazioni tra l'utente e il prodotto. Ma il design di UX è più del design dell'interazione: coinvolgere anche la ricerca degli utenti (scoprire chi sono), creare user personas (perché, e a quali condizioni, utilizzerebbero il prodotto), eseguire test di usabilità degli utenti ecc.

UX Design

Interaction Design

Sovrapposizione tra UX Design e Interaction Design (fonte: interaction-design.org)

Le 5 dimensioni dell'interaction design sono un modello utile per capire cosa esso implica. Gillian Crampton Smith, un accademico di interaction design, ha introdotto per la prima volta il concetto di quattro dimensioni di un linguaggio di design dell’interazione, al quale Kevin Silver, senior interaction designer di IDEXX Laboratories, ha aggiunto il quinto. Gli interaction designers utilizzano tutte e cinque le dimensioni per considerare le interazioni tra un utente e un prodotto o servizio in una visione olistica. Nello specifico, aiutano ad analizzare le esigenze del mondo reale di un'utenza in relazione a un progetto non ancora introdotto. Ad esempio, i progettisti di un'app che deve elaborare dati ad alta velocità per trovare risultati all'interno di un sistema di trasporto di massa dovranno affrontare i vincoli dei pendolari sotterranei: spazi angusti, viaggi veloci, zone morte, ecc. Risulta quindi fondamentale la presenza di progettisti di interazione nell’ambito del retail, in particolare nel caso in cui ci sia la necessità di progettare interfacce interattive all’interno di un punto vendita. Si tratta di creare esperienze coinvolgenti, per rendere sempre più multisensoriale la shopping experience ed invogliare i clienti a fare ritorno nel punto vendita.

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Attraverso quali oggetti fisici gli utenti interagiscono con il prodotto? Un laptop, un mouse, uno smartphone o un touchpad? E all'interno di quale tipo di spazio fisico si trova l'utente? Ad esempio, l'utente sta in piedi in un treno affollato mentre usa l'app su uno smartphone o seduto su una scrivania in ufficio navigando sul sito web? Tutto ciò influenza l'interazione tra l'utente e il prodotto.

Le parole, specialmente quelle usate nelle interazioni, come le etichette dei pulsanti, dovrebbero essere significative e semplici da capire. Dovrebbero comunicare informazioni agli utenti, ma non troppe da sopraffarli.

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Parole

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Rappresentazioni visive

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Oggetti fisici o spazio

Ciò riguarda elementi grafici come immagini, tipografia e icone con cui gli utenti interagiscono. Questi di solito vengono utilizzati a completamento delle parole usate per comunicare informazioni agli utenti.

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Ciò include il meccanismo di un prodotto: in che modo gli utenti eseguono azioni sul sito web? In che modo gli utenti gestiscono il prodotto? In altre parole, si occupa di come le quattro dimensioni precedenti definiscono le interazioni che un prodotto offre. Include anche le reazioni, ad esempio le risposte emotive o il feedback, degli utenti e del prodotto.

4

Tempo

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Comportamento

Anche se questa dimensione suona un po' astratta, si riferisce principalmente ai media che cambiano nel tempo (animazione, video, suoni). Il movimento e i suoni svolgono un ruolo cruciale nel dare feedback audio e video alle interazioni degli utenti. Un altro motivo di preoccupazione è la quantità di tempo che un utente trascorre interagendo con il prodotto: gli utenti possono seguire i loro progressi o riprendere la loro interazione qualche tempo dopo?

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STRUMENTI DI SUPPORTO: AR E DIGITAL SIGNAGE Quando si parla di digital signage invece, si intende una forma di comunicazione di prossimità sul punto vendita o in spazi pubblici aperti o all'interno di edifici, anche nota in Italia come “segnaletica digitale”, i cui contenuti vengono mostrati ai destinatari attraverso schermi elettronici o videoproiettori, con opportunità di interazione (conversionagency.it). Questo sistema tecnologico sta crescendo molto anche in Italia, con lo scopo di offrire maggiori informazioni dinamiche e, inoltre, permette quello che la carta stampata non può fare, ovvero dialogare in tempo reale con i propri clienti all’interno del punto vendita, coniugando edutainment e infotainment. I suoi obiettivi sono infatti informare, vendere ed ispirare, attraverso l’utilizzo di pubblicità parlanti, pubblicità targettizzate, rivolte direttamente all’individuo che si trova davanti, pubblicità interattive in cui è il consumatore ad indirizzarsi verso il prodotto, audio e video che lo guidano verso la decisione d’acquisto. Inoltre, sistemi come questo possono fare anche di più: veicolare informazioni in tempo reale, dialogare con il consumatore attraverso altri sistemi (bluetooth, wifi) essere utilizzati come info point o, addirittura, anche come sistemi di pagamento. Uno dei primi esempi sono i giganteschi schermi solitamente posizionati nelle grandi stazioni italiane, luogo di continuo flusso di persone. Nell’ambito del retail, i consumatori odierni sono sempre più esigenti, e portarli all’interno di uno store fisico richiede uno sforzo non banale. Una strategia di digital signage efficace, può ottimizzare e convertire l’attenzione del consumatore, durante il passaggio in store, in modo più diretto e immersivo. In particolare si è osservato che grazie a soluzioni di digital signage retail, si può ottenere un incremento delle vendite anche del 25% per le categorie dei prodotti promossi. Rispetto ad altre tecnologie, essa richiede alle persone un minimo sforzo in termini di interazione, come ad esempio nessuna applicazione da installare e presenza contestuale rispetto ai contenuti fruiti e il posto che si sta esplorando.

alla commistione tra nuove tecnologie ed interaction design, stanno recentemente nascendo nuovi strumenti di supporto all’esperienza d’acquisto largamente utilizzati nell’ambito del retail design. Uno dei mezzi più conosciuti è la AR (augmented reality), la quale arricchisce la realtà con tutta una serie di informazioni da sovrapporre a quello gli occhi possono vedere. Si tratta di una tecnologia relativamente recente e in continua evoluzione. Per definirla in maniera molto generica, si potrebbe dire che è la rappresentazione di una realtà alterata in cui, alla normale realtà percepita dai nostri sensi, vengono sovrapposte informazioni artificiali e virtuali (tecnologia.libero.it). Una delle prime applicazioni a sfruttare il concetto di realtà aumentata in ambito “pacifico”, ossia per arricchire l’ambiente che circonda i possessori di smartphone, e nello specifico dell’iPhone 3GS nel 2009, è stata “Layar”. Si trattava di un reality browser che, grazie ai dati su longitudine e latitudine in arrivo dal GPS del dispositivo e con l’aiuto dell’accelerometro, consentiva di inquadrare con la fotocamera un particolare edificio o monumento per ricevere informazioni come, per esempio, il nome o la storia, oppure dritte sui punti di interesse presenti nelle vicinanze. Da qui, sono stati fatti numerosi passi avanti, fino ad arrivare al 2014, quando hanno fatto il loro debutto i primi Google Glass. L’utente indossa gli occhiali e, usando semplicemente la voce o il touchpad integrato, fa ricerche su Google, naviga sul web, da un’occhiata ai social network o legge le notizie online. Ma, poiché i Google Glass sono in costante comunicazione con lo smartphone, l’utente può anche telefonare, visualizzare e inviare SMS, scattare foto o registrare video da condividere, oppure farsi aiutare da Google traduttore o dalle Google Maps quando è in difficoltà con una lingua straniera o una destinazione da raggiungere. Una tecnologia, insomma, che inizia gradualmente a cambiare il modo di vedere il mondo.

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Risulta quindi evidente come, con la progettazione di una corretta strategia, le parole e le immagini conquistano l’attenzione del cliente e lo inducono all’azione, ed è quindi naturale portare questa innovazione anche all’interno del punto vendita, laddove un potenziale cliente può trasformarsi in un reale, unico e prezioso cliente, laddove viene preso il 70% della decisione d’acquisto. (conversionagency.it)

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Casi studio:

Strumenti a supporto della user experience

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tre casi studio analizzati in questo ambito vedono la tecnologia interattiva utilizzata come strumento ausiliario all’esperienza d’acquisto del consumatore in un approccio sia funzionale, sia ludico. Infatti, in tutti e tre i casi, le esperienze che si creano portano l’utente a svolgere una serie di azioni che non necessariamente portano solo all’acquisto, ma lo coinvolgono con una moltitudine di attività. Alcune di queste vengono considerate azioni relative all’intrattenimento: scattare selfie, salvare le proprie foto, paragonare tra loro gli outfit indossati ed infine condividere il tutto sui social network, con la possibilità di innescare così un passaparola tra gli utenti del web. Altre, invece, sono utili per rendere più pratica e funzionale l’esperienza all’interno del punto vendita: la presenza di casse fai da te, la possibilità di cercare la propria taglia tramite app e di sapere se quel determinato articolo è disponibile ed in quali punti vendita, ed infine la comodità di scegliere i prodotti dal proprio divano di casa e recarsi al punto vendita solamente per ritirare l’ordine effettuato.

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Logo di ZARA (fonte: itunes.apple.com)

Z(AR)A

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concludere l’acquisto. Per il progetto “augmented reality”, Zara ha scelto di far indossare alle sue modelle "virtuali" la collezione “Studio” della P/E 2018, che al contrario della tecnologia cui si appoggia, ha vibes vintage sia nelle linee che nelle fantasie e nei colori. Al momento, la shopping experience con la realtà aumentata è disponibile in 120 negozi Zara in tutto il mondo. In Italia, dal 12 aprile, si può provare a fare acquisti "tecnologici" in 5 store dove il progetto “augmented reality” è disponibile per circa due settimane: lo store di Milano (Via Torino 2), Firenze (Piazza della Repubblica 1), Roma (Via del Corso 189), presso il Centro Commerciale Porta di Roma e a Marcianise presso il Centro Commerciale Campania.

ara, la catena di moda di Inditex, il più grande rivenditore al mondo di abbigliamento, ha presentato i display in realtà aumentata il 12 aprile 2018. I rivenditori di abbigliamento devono investire in esperienze memorabili e contenuti specifici per attirare clienti tra i 20 e i 30 anni, che stanno incrementando il valore di colossi online come Amazon, il quale ha devastato le catene di vendita al dettaglio negli ultimi anni (businessoffashion.it). Nel caso di Zara, la realtà aumentata funziona così, si va in uno dei cinque store in cui è disponibile il servizio e si scarica l'app “ZARA AR” attraverso una rete Wi-Fi dedicata oppure eseguendo il download tramite QR code, su iTunes e Google Play. A questo punto si può utilizzare l'app in quattro modi diversi, puntando lo smartphone sulle vetrine dei negozi, sul podio in store, sulle scatole dell'e-commerce oppure anche da casa tramite le immagini dedicate alla realtà aumentata sul sito zara.com, nei punti in cui compare la scritta “shop the look” oppure “experience the look”. In pratica, quando si punta lo smartphone su uno di questi quattro elementi compariranno le modelle (Léa Julian e Fran Summers) direttamente sullo schermo, mentre sfilano e posano per circa 10 secondi. Dopodichè, l’utente potra scegliere cosa acquistare e verrà rimandato all’app di Zara per

Modalitò di utilizzo dell’app da casa e in negozio (fonte: pambianconews.it) (fonte: gq.italia.it)

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Il progetto punta in particolare al target di clienti Millennials. L'app dell'intelligenza artificiale di Zara infatti, oltre a guardare i capi indossati in realtà aumentata, permette di postare l’esperienza sui social media, invitando gli utenti a scattare e condividere foto degli ologrammi, stabilendo una connessione virtuale che appare straordinariamente reale. Il brand spagnolo, che fa capo al gruppo Inditex, si è distinto nell’ultimo anno per aver investito molto sulla clientela virtuale. Oltre ad aver implementato dei robot nel processo di produzione, ad aprile 2017 ha inserito sul sito un “sarto privato virtuale”,

Store di Westfield (fonte: econsultancy.com)

cioè una funzione che permette di individuare la taglia perfetta per il vestito che si sta acquistando. Cliccando su “qual’è la mia taglia”, si apre un menù a tendina dove spostare i cursori per indicare con precisione peso, altezza e misure principali, per non rischiare di farsi ingannare dalle linee spesso irrealistiche delle modelle. Non solo: all’inizio del 2018 nel centro commerciale londinese Westfield, Zara ha aperto il suo primo “click and collect store”. Un negozio con pochi capi esposti, il cui scopo è ritirare gli acquisti online. Dal look futuristico e minimale, lo store ha immediatamente riscosso grande successo, complici

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alcune chicche high-tech. Come la possibilità di pagare via bluetooth, sfruttando iWallet, o di saltare la fila accedendo a delle eleganti casse fai da te. Inoltre, esiste la possibilità di scansionare dei codici a barre incorporati negli specchi, che utilizzando la tecnologia di identificazione a radiofrequenza, riconoscono l’oggetto e suggeriscono molteplici scelte per coordinare e combinare il pezzo con altri indumenti e accessori. Lo store di Westfield è stato chiuso a maggio, ma è chiaro che il viaggio di Zara verso un concetto più futuristico e tech-oriented di shopping è ancora all’inizio (ilmessaggero.it).


MEMORY MIRROR

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Lo stesso concept è stato utilizzato sia per il Memory Makeover, che crea un’esercitazione personalizzata e dettagliata di un’applicazione del trucco guidata da un makeup artist, sia per il Sunglass Memory Mirror, realizzato in partnership con Luxottica, che permette agli utenti di provare occhiali da sole, scattare foto, paragonare i vari modelli e, ovviamente, condividerli sui social. Entrambe le tecnologie sono per il momento disponibili soltanto nei department stores Neiman Marcus di alcune città americane, come ad esempio Houston e San Francisco (retail-focus.co.uk). L’obiettivo di questi specchi è quello di consentire agli acquirenti di interagire meglio con i prodotti e creare esperienze di shopping condivisibili, ma soprattutto interattive.

i tratta di un innovativo specchio realizzato da Neiman Marcus, in collaborazione con MemoMi, che potrebbe rivoluzionare il modo di fare shopping nei negozi di abbigliamento. Non si tratta infatti di un semplice specchio, ma di uno “smart mirror” che, oltre a mostrare all’utente la propria immagine riprodotta su schermo, filmerà anche le prove mentre indossa i capi fra cui si trova indeciso. Una volta conclusa la ripresa della prova, il Memory Mirror potrà ripetere la “sfilata”, mostrando a 360° l’aspetto del consumatore durante la prova; si potranno cambiare alcuni aspetti del capo che indossato, per capire ad esempio se dona di più lo stesso abito in colore rosso o verde, e si potranno anche riprodurre le immagini delle prove con un determinato vestito mentre se ne sta provando un secondo, per mostrare così in tempo reale l’effetto dei due abiti in competizione diretta. Non poteva mancare ovviamente la possibilità di condividere le immagini in tempo reale su Facebook, scaricandole via Wi-Fi direttamente sullo smartphone, per chiedere eventualmente il parere di amici ed amiche. Al momento il Memory Mirror è disponibile solamente presso il Walnut Creek in California, ma è probabile che tecnologie di questo genere possano diffondersi molto velocemente nei negozi più tecnologicamente avanzati, rendendo la prova vestito molto più divertente ma probabilmente anche molto più prolungata.

Memory Makeover (fonte: wwd.com)

Sunglass Memory Mirror (fonte: retail-focus.co.uk)

Memory Mirror (fonte: metro.co.uk)

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H&M VOICE INTERACTIVE MIRROR

H

Per ora si tratta di un elemento che attira gli acquirenti nel negozio, qualcosa a cui H&M è appassionato. Nonostante un approccio slow alle operazioni online, le vendite di e-commerce di H&M sono aumentate di circa il 20%. Ma le vendite complessive nei primi dieci mercati della società nel trimestre sono diminuite dell'1% e le vendite di H&M negli Stati Uniti sono diminuite dell'11% (o dell'1% in valuta locale). Le vendite totali per i nuovi marchi della società sono aumentate del 15%, il che ha portato il retailer di fast-fashion a raddoppiare le novità introdotte dal marchio. Ma gli analisti temono che stia trascurando la sua ammiraglia molto più grande (retaildive.com).

&M ha recentemente inserito un "Voice Interactive Mirror" nel suo flagship store di New York a Times Square, che si attiva attraverso il riconoscimento facciale quando qualcuno lo guarda abbastanza a lungo. Lo specchio offre anche selfie, consigli di stile e sconti tramite codici QR, secondo un video di YouTube del rivenditore svedese di fast-fashion. Gli specchi, installati sul pavimento del negozio e non nei camerini, sono stati creati da Microsoft e dall’agenzia con sede a Stoccolma “Ombori”, una società di design UX, e Visual Art, un'azienda di digital signage, secondo Forbes. H&M sta anche impiegando big data e intelligenza artificiale per personalizzare il mix di merchandising dei singoli negozi, nel tentativo di ridurre il massiccio accumulo di inventario che ha costretto i ribassi e afflitto i profitti del primo trimestre. Questo specchio è abilitato da una tecnologia che funziona particolarmente bene per gli utenti di iPhone, che devono solo avviare la loro fotocamera per accedere al codice QR, che offre uno sconto del 20% o la possibilità di scattare un selfie ad alta risoluzione progettato per assomigliare alla copertina di una rivista di moda. C'è una domanda emergente di assistenti digitali dello shopping come questo che aiuterà le decisioni di acquisto in base alla scelta di stile e al prezzo, e gli acquirenti si aspettano sempre più di gestire attività più ordinarie come restituzioni e rimborsi, secondo uno studio recente di Ericsson Consumer and IndustryLab. Ma ci sono anche alte aspettative sulla privacy. I rispondenti al sondaggio di Ericsson hanno espresso preoccupazioni su come vengono utilizzate le loro informazioni personali. Per ora, gli specchi di H&M sono nei negozi, non sui telefoni degli acquirenti, dove i consumatori si aspettano di trovarli sempre più in futuro. I consumatori si aspettano che la tecnologia AR / VR porti i benefici dei negozi fisici ai propri dispositivi, con oltre la metà che afferma che riceveranno più consegne a domicilio dei propri acquisti, ha rilevato Ericsson.

H&M Voice Interactive Mirror (fonte: visualart.com)

122


Casi studio:

Strumenti a supporto della strategia aziendale

E

ye see mannequin ed i sistemi RFID, al contrario dei casi studio analizzati in precedenza, sono strumenti utilizzati dai brand per eseguire analisi sulla clientela e per capire meglio come interagire con loro. I clienti infatti, al momento dell’ingresso nel punto vendita dotato di questi dispositivi, non sanno di essere “sotto osservazione”. I brand che si avvalgono di tali mezzi, lo fanno principalmente per avere più dati sul comportamento d’acquisto degli utenti, in modo da poter capire quali sono le loro esigenze e, conseguentemente, adattare a queste l’esperienza in negozio. Inoltre, entrambi svolgono azioni tali da rendere più semplice la gestione del punto vendita, dell’assortimento dei prodotti e della logistica.

123


EYE SEE MANNEQUIN

S

See Mannequin è in grado di svolgere diverse attività ispettive: se collocato davanti alle vetrine profila la clientela e, in funzione di quanto il cliente si è soffermato, consente di effettuare valutazioni sull’efficacia espositiva della vetrina. Se, invece, viene posizionato all’interno del punto vendita, può fornire indicazioni sull’attrattività della merce esposta e sull’efficacia comunicativa dei display e della cartellonistica in-store. Le preoccupazioni connesse alla tutela dei dati personali sono scongiurate dal fatto che i dati raccolti sono processati in tempo reale, senza che le immagini vengano in alcun modo registrate e memorizzate.

i tratta di un manichino bionico che l’azienda italiana Almax SpA ha realizzato in collaborazione con il Politecnico di Milano. Questo manichino “speciale” è dotato, in corrispondenza delle pupille, di telecamere che carpiscono le immagini dei passanti e, tramite un software di riconoscimento facciale, è in grado di ricavare l’età, il sesso e l’etnia dei consumatori. In base alle caratteristiche demografiche rilevate, vengono visualizzati su dashboard all’interno dello store prodotti e accessori di potenziale interesse per quella specifica tipologia di consumatore (almax-italia.com). A seconda della posizione in cui è sistemato, Eye

Eye See Mannequin (fonte: wired.co.uk)

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CASE HISTORY: STORE 1 ANALYSIS OF ENTRANCE

140

139

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120 100

102

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99

80 60 40 15

20 -

44

31

9 9-12

12

7

12-15

15-18

Afro

Asian

Lo schema rappresenta i dati raccolti dalle telecamere all’interno dei manichini in un punto vendita milanese. Il grafico mostra chiaramente come la maggioranza della clientela asiatica entri nello shop in un orario compreso tra le 15:00 e le 18:00, mostrando un forte segnale di discontinui-

7 18-21

Caucasian

tà con il normale flusso delle visite. A seguito di tale rivelazione lo store manager ha scoperto che ogni giorno attorno alle 17 un autobus turistico fermava davanti all’entrata 5 del retail, un dato che spiega quindi la variazione dei dati raccolti.

Analisi delle entrate (fonte: almax-italia.com)

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CASE HISTORY: STORE 2 AGE OF CLIENTS

80% 72%

57% of population younger than 20 years old at 4pm

70% 60%

61%

50% 40%

40%

32%

30%

25%

25%

20% 10%

8%

15

12% 7%

8%

3%

7%

0% Children

Young 10-15

Adult 15-17

Il grafico riporta i dati demografici raccolti in termini di età della clientela all’interno dello store numero due. In questo caso lo store manager ha identificato un numero crescente di bambini all’interno dello store durante l’orario compreso tra le 15:00 e le 17:00. Un dato sorprendente,

Senior

17-20

dato che il punto vendita non aveva in esposizione alcuna collezione adatta a quel target di consumatore. I dati sono stati confermati dal termine dell’orario scolastico di una scuola adiacente lo shop.

Analisi dell’età (fonte: almax-italia.com)

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CASE HISTORY: STORE 3 CONVERSION RATE 100% 90%

88%

CR FEMALE

80%

78%

CR MALE

70% 60% 50%

42%

40% 30% 20% 10%

35% 31%

30% 19%

25% 17%

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40%

32% 27%

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12%

26%

29%

30%

36% 30% 22% 15%

16% 7%

04 /1 06 2/2 /1 01 0 2 08 /2 /1 01 0 2 10 /2 /1 01 2 0 12 /2 /1 01 0 14 2/2 /1 01 16 2/2 0 /1 01 18 2/2 0 /1 01 20 2/ 0 /1 20 1 22 2/2 0 /1 01 24 2/2 0 /1 01 26 2/2 0 /1 01 2 28 /2 0 /1 01 30 2/2 0 /1 01 2 0 01 /20 /0 1 03 1/ 0 /0 20 05 1/2 11 /0 01 1 07 /2 1 /0 01 09 1/2 1 /0 01 1 1 11 /20 /0 11 13 1/ /0 20 1 15 1/2 1 /0 01 1 17 1/2 /0 01 1 19 /2 1 /0 01 1 21 1/2 /0 01 23 1/ 1 /0 20 1/ 11 20 11

0%

durante le festività, orientati verso l’uomo. È stato quindi possibile riassumere i problemi identificati mediante l’utilizzo della tecnologia innovativa “Eye See Mannequin” ed associarli alle relative soluzioni trovate dai manager al fine di un miglioramento della performance del punto vendita.

In questa sezione viene illustrata la dinamica relativa al rapporto tra acquisti e numero di visite nel negozio nel periodo compreso tra dicembre 2010 e gennaio 2011. Questo dato risulta più alto per il genere maschile rispetto a quello femminile. Esponenziale il valore compreso tra il 6 ed il 7 gennaio, cioè durante i primi due giorni di saldi

Tasso di conversione (fonte: almax-italia.com)

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CONSIDERAZIONI FINALI

Nel negozio 1, il responsabile del negozio ha inserito due addetti alle vendite asiatici all'ingresso 5 dalle 16:00 alle 20:00.

Le vendite sono aumentate del 12% e del 22% nei giorni successivi a questa azione dopo le 18:00.

Nel negozio 2, il responsabile del negozio ha deciso che valeva la pena inserire una linea per bambini, che prima non era presente.

Le vendite dalla linea kids ora rappresentano l’11% delle vendite totali del negozio. Inoltre, questo ha creato un effetto positivo per l’abbigliamento da donna, dal momento che accompagnano i loro figli e finiscono per comprare qualcosa anche per se stesse.

Nel negozio 3 sono state raccolte informazioni importanti sul tasso di conversione durante i saldi. I dati hanno rilevato che gli uomini sono piĂš propensi a fare acquisti per soddisfare un bisogno, mentre le donne ne traggono divertimento.

Questo ha dato l'opportunitĂ di capire meglio il comportamento dei clienti all'interno dei negozi durante l'anno. Le promozioni possono essere implementate per creare traffico ed essere convertito in aumento delle vendite.

Tasso di conversione (fonte: almax-italia.com)

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SISTEMA RFID

L

Il sistema con tecnologia RFID di InfinityID è una vera e propria soluzione a 360° progettata per il punto vendita, dotata di tecnologia avanzata e caratterizzata da un design esteticamente curato e Made in Italy. Le funzioni che è possibile svolgere tramite questa tecnologia sono:

a tecnologia RFID (Radio-Frequency Identification Tag) è in grado di ottimizzare svariati processi aziendali, migliorando il business e velocizzando operazioni e procedure quotidiane in ambito retail. L’azienda italiana nfinityID propone un’ampia gamma di soluzioni modulari con tecnologia RFID, progettate, sviluppate e costruite appositamente per il punto vendita. I sistemi RFID possono essere impiegati sia nella gestione warehouse che per l’applicazione instore e sono facilmente utilizzabili anche dagli utenti meno esperti. Essi interagiscono autonomamente con le etichette elettroniche applicate su capi d’abbigliamento, occhiali, scarpe o accessori, e permettono di gestire al meglio qualsiasi procedura, dall’inventario alla verifica delle disponibilità magazzino, riducendo la possibilità d’errore e semplificando le operazioni di controllo.

- Gestione efficace degli articoli in negozio - Creazione di shopping experience d’eccellenza - Miglioramento delle operazioni di cassa - Gestione delle taglie semplificata - Spostamenti di prodotto più veloci - Automatizzazione della gestione di prezzi/offerte - Sincronizzazione del trasporto merci - Velocizzazione dell’inventario

Sistemi RFID (fonte: infinity-id.com)

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Analisi di un caso studio reale: Jamais Sans Toi


“Jewels has the power to be this one little thing that can make you feel unique.� Jennie Kwon, Designer

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CHI SONO

L

primigeni, sono tra le suggestioni che hanno portato all’identificazione nella sfera, forma carica di simbologia, come modulo ispiratore delle creazioni JST: composizioni modulari complesse, accuratamente realizzate a mano attraverso le prassi della ceramica artistica. La materia, l’argilla, è il campo di conoscenza comune, luogo di evoluzione e ricerca continua. Jamais Sans Toi unisce quindi la competenza e la sensibilità nei confronti della materia all’uso di metodi di lavorazione artigianale locali. Dall’incontro di questi elementi nasce un design moderno e distintivo che rende fortemente riconoscibili i gioielli Jamais Sans Toi. Ogni opera è frutto di un attento studio tra volumi e colori: l’attenzione ai dettagli di ogni singola creazione determina la percezione di preziosità così come di leggerezza e di versatilità.

aboratorio del gioiello contemporaneo, il brand Jamais Sans Toi è stato fondato a Torino nel 2012 grazie alle competenze artistiche e creative delle sorelle Camilla e Valentina Gallo. Specializzate in design del gioiello e lavorazione della ceramica, hanno dato vita ad un marchio in cui si condensa il profondo significato del Made in Italy; un sapere artigianale che tramandato da generazioni cela il misterioso fascino della manifattura antica rivelatasi sorprendentemente attuale e moderna. Il nome del brand si ispira al motto di Chiomonte, paese d’origine di Camilla e Valentina situato lungo i pendii della Val di Susa. Lo stemma della cittadina piemontese raffigura un sole che illumina due grappoli d’uva sovrastati dalla frase “Jamais Sans Toi”, letteralmente “mai senza di te”, in antico dialetto occitano. l sole e l’uva, elementi

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O

METODOLOGIA PROGETTUALE Dopo una prima cottura a 1000°C circa in forni professionali, la terracotta viene smaltata con una vernice di copertura priva di piombo e successivamente sottoposta ad una seconda infornata, a circa 950°C. I decori con l’oro e il platino, dipinti sulla ceramica, presentano una percentuale di vero metallo prezioso e sono cotti una terza volta a 700°C. Infine gli elementi ceramici vengono montati su metallo o su cuoio azo-free, certificato e rigorosamente trattato in modo naturale, nel rispetto dell’ambiente. Prendono vita così le loro creazioni, ideate per essere leggere e versatili, che possono essere indossate in più modi adattandosi al meglio allo stile di chi le indossa. Giorno dopo giorno, Camilla e Valentina rinnovano i segni del loro originale linguaggio, fatto di terra e colori, aprendo la ceramica al dialogo con il cuoio e i metalli, muovendo alchemici accostamenti e poetiche sovrapposizioni.

gni giorno, nell’atelier di Camilla e Valentina, si progettano nuove idee e forme che, con l’utilizzo di materie prime selezionate e attraverso sofisticate tecniche di lavorazione artigianale, daranno corpo a collezioni sempre uniche e innovative. La fase progettuale inizia dal disegno, rigorosamente fatto a mano. Quello di Jamais Sans Toi è un metodo progettuale empirico, in cui il prodotto finale è dettato dall’esperienza pratica e dalla conoscenza maturata con gli anni, insieme alla continua ricerca. Si tratta infatti di un design sperimentale, che rende ogni creazione unica nel suo genere ed inconfondibile. Jamais Sans Toi realizza i suoi gioielli in ceramica utilizzando i metodi classici della lavorazione della materia. Scelta per la sua potente carica energetica, la terraglia bianca è l’elemento che utilizzano per foggiare a mano le loro creazioni.

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133


ANALISI DEL PUNTO VENDITA

N

ella creazione del brand Jamais Sans Toi e nella progettazione del punto vendita, sono stati osservati tutti i fattori definiti nel libro “Il retail design� da Trevisan e Pegoraro, che di seguito verranno analizzati nel dettaglio.

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Il prodotto è il protagonista assoluto del progetto di retail design. Lo studio del layout, dei colori, dell’illuminazione e dei materiali dello store è volto unicamente alla valorizzazione di ciò che lo spazio vendita contiene, cioè i gioielli. Un valore aggiunto viene dato dalla presenza, all’interno del punto vendita, del laboratorio di progettazione dei prodotti.

Valori del brand e filosofia dell’azienda

Tipologia e caratteristiche del prodotto

Il brand Jamais Sans Toi si esprime e si identifica in una serie di valori che lo rendono unico e irripetibile. I valori dell’azienda vengono espressi in una varietà di modi: attraverso i gioielli, tramite campagne di comunicazione, fotografie, attraverso una fiera oppure associando il proprio nome ad altre aziende, o associazioni, o personaggi più o meno famosi, ed infine, come in questo caso, attraverso la realizzazione di uno spazio commerciale monomarca.

Visual merchandising

I criteri di esposizione del prodotto dipendono sia dalle caratteristiche intrinseche al prodotto, sia dall’immagine che si vuole far percepire al consumatore. Il punto vendita di JST e le modalità espositive scelte rispettano a pieno il concept dell’atelier: minimal, essenziale e che valorizza i gioielli e i loro materiali.

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Targe riferi


Il target a cui si riferisce il brand è composto da utenti di un’età compresa tra i 30 e i 60 anni, appassionati di design e architettura, a cui piace indossare elementi distintivi, in modo da differenziarsi per stile e tipologia di scelte. Essi si collocano principalmente in Italia ma, grazie all’e-commerce, alle fiere ed agli eventi, molti di loro arrivano anche dall’estero.

arget di ferimento

Concept

Il brand Jamais Sans Toi si colloca in un settore di mercato non saturo, poichè il concept e lo stile dei prodotti sono molto particolari e distintivi. In particolare nell’ambito torinese, sono poche le gioiellerie contemporanee che presentano caratteristiche simili a quelle di JST. Per questo motivo, i competitor con cui si confronta a livello territoriale sono limitati.

Caratteristiche dei competitor

Il concept e i riferimenti estetici a cui l’azienda si vuole associare sono elementi che permettono differenziazione dai competitor, l’abbassamento dei costi e l’aumento della produttività nella realizzazione, in quanto il concept fornisce una griglia, uno schema di layout, finiture e soluzioni tipiche a cui attenersi e da cui declinare soluzioni ad hoc.

Location

L’atelier di Jamais Sans Toi si trova in una zona al di fuori dei principali flussi turistici e commerciali torinesi, in cui si posizionano i negozi con un’offerta di prodotto particolare ed esclusiva, in un’area alla moda in cui si affiancano locali, ristoranti e ritrovi di tendenza, dal design ricercato.

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I

noltre, risulta opportuno analizzare lo showroom di Jamais Sans Toi anche da un altro punto di vista: quello del buon design. Secondo i principi di Dieter Rams, citati nel cap.1, un progetto di “Good Design� deve rispettare alcune regole che verranno elencate qui di seguito, in relazione al punto vendita preso in analisi, il quale li ha seguiti tutti e dieci.

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Lo store deve: RENDERE LO SPAZIO COMPRENSIBILE

ESSERE INNOVATIVO Lo sviluppo tecnologico offre sempre nuove opportunità di design innovativo, in particolare nell’ambito del retail, in cui si stanno sviluppando nuovi sistemi tecnologici a supporto della disciplina. Ma il design innovativo si sviluppa sempre insieme alla tecnologia innovativa e non può mai essere fine a se stesso, ne’ tantomeno deve oltrepassare il prodotto/servizio.

Esso deve chiarire la struttura del punto vendita. Ancora meglio, può farlo parlare e, nella migliore delle ipotesi, renderlo auto-esplicativo. Ad esempio, progettando un percorso espositivo corretto, la percorrenza dello spazio sarà molto più fluida ed intuitiva.

RENDERE LO SPAZIO UTILE

ESSERE DISCRETO

Uno spazio di vendita deve soddisfare determinati criteri, non solo funzionali, ma anche psicologici ed estetici. Un buon retail design enfatizza la sua utilità trascurando qualsiasi cosa che possa eventualmente sminuirla.

I prodotti che soddisfano uno scopo sono come strumenti, non sono né oggetti decorativi né opere d'arte. Nel caso dei punti vendita, il loro design dovrebbe quindi essere neutro e sobrio, per lasciare spazio all'espressione personale dell'utente.

ESSERE ESTETICO

ESSERE ONESTO

La qualità estetica di un prodotto è parte integrante della sua utilità, perché i prodotti che usiamo ogni giorno influenzano la nostra persona e il nostro benessere. Ad esempio, un punto vendita ben progettato, sia esteticamente, sia funzionalmente, porterà il fruitore ad uno stato di appagamento ed è probabile che si sentirà più invogliato a farvi ritorno. Ciò accadrà solo se lo spazio di vendita è stato frutto di una buona progettazione.

Un punto vendita non deve mai tentare di manipolare un cliente con promesse che non possono essere mantenute. Per esempio, gli schermi di uno store non dovrebbero mai ritrarre un prodotto in un modo che lo rende più innovativo, più potente e più prezioso di quanto sia attualmente. Molto rapidamente i clienti possono perdere la fiducia costruita nel corso degli anni nel prodotto o, peggio ancora, nel brand.

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ESSERE DURATURO

ESSERE ESSENZIALE

L’obiettivo dello store design è quello di essere duraturo nel tempo, tralasciando le tendenze momentanee senza risultare mai antiquato. A differenza del design che segue la moda dura molti anni, anche nella società usa e getta di oggi.

Il mantra di ogni retail designer dovrebbe essere “Less is more”, come suggeriva Ludwig Mies van der Rohe. Un buon store design deve essere progettato concentrandosi sugli aspetti essenziali, e i prodotti non sono gravati da elementi non essenziali. Tutto deve girare intorno a purezza e semplicità.

CURARE I DETTAGLI Come disse l’architetto e designer Ludwig Mies van der Rohe: “God is in the details”. Il buon design deve infatti essere accurato fino all'ultimo dettaglio. Nulla deve essere arbitrario o lasciato al caso, poichè cura e accuratezza nel processo di progettazione mostrano rispetto nei confronti dell'utente.

ESSERE SOSTENIBILE Un buon design è ecologico. La progettazione apporta un contributo importante alla salvaguardia dell'ambiente, conserva le risorse e riduce al minimo l'inquinamento fisico e visivo durante tutto il ciclo di vita del prodotto.

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TIPOLOGIA DI PUNTO VENDITA

S

econdo la classificazione dei retail store dettata da Trevisan, l’atelier di Jamais Sans Toi viene definito un regular store o showroom, organizzato su un solo livello, ma che presenta alcune particolarità rispetto al classico store monomarca. Il cliente, non appena entra nell’atelier, si trova immediatamente immerso nel mondo di Jamais Sans Toi. Infatti, chiunque entra può vedere tutto il lavoro che sta dietro alla creazione dei gioielli, poiché il laboratorio di progettazione e realizzazione si trova all’interno dello spazio vendita, dando così un valore aggiunto all’esperienza d’acquisto del consumatore.

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ESTERNO DELLO STORE

L

o showroom presenta due vetrine sul lato strada, in via Catania. L’utilizzo di vetrine con allestimenti accattivanti fa acquisire consapevolezza al cliente annunciando l’identità del punto vendita senza l’utilizzo della parola. Su di esse, infatti, compare solo il logo dell’azienda, in modo da attirare l’attenzione sui prodotti esposti. Tutti gli espositori, sia quelli da tavolo, sia quelli da terra, sia quelli da parete, sono realizzati in legno chiaro lasciato naturale. Tutto ciò per enfatizzare forme, colori e finiture delle creazioni, protagoniste del punto vendita. Questi strumenti sono progettati con lo scopo di attirare il cliente nel punto vendita, facendolo passare da una condizione di movimento ad un momento di pausa, ad un successivo sforzo motorio che lo spinge all’ingresso dello showroom. Il carattere narrativo della vetrina rimane l’elemento principale. Il rapporto figura-sfondo è determinato anche dall’uso corretto dei colori, dei contrasti, delle luci e degli elementi che distorcono la percezione dello spazio, quali la prospettiva e tutte le teorie delle illusioni ottiche.

Vista dall’esterno, via Catania 17



INTERNO DELLO STORE

G

li spazi espositivi sono stati recentemente modificati ed allargati. Un bancone in legno di betulla separa il merchandising dal laboratorio, situato dietro di esso. Le modifiche apportate hanno come obiettivo quello di rendere lo spazio espositivo più intuitivo, definendo così anche le percorrenze ed i punti focali. Le mensole, di cui alcune inserite in delle nicchie all’interno della parete, sono in legno chiaro ed hanno il compito di dare valore ai gioielli che contengono, mantenendo sempre chiaro il concept di Jamais Sans Toi: il richiamo alla natura, i suoi colori e la valorizzazione degli elementi del territorio. I colori utilizzati sono tinte naturali: grigio per i pavimenti, bianco per le pareti e legno chiaro per il bancone espositivo e le mensole. Tutto è progettato in modo da dare visibilità alle collezioni di gioielli, ai loro colori sgargianti e ai materiali con cui sono realizzati. L’illuminazione è molto particolare: una serie di lampadine appese al soffitto donano un’illuminazione diffusa in tutto l’atelier. Inoltre, molta della luce entra all’interno del punto vendita attraverso le grandi vetrine. La grafica del brand e la store directory comunicano l’immagine del brand e sono utilizzate anche per educare il cliente. I colori, le forme, i materiali adottati servono per enfatizzare l’immagine dello store e dei prodotti esposti, nonché a completare il disegno complessivo del punto vendita.

Vista dall’interno



SHOPPING EXPERIENCE

D

in parte la realtà di Jamais Sans Toi, conosce i gioielli e il loro stile, ma non sa bene cosa acquistare. 3. Qualcosa da fare: il consumatore non ha come obiettivo l’acquisto immediato, ma vuole informarsi; quest’ultima categoria rappresenta il restante 20%. Il cliente viene a conosce JST per caso, passeggiando per la città e si sofferma sulla vetrina, che in qualche modo l’ha incuriosito. Inoltre, i gioielli di JST sono venduti in molti store sparsi prevalentemente per l’Italia e l’Europa, ma alcuni sono situati anche oltreoceano. Si tratta di diverse tipologie di punti vendita: gioiellerie, store mono e plurimarca e pelletterie.

opo aver definito qual è la tipologia di clientela che acquista le creazioni di JST, è opportuno classificarla secondo la catalogazione fatta da Trevisan: 1. Acquisto specifico: il consumatore sa già cosa vuole e dove trovarlo; questa tipologia di acquirente rappresenta circa il 50% del totale. La maggior parte degli utenti ha visto i gioielli sui social, sul sito, ad una fiera o da una persona conosciuta, quindi acquista in modo programmato. 2. Incertezza di acquisto: il consumatore cerca ispirazione all’acquisto, vuole acquistare ma non sa bene cosa; questa tipologia di utente rappresenta circa il 30% del totale. Il cliente conosce già

50%

30%

Acquisto specifico

Incertezza di acquisto

100%

Totale acquisti

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20%

Qualcosa da fare



D

al punto di vista del marketing emozionale, uno dei punti cardine della strategia di Jamais Sans Toi è la fidelizzazione del cliente. L’obiettivo principale è infatti quello di creare un’esperienza d’acquisto tale da rendere il cliente soddisfatto. Un cliente soddisfatto è un cliente che ritorna e acquista ancora: è del tutto evidente quindi quanto sia importante per ogni azienda o realtà commerciale acquisire una rilevante quota di clienti sicuri che garantiscano una base di fatturato stabile e duratura. Ad esempio, il servizio di riparazione dei gioielli offerto dall’atelier è un ottimo modo per fidelizzare i consumatori, poichè dà una prestazione gratuita, acquistando fedeltà nel cliente e consolidando il rapporto. Inoltre, in alcuni casi lo showroom offre la possibilità di personalizzare alcune creazioni. Questo capita nel caso in cui una cliente, provando ad esempio una collana, si renda conto che la catena in metallo è troppo lunga o troppo corta per la sua conformazione fisica. In alcuni casi però, la personalizzazione è intrinseca nell’oggetto, siccome alcuni dei gioielli presentano elementi modulabili: anelli, perline, nodi scorsoi e chiusure particolari danno la possibilità all’utente di adattare il gioiello alle sue personali esigenze e preferenze. In questo modo, il consumatore si trova coinvolto emotivamente, in parte grazie ai servizi offerti, in parte grazie ai prodotti. Infatti, sono i gioielli stessi che, grazie alla loro particolarità danno un valore aggiunto all’acquisto, dando così all’utente l’idea di possedere qualcosa di peculiare, con cui differenziarsi e sentirsi speciale.

Collana “Costellazione sottacqua”

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S

eguendo i dettami del design emozionale invece, è opportuno analizzare l’esperienza d’acquisto all’interno del punto vendita di Jamais Sans Toi secondo i tre livelli di elaborazione descritti da Norman.

1. Livello viscerale: in primo luogo l’utente noterà in maniera inconscia, ma consapevole, le proprietà funzionali del gioiello, come forma, colori, materiali e finitura. 2. Livello comportamentale: il consumatore si troverà ad analizzare il prodotto secondo gli aspetti ergonomici. Ad esempio, nel caso di una collana cercherà di capire come si indossa, il meccanismo di apertura/chiusura, il suo peso ecc. 3. Livello riflessivo: in quest’ultima fase noterà le proprietà estetiche del prodotto e metterà in atto il processo decisionale, secondo i propri gusti personali. Mentre i livelli viscerali e comportamentali hanno a che fare con il presente, la dimensione riflessiva riguarda invece l’esperienza a lungo termine: i servizi post-vendita, la personalizzazione del prodotto, ecc. Nel livello riflessivo il consumatore riflette sulle proprie azioni attraverso un comportamento conscio che favorisce l’apprendimento di nuove idee e concetti.

Dall’alto: collana “Costellazione” Collana “Andromeda”

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L

a shopping experience di Jamais Sans Toi si articola in due modalità: quella di acquisto all’interno del punto vendita, e quella tramite e-commerce dedicato. In realtà, come già spiegato nel cap.5, anche qui sono strettamente correlate tra loro e vengono gestite congiuntamente. Alcuni acquirenti vengono a conoscenza dell’atelier tramite il sito, ma preferiscono recarsi allo showroom per effettuare l’acquisto (ROPO). Altri invece, hanno il comportamento contrario: entrano nel negozio, guardano, si fanno un’idea e poi acquistano online (showrooming). Molti clienti lontani geograficamente, invece, si trovano però costretti ad utilizzare l’e-commerce per effettuare i loro acquisti. L’obiettivo di JST è quello di pensare a delle strategie multicanali, e quindi basate non solo sulla ricerca locale del consumatore, ma anche su un tipo di ricerca incrociata, composta da azioni online e offline. Inoltre, in alcune occasioni, Jamais Sans Toi offre ai suoi clienti la possibilità di ricevere sconti personalizzati per l’acquisto online, tramite appositi flyer presenti all’interno del punto vendita o condivisi tramite i social media. A destra: interni del punto vendita Sotto: buoni sconto e flyer


COMMUNICATION MIX

L

e leve del communication mix di cui si avvale Jamais Sans Toi sono prevalentemente le seguenti: pubblicità, organizzazione di eventi, public relations, vendita personale e, ovviamente, il punto vendita stesso. E’ opportuno, in questo caso, approfondire l’organizzazione di eventi e fiere, leva fondamentale della strategia di comunicazione del brand.

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N

ello scenario degli eventi fieristici, il brand Jamais Sans Toi è molto presente. Questi risultano per loro un’occasione importantissima per farsi conoscere ed attirare nuovi clienti da tutto il mondo. Molti di questi infatti, arrivano nello showroom dopo aver trovato il loro stand ad una fiera e sono entusiasti del loro store e delle creazioni. Altri invece, sono clienti fedeli al brand che sono a conoscenza della presenza dei loro prodotti in quel determinato evento. In questo caso, solitamente, utilizzano per le esposizioni uno spazio condiviso con altri brand che presentano un concept simile. Alcuni degli eventi più conosciuti a cui JST ha partecipato sono i seguenti: - Operae, Torino - Dreamers, Torino - Paratissima, Torino - Hic Est Faber, Torino - Torino Fashion Week - Fuorisalone, Milano - Homi, Milano - Pitti Immagine, Firenze - Eunique, Germania - NY NOW, New York - Out of this world, Melbourne - Bijorcha, Parigi

Inoltre, JST espone e vende le sue creazioni anche all’interno di musei o mostre, come ad esempio: - Galleria d’arte di Kaunas, Lituania - Ca’ Pesaro, Galleria internazionale d’arte moderna, Venezia - Mostra “Gioielli alla moda”, Palazzo Reale di Milano - GAM, Galleria d’arte moderna, Torino - Mostra “Anima mundi”, Montelupo Fiorentino Un ulteriore valore aggiunto viene dato al brand grazie all’organizzazione di workshop e corsi. Il più recente ha avuto luogo il 14 e 15 luglio 2018: un corso di ceramica e design del gioiello, organizzato all’interno del punto vendita che ha dato la possibilità a clienti fedeli e appassionati di provare le tecniche di lavorazione e decorazione dell’argilla di Jamais Sans Toi. Molti dei workshop sono realizzati in collaborazione con l’artista e scultore Daniele Accossato. “Hic est faber”, Torino



RUOLO DEI SOCIAL

I

l brand Jamais Sans Toi utilizza attivamente i social media, attraverso i quali svolge diverse funzioni: promuove le nuove collezioni, un evento, una fiera o pubblica fotografie e video del making of dei gioielli. Tutte queste azioni portano il consumatore, sempre più digitale, ad acquisire fiducia nei confronti del brand, oltre a trovare tutte le informazioni di cui necessita prima di effettuare l’acquisto. Inoltre, l’uso dei social network è utile anche al brand stesso, il quale acquista visibilità ed incrementa contatti commerciali e vendite.

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Instagram

Facebook

Al momento, per quanto riguarda l’utilizzo di figure per la promozione del brand, il marchio non si avvale dell’appoggio di influencer, blogger o celebrità. Trattando invece di shopping experience tramite i social, alcuni clienti chiedono di acquistare i prodotti tramite le pagine dedicate.

Non è però ancora attiva la funzione “Shopping”, nè su Instagram, nè su Facebook. Per questi motivi, l’utilizzo dei social media da parte del marchio è puramente informativo e pubblicitario. Jamais Sans Toi infatti, pubblica regolarmente diverse tipologie di contenuti su entrambi i social, tra cui:

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- Fotografie di eventi - Allestimenti fieristici - Nuove collezioni - Shooting - Fotografie del punto vendita - Visual merchandising - Video dei making of - Video di eventi e workshop


Progetto


159


S

i è visto come le strategie del retail si stanno evolvendo sempre di più verso il digitale, in un contesto in cui il punto vendita ha la necessità di donare ai consumatori un’esperienza emozionale indimenticabile ed unica. Considerato lo scenario analizzato, l’obiettivo finale dello studio del caso Jamais Sans Toi è quello di progettare un prototipo di app interattiva in realtà aumentata. Questa non solo consentirà il miglioramento della user experience, con la possibilità di scoprire il punto vendita ed i prodotti, ma apporterà un contributo non indifferente al brand ed alla sua immagine.

160


UTENZA

I

l concept è pensato per una specifica categoria di clienti di Jamais Sans Toi. Essi vengono definiti “postmoderni”, hanno un’età superiore ai 25-30 anni, sono attivi sui social e sono soliti fare acquisti online. Sono persone con la passione per il design e l’architettura, con particolare attenzione alla sostenibilità, a cui piace indossare elementi singolari, che li possano rendere unici.

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STORYCONCEPT

“Cosa succederebbe se dall’attenta lavorazione di elementi naturali nascessero forme geometriche minimaliste e uniche, in grado di creare un’esperienza di fruizione indimenticabile?”

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POSSIBILITÀ TECNOLOGICHE Inquadrare un soggetto

Acquistare online

Usare la AR

Scattare una foto

Fare un video

Condividere sui social

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OBIETTIVI

Aumentare l’emozionalità del processo d’acquisto, coinvolgendo il cliente

Creare un’esperienza immersiva e unica con l’ausilio della tecnologia

Offrire ai consumatori digitali la fruizione dei prodotti tramite remoto

5

Incrementare la fedeltà dei clienti nei confronti del brand e dei suoi valori

164

Ricreare la shopping experience all’interno dello showroom per i clienti più lontani geograficamente


SCALETTA 1. L’utente inquadra con il proprio telefono il QR code posto in diversi luoghi strategici: flyer, biglietti da visita, sito e social media

2. Scarica l’app gratuitamente tramite App Store e Play Store 3. L’utente apre l’app 4. Dalla homepage potrà accedere a diversi contenuti: video, storia e valori del

brand e tour interattivo

5. Cliccando su “Scopri come” si aprirà la sezione “Modalità” 6. Cliccanso su “Inizia il tour” si aprirà una panoramica 7. Ruotando il telefono, potrà zoomare e spostarsi dove preferisce all’interno dello store

8. Seleziona il gioiello a cui è interessato 9. Scorre le fotografie, legge descrizione e composizione del prodotto, seleziona colore e materiali preferiti, sceglie la versione che più preferisce ed, infine, prova il gioiello

10. Cliccando su “Provalo” si aprirà una fotocamera (interna o esterna) che,

tramite la tecnologia ARKit e il riconoscimento facciale, effettuerà una mappatura di ciò che il consumatore sta inquadrando (viso, polso, mano)

11. Comparirà il gioiello selezionato 12. Dopodichè, l’utente potrà scegliere se scattare una foto o registrare un video della sua prova

13. Sceglie se salvare la foto nel rullino, condividerla sui social o effettuare l’acquisto direttamente tramite l’app

14. Selezionando l’icona “Condividi” può scegliere se condividere il contenuto su Facebook, Instagram o Pinterest

15. Selezionando l’icona “Shopping bag” l’utente inserirà i suoi dati e proseguirà con il pagamento

16. Accederà poi al riepilogo dell’ordine, sceglierà il metodo di pagamento e

concluderà la transazione. Riceverà un’e-mail di conferma non appena il pacco verrà spedito

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STORYBOARD DI UTILIZZO

1

Inquadra il codice

2

Scarica l’app su App Store o Play Store

Jamais Sans Toi Prova i gioielli

contemporary jewellery

ITA | ENG

HOW TO

Jamais Sans Toi Prova i gioielli

contemporary jewellery

Prova i nostri gioielli

ITA | ENG

Modalità: Prova le collezioni di Jamais Sans Toi con la realtò aumentata inquadrando con la fotocamera la zona dove indosserai il gioiello. 1. Esplora il nostro atelier per scoprire immergendoti nell’universo di Jamais Sans Toi 2. Zooma sui gioielli, seleziona il tuo preferito e scegli colore e finitura 2. Inquadra la parte del corpo a cui sei interessato e il gioiello comparirà

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3

Apri l’app

contemporary jewellery

4

Dalla home potrai accedere a diversi contenuti

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contemporary jewellery

Qui, scorrendo con il dito verso il basso, potrai informarti riguardo la storia ed i valori del brand.

Esplora il nostro metodo

Da questa sezione, cliccando “Play”, potrai visualizzare un contenuto multimediale che illustrerà il metodo progettuale e le creazioni dell’atelier.

Chi siamo

In questa sezione potrai accedere al tour interattivo del punto vendita, con la possibilità di provare ed acquistare i gioielli.

Laboratorio del gioiello contemporaneo, il brand Jamais Sans Toi è stato fondato a Torino nel 2012 grazie alle competenze artistiche e creative delle sorelle Camilla e Valentina Gallo. Specializzate in design del gioiello e lavorazione della ceramica, hanno dato vita ad un marchio in cui si condensa il profondo significato del Made in Italy; un sapere artigianale che tramandato da generazioni cela il misterioso fascino della manifattura antica rivelatasi sorprendentemen-

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Prova i gioielli

Scopri come


5

Fai tap su “Scopri come” e si aprirà una pagina con le istruzioni

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Esplora il nostro metodo

Modalità: Prova le collezioni di Jamais Sans Toi con la realtò aumentata inquadrando con la fotocamera la zona dove indosserai il gioiello. 1. Esplora il nostro atelier per scoprire l’universo di Jamais Sans Toi

Chi siamo

Prova i gioielli

Laboratorio del gioiello contemporaneo, il brand Jamais Sans Toi è stato fondato a Torino nel 2012 grazie alle competenze artistiche e creative delle sorelle Camilla e Valentina Gallo. Specializzate in design del gioiello e lavorazione della ceramica, hanno dato vita ad un marchio in cui si condensa il profondo significato del Made in Italy; un sapere artigianale che tramandato da generazioni cela il misterioso fascino della manifattura antica rivelatasi sorprendentemen-

6

Fai tap su “Inizia il tour” e si aprirà una panoramica

2. Zooma sui gioielli, seleziona il tuo preferito e scegli colore e finitura 2. Inquadra la parte del corpo a cui sei interessato e il gioiello comparirà 3. Scatta una foto o registra un video e

Scopri come

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Modalità: Prova le collezioni di Jamais Sans Toi con la realtò aumentata inquadrando con la fotocamera la zona dove indosserai il gioiello. 1. Esplora il nostro atelier per scoprire l’universo di Jamais Sans Toi 2. Zooma sui gioielli, seleziona il tuo preferito e scegli colore e finitura 2. Inquadra la parte del corpo a cui sei interessato e il gioiello comparirà 3. Scatta una foto o registra un video e condividilo direttamente sui social 4. Per acquistare il gioiello fai un tap sul carrello 5. Inserisci i tuoi dati, paga.. et voilà!

Inizia il tour!

168

condividilo direttamente sui social 4. Per acquistare il gioiello fai un tap sul carrello 5. Inserisci i tuoi dati, paga.. et voilà!

Inizia il tour!


°

8

Fai zoom e clicca sul prodotto che ti interessa

90

7

Ruota il telefono e spostati nello store

169


9

Scorri le immagini, scegli colore e base e la versione da provare

Collana ISOLARIO

Bianco Nero

Collana in ceramica dal design raffinato composta da anelli modellati con la creta e montati su cuoio. Grazie alla particolare chiusura a nodo quadrato, si può regolare in lunghezza adattandosi ad ogni décolleté.

Colore: Scegli Base: Scegli chiaro Prezzo:Cuoio 220€ Cuoio nero

Provalo

Collana ISOLARIO

Collana in ceramica dal design raffinato composta da anelli modellati con la creta e montati su cuoio. Grazie alla particolare chiusura a nodo quadrato, si può regolare in lunghezza adattandosi ad ogni décolleté.

10

Cliccando su“Provalo” si aprirà la fotocamera

90

°

Colore: Base: Prezzo: 220€

170

Provalo


11

Dopo la mappatura comparirĂ il gioiello scelto

12

Scatta una foto o registra un video

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13

Salva, condividi o acquista

Condividi su Facebook, Instagram o Pinterest Salva nel rullino foto

14

Acquista

Scegli su quale social condividere

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15

Fai tap sulla shopping bag, compila i campi e prosegui

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Inserisci i tuoi dati Nome

Cognome

Stato

Città

Provincia

Via e numero

CAP

Telefono

E-mail

Prosegui con il pagamento

16

Fai un riepilogo dell’ordine ed effettua il pagamento

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Grazie per aver acquistato!

Riepilogo ordine Collana Isolario Qtà: 1

Tot: 220€

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Stiamo impacchettando il tuo gioiello, riceverai un’e-mail di conferma non appena sarà spedito!

Totale carrello Spedizione: Totale:

Gratuita 220€

Metodo di pagamento Bonifico bancario

Traccia il pacco

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Ordina

173

Atelier: via Catania 17B 10153 Torino, Italia

www.jamaissanstoi.it info@jamaissanstoi.it


Conclusioni

174


É

chiaro come, oggigiorno, l’esperienza d’acquisto stia acquisendo sempre più una valenza emotiva per i consumatori. Tale emozionalità è data da diversi fattori, tra cui lo stesso punto vendita e la sua architettura, diventato ormai luogo di incontro e di comunicazione più che luogo di acquisto, e tutto il suo contorno: modalità espositive, visual merchandising, luci, colori, design, brand identity ecc. In questo contesto, l’avvento dell’e-commerce ha dato la possibilità di implementare l’acquisto fisico con quello online, che i nuovi consumatori digitali prediligono. Anche i social svolgono un ruolo fondamentale, in particolar modo influenzando i processi decisionali degli utenti, mentre la tecnologia e l’interattività donano, a seguito di una corretta progettazione della customer experience, un valore aggiunto alla shopping experience. Il progetto ideato ha lo scopo di unire tutte le precedenti considerazioni, valorizzando ancora una volta il punto vendita, per confermare come il retail abbia la necessità di evolversi per diventare più emozionale, anche con l’ausilio di nuove tecnologie come la realtà aumentata, invogliando gli utenti a provare nuove memorabili esperienze.

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Bibliografia

176


- CAPPELLARI, R., 2011. Marketing della moda e dei prodotti lifestyle. Carocci editore. - D’AMICO, S., DI GREGORIO, F., 2005. Il punto vendita nel settore moda: quando la comunicazione passa attraverso la dimensione emozionale del concept store. Convegno nazionale della Società Italiana di Marketing. Trieste: 2-3 dicembre. - FABRIS, G., 2003. Il nuovo consumatore: verso il postmoderno. Franco Angeli. - FABRIS, G., 2008. Societing: il marketing nella società postmoderna. Egea. - FRISA, M.L., 2015. Le forme della moda. Società editrice il Mulino. - GEROSA G., 2008. Il progetto dell’identità di marca nel punto vendita, Franco Angeli. - KOTLER, P., KELLER, K. L., 2007. Il marketing del nuovo millennio. Pearson Italia Spa. - KOTLER, P., et al., 2014. Marketing management. Pearson. - MORGAN T., 2008. Visual merchandising: l’allestimento degli spazi commerciali. Logos. - NORMAN, D., 2007. Emotional Design. Apogeo. - NORMAN, D., 2013. Il design del futuro. Apogeo. - PELLICELLI, G., 2015. Il Marketing. UTET. - PINE, B. J., GILMORE, J. H., 1999. The experience economy: work is theatre & every business a stage. Harvard Business. - PINE, B. J., GILMORE, J. H., 2000. L’economia delle esperienze. Etas. - PROVENZANO, A., 2012. Visual Merchandising: Dal marketing emozionale alla vendita visiva. Franco Angeli/POPAI. - TREVISAN, M., PEGORARO, M., 2007. Retail design: Progettare la shopping experience. Franco Angeli - VAUDETTI, M., CANEPA S., MUSSO S., 2014. Esporre, allestire, vendere: exhibit e Retail Design. Wolters Kluwer.

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COPERTINE DEI CAPITOLI 1. https://www.timeout.com/london/shopping/history-of-oxford-street-in-pictures-3 2. https://co.pinterest.com/pin/365424957257529422/?lp=true 3. https://it.pinterest.com/pin/569494315376217440/ 4. https://it.pinterest.com/pin/290693350934771846/ 5. https://cinefatti.com/2010/06/11/i-love-shopping/ 6. Applicazione di Vogue per iPad 7. https://vmagazine.com/slideshow/100919/gucci-utopian-fantasy-ss18-campaign/ 8. https://www.gqitalia.it/moda/trend/new/2018/04/13/la-realta-aumentata-di-zara-che-aiuta-nello-shopping/ 9. http://www.jamaissanstoi.it/it/




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