Silēre, dialoghi con il silenzio.

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SILĒRE NUMERO 0

DIALOGHI CON IL SILENZIO CHIESA DI SAN SIMEONE A ROCCA D'ORCIA

2, 3, 4 OTTOBRE 2020 DIARIO

RIFLESSIONE

Prima della partenza 15 settembre 2020

Chiamarsi fuori per starsene dentro

Ci siamo riuniti in un luogo a noi familiare, quella che per la Bottega può decretarsi una seconda casa, per avvicinarci a [pag.1]

Mettersi da parte, per mettere da parte, e mettere a parte di un immaginario nuovo che diventi realtà condivisa, e luogo da [...]


Prima della partenza 15 settembre 2020 ...quello che invece sarà l’ingresso nell’ignoto che si presta ad accoglierci. Non conosciamo infatti il posto che sarà la nostra nuova casa momentanea per le tre giornate di esperienza immersiva a cui ci stiamo preparando se non da qualche fotografia: sulla base di questo e, ad un livello più profondo, di un radicato bisogno di ricomposizione, si è manifestata l’esigenza di ritrovarci e ricostruire una nuova oikos, a partire da quella che avevamo lasciato. In questo primo incontro, al di là della necessità di pianificazione e di tessitura del lavoro, è emersa piuttosto l’urgenza di ristabilire un contatto, un ascolto del tempo: tra di noi, tra noi e il teatro, con i luoghi e con i confini. Ed è stato proprio il contatto – fisico, emotivo, riflessivo – ad aver fissato in un certo senso la traccia narrativa della giornata. Quella che è venuta a ricostituirsi in maniera spontanea, prima attorno a un tavolo, poi in sala prove, antropologicamente parlando, ha riportato le caratteristiche proprie di una sorta di comunità ritmica: dove l’armonia, intesa nel suo senso sociologico di consonanza delle pratiche, ossia un “suonare assieme”, si è configurata come un confronto tanto dei pensieri quanto dei corpi fisici. I nostri posizionamenti si sono avvicinati, distaccati, scontrati e poi accordati in una melodia organica fatta di assonanze e contrappunti. Non è casuale infatti che “essere in accordo” o “concordare” significa, etimologicamente, sia stare a cuore (dal latino cŏr cŏrdis, «cuore»), sia vibrare per simpatia (con un raccostamento a chŏrda, «corda musicale»). Abbiamo letto insieme una selezione di passi del Qoeleth su cui dovremo lavorare per la messa in forma della performance corale, comparando le diverse traduzioni che ognuno di noi aveva portato;

abbiamo “rotto il silenzio” attraverso iniziali suggestioni, idee, sensazioni e proposte, per poterlo riscoprire e poi ricreare in un secondo momento della giornata di lavoro tramite i nostri sguardi, i nostri corpi, che sono parsi collegati da fili invisibili in un metamorfico ed intenso fluire. Vedere lo stesso movimento eseguito da diverse persone è come vedere le diverse sfumature dello stesso colore. È la manifestazione di un magnetismo invisibile e quasi involontario, che si genera su ritmi interiori, non immediatamente udibili. Oggi ci accompagnava in un nuovo percorso la musica di Beethoven, ma penso che i brividi siano stati uguali per tutti.Le variazioni dei movimenti, agite sul crinale del limite, hanno intensificato e riempito di significati concreti quel “contatto” seminato precedentemente mediante le parole e le riflessioni. Le parole del violinista statunitense Leroy Jenkins non potrebbero essere più significative: «Mi avventuro sempre sul limite quando suono. La composizione è importante, certo, ma è l’inatteso, l’imprevisto, che rende esaltante l’improvvisazione. Il viaggio è almeno altrettanto interessante della destinazione».

Eppure, la scelta è fondamentale nel nostro lavoro. Niente in realtà è lasciato al caso.Riflettere sul perché di una parola invece che un’altra. Perché quel gesto invece che un altro? Se scrivere, in quanto pratica di montaggio, è scegliere delle parole precise e metterle al giusto posto al fine di creare un ordine complessivo, è come se questa particolare occasione di scrittura condivisa rappresentasse per noi, come gruppo, un punto di raccordo e di snodo, di raccoglimento e di apertura al contempo. Ritrovarsi oggi è stato ritornare al teatro dopo mesi di compromessi e distanze. Riguardarci, risentirci, ascoltarci al tavolo tra le parole del Qoeleth, testare le prime immagini con i nostri corpi sono stati i primi accenni a quello che ci piacerebbe


fosse Silere: tre giorni unici condivisi da Accademia con gli spettatori. «Tutto si sente. Quel che noi chiamiamo silenzio non è silenzio, è solo la nostra sordità».

(Stig Dagerman)

ACCADEMIA MINIMA a Rocca d'Orcia Elisa Bartoli Sara Bensi Francesco Chiantese Gianpaolo Colantone Simona Dominici Eleonora Palmieri Serafina Vitale *

Programma 2 ottobre - 17.30 Babajaga (Spettacolo per bambini) - 21.30 studio su Il grande inquisitore 3 ottobre - 17.30 Ego me absolvo (performance) - 21.30 primo studio per Corale 4 ottobre - 9.30 Passeggiata silenziosa (azione corale con il pubblico) - 17.30 Convivio (Baratto conviviale tra spettatori ed attori)


Il silenzio, per cominciare 23 settembre 2020 Come si mostra il silenzio? Questa è la domanda che ha segnato i nostri primi giorni di prove. Il problema del silenzio è che bisogna mostrarlo, altrimenti non esiste. È necessario in questo senso creare un contenitore, un contrasto, o meglio, trovare il suo complementare.D’altra parte, è sempre la cornice a definire il contenuto. E questo accade specialmente nel teatro. Il punto di snodo, che ha rappresentato allo stesso tempo la difficoltà principale, è consistito verosimilmente nella creazione delle immagini da restituire agli spettatori: generare non solo parole, ma anche stimoli informi, di natura uditiva in particolar modo, in linea con lo spazio e la cornice – simbolica ed effettiva – che ci contengono. Quello che è stato complesso, non è stato solo ricompattare la materia grezza delle intuizioni nella nostra immaginazione e darle una forma, ma soprattutto gestire il suo perenne rinnovamento e la sua malleabilità, resi evidenti nella condivisione delle espressioni. La concretizzazione delle idee ha svelato in primo luogo a noi stessi le difficoltà da superare, eppure, è proprio qui che si realizza l’incanto del laboratorio, in cui siamo noi ad essere i padroni delle scelte, ma in quanto gruppo e non individui singoli: ciascuno chiamato ad intervenire a seconda delle proprie competenze esperienziali. In questa fase preliminare di co-creazione in ognuno porta un frammento, il pezzo di un puzzle ancora privo di disegno finale, il tassello singolo ha sicuramente il suo

momento “topico”, ma la condizione stessa della sua realizzazione è quella di dialogare insieme agli altri. Ci guardiamo, ci ascoltiamo, ci suggeriamo aggiustamenti, consigli. Il tempo è stato scandito dal respiro e dai passi di tutti nell’esercizio pratico che abbiamo costruito lentamente, fino a farlo diventare una performance da presentare in occasione del Festival. È stato davvero suggestivo assistere all’evoluzione, al moto morfogenetico delle cose in divenire. Come in ogni contesto di produzione creativa, la linea da seguire, almeno nelle fasi iniziali, è scegliere i materiali da fondere e mescolare, al fine di mettere in atto una sorta di “processo di crescita”; ma il peso di alcuni momenti, dato inevitabilmente dalla pressione della scelta o dell’idea da proporre, si alterna senza dubbio anche ad occasioni di alleggerimento. La dinamica relazionale, ancora prima che con gli spettatori, si genera qui, dietro le quinte, in questo spazio liminale di contatto, dove la prima relazione a costituirsi è in realtà quella tra i materiali della scena: gli attori.


Lo spazio, un dialogo. 1 ottobre 2020 farsi spazio. Questa può definirsi la cifra che ha caratterizzato il giorno della partenza. Oggi il lavoro è stato focalizzato non tanto sulla preparazione delle performances, bensì su di noi, sul viaggio, sull’assestamento. Siamo stati portati a confrontarci sulla difficoltà, o meglio, sulla novità di abituarsi ad essere un gruppo al di là del lavoro in sala: una condivisione dei rapporti in un senso più ampio, dettata dallo sforzo di combinare e amalgamare non solo più le idee, le proposte e le riflessioni in merito alla costruzione degli spettacoli, ma quelle che sono le nostre peculiarità. Si è trattato, in particolare, di trovare una sorta di compromesso pratico in una cornice che canonicamente appartiene alla dimensione del quotidiano (la casa, la cucina, la macchina), sebbene per noi il vero quotidiano corrisponda in realtà al teatro. In questo senso, nella ricerca di un’intimità che esulasse dai confini del teatro, si è creato almeno in una fase iniziale, un momento di tensione che riguardava da vicino la gestione dello spazio e di noi stessi in un luogo che non aveva niente a che fare con la sala prove a noi così familiare. Di questa giornata di assestamento, ognuno di noi ha avuto delle percezioni diverse, così come ha sentito pressioni differenti, in base alle proprie esperienze personali. E proprio in questa direzione si è sviluppato il lavoro: condividere noi stessi. Non è stato casuale infatti che il sopralluogo alla Chiesa di San Simeone, lo spazio che ospiterà le tre [...]


[...] intense giornate di spettacoli, è stato fatto solamente a conclusione di quella che è stata l’immersione in un contesto per noi non consueto. Paradossalmente, sentivamo quasi più casa questa, pur non avendola mai vista prima. È la configurazione del contesto a determinare il grado di entropia; in questo caso la trasformazione si è realizzata in virtù del passaggio da una cornice formale, alternata ad una informale, fino al confronto con una sconosciuta. La differenza tra i due luoghi, così come tra le due situazioni in cui ci siamo ritrovati, è consistita infatti nella dinamica della scoperta. La casa resta la casa, gli spazi non sono modificabili. La chiesa invece conserva l’essenza della creazione: essa rappresenta un luogo da adattare e modificare in base allo spettacolo da allestire. La novità, rappresentata dal luogo e dalla situazione, ci hanno stimolato nell’essere un gruppo oltre lo stesso teatro: questo è stato il punto di partenza per il lavoro creativo.


Riportando tutto a casa 4 ottobre 2020 Desiderio e ricerca. Le tre giornate immersive di preparazione e fabbricazione creativa si sono ormai concluse. Esse hanno rappresentato una sfida con noi stessi, con il nostro substrato più intimo, così come con lo stesso modo di intendere e di vivere il teatro. A guidarci in questo percorso, sebbene si sia concretizzata come una riflessione posteriore, emersa solo a conclusione del ritiro, è stata una condizione particolare che può essere riassunta in maniera esemplificativa nella celebre questione posta da Eugenio Barba, ovvero: «Cos’è un attore quando non ha con sé uno spettacolo?». Attraverso Silēre non ci siamo solo confrontati con una realtà diversa, ma abbiamo avuto modo di mettere in discussione anche determinate aspettative sul teatro, a partire dai nostri stessi ruoli. Al di là della realizzazione effettiva dei tre spettacoli – Baba Yaga, Il grande inquisitore e Corale – si è trattato infatti di un continuo laboratorio e un fluido training.Le prove, il momento rigido della giustapposizione degli elementi e garanzia di sicurezza, sono state lasciate parzialmente da parte per fare spazio ad altro: la gestione del tempo, dello spazio e del vivere insieme. È stato proprio quest’ultimo elemento a determinare una sensazione di sicurezza e di tranquillità durante la messa in scena degli spettacoli; il vivere insieme ha sostituito in qualche modo a livello di funzionalità le prove. [...]

Sicuramente la convivenza non è stata una cosa necessaria, bensì una scelta riflessiva dal punto di vista formativo, sia in legame all’identità di gruppo sia alla creazione vera e propria. Il dover dare conto ad altri impegni oltre alle effettive prove o il vivere piccoli rituali extra-teatrali, come la colazione prima di iniziare la giornata di lavoro o cucinare tutti insieme alla sera, ha fatto sì che si creasse il feeling necessario alla costituzione degli spettacoli stessi. Tutto questo ci ha portato a comprendere che anche solo uno sguardo avrebbe creato la complicità ricercata: è stata l’alchimia fuori dal palco a permettere il formarsi dell’alchimia sul palco e a confluire dal turbinio delle emozioni informi nella realizzazione concreta. D’altra parte, si sa che la vita che scorre come un flusso libero la si percepisce rare volte. Silēre, prendendo forma passo dopo passo, ha significato per noi proprio questo. Un momento “sospeso” da qualsiasi costrizione, dal caos, dal vuoto, dalle cattive abitudini, dalle sconfitte, dall’amaro, dalle domande che pretendono una risposta immediata, dal tempo. Desiderio e ricerca. Ricerca di un qualcosa di indecifrabile, sempre sfuggente, ma forte come il desiderio, quello più intimo, di poterle dare un volto. Quando chiedono a Philippe Petit come ha fatto a camminare su una corda tesa tra le torri gemelle lui di solito risponde: «ho legato bene la corda». [...]


[...] Rientriamo al mondo dopo Silēre con la consapevolezza che le cose intorno e dentro di noi sono in fase di trasformazione e rinnovamento. La speranza è quella di restituire lo stesso stupore di rinascita sia ai nuovi e numerosi aspiranti allievi di Bottega che incontreremo quest’anno, sia a coloro che incroceremo, anche solo brevemente, nel nostro cammino di formazione.

Chiesa di San Simeone a Rocca d'Orcia (SI)

Consacrata nel 1633, dalla sobria facciata duecentesca che presenta un portale con arco a sesto ribassato. Tra le opere, una seicentesca Crocifissione di Fabrizio Boschi e Madonna del Rosario che richiama lo stile di Vincenzo Rustici. Nella parete sinistra sono visibili resti di affreschi del XIV secolo, collegabili alla maniera di Bartolo di Fredi; si distinguono in particolare la Madonna della Misericordia e il Battesimo di Cristo. Utilizzata spesso come "Sala da Concerti" accolse il 22 aprile del 2009 la seconda data del debutto nazionale di Requiem Popolare di Francesco Chiantese e Maurizio Costantini.

Crediti Tutti i testi di questa breve pubblicazione sono nati dai contributi e gli stimoli di tutti rimessi in forma da Simona Dominici; lo stesso vale per le fotografie che sono state scattate da più mano e sviluppate da Francesco Chiantese.

Si ringrazia il Comune di Castiglione d'Orcia e l'azienda agricola Podere Forte per aver sostenuto logisticamente la realizzazione dell'evento. Un ringraziamento particolare a Serafina Vitale che, pur non facendo parte di Accademia Minima, ci è stata accanto durante tutto Silere

Per informazioni su Accademia Minima APS, per ospitare Silere, dialoghi con il silenzio, per conoscere le nostre attività ed i nostri spettacoli è possibile visitare il sito internet www. accademiaminima.it e da lì raggiungerci sui principali social oppure via mail.


Chiamarsi fuori per starsene dentro

Mettersi da parte, per mettere da parte, e mettere a parte di un immaginario nuovo che diventi realtà condivisa, e luogo da cui partire per una nuova fase di un percorso. Sembra solo un gioco di parole ed è invece una realtà altrettanto giocata ed altrettanto intrecciata. "Ed egli vi mostrerà, al piano di sopra, una grande sala ammobiliata; qui apparecchiate." sono le indicazioni che il Nazareno da ai discepoli perché si anticipino lungo la strada per preparare la loro ultima cena. Mi ha sempre colpito quel "piano di sopra". Magari è un'espressione che è finita li per caso, tra una traduzione e l'altra, tra un passaparola e l'altro, ma mi piace pensare che sia il frutto di una centellinatura delle parole che spesso è tipica dei testi sacri delle varie religioni e più in generale dei testi che ci arrivano dalle civiltà orali. Perché "al piano di sopra"? La mente va ad esperienze più concrete; ai tanti dialoghi con i partigiani ed alle staffette che hanno vissuto in prima persona il periodo della guerra di resistenza al nazifascismo; più esattamente all'espressione, che poi è esperienza reale e concreta, del "prendere i monti". Piano di sopra, prendere i monti. Queste espressioni mi raccontano della necessità in momento delicati, che siano "resistenze" vecchie e nuove, che siano momenti di passaggio, di collocarsi ad un piano superiore ma non distante dalla realtà quotidiana. Farsi "da parte" divenire extraquotidiani per poter osservare, comprendere o semplicemente agire proprio sul quotidiano; ma anche per poter tirare un respiro, vivere un'intimità liberatoria che ti permetta di calare le maschere e lasciarti incontrare nella tua realtà. Per questo Accademia Minima da sempre vive, periodicamente, dei momento di isolamento; ogni anno, almeno una volta l'anno, ci ritiriamo con alcuni allievi in dei seminari in isolamento, in posti splendidi, spesso in mezzo ai boschi, e lavoriamo. Quest'anno però, la situazione legata alla pandemia, se da una parte ha inasprito il desiderio di


stare assieme tra noi, contemporaneamente, ci ha fatto desiderare di condividere l'esperienza dello stare "da parte" assieme a degli spettatori affinché il teatro potesse essere vissuto in pienezza. Ecco, dunque, che ci siamo inventati Silere, dialoghi con il silenzio tre giornate vissute nella silenziosa Rocca d'Orcia (frazione del comune di Castiglione d'Orcia) all'interno della chiesa di San Simeone. Tre giornate complesse perché estremamente aperte malgrado il loro essere intense. Per buona parte della giornata, infatti, siamo stati a disposizione del pubblico; la chiesa, che abbiamo lasciato sempre aperta, vedeva spesso turisti e cittadini passare e soffermarsi a vederci lavorare; ogni giorno, poi, erano previsti due appuntamenti ufficialmente pubblici: spettacoli, performance, momenti laboratoriali ed altri dedicati al "baratto culturale". Ci siamo ritrovati però a contatto con le persone, che ci identificavano come artisti estranei alla piccola comunità, anche mentre facevamo la spesa, se ci fermavamo a bere un caffè, o se prendevamo una piccola pausa per una sigaretta. Una continua apertura che è faticosa perché ci fa stare sempre in soglia, necessita di attenzione e presenza costante. Si è creata, attorno allo spazio che abbiamo scelto di abitare, una piccola comunità; e così che gli spettatori che fino a pochi minuti prima parlavano con gli attori al segnale si disponevano sulle loro sedute perché lo spettacolo cominciasse, e subito dopo nuovamente a scambiarsi impressioni. E' capitato di ospitare spettatori anche nel piccolo appartamento che avevamo affittato per dormire, e cucinare per loro o condividere un bicchiere di vino a fine spettacolo. Il silenzio, allora, e lo spazio vuoto ci apparivano concretamente come campo di possibili relazioni. Possibilità non assenza; desiderio non attesa. Avevamo scelto San Simenone anche perché non semplice da raggiungere; anche geograficamente, appartata, ma strutturalmente al termine di una ripida salita e di una ripida scalinata sconnessa. Volevamo che lo spettatore dovesse superare un piccolo scoglio prima di arrivare, che ci fosse una piccola fatica, perché così nello spazio scenico attore e spettatore potessero essere più "alla pari" possibile. Questo è stato acuito da un clima decisamente non favorevole con delle giornate piovose e spazzate forte dal vento. Eppure, la comunità di spettatori, non numerosa (volevamo non superasse il numero di noi teatranti di troppe unità) si è mossa dal vicino paese così come dall'altro lato della provincia. Persone curiose, ma anche persone che sapevano cosa aspettarsi da noi.


Nella dinamica di crescita del gruppo credo sia stato, questo di Silere, un passaggio fondamentale. Dover provvedere a tutto senza una reale differenziazione dei ruoli, dal'allestimento, alla tecnica, alla sanificazione, ai pasti, alle esigenze di scena e poi riempire anche quella scena dei nostri corpi è stato per il gruppo uno strumento di consolidamento ma anche di costruzione dell'identità. Per me che vengo dai teatri di gruppo è stato l'unico modo per far conoscere le mie origini ai compagni di lavoro di oggi; per noi che parliamo di artigianato teatrale è stato il modo di sperimentarlo nella sua forma più alta e complessa. Del resto anche questo brogliaccio che vi trovate a leggere oggi è figlio di una scrittura collettiva, dalle parole alle immagini, è difficile dire quale appartenga ad una di noi e quale all'altra. Costruzione collettiva. Questo è quello che volevamo e questo è quello che abbiamo avuto. Una piccola comunità che incontra un'altra piccola comunità; accogliendo per poter essere accolti, mostrandosi senza eccessive difese per essere trattati come qualcosa di delicato e prezioso. Il passo successivo sarà mettere a sistema l'esperienza vissuta e, contemporaneamente, cercare di ripeterla. L'idea è abitare con Silere, dialoghi con il silenzio altri spazi da valorizzare. Passo dopo passo, momento dopo momento, geografia dopo geografia. Sempre tenendo ferma il più possibile la stessa struttura, la stessa scaletta, e lasciando che gli spettacoli e le performance crescano nutrendosi dei nuovi spazi e delle nuove comunità.

Francesco







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