IL MOVIMENTO DECISIVO - tempo e spazio nell'immagine fotografica

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Francesco Cardillo

IL MOVIMENTO DECISIVO Tempo e spazio nell’immagine fotografica



IL MOVIMENTO DECISIVO Tempo e spazio nell’immagine fotografica



Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI ROMA Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Scuola di progettazione artistica per l’impresa

Diploma di Laurea triennale di I livello Corso di Grafica Editoriale Anno Accademico 2018/2019

Il Movimento Decisivo Tempo e spazio nell’immagine fotografica Candidato: Francesco Cardillo matricola 14667 Relatore: Prof. Salvatore Barba


ABSTRACT La fotografia vive da sempre all’interno di una insolubile contraddizione. Le è stato affidato il compito di descrivere il mondo esteriore e quello interiore dell’uomo: realtà complesse quindi, spesso effimere e in costante mutamento. Alla fotografia abbiamo chiesto di confrontarsi costantemente con il cambiamento: il tempo, lo spazio, la memoria, la vita, la morte. E l’occhio meccanico della fotocamera ha storicamente intrapreso una costante lotta per dominare prima, poi rappresentare ed infine esprimere la continua transizione dell’essere. Incredibilmente il mezzo fotografico, statico ed immobile per definizione, è riuscito a liberarsi dai suoi limiti, riducendo o espandendo i confini spaziali e temporali per superare la soglia della semplice percezione. La fotografia è in grado di fermare il tempo ma anche di mostrarne il movimento, ci permette di vedere oltre l’orizzonte o di rivivere quello che non c’è più. Essa ci rivela che la realtà ha una natura transitoria e in continua evoluzione. Come ha sottolineato il critico John Szarkowski, “Ogni sottile variazione nel punto di vista o nella luce, ogni momento che passa, ogni cambiamento nella tonalità della stampa, ha prodotto una nuova immagine”. Questa tesi si incentra sulle declinazioni in ambito artistico del linguaggio fotografico, analizzando le modalità con le quali è stato espresso e interpretato il rapporto tra tempo, spazio e movimento: dalla nascita del nuovo mezzo ai primi dell’ottocento fino alle estreme sperimentazioni della fotografia concettuale.


“Non c’è niente in questo mondo che non abbia un momento decisivo“ HENRI CARTIER-BRESSON


I ND IC E


1. IL CONCETTO DI TEMPO Tempo tecnologico e sociale Tempo e cambiamenti intellettuali

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2. IL TEMPO NELL’ARTE L’importanza del tempo Tempo e realtà Sperimentazione radicale La sperimentazione continua L’arte cinetica

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3. TEMPO E FOTOGRAFIA Il movimento negato Fotografia e tempo percettivo Il tempo moltiplicato Cubismo fotografico

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4. L’ANALISI DEL MOVIMENTO Eadweard Muybridge e Ètienne-Jules Marey

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5. L’ATTIMO FUGGENTE Esplosione d’autore Lo strano caso di Dalì atomicus Il movimento mosso “Leggermente fuori fuoco” Il tempo prolungato

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6. MOVIMENTO E RIPETIZIONE La percezione di spostamento

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7. LUCE E MOVIMENTO Il tempo disegnato

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8. IL TEMPO MANIPOLATO Timelapse e Hyperlapse Day for Night e Day to Night Bullet Time e Slitscan

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RINGRAZIAMENTI FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFIA

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IL CONCETTO DI TEMPO


TEMPO TECNOLOGICO E SOCIALE A partire dalla metà del XIX secolo la diffusione in Europa dei trasporti su rete ferroviaria determina un cambiamento che ha notevole impatto su molti aspetti della vita sociale e culturale. Prima dell’avvento della ferrovia, il mezzo di trasporto più veloce era stato un cavallo e la velocità con la quale mezzi e persone si muovevano nello spazio geografico non era poi cambiata di molto negli ultimi duemila anni. Viaggiando su rotaia le persone potevano percorrere le distanze sei volte più velocemente. La locomotiva ha dato “una nuova velocità” al tempo «Samuel S. The life of George Stephenson, 2001», con un impatto che è stato “al massimo grado” «Whitrow G. J. The Natural Philosophy of Time, 1981». Nel 1875 il saggista inglese William Rathbone Greg si lamenta che “la caratteristica più saliente della vita in quest’ultima parte del XIX secolo è la sua velocità”. La satira di Honoré Daumier sui ritardi burocratici governativi contrappone la carrozza della Commissione Extraparlamentare che cerca invano di raggiungere il treno del progresso. Si produce quello che è stato iperbolicamente definito come un “annientamento dello spazio e del tempo” «Schivelbusch W. The Railway Journey: The Industrialization of Time and Travel in the Nineteenth Century, 2014»: se la distanza veniva misurata attraverso il tempo, allora il mondo aveva improvvisamente iniziato a ridursi. Invece del dispiegarsi lento e costante del paesaggio, i passeggeri del nuovo mezzo sperimentano visivamente una successione di “frammenti rapidamente sostituiti, scorci strappati e giustapposizioni staccate”, uno dispiegarsi del paesaggio in superfici tremolanti mentre si passa rapidamente attraverso di esso «Spate V. Claude Monet: The Colour of Time, 2001». Mentre il poeta tedesco Heinrich Heine esclama: “Quali

Honoré Daumier: “Et ils veulent rattrapper le train!!!“, vignetta apparsa su Le Charivari (1870)

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cambiamenti stanno accadendo ora, imposti alle nostre percezioni e immaginazioni! Perfino i concetti elementari di tempo e spazio oscillano”, lo scrittore William Makepeace Thackeray commenta meravigliato: “Noi che abbiamo vissuto prima della costruzione delle ferrovie, apparteniamo a un altro mondo, era solo ieri; ma che abisso tra oggi e allora!” «Thackeray W. M. The Roundabout Papers, 1863». Questo cambiamento epocale investe con forza anche il mondo dell’arte: il pittore e incisore inglese John Cooke Bourne diventa famoso per le sue opere che celebrano stazioni, ponti, tunnel e viadotti, in particolare quelli della London and Birmingham Railway e quelli della Great Western Railway.

cercare di ridurre l’alto numero di incidenti che hanno segnato i primi anni dei viaggi su rete ferroviaria. Il viaggiare in treno rende adesso significative le differenze nell’ora locale, sviluppando la necessità di una standardizzazione in fusi orari, un passo reso possibile grazie anche allo sviluppo del telegrafo. Gli orari prefissati cominciano ad avere effetti significativi sulle abitudini personali. “Prendere” un treno “ha stimolato la puntualità, la disciplina e l’attenzione”. «Smile S. The Life op. cit. 1905». Come ha commentato Henry Thoreau, “Gli uomini non sono migliorati un po ‘nella puntualità da quando è stata inventata la ferrovia? Non parlano e pensano un po‘ più velocemente nel deposito ferroviario di quanto non facessero nell’ufficio?” «Gleick J. Faster: The Acceleration of Just About Everything, 1999». Nel 1862 una guida ferroviaria dedica quattro pagine all’importanza di essere puntuali, avvertendo severamente i passeggeri che “L’orario di partenza indicato nella tabella degli orari non è una finzione; si osserva la più stretta regolarità, e in effetti ciò è necessario, per prevenire le terribili conseguenze che potrebbero altrimenti derivarne.“ «The Railway Traveller’s Handy Book of Hints, Suggestions and Advice, 1862».

Lo scrittore Lionel Rolt suggerisce che l’attrazione essenziale che la ferrovia esercitava sull’immaginario fosse dovuta ad una “miscela di libertà romantica e di ordine classico”. «Rolt L. T. C. Lines of Character, 1952». Un simile paradosso si può ritrovare in un importante saggio che racconta la storia culturale dell’era ferroviaria in Gran Bretagna: «Freeman M. J. Railways and the Victorian Imagination, 1999». L’obiettivo dell’autore è di “ricollegare la ferrovia con l’età di cui faceva parte”, usando “ l’esperienza della ferrovia “e” la ferrovia come metafora culturale “come mezzo per raggiungere tale scopo. La centralità stessa della ferrovia nella vita letteraria, artistica e fantasiosa della nazione è affiancata alla sua dimensione finanziaria, speculativa ed economica per fornire una visione delle realtà dell’età vittoriana.

Riflettendo il nuovo umore, gli orologi da tasca passano alla produzione di massa negli anni 1850, e le lancette dei secondi per gli orologi iniziano a diventare comuni. Dal 1855 in poi, tutti gli orologi dei principali uffici postali di Londra iniziarono a essere corretti quotidianamente dai segnali elettrici del telegrafo del Royal Observatory di Greenwich. L’installazione, nel 1858, del gigantesco quadrante dell’orologio del Big Ben, preciso al secondo, che domina il centro di potere britannico alle Houses of Parliament di Londra, diventa un promemoria straordinariamente

In effetti, il tempo stava iniziando ad assumere un ruolo molto più importante nella vita delle persone. Ad esempio, le nuove velocità sempre crescenti comportano l’utilizzo di dispositivi di controllo sempre più precisi per

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HonorĂŠ Daumier: Les trains de plaisir, vignetta apparsa su Le Charivari (1864)

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potente della posizione centrale che il tempo incomincia ad occupare nella vita di tutti i giorni. Un articolo del quotidiano Times del 1861 lamenta “la perpetua attenzione al tempo e tutte le ansie e le irritazioni di quella responsabilità” e questa importanza si estende anche alle vacanze. La vignetta satirica Les trains de plaisir di Daumier del 1864, commentando il turismo in forte espansione generato dalle ferrovie, raffigura una folle scalata per salire su un treno, con la didascalia ironica dell’artista: “Avendo trovato un posto dopo dieci tentativi disperati di salire a bordo del treno, emerge la prima tenera sensazione di relax durante le vacanze”. La ferrovia trasforma così la vacanza in uno stancante lavoro.

o treni partono con spietata puntualità, rendendo gli uomini più nervosi: un ritardo di qualche momento potrebbe distruggere le speranze di una vita.

La vita nazionale è ora governata dal “tempo delle ferrovie” e i gruppi di viaggio altamente organizzati dalla compagnia Thomas Cook sottopongono il tempo libero della nazione alla disciplina delle fabbriche. Ma, contemporaneamente, si inizia a ritenere che questa necessità di puntualità possa contribuire ad aumentare l’ansia, ed è stato anche ipotizzato che l’incremento del ritmo frenetico delle attività quotidiane potrebbero aver contribuito all’aumento delle morti per insufficienza cardiaca tra il 1851 e il 1870. Come commenta un medico nel 1881 : “L’invenzione degli orologi e la loro precisione hanno a che fare con il nervosismo moderno, dal momento che ci costringono a essere puntuali ed eccitano l’abitudine di cercare di vedere il momento esatto, in modo da non essere in ritardo per treni o appuntamenti”. «Beard G. M. American Nervousness, its Causes and Consequences, 1881».

Honoré Daumier: Le noveau Paris (1862)

Ulteriori cambiamenti di abitudini derivano dalla rapida industrializzazione e urbanizzazione del XIX secolo. All’inizio del secolo, ad esempio, l’80% della popolazione inglese e gallese viveva in campagna, ma nel 1851 oltre il 50% della popolazione vive in città e questa tendenza si afferma in quasi tutte le aree del mondo occidentale. L’industria altamente meccanizzata e organizzata richiede standardizzazione e precisione in tutti gli aspetti.

Prima dell’uso generale di strumenti di accurata misurazione del tempo c’era un margine più ampio per tutte le scadenze della vita quotidiana; adesso carrozze, piroscafi

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Il tempo diventa un elemento fondamentale della società mercantile e commerciale. Insieme alla comunicazione praticamente istantanea resa possibile dal telegrafo recentemente inventato e, più tardi, dal telefono, questi elementi contribuiscono a creare quello che viene definito “annientamento dello spazio e del tempo”. Per le imprese, ottenere un rapido accesso alle informazioni vitali (cambiamenti del mercato azionario, movimenti dei prezzi delle materie prime e così via) diventa una necessità vitale. «Gleick J. The information, 2001».

Il contrasto tra questi nuovi concetti urbani e i concetti tradizionali del tempo è illustrato nella litografia di Honoré Daumier Le noveau Paris dove una folla urbana è

Karl Marx ha suggerito che “L’orologio è la prima macchina automatica applicata a scopi pratici; l’intera teoria della produzione del moto regolare è stata sviluppata attraverso di essa “. «Gleick Faster op. cit. 1999». La vita aziendale urbana inizia sempre più a dipendere interamente dalla puntuale integrazione di tutte le attività e le relazioni reciproche in un calendario stabile e impersonale. Dal 1885 vengono introdotti gli orologi Bundy per la registrazione degli orari di accesso e uscita dei lavoratori, e nel 1869 appaiono i primi cronometri. A partire dal 1870 studi sul tempo e il movimento vengono prodotti dall’ingegnere americano Frederick Winslow Taylor con l’obiettivo di migliorare l’efficienza dei processi produttivi. Contemporaneamente viene introdotto il metodo di fabbricazione basato sulla catena di montaggio, contraddistinto da un processo di produzione frammentato in compiti modulari e regolamentato da rigide scadenze temporali. Improvvisamente, lo stile di vita rurale lento, naturale e familiare viene sostituito dalle fugaci esperienze della città: brevi, intense e sempre più frenetiche. Questi cambiamenti rivoluzioneranno per sempre la vita sociale nel mondo occidentale, i sui riti e i suoi ritmi.

Alfred Stieglitz: In The New York Central Yards (1903)

ritratta in frenetico movimento mentre il personaggio in primo piano controlla ansiosamente un orologio. A partire dal 1833, con la crescente meccanizzazione della composizione tipografica si assiste alla nascita della popolare Penny Press e alla diffusione di “Notizie o storie del

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giorno” che forniscono quotidianamente ai lettori materiale nuovo, emozionante e sensazionale. Grazie ai nuovi servizi ferroviari, al telegrafo e alla velocità delle macchine da stampa a vapore, un giornale può essere stampato la sera e poi recapitato a chilometri di distanza in tempo per la consegna mattutina. Il risultato è che adesso qualunque fatto locale, purché abbastanza importante o sensazionale, può diventare quasi istantaneamente un

zionali: la notizia dell’esplosione del vulcano indonesiano di Krakatoa nel 1883 viene trasmessa in tutto il mondo in pochi minuti. Conseguentemente gli abitanti del mondo occidentale entrano a fare parte di quella che verrà successivamente definita “fratellanza di conoscenza” segnando, in un certo senso, la nascita del fenomeno noto come “Villaggio globale”. La capacità del telegrafo di ottenere notizie praticamente istantanee da luoghi lontani produce inoltre altri effetti. A Londra, la nuova disponibilità di informazioni regolarmente aggiornabili sulle condizioni meteorologiche dalle varie parti del paese porta alla creazione di un ufficio meteorologico governativo nel 1854, con previsioni giornaliere pubblicate sul London Times a partire dal 1860. Dal 1870 nuovi dispositivi di cronometraggio consentono di registrare tempi precisi negli eventi sportivi. Insieme al miglioramento delle comunicazioni internazionali, il nuovo concetto di “record del mondo” inizia a far presa sull’immaginazione pubblica.

Currier and Ives :The Progress of the Century (1876)

argomento di interesse nazionale. Per i lettori dei quotidiani, all’improvviso, tutto accade molto più rapidamente, un’impressione accresciuta anche dall’introduzione degli uffici postali ferroviari, che riducono drasticamente i tempi di consegna postale trasportando e ordinando le lettere durante il trasferimento su rotaia. A seguito della posa dei cavi sottomarini del telegrafo, questa istantaneità si estende anche ad eventi interna-

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TEMPO E CAMBIAMENTI INTELLETTUALI Durante il diciannovesimo secolo le granitiche convinzioni sull’età del mondo e l’inizio del tempo subiscono un attacco prolungato su una serie di fronti. A partire dal XVII secolo, la vasta maggioranza dei cristiani aveva ritenuto implicitamente che l’origine del tempo coincidesse con la creazione del cielo e la terra. Questa convinzione aveva una precisa derivazione biblica: annotazioni laterali alla Genesi nella versione di King James, pubblicata dal 1701, si riferivano al calcolo del vescovo Ussher che fissavano la data dell’inizio dei tempi nella notte precedente il 23 ottobre 4004 a.C. Ma il pensiero scientifico che si afferma dall’inizio del XIX secolo mette ben presto in discussione questo concetto tradizionale. Le scoperte della nuova disciplina dell’astronomia, aiutate da significativi miglioramenti nei telescopi, sconvolgono le nozioni convenzionali di tempo e spazio. Le fotografie scattate di corpi celesti permettono al pubblico di apprezzare altri mondi, distanze inimmaginabili ed epoche lontane. Le stime dell’età dell’universo aumentano esponenzialmente. La necessità di esprimere incredibili distanze porta allo sviluppo del concetto di “anno luce” . Nel 1905, l’età stimata del mondo viene fissata a 1,64 miliardi di anni. Come ha commentato il geologo Scrope, “L’idea principale che è presente in tutte le nostre ricerche e che accompagna ogni nuova osservazione, il suono che all’orecchio dello studente della natura sembra continuamente riecheggiato da ogni parte delle sue opere, è: Tempo! Tempo! Tempo!”. «Scrope G. P. The Geology and Extinct Volcanoes of Central France, 1858».

John W. Draper: una delle prime foto della Luna (1840)

Per molti, tutto ciò era profondamente inquietante. Il paleontologo e storico della scienza Stephen Jay Gould afferma: “Niente potrebbe essere più confortante e più

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conveniente per la dominazione umana, che il concetto tradizionale di una terra giovane, governata dalla volontà umana a pochi giorni dalla sua origine. Che cosa più minacciosa, al contrario, è la nozione di immensità quasi incomprensibile, con l’esistenza umana limitata a un millimicrosecondo al massimo!” «Gould S. J. Times Arrow, Time’s Cycle: myth and metaphor in the discovery of geological time, 1988».

verso i telescopi mentre “riconoscono una vecchia conoscenza del 1372”, basata sull’idea fantasiosa che i rettili vedessero la stessa cometa periodicamente durante la loro permanenza sulla terra. Anche nel campo della fisica, la tradizionale concezione della natura assoluta del tempo viene messa in discussione, in particolare da Henri Poincaré. Più tardi, e più radicalmente, lo sviluppo di Einstein del concetto di tempo relativo implica che il tempo può accelerare o rallentare a seconda di quanto velocemente si muove qualcosa rispetto a qualcos’altro. Come tante altre certezze pre-

Implicazioni ancora più importanti derivate da questa nuova e immensa scala temporale diventano sorprendentemente evidenti con la pubblicazione di L’origine delle specie di Charles Darwin nel 1859. Una maggiore età della terra fornisce un arco temporale plausibile per il funzionamento della teoria dell’evoluzione darwiniana, presentando però una sfida alla concezione dottrinaria della fede cristiana. I concetti precedentemente ritenuti immutabili delle specie nel corso del tempo subiscono inoltre importanti incrinazioni con le crescenti scoperte di fossili contenenti forme di vita estinte da tempo. Utilizzati dagli scienziati per stabilire la cronologia degli strati rocciosi, essi suggeriscono un’immensa storia di cambiamenti progressivi. La portatata di tali innovazioni è enorme; il passato e il presente appaiono molto più mutevoli e il futuro sembra ora molto meno prevedibile. Ed è lo stesso Darwin ad affermare che esporre la propria convinzione che le specie non siano immutabili è “Come confessare un omicidio”. «Charles Darwin Letter to J. D. Hooker, 11 gennaio 1844» Un sintomo della confusione temporale che molti stavano provando si può ritrovare nella vignetta The Age of the Comet Ascertained to a Nicety apparsa sul giornale Punch, ispirata alla riapparizione nel 1861 della “Grande Cometa”. Si mostrano dinosauri “antidiluviani” che scrutano attra-

Paul D. Stewart: The Age Of The Comet Ascertained To a Nicety, vignetta apparsa sul Punch (1861)

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cedenti, anche il concetto di un “ora” universale inizia a sembrare sempre più una finzione. Verso la fine del secolo, il filosofo francese Henri Bergson, noto per essere stato inserito nell’indice del Vaticano per le sue controverse opinioni, attira folle enormi alle sue lezioni settimanali. Secondo il suo concetto di durée il tempo viene misurato soggettivamente, così come viene vissuto, e non secondo quanto indicato dall’orologio. Su questa base, quindi, il futuro non esiste realmente e ogni momento porta con sé l’intero flusso del passato.

dell’irreversibile Arrow of Time inizia ad entrare nella coscienza pubblica. Questa concetto, che mette in evidenza la caratterisca di “assimmetria” del tempo, presenta alcuni elementi di relazione con il concetto ineffabile di “entropia”. Il termine coniato per la prima volta nel 1865 dal fisico tedesco Rudolf Clausius, postulava che man mano che si procede in avanti nel tempo, tutto tende a perdere energia e che questa viene dissipata in livelli inferiori di ordine. La combinazione di queste speculazioni con l’idea sempre più diffusa che l’universo sarebbe continuato indefinitamente, invece di terminare con l’Apocalisse, conduce al pensiero dell’ineluttabile che condanna l’esistenza umana alla “abominevole desolazione” di un mondo futuro, del tipo che sarà poi descritto dal romanziere Herbert George Wells nel racconto The Time Machine nel 1895.

Anche in psicologia, i concetti tradizionali di tempo vengono scalfiti dalla teorie psicanalitiche, in particolare con la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (1902). Nel sogno, il tempo subisce cambiamenti e dislocazioni irrazionali. Passato, presente e futuro riducono le loro differenze, poiché il sognatore sperimenta una forma mentale di viaggio nel tempo.

L’ulteriore idea che, in teoria, l’entropia (e quindi il tempo) possa essere invertita ha aggiunto ulteriore confusione. Successivamente, il concetto di “quarta dimensione”, interpretato in modo vario come temporale o spaziale, si diffonde nei circoli intellettuali e artistici, influenzando artisti come Marcel Duchamp, che erano fortemente interessati al concetto di continuum temporale.

Questa visione trova dei parallelismi nel concetto, reso popolare dal filosofo e psicologo statunitense William James, del “flusso di coscienza”. Tale metafora intende descrivere le modalità con la quale i pensieri fluiscono attraverso la mente cosciente. James, considerato il padre della psicologia americana, analizza inoltre il pensiero creativo di alto livello che non coinvolge “pensieri di cose concrete che si susseguono pazientemente l’una con l’altra”, ma è invece un calderone ribollente di idee “in cui le relazioni possono essere strette o allentate in un istante, la routine è sconosciuta e l’imprevisto sembra l’unica legge”. «James, W. Great Men, Great Thoughts and the Environment, 1880». Nel contempo nuovi modi di pensare il tempo si fanno strada nel pensiero collettivo. Dal 1850, ad esempio, l’idea

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IL TEMPO NELL’ARTE


L’IMPORTANZA DEL TEMPO La pervasività di questi cambiamenti radicali e sconcertanti nelle concezioni del tempo ispira da subito gli scrittori a esplorare nuove e straordinarie possibilità espressive. Nel corso del diciannovesimo secolo, la letteratura popolare passa dal mondo gentile e senza tempo di Jane Austen alle selvagge fantasie futuristiche di Herbert George Wells. Durante questo periodo, la preoccupazione per il tempo e la sua malleabilità emerge come tema principale in molte importanti opere letterarie. Un esempio evidente di questo cambiamento è l’emergere di un nuovo genere che a partire dal 1920 sarebbe stato descritto, come “fantascienza”. Attingendo dai migliori esempi della classica narrativa gotica come l’innovativo Frankenstein or The Modern Prometheus di Mary Shelley del 1818, la fantascienza apre nuove strade, presentando storie ambientate in possibile futuro e diffondendo il concetto intrigante di viaggio nel tempo. Tra gli esempi particolarmente importanti è necessario citare il racconto Our Phantom Ship on an Antediluvian Cruise (1851) di Charles Dickens, il romanzo Journey to the Center of the Earth (1864) di Jules Verne, e Looking Backward 2000-1887 (1888) di Edward Bellamy, uno dei libri più venduti del diciannovesimo secolo. Opere correlate, sebbene non comportino lo stesso viaggio nel tempo, presentano una manipolazione del tempo in varie forme. The New Accelerator (1901) di Herbert George Wells è una storia ispirata dal fascino dell’autore per la cronofotografia: un farmaco di nuova invenzione consente alle persone di muoversi a una velocità tale che il resto del mondo sembra praticamente congelato. Al di fuori della fantascienza, i temi legati alla manipolazione del tempo iniziano anche ad apparire in opere come Alice’s Adventures in Wonderland (1865) e Through the Looking Glass and What Alice Found There (1871) di Lewis Carroll. In entrambi questi libri la realtà e l’identità

George Hicks: The General Post Office, One Minute To Six (1860)

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diventano contingenti, la percezione diventa altamente soggettiva e ci sono variazioni costanti e radicali nel tempo e nelle dimensioni. Il tema della manipolazione del tempo è anche centrale in The Picture of Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde, che riunisce i temi di una realtà alternativa e della gioventù congelata in un dipinto. L’opera teatrale di James Matthew Barrie Peter Pan (1904), presenta una metafora temporale rappresentata dell’eterno ragazzo che si rifiuta di crescere.

trasmettere concetti astratti o ragionamenti dettagliati. Quindi non è così sorprendente che gli artisti abbiano impiegato più tempo per assimilare tali cambiamenti e tentare di incorporarli nel loro lavoro. Inizialmente, e non a caso, i pittori reagiscono al cambiamento culturale in modo abbastanza letterale, producendo dipinti che riflettono semplicemente la nuova importanza del tempo nella vita quotidiana. Un ottimo esempio si ritrova nel dipinto The General Post Office: One Minute to Six (1860) di George Elgar Hicks. Questo lavoro mostra la molteplicità della società londinese affollata prima della chiusura pomeridiana dell’ufficio postale di Saint Martin’s Le Grand, rappresentando non solo la rapida diffusione delle comunicazioni ma anche il ritmo accelerato di vita

Ma creativamente è stato più facile integrare i nuovi concetti temporali nella letteratura piuttosto che nell’arte visiva. Gli scrittori hanno la libertà di spiegare e descrivere, mentre i pittori affrontano sfide molto maggiori nel

William Powell Frith: The Railway Station (1862)

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nell’Inghilterra vittoriana della seconda metà del secolo. Un tema simile appare nel dipinto di William Powell Frith The Railway Station (1862), che raffigura folle varie classi sociali che si affollano per salire su un treno della Great Western Railway alla stazione di Paddington. Un vivace realismo descrive la molteplice urgenza della folla, sottolineando le pressioni del tempo imposte dal mezzo di trasporto innovativo. Il tema del tempo nuovo, influenzato dai nuovi cambiamenti si ritrova anche nel dipinto Rain, Steam and Speed, the Great Western Railway di William Turner con il Tamigi attraversato dall’energia moderna della ferrovia. Le fanciulle appena visibili sulla sponda del fiume e l’aratro in un campo lontano indicano una società che sta rapidamente

Claude Monet: Le Pont du chemin de fer à Argenteuil (1873)

le barche a vela e le figure sulla riva suggeriscono l’uso di un tempo libero, non vincolato da orari rigorosi, ma l’attraversamento dei due treni sul ponte richiama il cronometraggio preciso della linea ferroviaria. William Dyce in Pegwell Bay, Kent – A Recollection of October 5th, 1858 si avventura oltre e ritrae la nuova consapevolezza del tempo cosmico nella vita umana, nella sua Pegwell Bay post-darwiniana. La localizzazione del dipinto è significativa: Pegwell Bay è il luogo presunto dell’arrivo del primo missionario cristiano di Sant’Agostino in Gran Bretagna. La specificità temporale del titolo suggerisce il senso del presente immediato. Il debole accenno a una cometa nel cielo è un richiamo ai concetti recentemente investigati dagli astronomi. Il nuovo tempo “geologico” è suggerito dalle donne che raccolgono conchiglie o fossili e dalle scogliere di gesso erose. Molto probabilmente, infine, i colori spenti del dipinto riflettono la nostalgia dell’artista per le antiche svanite certezze.

William Turner: Rain, Steam and Speed, the Great Western Railway (1844)

svanendo sotto i colpi della rivoluzione tecnologica. Un contrasto simile, sebbene meno drammatico, appare nell’opera di Claude Monet Le Pont du chemin de fer à Argenteuil. Lo scorrere del fiume è ininterrotto e continuo,

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William Dyce: Pegwell Bay, Kent – A Recollection of October 5th, 1858 (1860)

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TEMPO E REALTÀ pinti. Nel Boulevarde des Capucines (1873) di Claude Monet, ad esempio, tutto appare leggermente mosso e indeterminato e le figure acquistano movimento e dinamismo. In Man and Woman II (1912) del norvegese Edwar Munch, un uomo si confonde in un’ombra sfuocata e il corpo appare tagliato dai bordi del “fotogramma”.

Le ulteriori intuizioni sulla realtà temporale fornite, in particolare dalla fotografia, iniziano a riflettersi anche nella pittura. Sempre più artisti utilizzano il nuovo mezzo per studi anatomici e bozzetti preparatori e la capacità di quest’ultimo di fermare il movimento ha un enorme impatto sulla percezione figurativa. Il nuotatore ripreso a mezz’aria da Thomas Eakins in The Swimming Hole (1885) è probabilmente frutto di uno scatto fotografico. E mentre sembra probabile che la cronofotografia di Muybridge

Ma la progressione temporale pervade gran parte dell’opera di Monet, che adotta effetti simili a quelli della foto-

Thomas Eakins: The Swimming Hole (1884–1885)

possa aver ispirato il rinnovato interesse di Degas nel rappresentare i cavalli da corsa, artisti come Meissonnier e Remington si affrettarono a correggere le loro rappresentazioni errate di cavalli al galoppo. E ancora, l’effetto “momento fugace” che la fotografia favorisce inzia ad a trasparire sempre più spesso nell’opera di autori importanti, ad esempio in Au Moulin Rouge (1892 circa) di Henri De Touluse-Lautrec o in Mrs Cassatt Reading to Her Grandchildren (1880) di Mary Cassatt. In Place de la Concorde di Degas è evidente un’altro effetto della nascente “visione fotografica”. I personaggi che subiscono un taglio radicale, il posizionamento non convenzionale e una composizione insolita creano una sensazione spontanea di “istantanea” immediatezza. Anche l’effetto dovuto al movimento ripreso con un tempo fotografico troppo lento, inizia ad essere imitato nei di-

Jean Louis Théodore Géricault: Le Derby à Epsom (1821)

grafia nel un tentativo di incorporare nella pittura la dimensione del tempo. La serie de La cathédrale Notre-Dame de Rouen o quella dei covoni, Les Meules, mostrano gli effetti di luce sullo stesso soggetto in diversi momenti della giornata, delle stagioni e delle condizioni climatiche. Lo stesso Monet ha chiamato questo approccio “istantaneità” e così commenta: “Non si dipinge un paesaggio ... si dipinge un’impressione di un’ora del giorno” aggiungendo che questi dipinti hanno acquisito “Il loro pieno valore solo dal confronto e dalla successione dell’intera serie”.

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Edgar Degas: Place de la Concorde (1876)

In Notes d’un Peintre (1908) Henri Matisse afferma: “Alla base di questa successione di momenti che costituisce l’esistenza superficiale di esseri e cose e che li modifica e trasforma continuamente, si può cercare un personaggio più vero e più essenziale, che l’artista coglierà così che possa dare alla realtà un’interpretazione più duratura”. Matisse dichiara apertamente il desiderio di “raggiungere lo stato di condensazione delle sensazioni che rende un dipinto. Potrei essere soddisfatto di un lavoro svolto in una sola seduta, ma presto me ne stancherei: quindi preferisco rielaborarlo in modo da poterlo riconoscere in seguito come rappresentante del mio stato d’animo unendo intuizione e memoria”. E ancora, Paul Cézanne, riconoscendo specificamente l’inarrestabile influenza della fotografia sull’arte pittorica, osserva: “Passa un minuto nella vita del mondo! Dipingerlo nella sua realtà e dimenticare tutto per quello! Diventare quel minuto, essere quella lastra sensibile... per dare l’immagine di ciò che vediamo, dimenticando tutto ciò che è apparso prima del tempo”.

Claude Monet: La cathédrale Notre-Dame de Rouen (1892-1894)

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SPERIMENTAZIONE RADICALE Dopo un primo periodo di assimilazione delle realtà divulgate dalla fotografia e dalla cronofotografia, per una ventina di anni il soggetto del tempo sembra scomparire come fondamentale elemento dell’espressione artistica. Durante questo periodo, gli orologi, presenze normalmente familiari, ordinate, e rassicuranti, sono quasi scomparsi dalle principali opere d’arte. È quasi come se il “vecchio” concetto di tempo fosse stato rimosso, ma sebbene questo cambiamento fosse stato riconosciuto, i pittori avevano ancora bisogno di tempo per elaborare ulteriori visioni sul modo in cui il tempo potesse essere frammentato e manipolato. Quando finalmente si verifica, questa ibridazione avviene in un modo radicalmente nuovo. Le opere cubiste di Picasso e Braque dal 1906 fratturano l’immagine, proprio come avevano fatto la cronofotografia o i viaggi in treno, e come il linguaggio del film stava iniziando a fare. Ma poi presentano le risultanti molteplici prospettive o discontinuità della prospettiva, in una opera unica. Inizialmente si è ritenuto che la compresenza di elementi decostruiti rappresentasse il passare del tempo, presentando vari aspetti della materia in momenti diversi. Tuttavia, è più accurato dire che le varie sfaccettature sono pensate per coesistere ed essere viste contemporaneamente dallo spettatore. Questo, in un certo senso, starebbe a significare che il fattore del tempo viene eliminato, ma più esattamente, in queste opere il tempo viene concepito in modo del tutto nuovo e sperimentale. Sulla questione più specifica della possibile relazione tra il cubismo e il concetto di spazio-tempo di Einstein le opinioni dei critici sono controverse. Alcuni commentatori negano l’esistenza di qualsiasi relazione, altri sostengono che i parallelismi esistenti sono in gran parte casuali, alcu-

Marchel Duchamp: Nu descendant un escalier n°2 (1912)

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ni che la relazione, altri ancora suggeriscono che sia Picasso che Einstein fossero influenzati da specifiche fonti precedenti, come ad esempio gli studi di fisica e matematica di Henri Poincaré. Ai nostri fini, tuttavia, non è necessario risolvere questo problema specifico: in entrambi i casi, il tempo vien qui chiaramente interpretato in maniera sperimentale. Ironia della sorte, i dipinti cubisti sono stati criticati a causa della loro qualità statica, una critica a cui Marchel Duchamp ha risposto nel 1912 con il suo sorprendente: Nu descendant un escalier.

forma degli oggetti cambia con una rapida vibrazione sovrapposta, quindi un cavallo che corre non ha quattro zampe, ma venti. Pertanto, alcune delle loro opere, in analogia con il flusso di coscienza in letteratura, hanno l’obiettivo di rappresentare la sensazione del tempo che riflette una “simultaneità di stati d’animo dove l’immagine deve essere la sintesi di ciò che si ricorda e di ciò che si vede”. «Ottinger D. Futurism, 2009». In questo fermento di ricerca artistica il poeta Guillaume Apollinaire dichiara che il pittore deve “Racchiudere in un colpo d’occhio il passato, il presente e il futuro”.

Questa opera intende esprimere il passare del tempo, e lo fa presentando fasi successive della discesa in una serie di immagini sovrapposte che ricordano le cronofotografie di Marey. L’estrema artificialità del risultato sottolinea le sfide che la pittura ha dovuto affrontare nel trasmettere il senso di movimento. Forse riconoscendo questo limite, Duchamp introduce il movimento reale nell’arte con la sua Bicycle Wheel (1913). La sua opera To be looked at (from the other side of the glass) with one eye, close to, for almost an hour (1918) è un altro ambizioso tentativo di esprimere il passaggio del tempo. La distorsione e il ribaltamento dell’immagine provocata dalla lente montata in una struttura formata da due lastre di vetro dovrebbe provocare nello spettatore un effetto allucinatorio. E la rottura di un vetro, avvenuta durante il trasporto, aggiunge il fascino della casualità nell’esperienza artistica. Nel frattempo, i futuristi italiani, definiti da Filippo Tommaso Marinetti “caffeina dell’Europa”, dichiarano specificamente guerra alle rappresentazioni tradizionali di tempo e spazio, proclamando nel Manifesto del Futurismo (1909) che quei concetti sono “Morti ieri”. Ispirandosi esplicitamente ai risultati di Marey, i futuristi affermano che la Umberto Boccioni: Forme uniche della continuità nello spazio (1913)

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ca con il conservatorismo delle giurie ufficiali, organizza con Severini, nel foyer del Teatro Costanzi (l’attuale Teatro dell’Opera di Roma), la “Mostra dei rifiutati”.

Umberto Boccioni, pittore e scultore futurista è l’inventore del cosiddetto Dinamismo Plastico. L’artista nasce a Reggio Calabria nel 1882, ma trascorre infanzia ed adolescenza in varie città seguendo i frequenti spostamenti del padre. Si trasferisce quindi a Genova, poi a Padova nel 1888 ed in seguito a Catania nel 1897, dove consegue il Diploma all’Istituto Tecnico. Nel 1901 si trasferisce a Roma, frequenta la Scuola libera del Nudo e lavora presso lo studio di un cartellonista, dove apprende i primi rudimenti della pittura. In questo periodo il giovane pittore, dallo stile al momento molto realistico, entra in contatto con Gino Severini, che diventerà uno degli esponenti di spicco del movimento futurista, e con lui frequenta lo studio di Giacomo Balla, approfondendo la ricerca sulle tecniche divisioniste.

Per sfuggire l’atmosfera provinciale italiana, nella primavera del 1906 Boccioni si reca a Parigi, e affascinato dalla modernità della metropoli. Da Parigi, dopo alcuni mesi, fa un viaggio in Russia, prima di tornare in Italia e stabilirsi a Padova per iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si diploma. Per conoscere a fondo le nuove correnti pittoriche, derivate dall’evoluzione dell’Impressionismo e del Simbolismo, Boccioni intraprende un altro viaggio fermandosi a Monaco, dove a contatti con il movimento “Sturm und drang” tedesco e assorbe, nel contempo, l’influenza degli artisti Preraffaelliti inglesi. Dopo aver conosciuto Marinetti, Boccioni si avvicina al movimento avanguardista e, nel 1910 scrive, con Carlo Carrà e Luigi Russolo, il “Manifesto dei pittori futuristi” ed il “Manifesto tecnico della pittura futurista”, firmati anche da Severini e Balla. Boccioni modernizza lo stile pittorico utilizzando un linguaggio proprio, mentre partecipa attivamente alle iniziative futuriste diventando il pittore più rappresentativo di questa corrente. Allestisce, nelle varie capitali europee, Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles, mostre dei pittori futuristi e scrive il “Manifesto della scultura futurista”, dove espone le sue teorie sulla simultaneità e sul dinamismo, già parzialmente espressa nel “Manifesto tecnico della pittura futurista”. Boccioni suggerisce l’impiego in una stessa opera di materiali diversi, come il legno, la carta, il vetro ed il metallo, e comincia ad incorporare frammenti di oggetti nei modelli in gesso delle sculture.

Dal 1903 al 1906 Boccioni partecipa alle esposizioni annuali della Società Amatori e Cultori, ma nel 1905 in polemi-

Dal 1912, anno della prima esposizione futurista a Parigi, presso la Galerie Bernheim-Jeune, Boccioni applica il con-

Giacomo Balla: Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912)

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cetto di “Dinamismo plastico” anche alla scultura, continuando però contemporaneamente la sua ricerca pittorica sul movimento e la simultaneità delle forme del corpo umano in una lunga serie di disegni ed acquarelli.

Lombardo Ciclisti e parte per il fronte con Marinetti, Russolo, Sant’Elia e Sironi. Applicando il “Dinamismo plastico” ai suoi dipinti, Boccioni abbandona l’impostazione tradizionale fondendo interno ed esterno, i dati reali e quelli del ricordo in una singola immagine. Con questo intento sviluppa le caratteristiche “linee di forza” che tracciano le traiettorie di un oggetto in movimento nello spazio.

Dal 1913, collabora alla rivista Lacerba, organizzata attorno al gruppo futurista fiorentino capeggiato da Ardengo Soffici, ma il “Dinamismo plastico” incontra l’ostilità di alcuni ambienti culturali futuristi ed il disinteresse del pubblico. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Umberto Boccioni, come molti intellettuali, è favorevole all’entrata in guerra dell’Italia, si arruola volontario nel Battaglione

Giacomo Balla: Velocità astratta (1913)

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Umberto Boccioni: Dinamismo di un ciclista (1913)

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Umberto Boccioni: Dinamismo di un footballer (1913)

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LA SPERIMENTAZIONE CONTINUA Lentamente, a partire dai primi anni del nuovo secolo, gli orologi che si erano temporaneamente ritirati dalla grande arte riappaiono in sorprendenti nuove forme. In The Watch (The Sherry Bottle) del 1913, il cubista Juan Gris ruota un orologio di 90 gradi e lo spezza in quattro quadranti, solo due dei restano visibili, senza la lancetta dei minuti. Allo stesso modo, Albert Gleizes nel Portrait de l’éditeur Eugène Figuiere (1913) mette un orologio in un ritratto cubista e cancellando la metà dei numeri. In questi lavori, gli artisti riescono a trovare un modo più letterale di rappresentare il nuovo concetto di frammentazione e manipolazione del tempo.

fuga sono molteplici ed introducono una deformazione dell’immagine che quasi inavvertitamente viene percepita dall’osservatore, contribuendo ad inserire un elememto di mistero. Questa ricerca sarà ispiratrice di architetture reali realizzate nelle città di fondazione di epoca fascista. Il periodo metafisico di De Chirico, compreso tra il 1911 e il 1977 circa, si dimostrerà altamente influente per i surrealisti del decennio successivo. Guidato da André Breton, e ispirato a sua volta dagli scritti di Sigmun Freud, il surrealismo cercherà di dare maggiore licenza alla forze irrazionali dell’inconscio rappresentandolo artisticamente attraverso quella che Breton descrive come la “giustapposizione poetica di due realtà”.

Giorgio De Chirico, nel frattempo, insieme a Carlo Carrà inizia il percorso che lo porterà a perfezionare i canoni della pittura metafisica. Basandosi su una “architettura dell’immaginario” vengono realizzati spazi vuoti delimittati da edifici urbani. La prospettiva mostra sempre degli intenzionali errori di costruzione geometrica: i punti di

In una serie di lavori di De Chirico orologi e treni appaiono in modo quasi ossessivo. Questa ripetizione di motivi può essere significativa: il padre era un ingegnere ferroviario. In queste opere gli orologi, perversamente congelati, sembrano normali, ma i tempi visualizzati sono manipolati in modo incompatibile con il tempo reale. Ad esempio, ne La Ricompensa dell’indovino del 1913, l’orologio mostra l’ora appena prima delle 2, ma le ombre allungate sono tipiche di quelle proiettate da un sole della sera già basso nel cielo. La giustapposizione di una statua della Grecia classica con la locomotiva all’orizzonte crea inoltre una originale ambiguità tra lo spazio e il tempo. Tale ambiguità si può ritrovare ne La stazione di Montparnasse (La malinconia della partenza) del 1914, in cui l’orologio di primo piano è in contrasto con le prospettive contraddittorie: nessuno degli angoli delle pareti, delle torri e dei portici si incontra nello stesso punto di fuga, producendo uno spazio altamente instabile e un’esperienza inquietante di rinnovata relazione tra spazio e tempo. De Chirico,

Giorgio De Chirico: La ricompensa dell’indovino (1913)

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Giorgio de Chirico: La stazione di Montparnasse, la malinconia della partenza (1914)

Salvador DalĂŹ: La persistencia de la memoria (1931)

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inoltre, è anche noto per datare i dipinti in modo errato e talvolta altera persino le date dopo essere state esposte. Una manipolazione più radicale della dimensione temporale appare come caratteristica di spicco della ricerca surrealista. Nel suo saggio Theatre in the Midst of Life del 1928, il belga René Magritte descrive l’arte come un palcoscenico su cui cessano di applicare le leggi naturali del tempo e dello spazio.

lata di scogliere erose si staglia contro un cielo cristallino, in gran parte senza nuvole. Ma la ricerca di Dalì si spinge molto più avanti, dimostrando come il concetto del tempo possa essere manipolato, sovvertendo le nostre aspettative di un mondo ordinato e prevedibile. Non solo gli orologi in metallo si stanno sciogliendo e vengono attaccati dalle formiche, ma ognuno mostra un tempo diverso. Pertanto, sia il tempo “normale” che le macchine che lo misurano sono descritti come inefficaci e irrilevanti. L’incongruenza è accentuata da una tecnica pittorica analitica per quella che ha Dalì ha definito la sua “Fotografia dei sogni dipinta a mano”, nella quale ha cercato di rendere l’irreale il più reale possibile. Il lavoro rimanda inoltre al concetto dell’entropia, la “Freccia del tempo” che abbiamo menzionato in precedenza. Vediamo un albero morto, fatiscenti fossili sciogliersi, una mosca che si nutre di metallo come se fosse carne in decomposizione, e un corpo distorto come se fosse morto, una raccolta di immagini di oggetti che cadono a pezzi, fossilizzandosi, sgretolandosi, marcendo o sciogliendosi.

Magritte era interessato al lavoro di de Chirico e il suo dipinto La Durée pignardée (1938) presenta come soggetti principali treno e un orologio. Ancora una volta, c’è un’apparente discrepanza temporale: l’orologio mostra l’ora all’una meno un quarto, ma la luce naturale proietta le ombre più profonde di un’ora pomeridiana. Stranamente, la locomotiva fumante sbuca nella stanza attraverso il caminetto chiusoo, secondo le tipiche contrapposizioni proprie del linguaggio espressivo del surrealismo. Lo stile pittorico, di realismo piatto e impassibile, imita la fotografia ma serve solo ad accentuare il carattere surreale del soggetto. Questa “istantanea dell’impossibile, rimanda al commento di Dostoevsky del 1860 secondo cui “Il fantastico deve essere così vicino al reale che quasi devi crederci”. «Linner S. Dostoevsky on Realism, 1967».

L’ispirazione di Dalì è stata variamente attribuita alla teoria dei sogni freudiana, in cui è possibile accedere all’inconscio attraverso i sogni e in cui il tempo si può muovere in varie direzioni, o alla teoria della relatività di Einstein.

Il surrealismo di Salvador Dalì introduce molteplici elementi del tempo irreale in opere come La persistencia de la memoria (1931). Questo lavoro presenta alcuni parallelismi con il dipinto Pegwell Bay, Kent di William Dyce discusso in precedenza. I due presentano alcune somiglianze: nel titolo che invoca esplicitamente la memoria, nella composizione e nel soggetto principale. Entrambi mostrano ampie spiagge piatte e un mare calmo con la bassa marea, immersi in una luce di tardo pomeriggio. Una linea affuso-

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René Magritte: La Durée pignardée (1938)

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L’ARTE CINETICA L’arte cinetica è quella che contiene parti o il tutto in movimento percepibile dallo spettatore o che dipenda dal movimento per il suo effetto complessivo. I dipinti su tela che incorporano un effetto di movimento multidimensionale o proiettano la prospettiva sullo spettatore sono primi esempi di arte cinetica. Ma generalmente questo termine oggi si riferisce più spesso a sculture e figure tridimensionali che si muovono naturalmente o sono azionati da macchine. Le parti mobili sono generalmente alimentate da motori, da elementi naturali come il vento e la gravità, o dall’osservatore.

All’inizio del ‘900, alcuni artisti si spingono sempre più nei territori di una ricerca che possa attribuire alla loro arte un effetto di movimento dinamico. Lo scultore e pittore costruttivista Naum Gabo, uno degli artisti più influenti dell’a-

L’arte cinetica comprende un’ampia varietà di tecniche e stili diversi tra loro. Una parte dell’arte cinetica include il movimento virtuale, che in questo caso è percepito solo da determinate angolazioni o sezioni dell’opera. Questo termine si incrocia spesso con il termine “movimento apparente”, usato quando ci si riferisce a un’opera d’arte il cui movimento è creato da motori, macchine o sistemi elettrici. Sia il movimento apparente che quello virtuale sono stili di arte cinetica che solo recentemente sono stati discussi come stili di arte ottica. La quantità di sovrapposizione tra cinetica e arte ottica non è abbastanza significativa per gli artisti e gli storici dell’arte da considerare la fusione dei due stili sotto un unico termine. L‘ arte cinetica trae le sue origini dagli artisti impressionisti della fine del XIX secolo come Claude Monet, Edgar Degas e Edouard Manet, che originariamente hanno sperimentato la rappresentazione su tela del movimento della figura umana. Questa pittura impressionista cercava di creare arte che fosse più realistica. I ritratti delle ballerine e dei cavalli da corsa di Degas sono esempi di quello che voleva esprimere un “realismo fotografico“. Naum Gabo: Kinetic Construction, Standing Wave (1919–1920)

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vanguardia russa post-rivoluzionaria, descrive frequentemente il suo lavoro come esempio di “ritmo cinetico”. La sua Kinetic Construction (Standing Wave) (1919–20) è una scultura meccanica costituita da una semplice asta

d’acciaio che emerge da una piccola base di legno nera. Quando viene attivata premendo un pulsante, la macchina prende vita: attraverso le rapide oscillazioni causate da un motore elettrico nascosto nella base, crea l’illusione di una forma tridimensionale. La sinuosa torsione generata attraverso questi movimenti, con la sua trasparenza tremolante, è quella di un’onda stazionaria: un termine preso dal campo della fisica, familiare a Gabo attraverso i suoi studi in scienze naturali e ingegneria Dagli anni ‘20 agli anni ‘60, lo stile dell’arte cinetica viene interpretata da numerosi artisti che sperimentano nuove forme di scultura mobile. Lo statunitense Alexander Calder è protagonista di una sperimentazione del linguaggio espressivo che, a partire dal 1930, ha un’evoluzione straordinaria, sia figurativa che astratta. L’arte di Calder esprime esuberanza, allegria, vigore, e umorismo inteso come forza vitale. Questi sono le caratteristiche fondamentali assegnate a Calder da James J. Sweeney, nel catalogo della retrospettiva al Museum of Modern Art di New nel 1943 che consacra l’artista internazionalmente. Calder, tra tutti, è certamente artista ingegnoso ed originale, capace di una immensa poetica giocosa: ispirato infatti da una fantasia infinita e dalla manualità di un meccanico, forgia strutture che conquistano lo spazio e l’universo con grande semplicità ed eleganza, mediante sottili equilibri, leggerezza di elementi e fragilità di steli, e creando opere come gli Stabiles e i Mobiles, così denominati rispettivamente da Hans Arp e Marcel Duchamp. L’animo di Calder è intriso di una sensibilità disinteressata, innocente e incontaminata come la fantasia di un bambino, una ricerca della libertà espressiva senza la razionale logica maturità, quasi come volesse, attraverso mezzi

Marcel Duchamp: Bicycle Wheel (1913)

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primari, educare l’uomo a fare uso della propria fantasia oltre qualsiasi limite ragionevole. Le ossessioni quotidiane della vita, un’epoca pronta solo ad inventare macchine di morte, devono distaccare infatti l’arte per liberare l’umanità dalle realtà con un equilibrio e purezza che non turbi: pensieri, questi, che si rifanno a quelli di Matisse dell’ultimo periodo. E se Matisse attraverso il suo colore suscita sentimenti personali che legano lo spettatore a sogni ed emozioni comunemente proprie della natura umana, Calder va oltre, le sue sculture inventano il movimento continuo dove non c’è né un principio né una fine ad una dinamica continuativa nel tempo, in uno “Spazio non Spazio” dove non esistono confini e limiti, provocando una rivoluzione totale dello spazio immaginato fino a quel momento nelle teorie accademiche e nelle realtà scultoree e pittoriche che ancora dettavano in qualche modo una predominanza di spazio finito, racchiuso e limitato. Cubismo, Surrealismo, Astrattismo Costruttivista, sono tendenze che hanno maggiormente caratterizzato la scultura moderna nel panorama internazionale e gli artisti artefici di tale rinnovamento sono molti, per citarne alcuni: Alberto Giacometti, Henry Moore, Fritz Wotruba, Costantin Brancusi, Marino Marini, Umberto Mastroianni. Una metamorfosi del linguaggio scultoreo e pittorico che passa da forme figurative arditamente sintetiche ad altre decisamente astratte, capace di recuperare in una nuova chiave di lettura quelle radici storico-artistiche tradizionali espresse con una varietà di linguaggi liberi, innovativi e straordinari in una sorta di Nuovo Rinascimento, che ha dato origine alla dinamica della scultura, anche se, in Italia, è solo Mastroianni che riesce ad interpretare la lezione futurista della dinamicità applicata alla scultura.

Alexander Calder: Arc of petals (1941)

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Alexander Calder: Untitled (1937)

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TEMPO E FOTOGRAFIA


IL MOVIMENTO NEGATO Basta sfogliare un album di famiglia o scorrere le antiche immagini ritrovate in un mercatino per vedere che la posa fotografica si è evoluta drasticamente nel corso degli anni. E la posa non racconta solo dell’individuo, ma anche qualcosa sull’era e sulla società alla quale egli appartiene. Le prime immagini fotografiche vengono prodotte nei primi decenni del 1800 ma non è possibile produrre ritratti di qualità accettabile fino al 1839 circa. Ciò è dovuto ai mezzi primitivi per fotografare, che non permettono in alcun modo di poter congelare il movimento. Agli albori della fotografia i tempi di esposizione sono necessariamente di molti minuti, e conseguentemente, le persone ritratte non possono che restare immobili durante l’intero processo dello scatto. A cause dei notevoli limiti tecnologici le pose risultano dunque rigide, senza alcun segno di movimento e di scarsa espressività Al fine di evitare qualsiasi tipo di movimento involontario del soggetto durante lo scatto, cosa che avrebbe causato la non riuscita della foto, i fotografi erano in qualche modo costretti ad adoperare strumenti, staffe e altri mezzi per far si che la persona ritratta restasse immobile prendendo esempio dagli scultori, che avevano realizzato statue che poggiavano su delle staffe e perni per mantenersi in equilibrio stabile. Nella ritrattistica fotografica del primi dell’800, è quindi raro trovare un soggetto che non sia appoggiato o in qualche maniera supportato da oggetti come, sedie, comodini o altri oggetti d’arredamento. Un primissimo esempio di movimento negato è visibile nel fotografia Boulevard du Temple di Louis Daguerre, in cui è possible vedere due figure umane sulla sinistra, un lustrascarpe ed un suo cliente, che rimangono impressionati soltanto perchè rimangono in quella posizione per svariati minuti, mentre la strada parigina, comunemente trafficata di persone e

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no inizialmente notevoli limitazioni. In Scozia David Octavius Hill e Robert Hill Adamson producono i primi ritratti con successo usando processo del calotipo. Negli stessi anni, negli Stati Uniti Albert Southworth e Josiah Hawes sperimentano i primi esempi di ritrattistica utilizzando il processo del dagherrotipo. Questi pionieri sperimentano da subito la complessità dei nuovi processi fotografici che non favoriscono la ripresa di soggetti non perfettamente statici. Nonostante ciò nel 1850, il francese Nadar (Gaspard Félix Tournachon) diviene uno dei grandi nomi della ritrattistica. Ben presto i tempi di esposizione si riducono notevolmente fino a ridursi al massimo ad alcuni secondi.

carrozze, appare vuota. Questo a causa della limitatissima sensibilità dei materiali di ripresa, che poteva creare immagini soltanto con tempi di esposizioni di molti minuti. Nel 1839 la ritrattistica cambia il rapporto tra realtà e rappresentazione. In quell’anno, Louis Jacques Mandé Daguerre (1787–1851) e William Henry Fox Talbot (1800–1877) introducono al mondo i loro processi fotografici: il dagherrotipo, a mercurio/argento su lastra di metallo e il calotipo (Talbotype) a sali d’argento e processo negativo/ positivo su carta. I tradizionali ritratti pittorici che richiedevano molte ore di seduta o addirittura giorni vengono affiancati dai processi fotografici, relativamente molto più rapidi ed efficienti. Ma la scarsa luminosità degli obiettivi e la notevole insensibilità dei materiali di ripresa presenta-

Con l’introduzione del processo al collodio umido, la fotografia di ritratto si sviluppa maggiormente. Una delle personalità artistiche di maggiore spicco emergenti in questo periodo è quella dell’inglese Julia Margaret Cameron (1815–1879). È considerata la più importante ritrattista del XIX secolo, famosa per le sue immagini morbide, spesso a soggetto mitologico, religioso o letterario. Nei suoi ritratti, di influenza pittorialista e pre-raffaellita, la somiglianza realistica è spesso stemperata dalla capacità di catturare l’intimità e l’emozione del momento. Con il progredire della tecnologia fotografica, in particolare con l’introduzione delle lastre a secco, i fotografi diventano in grado di allontanarsi dall’imposizione delle lunghe esposizioni e possono finalmente lasciare il confini dello studio e iniziare a raccontare il mondo.

Louis Mandé Daguerre: Boulevard du Temple (1838)

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Fotografo sconosciuto: ritratto di donna

Artista sconosciuto: statua di Atena

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Fotografo sconosciuto: ritratto di donne

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Fotografo sconosciuto: ritratto di donne

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FOTOGRAFIA E TEMPO PERCETTIVO La caratteristica più importante che mette in relazione fotografia con il tempo è la sua capacità di catturare ed elaborare immagini più velocemente dell’occhio umano. Ciò ha prodotto nel tempo una serie di effetti importanti, ma a volte paradossali. In primo luogo, ha fornito informazioni accurate sui soggetti in movimento come non erano mai stati visti prima. Nel 1878, la colossale opera di Muybridge rappresenta una pietra miliare per quanto riguarda l’analisi anatomica del corpo di animali ed esseri umani con particolari dettagliati come non mai. Altrettanto sorprendenti sono gli studi cronofotografici successivamente prodotti da Marey, che condensano fasi successive di movimento continuo in una singola immagine. Sa quel momento gli effetti di questi studi scuoteranno le fondamenta della percezione artistica di tutta l’arte figurativa.

Questo aspetto fondamentale si dimostra nettamente in contrasto con la tradizione artistica rinascimentale nelle quale i dipinti sono tipicamente contenuti e limitati, accuratamente composti, completi al loro interno e chiaramente definiti da un bordo dell’inquadratura non invadente. I nuovi bordi dell’inquadratura, abbinati a tempi di esposizione più brevi, rafforzano le impressioni del “momento fugace” del movimento arrestato, uno spirito di temporalità e momentaneità contingente che continua oltre i limiti della cornice, nello spazio reale.

L’azione prosaica di una goccia di pioggia che cade in una pozzanghera si trasforma in una visione straordinaria. Queste rivelazioni forniscono una sorprendente dimostrazione di come il tempo, precedentemente considerato come un flusso, potesse essere decostruito e frammentato visivamente e di come i vari aspetti dei movimenti potessero essere isolati e analizzati singolarmente.

Oscar Gustave Rejlander: The Two Ways of Life (1857)

Anche per soggetti relativamente statici, la fotografia rivela ben presto che la realtà ha una natura transitoria e in continua evoluzione. Come ha sottolineato il critico John Szarkowski, “Ogni sottile variazione nel punto di vista o nella luce, ogni momento che passa, ogni cambiamento nella tonalità della stampa, ha causato una nuova immagine, il muro di un edificio al sole non è mai stato il doppio dello stesso“. «Szarkowski J. The Photographer’s Eye, 2007».

La velocità della fotografia rivela anche un mondo che spesso include viste frammentarie basate su forme discontinue e giustapposizioni inattese. Una fotografia può catturare una parte di una figura che entra nella scena o ne esce delimitando lo spazio visivo secondo un ordine casuale che, prevedendo un prima e un dopo, esprime e racconta l’avvicendarsi temporale degli eventi. L’immagine fotografica, di conseguenza, esprime una originale qualità di immediatezza che raramente è possibile sperimentare osservando l’arte figurativa pittorica.

A distanza di pochi decenni dall’invenzione del mezzo fotografico ulteriori effetti di sfida e superamento della staticità del reale vengono prodotti grazie anche alla spe-

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rimentazione di tecniche particolari. Innovazioni come la fotografia spiritica, la stampa combinata e il ritocco dimostrano che la versione della realtà rivelata dalla fotografia può essere liberamente manipolata. La diffusione della fotografia spiritica sfrutta cinicamente l’effetto della doppia esposizione recentemente scoperto per produrre ritratti realistici ma impossibili di persone viventi insieme a parenti trapassati che di solito si librano dietro di loro. Ciò contribuisce enormemente all’ascesa della credenza nello spiritismo e “dell’altra parte” che era emersa per la prima volta in Germania nel 1840.

animata”. Nel cinema un “occhio meccanico” in costante movimento, viene “liberato dai confini del tempo e dello spazio”. Il film presenta una capacità senza precedenti di manipolare il tempo e il movimento rallentandoli artificialmente, accelerandoli, fermandoli, facendoli tornare indietro, inserendo salti di tempo, troncando intervalli o eseguendo scarti di continuità con il flash back o il flash forward. In questo modo, il “tempo cinematografico” per la sua natura espressiva e narrativa afferma una totale indipendenza dal “tempo reale” della vita vissuta. La fotografia può congelare il tempo di un attimo fuggente e apparentemente farlo per sempre, può portare il passato nel presente, può raccontare mondi esotici e lontani, può esprimere un senso di passaggio e transizione, può quindi, in un certo senso e in una certa misura, superare l’immanente e viaggiare nel tempo e nello spazio.

Allo stesso modo, la prima fotografia ritoccata, nel 1855, apparendo come l’innegabile conferma che la macchina fotografica potesse mentire, stupisce il pubblico che aveva da sempre considerato la fotografia come l’incarnazione dell’autenticità. Poiché le immagini fotografiche sembravano così reali, le prove della loro manipolazione erano ancora più scioccanti e potenzialmente dirompenti. Le immagini fotografiche erano in grado di fornire una visione obiettiva e accurata del mondo, eppure, proprio per questa ragione, potevano anche essere veicoli di inganno e manipolazione. I potenziali conflitti tra realtà e finzione nell’ambito della propaganda e dell’informazione faranno ben presto la loro comparsa nel percorso della storia della fotografia provocando numerosi incidenti di percorso. Il fotomontaggio, d’altra parte permetteva di ottenere un controllo quasi totale sugli elementi dell’immagine, superando i limiti spaziali o temporali normalmente non superabili con le tecniche di ripresa tradizionali. I complessi rapporti che intercorrono tra l’immagine e il flusso ininterrotto del reale subiscono ulteriori implicazioni con l’invenzione del cinematografo o “fotografia

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IL TEMPO MOLTIPLICATO Un’altra tecnica utilizzata spesso per rappresentare l’effetto di movimento nell’immagine fotografica è quella dell’esposizione multipla. Questa può essere effettuata durante le fasi di ripresa, in camera oscura o simulata con programmi di elaborazione come Adobe Photoshop. Senza dubbio l’avvento dell’immagine elettronica ha reso più semplici e accessibili gli strumenti per il fotoritocco, espandendone le potenzialità, ma è importante notare che le prime notizie di foto ritoccate risalgono alla metà dell’800, dopo solo pochi decenni dalla data convenzionale di nascita della fotografia, nel 1839. Per quanto riguarda la fotografia analogica si possono effettuare più scatti sullo stesso fotogramma, affidandosi alla propria esperienza, ma con un certo margi-

ne di casualità, oppure stampare più negativi sovrapposti creando una singola stampa composita. La necessità di utilizzare due o più immagini differenti per creare una fotografia finale nasce ben presto per superare i notevoli limiti tecnici imposti dai materiali e dalle attrezzature di ripresa. La stampa multipla si rende spesso necessaria per contrastare problematiche ottiche o di illuminazione e una pratica comune diviene quella della sostituzione di un cielo bianco e slavato con uno più intenso e interessante. L’antiestetico effetto del cielo sovraesposto è proprio delle immagini fotografiche di quasi tutto l’800 a causa della natura ortocromatica (sensibilità alla sola luce blu verde) dei materiali da ripresa. Con il nuovo secolo, l’in-

Paolo Rollo

Katie Hougas

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troduzione di materiali pancromatici (con sensibilità estesa anche al rosso) permetterà finalmente di ottenere una resa tonale più bilanciata e corretta. Alcuni dei primi esempi conosciuti di esposizioni multiple posso essere datate intorno al 1860 quando i fotografi commerciali, per aumentare i loro profitti, iniziano a vendere con successo ritratti di una stessa persona in due pose differenti. La tecnica prevede di scattare la prima immagine e poi la seconda spostando il soggetto in un’altra posizione. Per agevolare e velocizzare tale processo vengono introdotte attrezzature specifiche come tappi per obiettivi rotanti o portalastra scorrevoli. Gli effetti estremamente originali e a volte imprevedibili ottenuti grazie alle esposizioni multiple hanno da sempre affascinato un notevole numero di fotografi. Tra gli esempi degni di nota è necessario segnalare i surreali montaggi analogici del fotografo statunitense Philippe Halsmann, le immagini romantiche e sognanti di Hayden Williams, i paesaggi in barattolo di Christoffer Relander, il progetto Tent-camera del cubano Abelardo Morell che miscela otticamente territori e texture alle quali appartengono, i libri della memoria di Ellen Cantor.

Duane Michals: Jasper Johns (1972)

Un’altra ricerca interessante sulle possibilità di espressione della dimensione temporale attraverso il mezzo fotografico è quella che si occupa della scomposizione tramite immagini giustapposte. Tale molteplicità crea una percezione frammentata e virtuale della realtà esplorata, che in questo modo diventa libera di effettuare spostamenti nel tempo o nello spazio. Tali sperimentazioni devono molto all’estetica del linguaggio cinematografico che per sua natura si esprime attraverso la scomposizione e ricomposizione del Duane Michals: René Magritte in a Bowler Hat (1965)

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vissuto tramite una narrazione per attimi successivi. La fotografia si reinventa appropriandosi degli elementi che costituiscono le fondamenta del racconto filmico: sequenza, ripresa, registrazione continua, punto di vista, simultaneità, compresenza, scarto temporale.

Secondo Michals “Un ritratto in prosa potrebbe richiedere tre o quattro fotografie per rivelare qualcosa su ciò che la persona fa nella vita che la definisce. Una faccia non deve necessariamente essere vista; il significato della maggior parte delle persone non sarà trovato lì”. E aggiunge: ” Penso che le fotografie dovrebbero essere provocatorie e non dirti ciò che già sai. Non servono grandi poteri o magie per riprodurre il volto di qualcuno in una fotografia, la magia sta nel vedere le persone in modi nuovi”.

Sulla scomposizione del movimento la figura forse più influente è quella del fotografo statunitense Duane Michals. Nato nel 1932 in Pennsylvania, si è laureato in lettere all’Università di Denver nel 1953, quindi ha intrapreso un percorso di studi presso la Parsons School of Design di New York City. Le sue prime principali mostre personali si sono tenute presso l’Art Institute di Chicago nel 1968 e il Museum of Modern Art di New York, nel 1970. Da allora ha tenuto numerose mostre personali, tra cui all’Odakyu Museum di Tokyo (1999), l’International Center of Photography di New York (2005). Il suoi lavori si trovano in numerose collezioni permanenti negli Stati Uniti e in tutto il mondo.

Michals completa le sue sequenze con annotazioni scritte a mano che esprimono le sue impressioni su una persona attraverso giochi di parole o commenti poetici. Secondo Michals “La scrittura è nata dalla mia frustrazione per la fotografia. Non ho mai creduto che una fotografia valesse più di mille parole. Se ti facessi una foto, non mi direbbe nulla di te come persona. Con qualcuno che conosci davvero bene, può essere frustrante. Il sessanta per cento del mio lavoro è fotografia e il resto la scrittura”.

Sforzandosi di articolare il proprio stile e la propria visione distinti, distinguendo al contempo la personalità unica di ogni soggetto, Michals autorizza i suoi soggetti a esprimersi nei propri ambienti e attraverso l’improvvisazione.

Le sue sperimentazioni sulla ripetizione di fotografie in successione, culminano con la straordinaria serie di immagini scattate nel 1973 all’artista Andy Warhol.

Duane Michals: Andy Warhol (1972)

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Duane Michals: The Chance meeting (1970) woman is hurt by a letter (1968)

Duane Michals: The Woman is Hurt by a Letter (1968)

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zio fotografico. Unendo i risultati come in un puzzle di vita si materializza una sequenza di immagini che permette all’osservatore, perfetto testimone, di seguire l’intera azione svolta, che i titoli delle opere registrano esattamente descrivendo con precisione timing e location dello scatto.

Ispirato al concetto di simultaneità temporale è senza dubbio il lavoro della fotografa americana Barbara Probst che utilizza fotocamere multiple a scatto sincronizzato per raccontare un momento nel tempo da angolazioni diverse: l’attimo istantaneo è dilatato ed esteso nello spa-

Barbara Probst: Exposure #106 - n.y.c., Broome & Crosby Streets, 04.17.13, 2.29 p.m. (2013)

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Barbara Probst: Exposure #114 - n.y.c., 368 Broadway, 02.05.15, 12.13 p.m. (2015)

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CUBISMO FOTOGRAFICO Nel 1982 il pittore, disegnatore e fotografo britannico David Hockney ha commentato che la fotografia va bene “Se non ti dispiace guardare il mondo dal punto di vista di un ciclope paralizzato per una frazione di secondo”. La sua dura opinione, tuttavia, cambia quando un visitatore dimentica della sua casa sulle colline di Hollywood una pellicola Polaroid. Da quel momento Hockney inizia una sperimentazione che cerca di rappresentare la tridimensionalità della realtà circostante. Da questi primi esperimenti prende avvio una ricerca che, producendo una lunga serie di tableaux compositi, diventerà uno dei più caratteristici tratti distintivi della sua opera.

personaggi si spostano da un frame all’altro come in una rappresentazione cinematografica ma è la compresenza di elementi giustapposti che crea un percorso di percezione originale, innovativo e spiazzante. Profondamente legato dall’opera di Hockney è l’artista italiano Maurizio Galimberti che si dedica alla fotografia dagli inizi degli anni ’80. L’insofferenza per le lunghe attese nel buio della camera oscura lo spinge a ricercare un mezzo più adatto al suo desiderio di spazi aperti. L’incontro con la fotocamere Polaroid diventa un amore senza limiti, ampiamente corrisposto. Oggetti inseparabili che Galimberti porta con sé ovunque, e che lo spingono a fotografare a “grappolo” o “ad ali di farfalla” (come ama dire lui stesso). I suoi soggetti, paesaggi, ambienti, ma soprattutto volti, vengono abilmente e meticolosamente scomposti e ricomposti in riquadri del classico formato 10×10 centimetri. E l’aspetto che più colpisce del suo lavoro è la distanza tra le fasi di ripresa che ricordano le modalità di una fredda scansione tipica della fotografia scientifica e la forte espressività che risulta dal risultato finale. Mai come in questo caso il totale è decisamente migliore della somma delle sue singole parti.

Il suo atteggiamento nei confronti della fotografia è dichiaratamente modernista e le sue opere fanno riferimento alla sintesi propria del cubismo. Contrariamente a quanto avviene nella sua pittura, dove di solito i personaggi sono ritratti in pose statiche, Hockney fotografa prevalentemente i suoi soggetti in movimento e dichiara: “Il nostro movimento ci dice che siamo vivi”. Nei suoi collage, combinazione di pittura e fotografia, Hockney dimostra disinteresse per la semplice documentazione della realtà, ma cerca invece di superare i limiti della visione, raccontando la profondità e la complessità del mondo attraverso un’esperienza di percezione multipla, simultanea e caleidoscopica.

Affascinato dal dinamismo che scaturisce dalla staticità e dalla facilità di utilizzo dell’attrezzatura scelta (ha affermato: “Polaroid è sinonimo di libertà: con una scatoletta riesci ad esserci dovunque”), Galimberti si definisce futurista, forse anche in conseguenza dell’imprimatur ottenuto nel 1994 da Carlo Ludovico Bragaglia, incontrato alla soglia dei suoi cento anni. Tuttavia non poco hanno influito sulla sua formazione i fertili anni ’60 della Pop art e dello sperimentalismo (e Galimberti è senza dubbio e più di chiunque altro uno sperimentatore di colori e di forme).

Utilizzando più viste prospettive nello stesso momento, chiarisce che non ne esiste mai una sola vera e privilegiata Utilizzando un pattern a volte ordinato, a volte sovrapposto, moltiplica quasi all’infinito i punti di vista in una glorificazione futuristica del movimento; la fotocamera diventa strumento di ripresa dinamico e vibrante; i suoi

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David Hockney: Jerry Diving Sunday Feb. 28th 1982 (1982)

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David Hockney: Blue Terrace, Los Angeles (1982)

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Tanti gli stimoli a cui attinge: dalla ludica creatività del designer Bruno Munari, agli scatti raffinati del romantico David Hamilton, sempre ispirato alla bellezza del surreale, Galimberti prima osserva, poi decodifica la realtà in forme geometriche con estro ed emozione, un processo artistico che diventa presto la sua metodologia espressiva. Il suo linguaggio è caratterizzato dalla progressione di colori e sfumature sempre coerenti, di elementi geometrici che diventano struttura, delimitata dalle tipiche cornici in cartoncino bianco. Tali elementi segnano il ritmo dell’impianto artistico definitivo, che si esprime attraverso il riverbero di forme e superfici espandendosi in vortici dal centro, e moltiplicandosi quasi all’infinito. “Il fascino dell’imperfezione sta nel non poter prevedere al cento per cento il risultato delle tue manipolazioni” commenta. E questa ricerca visiva ha prodotto i suoi frutti: dopo una carriera quarantennale Maurizio Galimberti oggi è famoso in tutto il mondo e per le sue visioni sperimentaliste è diventato un richiestissimo ritrattista. Una indiscutibile influenza del lavoro di Hockney e Galimberti, in tempi più recenti, si può ritrovare nelle serie Pieces della fotografa statunitense Lauren Marek. I suoi ritratti estremamente selettivi e ravvicinati, anche se non direttamente collegati alla tecnologia Polaroid, si articolano in rigide strutture basate sul quadrato.

Lauren Marek: Pieces (2012)

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Maurizio Galimberti: Polaroid works (2003-2012)

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4 L’ANALISI DEL MOVIMENTO


EADWEARD MUYBRIDGE E ÉTIENNE-JULES MAREY Nel nel giugno del 1872 il grande appassionato di cavalli americano Leland Stanford chiede a Eadweard Muybridge di fotografare la corsa del suo celebre cavallo Occident per verificare la tesi che ci sia un istante durante il galoppo in cui il cavallo ha tutte le zampe sollevate da terra: comincia così la storia della cronofotografia. Muybridge si era trasferito nel 1850 dalla Gran Bretagna negli Stati Uniti, per lavorare in ambito editoria, poi, dopo qualche anno era tornato in Gran Bretagna, e dal 1866 si era stabilito a San Francisco. Qui aveva avviato un’attività fotografica professionale specializzata prevalentemente in soggetti paesaggistici. Ambizioso ed eccentrico, Muybridge accetta la sfida e la decisione segna da quel momento tutta sua vita, che sarà tutta dedicata al miglioramento, alla sperimentazione e alla diffusione della sua invenzione. La sfida consisteva nel fatto che l’occhio umano non era ancora riuscito a cogliere con certezza la posizione delle zampe e i dettagli del movimento di un animale in corsa, per cui, varie posizioni anatomiche utilizzate dai pittori risultavano a quei tempi di fatto imprecise se non errate.

tografo si dedica a perfezionare i materiali e le tecniche fino a raggiungere già nel 1873 il primo risultato accettabile: le immagini sono ancora soltanto poco più che delle silhouette, ma le posizioni dell’animale ripreso sono ben visibili e indiscutibilmente “oggettive”. La sfida è vinta ma le immagini non sono ancora sufficientemente definite per essere pubblicabili e dovranno trascorrere altri cinque anni perché ciò sia possibile. Nel frattempo Muybridge sperimenta tragiche disavventure personali che lo costringono ad allontanarsi per qualche tempo dalla scena pubblica. Tornato a San Francisco nel 1877 riprende con vigore la sua ricerca. Egli realizza anche un panorama fotografico a 360 gradi della città diviso in undici parti, per un totale di quasi due metri di lunghezza. Muybridge dunque coglie il legame che intercorre tra sequenza e panorama e le diverse soluzione che ambedue comportano nella dialettica tra continuo e discontinuo, tra parte e insieme: nel panorama infatti la continuità, che è spaziale, si ricostruisce nell’accostamento diretto tra gli scatti, mentre nella cronofotografia questi elementi restano necessariamente separati.

Soltanto la macchina fotografica, la cui rappresentazione era data per oggettiva e probante proprio perché meccanica, poteva fissare veridicamente, frammentandolo, il flusso del movimento. La questione principale stava appunto in questo: spezzare la continuità in una serie di scatti discontinui ma calcolati per ricostruire in modo credibile e convincente il flusso temporale. La tecnologia dell’epoca comportava ancora tempi di esposizione della lastra troppo lunghi, e il soggetto in movimento risultava vago e indistinto, semitrasparente come un fantasma.

Il sistema messo in atto da Muybridge per le sue riprese anatomiche consiste in una batteria di macchine fotografiche disposta parallelamente al movimento da registrare e azionate dapprima da fili tesi sul percorso e successivamente da sistemi di scatto sempre più sofisticati. In alto sulla parete di sfondo o in basso su un’asse apposito è segnata una scala a progressione numerica per la verifica delle misurazioni. Quanto agli aspetti tecnici, va notato che il procedimento al collodio umido aveva ridotto di molto i tempi di posa, ma non abbastanza per catturare un movimento rapido come la corsa del cavallo.

I primi tentativi di Muybridge, che non sono stati conservati, erano senza dubbio di qualità scadente, ma il fo-

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Muybridge è costretto ad aumentare l’intensità di illuminazione, fotografando all’aperto, in condizioni di luce massima e predisponendo uno sfondo bianco riflettente. Nel 1879 il numero delle macchine fotografiche arriva a ventiquattro, azionate da un commutatore elettrico comandato da un sistema a orologeria, i cui segmenti rotanti innescano gli otturatori a intervalli regolabili. Ormai il sistema è messo a punto e Muybridge indirizza le sue sperimentazioni dapprima anche su altri animali per poi dedicarsi, con dedizione instancabile, alla registrazione del movimento nei soggetti umani.

tografo francese Étienne-Jules Marey nello spostamento epocale (come lo definisce e descrive il critico cinematografico Noël Burch) dai codici della rappresentazione della pittura accademica a quelli appunto scientifici, ma Burch stesso parla di “statuto ambiguo” nel caso di Muybridge, segnalandone le anomalie di metodo. A differenza di Marey, Eadweard Muybridge, ha ambizioni più artistiche che scientifiche, mira piuttosto alla creazione di una “illusione”: sta forse proprio qui il suo interesse peculiare, non riducibile a un discorso generale sulla cronofotografia. La verifica oggettiva del movimento fu la richiesta ricevuta dall’esterno; così la misurazione non va intesa in senso analitico-scientifico ma solo dimostrativo, per testimoniare che non c’è alcun trucco e che le cose sono state fatte con ogni scrupolo. Oggi noi leggiamo l’integrazione di quella banda numerata o della griglia di sfondo in una direzione che diremmo più “concettuale”, alla quale viene più facile correlare queste sequenze rispetto che a delle illustrazioni di ambito scientifico, ovvero in termini di metarappresentazione, di raffigurazione del procedimento all’interno dell’immagine, dunque di analisi piuttosto del linguaggio che del soggetto rappresentato. Non a caso Muybridge e la sequenza sono stati appunto recuperati da numerosi artisti dai movimenti artistici degli anni sessanta e settanta del Novecento, proprio per metterne alla prova, per decostruirne, il presunto carattere oggettivo o totalizzante. Intese come elementi metalinguistici, le inclusioni sono l’evidenziazione di quello che oggi viene chiamato il “dispositivo”, ovvero l’azione strutturante dello strumento. Il critico e saggista statunitense Jonathan Crary ci ha illustrato da tempo l’incidenza sulla percezione delle strumentazioni ottiche e fotografiche degli inizi prima e poi

Nel 1881 pubblica a tiratura molto limitata una prima serie di 174 immagini con il titolo The Attitudes of Animals in Motion nella quale le sequenze fotografiche sono finalmente sufficientemente leggibili. In esse, l’istante in realtà è registrato in modo diverso da come lo intendiamo solitamente: esso è parte di una successione, e non ha tanto valore in quanto momento irripetibile, ma al contrario come particolare di un insieme temporale ripetibile. La posizione non è significante in sé, ma è legata al momento precedente e contiene già il seguente come suo sviluppo inevitabile. Lo contiene a tal punto, così “automaticamente” per la nostra percezione, che Muybridge non esita a volte a sostituire gli scatti venuti male o mancati con altri simili, mescolando in questo modo gli istanti, manipolando i tempi, e con essi, inconsapevolmente il tempo stesso. Tutto il senso della pretesa scientifica sta in questi paradosso: l’oggettività è un prodotto più che un risultato, un effetto presupposto più che una verifica del dato. Anche la griglia di sfondo appare più come una presunzione dimostrativa che come un’utile strumento di misurazione. È vero che Muybridge è accomunato il più delle volte a al fo-

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di tutto l’Ottocento, a partire proprio da quelle che per prime hanno voluto ricostruire il movimento: il fenachistoscopio, lo zootropio, gli stereoscopi e altro. «Crary J. Techiques of the observer - On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, 2007». Né la visione è una funzione disincarnata, né il dispositivo è neutro rispetto ad essa. Ecco dunque che la batteria di macchine fotografiche condiziona sia la ripresa che la visione: la scansione delle posizioni determina la percezione del flusso, la continuità viene scomposta in istanti ed elementi discontinui. La continuità è pertanto visivamente, ma soprattutto linguisticamente inafferrabile. D’altro canto la discontinuità permette di vedere con precisione il moto come mai prima di allora. Così i Meissonier e i Degas, grandi pittori di cavalli in corsa, dovranno prenderne atto e correggere gli errori nelle loro rappresentazioni.

La fotografia mostra ciò che l’occhio non riesce a cogliere, vede di più, vede meglio, più precisamente: è ciò che, con un’espressione mutuata dal filosofo Walter Benjamin, viene definito “inconscio ottico”. Ma essa ci mostra le cose anche con una modalità diversa da quella dell’occhio, che ha i suoi limiti fisiologici. La visione è inscindibilmente legata alla cultura e alla memoria di ognuno. E ancora, la ripresa fotografica cristallizza nell’immobilità ciò che è invece in divenire perpetuo; essa è sempre a disposizione per essere riguardata a piacere e osservata in dettaglio, ingrandita e analizzata fin nei più microscopici dettagli. Prima ancora che del movimento, l’immagine fotografica si presenta come l’espressione dell’immobilità. A seguito della pubblicazione dei suoi lavori, Muybridge inizia inizierà ben presto dei tour di conferenze per pre-

Eadweard Muybridge: Cockatoo in flight (1887)

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mento con altre macchine fotografiche che riprendono la scena da diversi punti di vista. La sequenza finisce così col presentarsi in qualche modo “montata” con l’inserimento appunto di alcune di queste altre angolazioni, rompendo ulteriormente la continuità del movimento, ma al tempo stesso restituendolo in maniera più articolata.

sentare al pubblico i risultati delle sue sperimentazioni. Nel 1881 è a Parigi dove incontra Marey e anche Ernst Meissonier, il pittore classicista che, prendendo atto dei suoi precedenti errori, diventerà suo strenuo difensore. Le conferenze hanno grande successo e gli procurano committenze per proseguire le sue sperimentazioni. Prima all’Università di Pennsylvania, poi quella a quella di Philadelphia, Muybridge mette a punto dispositivi sempre più perfezionati, migliorando la qualità delle immagini ormai diventate ineccepibili per gli standard dell’epoca, e in particolare arricchisce la batteria parallela al movi-

Avendo ora ricchi committenti e grande disponibilità di mezzi, Muybridge arriva a scattare fino a 600 lastre al giorno, accumulandone ben presto centinaia di migliaia. Comincia allora a selezionarle, ordinarle e classificarle, finché

Eadweard Muybridge: Animal Locomotion (1882 –1885)

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nel 1887 pubblica la sua grande opera: Animal Locomotion, con ben 781 tavole di grande formato, ciascuna composta dai 12 ai 36 scatti, per un totale di 19.347 immagini. Il formato della prima edizione, composta di 11 album, è di 63 centimetri per 49. Restano oggi solo 27 esemplari dell’edizione completa, mentre altri sono stati venduti come singoli album o gruppi di tavole separate. Contrariamente a quanto indicato dal titolo, il soggetto principale di Animal Locomotion è l’essere umano. Viene perciò da chiedersi se ci sia nel titolo una connotazione positivista nel senso che l’uomo vada inteso come “animale”, in quanto essere animato al di là di psicologie e spiritualismi. Ma non sembra questo il caso, perché l’intento scientifico qui è ancor meno marcato che nel precedente The Attitudes in Animals in Motion, anzi, come è stato notato dai critici e storici della fotografia, l’autore indugia sovente in scene strane: un mulo che prende delle campanelle tra i denti, una madre che sculaccia un bambino, nonché nudi femminili in pose frivole o perfino audaci.

Altro aspetto che ci sembra interessante mettere in rilievo è che la raccolta Animal Locomotion non è più un catalogo ad uso degli artisti, pittori e scultori in sostituzione dei modelli utilizzati nei decenni precedenti, ma è da considerarsi una sorta di opera d’arte a sé stante. Non appare audace o anacronistica l’affermazione che definisce il libro né illustrativo né dimostrativo. Esso è il destinatario eccellente delle immagini e il vero strumento del proposito estetico specifico di Muybridge. Oggi diremmo che il libro non è un catalogo ma un “Atlante”, con rimando allo storico Aby Warburg che ha messo in evidenza il modo peculiare con cui le immagini sono tenute insieme. Dunque apice della rappresentazione naturalista, dicevamo. L’osservazione non è scontata: da un lato certamente, Muybridge è ancora situato in un particolare contesto storico estetico e mira a una completezza e veridicità della rappresentazione, cercando di fare con la fotografia meglio di quanto potesse fare la pittura; ma dall’altro lato la sua ricerca lo porta ad andare oltre, a rompere le regole formali del naturalismo, così da non esitare, come dicevamo, a fare appello a una ricostruzione “illusoria”, o ancora meglio, a fare i conti con essa, con la sua necessità insita nella sequenza e nella discontinuità.

Anche se Muybridge non è mai stato esplicito sull’argomento, l’intento artistico rivela invece qui un ulteriore lato interessante: le tavole di Animal Locomotion appaiono come la manifestazione di un progetto estetico in cui la fotografia in sequenza vuole restituire non solo il movimento ma la tridimensionalità, e con essa una completezza “scultorea”, che l’immagine bidimensionale, dunque la pittura o la fotografia singola, non hanno: viene così marcata una nuova frontiera della rappresentazione realistica. Questi corpi, che non si muovono più soltanto parallelamente alla batteria di macchine fotografiche ma si muovono circondati da altre fotocamere, sono l’esatto opposto dei “panorami”: adesso lo sguardo ruota intorno all’oggetto invece che ruotare su se stesso.

Così facendo, Muybridge apre fronti nuovi nell’ambito della rappresentazione e di un’arte contemporanea che va al di là del realismo ottocentesco. Anche in questo senso l’artista non solo non è “analitico-scientifico”, ma si inserisce in quel “cambio di paradigma” indicato da Crary, quello cioè che ha visto il passaggio da un osservatore unificato e legato al referente esterno ad uno decentrato, attivo, separato, e a un’immagine metonimica piuttosto che metaforica. L’illusione, lungi dall’essere l’errore de-

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nunciato dai filosofi, si fa elemento e fattore costruttivo. In che modo i nuovi dispositivi sono in rapporto con il movimento e le sequenze con le immagini ferme? In una recente mostra milanese dedicata al fotografo essi vengono raccontati in due film realizzati da Paolo Gioli, che su Muybridge e Marey ha lavorato per lungo tempo. Strumenti che mettevano in moto le immagini ne esistevano già da tempo e si erano moltiplicati agli inizi del XIX secolo, e li abbiamo già nominati: taumatropi, ruote di Faraday, fenachistoscopi, stroboscopi, zootropi. Muybridge avverte da subito la necessità di applicare le sue sequenze al più avanzato di tali meccanismi, il fenachistoscopio, che elabora in una sua versione più perfezionata, lo zooprassinoscopio, che mostra durante le sue conferenze negli Stati Uniti e in Europa riscuotendo grande curiosità e successo. Composto da un disco rotante su cui è stampata la sequenza di immagini disegnate, la sua proiezione continua in moto circolare genera l‘animazione delle figure. L’effetto è da molti considerato strabiliante: “Mancava solo il rumore degli zoccoli sull’erba e magari, ogni tanto, quello delle narici che espellono aria, per far credere allo spettatore di avere davanti dei destrieri in carne e ossa”, riporta un giornalista dell’epoca. Successivamente Muybridge presenta perfino delle immagini colorate a mano.

dall’illusione e dal contenuto di ciò che guardiamo; l’altra è quella della consapevolezza del funzionamento della macchina. Questo strano effetto sincopato, che il movimento surrealisti, Max Ernst in testa, assimilerà al sogno e all’allucinazione piuttosto che alla visione diretta, realistica, è il nucleo dell’antimodernismo insito nelle origini del modernismo stesso, la sconfessione della pretesa di uno sguardo disincarnato e immediato. Ecco come l’illusione diventa un altro aspetto dell’inconscio ottico; attraverso di essa si vede altro, ma diversamente: non come si crede che si dovrebbe vedere, ma nel modo in cui già si vede: il movimento dell’immagine è il movimento come lo percepisce lo sguardo, ovvero quel guardare complesso che non è riducibile a una visione, oggettiva, diretta, presunta continua. Duchamp aveva evidenziato l’enigma di quella temporalità, cioè di quella modalità di cogliere il tempo: nel passaggio da una posizione all’altra avviene una trasformazione del corpo in movimento; quello che noi cogliamo come tempo e come movimento è in realtà la manifestazione visiva di una trasformazione, di un “passaggio”, da uno stato a un altro. L’espressione “inconscio ottico” a cui Franco Vaccari ha aggiunto la versione di “inconscio tecnologico” qui va perfettamente a pennello: non solo vedere di più, ma anche diversamente e anche secondo l’inconscio.

Ma qual è realmente l’effetto visivo di questo strano, ancora impreciso movimento composto di scatti discontinui? Un palpito, un battito, piuttosto una pulsazione che una vera continuità; qualcosa che certamente nasce dall’imprecisione tecnologica, ma nel senso e nel modo in cui è costituita, dal fatto cioè che da questa continuità fatta di discontinuità siamo messi in quella relazione doppia evocata dalla storica dell’arte Rosalind Krauss: una è quella dell’identificazione immaginaria in cui ci si lascia prendere

Il cavallo di Muybridge fa parte di quella genia di cavalli dell’arte che sono proprio simboli della natura nel senso più ampio dell’animalità, e poi della libertà, e infine, con il cavaliere in groppa, del dilemma appunto della reciprocità tra chi guida e chi è guidato, tra inconscio e io. Se l’accanimento positivista di verifica e misurazione è un modo per rivendicare il controllo dell’uomo sull’animale, l’impostazione artistica considera invece la dialettica tra i

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Étienne-Jules Marey: Fusil photographique (1882)

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due. Potremmo dire che la cronografia, mentre fotografa il movimento, rivela il movimento della fotografia, il moto e la discontinuità nascosti che la sottendono. La cronofotografia non è un cinema non ancora realizzato, né una prova scientifica mancata, ma la loro stessa “verità”.

mento per la ricerca fisiologica, dove Marey porta avanti le sue indagini cronofotografiche dei movimenti utilizzati da esseri umani e animali in varie forme di attività. Tali sequenze saranno successivamente registrate su lunghi rotoli di carta e, poi infine su pellicola in rullo in modo da permetterne, a partire dal 1892 la proiezione.

Negli anni 1890 Muybridge ormai è comunque riconosciuto universalmente come un pioniere della cronofotografia ma nel 1895 nasce il cinema e i risultati delle sue sperimentazioni diventeranno improvvisamente e rapidamente obsoleti e saranno oscurati dal nuovo mezzo tecnologico.

L’eredità della cronofotografia influenzerà in tempi recenti il fotografo spagnolo Xavi Bou che con le sue “Ornitografie” cattura immagini dinamiche di uccelli in movimento e utilizza la manipolazione digitale per visualizzare le loro rotte di volo come nastri scorrevoli e contorti. Il fascino di Bou per gli uccelli è iniziato durante l’infanzia e, man mano che la sua passione si è sviluppata, si è interessato a mostrare le forme sfuggenti create dalle traiettorie di volo. Utilizzando telecamere che scattano a 30 o 60 fotogrammi per secondo Bou cattura fino a 600 di immagini sovrapposte l’una sull’altra per mostrare il movimento che viene creato dal volo. I risultati appaiono come nastri neri o doppie eliche e forniscono una visione accattivante della mentalità di gruppo della fauna selvatica in transito. Tecnologia e scienza, arte e creatività si combinano per creare immagini evocative che mostrano la sensualità e la bellezza dei movimenti degli animali in volo.

Gli esperimenti di Muybridge spingono il professor Étienne-Jules Marey ad applicare l’approccio fotografico alle proprie ricerche ed esperimenti. Egli costruirà diverse macchine fotografiche progettate per registrare una intera serie di cronofotografie su un singolo negativo. Il suo primo apparecchio, costruito nel 1882, consiste in una fotocamera a lastra dotata di un disco rotante azionato da un motore a molla corredato di un otturatore formato da una serie di aperture regolarmente distanziate. Il successivo sviluppo introdotto da Marey è la progettazione di un “fucile fotografico” che registra una serie di immagini di un soggetto in movimento e le registra separatamente su una unica lastra. Sul fucile è montata una piastra circolare con 12 aperture intorno alla sua circonferenza. Premendo il grilletto della pistola, un meccanismo ad orologeria fa ruotare i dischi. Il risultato è una lastra con 12 fotografie separate che mostrano momenti successivi del soggetto in movimento. Tale dispositivo sarà in grado di registrare con successo cronofotografie di uccelli in volo con un tempo di posa di di circa 1/700 di secondo. Nel 1883 il governo francese istituisce a Parigi un diparti-

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Étienne-Jules Marey: Soldat marchant (1883)

Étienne-Jules Marey: Pélican volant (1887)

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Xavi Bou: Ornitografie (2015–2020)

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L’ATTIMO FUGGENTE


ESPLOSIONI D’AUTORE sioni durante i primi test nucleari americani. La peculiarità del Rapatronic è quella di avere un otturatore composto da due filtri montati a 90° uno rispetto all’altro in modo da poter bloccare tutta la luce. Nel corso dell’esposizione tali filtri vengono fatti ruotare rapidissimamente per permettere il passaggio della luce stessa.

Harold Eugene Edgerton nasce in Nebraska nel 1903 e diventa nel 1934 professore di ingegneria elettronica al Massachusetts Institute of Technology. Le sue sperimentazioni in ambito fotografico cominciano nel 1932, ma è a partire dal 1937, quando inizia un rapporto di lunga durata con il fotografo statunitense di origine albanese Gjon Mili, che le sue ricerche assumono un carattere unico. I due utilizzano apparecchiature stroboscopiche e particolari tipi di flash elettronici che danno loro modo di produrre fotografie mai viste prima. Grazie alla tecnica del multiflash la luce arrivava a lampeggiare fino a 120 volte al secondo, producendo cosi fotografie di impatto enorme in grado di registrare mutazioni ed eventi così veloci da risultare impercettibili all’occhio umano. Grazie alle tecniche elaborate nel corso degli anni Edgerton riesce a catturare immagini dello scoppio di una serie di palloncini in diverse fasi della loro esplosione o di un proiettile mentre impatta con una mela.

Fondamentale anche il suo lavoro per sviluppare la tecnologia sonar a scansione laterale, utilizzata per eseguire la scansione dei fondali marini alla ricerca di relitti. Edgerton collabora anche con il grande naturalista e divulgatore Jascques Cousteau, fornendo l’attrezzatura adeguata per poter eseguire degli scatti subacquei per mezzo di flash elettronici. Proprio mentre lavora assieme all’esploratore francese viene ribattezzato Papa Flash, soprannome che manterrà per il resto della sua vita. Edgerton si spegne nel 1990, all’età di 86 anni. Le sue fotografie, che gli sono valse l’appellativo di “uomo che sa fermare il tempo”, sono inconfondibili. Nei suoi scatti rivela l’emozione di immobilizzare il movimento, per coglierne l’attimo fuggente ed invisibile all’occhio umano.

Considerato un pioniere viene insignito con diversi premi. Nel 1934 è premiato dalla Royal Photographic Society, mentre nel 1941 e nel 1969 è premiato dal Franklin Institute. Edgerton collabora con Kenneth J. Germeshausen, già suo compagno di corso all’università, ed Herbert Grier, fondando la “Edgerton, Germeshausenm, e Grier”. Tra gli anni ‘50 e ‘60 la società evolve i suoi interessi principali nel campo dell’energia atomica iniziando a collaborare assiduamente con il governo statunitense. Proprio a questo proposito Edgerton, aiutato da Charles Wykoff, sviluppa una nuova fotocamera che prende il nome di Rapatronin (Rapid Action ElecTronic). Questo apparecchio fotografico , capace di esporre le immagini in un tempo di soli 10 nanosecondi, sarà utilizzato principalmente per registrare gli effetti e la dinamica delle esplo-

Harold Doc Edgerton: Bullet Passing Through Three Ballons (1959)

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Ori Gersht, eclettico artista israeliano di nascita, ma inglese d’adozione ha studiato in alcune delle più prestigiose università di Londra e attualmente insegna fotografia alla University for the Creative Arts di Rochester, nel Kent. Recentemente una sua mostra presso il Museum of Fine Arts di Boston, dal titolo Ori Gersht: History Repeating, ripercorre la storia del secolo scorso attraverso evocativi paesaggi. Ma le sue opere più suggestive sono probabilmente quelle basate sulle esplosioni di elementi naturali.

vaso ma dello specchio sul quale esso si riflette. L’immagine, dapprima immobile, improvvisamente si frammenta e decompone davanti agli occhi dello spettatore. Principi simili si ritrovano nell’opera Pomgranate del 2006, ispirata allo stile pittorico spagnolo Bodegon diffusosi nel XVII secolo: in questo caso il video mostra un proiettile al rallentatore che disintegra un melograno sospeso con un filo, all’interno di una natura morta. Con una spaccatura netta con la tranquillità dell’ambientazione, i chicchi e il succo esplodono al rallentatore, schizzando intorno i loro frammenti organici accesi di forti colori.

Nelle serie Time after Time e Blow Up del 2007, ricchi vasi pieni di fiori su uno sfondo nero appaiono su un monitor ingannevolmente incorniciato come un quadro, imitando le nature morte di Jan Van Huysum, pittore olandese del XVIII secolo. I vasi, precedentemente congelati in azoto liquido, vengono ripresi in uno slow-motion estremo mentre esplodono. Pezzi di vetro, acqua, petali variopinti e fumo invadono molto lentamente lo spazio visivo. La serie On Reflection del 2014 non prevede l’esplosione del

Nella concezione dell’artista c’è la netta contrapposizione fra la calma perfetta della pace e la brutalità distruttiva della violenza e l’inaspettata corrispondenza di quest’ultima con un’immagine di vivida bellezza. Entrambe rivelate allo spettatore dal medesimo brevissimo e improvviso istante dello scoppio. L’evocazione romantica del sublime, ispirata ai dipinti di Turner e Friedrich si incontra qui con

Harold Doc Edgerton: Bullet Through Apple (1964)

Ori Gersht: Pomegranate (2006)

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il ricordo personale dell’infanzia in Israele segnata dalla Guerra del Kippur; e non è casuale il fatto che rimon in ebraico significhi sia melograno che granata e che il rosso vivo dei suoi frammenti richiami la crudissima immagine di uno spargimento di sangue. Appare inoltre forte il richiamo all’immagine di Harold Doc Edgerton Bullet Through Apple, universale icona del movimento istantaneo ripreso e congelato per sempre nel tempo “Sono interessato a quelle opposizioni di attrazione e repulsione, a come il momento della distruzione nei fiori che esplodono diventi per me il momento della creazione”, ha inoltre spiegato Gersht al New York Times. Insomma, di fronte a queste opere c’è ampio spazio per filosofeggiare. Però, spogliandole da tutti questi profondi significati e rimandi intellettuali, le immagini di Gersht rimangono ancora davvero speciali. Anche guardate sul piccolo schermo di un computer o in una fotografia che immortala un singolo istante del processo. Con l’immaginazione si possono sentire il profumo dei fiori, il bagnato delle gocce d’acqua, le schegge di vetro appuntite, il fumo denso che avvolge e il succo di melograno che cola. Ori Gersht: Material B03 - On Reflection (2014)

E il ritratto di ogni istantanea, che congela un singolo frammento di quell’incredibile e velocissimo movimento, è diverso dall’altro e di una bellezza che incanta. L’essenza intima del soggetto si rivela alla vista dello spettatore nell’incontro di tempo, violenza e realtà.

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Ori Gersht: Time after Time - Blow Up (2007)

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LO STRANO CASO DI DALÌ ATOMICUS Salvador Dalí, probabilmente il principale artista surrealista del ventesimo secolo, è universalmente noto per le sue oniriche immagini di orologi molli e per le sue eccentricità: alla fine degli anni ‘40 portava a passeggio un’antilope o un formichiere per le strade di Parigi. Philippe Halsman, di origine lettone e naturalizzato americano è stato uno dei principali fotografi ritrattisti della sua era. Dal 1948 sviluppa una tecnica di ripresa che avrebbe definito jumpology. Fotografando i suoi soggetti mentre saltano in aria ritiene di poterne catturare la vera personalità. “Quando chiedi a una persona di saltare la sua attenzione è rivolta principalmente all’atto stesso, la maschera cade e la persona reale si rivela” ha dichiarato Halsman.

come appare. Per ogni ripresa, un assistente lancia un secchio d’acqua da sinistra mentre altri tre lanciano i gatti da destra, nel momento esatto in cui Dalí balza in aria. Saranno necessarie 28 riprese e più di 6 ore per perfezionare la composizione, scattare le foto, sviluppare i negativi e ripetere il processo. Tra una ripresa e l’altra la figlia di Halsman deve calmare e asciugare i gatti e gli assistenti ripulire il pavimento mentre il fotografo sviluppa la pellicola per verificare la riuscita dello scatto. In seguito, la serie delle immagini non riuscite saranno pubblicati sulla rivista Life, mostrando le corde che tengono in aria gli oggetti, i salti scomposti di Dalí e i lanci maldestri degli elementi nella scena. Il dipinto di Dalì intendeva interpretare il mito greco di Leda e il Cigno associandolo alle recenti innovazioni scientifiche della ricerca quantistica in ambito nucleare.

L’affollata galleria di personaggi del mondo dell’arte e dello spettacolo ripresi in volo sarà poi pubblicata con successo nel Philippe Halsman’s Jump Book del 1959. Halsman, interessato al surrealismo, ben presto inizia una lunga e proficua collaborazione artistica con Dalí. L’opera Dalí Atomicus del 1948, frutto di questa frequentazione, rimane una delle immagini fotografiche più famose del XX secolo. Utilizzando una fotocamera reflex a doppio obiettivo di formato 4×5 pollici da lui stesso progettata, Halsman cattura in questa immagine fotografica la bellezza nella simultaneità di movimenti complessi e nella composizione di elementi imprevedibili: Dalí, una sedia, un cavalletto, tre gatti e uno schizzo d’acqua sospesi a mezz’aria. La fotografia utilizza una quantità limitata di ritocco: il cavalletto è effettivamente sospeso per mezzo di una corda e la sedia è sostenuta dalla moglie di Halsman, Yvonne. Successivamente questi elementi saranno rimossi e verrà inserito il dipinto sul cavalletto centrale dipinto da Dalì direttamente sulla stampa. Tutto il resto è esattamente

Jacques-Henri Lartigue: Sala au Rocher de la Vierge, Biarritz (1927)

Forse influenzata da una precedente immagine di Jacques Henri Lartigue, Dalí Atomicus è esposta in molte delle principali gallerie di tutto il mondo dimostrando che l’apparentemente impossibile può essere fotografato.

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Philippe Halsman: DalĂŹ Atomicus (1948)

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IL MOVIMENTO MOSSO tografo tedesco Michael Wesely che gli hanno permesso di catturare esposizioni straordinariamente lunghe di città, architetture, nature morte, interni e ritratti, arrivando a tempi di esposizione di interi mesi e perfino anni. Per catturare le sue fotografie Wesely usa speciali fotocamere autocostruite. “Il tempo è il veicolo che utilizzo per arrivare alla creazione delle mie immagini”, ha spiegato. L’estrema durata dell’esposizione porta a uno spostamento della percezione. Non conta più solo il soggetto, che spesso è una presenza più invisibile che visibile, semplicemente incombente, ma soprattutto elementi periferici come la luce, il movimento e gli agenti atmosferici. Nel 1997 con una speciale fotocamera a foto stenopeico inizia a esplorare i principali progetti di costruzione urbana intorno a Berlino e successivamente lo sviluppo architettonico di Potsdamer Platz negli anni successivi alla caduta del muro. Nel 2001 il Museum of Modern Art di New York lo invita a documentare le attività di ristrutturazione dell’edificio. I tempi di esposizione arriveranno in questo caso anche a raggiungere i 34 mesi complessivi testimoniando il mutamento dello spazio durante la demolizione e la ricostruzione del museo. Questo approccio originale conferisce alle architetture un aspetto fantasma, mentre le strisce chiare sullo sfondo sono le tracce che il sole ha lasciato nel cielo spostando la sua traiettoria centinaia di volte con l’avvicendarsi periodico delle stagioni. Wesely applica la sua tecnica anche allo still-life e ai ritratti con esposizioni rispettivamente di alcuni giorni e alcuni minuti.

Un altra tecnica a disposizione dei fotografi offre un validissimo mezzo di espressione e raffigurazione dello scorrere del tempo: la fotografia del mosso. Catturando l’intera fase di un movimento con tempi di esposizione prolungati viene a ricrearsi una scia dell’oggetto o della persona ritratta. L’uso del mosso è stato spesso utilizzato dai futuristi per rappresentare la velocità e lo spostamento. Temi molto cari al movimento e agli artisti che ne hanno fatto parte, in particolare ad un suo esponente di rilievo lo scrittore, regista e fotografo Anton Giulio Bragaglia. Insieme ai fratelli Arturo e Carlo Ludovico egli si dedica alla sperimentazione di tecniche innovative fotografiche e cinefotografiche, concentrandosi soprattutto sulla fotodinamica. Agli intensi rapporti tra Futurismo e fotografia è stata dedicata nel 2009 una mostra a Firenze presso il Museo Nazionale Alinari curata dal critico dell’arte Giovanni Lista, uno dei massimi esperti in materia. L’uso del mosso si è sviluppato lungo tutto il processo storico della fotografia, affascinando un notevole numero di artisti. La dinamicità delle forme, il mescolarsi dei colori, la fusione indistinta degli elementi, la trasparenza, la cattura dell’essere in divenire, l’accumulo della luce nel tempo rappresentano temi incredibilmente stimolanti per la ricerca formale ed espressiva. Il mosso può interpretare l’inconscio, l’ineffabile, il mistero, il sogno, il passaggio fugace, la mortalità, i fantasmi dell’anima di ognuno. Degni di nota a tal proposito, sono da segnalare gli onirici autoritratti di Francesca Woodman, le espressioniste corride spagnole di Ernst Haas e i surreali ritratti in interno della coppia di artisti concettuali Anna e Bernhard Blume.

Il russo Alexey Titarenko è un altro fotografo che mette al centro della sua ricerca formale il passare ineffabile del tempo. Sono celebri le sue fotografie della serie The City of Shadows con ambienti urbani dove nessun individuo è realmente visibile e le figure si muovono come fantasmi.

Senz’altro uniche, per via dell’esasperazione tecnica portata alle estreme conseguenze, sono le fotografie del fo-

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Michael Wesely: Stilleben (2005)

Alexey Titarenko: The City of Shadows (2016)

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Anton Giulio Bragaglia: Salutando (1911)

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Anton Giulio Bragaglia: Violoncellista (1913)

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Ernst Haas: Bullfight, Spain (1956)

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Ernst Haas: Bullfight, Spain (1956)

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Minor White: Movement Studies Number 56 (1949)

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Francesca Woodman: Space, Providence – Rhode Island (1975)

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Anna & Bernhard Blume: Mahlzeit (1989)

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Anna & Bernhard Blume: Mahlzeit (1989)

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“LEGGERMENTE FUORI FUOCO” Quelle dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944) sono probabilmente tra le fotografie di guerra più celebri di tutto il XX secolo. Il regista americano Steven Spielberg si è ispirato esplicitamente a quelle per girare le scene introduttive del suo film Saving Private Ryan del 1998. Vengono definite le Magnificent Eleven, le “magnifiche undici”. Di quei quattro rullini da trentasei pose ciascuno, infatti, solo undici esemplari si sono salvati in fase di sviluppo. Oggi ne restano, però, soltanto otto, conservati presso l’International Centre of Photography di New York.

americano che per primo andrà all’assalto della spiaggia della Normandia francese denominata con il nome in codice di Omaha Beach. Questa azione militare sarà determinante per la riconquista dell’Europa da parte delle forze alleate che porterà alla fine del regime nazista. Il fotografo documenta la difficilissima operazione, che provocherà ingenti perdite tra le truppe americane, riuscendo a scattare in due ore oltre 100 immagini con le sue Contax II. Alla debole luce dell’alba le coste della Francia gli si presentano cupe e inospitali sotto i colpi delle mitragliatrici che sparano dai bunker tedeschi, ma, come lui stesso scriverà, quello che gli si era presentato davanti agli occhi era

L’autore delle immagini, il famoso fotografo di origine ungherese Robert Capa (Friedmann Endre Ernö) ha da sempre incarnato la figura romantica del fotoreporter pieno di talento e temerario, che lavora pericolosamente sui campi di battaglia per documentare e raccontare la guerra. Stabilitosi a Parigi dopo un periodo berlinese, Capa inizia la sua carriera come corrispondente durante la guerra civile spagnola dal 1936 al 1939. Celebre e controversa è la sua fotografia nota come The falling soldier o Death of a loyalist soldier che immortala il momento dell’uccisione in azione di un soldato repubblicano. In Spagna incontra lo scrittore americano Ernest Hemingway e ne diventa amico. Capa pubblicherà per anni le sue immagini sui più importanti periodici del tempo, tra cui il Picture Post, Collier’s e soprattutto Life. Nel 1947 Capa è socio fondatore, insieme ai fotografi Bresson, Vandivert, Seymour e Rodger dell’agenzia fotografica Magnum. Fondata su base cooperativa, l’agenzia è diventata un forte punto di riferimento per il fotogiornalismo di qualità su scala mondiale. Il 6 giugno del 1944 Capa segue lo sbarco del sedicesimo reggimento della prima divisione di fanteria dell’esercito

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più che sufficiente per un fotografo: “i soldati immersi fino alla cintola con i fucili pronti a sparare, le difese d’acqua antinvasione e la spiaggia avvolta nel fumo sullo sfondo…”. Le foto dello sbarco vengono pubblicate in sette pagine sulla rivista Life il 19 giugno. Il sottotitolo recita: “La fatidica battaglia per l’Europa è cominciata via mare e aria”. Alcune delle fotografie vengono descritte in didascalia come “leggermente fuori fuoco” spiegando che Capa per l’emozione ha mosso la sua fotocamera durante le riprese. Il fotografo successivamente negherà tale accadimento, anche se ammetterà che, durante lo sbarco, le sue mani spesso tremavano, rendendo così difficile l’operazione di caricamento della pellicola nella fotocamera. Tali didascalie, alle quali si è ispirato Capa per il titolo del suo diario-romanzo “quasi” autobiografico Slight out of focus, pubblicato nel 1947, sono alla base di una storia controversa. Il fotografo riesce a far recapitare alla redazione di Life a Londra i rulli impressionati dove li attende il picture editor John Morris ansioso di pubblicare quanto prima. Per la fretta il tecnico di laboratorio Dennis Banks provocherà lo scioglimento di gran parte dell’emulsione dei negativi regolando in maniera eccessiva la temperatura dell’impianto di asciugatura per accelerane il processo. Questa versione dei fatti è stata in parte contestata e potrebbe non corrispondere alla piena verità, ma al di là del fatto che solo poche immagini di uno dei più importanti eventi della storia moderna si siano salvate, quello che importa è l’impatto emozionale che esse esprimono, la concitazione dei soldati, la furia della battaglia, l’ambiente ostile, rappresentando un esempio di fotogiornalismo elevato ad un livello espressionistico forse insuperabile. Robert Capa: D-Day, Omaha Beach (1944)

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IL TEMPO PROLUNGATO Il tempo di scatto e’ tecnicamente la durata del periodo in cui l’otturatore aperto permette il passaggio della luce verso il sensore o la pellicola all’interno della fotocamera. La lunghezza di tale periodo è quindi di fondamentale importanza in relazione all’eventuale movimento del soggetto ripreso e all’effetto finale che si vuole ottenere.

prolungate tanto da renderla icona inconfondibile del proprio stile sono Darren Moore per il paesaggio e Julia Anna Gospodarou per l’architettura. Julia è la fondatrice di (en)Visionography, che ha lo scopo di introdurre un metodo innovativo per ridefinire la fotografia fine art nell’era digitale che ponga l’accento sulla visione dell’artista e sul proprio approccio emozionale, superando le convenzioni della fotografia documentaria tradizionale. Il progetto, spiega la Gospodarou “ introduce il concetto di libertà artistica totale nella fotografia portandolo più vicino all’idea di arte”. Il suo stile è caratterizzato da toni scuri, ardite inquadrature ed effetti di esasperata volumetria.

Abbiamo già parlato in precedenza delle sperimentazioni estreme del fotografo tedesco Michael Wesely che utilizza esposizioni di eccezionale lunghezza creando strati di immagine sovrapposti in divenire, ma non esistono limiti creativi in tal senso e così l’utilizzo di un tempo prolungato può rivelare scenari nuovi e originali.

Tale visione è senza dubbio condivisa dal fotografo olandese Joel Tjintjelaar. Con una profonda passione per le lunghe esposizioni, Joel ci permette di scoprire magiche prospettive del mondo nascoste alla percezione ordinaria. Le sue immagini monocromatiche amplificano il senso di prospettiva, il passare del tempo crea effetti eterei, atmosfere misteriose e paesaggi surreali. Visualizzando l’invisibile, l’esposizione prolungata può rivelare all’occhio ciò che è visibile solo nella mente dell’autore.

In questo scenario vengo spesso utilizzati di fronte all’obiettivo dei filtri ottici speciali denominati ND (neutral density) che, sottraendo una parte della luce che proviene dal soggetto, permettono al fotografo l’utilizzo di tempi lunghi che non sarebbero altrimenti possibili. Questa tecnica, che generalmente implica l’utilizzo di un robusto cavalletto, permette di ottenere un effetto di mosso talmente accentuato da creare una resa setosa e filamentosa degli elementi naturali presenti nell’inquadratura come acqua, nuvole, alberi e foglie. Questi ultimi perdono così le loro caratteristiche di realismo, diventando oggetti dalle fluttuazioni avvolgenti, indeterminati e quasi onirici. La fotografia di paesaggio e quella di architettura si prestano molto bene all’utilizzo di tale tecnica. Gli elementi creati dall’uomo vengono ripresi nella loro principale qualità (la staticità) mentre quelli naturali accentuano oltre misura gli effetti della loro estrema mobilità.

Una ricerca espressiva ad alto grado di originalità è quella del giapponese Hiroshi Sugimoto nella sua serie Theatres. Riprendendo per oltre 40 anni cinema e teatri con tempi lunghi durante le proiezioni, egli crea delle immagini nelle quali la sala appare vuota di fronte ad uno schermo bianco. La luce contrasta gli spazi bui dell’ambiente, rendendone l’aspetto più drammatico. Il teatro diventa si fa così scena surreale, esperienza visiva diversa dal comune, che evoca sensazioni intime e nascoste, spostando le sensazioni che avremmo vedendo un’unica immagine impressa sullo schermo, su un livello più vario e profondo.

Fotografi che utilizzano così frequentemente la tecnica che prevede l’uso dei filtri ND per ottenere esposizioni

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Hiroshi Sugimoto: Theaters (1970–2015 circa)

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Joel Tjintjelaar

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Darren Moore

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MOVIMENTO E RIPETIZIONE


LA PERCEZIONE DI SPOSTAMENTO L’esperienza percettiva umana si basa sul presupposto che un oggetto visto in posizioni diverse sia in movimento nel tempo e nello spazio. La ripetizione modulare di forme simili o uguali può generare altresì uno scostamento temporale percepito ma non reale, una sorta di vibrazione spaziale apparentemente dinamica anche se in verità statica. Tale illusione ondulatoria viene utilizzata spesso dall’architettura contemporanea: elementi architettonici simili e ripetuti generano leggerezza, producendo un dinamismo maggiore della somma delle sue parti. La fotografia ha sfruttato e sfrutta questo fenomeno analizzando spesso a suo vantaggio le potenzialità dinamiche generate dall’andamento ripetitivo proprio dei pattern. Karl Hugo Schmölz, nato nel 1917 è il figlio di Hugo Schmölz, egli stesso un affermato fotografo di architettura tedesco dal quale apprende i primi rudimenti. Dopo la guerra documenta la devastazione di Colonia usando una fotocamera di grande formato di 18 x 24 centimetri. Più tardi, in collaborazione con alcuni architetti della Renania, documenterà la ricostruzione della città usando lo stesso tipo di attrezzatura. Lo stile dei suoi lavori è associato al movimento della Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività) che nasce in Germania negli anni ‘20 come reazione contro l’espressionismo. Come suggerisce il nome, essa offre un ritorno alla realtà non sentimentale e un focus sul mondo oggettivo, in contrapposizione alle tendenze più astratte, romantiche o idealistiche precedenti. Sebbene descriva principalmente una tendenza della pittura, il termine arriva ben presto a caratterizzare anche la fotografia, la letteratura, la musica e l’architettura. Piuttosto che un oggetto dell’obiettività filosofica, essa intendeva implicare una svolta verso l’impegno pratico e il confronto con il mondo reale.

Karl Hugo Schmölz: Wassermann. Haus Arag, Düsseldorf (1955)

Karl Hugo Schmölz: Siemenshaus, Bielefeld (1956)

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Nel 1956 Karl Hugo Schmölz sposa Walde Huth, lei stessa fotografa. Due anni dopo la coppia fonda uno studio di pubblicità e pubbliche relazioni chiamato Schmölz + Huth molto attivo nell’industria del mobile e della moda. Come fotografo di architettura, Schmölz dimostra un occhio particolarmente attento ed allenato a sottolineare gli aspetti migliori dello spazio inquadrato e a sfruttare al meglio le caratteristiche espressive della luce. Tra le sue fotografie di strutture architettoniche di vario genere, sono importanti le serie di immagini che Schmölz ha dedicato alle scale, con acuta attenzione alla composizione dinamica e alla successione delle stesse, affermando cosi il concetto di ripetizione come espressione e sintesi del movimento attraverso la traslazione degli elementi costitutivi lungo un tracciato a spirale che genera vibrazione, amplificando un senso di generazione infinita. Nel 1953, il fotografo tedesco Peter Keetman, specializzato in fotografia architettonica e industriale, trascorre una settimana nello stabilimento Volkswagen di Wolfsburg. Il risultato di tale lavoro è la straordinaria serie Volkswagenwerk che documenta l’intero processo di produzione. Sebbene le fotografie verranno rifiutate dai committenti, sotto l’obiettivo del fotografo le pile di parafanghi in metallo lucido tracciano linee sinuose che ricordano le conchiglie di Edward Weston, la lamiera assume vigore e leggerezza dinamica, mentre le carrozzerie sospese sopra la catena di montaggio diventano così tante sculture moderniste, raggiungendo l’astrazione di opere d’arte. La pubblicazione Volkswagen: A Week At the Factory si pone come punto di riferimento nella storia della fotografia industriale e rappresenta uno sguardo senza tempo ad un brand automobilistico diventato icona contemporanea. Peter Keetman: Volkswagenwerk (1953)

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Peter Keetman: Volkswagenwerk (1953)

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Ansel Seale: In Winter Series (2002)

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Emilio Gomariz: Extremity (2010)

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Emilio Gomariz: Extremity (2010)

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7 LUCE E MOVIMENTO


IL TEMPO DISEGNATO Il termine fotografia significa letteralmente “segno di luce”. In effetti, una fotografia altro non è che luce che si deposita nel tempo su supporto come la pellicola o il sensore digitale. Non c’è dubbio che a livello generale la pittura richieda molta più capacità artistica e manuale rispetto alla fotografia, tuttavia esiste una tecnica di ripresa nota come light painting che ricorda proprio le stesura delle pennellate di colore su una tela. Il tempo è il fattore più importante in questo contesto. Per quanto si possa pensare alla pratica fotografica come ad una attività che ha come caratteristica fondamentale la rapidità e la istantaneità nel cogliere e registrare la realtà che si presenta all’obiettività della fotocamera, i processi chimici e fisici in gioco permettono all’autore di sperimentare le differenti possibilità descrittive ed espressive che l’accumulo progressivo dell’energia luminosa sul supporto sensibile può produrre sull’immagine finale. Utilizzando un treppiedi e spostando una o più fonti di luce puntate verso la fotocamera durante una esposizione abbastanza lunga si possono creare disegni o scritte di varia natura, oppure è possibile illuminare successivamente vari soggetti all’interno dell’inquadratura utilizzando la stessa sorgente di illuminazione. Una terza variante di fotografia che sfrutta la possibilità di variazione nel tempo della luce e quella denominata stroboscopica, dove il rapido pulsare di un flash elettronico permette di registrare in rapida successione il movimento dei soggetti ripresi frazionandolo in esposizioni multiple e sovrapposte. La prima di queste due pratiche tende a produrre immagini creative e di grande impatto visivo, mentre la seconda viene prevalentemente usata per riprendere soggetti architettonici o paesaggi quando non sia agevole o possibi-

Gjon Mili: Picasso, Painting with Light (1949)

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zistica tra cui Lester Young, Barney Kessel e e Jo Jones; Eisenstaedt Photographs “The Tall Man” e Homage to Picasso.

le utilizzare apparecchiature di illuminazione multipla. La terza è senza dubbio quella più adatta per fotografie di azioni sportive e di movimento dinamico.

La serie fotografica Painting with Light, dedicata a Pablo Picasso, mostra l’accesa passione del pittore per il proprio lavoro, che traspare dalla luce nei suoi occhi, dal movimento e dal linguaggio del corpo. Quando Gjon Mili, esperto della tecnica fotografica e innovatore nel campo dell’illuminazione, nel 1949 fa visita a Pablo Picasso nel suo studio nel sud della Francia, diventa immediatamente chiaro ad entrambi che questo incontro è destinato a produrre qualcosa di straordinario. Mili mostra a Picasso alcune sue fotografie a lunga esposizione di pattinatori sul ghiaccio con alcune piccole luci apposte sui pattini, e il genio spagnolo comincia a intravedere interessanti sviluppi creativi. Gli artisti concordano dapprima una sessione fotografica di 15 minuti, ma alla fine Picasso, ormai totalmente affascinato dalle potenzialità espressive di tale tecnica, poserà per cinque sessioni, realizzando con una piccola torcia elettrica un totale di 30 opere fra cui centauri, tori, profili greci e forme astratte. Mili realizza le fotografie in una stanza buia, con due fotocamere, una per la vista laterale e l’altra per la vista frontale registrando, in maniera effimera l’estemporaneità del gesto artistico.

Importante precursore e grande sperimentatore in questo ambito è il fotografo di origine albanese Gjon Mili. Nel 1923, a soli 20 anni, Mili emigra negli Stati Uniti, per studiare ingegneria elettrica presso il Massachusetts Institute of Technology dove collabora con il professor Harold Eugene Edgerton allo sviluppo delle tecniche di fotografia stroboscopica e stop-motion. Dopo la laurea, nel 1927, inizia lavorare per la Westinghouse come esperto e ricercatore nel settore dell’illuminazione fino al 1938. Nel 1939, inizia la sua carriera come fotografo presso la rivista Life che ne aveva intuito le potenzialità. Mili lavorerà per l’importante periodico fino alla sua morte, producendo migliaia di fotografie d’azione: eventi, sport, teatro, balletti ma anche ritratti di artisti, ballerini, musicisti, atleti e attori. Con l’uso del flash stroboscopico (Il termine deriva dal greco strobòs: vortice), che emette una serie di lampi a brevissimi intervalli di tempo, la pellicola registra in una serie di immagini sovrapposte l’evoluzione di un movimento molto rapido, come un gesto atletico, un passo di danza o la gestualità di un musicista, rivelandone la bellezza intricata e il flusso dinamico dell’azione.

Gjon Mili è stato uno dei primi fotografi a utilizzare il flash elettronico per catturare e congelare il movimento rapido di persone e cose al di fuori dell’ambito esclusivamente scientifico ed accademico. Analizzando il complesso dell’attività svolta risulta evidente che la tecnica e la visione di questo artista sono sempre stati un passo avanti per la propria epoca. Il suo lavoro vivrà per sempre in quanto frutto non solo di capacità creative fuori dal comune, ma anche di un solido bagaglio tecnologico e culturale.

Sue opere come Multiple Exposure of Alicia Alonso (1944) Karamu House Performance, A Negro Art Center in Cleveland (1949), Model with Billowing Light Colored Sheer Nightgown and Peignoir (1945) o la serie dedicata al batterista jazz Gene Krupa sono di strabiliante impatto visivo. Realizzerà inoltre alcuni film su artisti tra cui Jamming the Blues, dedicato ad alcuni musicisti di primo piano della scena jaz-

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Gjon Mili: Picasso, Painting with Light (1949)

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Gjon Mili: Picasso, Painting with Light (1949)

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Gjon Mili: Stroboscopic Study (1942)

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Gjon Mili: John Borican Throwing a Javelin (1941)

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Gjon Mili: Dancer Nora Kaye Doing a Pas de BourrĂŠe (1947)

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Peter Kettman: Light Pendulum Oscillation (1952)

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Peter Kettman: Light Pendulum Oscillation (1952)

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IL TEMPO MANIPOLATO


TIMELAPSE E HYPERLAPSE Il Timelapse è una tecnica fotografica in base alla quale la frequenza di acquisizione dei fotogrammi è molto più estesa rispetto alla frequenza utilizzata per visualizzare la sequenza stessa. Quando questa viene riprodotta a velocità normale, i soggetti in movimento sembrano muoversi a velocità molto più sostenuta. I processi che normalmente apparirebbero lenti all’occhio umano, ad esempio il movimento del sole e delle stelle nel cielo, vengono accelerati. Quando la tecnica è applicata un processo che si evolve impercettibilmente e lentamente nel tempo, come ad esempio la crescita di una pianta, si crea un’impressione fluida di movimento. Viceversa quando il Timelapse esplora il fluire normale dell’attività umana (persone che si spostano, automobili, treni, o altro) si viene a creare un effetto di frenetica rapidità, spesso usata per simbolizzare la velocità dinamica della vita urbana e metropolitana.

ne sui processi di cambiamento nel cosmo. Tale tecnologia è essenziale a bordo di veicoli e stazioni spaziali, per registrare dati preziosi su determinati fenomeni come la qualità dell’atmosfera, l’aumento dell’effetto serra o i cambiamenti significativi nel sistema climatico terrestre. Il programma Extreme Ice Survey, fondato nel 2007 dal fotografo americano James Balog, è un progetto fotografico a lungo termine che intende evidenziare i cambiamenti dell’ecosistema mondiale. Un gruppo di 27 fotocamere dislocate in Antartide, Groenlandia, Islanda, Alaska, Austria e Stati Uniti registrano l’arretramento dei ghiacciai di ora in ora, producendo singolarmente circa 8000 immagini all’anno. Balog segnala l’importanza del Timelapse nel comunicare l’immediatezza del cambiamento climatico che potrebbe mancare ad altri strumenti scientifici: “Penso che il nostro apparato sensoriale più dominante sia la nostra visione ... una comprensione della realtà di ciò che accade passa meglio attraverso la visione, piuttosto che per mezzo di numeri o mappe”. Il fotografo ha illustrato i risultati del suo lavoro in una serie di presentazioni multimediali in molteplici contesti nazionali e internazionali. Questo progetto di documentazione è inoltre sintetizzato nel pluripremiato documentario Chasing Ice del 2014.

Il primo esempio conosciuto di Timelapse è quello di Arthur Clarence Pillsbury, che, alla fine del 1911, costruisce una macchina fotografica speciale e registra i movimenti dei fiori durante il loro ciclo di vita nel parco americano di Yosemite. La ripresa accelerata di fenomeni biologici viene utilizzata da Jean Comandon dal 1909, da F. Percy Smith nel 1910 e Roman Vishniac nel 1915. Come processo tecnico basato su tempi e frame rate specifici, il Timelapse può essere considerato un processo in gran parte tecnologico.

La fotografia Timelapse rappresenta il tratto di congiunzione tra fotografia e immagine in movimento. Nel cinema essa viene introdotta nel 1920 con una serie di film chiamati Bergfilme ( film sulla montagna ) di Arnold Fanck.

Chimici, astronomi e botanici spesso utilizzano la fotografia come strumento di analisi scientifica. Anna Atkins sperimenta la tecnica della cianotipia per registrare diversi tipi di esemplari di piante. Il suo lavoro British Algae: Cyanotype Impressions (1843) è ancora oggi considerato un contributo fondamentale allo sviluppo della botanica. Il Timelapse è diventato un prezioso strumento di indagi-

Il primo utilizzo cinematografico del Timelapse in era moderna è rappresentato dal film non narrativo Koyaanisqatsi (1983) diretto da Godfrey Reggio, una serie di suggestive riprese accelerate di panorami di ambienti naturali e urbani.

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E ancora, come ogni innovazione tecnologica anche la fotografia Timelapse si confronta con i cambiamenti sociali e culturali e modifica il modo in cui essa viene utilizzata e vissuta dal pubblico. Gli ultimi anni hanno certamente dimostrato che il mezzo sta crescendo in popolarità e il suo crescente utilizzo in film e video, ad esempio, ha anche

Gli elementi si uniscono e prendono forma, creano aggregati a colori diversi e disegnano trame. Il Timelapse facilita l’accesso a una prospettiva diversa, permettendo di vedere fenomeni naturali sotto una nuova luce. L’opera Breathe di Mike Olbinski segue l’evolversi di alcune tempeste. I movimenti potenti e talvolta terrificanti della natura sono

contribuito a diffondere ulteriormente la tecnica e probabilmente ad incoraggiarne l’uso in funzione espressiva. Crystal Birth di Emanuele Fornasier offre uno sguardo incantevole sulle reazioni chimiche, catturando una serie di metalli come rame, zinco, argento e stagno, mentre attraversano il processo di elettrocristallizzazione. I cristalli impiegano ore per accrescersi mentre la fotocamera cattura un’immagine alla volta, a distanza di alcuni minuti.

resi da Olbinski attraverso la rapida successione di immagini monocromatiche di tragica ed emozionante bellezza. Nel progetto SunBurn di Chris McCaw, l’obiettivo agisce da lente d’ingrandimento permettendo letteralmente al sole di bruciare il materiale sensibile lungo il suo cammino. I toni sono invertiti dalla solarizzazione dovuta all’esposizione prolungata e i soggetti diventano fisiche rappresentazioni del movimento degli astri e del passaggio del tempo.

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Chris McCaw: Sunburned (2008)

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Alcune narrazioni aggiungono una valenza di astrattismo concettuale a questa tecnica, come nel caso di Circle of Abstract Ritual di Jeff Frost, basato sui concetti di creazione e distruzione che utilizza oltre 300.000 suggestive immagini di rivolte, incendi, paesaggi naturali e urbani. L’opera dell’artista, Nobuhiro Nakanishi, presenta un approccio decisamente originale e diverso. Nel suo progetto Layer Drawings, ritrae eventi ordinari e semplici cambiamenti nella vita di tutti i giorni e stampa le fotografie scattate a intervalli regolari su lastre di vetro, prima di mostrarle come affascinanti sculture stratificate. Attraverso queste, Nakanishsi vuole esprimere il suo concetto di effimera temporalità dinamica: “Il tempo stesso non ha forma o confine e non può essere fissato o afferrato“ afferma.

logica, oggettiva per spiegare i fatti. L’arte è una costruzione di estetica espressiva, creativa, soggettiva ed emotiva. Le tecnologie digitali hanno aumentato il potenziale di collaborazione tra arte e scienza e in una certa misura hanno oscurato le linee di distinzione tra discipline. La fotografia può essere pensata come un linguaggio universale, in grado di colmare le lacune informative e raggiungere un vasto pubblico. Le immagini sono più facilmente comprensibili e possono condensare informazioni complesse. Esse possono fornire documentazione fedele della realtà, oppure raccontare una storia ed evocare una risposta emotiva da parte dello spettatore. La fotografia Timelapse si dimostra spesso più coinvolgente a livello percettivo di una serie di singole immagini fisse. Il movimento in divenire e l’interazione sonora con la colonna musicale creano una dimensione aumentata dello sviluppo della struttura temporale spesso di innegabile valenza narrativa.

Un approccio al Timelapse senz’altro innovativo e futuristico è quello che vede la collaborazione tra University of Washington e Google. Attraverso una procedura totalmente automatizzata, che sfrutta potenti algoritmi di intelligenza artificiale, sono stati acquisiti dalla rete Internet circa 86 milioni di immagini di importanti siti e monumenti mondiali. Le fotografie sono state successivamente ordinate per data e poi fuse insieme per minimizzarne le differenze. I risultati delle sequenze mostrano i cambiamenti che ghiacciai, cascate, siti archeologici, aree urbane o altro, hanno subito e subiscono nel corso degli ultimi anni.

Alcuni dei più straordinari Timelapse vengono creati spostando la fotocamera su un percorso durante la sequenza di scatto. Si produce in questo modo un cosiddetto Hyperlapse. Il movimento del punto di vista aggiunge l’elemento spaziale a quello temporale aumentando la potenza visiva dell’effetto finale. Tale movimento può essere eseguito manualmente o attraversi sofisticati sistemi di controllo che prevedono l’utilizzo di rotaie, motori, stabilizzatori, temporizzatori e persino droni. Sfruttando effetti di transizione, rapidi cambiamenti di posizione della camera, ed elementi sonori è possibile ricreare una realtà estremamente dinamica e immersiva. Dopo i primi esperimenti come Pacer di Guy Roland del 1995 il termine Hyperlapse è stato probabilmente utilizzato per la prima volta nel 2011 dal regista americano Dan Eckert e introdotto definitivamente da Shabab Gabriel nel film Behzumi nel 2012.

A un livello fondamentale, arte e scienza sono analoghi concetti di indagine: cercano di comprendere noi stessi, l’ambiente che ci circonda e il nostro rapporto con il mondo, provando a sviluppare e interpretare prospettive e dare significato all’umana esperienza. Ma esiste una dicotomia fondamentale. La scienza è una disciplina di studio metodologico: osservazione e sperimentazione analitica,

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DAY FOR NIGHT E DAY TO NIGHT Le creazioni artistiche di René Magritte sono opere imbevute di un realismo magico. Esse esplorano oggetti quotidiani, scene, persone o luoghi, ma attraverso un punto di vista completamente originale. I suoi dipinti sono diretti e audaci nella loro rappresentazione ma anche inquietanti e surreali. Popolati da visioni oniriche e fantastiche, creano un impatto drammatico ed emozionale sull’osservatore. La serie di dipinti ad olio su tela L’empire des lumières rappresenta alcune variazioni sullo stesso tema, quello di una casa in una strada fiancheggiata da alberi illuminata da un lampione solitario. Stiamo vedendo una scena diurna che è semplicemente leggermente cupa? O stiamo osservando una scena notturna illuminata? Questa è la vera originalità dell’immagine, che rappresenta il giorno e la notte fusi in una sola immagine. Il cielo luminoso appare poco invitante e freddo, anche se è illuminato e l’oscurità che circonda la casa è inquietante. L’aspetto complessivo dell’immagine è impersonale, privo di anima e sentimento. Questa freddezza e questa sensazione di disagio sono ulteriormente sottolineate dal fatto che la casa sembra essere dipinta di giorno, ma appare come durante la notte. Unica nota di speranza positiva è data dalla finestra accesa, dalla quale traspare una luce calda e accogliente. L’empire des lumières confonde l’osservatore su due livelli. L’osservatore è confuso: poiché ciò che vedono i suoi occhi non può essere vero nella vita reale, poiché il giorno e la notte non possono coesistere insieme. A un livello più profondo, la confusione è anche a livello morale. La luce rappresenta il bene e l’oscurità il male. Luce e oscurità possono esistere insieme? Forse il dipinto raffigura le forze della purezza e quelle del male e che questi due aspetti possono esistere fianco a fianco nella realtà quotidiana. Ciò che si prova mentre osserviamo questa immagine è il

René Magritte: L’empire des lumières (1953–54)

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senso dell’oscurità schiacciante, del disagio e forse l’incobere di un destino tragico e inevitabilmente drammatico. Forse la luce nella foto rappresenta intatta la purezza: il male che si nasconde, sarà di fatto battuto e scacciato. Le due fonti di luce presenti all’interno del quadro si giustappongono e lottano attraverso le emozioni dello spettatore. La luce naturale si contrappone alla luce di artificiale. Natura e uomo, demoni e angeli convivono nella tensione.

gio del 1 novembre 1941 da un’altura dell’autostrada US 48. In realtà Adams non ricorda esattatamente la data di ripresa, che è stata successivamente calcolata basandosi sugli studi degli astronomi Beaumont Newhall, David Elmore e Dennis Di Cicco, che hanno misurato l’altezza della luna in relazione alle coordinate geografiche del punto di vista. La fotografia mostra la luna che sorge sopra un cielo nero dominante una serie di modeste abitazioni, una chiesa e un cimitero, con montagne innevate sullo sfondo. La luce sulle croci scomparirà con il tramontare del sole, pochissimi secondi dopo la realizzazione dello scatto.

Moonrise Hernadez, New Mexico è senza dubbio la più famosa fotografia mai scattata da Ansel Adams, icona della fotografia di paesaggio e ancora oggi è riconosciuto come tale, a più di trenta anni dalla sua morte. Adams diceva che “L’arte ha a che fare con la bellezza” e il suo scopo era quello di elevare lo spirito. Le sue opere dimostrano genialità nella scelta del soggetto, cura maniacale nella composizione, estrema attenzione nel rendere al meglio le caratteristiche fisiche del soggetto, controllo totale sulle fasi di sviluppo e stampa. Solo attraverso un lungo ed elaborato processo di produzione, che richiede inoltre una notevole presenza di capacità tecniche, l’immagine fotografica di Adams è in grado di restituire l’emozione dell’istante catturato in tutta la sua forza, esprimendo con risultati insuperabili la visione primigenia del fotografo. In assenza di tali requisiti, secondo Ansel Adams, non è possibile trasferire la natura sulla stampa senza perderne gran parte della potenza espressiva: la bellezza del mondo sommata alla sensibilità dell’autore e moltiplicata dalla tecnica sarà invece in grado di trascendere la qualità di mera rappresentazione e farsi finalmente arte.

Lo storico dell’arte Horst Waldemar Janson ha definito l’immagine “Un matrimonio perfetto tra fotografia pura e fotografia diretta”. Moonrise Hernadez, New Mexico rappresenta una visione spirituale, redenzione dell’uomo sulla terra. La stampa è dominata da un cielo nero, con un uso inusuale dello spazio ma essenziale per lo spirito dell’immagine, solenne e imponente ma al tempo stesso meditativo e pervaso da un triste sentimento di declino. La fotografia diventerà così popolare che Adams eseguirà oltre 1.300 stampe della stessa, accrescendo successivamente la sua popolarità per gli altri prezzi raggiunti sul mercato. Nel 2006 un esemplare dell’opera, datato 1948 e stampato personalmente dall’autore, è stato battuto presso la casa d’aste Sotheby’s alla cifra di 609.600 dollari. La fase di stampa è essenziale in generale, ma in particolare lo è per questa immagine, scattata da un fotografo considerato il massimo virtuoso della tecnica di camera oscura. Seguendo la filosofia della “previsualizzazione”, teorizzata da Adams nei suoi famosi libri fotografici, il ri-

Moonrise Hernadez, New Mexico è un’immagine che Ansel riconosce subito come significativa, fin dal momento dello scatto del piccolo villaggio eseguito nel tardo pomerig-

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Ansel Adams: Moonrise Hernadez, New Mexico (1941)

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sultato finale ha richiesto notevoli sforzi per ottenere una atmosfera cupa e contrasta, con il cielo di un nero profondo. Ma tale processo di “postproduzione analogica” non deve essere inteso come un procedimento di allontanamento dalla realtà del reale, quanto piuttosto un cammino di avvicinamento alla poetica espressiva del fotografo. Il misterioso fascino del risultato è dovuto alla compresenza dei due mondi, quello diurno e quello notturno, che rimandano all’ambiguità dei dipinti di Magritte. Il momento di passaggio trasmette l’emozione della fine e dell’inizio, del trapasso e della rinascita, della fine e della speranza; contemporaneamente commuove e sgomenta.

de a raggiungere il livello di luminosità desiderato e ad introdurre una colorazione bluastra alle immagini per simulare le tipiche tonalità lunari e notturne. Tale colorazione può essere anche ottenuta tramite un opportuno controllo della temperatura colore in fase di ripresa, abbassando il livello dei gradi della scala Kelvin. Il cielo diurno, troppo chiaro per una resa verosimile, deve essere mascherato e oscurato digitalmente per simulare la notte. Può rendersi necessaria l’introduzione artificiale

Le immagini di Adams mirano a mostrare il mondo come un luogo visivamente affascinante e interessante. Spesso la bellezza di un oggetto o di una scena è evidente, ma altre volte lo splendore intrinseco si rivela solo scrutando da vicino le parti che lo compongono, osservando l’oggetto da un diverso punto di vista o sotto una luce diversa. Il suo obiettivo principale, perseguito durante i molti anni di carriera, è quello di creare immagini vive e palpitanti nelle quali si rispecchino, verso l’osservatore, le emozioni da lui stesso provate al momento dello scatto. Si definisce con il termine Day for Night l’insieme di tecniche cinematografiche utilizzate per simulare una scena notturna con riprese effettuate alla luce del giorno. Queste vengono spesso impiegate quando sia troppo difficile o costoso filmare effettivamente durante la notte. Durante le riprese la scena è generalmente sottoesposta di circa due valori EV. Un filtro a densità neutra può essere utilizzato, in modo che l’apertura di diaframma rimanga invariata. Successivamente in postproduzione si provveOn the boardwalk at night, Ocean City, Maryland (1940 circa)

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Il termine Day to Night invece si riferisce ad una particolare tecnica della ripresa fotografica Timelapse ed è considerata da molti una delle più difficili e impegnative da realizzare. Essa consiste nel fotografare una scena dallo stesso punto di vista per un tempo che può essere prolungato fino a 24 ore ed oltre per poi successivamente fondere le immagini ottenute in una sola che cattura, senza soluzione di continuità, il flusso del tempo trascorso dall’alba al tramonto fino alla notte. Maestro riconosciuto del genere è il fotografo statunitense Stephen Wilkes che è solito effettuare un numero elevato di scatti (fino ad alcune migliaia) per ogni soggetto ripreso. Il tempo di elaborazione e postproduzione può richiedere addirittura mesi per essere completato, ma i risultati catturano il senso del luogo in un modo che non può essere espresso in un singolo fotogramma. Wilkes lavora al suo progetto Day to Night da oltre 10 anni, fotografando importanti città (Parigi, Mosca, Venezia, New York) e scenografici ambienti naturali (Grand Canyon, Kenya, Tanzania, Islanda, Groenlandia). “La mia fotografia riguarda tutte le cose “, afferma Wilkes, “Il paesaggio, il colore, l’architettura, la prospettiva, la scala e, soprattutto, la storia… Usando il tempo come guida, fondo perfettamente i momenti migliori in un’unica fotografia, visualizzando un viaggio consapevole nel tempo”, afferma. E conclude “Einstein ha descritto il tempo come un tessuto che si può allungare e deformare. Anche io vedo il tempo come un tessuto, solo che prendo quel tessuto e lo appiattisco, comprimendolo in un unico piano”. Nelle sue fotografie panoramiche Stephen Wilkes introduce a volte persone o animali in movimento, impossibili da controllare, e molto spesso il risultato di tanto sforzo può essere deludente o imprevedibile, ma, conclude soddisfatto il fotografo: “La parte migliore è osservare i momenti magici dell’umanità mentre il tempo cambia”.

di elementi come la luna e le stelle, come anche di fonti di illuminazione artificiale (lampioni, finestre, fari di automobili, insegne ad altro) e l’introduzione di una desaturazione generale che è tipica della visione umana notturna. Poiché le migliori videocamere professionali attualmente in uso presentano una estesa gamma dinamica, basso livello di rumore e alti livelli in termini qualità in condizioni di ridotta luminosità, le riprese Day for Night sono diventate meno comuni nella cinematografia degli ultimi anni. Questa tecnica, a volte preferita da importanti registi per considerazioni artistiche e creative, si ritrova con memorabili esempi lungo tutta la storia del cinema. Per citarne alcuni di epoca recente: Jaws di Steven Spielberg del 1975, Mad Max del 1979 di George Miller, Blade Runner del 1982 di Ridley Scott, Cast Away del 2000 di Robert Zemeckis, Blade Runner 2049 del 2017 di Denis Villeneuve. Ed è curioso notare che il termine Day for Night è il titolo inglese di La Nuit américaine (titolo italiano: Effetto Notte), film francese del 1973 diretto dal cineasta François Truffaut. Considerato uno dei migliori del regista ed inserito nell’elenco dei 100 migliori film del secolo dalla rivista Time, si svolge durante le fasi di una produzione cinematografica. Dietro la cinepresa si sviluppano le storie degli attori, della troupe tecnica e del regista stesso. Nel campo strettamente fotografico, per interesse storico, si può segnalare l’uso di un processo di Day for Night in alcune cartoline illustrate colorate a mano. L’enorme diffusione della pratica della colorazione delle fotografie, nei decenni precedenti all’avvento della fotografia a colori, ha portato a risultati singolari in alcune immagini in bianco e nero che potevano essere tinteggiate in due versioni decisamente diverse: quella diurna e quella notturna.

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H. David Stein: Day for Night (2013)

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H. David Stein: Day for Night (2013)

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Stephen Wilkes: Coney Island, Brooklyn (2011)

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Stephen Wilkens: Serengeti, Tanzania (2015)

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BULLET TIME E SLITSCAN L’effetto Bullet Time viene ottenuto grazie a una serie di fotocamere fisse che circondano il soggetto e vengono attivate con un breve ritardo, o tutte contemporaneamente, a seconda dell’effetto desiderato. I singoli fotogrammi di ciascuna camera vengono quindi visualizzati in sequenza per produrre un punto di vista orbitante di un’azione congelata nel tempo. Prima e ultima fotocamera sono generalmente delle videocamere che riprendono l’azione in divenire prima e dopo la rotazione. Inoltre, utilizzando sofisticati software di interpolazione, è possibile inserire fotogrammi aggiuntivi per rallentare ulteriormente l’azione e migliorare la fluidità del movimento. Questa tecnica affascinante è ormai enormemente diffusa anche nell’ambito della riprese pubblicitarie e commerciali e viene inoltre adottata ormai universalmente per progetti artistici creativi e concettuali. Viene sempre più utilizzata in film, spot pubblicitari, video musicali, cartoni animati ed anche videogiochi per trasformare radicalmente sia il tempo, rallentandolo in modo da mostrare eventi normalmente impercettibili non filmabili, che lo spazio a causa della capacità di spostare il punto di vista del pubblico attorno all’azione

in maniera suggestiva e non convenzionale. Questo risultato è impossibile con le tecniche cinematografiche convenzionali, poiché la telecamera fisica dovrebbe muoversi in modo non plausibile; il concetto implica che solo una “macchina fotografica virtuale”, sarebbe in grado di filmare una scena di questo tipo. Armonizzando in maniera innovativa una rotazione panoramica, l’effetto di rallentamento dell’azione e il congelamento nel tempo di un attimo dinamico, si riesce così ad immergere completamente lo spettatore in una affascinante dimensione tecnologica e fantastica. Nella storia della fotografia sono precursori dell’effetto Bullet Time le immagini sequenziali di Eadweard Muybridge, la cronofotografia di Ètienne-Jules Marey, la stroboscopia di Gjon Mili, ma anche i gli studi sulla ripresa rapida del movimento di Harold Edgerton. Uno dei primissimi esempi di Bullet Time viene considerato quello inserito nella sequenza dei titoli di testa di un film d’animazione della serie anime giapponese Speed ​​ Racer del 1966: il personaggio Speed ​​salta dall’auto in corsa e si blocca a metà salto, mentre la telecamera effettua

Lana e Lilly Wachowski: The Matrix (1999)

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e nel film Buffalo 66 di Vincent Gallo, entrambi del 1998. Sempre dello stesso anno è il video pubblicitario Khaki Swing prodotto per la multinazionale d’abbigliamento Gap che dimostra come la tecnologia sia ormai pronta e matura per realizzare riprese in movimento con effetti Bullet Time di qualità. La necessità di rallentare un momento importante per evidenziarlo, renderlo solenne e creare tensione nel pubblico era da sempre sentita da parte dei registi. Tipici esempi si possono ritrovare nelle sparatorie di The Wild Bunch di Sam Peckinpah del 1969 oppure nelle sanguinose sequenze d’azione dirette da John Woo.

Bullet Time: The Matrix

una rotazione seguendo un percorso ad arco. Nel 1980, l’inglese Tim Macmillan inizia a produrre film indipendenti e successivamente prova ad utilizzare pellicola cinematografica 16 mm disposta in un contenitore a forma circolare munito di fotocamere dotate di foro stenopeico. In seguito svilupperà e applicherà tale tecnica in una videoproiezione intitolata Dead Horse, con ironico riferimento a Eadweard Muybridge. L’opera è stata presentata alla London Electronic Arts Gallery nel 1998 e nel 2000 è stata nominata al Citibank Prize for Photograpy. Un timido esperimento di Bullet Time si trova in una scena di arti marziali nel film d’azione Kill and Kill Again del 1981.

Ma è nel 1999 con il film The Matrix di Lana e Lilly Wachowski che l’effetto di ripresa Bullet Time viene adottato nella sua forma odierna e al massimo delle sue possibilità espressive. Da quel momento in poi, secondo molti, il cinema sarebbe cambiato per sempre e non sarebbe stato più lo stesso. Tutte le nozioni e conoscenze tradizionali sullo svolgimento del flusso filmico spazio-temporale vengono improvvisamente sconvolte e messe in discussione. Il cervello non può più fidarsi dell’immagine per elaborare gli stimoli visivi e riportarli alla esperienza conosciuta. Tutto cambia quando nel film il protagonista Neo (Keanu Reeves) si getta all’indietro al rallentatore, con il suo lungo cappotto che sfiora il pavimento, mentre proiettili lo sfiorano lasciando tracce luccicanti nell’aria. Il tempo quasi si ferma, l’azione è dinamica ma nello stesso tempo sospesa a mezz’aria, mentre la camera ruota attorno all’attore in tempo reale. Si viene così portati a nuovi livelli di esperienza: immediatamente il tempo rallenta, lo spazio si modifica, si posso vedere contemporaneamente tutti i particolari e gli effetti dei movimenti. Improvvisamente si viene investiti da tutto ciò che accade.

Il primo video musicale ad utilizzare l’effetto di rotazione della camera è Midnight Mover degli Accept, gruppo tedesco di musica heavy metal, nel 1985. Nel 1995 il regista francese Michel Gondry sperimenta l’uso del morphing (fusione) delle riprese di una coppia di fotocamere sincronizzate per creare digitalmente un effetto di spostamento fluido di prospettiva nel video Like a Rolling Stone per il gruppo rock inglese Rolling Stones. Sono da segnalare inoltre tentativi in questa direzione sperimentati nelle riprese della serie televisiva di fantascienza Lost in Space

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Per questa ed altre scene la troupe ha realizzato un impianto appositamente progettato con oltre 120 fotocamere ad alta definizione disposte a cerchio lungo una curva leggermente a spirale con un sistema di attivazione simultaneo. L’intera scena è stata girata in studio con la tecnica del Green-screen che ha poi permesso la sepearzione degli attori, la creazione digitale dell’ambiente circostante e l’inserimento degli effetti speciali.

nel fondere realisticamente la realtà virtuale generata digitalmente con immagini riprese dal vivo. In un’intervista John Gaeta, supervisore agli effetti speciali di The Matrix, dirà a proposito: “Quando ho visto il film di Debevec, ho capito subito che eravamo sulla strada giusta”. Le metodologie di macchina fotografica virtuale introdotte con The Matrix vengono considerate come fondamentali contributi agli approcci di acquisizione richiesti per la realtà virtuale sulle piattaforme di esperienza immersiva.

Gli elementi virtuali all’interno della trilogia di The Matrix utilizzano tecniche di rendering realistico basate sui risultati ottenuti da Paul Debevec, ricercatore presso l’University of Southern California. Un suo filmato sperimentale, The Campanile del 1997, è uno dei primi esperimenti riusciti

Degni di nota, anche perché accostano al Bullet Time la fotografia analogica a foro stenopeico, sono il video musicale Wasting My Young Years del gruppo London Grammar (2013) e il progetto Orbita 13 di Andreas Neumann (2016).

Andreas Neumann: Orbita 13 (2016)

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Pittore che considerava la fotografia un hobby, Jacques-Henri Lartigue è cresciuto nell’ambiente privilegiato di una famiglia benestante. Fin dagli inizi, il processo di creazione delle immagini ha rappresentato per Lartigue un elemento essenziale di gioco. In esso il ragazzo ha visto un modo magico di memorizzare e intensificare la più piacevole delle sue esperienze visive, trasformando l’istantanea in uno strumento perfetto per catturare il divertimento e l’eccitazione della sua vita quotidiana: i salti spericolati e le cadute in bicicletta di suo cugino Bichonnade, o le curve a gomito dei bob da corsa e le disavventure di enormi alianti costruiti dal suo fratello maggiore. Più tardi, da adolescente timido, ha continuato a catturare, con lo stesso umorismo, la camminata veloce e il sapiente sorriso delle donne eleganti che sfilano in fantastici cappelli sui viali. Sarebbe stato affascinato dai rapidi progressi e dalle mutevoli forme dell’automobile e dal volo degli aerei. Lartigue ha creato una racconto straordinariamente ricco, ma che, come i suoi diari, è rimasta essenzialmente privato. Fino al 1963, quando una mostra al Museum of Modern Art di New York rivelava Lartigue come un grande fotografo, il suo lavoro era noto solo a un gruppo di amici.

Fotocamera panoramica a fessura di Joseph Puchberger (1843)

Le immagini dell’infanzia del fotografo sono ampiamente conosciute; indissolubilmente associati alla Belle Époque, quell’infanzia fiduciosa, prospera, spensierata a cavallo dei due secoli, sono diventati emblematici della sua energia ottimista. Lartigue adorava tutto ciò che riguardava le auto: il loro aspetto intrigante, gli accessori del guidatore, l’eventuale gomma a terra. Il Grand Prix del 1913 dell’Automobile Club de France è tra le sue immagini più memorabili del fotografo. Il Grand Prix viene disputato nel 1913 sul circuito di francese di Dieppe e viene vinto da una Peugeot, con al volante il pilota Georges Boillot, che Jacques-Henri Lartigue: Le Grand Prix A.C.F. (1913)

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raggiunge, in certi tratti, una velocità superiore alle cento miglia orarie. Ruotando la sua macchina fotografica parallelamente alla strada in un movimento, Lartigue riesce a malapena a catturare il passaggio dell’auto in velocità. L’estrema lentezza dell’otturatore che scorre a fessura dal basso verso l’alto e la velocità di movimento del soggetto in corsa, creano un effetto involontario e positivo. La ruota dell’auto viene deformata verso destra perché viene registrata in momenti leggermente diversi e lo stesso vale per le persone che appaiono deformate verso sinistra perché il fotografo ha rapidamente spostato la macchina verso destra per seguire l’auto. A causa delle limitazioni tecniche dell’attrezzatura si crea un’immagine espressionistica del senso di velocità che diventerà un’icona nella storia della fotografia mondiale e una delle più famose per quanto riguarda la fotografia sportiva. I pionieri della fotografia del 1800 erano in grado di provare vari tipi di tecniche sperimentali tra cui una tecnica chiamata Slitscan (scansione a fessura), il processo che prevede lo scorrimento di una fessura tra il soggetto e il piano focale. La ripresa fotografica avviene mentre la fessura viaggia da un lato del fotogramma all’altro, registrando un soggetto in movimento in attimi successivi e non in un’unica esposizione, in modo da creare un effetto di deformazione o rotazione delle forme. Ma uno dei primi utilizzi della scansione a fessura è stato nell’ambito della fotografia panoramica. Nel 1843 il chimico Joseph Puchberger sviluppa in Austria una fotocamera battezzata Ellipsen Daguerreotype con un obiettivo rotante da 8 millimetri per catturare viste panoramiche a 150 gradi su lastre dagherrotipiche curve lunghe da 19 a 24 pollici. L’anno seguente, nel 1844, Friedrich von Martens, crea con la fotocamera Megaskope un dispositivo simile

Robert Doisneau: Paris, The Dancers (1960)

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fotografia Slitscan come un eccellente veicolo di espressione e sviluppo delle idee centrali nel mio lavoro: la concezione del tempo e il nostro posto nel suo continuo divenire. Queste immagini non sono manipolate. Questo è il modo in cui la mia macchina fotografica vede il mondo. Piuttosto che fermare un solo momento, la mia fotografia esamina il passare del tempo. Per fare ciò, ho inventato una moderna versione digitale della fotocamera panoramica nella quale un singolo frammento di spazio viene ripreso per un lungo periodo di tempo, producendo il sorprendente risultato che gli oggetti immobili appaioni mossi e i corpi in movimento sono resi nitidamente. Questa è fotografia in senso purista, ma una forma di fotografia in cui l’astrazione è la norma, non l’eccezione. Invece di rispecchiare il mondo come lo conosciamo, credo che questa fotocamera sia in grado di registrare una realtà nascosta. Come un microscopio o un telescopio, la macchina espande la nostra capacità di percepire di più sulla natura della realtà. Le apparenti “distorsioni” nelle immagini avvengono tutte all’interno della fotocamera. Quindi, quando il mondo reale è così meravigliosamente bizzarro, la manipolazione non è necessaria. Prendo in giro questa insolita realtà in agguato proprio sotto la superficie della nostra esperienza visiva quotidiana allo stesso modo in cui i pittori cubisti hanno creato una tensione dinamica sfruttando l’interazione tra ciò che lo spettatore si aspetta e ciò che ottiene. Poiché la fotografia è tradizionalmente la restituzione di oggetti del mondo reale in due dimensioni, quella stessa tensione creativa sorge nel mio lavoro perché, in effetti, scarta la dimensione orizzontale e la sostituisce con la quarta dimensione, il tempo”.

con obiettivo rotante controllato da ingranaggi. Ma le fotocamere di tipo Slitscan iniziano a guadagnare popolarità quando entra in uso la pellicola, materiale sensibile su un supporto flessibile. All’inizio del secolo XIX vengono sviluppate fotocamere con la pellicola che scorre lungo un piano focale curvo. Durante lo scatto la fenditura orbita attorno a questo, creando un panorama. La tecnica Slitscan è attualmente più diffusa di quanto si possa pensare in una particolare variante chiamata Strip Photography. Essa utilizza una fessura fissa mentre la pellicola viene spostata e viene impiegata per riprendere l’ordine di arrivo al traguardo delle competizioni ippiche, creando una registrazione non delle relazioni spaziali ma di quelle temporali tra i soggetti ripresi. La fessura non si muove, ma si muove quello che c’è davanti. Quindi, quando si osserva la foto, si vede esattamente lo stesso punto registrato solo per un brevissimo periodo di tempo. La tecnica Slitscan produce immagini deformate e allungate con effetti originali e innovativi, nelle quali tempo e movimento sembrano fondersi e far parte di un’unica realtà ed è stata adottata da numerosi fotografi per le sue potenzialità creative ed espressive che permettono di dare ampi spazi alla loro voglia di sperimentazione. Un mito della fotografica moderna, il francese Robert Doisneau, aprirà la strada con la fotografia Paris, The Dancers del 1960 nella quale due ballerini vengono ripresi su un piano rotante in movimento creando un effetto di deformazione anatomica a spirale inedito e surreale. Il fotografo contemporaneo Ansel Seale racconta: “Negli ultimi 10 anni, ho mi sono specializzato in un ambito poco noto chiamato fotografia Slitscan. Lungi dall’essere solo una curiosità visiva, è diventato uno strumento sostanziale per l’esplorazione di temi significativi. Considero la

Altri artisti di rilievo internazionale che hanno incentrato il proprio lavoro nella sperimentazione della tecnica

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Slitscan sono: Sarah Howorka, Atis Puampai e Adam Magyar. Sarah Howorka utilizza la tecnologia, per creare esperienze poetiche. Il suo approccio è intuitivo e sperimentale, spesso attingendo al suo background come ingegnere informatico per creare immagini generative o manipolazione di video computazionali. Di recente ha lavorato con ballerini e coreografi per esplorare l’interazione tra performance e media art. Ha frequentato la School of Visual Arts nel 2010 e la School for Poetic Computation a New York nel 2015. Nel 2017 ha co-fondato art + tech Vienna, una comunità aperta con lo scopo di creare uno spazio di connessione per le persone interessate all’arte dei nuovi media per apprendere, sperimentare e creare. Le sue opere sono state esposte in mostre a Vienna, Salisburgo, Barcellona, Teheran, New York, Atene e Cracovia.

Adam Magyar è allo stesso tempo un artista concettuale, un fotografo e un ingegnere elettronico autodidatta. Il suo tentativo è di comprendere l’interfaccia del flusso infinito del tempo nelle metropoli moderne del mondo, Un tema che ricorre in gran parte del suo lavoro si basa su idee e tecniche interconnesse ma distinte che aiutano a vedere la bellezza intrinseca che si trova nel quotidiano. La sua visione unica e le sue capacità tecnologiche lo hanno inevitabilmente portato a sviluppare i propri strumenti hardware e software di ripresa. Nella sua opera Urban Flow utilizza la tecnica della fotografia a scansione a fessura su fotocamere modificate ed utilizza una telecamera speciale ad altissima velocità nella sua serie di video intitolata Stainless, in cui cattura a velocità aree urbane densamente popolate. Magyar registra gli eventi del mondo urbano e ci mostra un fiume che sembra non muoversi con la corrente. Lo spettatore deve stare immobile e semplicemente guardare mentre il flusso della vita passa davanti ai suoi occhi, un esercizio paragonabile a quello della meditazione Zen. L’acciaio inossidabile, come suggerisce il nome, non arrugginisce perché è in un movimento costante. L’orizzontalità suggerisce il passare del tempo. Nel momento in cui si vede qualcosa, questa cessa di essere lì, essa appartiene ormai ineluttabilmente al passato.

Atis Puampai ha conseguito il Bachelor of Arts nel 2014 e il Master of Fine Arts nel 2018 presso l’University of Hawaii Attualmente risiede a Honolulu. Il suo lavoro enfatizza le tecniche fotografiche alternative con attrezzature realizzate con materiali usati di seconda mano. Radicata nella ricerca scientifica, le sue fotografie esplorano la percezione del tempo e dello spazio attraverso metodi di acquisizione del movimento. Puampai è interessato a mettere in discussione il significato dell’umanità attraverso fotografie di fenomeni naturali. In un’intervista il fotografo ha dichiarato: “Contrariamente al concetto di momento decisivo di Henri Cartier-Bresson, sono interessato a catturare momenti oltre la percezione umana del tempo attraverso esposizioni che durano più di un istante. Queste lunghe esposizioni sono dettate dalla nostra comprensione dei fenomeni naturali comprovati o teorizzati dalla ricerca scientifica con lo scopo di esplorare la percezione del tempo al di là della nostra esperienza quotidiana”.

La tecnica di scansione che ha sviluppato, combinando migliaia di sezioni in un’unica immagine, gli consente di catturare un’umanità che scorre, in visioni inquietanti piene di dettagli che nessuna normale fotocamera è in grado di catturare. “Questi momenti che catturo sono insignificanti non c’è storia in essi, ma se riesci a catturare il nucleo, l’essenza dell’essere, catturi probabilmente tutto”, dice Magyar in uno dei tanti commenti sui suoi lavori che si distinguono per il loro fascino ipnotico e loro elusività.

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Ansen Seale: Temporal Form no. 19 (2006)

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Ansen Seale: Temporal Form no. 21 (2006)

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Atis Puampai: Pearl City (2014)

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Atis Puampai: Pearl City (2014)

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Sarah Howorka: Slitscan (2015)

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Sarah Howorka: Slitscan (2015)

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Adam Magyar: Urban Flow 1807 - New York (2015)

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Adam Magyar: Urban Flow 1837 - New York (2015)

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Adam Magyar: Urban Flow 1865 - New York (2015)

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RINGRAZIAMENTI Ringrazio i miei compagni di Accademia, con i quali ho instaurato un grande e bellissimo rapporto di amicizia, supportandoci e supportandomi affinchè questo percorso di vita passasse nella maniera più bella, semplice e spensierata possibile. Ringrazio il mio relatore, il professor Salvatore Barba, per aver sempre avuto fiducia in me, nelle mie doti da fotografo e studente. Ringrazio una ragazza speciale, che ho incontrato quando per me università era solo sinonimo di sogno nel cassetto, per aver visto in me ciò che nessuno riusciva a vedere, la ringrazierò per sempre dal profondo dell’anima per aver acceso in me, un ragazzo che era alla soglia dei suoi trenta anni, la scintilla e la voglia di intraprendere quel sogno che, senza di lei, sarebbe rimasto chiuso in quel cassetto per tutta la vita. Infine ringrazio la mia famiglia, in particolar modo mia madre, che con i suoi continui enormi sacrifici mi ha permesso di vivere in un’altra città e di portare a termine il percorso accademico da me intrapreso, credendo in me dal primo all’ultimo giorno.

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FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFIA Samuel S. The life of George Stephenson, University Press of the Pacific, 2001 Rathbone G. W. Life at High Pressure, London, Trubner & Co., 1877 Schivelbusch W. The Railway Journey: Trains and Travel in the 19th Century, Urizen Books, 1979 Monet C. The Colour of Time, Thames and Hudson Ltd, 2001 Thackeray W. M. De Juventude in The Roundabout Papers, 1863 Freeman M. Railways and the Victorian Imagination, Yale University Press, 1999 Klingender W. Art and the Industrial Revolution, Adams & Makay Ltd, 1905 Gleick J., Faster The Acceleration of Just About Everything, Vintage, 2000 William J. La volontà di credere, William James, 2015 Frith W. P. Painting the Victorian Age, Yale University Press, 2006 Bataille G. Manet, Skira, 1955 Lewis-Williams D. The Mind in the Cave: Consciousness and the Origins of Art, Thames & Hudson, 2004 Scharf A. Art and Photography, Allen Lane, 1968 Berger J. Ways of Seeing, Penguin Books, 1972 Szarkowski J. The Photographer’s Eye, Museum of Modern Art, 2006 Philip McCouat, www.artinsociety.com/pt-1-changing-concepts-of-time.html Philip McCouat, www.artinsociety.com/pt-3-the-new-time-in-painting.htm Allison Meier, www.hyperallergic.com/332625/with-you-always-a-history-of-photographing-ghosts Elio Grazioli, www.doppiozero.com/materiali/muybridge-fotografia-in-movimento Andrea Boccalini, www.fproject.it/2012/12/06/maurizio-galimberti-il-mondo-in-una-polaroid Francesca Matalon, www.ugei.it/ori-gersht The Met, www.metmuseum.org/art/collection/search/283256 Wikipedia, en.wikipedia.org/wiki/Kinetic_art Antonio Fontana, www.lnx.whipart.it/artivisive/6564/mostra-calder-roma.html Redazione istantidigitali, www.istantidigitali.com/peter-keetman Karissa, www.modlar.com/news/212/kinetic-architecture-dynamic-buildings-that-will-move-you Matteo Rubboli, www.vanillamagazine.it/i-disegni-di-luce-di-pablo-picasso Giusy Baffi, www.artevitae.it/santiago-calatrava-parte-prima-i-ponti-e-le-stazioni

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Finito di stampare nel marzo 2020 presso la tipografia La Legatoria via Genova 25, Roma



Francesco Cardillo

IL MOVIMENTO DECISIVO Tempo e spazio nell’immagine fotografica


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