Forum di Quaderni Costituzionali - Rassegna n. 12/2013

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FORUM DI QUADERNI COSTITUZIONALI (Rassegna n. 12/2013) ISSN 2281-2113 I PAPER DEL FORUM • Bankitalia e le riserve auree ai privati: forse l’ultimo passo verso la dismissione della sovranità monetaria (con un decreto legge di “riforma costituzionale”) – M. Esposito • L’assorbimento dei vizi di inammissibilità e l’assorbimento dei vizi di costituzionalità: nei meandri e nella polisemia di due “concetti” – A. Bonomi • Le interpretative di inammissibilità “processuali” e “di merito”: natura decisoria e effetto preclusivo? – A. Bonomi • Verso una modifica della legge elettorale toscana: primi appunti – R. Cheli • Il fenomeno del lobbismo negli Stati Uniti d’America: brevi considerazioni sugli strumenti di influenza delle lobbies e sulla evoluzione della relativa regolamentazione legislativa, fino alla sentenza “Citizens United v. FEC” – R. Di Maria e A. Doria • Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini: un dialogo decennale fra CEDU e Corte Costituzionale italiana – S. Favalli TEMI DI ATTUALITA’ – SISTEMA ELETTORALE • Finale di partita. Incostituzionale la legge elettorale – A. D’Aloia TEMI DI ATTUALITA’ – FONTI DEL DIRITTO • Sulla straordinaria necessità e urgenza di abolire il finanziamento pubblico dei partiti politici – A. Saitta TEMI DI ATTUALITA’ – DIRITTI E LIBERTA’ • Diritti civili e politici ed emergenze economiche: una prospettiva comparata – S. Ceccanti CORTE COSTITUZIONALE 2013 • Il controllo del giudice costituzionale sulla qualità della legislazione nel giudizio in via principale (sent. 70/2013) – D. Paris • “Oltre le apparenze”: Corte costituzionale e Corte di Strasburgo “sintoniche” sull’(in)effettività dei diritti dei detenuti in carcere (sent. 279/2013) – E. Malfatti TELESCOPIO • Portogallo: La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 381, 1º comma, del Codice di Procedura Penale – G. Vagli • U.S.A.: Writing inequality (…non senza conseguenze). Nota a margine della pronuncia della Corte Suprema United States v. Windsor – L. Conte AUTORECENSIONI • S. Mancini, M. Rosenfeld (a cura di), Constitutional Secularism in an Age of Religious Revival (2013)


Bankitalia e le riserve auree ai privati: forse l'ultimo passo verso la dismissione della sovranità monetaria (con un decreto legge di "riforma costituzionale") * di Mario Esposito ** (16 dicembre 2013) 1. Il d.l. n. 133/2013 (Disposizioni urgenti concernenti l'IMU, l'alienazione di immobili pubblici e la Banca d'Italia), approvato il 27 novembre 2013, mentre l'opinione pubblica era distratta dai riflessi politici delle vicende giudiziarie dell'ormai ex Sen. Berlusconi, appartiene, per quanto si riferisce alla Banca d'Italia, a quelle norme apparentemente secondarie e di dettaglio, capaci invece di esercitare «notevole influenza sulla costituzione materiale» (GUARINO, 2009, 8)1. In estrema sintesi, gli artt. 4, 5 e 6, innovando un assetto che durava dal 1936, da quando cioè, con il R.d.l. 12 marzo 1936, n. 375 (conv. in l. 7 marzo 1938, n. 141) la Banca centrale era stata trasformata da società anonima in istituto diritto pubblico, con conseguente "rimborso" agli azionisti "a partire dal 1° giugno 1936, [de]l valore delle azioni in relazione con la situazione della Banca al 31 dicembre 1935, nella misura fissa di lire 1.300 (milletrecento) per ciascuna azione, rappresentante il capitale versato e la quota di riserva afferente a ciascuna azione", dispongono che al capitale di Palazzo Koch, aumentato "mediante utilizzo delle riserve statutarie" da 156.000,00 Euro a ben 7,5 miliardi di Euro, possano partecipare anche e, anzi, soprattutto soggetti privati (banche italiane ed europee, imprese di assicurazione e di riassicurazione italiane ed europee, fondazioni di cui all'art. 27 d.lgs. n. 153/1999, enti di previdenza ed assicurazione italiani e fondi pensione di cui all'art. 4, co. 1, d.lgs. n. 252/2005 e 15-ter d.lgs. cit. "aventi soggettività giuridica"). Di fatto, è il caso di dire, nulla di nuovo, poiché già a partire dagli anni '90 del secolo scorso, quando si ebbe la privatizzazione delle casse di risparmio, degli istituti di credito di diritto pubblico e delle banche di interesse nazionale, ai quali, insieme con gli istituti di assicurazione e con quelli di previdenza, era riservata l'appartenenza delle quote di partecipazione al capitale di Bankitalia - rimasto significativamente invariato, salva la traduzione in Euro, dal 1936 al 2013 - queste ultime, invece di essere riconsegnate allo Stato, rimasero nel patrimonio delle società per azioni che avevano preso il posto degli enti suddetti. La novità è però (mal)celata nelle premesse al testo normativo con la motivazione, a preteso sostegno del ricorso alla decretazione d'urgenza, secondo cui vi sarebbe stata la necessità di superare asserite incertezze interpretative in ordine alla natura della partecipazione al capitale della Banca d'Italia e al suo contenuto economico: presupposto tanto fumoso, da risultare quasi confessorio della inesistenza dei requisiti richiesti dall'art. 77 Cost., non potendosi certo accedere alla tesi che una questione ermeneutica (che, ove davvero sussistente, sarebbe perdurata per decenni) possa di per sé legittimare il Governo alla decretazione d'urgenza. Ma il decreto non contiene alcuna norma interpretativa, bensì disposizioni, come si è detto, innovative e, innanzitutto, l'abrogazione dell'art. 20 R.d.l. n. 375/1936, che individuava i riservatari della proprietà dei titoli di partecipazione al capitale, motivando la scelta per congruità ai fini della tutela del pubblico credito e della continuità di indirizzo dell'istituto di emissione. * Scritto sottoposto a referee. 1 D'altra parte, sembra che proprio le vicende attinenti all'assetto giuridico della Banca d'Italia segnino momenti di grande rilievo della storia costituzionale del nostro Paese, rivelando la coessenzialità del tema ai fondamenti della sia della forma di governo, sia della forma di Stato. Per un interessante, molto acuto excursus in merito v. MERUSI, 2005, 883 ss.


Col che si ha la conferma della pretestuosità della evocazione di dubbi interpretativi, che, mette conto rilevare, se pure vi fossero stati, sarebbero stati non già risolti, ma aggravati dal d.l. n. 133/2013, dal momento che questo, pur aprendo il capitale di Via Nazionale ai privati, persiste tuttavia nel qualificare la Banca d'Italia quale istituto di diritto pubblico, ponendo così l'inaudito problema di un ente pubblico partecipato maggioritariamente da soggetti privati. 2. Il provvedimento si involge, dunque, in una contraddizione che affligge la sua stessa genesi e tradisce, chissà, l'imbarazzo di un intervento così radicale in una materia oggettivamente molto delicata e complessa, che tocca il cuore sia dell'ordinamento nazionale (PREDIERI, 9 ss.; MERUSI, 1972, 1425 SS.; ID., 1980, sub art. 47; D'ONOFRIO, 1979, 385 ss.), sia di quello comunitario, invocato, quest'ultimo tanto nelle premesse al decreto legge, quanto in un comunicato del Ministero dell'Economia e delle Finanze - sul quale ci si intratterrà tra poco - ma in modo del tutto generico e, anzi, erroneo, per semplice richiamo al Sistema Unico di Vigilanza Finanziaria, disciplinato dal Regolamento UE n. 1024/2013, del 15 ottobre del 2013, che, però, non sembra né caldeggiare, né tantomeno imporre i mutamenti strutturali disposti con il d.l. n. 133/2013 (circostanza alla quale va aggiunto che, come si vedrà, a dispetto dell'uso di una misura d'urgenza, la rivalutazione del capitale e la privatizzazione della Banca d'Italia, temi già da tempo agitati nel dibattito degli "specialisti", ha formato oggetto di uno studio commissionato dall'Istituto di Via Nazionale a tre esperti già nel mese di settembre 2013, le cui conclusioni sono state in sostanza integralmente fatte proprie dal Governo). All'indomani della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (30 novembre), a fronte delle prime critiche formulate in varie sedi all'impianto e agli effetti del provvedimento d'urgenza, il Ministero dell'Economia, vi si faceva cenno, ha diffuso, il 2 dicembre 2013, il comunicato stampa n. 239, che espone, con tono invero stizzito, brevissimi rilievi, che né risolvono, né attenuano i dubbi e le preoccupazioni (manifestate da chi scrive prima ancora dell'interevento normativo, preconizzandone anzi l'avvento, sulla base delle operazioni prodromiche messe in campo dalla nostra Banca centrale e dai suoi esperti). Val la pena di segnalare subito due passaggi. Afferma il Ministero "che è fuori luogo parlare di ‘privatizzazione’ della Banca d’Italia: infatti nulla cambia nella tipologia dei soggetti azionisti, che sono e restano le banche e altri soggetti finanziari determinati. Il decreto-legge, piuttosto, mira, per un verso, ad aggiornare il valore delle quote dei partecipanti al capitale, rimasto immutato da lungo tempo; per altro verso, mira a far sì che ciascun partecipante non possa detenere più del cinque per cento del capitale, prevedendo all’uopo un meccanismo di cessione delle quote di valore eccedente, al fine di realizzare una più equilibrata distribuzione delle quote". Ora, è quantomeno singolare che ci si arrischi a dire che la tipologia dei soggetti azionisti sarebbe rimasta immutata: a che scopo, allora, disporre l'abrogazione dell'art. 20 r.d.l. n. 375/1936? Se davvero il decreto legge che ne occupa avesse voluto soltanto provvedere alla rivalutazione delle quote dei partecipanti, avrebbe potuto e dovuto limitare le proprie disposizioni a questo profilo. Ma, come si cercherà di illustrare, l'asserzione del Ministero non è soltanto contraria all'evidenza normativa, bensì anche alla cronaca degli eventi e ai presupposti fattuali che hanno condotto all'adozione dell'atto. Né maggior pregio ha l'argomento relativo alla limitazione della percentuale del capitale detenibile da ciascun partecipante, perché, al di là della sua mera descrizione, esso non si fa alcun carico (come del resto accade per il decreto legge) degli effetti diretti e di sistema che discendono da tale limitazione e dal connesso obbligo di dismissione delle quote eccedentarie. Ma il comunicato continua e conclude con le seguenti considerazioni: "Le nuove norme sono in linea con l’indipendenza richiesta dai Trattati europei alla Banca d’Italia, che non 2


impongono specifiche soluzioni organizzative, ma riconoscono libertà agli ordinamenti nazionali, purché sia garantita l’autonomia e l’indipendenza della banca centrale. L’assetto della Banca d’Italia, fondato sulla partecipazione di soggetti privati, ha garantito nel tempo questi elementi, è stato considerato conforme ai principi europei al momento dell’ingresso dell’Italia nella moneta unica e va preservato. In conformità ai Trattati europei ed ai principi di libertà in essi contenuti poi, non si può escludere che i soggetti autorizzati a partecipare al capitale della Banca d’Italia possano avere anche sede legale e amministrazione centrale in uno Stato dell’Unione diverso dall’Italia". Se ne apprende, quindi, che le predicate urgenti esigenze derivanti dalla "imminente partecipazione della Banca d'Italia al Sistema Unico Europeo di Supervisione bancaria" (v. le premesse al decreto legge) non avrebbero richiesto alcuna "specifica soluzione organizzativa" e, pertanto, neppure quella adottata dal Governo. L'ammissione "liberatoria" si accompagna, però, ad un "falso storico": non è affatto vero che la Banca d'Italia abbia avuto "nel tempo" un assetto fondato sulla partecipazione di soggetti privati al suo capitale e che ciò abbia garantito l'autonomia e l'indipendenza dell'istituto. L'affermazione è contraddetta dalla storia della Banca dal 1936 al 2013 e dalla normativa vigente sino alla data di entrata in vigore del d.l. n. 133/2013, che, come si è visto, si è fatto carico proprio di espungere dall'ordinamento le disposizioni che escludevano in radice i privati dal capitale della Banca, perché - volendo riprendere le parole della Relazione del Governo sul disegno di legge di conversione del r.d.l. n. 375/1936 - "Oggi l'esercizio di questa attività da parte del privato non ha più alcun serio contenuto di intrapresa economica2 e la partecipazione del privato all'istituto di emissione non ha quindi più giustificazione. Tanto vale dunque disinteressare puramente e semplicemente il capitale privato, tutelandone, com'è giusto, i diritti acquisiti ed affermare che la Banca d'Italia è un ente di diritto pubblico, sottraendo, pertanto, le azioni di essi alla circolazione fra enti non qualificati" [RUTA, 1965, 858, nt. 12]. Per necessità logica, il diritto comunitario - che pretende esclusivamente garanzia di autonomia e di indipendenza - non vale neppure a giustificare la scelta di consentire che al capitale di Bankitalia partecipino soggetti stranieri, ancorché europei: al contrario, quei requisiti implicherebbero, piuttosto, una riserva nazionale, al fine di evitare che, nell'ipotesi in cui, ad es., alcune entità di altri Paesi UE abbiano acquisito un "pacchetto di controllo", all'autonomia e all'indipendenza dal Governo italiano si opponga, però, la dipendenza da scelte (pubbliche o private) di altri Stati. E, per altro verso, è dubbio che, stante il disposto dell'art. 345 T.F.U.E., le istituzioni europee possano in alcun modo vincolare gli Stati per quanto attiene alla disciplina della proprietà dei beni pubblici e privati. Appare, allora, poco o punto comprensibile perché il Governo - non si sa bene in base a quale norma - abbia chiesto un parere alla BCE, salvo approvare poi il decreto prima ancora di averlo ricevuto. 3. Le giustificazioni addotte dall'Esecutivo - che, secondo quanto riferito dalla stampa quotidiana, ha presentato la riforma sotto l'etichetta della public company (laddove, viceversa, la partecipazione al capitale resta pur sempre riservata soltanto ad alcune categorie di soggetti) - sembrano incoerenti rispetto alla reale natura giuridica del decreto legge e ai suoi effetti sistematici. La spia rivelatrice sta nella invenzione, alla quale si è fatto cenno, della questione interpretativa, in realtà inesistente. 2 Tanto ciò è vero che - è stato acutamente osservato (FERRO-LUZZI, 2007, 365) - i c.d. utili distribuiti da Bankitalia in percentuale sulle riserve, tali non sono, trattandosi piuttosto di un «buono, più che buono, compenso per la gestione di patrimoni altrui».

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Successivamente al 1936, infatti, non si è dubitato che la Banca d'Italia fosse un ente pubblico, e non già solo per le funzioni ad essa affidate (tali che, anche quando era società anonima, non erano mancate autorevolissime voci che inclinavano per la natura pubblica: basti rammentare FERRARA, 1921, 630; GRECO, 1936, 50 e 56; MANZINI, 1935, 62), ma anche per l'espressa qualificazione normativa quale istituto di diritto pubblico, confortata dall'assetto "proprietario" (è rimasta isolata l'opinione di MESSINEO, 1937, 21 ss., secondo il quale la presenza di elementi privatistici nella organizzazione della Banca avrebbe fatto premio sull'espressa connotazione legislativa): il sedicente dubbio ermeneutico appare allora porsi piuttosto come pretesto per affermare il principio sotteso alla regola dell'art. 4, co. 4, d.l. n. 133/2013, quello cioè della configurabilità di enti pubblici partecipati maggioritariamente da soggetti privati. Se tale assetto, a seguito della conversione in legge, si consolidasse saremmo di fronte ad una eclatante novità nell'ambito dell'organizzazione pubblica, perché, com'è evidente, ci si porrebbe ben al di fuori del perimetro proprio del conferimento di potestà pubbliche ai privati e, in pari tempo, con un colpo di penna sarebbe infine sciolto il vecchio nodo che aveva alimentato ampie polemiche dottrinali intorno alla possibilità che vi fosse un ente pubblico a struttura partecipativa (D'ALBERGO, 1960, 34 ss.). In altri termini, il rebus delle "partecipazioni non sociali per quote" (D'ALBERGO, 1960, 36) - che però tale non era per chi valorizzava la discrezionalità del legislatore nel determinare le figure soggettive nel diritto pubblico viene convertito in una certezza nominalistica: un tempo ci si chiedeva se la partecipazione al capitale e la distribuzione degli utili (quand'anche, come nel caso di Bankitalia, con predeterminazione di soglie massime percentuali), pur riferite, l'una e l'altra, a soggetti pubblici, fosse compatibile con la qualificazione di istituto di diritto pubblico, mentre oggi si consente che tale qualificazione possa darsi anche ad entità il cui capitale sia in mano, per la quasi totalità, a privati. In altri termini, mentre i peculiari innesti della forma societaria - rivenienti dall'antico ordinamento della Banca e riassumibili nei poteri dei quotisti, riuniti in assemblea (nomina degli organi amministrativi e di controllo: ma, quanto al Governatore, al direttore generale e ai vice direttori, per il tramite del comitato del consiglio superiore [a sua volta nominato dal consiglio medesimo] e con l'intervento esterno dello Stato, sotto forma di approvazione mediante decreto del Presidente della Repubblica, promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro del Tesoro, sentito il Consiglio dei Ministri) e nei diritti economici dei medesimi [ORTINO, 2 ss.; CAPRIGLIONE, 1997, 244 SS.] - era strumentale sia all'autonomia ed alla indipendenza dell'Istituto che, pur assoggettato alla vigilanza del Ministro del Tesoro (art. 108 T.U. n. 204/1910: ORTINO, 3], non si trovava però posto sotto il controllo "dominicale" dello Stato (non possono quindi condividersi le tesi secondo le quali, tenuto conto delle modalità di nomina degli organi amministrativi della Banca, natura e tipologia dei partecipanti al capitale non potrebbero incidere sull'esercizio delle sue funzioni), sia ad altri pubblici interessi, sostanziati dal sostegno ai quotisti, in allora ricadenti tutti nell'area del diritto pubblico; quegli stessi innesti si prospettano oggi forieri di altre (se non opposte) conseguenze, delle quali, però, il Governo non sembra essersi fatto carico alcuno, ritenendo che bastasse, a tacitare ogni dubbio, il previsto introito fiscale derivante dalla rivalutazione del capitale dell'Istituto centrale. 4. Con l'auspicio di contribuire a fare un poco di chiarezza nel groviglio che si intravvede soltanto dietro ai pochi articoli del d.l. che qui interessano, è necessario qualche breve cenno di storia giuridica recente ed un'analisi, ancorché rapida, dei disposti normativi, anche alla luce della cronaca politico-economica degli ultimi mesi. Sino all'entrata in vigore del d.l. n. 133/2013 la partecipazione di soggetti privati al capitale di Bankitalia era un'anomalia contra legem, determinatasi - vi si è fatto cenno - a seguito della stagione delle privatizzazioni, allorché le quote possedute dalle casse di risparmio e 4


dalle banche di interesse nazionale, invece di essere "riconsegnate" allo Stato, rimasero nel patrimonio delle aziende di credito, divenute ormai società di capitali a regime puramente privatistico, con il risultato di concentrare nelle mani di Intesa Sanpaolo e di Unicredit circa il 52,4% del capitale. Per diversi anni, dunque, l'art. 20 R.D. n. 375/1036 è stato violato, senza che vi fosse alcuna reazione: nel 2005, la legge n. 262 (art. 19, co. 10) impose un preciso termine per la dismissione delle partecipazioni in mano privata, destinandole allo Stato e agli enti pubblici, ma la disposizione restò priva di ogni atto applicativo, primo fra tutti il regolamento alla cui emanazione era condizionata tale dismissione. E merita rilevare che, a stretta regola, la norma non sarebbe stata neppure necessaria, se non per dirimere gli equivoci che sarebbero potuti scaturire da una interpretazione meramente letterale e non sistematica della disposizione del 1936: esistono oggi ancora, evidentemente, casse di risparmio ed istituti di assicurazione (diversamente dagli istituti di credito pubblico e dalle banche di interesse nazionale), ma non sono più sottoposti a quella disciplina che faceva includere le une e gli altri nell'ambito del diritto pubblico. Al contrario, la stessa Banca d'Italia tentò oggettivamente di opporsi all'attuazione della l. n. 262/20053, con una modifica statutaria adottata nel 2006, che espungeva la precedente clausola riproduttiva, in sostanza, del dettato normativo primario del r.d.l. n. 375/1936, così determinando però un aggravamento degli estremi di illegittimità della fattispecie. Il cerchio si è poi chiuso con il d.l. n. 133/2013, che ha provveduto ad abrogare anche l'art. 19, co. 10, l. n. 262/2005. Nei lunghi anni di illegittima persistenza di soggetti privati nel capitale della Banca, evidentemente assecondata da un disegno alternativo a quello legale, progettato e attuato ai margini dell'Istituto, i quotisti - e tra di essi soprattutto le banche - hanno valutato le proprie partecipazioni ben oltre il valore nominale, tenendo evidentemente conto del patrimonio della partecipata, comprensivo delle riserve auree. E così, per es., la Carige l'ha stimata in 22,1 miliardi di euro (v. la Repubblica del 30.9.2013). E a tanto si perveniva includendo nelle quote anche le riserve ordinarie e straordinarie che compaiono nel bilancio di Bankitalia, nonché le risorse finanziarie della stessa, significativamente denominate, nei documenti di bilancio, "riserve ufficiali del Paese (oro e attività in valuta verso non residenti nell'area dell'euro)". Ma la legge e lo statuto della Banca non lo consentivano, per almeno due ragioni: da un lato, perché le norme erano state pensate per un istituto al quale partecipassero esclusivamente soggetti pubblici (o a questi equiparati); dall'altro, perché le riserve, come ha dichiarato a Il Sole 24 Ore (6 settembre 2013) il Direttore generale, Salvatore Rossi, "sono state accumulate dalla Banca centrale attraverso la sua attività tipica che è quella di battere moneta, negli anni passati da sola, oggi in condominio con la Bce. Una funzione pubblica, peculiare della banca centrale, su cui i partecipanti non possono avere pretese". È accaduto, quindi, che, invece di resistere alla pressione delle banche, le quali agiscono secondo la logica commerciale, il Governo ha pensato bene di legittimare il loro metodo di "computo", pur contenendone i risultati, ricorrendo ad un criterio elaborato da una commissione di esperti: ma tanto quanto basta per contribuire ad ausiliarle nella soluzione del loro notissimo problema di consistenza patrimoniale, alla stregua dei criteri di Basilea 3 4. La soluzione, che peraltro urta contro il 3 D'altra parte, nel documento ufficiale (agevolmente reperibile sul sito istituzionale della Banca) che raccoglie i risultati del lavoro (terminato con singolare celerità) della commissione di esperti nominata dall'Istituto centrale e alla quale si è già fatto cenno si legge addirittura che "occorre evitare che si dispieghino gli effetti negativi della legge n. 262 del 2005, mai attuata, che contempla un possibile trasferimento allo Stato della proprietà del capitale della Banca. L'equilibrio che per anni ha assicurato l'indipendenza dell'Istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni politiche, non va alterato".

4 Frattanto e in ogni caso la rivalutazione delle quote mediante la rivalutazione del capitale dell'Istituto di via Nazionale, comporta un notevolissimo aumento dei dividendi da distribuire ai quotisti: l'art. 39 dello Statuto della

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divieto europeo di concedere aiuti di Stato (i partecipanti al capitale della nostra Banca centrale si vedrebbero attribuire un diritto di appartenenza su beni pubblici) è stata "indorata" con pretesi benefici fiscali che ne deriverebbero per le casse dello Stato, senza, tuttavia, considerare che il tributo (che dovrebbe peraltro essere determinato con un'aliquota agevolata) trova più che ampia copertura nell'incremento attribuito (in sostanza a titolo gratuito) dallo Stato alle quote del capitale dell'Istituto centrale. 5. Ma non è tutto: la privatizzazione della Banca d'Italia, sancita dalla riconfigurazione dei soggetti ammessi a detenerne le quote, in gran parte di natura privata, includendovi anche entità straniere, ancorché comunitarie, porta con sé un altro rilevantissimo effetto, sul quale tace anche il comunicato di Via XX Settembre. Il provvedimento governativo, recependo puntualmente le indicazioni formulate dal suddetto comitato di esperti - i quali avevano suggerito di deconcentrare l'appartenenza del capitale, riunito in poche mani, previa, però, rivalutazione delle quote - fissa al 5% del capitale il limite massimo di partecipazione con diritto di voto e agli utili, così incentivando la cessione delle eccedenze. Ora, è ben noto e persino ovvio che, nelle eventuali negoziazioni destinate alla cessione delle quote, il loro valore verrebbe stabilito facendo riferimento anche al patrimonio della Banca d'Italia, nel quale rientra l'oro che l'Istituto ha accumulato nei molti anni nei quali ha esercitato la funzione pubblica di emissione monetaria 5: si tratta, in altri termini, delle riserve auree, la consistenza delle quali situa l'Italia al terzo posto della graduatoria mondiale. Secondo voci autorevolissime, benché ufficiose, esse sarebbero sufficienti a garantire l'intera emissione di moneta nazionale, allorché lo Stato italiano decidesse di recedere dall'Eurosistema o vi fosse costretto. È un aspetto del quale, forse non a caso, si parla ben poco, anche nelle trattazioni giuridiche dedicate alla Banca centrale 6: ma l'analisi della normativa sinora vigente induce a ritenere che si tratti di beni pubblici di natura quasi demaniale, destinati ad uso di utilità generale, che Bankitalia non avrebbe più titolo per detenere, essendo la sua funzione monetaria confluita in quella affidata ormai alla Banca Centrale Europea (alla quale, infatti, l'Istituto di Via Nazionale ha dovuto conferire un parte

Banca d'Italia, affidando ogni decisione in merito al Consiglio superiore dell'Istituto, stabilisce infatti la misura massima degli utili netti da attribuire ai partecipanti innanzitutto in ragione percentuale del capitale. In pari tempo, si avrebbe, specularmente, una diminuzione della quota degli utili che, sempre alla stregua dell'art. 39 cit., deve essere devoluta allo Stato.

5 È il caso di segnalare che, soprattutto nell'ultimo anno, si sono andati ripetutamente diffondendo tra i quotisti della Banca di Via Nazionale, ma con il conforto di autorevoli economisti (v. il documento a firma di Fulvio Coltorti e di Alberto Quadrio Curzio apparso su Il Sole 24 Ore del 5 settembre 2013), propositi, diversamente declinati, di fare leva sulla (almeno apparente) sussistenza di un diritto dominicale di Palazzo Koch sulle riserve auree, al fine di giungere ad una corrispondente rivalutazione delle loro partecipazioni: ciò che, oltre a confermare la mancanza di ogni ragione di necessità ed urgenza per adottare un decreto legge, chiarisce che l'effetto del decreto del quale si dice nel testo asseconda proposte già manifestate dai quotisti. A fronte delle preoccupazioni suscitate da tali propositi, la Banca d'Italia, in significativa anticipazione del d.l. n. 133/2013 si era affrettata a pubblicare, sul proprio sito istituzionale, una nota di chiarimenti, che avrebbe dovuto essere finalizzata a tranquillizzare l'opinione pubblica in ordine alla natura pubblica dell'Istituto che, a suo dire, non avrebbe potuto subire compromissioni o essere esposta a conflitti per la natura privata della maggioranza dei c.d. quotisti.

6 Se ne tratta brevemente in CAPRIGLIONE e CIRILLO, 2, i quali opinano per l'appartenenza delle riserve auree alla Banca d'Italia, traendo argomento, sotto il profilo normativo, dalle disposizioni di legge che hanno autorizzato l'Istituto centrale a computare al suo attivo le disponibilità in metallo: sembra però di doversi osservare in contrario che, pur volendo lasciare da parte le ulteriori finalità di simili previsioni (ad es. l. n. 14/1960; l. n. 867/1976), la necessità di un titolo statale di abilitazione deponga sintomaticamente nel senso della non appartenenza delle riserve auree alla Banca centrale.

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delle nostre riserve in valuta) 7. L'oro, insomma, sarebbe degli Italiani e dovrebbe pertanto essere restituito allo Stato8. Non è difficile immaginare, allora, lo scenario che si aprirebbe se, a privatizzazione avvenuta, si decidesse o si avesse necessità di riportare la Banca d'Italia in mano pubblica: le quote dovrebbero essere acquistate, ovvero espropriate facendo riferimento ad un valore esorbitante (si pensi che, nello stato patrimoniale della Banca al 31.12.2012 la voce "oro e crediti in oro" ammonta a 99.417.221.610,00 Euro), con prevedibili gravissimi effetti sul debito pubblico e con pesanti riflessi sulla sorte delle riserve auree, sempre che se ne possa predicare la legittima appartenenza alla Banca d'Italia, come essa a tutt'oggi assume, facendo generico riferimento non ad una legge, ma alla legge. Che se poi tale assunto fosse fondato, l'operazione di privatizzazione portata a termine potrebbe mettere a rischio, fino a renderla impossibile, la destinazione delle riserve alla funzione di emissione della moneta, qualora si volesse o si dovesse tornare alla valuta nazionale. E non è indifferente, anche in questa prospettiva, il fatto che, secondo il vigente Statuto di Bankitalia (art. 6), sul quale il decreto parrebbe non incidere, sono i partecipanti, riuniti in assemblea straordinaria, a decidere sulle sue modificazioni. In definitiva, la rivalutazione delle quote della Banca d'Italia, insieme con un (dubbio) provento fiscale, è suscettibile di portare con sé conseguenze tutt'altro che favorevoli per gli Italiani. E sarebbe auspicabile che le Camere, chiamate a convertire il decreto, si dessero carico dei numerosi problemi e delle pericolose implicazioni che la normazione di urgenza varata dal Governo suscita e produce, assumendo altresì consapevolezza del fatto che l'indipendenza e l'autonomia dell'Istituto centrale possono e devono essere perseguite ricorrendo ai molti moduli organizzativi all'uopo disponibili. ** Mario Esposito, Professore straordinario di diritto costituzionale, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università del Salento

BIBLIOGRAFIA CAPRIGLIONE, F., 1997, voce Banca d'Italia, in Enc. dir., Agg. I, 243 ss. CAPRIGLIONE, F.; CIRILLO, F., 1990, voce Oro, in Enc. giur., XXII, ad vocem D'ALBERGO, S., 1960, Le partecipazioni statali, Milano, Giuffrè 7 Le riserve auree - qui è possibile farvi soltanto un cenno - successivamente alla sospensione, in forza dell'art. unico del r.d.l. n. 1923/1935, del regime di convertibilità dei biglietti di banca "in oro o, a scelta della banca medesima, in divise su paesi esteri nei quali sia vigente la convertibilità dei biglietti di banca in oro", prevista dall'art. 1, co. 1, r.d.l. n. 2325/1927, hanno svolto una funzione essenziale per il governo della bilancia dei pagamenti e, quindi, dell'esposizione dell'Italia verso l'estero e, pertanto, anche di garanzia dell'indipendenza e della sovranità del popolo italiano. Se, allora, l'entrata del nostro Paese nell'Eurosistema ha determinato, come in effetti dovrebbe essere, una delega della funzione monetaria ad un ente di natura, lato sensu, consortile, qual è la BCE, e non già un'abdicazione alla stessa, deve conseguirne che le riserve auree, nonché quelle in valuta estera mantengono intatta il loro ufficio e, anche per questa ragione - oltre che per quella strettamente attinente alla imputazione del titolo dominicale - devono permanere nella titolarità del popolo italiano, cessando semmai, per gli stessi motivi, ogni ragione che dia fondamento alla loro detenzione da parte della Banca d'Italia.

8 Nel 2009, infatti, Jean Claude Trichet, allora Governatore della BCE, a fronte di uno dei tentativi - più volte occorsi negli ultimi anni - di fare luogo ad operazioni concernenti le riserve auree basati sull'assunto che esse siano di proprietà della Banca d'Italia, pose l'interrogativo se esse non appartenessero invece agli Italiani.

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D'ONOFRIO, F., 1979, Banca d'Italia e costituzione economica: la prospettiva della crisi dello Stato nazionale, in Banca, borsa, 385 ss. FERRARA, F., 1938, Le persone giuridiche, 37 e 136 FERRO-LUZZI, P., 2007, Cosa è la Banca d'Italia, 1, 264 ss. GRECO, P., 1936, Corso di diritto bancario, 50 e 56 GUARINO, G., 2009, La figura e l'opera di Guido Carli, t. 1 Riflessioni sul governatorato Carli, Torino, Bollati Boringhieri MANZINI, V., 1935, Trattato di diritto penale, V, Torino, Utet, 62 MESSINEO, F., 1937, Istituti di credito e banche di diritto pubblico, in Banca, borsa, I, 22 MERUSI, F., 1972 Per uno studio sui poteri della banca centrale nel governo della moneta, in Riv. trim. dir. pubbl., 1425 ss. MERUSI, F., 1980, in Commentario della Costituzione fondato da G. BRANCA e continuato da A. PIZZORUSSO, Rapporti economici, III (art. 45-47), Bologna-Roma, Zanichelli - Il Foro italiano, sub art. 47 MERUSI, F., 2005, Banca d'Italia ed evoluzione costituzionale. Le Relazioni annuali del Governatore come «Annali della Repubblica», in Riv. trim. dir. pubbl., 883 ss. ORTINO, S., 1988, voce Banca d'Italia, in Enc. giur., IV, ad vocem PREDIERI, A., 1996, Il potere della Banca centrale: isola o modello?, Firenze, Passigli RUTA, G., 1965, voce Emissione (istituti di), in Enc. dir., XIV, 858, nt. 12

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Le interpretative di inammissibilità “processuali” e “di merito”: natura decisoria e effetto preclusivo? 1 di Andrea Bonomi (8 dicembre 2013) SOMMARIO: 1) Premessa: le ordinanze n. 44 del 2013, n. 198 del 2013 e n. 242 del 2013 – 2) La distinzione fra le decisioni di inammissibilità di carattere decisorio e dunque con effetti preclusivi nei confronti del giudice a quo e le pronunce di inammissibilità di natura non decisoria e pertanto con efficacia non preclusiva verso il giudice del giudizio principale – 3) Natura decisoria o non decisoria dell’interpretativa di inammissibilità? – 3.1 La posizione della dottrina e qualche indizio nella giurisprudenza costituzionale – 3.2. Il caso dell’interpretativa di inammissibilità “processuale” – 3.3. Il caso dell’interpretativa di inammissibilità “di merito” –

1) Premessa –

Da quando, a partire all’incirca dalla metà degli anni novanta, la Corte – così aderendo alle sollecitazioni immediatamente precedenti di parte della dottrina e in particolare di un autorevole commentatore 2 – ha cominciato a “sanzionare” 3 con l’inammissibilità, perlopiù manifesta, l’omessa interpretazione adeguatrice da parte del giudice a quo, molti sono stati i problemi che hanno affaticato la dottrina in relazione a tale tecnica decisoria ad iniziare dalla questione, ancora oggi assai controversa, della stessa ammissibilità dell’utilizzo di siffatta formula e ancor prima della validità del principio, espresso compiutamente fin dalla sentenza n. 356 del 1996 4, secondo il quale “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”5. Alcune recenti decisioni della Corte costituzionale offrono lo spunto per talune considerazioni su uno di questi problemi, del quale vorremmo occuparci in questa sede, e cioè sulla questione problematica inerente la natura più o meno decisoria e gli effetti più o meno preclusivi delle pronunce con le quali la Corte dichiara l’inammissibilità per omesso o inadeguato sforzo profuso dal giudice a quo al fine di interpretare in senso compatibile con la Costituzione la disposizione indubbiata e cioè di quelle che efficacemente e 1 Scritto sottoposto a referee. 2 Il riferimento è a M.R. MORELLI, L’anomalia delle <<interpretative di rigetto>> tra equivoci e timidezze del giudice a quo e supplenze della Corte costituzionale, in Giust. Civ. 1994, I, 2085-86, il quale, preconizzando l’interpretativa di inammissibilità, reputava che “nessuno (o comunque solo un minimo) spazio dovrebbe esservi… per sentenze di rigetto <<interpretative>>, perché <<l’interpretazione adeguatrice>>, che tali sentenze assumono in premessa, avrebbe dovuto essere compiuta, ex ante, dal giudice del processo a quo”.

3 A giudizio di A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano 2004, 216, le decisioni di inammissibilità adottate con riferimento a questioni di costituzionalità affette da un vizio rimediabile dal giudice a quo assumono il significato di “biasimo” nei suoi confronti.

4 In Giur. Cost. 1996, 3096 ss.


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sinteticamente sono state definite in dottrina le “interpretative di inammissibilità” 6 giacché esse comportano una “divaricazione tra disposizione e norma, portando la seconda ad allontanarsi percettibilmente e, talora, irreversibilmente dalla prima, sicché la conservazione risulta, poi, alla fin fine, unicamente, appunto, del testo, non già della norma, così come originariamente e genuinamente voluta dal legislatore” 7. Si pensi all’ordinanza n. 44 del 2013 8 in cui la Corte, investita della questione di legittimità costituzionale di due disposizioni contenute in decreti legge per la ipotizzata violazione degli artt. 3, 24, 36 e 38 Cost., accoglie l’eccezione d’inammissibilità opposta dall’Avvocatura dello Stato e incentrata sull’assenza nell’ordinanza di rinvio di qualunque esposizione dei fatti di causa e dunque dichiara manifestamente inammissibile la questione per assoluto difetto di motivazione in punto di rilevanza “solo apoditticamente 5 Come noto, da sempre e a tutt’oggi si fronteggiano sostanzialmente due scuole di pensiero: a giudizio di un’autorevole impostazione, la Corte, nel momento in cui dichiara l’inammissibilità della questione sulla base del principio che si è ricordato sopra nel testo, “stravolge il meccanismo come configurato nella legge costituzionale, la quale prevede che il giudice abbia l’obbligo di sollevare la questione non quando è convinto della incostituzionalità della norma, ma quando dubita della sua costituzionalità (ad, anzi a mio parere, quando ritiene ragionevole il dubbio espresso dalla parte che ha sollevato la questione)” [così G.U. RESCIGNO, Interpretazione costituzionale e positivismo giuridico, in G. AZZARITI (a cura di), Interpretazione costituzionale, Torino 2007, 21, con una tesi, come ben noto, fatta propria anche dal Pace in risalenti e in recenti scritti e da altri autori (cfr., sia pure sulla base anche di altre argomentazioni, G. G EMMA, Inammissibilità delle sentenze <<interpretative di inammissibilità>>, in M. D’AMICO-B. RANDAZZO (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino 2009, 278-81)]; secondo un’opposta ed altrettanto autorevole impostazione, deve essere, invece, difesa strenuamente la posizione della Corte, rilevandosi che il principio che si pone a fondamento della preferenza per l’interpretazione adeguatrice è quello della presunzione di legittimità costituzionale delle leggi (cfr. F. M ODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli 2008, 147, che ribadisce la tesi – cui aderiscono anche il Ruotolo ed altri autori – in numerosi scritti). Uno sguardo d’insieme del dibattito sull’ammissibilità delle interpretative di inammissibilità può rinvenirsi, volendo, in A. BONOMI, Il limite oltre il quale non può spingersi l'interpretativa di inammissibilità per omessa interpretazione “conforme a” e il suo diverso “colore” rispetto alla decisione di infondatezza, in Forum di Quad. Cost. 2013.

6 La definizione, come noto, è dovuta a E. L AMARQUE, Una sentenza <<interpretativa di inammissibilità>>?, in Giur. Cost. 1996, 3107, la quale in altra sede osserva d’aver scelto siffatta nozione definitoria in quanto la motivazione di tali pronunce, “similmente alla motivazione di molte pronunce di rigetto, lascia intendere che, qualora la giurisprudenza si orientasse in modo pressoché unanime nella direzione già seguita dal giudice a quo, la Corte perverrebbe, con ogni probabilità, alla dichiarazione di incostituzionalità della disposizione impugnata” (E. LAMARQUE, Le sezioni unite penali della Cassazione <<si adeguano>>… all’interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale, in Giur. Cost. 1999, 1422 nota 27).

7 Così, mirabilmente, A. RUGGERI, Corte costituzionale e Parlamento tra coperture del <<modello>> e fluidità dell’esperienza, in A. RUGGERI-G. SILVESTRI (a cura di), Corte costituzionale e Parlamento. Profili problematici e ricostruttivi, Milano 2000, 41, secondo il quale è ben vero “che non vi sono norme frutto della determinazione del legislatore, ma solo disposizioni, queste e non quelle venendo unicamente confezionate dalle mani dell’autore delle leggi; e, ancora, e conseguentemente, che non vi sono norme autenticamente espressive della volontà del legislatore stesso, essendo a dir poco ingenuo il tentare una (peraltro opinabilissima) interpretazione psicologica della mens legis al fine di desumere ciò che davvero sarebbe stato voluto al momento del perfezionamento dell’atto… E tuttavia rimane il fatto in sé: che non poche volte la Corte fa ricorso ad una <<reinterpretazione>> del testo, che dichiara orientata verso… la Costituzione, proprio per la materiale impossibilità di incidere sul testo stesso, <<manipolandolo>> in modo adeguato al caso” (pp. 41-2). Sul punto cfr. anche, più recentemente, R. B IN-G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino 2009, 43-6.

8 In www.giurcost.org.


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affermata dal rimettente, ma non verificabile, stante la totale mancanza di esposizione dei fatti di causa”; tuttavia, la Corte evidenzia non solo questo motivo di inammissibilità, ma anche quello relativo all’assoluto difetto di motivazione in punto di non manifesta infondatezza, “risultando del pari omesso qualsiasi autonomo sviluppo argomentativo relativamente agli evocati parametri costituzionali”, e soprattutto evidenzia altresì, come ulteriore ragione che le impedisce di esaminare nel merito la questione propostale, che rispetto ai parametri costituzionali invocati “neppure è stata previamente verificata, come doveroso, la possibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme della norma denunciata”. Si consideri anche l’ordinanza n. 198 del 2013 9 in cui la Corte, investita della questione di legittimità costituzionale di due articoli – uno del codice civile e uno del codice di procedura civile – nella parte in cui non prevedono, in ipotesi di estinzione della società per il caso di volontaria cancellazione dal registro delle imprese, che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società cancellata fino alla formazione del giudicato per l’ipotizzata violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., dichiara la manifesta inammissibilità della quaestio, evidenziando sia un profilo d’inammissibilità legato alla specifica formulazione del petitum sia l’ulteriore profilo di inammissibilità rappresentato dal fatto che l’eventuale declaratoria d’incostituzionalità non si configurerebbe come soluzione costituzionalmente imposta sia, infine, il motivo di inammissibilità per il quale l’assunto interpretativo da cui muove il giudice a quo è inidoneo a sottrarlo dal dovere di sperimentare la possibilità di conferire alle disposizioni impugnate un significato compatibile con gli evocati parametri costituzionali, tanto più – prosegue la Consulta – che non solo l’ipotizzabilità ma anche la concreta praticabilità di una diversa e più in particolare costituzionalmente conforme interpretazione delle disposizioni impugnate risulta essere operazione ermeneutica possibile così come confermato da alcune sopravvenute pronunce delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione. Si appunti l’attenzione, infine, sull’ordinanza n. 242 del 2013 10 nella quale la Corte, investita della questione di costituzionalità di due disposizioni legislative nella parte in cui – nell’interpretazione offertane del rimettente e diversa da quella che assurge a diritto vivente – prevedono che il giudice di pace deve astenersi quando sussistono “gravi ragioni di convenienza” e quindi anche quando sussiste un personale interesse del giudice correlato al regime di trattamento economico fondato sul “cottimo” per la violazione degli artt. 3, 97 e 111 Cost., dichiara la questione manifestamente inammissibile sulla base dei seguenti motivi: innanzitutto a causa della genericità delle argomentazioni con cui il rimettente deduce la violazione degli artt. 3 e 111 Cost.; in secondo luogo in virtù della circostanza che, pur negando esplicitamente la corrispondenza al diritto vivente dell’interpretazione delle disposizioni impugnate da lui propugnata, “il rimettente si sottrae ad uno sforzo di esegesi diversa, che consenta di superare i dubbi di costituzionalità o che sia costituzionalmente orientata, esperendo un improprio tentativo di ottenere da questa Corte l’avallo dell’interpretazione proposta, con un uso distorto dell’incidente di costituzionalità”; infine in considerazione della contraddittorietà della questione sollevata, assumendo il rimettente che il trattamento economico del giudice di pace, fondato sul

9 In www.giurcost.org.

10 In www.giurcost.org.


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“cottimo”, ne mini l’imparzialità pur censurando al tempo stesso le norme che, a suo dire, gli imporrebbero di astenersi per salvaguardarla. Tutte queste decisioni sono accomunate dal fatto che uno dei plurimi motivi di inammissibilità in esse evidenziati dalla Corte e che hanno condotto alla dichiarazione di inammissibilità, oltretutto manifesta, è costituito dall’omessa o inadeguata interpretazione conforme a Costituzione della disposizione (o delle disposizioni) la cui incostituzionalità il giudice a quo ipotizza; come dicevamo all’inizio, a noi in questa sede interessa tentare un piccolo approfondimento in merito alla natura, o meno, decisoria e agli effetti, o meno, preclusivi della decisione di inammissibilità fondata (anche) su tale profilo di inammissibilità. 2) La distinzione fra le decisioni di inammissibilità di carattere decisorio e dunque con effetti preclusivi nei confronti del giudice a quo e le pronunce di inammissibilità di natura non decisoria e pertanto con efficacia non preclusiva verso il giudice del giudizio principale – Prima di porci un siffatto interrogativo è però opportuno ricordare che fino all’incirca agli anni ottanta la Corte, laddove il vizio relativo alle condizioni di instaurazione del processo costituzionale fosse stato sanabile ad opera del rimettente (ad esempio, mancata notifica o comunicazione dell’ordinanza di rinvio o mancata motivazione sulla rilevanza o sulla non manifesta infondatezza o questione perplessa o contraddittoria etc…), era solita impiegare la formula della restituzione degli atti al giudice a quo con un invito, più o meno esplicito, a rimuovere il vizio accertato e a rimettere così nuovamente la questione alla Corte, con la conseguenza che nessuna efficacia preclusiva poteva essere riconnessa alla decisione, mentre, qualora il vizio fosse stato insanabile (ad esempio, questione sollevata non da parte di un giudice o non nel corso di un giudizio o avente ad oggetto un atto privo della forza di legge o caratterizzata dall’inidoneità del parametro etc…), la Corte impiegava perlopiù la formula dell’inammissibilità, la quale, essendo il vizio “fuori della portata” della disponibilità del rimettente, esplicava effetti preclusivi con riferimento alla riproposizione della stessa questione nel medesimo procedimento in cui era stata sollevata. A partire da un certo momento e più in particolare dal cosiddetto smaltimento dell’arretrato, questo sistema, giudicato in dottrina “assai chiaro, oltre che logico e razionale”11, è stato, per così dire, fortemente incrinato dal mutato atteggiamento della Corte costituzionale la quale ha cominciato a non ricorrere vieppiù alla “più opportuna” 12 pronuncia di restituzione degli atti ma ad impiegare la formula dell'inammissibilità anche 11 R. ROMBOLI, Decisioni di inammissibilità o fondate su errore di fatto e limiti alla riproposizione da parte del giudice a quo della stessa questione nel corso del medesimo giudizio, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, Milano 1990, 170, il quale osservava che quel sistema era “da approvare anche in considerazione degli interessi superiori coinvolti nel processo costituzionale”.

12 Così R. ROMBOLI, Evoluzione giurisprudenziale ed aspetti problematici della restituzione degli atti al giudice a quo, in Giur. Cost. 1992, 560-61, nonché ID., Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in ID. (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1993-1995), Torino 1996, 151 e ivi nota 109 [per l'osservazione che, nel momento in cui la Corte si è posta come obiettivo primario lo smaltimento delle cause pendenti, essa si è mostrata meno disponibile “ad un dialogo costruttivo con il giudice ed a mantenere aperta quella porta da questo dischiusa attraverso la sua ordinanza, fine al quale è particolarmente adatta la decisione della restituzione degli atti. Quel che interessa maggiormente la Corte è chiudere il maggior numero di questioni possibile e di farlo in maniera definitiva, per cui si preferisce impiegare nelle stesse ipotesi la decisione di inammissibilità (semplice o manifesta)”].


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nelle ipotesi in cui l'eliminazione del vizio riscontrato dalla Corte stessa fosse rientrato nella disponibilità dell'autorità giudiziaria rimettente. In seguito a questo mutato orientamento della Corte si è posto il problema se, una volta che il rimettente avesse sanato il vizio riscontrato nella decisione d’inammissibilità, lo stesso rimettente avrebbe potuto riproporre la questione nel medesimo procedimento senza dover subire una nuova decisione di inammissibilità in quanto la questione era già stata decisa nel senso dell’inammissibilità: in altri termini, si è posto prepotentemente il tema dell’efficacia preclusiva della decisione di inammissibilità che avesse riscontrato la sussistenza di un vizio rimuovibile. Sotto questo profilo, facendo proprie le acute intuizioni di autorevole dottrina 13, la Corte, a partire in modo particolare dalla sentenza n. 135 del 1984 14, “quando il titolo dell'inammissibilità dichiarata dalla Corte lo consente” 15 e cioè qualora il motivo sulla cui base la prima volta era stata pronunciata l'inammissibilità fosse stato rimuovibile e fosse stato poi effettivamente eliminato nella nuova ordinanza di rinvio, non ha dichiarato inammissibile ma – sempre non sussistendo altre ragioni tali da imporre l’adozione di una pronuncia processuale – ha ripreso in esame nel merito la questione su cui aveva già espresso l’inammissibilità riproposta dal medesimo giudice nello stesso procedimento, con la conseguenza che in questi casi alle decisioni d'inammissibilità non viene conferito nessun effetto preclusivo alla riproposizione. Qualora, invece, il vizio che viene riscontrato dalla Corte e che costituisce la ragione dell'inammissibilità sia insanabile da parte dello stesso giudice a quo, allora l'effetto della decisione di inammissibilità deve intendersi preclusivo nel senso che un'ulteriore riproposizione della questione da parte di quello stesso giudice nel medesimo procedimento andrebbe inevitabilmente incontro ad una nuova pronuncia di inammissibilità. L’unica eccezione al principio poc’anzi posto potrebbe forse essere rinvenuta nell’ipotesi in cui tale decisione si fondi su un errore di fatto e cioè su uno di quegli “errori di percezione influenti sulla determinazione della fattispecie oggetto del giudizio di legittimità costituzionale”16, ossia su un “<<abbaglio dei sensi>>,… una svista,… una distrazione del giudice, che non si accorge che dagli atti del processo emerge 13 Il riferimento è soprattutto a L. C ARLASSARE, Le <<questioni inammissibili>> e la loro riproposizione, in Giur. Cost. 1984, 759 ss., la quale osservava che, siccome l'art. 2, comma 1 N. I. attribuisce al Presidente della Corte di accertare la regolarità dell'ordinanza e delle notificazioni prima di disporre la pubblicazione in Gazzetta e poiché ciò comporta, in caso di eventuali irregolarità o carenze, la richiesta al giudice a quo di colmare le lacune riscontrate o di procedere agli adempimenti omessi, “è impensabile che uno stesso difetto – ad esempio la mancata notificazione –, se rilevato dal Presidente provochi una richiesta di regolarizzazione affinché poi il giudizio possa avere il suo corso e, invece, se rilevato successivamente, consenta una decisione d'inammissibilità definitivamente preclusiva del giudizio di costituzionalità” (p. 759) e poteva così concludere nel senso che l'effetto preclusivo delle decisioni d'inammissibilità “nei confronti dello stesso giudice remittente… deriva unicamente dal contenuto della decisione, ossia dalle ragioni per le quali l'inammissibilità è stata dichiarata” (p. 760).

14 In Giur. Cost. 1984, I, 883.

15 A. LA PERGOLA, La giustizia costituzionale nel 1986, in Foro It. 1987, V, 156.

16 Così G. ZAGREBELSKY, Errori di fatto e sentenze della Corte costituzionale, in Giur. Cost. 1967, 1520.


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chiaramente l’esistenza o l’inesistenza di un fatto, di cui bisognava tener conto nel decidere”, “abbaglio” che deve essere, peraltro, “determinante… sulla decisione a tal punto che essa sarebbe stata diversa se il giudice non fosse incorso in quella falsa rappresentazione della realtà…” 17: in tale caso alcuni commentatori, muovendo dal presupposto – invero negato recisamente da altri studiosi 18 – secondo cui il giudice non può, attraverso un'applicazione dell'art. 395, n. 4 cod. proc. civ. “estensiva”, chiedere la revocazione della decisione di inammissibilità suddetta 19, sostengono che, pur di fronte appunto ad una decisione di inammissibilità di tipo decisorio, il giudice stesso potrebbe risollevare la questione nel medesimo procedimento senza dover incorrere in una decisione “sanzionatoria” di inammissibilità 20. Ritornando comunque alla distinzione fra pronunce di inammissibilità a carattere decisorio e decisioni di inammissibilità a carattere non decisorio, è stato ben detto che la Corte “alla chiara, logica e razionale contrapposizione tra restituzione degli atti – effetto non preclusivo e inammissibilità – effetto preclusivo, ha sostituito una pronuncia di 17 Entrambe le citazioni sono tratte da T. FENUCCI, In tema di revocazione delle sentenze della Corte costituzionale, in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1999, 657 nota 12.

18 In tal senso cfr. R. R OMBOLI, Decisioni di inammissibilità o fondate su errore di fatto, cit., 174 ss., partic. 183-85, il quale ritiene che legittimato a chiedere la revocazione – possibile, a suo avviso, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 22 l. n. 87/1953 alle norme del Regolamento per la procedura dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, il quale all’art. 81 prevede, appunto, la revocazione – della decisione di inammissibilità di tipo decisorio – e in particolare di quella motivata sulla base dell'irrilevanza della questione “dal momento che il fatto entra principalmente nel processo costituzionale attraverso il concetto di rilevanza” (p. 185) – sia innanzitutto il giudice a quo, al quale, una volta riassunto il processo sospeso a seguito della sentenza della Corte costituzionale, le parti potrebbero rivolgere istanza affinché richieda alla Corte la revocazione della sentenza stessa, e altresì la stessa Corte d'ufficio, nonché qualsiasi altro giudice che venga a trovarsi nella condizione di dover fare applicazione della sentenza della Corte affetta da errore di fatto; anche a giudizio di T. FENUCCI, In tema di revocazione delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 660-63, non è da “scartare, almeno in via di principio, l’idea della revocazione per errore di fatto delle sentenze della Corte costituzionale” e sulla stessa lunghezza d’onda paiono P. C OSTANZO, Nonostante la <<sordina>>, la musica resta incerta (Ancora in tema di revocazione delle decisioni della Corte costituzionale), in Scritti in onore di Serio Galeotti, I, Milano 1998, 301 (il quale coglie “un certo favor almeno teorico” nei confronti della possibilità di chiedere la revocazione nella “risposta” offerta dalla Corte al ricorso per revocazione della sentenza n. 226 del 1993, in Giur. Cost. 1993, 1670); F. DAL CANTO, Giudicato costituzionale, in Enc. del Dir. – Agg., Milano 2001, 435 (secondo il quale si può ammettere la revocazione per errore di fatto in ambito di giustizia costituzionale considerando che “il carattere dell’immutabilità degli effetti non sembra escludere in senso assoluto talune deroghe o limitazioni, ancorché circoscritte e giustificate”).

19 Muove da tale presupposto G. Z AGREBELSKY, Errori di fatto e sentenze della Corte costituzionale, cit., 1524, mentre A. RUGGERI, La Corte costituzionale: un <<potere dello Stato>>... solo a metà, in Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano 1988, 670 nota 39, ritiene la revocazione inammissibile per le sentenze di annullamento di una legge e forse ammissibile per le decisioni di rigetto e per le sentenze emesse a chiusura di un giudizio per conflitto di attribuzioni ma non si esprime espressamente sulla possibilità di ritenere, o meno, ammissibile la revocazione in riferimento alle decisioni di inammissibilità di tipo decisorio.

20 In questo ordine di idee è esplicitamente L. P ESOLE, Sull'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale: i più recenti indirizzi giurisprudenziali, in Giur. Cost. 1992, 1612-13, secondo la quale, una volta che la questione fosse risollevata, il giudice dovrebbe ottenere una “pronuncia corretta (non importa se ancora una volta procedurale o di merito)”.


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inammissibilità con effetto bivalente, da interpretare sulla base delle ragioni per le quali essa è stata adottata, più incerta quindi nel significato e foriera pertanto di equivoci e perplessità”21: insomma, per rifarsi alla nozione adoperata tanto dalla dottrina 22 quanto dalla Corte costituzionale nella sua costante giurisprudenza 23, è dirimente la natura decisoria o non decisoria della pronuncia di inammissibilità perché, mentre in quest’ultimo caso non sussiste alcuna preclusione per il giudice a quo, nel primo caso, invece, l’effetto della pronuncia di inammissibilità è praticamente identico a quello di una pronuncia di rigetto24. 3) Natura decisoria o non decisoria dell’interpretativa di inammissibilità? – 3.1 La posizione della dottrina e qualche indizio nella giurisprudenza costituzionale – Tanto premesso, sarebbe interessante chiedersi se la decisione di inammissibilità fondata sul motivo per il quale il giudice non ha effettuato o ha svolto in modo non adeguato il tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione impugnata ha, o meno, carattere decisorio e conseguentemente comporta, o no, effetti preclusivi nei confronti del giudice a quo. Peraltro la questione problematica or ora accennata acquista ancor più rilievo nei casi, o perlomeno, come diremo fra poco, in alcuni di essi, in cui tale motivo di inammissibilità – cui deve essere conferito di fatto “un ruolo certamente dominante” 25 in 21 R. R OMBOLI, Il giudice chiama a fiori, ma la corte risponde a cuori, il giudice richiama a fiori, ma la corte risponde a picche, in Foro It. 1988, I, 1086.

22 Per una succinta ma esaustiva definizione del carattere decisorio o meno della pronuncia di inammissibilità cfr. R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), Torino 2005, 114 nota 81. A giudizio, invece, di E. L AMARQUE, Il seguito delle decisioni della Corte costituzionale, in E. MALFATTIR. ROMBOLI-E. ROSSI (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”. Verso un controllo di tipo diffuso? , Torino 2002, 230 nota 105, il problema della riproponibilità della stessa questione da parte del giudice a quo nel medesimo procedimento va impostato “in termini diversi dalla natura decisoria, o meno, della decisione della Corte, collegandolo al divieto di impugnazione delle decisioni costituzionali”, per cui “la riproposizione è possibile ogni volta in cui essa non diventa “aggiramento” del contenuto prescrittivo della decisione costituzionale”, con la conseguenza che “anche una decisione di inammissibilità per un “errore” sanabile dal giudice a quo non è impugnabile, e dunque questi non potrà adire di nuovo la Corte, se non dopo aver proceduto alle “integrazioni” necessarie”. A noi pare, peraltro, che questa impostazione – definita dalla L. “sostanzialista, e non processualistica, dell’effetto preclusivo endoprocessuale delle pronunce di inammissibilità” – nelle conclusioni, in realtà, non disti poi più di tanto da quella che fa leva sulla distinzione fra carattere decisorio, o meno, della decisione d’inammissibilità.

23 Per esempi recenti di decisioni costituzionali sul punto cfr. R. R OMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (20082010), Torino 2011, 104.

24 Cfr. M. LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova 1984, 123; A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009, 132 (secondo i quali le pronunce di inammissibilità di tipo decisorio – terminologia che secondo gli Autori darebbe vita ad un “singolare ossimoro” – sono dotate in pratica di “effetti di merito”).

25 Così G. SERGES, Interpretazione conforme e tecniche processuali, in Giur. It. 2010, 1977.


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quanto esso ha oramai assunto “una regolarità che ha finito per esprimere una regola” 26 – non è l’unica ragione sulla cui base la Corte dichiara l’inammissibilità, perlopiù manifesta, della questione pervenutale, ma si accompagna anche ad altre ragioni di inammissibilità. Laddove, infatti, queste altre ragioni si concretino in vizi rimuovibili dal rimettente – come avviene, ad esempio, nelle decisioni, citate all’inizio, n. 44 del 2013 e n. 242 del 2013, in cui, rispettivamente, il vizio rappresentato dal difetto assoluto di motivazione in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, da un lato, e la genericità delle argomentazioni con cui è stata motivata l’ipotizzata violazione dei parametri invocati e la contraddittorietà della questione sollevata, dall’altro, sono senz’altro vizi rimuovibili dal giudice a quo27 –, è chiaro che assume un’importanza decisiva stabilire se il motivo consistente nell’omessa interpretazione costituzionalmente compatibile sia o meno eliminabile dal giudice del processo principale, atteso che, se si propende per la tesi che esso sia sanabile, allora il giudice a quo può riproporre la questione una volta, appunto, rimosso questo e altresì gli altri vizi individuati dalla Corte, mentre, se si ritiene di sostenere l’insanabilità del vizio in questione, allora il rimettente, ancorché elimini gli altri vizi evidenziati dai giudici costituzionali, non potrebbe comunque riproporre la stessa questione nel medesimo procedimento in quanto ostativo a ciò risulterebbe comunque e in ogni caso il motivo d’inammissibilità individuato nell’omessa o inadeguata interpretazione adeguatrice. Veniamo ora alla domanda che costituisce il tema centrale di questo scritto e che è già stata posta in dottrina: nel momento in cui la Corte dichiara la questione inammissibile invitando all’interpretazione costituzionalmente corretta il giudice del processo principale, quest’ultimo può, una volta che abbia assodato l’impossibilità di trarre dalla disposizione di cui ipotizza l’incostituzionalità una norma differente da quella posta ad oggetto dell’atto introduttivo o una volta che abbia comunque ritenuto – dandone adeguato conto in sede di atto introduttivo – l’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente adeguatrice della disposizione de qua, ritenere sanato il difetto che aveva determinato in un primo tempo l’inammissibilità e risollevare la stessa questione nel medesimo procedimento? Alcuni hanno osservato che, se si considera il vizio rilevato dalla Corte come un vizio procedurale, non parrebbero esservi ostacoli tali da impedire una risposta affermativa: qualora, infatti, il giudice a quo, adeguatamente motivando, evidenziasse 26 A. MORRONE, Prassi e giustizia costituzionale, in A. BARBERA-T.F. GIUPPONI (a cura di), La prassi degli organi costituzionali, Bologna 2008, 502.

27 Nel caso, invece, dell’altra decisione da cui avevamo preso le mosse e cioè dell’ord. n. 198 del 2013 il motivo di inammissibilità costituito dal fatto che l’eventuale decisione d’incostituzionalità emessa non si configurerebbe come soluzione costituzionalmente imposta rappresenta senz’altro – ci pare e sembra anche ad autorevole e comunque alla prevalente dottrina (cfr. R. R OMBOLI, Il giudice chiama a fiori, cit., 1086; G.P. DOLSO, sub art. 136, in S. BARTOLE-R. BIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, 1203; volendo, A. BONOMI, Quando la Corte può decidere ma decide di “non decidere”: le decisioni di “inammissibilità per eccesso di fondatezza”, le decisioni interpretative di inammissibilità per omessa interpretazione “conforme a” e alcune decisioni di restituzione degli atti per ius superveniens, in Forum di Quad. Cost. 2013, mentre più dubbiosa si è mostrata L. C ARLASSARE Le decisioni d'inammissibilità e di manifesta infondatezza della Corte costituzionale, in Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, cit., 43), nonché alla Corte costituzionale (cfr., ad esempio e sia pure implicitamente, la dec. n. 12 del 1998, in Giur. Cost. 1998, 65-67) – un motivo di inammissibilità non rimuovibile dal rimettente e dunque è meno decisivo stabilire se tale sia anche il vizio di cui all’omessa interpretazione conforme ivi pure evidenziato, perché comunque la stessa questione non sarebbe riproponibile dal giudice a quo nel medesimo procedimento.


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l’impossibilità di ricavare dalla disposizione che ha impugnato una norma conforme a Costituzione, sarebbe perlomeno irragionevole non considerarlo legittimato se non addirittura obbligato a risollevare la stessa questione 28. Tuttavia – si prosegue –, se si guarda al contenuto di alcune ordinanze di inammissibilità e più in particolare di quelle decisioni – molto simili per non dire praticamente identiche alle interpretative di rigetto o, meglio ancora, alle interpretative di rigetto “mascherate” 29 – con le quali la Corte si spinge fino al punto di indicare un’interpretazione conforme a Costituzione, argomentare il carattere meramente procedurale del vizio rilevato dalla Consulta e dunque la natura sanabile dello stesso risulta piuttosto difficile dal momento che in questo caso “la Corte finisce con l’evidenziare la non applicabilità nel giudizio principale della norma oggetto del dubbio di costituzionalità”30 e dunque il difetto di rilevanza della quaestio. Altri31, pur muovendo dal presupposto che la dichiarazione d’inammissibilità basata sulla mancata adozione, da parte del giudice, di un’interpretazione adeguatrice dovrebbe in linea di principio ritenersi preclusiva rispetto ad una nuova proposizione ad opera dello stesso giudice, ha osservato che a conclusioni opposte dovrebbe pervenirsi qualora il rimettente rilevasse che il tenore letterale della disposizione impugnata non si presta ad interpretazioni diverse da quella fatta propria nell’ordinanza di rimessione perché, in tal caso, solo ammettendo la riproponibilità della stessa questione si eviterebbe di porre il giudice a quo di fronte alle due soluzioni, alternativamente prospettabili, o di applicare una norma pur sospettata di illegittimità – soluzione, però, assai criticabile perché comporterebbe la violazione del principio gerarchico della supremazia della Costituzione rigida sulla fonte primaria legislativa che rimane nella fattispecie una res dubia – oppure di procedere alla sua disapplicazione sia pure soltanto con effetti limitati al processo in corso dinanzi al giudice a quo – secondo l’intuizione per primo ventilata, com’è noto, dal Pizzorusso32 ma anch’essa non esente da insidie e da problematiche sottolineate da autorevole dottrina e incentrate soprattutto sul contrasto con l’art. 101, comma 2 Cost. e con esigenze di certezza del diritto33, nonché con la stessa giurisprudenza costituzionale 34 –. 28 In tal senso cfr. V. MARCENÒ, Le ordinanze di manifesta inammissibilità per <<insufficiente sforzo interpretativo>>: una tecnica che può coesistere con le decisioni manipolative (di norme) e con la dottrina del diritto vivente?, in Giur. Cost. 2005, 799; R. ROMBOLI, Qualcosa di nuovo… anzi d’antico: la contesa sull’interpretazione conforme della legge, in P. CARNEVALE-C. COLAPIETRO (a cura di), La giustizia costituzionale fra memoria e prospettive. A cinquant’anni dalla pubblicazione della prima sentenza della Corte costituzionale, Torino 2008, 119.

29 Così E. MALFATTI-S. PANIZZA-R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino 2011, 133.

30 V. MARCENÒ, Le ordinanze di manifesta inammissibilità per <<insufficiente sforzo interpretativo>>, cit., 800; analogamente R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2005-2007), Torino 2008, 88, secondo il quale nei casi in cui la decisione processuale assume una portata di merito, cioè si esprime attraverso una sorta di autorizzazione al giudice a seguire un’interpretazione che questi aveva ritenuto essergli preclusa dal testo della legge o a suggerire una specifica lettura della medesima, “è difficile pensare ad una riproposizione della eccezione di costituzionalità, non restando al giudice che adeguarsi alle indicazioni della Corte oppure porsi con esse in conflitto”.

31 In tal senso cfr. G.P. DOLSO, sub art. 136, cit., 1203.


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Altri commentatori ancora, partendo dal postulato secondo il quale, “quando la Corte dice al giudice a quo: hai sollevato la questione in base a una certa interpretazione della legge, ma non hai preso in considerazione un’altra possibile interpretazione, dà un’evidente indicazione di merito”35, hanno rilevato che l’indicazione di merito, e cioè l’esistenza di altra interpretazione possibile, è “secondo la logica di questo tipo di pronunce, niente più che un suggerimento” 36, ragion per cui l’inammissibilità deriverebbe non dal non aver aderito a quest’altra interpretazione bensì dal non averla presa in considerazione, sia pure per scartarla, con la conseguenza che “tale mancata <<presa in considerazione>>, nella quale si sostanzia il difetto di interpretazione conforme, è certamente rimediabile, onde sarebbe irragionevole non considerare il giudice a quo legittimato e, anzi, perfino obbligato a riproporre la medesima quaestio con la necessaria motivazione”37. A dir la verità, la Corte costituzionale in qualche occasione apparentemente sembrerebbe avere espresso la sua opinione in materia: si consideri, ad esempio, la sentenza n. 477 del 200238, in cui la Corte era stata investita dalla Corte di Cassazione della questione di costituzionalità dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell’art. 4 l. n. 890/1982 32 Vedila esposta in A. PIZZORUSSO, <<Verfassungsgerichtsbarkeit>> o <<Judicial Review of Legislation>>?, in Foro It. 1979, I, 1934; ID., sub art. 137 – Garanzie costituzionali, in Comm. della Cost., a cura di Branca, Bologna 1981, 293 e 311, il quale è stato poi seguito in questa sua tesi da altri autorevoli studiosi: cfr. L. CARLASSARE, Le <<questioni inammissibili>> e la loro riproposizione, cit., 757-58; A. SPADARO, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli 1990, 107-08 nota 24 e 264-65.

33 In tal senso cfr. F. D AL CANTO, Giudicato costituzionale, cit., 455 nota 186; G. S ERGES, L’interpretazione conforme a Costituzione tra tecniche processuali e collaborazione dei giudici, in Studi in onore di Franco Modugno, IV, Napoli 2011, 3376. Su tali problematiche v. anche M. L UCIANI, Le decisioni processuali, cit., 122 e ivi nota 79, il quale ha ritenuto che il principio della disapplicabilità degli atti invalidi “lascia invero perplessi” adducendo, come motivazione di tale asserto, che siffatto principio, anche qualora dovesse essere accolto, “incontrerebbe limiti consistenti per ciò che riguarda la legittimità costituzionale delle leggi”, che in ogni caso, ai sensi della VII Disp. Trans., tale principio non può valere per i giudici comuni ma tutt'al più “varrebbe semmai – ma anche questo è dubbio – per gli arbitri” e soprattutto che, “se una questione è inammissibile non significa che non può occuparsene la Corte, ma semplicemente che non ha pregio – almeno rebus sic stantibus – come questione di costituzionalità, sicché neppure i giudici comuni possono prenderla in considerazione”; per ulteriori osservazioni in materia cfr. anche, fra gli scritti più recenti, R. M ANFRELLOTTI, Giustizia della funzione normativa e sindacato diffuso di legittimità, Napoli 2008, 325-26 e, volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, Napoli 2013, 189 nota 39 e 247 nota 183.

34 Vedasi la sent. n. 285 del 1990, in Giur. Cost. 1990, 1787, secondo cui il principio in base al quale i giudici non possono disapplicare le leggi della cui costituzionalità dubitino “non può soffrire eccezione alcuna”.

35 G. ZAGREBELSKY-V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, Bologna 2012, 388.

36 Così sempre G. ZAGREBELSKY-V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., 389.

37 G. ZAGREBELSKY-V. MARCENÒ, op. e loc. ult. cit. 38 In Giur. Cost. 2002, 3984.


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(“Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari”) per la ipotizzata violazione degli artt. 3 e 24 Cost. dopo, peraltro, che la stessa Cassazione nel medesimo procedimento aveva già sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 149 suddetto per la supposta lesione dei medesimi parametri costituzionali e la Corte con la decisione n. 322 del 2001 39 aveva dichiarato l’inammissibilità della questione per omessa interpretazione adeguatrice della disposizione impugnata. Nella seconda occasione la Cassazione precisava che la riproposizione della questione era dovuta al fatto che l’art. 4 l. n. 890/1982 suddetto non si prestava a interpretazioni differenti da quella costituente diritto vivente e fatta propria dalla stessa Cassazione nell’occasione della decisione n. 322 del 2001; la Corte costituzionale, in via preliminare rispetto all’indagine di merito, afferma la proponibilità della questione di costituzionalità perché essa “si fonda sulla premessa della impossibilità di una diversa opzione interpretativa e non risulta, dunque, come l’altra, censurabile sotto il profilo della mancata ricerca di una interpretazione alternativa rispetto a quella sospettata di illegittimità costituzionale”40. Tuttavia, a noi pare che si possa, sì, annoverare questa decisione fra quelle dalle quali può inferirsi che la Corte intende attribuire natura non decisoria alla pronuncia di inammissibilità basata sull’omessa verifica dell’interpretazione adeguatrice 41, ma che ciò si debba fare con estrema o comunque con una certa cautela: infatti, a parte il fatto non irrilevante che in ogni caso nella fattispecie in questione l’interpretazione fatta propria dal giudice a quo sia la prima sia la seconda volta coincideva comunque con il diritto vivente – ipotesi con riferimento alla quale, come ben noto, sussiste non l’obbligo ma solo la facoltà del giudice di “leggere” in senso conforme a Costituzione la disposizione 42 –, ci pare comunque che assuma un peso decisivo soprattutto la circostanza che la questione riproposta non era propriamente qualificabile come la “stessa questione” rispetto a quella sollevata la prima volta, insomma non era identica ad essa, se è vero, come è vero, che, come rilevato dalla stessa Corte costituzionale, essa presentava “un oggetto solo parzialmente coincidente con quello della precedente (con la quale veniva impugnato il solo art. 149 del codice di procedura civile)”43.

39 In Giur. Cost. 2001, 2592 ss.

40 Punto 2 del cons. in dir.

41 … come fa R. BASILE, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Messina 2006, 6 nota 31.

42 Cfr., inter alios, M.R. MORELLI, Doverosità della previa verifica di una possibile <<interpretazione adeguatrice>> ai fini dell’ammissibilità dell’incidente di costituzionalità e diverso regime del giudizio in via principale, in Giust. Civ. 1997, I, 2361; R. ROMBOLI, L’attività creativa di diritto da parte del giudice dopo l‘entrata in vigore della Costituzione, in G. CAMPANELLI (a cura di), Controllare i giudici? (Cosa, chi, come, perché), Torino 2009, 29-30; G. LANEVE, L’interpretazione conforme a Costituzione: problemi e prospettive di un sistema diffuso di applicazione costituzionale all’interno di un sindacato (che resta) accentrato, in www.federalismi.it 2011, partic. § 3.1. 43 Punto 2 del cons. in dir.


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Trattandosi dunque di questione essenzialmente diversa da quella antecedente se non altro e innanzitutto sotto l’aspetto normativo, ci pare che trarre sicure ed inequivocabili indicazioni dalla sentenza n. 477 del 2002 relativamente al carattere non decisorio o decisorio della pronuncia di inammissibilità fondata sull’omesso sforzo di rinvenire un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione sia operazione quanto meno un po’ frettolosa e azzardata. 3.2. Il caso dell’interpretativa di inammissibilità “processuale” – A noi pare comunque che la questione problematica della quale stiamo discorrendo in questa sede possa trovare più facile risoluzione se nel genus delle interpretative di inammissibilità si opera una distinzione fra due diverse species di decisioni. Più in particolare, ci pare che innanzitutto si debbano prendere in considerazione le interpretative di inammissibilità che potremmo definire “prettamente procedurali” e cioè quelle decisioni – in cui, a nostro sommesso avviso e a parere anche di altri commentatori, è da ritenere corretto l’utilizzo della formula dell’inammissibilità 44 – nelle quali la Corte, con tono sanzionatorio o perfino con l’intendimento di voler passare, nei confronti del giudice a quo, “decisamente agli schiaffoni (in senso morale, s’intende), se non addirittura ai maltrattamenti (a scopo educativo!)” 45, rimprovera al rimettente di aver omesso e comunque di non aver dato alcuna contezza in sede di ordinanza introduttiva di aver profuso qualsivoglia sforzo ermeneutico al fine di assodare se dalla disposizione, della cui costituzionalità lo stesso dubita, possa essere tratta una norma conforme a Costituzione: come è stato ben detto, “le pronunce di inammissibilità della Corte per mancanza di interpretazione adeguatrice… sono perfettamente coerenti con le pronunce di inammissibilità… che respingono questioni meramente interpretative o “perplesse”… o che semplicemente mancano di motivazione sulla rilevanza o sul dubbio di costituzionalità. Sono tutte ordinanze “mal formate” da un giudice che non assolve pienamente al suo compito e cerca di scansare le proprie responsabilità di interprete delle leggi trasferendole al giudice delle leggi…”46.

44 Cfr., per tutti, M. RUOTOLO, Per una gerarchia degli argomenti dell’interpretazione, in Giur. Cost. 2006, 3421 nota 8, il quale osserva che “ove il giudice abbia adeguatamente motivato circa l’impossibilità di leggere la disposizione in modo conforme alle previsioni costituzionali, la questione de[ve]… ritenersi <<correttamente>> introdotta, consentendo alla Corte di entrare nel merito della stessa”; G. S ERGES, Interpretazione conforme e tecniche processuali, cit., 1974 ss., secondo il quale l’uso dell’inammissibilità è ragionevole e corretto nella misura in cui ciò che si intende censurare è l’uso distorto dell’incidente di costituzionalità per via del mancato esperimento dell’obbligo di compiere lo sforzo interpretativo adeguato a cogliere tutte le opzioni interpretative che consentono di ricavare norme conformi a Costituzione e conclude che “la tenuta… dell’intero impianto delle decisioni di inammissibilità per omissione dello sforzo interpretativo risulta… strettamente e rigorosamente connessa ad una utilizzazione volta ad evitare un uso distorto dell’incidente di costituzionalità e finisce, però, per essere fortemente compromessa quando è l’uso distorto dell’interpretazione conforme a prevalere…” (p. 1978); F. M ODUGNO, Sul problema dell’interpretazione conforme a Costituzione: un breve excursus, in Giur. It. 2010, 1961-62.

45 Così, efficacemente, R. ROMBOLI, Il giudice chiama a fiori, cit., 1088.

46 R. BIN, L’applicazione diretta della Costituzione, le sentenze interpretative, l’interpretazione conforme a Costituzione della legge, in La circolazione dei modelli e delle tecniche del giudizio di costituzionalità in Europa, Napoli 2010, 225.


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A noi sembra che in questi casi – quali sono quelli, per esempio, delle decisioni ricordate all’inizio, n. 44 del 2013 e n. 242 del 2013 – il vizio sia assolutamente rimediabile dal giudice a quo, il quale ben può valutare in modo approfondito se esiste un’interpretazione adeguatrice della disposizione e, qualora non ritenesse che essa sussiste – mentre, se ne assodasse l’esistenza, dovrebbe senz’altro applicarla e non sollevare più, così, la questione di costituzionalità della disposizione che deve applicare in giudizio nel significato che faceva ipotizzare dubbi di incostituzionalità –, potrebbe a quel punto riproporre la stessa e identica questione di costituzionalità e cioè quella della norma che egli aveva tratto dalla disposizione, naturalmente dando adeguato conto in sede di atto introduttivo di essersi adoperato, sia pure a conti fatti inutilmente, per cercare un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione de qua. Da quanto detto, emerge dunque senz’altro l’effetto non preclusivo della interpretativa di inammissibilità di cui da ultimo abbiamo discorso. 3.3. Il caso dell’interpretativa di inammissibilità “di merito” – La questione si fa molto più problematica, invece, allorquando la Corte non rimprovera al rimettente di non aver dato conto di aver cercato un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione impugnata e cioè non gli dice “vedi un po’ tu se riesci a trovare una strada che ti consenta di eliminare il dubbio” 47, ma gli rimprovera di non essersi avveduto, pur avendola cercata e averne dato prova in sede di atto introduttivo, che tale interpretazione esisteva, arrivando fino al punto – come capita sovente e comunque sempre più spesso nella giurisprudenza costituzionale recente 48 e come è capitato, ci pare, anche nel caso dell’ordinanza n. 198 del 2013 citata all’inizio di questo scritto49 – di indicare qual è l’interpretazione costituzionalmente compatibile che il giudice a quo avrebbe dovuto sposare. In questi casi – in cui lo stesso utilizzo della formula dell’inammissibilità non a caso viene criticato da autorevole dottrina 50 – siamo di fronte ad un’interpretativa di inammissibilità del tutto particolare – definita “vestita” da uno studioso a nostro avviso acuto51 – che, lungi dal poter essere “confinata” nel novero delle decisioni processuali, lambisce per non dire che tocca davvero il merito della questione di costituzionalità: in altri termini, tale decisione d’inammissibilità è simile in tutto e per tutto ad un’interpretativa di 47 L’espressione è presa a prestito da V. O NIDA, Il problema dell’interpretazione nei rapporti tra il giudice costituzionale ed i giudici ordinari, in A. PIZZORUSSO (a cura di), Riforme della Costituzione e cultura giuridica, Pisa 1998, 23-4, secondo il quale in questo modo la Corte “rimane un poco indietro, non fa fino in fondo l’operazione interpretativa”.

48 Ne dà conto soprattutto in dottrina – adducendo vari e significativi esempi – G.U. R ESCIGNO, Una ordinanza di inammissibilità che è in realtà una decisoria interpretativa di rigetto, in Giur. Cost. 2008, 233536; ID., Del preteso principio secondo cui spetta ai giudici ricavare principi dalle sentenze della Corte e manipolare essi stessi direttamente le disposizioni di legge per renderle conformi a tali principi, in Giur. Cost. 2009, 2418. 49 … laddove la Corte statuisce infatti che la concreta praticabilità di un’interpretazione adeguatrice delle disposizioni impugnate è operazione ermeneutica possibile e a tal fine rimanda per relationem ad alcune sopravvenute decisioni delle Sezioni Unite Civili della Cassazione e più in particolare all’interpretazione da esse accolte – e, appunto, costituzionalmente conforme – delle disposizioni oggetto del vaglio della Corte: insomma, sia pure con un rinvio, la Corte indica qual è di fatto l’interpretazione costituzionalmente compatibile da seguire al giudice a quo.


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rigetto in quanto “evidenzia… la pista interpretativa che consente, anche con qualche forzatura, di evitare i dubbi di costituzionalità messi sul tappeto dal giudice rimettente” 52. In queste ipotesi – è lecito chiedersi – il giudice a quo risulta vincolato all’interpretazione costituzionalmente conforme indicata dalla Consulta, con la conseguenza che deve applicare in giudizio la norma appunto così individuata nell’interpretativa d’inammissibilità senza poter più risollevare la questione della disposizione nella lettura che aveva ritenuto di poterne dare in precedenza, oppure, laddove ritenga – e ne dia adeguata contezza in sede di (seconda) ordinanza di rimessione – che sia impossibile – perché contrario alla lettera della disposizione che deve applicare – conferire ad essa l’interpretazione costituzionalmente conforme attribuita dalla Consulta, può risollevare l’identica questione? A noi pare innanzitutto che sia difficilmente contestabile che l’interpretazione indicata nell’interpretativa di inammissibilità non può avere carattere vincolante nei confronti del giudice a quo ma tutt’al più può essere considerata un suggerimento, per quanto dotato indubbiamente di una certa forza persuasiva. D’altra parte, ad opposte conclusioni potrebbe pervenirsi solo sostenendo, in adesione a quanto parte autorevole della dottrina in passato aveva ritenuto per le interpretative di rigetto e più in particolare per la norma costituzionalmente compatibile indicata nel dispositivo contenuto in esse 53, che l’interpretazione suggerita 50 Su tali critiche, sulle quali non possiamo dilungarci in questa sede in virtù dei limiti che ci siamo posti nell’indagine, cfr., inter alios, M. RAVERAIRA, Le critiche all’interpretazione conforme: dalla teoria alla prassi un’incidentalità “accidentata”, in Giur. It. 2010, 1971-72; M. RUOTOLO, Interpretazione conforme a Costituzione e tecniche decisorie della Corte costituzionale, in www.gruppodipisa.it 2011; volendo, con riferimento specifico all’incidenza di tale questione sull’applicazione della tecnica dell’assorbimento dei vizi di costituzionalità, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, cit., 106 ss. Quale debba essere in luogo della decisione d’inammissibilità la pronuncia corretta è poi oggetto di ulteriore discussione dottrinale: in questa sede ci limitiamo solo ad osservare che, a giudizio di alcuni, la Corte non dovrebbe impiegare l’interpretativa di rigetto ma dovrebbe ricorrere all’interpretativa di accoglimento (in tal senso cfr. A. PACE, Postilla. Sul dovere della Corte costituzionale di adottare sentenze di accoglimento (se, del caso, <<interpretative>> e <<additive>>) quando l’incostituzionalità stia nella <<lettera>> della disposizione, in Giur. Cost. 2006, 3431).

51 Così M. RUOTOLO, Per una gerarchia degli argomenti dell’interpretazione, cit., 3427, il quale definisce così le interpretative d’inammissibilità “contenenti… in una motivazione meno stringata del solito… l’indicazione dell’interpretazione che avrebbe dovuto essere seguita” (pp. 3427-28).

52 Così G.P. DOLSO, Interpretazione adeguatrice: itinerari giurisprudenziali e problemi aperti, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, IV, Napoli 2009, 1315 e ivi nota 27, il quale conclude così: “si tratta di una conferma di una certa nebulosità dei presupposti al ricorrere dei quali la Corte procede ad una pronuncia interpretativa di rigetto” (pp. 1315-16).

53 In tal senso cfr. V. CRISAFULLI, Ancora delle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, in Giur. Cost. 1965, 104, secondo cui deve ritenersi “vincolante per il giudice a quo l’intera sentenza della Corte, interpretazione compresa… quel che gli è consentito applicare è quella norma, tra le altre in ipotesi deducibili dalla disposizione, in ordine alla quale soltanto la questione è stata dichiarata non fondata… Perciò non sembra dubbio che l’accertamento negativo della Corte faccia stato per il giudizio principale, anche la duplice interpretazione su cui l’accertamento è fondato deve, egualmente, imporsi con forza giuridicamente vincolante al giudice a quo”; ID., Lezioni di diritto costituzionale, II, 2, L’ordinamento costituzionale italiano (La Corte costituzionale), Padova 1984, 400, secondo il quale “il giudice del processo


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nell’interpretativa di inammissibilità dalla Corte come costituzionalmente conforme concretizzi un vero e proprio “vincolo positivo” nei riguardi del rimettente, tesi quest’ultima che, tuttavia, non viene accolta – perlomeno nella sua assolutezza e categoricità – neanche per le interpretative di rigetto e dunque non può essere sposata a fortiori – ci pare – per le interpretative di inammissibilità le quali “sono… incapaci… di imporre alcun vincolo all’attività interpretativa del giudice a quo”54. E’ certamente vero, d’altro canto, che, quando la Corte non indica nella decisione di inammissibilità qual è l’interpretazione della legge corrispondente alle norme costituzionali ma presuppone soltanto che essa esiste, il giudice a quo è lasciato completamente solo nel compito di individuarla55, ma questo non implica che, laddove la Corte nella pronuncia tale interpretazione invece indichi, il giudice sia obbligato a farla propria qualora ritenga che dalla lettera della disposizione l’unica “lettura” possibile della stessa sia un’altra e più in particolare quella coincidente con la lettura che aveva sposato e che aveva costituito l’oggetto della pronuncia della Corte, ritenendo magari, al contempo, che l’interpretazione indicata dalla Corte sia, in realtà, addirittura “aberrante” 56: e questo tanto più in quei casi – quantitativamente non numerosissimi ma non per questo poco significativi 57 – nei quali l’interpretazione indicata dalla Corte, lungi dall’essere “a portata di mano” del giudice a quo, non è affatto prossima allo stesso ma accompagna l’elaborazione di soluzioni ermeneutiche a dir poco ardite, tali, cioè, da richiedere uno straordinario sforzo interpretativo da parte del giudice. Si dovrebbe così concludere che il giudice a quo, di fronte all’indicazione da parte della Corte dell’interpretazione costituzionalmente corretta da seguire, trovi dinanzi a sé tre strade alternative da percorrere: o decide che effettivamente la disposizione può essere interpretata nel senso – costituzionalmente compatibile – conferitole dalla Corte e principale deve… considerarsi vincolato dall’interpretazione <<costituzionale>>… assunta dalla Corte”, da intendersi quale “vincolo positivo, il giudice a quo essendo tenuto ad applicare la norma quale la Corte l’ha individuata, nel suo proprio (e non incostituzionale) significato” e questo tanto più – soggiungeva il C. – in considerazione della “assurdità delle conseguenze che si produrrebbero ove quest’ultimo [il rimettente] potesse, come nulla fosse, persistere nella sua interpretazione iniziale” (p. 401).

54 Così E. LAMARQUE, Gli effetti della pronuncia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale nel giudizio a quo (Un’indagine sul <<seguito>> delle pronunce costituzionali), in Giur. Cost. 2000, 737; cfr. anche R. BASILE, op. e loc. cit.

55 In tal senso cfr. E. L AMARQUE, Il seguito delle decisioni interpretative e additive della Corte costituzionale presso le autorità giurisdizionali (anni 2000-2005), in Riv. trim. di dir. pubbl. 2008, 716; R. PINARDI, L’interpretazione adeguatrice tra Corte e giudici comuni: le stagioni di un rapporto complesso e tuttora assai problematico, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit., 1536 e ivi nota 41.

56 L’espressione è di C. E SPOSITO, Autorità delle decisioni di rigetto della Corte nei giudizi a quo, in Giur. Cost. 1961, 1220-21. 57 Su questi casi cfr. G. SORRENTI, La Costituzione “sottintesa”, in Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Milano 2010, 32-3, secondo la quale “la mancanza di qualsiasi profilo di “rimprovero” per il giudice a quo emerge nitidamente in quei casi… nei quali vengono suggerite interpretazioni del tutto innovative, fino a quel momento mai prospettate (né in giurisprudenza né in dottrina)” (p. 33), casi nei quali l’inammissibilità “non ha tanto un significato sanzionatorio, quanto prospettico” (p. 33).


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allora applicherà nel giudizio questa norma e nulla quaestio; o ritiene di non dover seguire questa lettura della disposizione né di dover seguire più la lettura che aveva inizialmente sposato ma di dover adottare una terza, ulteriore e differente interpretazione della cui costituzionalità dubita e allora potrà e, anzi, dovrà sollevare la questione di costituzionalità di tale norma; oppure ritiene di dover perseverare nell’interpretazione inizialmente adottata e in quel caso, dando adeguato conto del fatto che tale interpretazione a suo avviso è l’unica possibile della disposizione che deve applicare in giudizio, dovrebbe risollevare la stessa questione di costituzionalità. Da quanto or ora esposto se ne dovrebbe inferire la conclusione che l’interpretativa di inammissibilità con cui la Corte indica qual è l’interpretazione costituzionalmente corretta non ha natura decisoria e dunque non contiene in sé effetti preclusivi nei confronti del giudice del giudizio principale, il quale pertanto ben può riproporre la medesima questione di costituzionalità nel corso dello stesso procedimento. A questa conclusione potrebbero, tuttavia, opporsi due obiezioni sulle quali è necessario soffermarci e delle quali l’una a nostro modesto avviso suscita qualche perplessità, mentre l’altra ci pare senz’altro dotata di solido fondamento. Innanzitutto, con riferimento alla prima delle annunciate obiezioni, è stato sostenuto che il principio secondo il quale nessun vincolo discende per il giudice a quo da un’interpretativa di inammissibilità non esplica validità nel caso in cui in tale pronuncia la Corte non solo propone un’esegesi della legge sottoposta al vaglio di costituzionalità diversa da quella accolta dal rimettente e più in particolare costituzionalmente compatibile, ma afferma o lascia intendere anche che la lettura accolta dal giudice a quo non è conforme alle norme costituzionali invocate: in tale ipotesi, in cui la motivazione dell’interpretativa d’inammissibilità contiene in sé – si osserva – una doppia pronuncia, e cioè l’una sulla contrarietà a Costituzione della norma impugnata dal giudice a quo e l’altra sulla non contrarietà e dunque sulla compatibilità a Costituzione di quella ricavata dalla Corte, sul giudice del giudizio principale – e, più in generale, su tutti i giudici di quel giudizio – grava un “vincolo endoprocessuale negativo” 58 a non accogliere l’interpretazione esclusa dalla Corte costituzionale59. Qualcuno a questo proposito ha perfino abbozzato un parallelismo fra le interpretative di inammissibilità e le cosiddette decisioni di inammissibilità contenenti un’incostituzionalità accertata ma non dichiarata: se in queste ultime la Corte, pur avendo nella parte motiva accertato il sicuro contrasto della disposizione impugnata con i principi costituzionali evocati, tuttavia non lo dichiara pronunciandosi nel senso dell’inammissibilità della questione adducendo perlopiù la motivazione che il tipo di pronuncia additiva 58 Così M.R. MORELLI, La sentenza costituzionale n. 347 del 1998, in tema di fecondazione assistita, e la risposta del giudice a quo, in Giust. Civ. 1999, I, 2517, secondo il quale le pronunce di inammissibilità per omessa interpretazione adeguatrice implicano, appunto, una sorta di “vincolo endoprocessuale negativo” e cioè una preclusione per il giudice a quo il quale sarebbe tenuto ad uniformarsi alla pronuncia della Corte anche per quanto riguarda l’interpretazione esclusa che costituisce parte integrante della decisione che egli deve assumere, mentre le decisioni di inammissibilità meramente correttive, dove la Corte, cioè, opera sul solo terreno della legge ordinaria ritenendo non plausibile l’interpretazione offerta dal giudice a quo, non produrrebbero “un analogo effetto condizionante… nel giudizio a quo, atteso che – fuori dalle valutazioni sulla compatibilità costituzionale – ogni altro giudizio della Corte unicamente vertente sulla correttezza del risultato ermeneutico non potrebbe imporsi al giudice cui compete l’interpretazione ed applicazione della norma nel caso concreto”.

59 La tesi è sostenuta da E. LAMARQUE, Il seguito delle decisioni della Corte costituzionale, cit.., 234-36.


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richiesta avrebbe invaso la sfera della discrezionalità legislativa 60, nelle interpretative di inammissibilità la Corte lascia intendere il suo giudizio di contrasto della norma sposata dal giudice a quo con i parametri costituzionali dallo stesso evocati ma non lo statuisce in sede di dispositivo laddove invece indica che la disposizione può essere interpretata conformemente a Costituzione61. Questa obiezione – che sembra rifarsi o comunque prendere le mosse dalla vecchia impostazione del Sandulli del cosiddetto “vincolo negativo specifico”, che pure era stata prospettata con riferimento non alle pronunce di inammissibilità bensì alle interpretative di rigetto62 – non ci convince. A parte il fatto che non in tutti i casi – e, anzi, ci pare che il più delle volte per non dire addirittura che quasi sempre non lo sia – è possibile rinvenire nelle interpretative d’inammissibilità un giudizio implicito e tanto meno esplicito di contrasto della norma adottata dal giudice a quo con i parametri che lo stesso ha evocato, in ogni caso, anche laddove questo dovesse avvenire, non ci pare che si potrebbe ritenere formato un “vincolo negativo specifico” per il giudice a quo – e perfino per gli altri giudici del processo principale (ad esempio, per quello di appello e per la Cassazione) – a non poter più accogliere l’interpretazione esclusa dalla Consulta. Questa tesi suscita, a nostro modesto avviso, forti dubbi perché la Corte, in questi casi, escluderebbe, in quanto incostituzionale, l’interpretazione del giudice a quo non in sede di dispositivo – da cui non traspare ovviamente, stante l’utilizzo della formula processuale, nessun riferimento al merito della questione sollevata –, ma solo nella parte motiva dell’interpretativa d’inammissibilità e oltretutto magari solo in uno stringatissimo 60 Su queste decisioni v. R. P INARDI, La Corte, i giudici ed il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano 1993, 80 ss.; ID., Argomentazioni espresse e preoccupazioni sottese all’adozione di un’ordinanza di manifesta inammissibilità, in Giur. Cost. 1998, 3284 (per un caso particolare di pronuncia di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, cioè l’ord. n. 377 del 1998, in Giur. Cost. 1998, 3277 ss., in cui, siccome la Corte osserva che la questione va “dichiarata inammissibile prima di delibarne la fondatezza”, la decisione di non annullare la disciplina impugnata non sembrerebbe in contrasto logico-giuridico con il tenore letterale delle argomentazioni addotte a sostegno del dispositivo d’inammissibilità); L. PESOLE, L’inammissibilità per discrezionalità legislativa di una questione fondata, in Giur. Cost. 1994, 410 ss.; G.P. DOLSO, Giudice e Corte alle soglie del giudizio di costituzionalità, Milano 2003, 251 ss.; volendo, da ultimo, A. B ONOMI, L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, cit., 55 ss.

61 In tal senso cfr. F. GAMBINI, Un’ipotesi di conflitto fra Corte e giudice sull’esistenza del diritto vivente, in Giur. Cost. 2000, 198-99.

62 Cfr. infatti A.M. SANDULLI, Il giudizio sulle leggi. La cognizione della Corte costituzionale e i suoi limiti , Milano 1967, 55, secondo cui per il giudice a quo sussiste l’imperativo di non utilizzare quell’interpretazione che la Corte abbia disatteso nell’interpretativa di rigetto; più recentemente in senso adesivo cfr. V. O NIDA-M. D’AMICO, Il giudizio di costituzionalità delle leggi. I. Il giudizio in via incidentale, Torino 1998, 368, secondo i quali il giudice a quo è “vincolato a non applicare la norma secondo l’interpretazione scartata dalla Corte costituzionale; e poiché egli non può riproporre la questione, di fatto il giudice a quo risulta vincolato dalla interpretazione “conforme a Costituzione” proposta dalla Corte, o comunque dalla interpretazione “correttiva” da questa adottata, salva la possibilità di seguire una terza interpretazione tale da non dare adito a dubbi di costituzionalità” (pp. 368-69): l’O. e la D’A. precisano, peraltro, che, “se si trattasse di un giudizio di rinvio, tale vincolo interpretativo per il giudice a quo potrebbe entrare in contraddizione con il vincolo a giudicare in conformità al principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione (e fondato su di una interpretazione scartata dalla Corte costituzionale)…” (p. 369).


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obiter dictum: d’altra parte, come è stato autorevolmente affermato, “nessuna efficacia di giudicato assiste le decisioni di inammissibilità e quelle che per altri motivi esprimono un semplice rifiuto di prendere in esame il caso” 63. La seconda obiezione ci pare, invece, che colga nel segno. Questa seconda obiezione può così sintetizzarsi: è ben vero che l’interpretazione suggerita dalla Corte costituzionale rappresenta soltanto un mero suggerimento nei confronti del giudice a quo che, dunque, non può ritenersi ad essa vincolato giuridicamente, ma è anche ed altrettanto vero che, se l’unica norma applicabile in giudizio, secondo la Corte, è quella costituzionalmente conforme, ciò vuol dire che la norma che il rimettente ha tratto dalla disposizione e della cui costituzionalità lo stesso rimettente dubita non è rilevante nel giudizio in corso e che dunque la questione di costituzionalità posta su quella norma difetta del requisito della rilevanza. Da ciò discende che alla interpretativa di inammissibilità con la quale la Corte indica anche qual è l’interpretazione adeguatrice da seguire deve essere conferita, se così possiamo dire, di fatto natura decisoria e dunque che essa ha effetti preclusivi per il giudice a quo perché in sostanza si incentra sul vizio – ritenuto, come noto, insanabile 64 – del difetto di rilevanza.

63 A. PIZZORUSSO, Gli effetti delle decisioni delle Corti costituzionali nei giudizi ordinari, in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1987, 913.

64 Cfr., per tutti, L. PESOLE, Sull’inammissibilità, cit., 1612 nota 160; R. R OMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2005-2008), cit., 104; R. BASILE, op. e loc. cit. (per indicazioni di decisioni della Corte costituzionale che ritengono tale vizio insanabile).


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L’assorbimento dei vizi di inammissibilità e l’assorbimento dei vizi di costituzionalità: nei meandri e nella polisemia di due “concetti” * di Andrea Bonomi (8 dicembre 2013) SOMMARIO: 1) Premessa – 2) La differenza basata sulla possibilità di operare l’assorbimento dei vizi di costituzionalità e l’assorbimento dei vizi di inammissibilità nelle diverse decisioni della Corte – 3) La differenza consistente nelle conseguenze che derivano dalla scelta di operare l’assorbimento dei vizi di costituzionalità e l’assorbimento dei vizi di inammissibilità – 4) La differenza fra assorbimento dei vizi di costituzionalità e assorbimento dei vizi di inammissibilità in punto di giudicato implicito –

1)

Premessa

Lo scopo di questo scritto è quello di approfondire le differenze esistenti fra due “concetti” molto diversi fra loro, sebbene entrambi riguardino la tecnica dell’assorbimento: trattasi dell’assorbimento dei vizi (o motivi o profili o eccezioni) di inammissibilità e dell’assorbimento dei vizi (o profili o motivi o censure o questioni 1) di costituzionalità. Come abbiamo già tentato di rilevare in altra sede 2, l’assorbimento dei vizi di costituzionalità è quella tecnica processuale in virtù della quale la Corte costituzionale circoscrive la decisione di accoglimento – e in qualche raro caso, sia pure contravvenendo alla regola di giudizio che le dovrebbe imporre di esaminare tutti i vizi prima di rigettare la questione pervenutale, anche quella di rigetto 3 – ad una parte soltanto dei vizi lamentati nel giudizio e dichiara conseguentemente assorbiti gli altri, la cui valutazione è ritenuta evidentemente inutile ai fini della pronuncia. La Corte, peraltro, ha esplicitamente chiarito di poter operare l’assorbimento non solo nei casi in cui i vizi sono posti fra loro in un rapporto di connessione e dunque di pregiudizialità (il cosiddetto assorbimento proprio), ma anche nelle ipotesi in cui essi sono assolutamente autonomi l’un l’altro (il cosiddetto assorbimento improprio) e cioè in cui – differentemente dall’assorbimento proprio – la risoluzione del dubbio posto in

* Scritto sottoposto a referee. 1 In realtà, come abbiamo tentato di dimostrare altrove, la terminologia che pare più appropriata è quella di vizi di costituzionalità, mentre le altre – profili, censure, motivi, questioni –, pur se utilizzate correntemente non solo in dottrina ma anche dalla stessa Corte costituzionale, sotto vari aspetti non sembrano così corrette: per ulteriori ragguagli e delucidazioni su ciò cfr. comunque, volendo, A. B ONOMI, L’assorbimento dei vizi nel giudizio di costituzionalità in via incidentale, Napoli 2013, 8-10.

2 Vedasi, se lo si ritiene opportuno, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., multis locis.

3 Sul punto cfr., volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 21-3, 94 ss., partic. 113 ss. (per esempi di decisioni costituzionali in argomento).


riferimento a uno dei parametri invocati nell’atto introduttivo non comporta affatto, ex se, la soluzione del dubbio posto in relazione ai restanti parametri 4. In questa sede, non potendo approfondire per ovvi motivi tutti gli aspetti problematici che questa tecnica, per così dire, contiene in sé, ci limitiamo soltanto a sottolineare che essa comporta alcune conseguenze non irrilevanti quali, ad esempio, quelle relative all’incidenza sull’attività del legislatore futuro, quelle inerenti, perlomeno in certi casi, l’attività interpretativa del giudice a quo e di tutti gli altri giudici, quelle concernenti il cosiddetto giudicato implicito che si ritiene in alcune ipotesi formato sui vizi rimasti assorbiti etc... L’assorbimento dei vizi di inammissibilità, invece, è quella tecnica in virtù della quale la Corte costituzionale pronuncia l’inammissibilità, semplice o manifesta, dopo aver assodato la sussistenza di un determinato profilo di inammissibilità fra quelli eccepiti dall’Avvocatura dello Stato o dalle parti costituite o da essa stessa rilevato d’ufficio, con assorbimento di ogni ulteriore profilo d’inammissibilità: in altre parole, essa accoglie una delle eccezioni d’inammissibilità opposte dalle parti costituite o dall’Avvocatura dello Stato, dichiarando le altre assorbite, oppure comunque rileva d’ufficio l’esistenza di un profilo d’inammissibilità, dichiarando assorbiti tutti i vizi d’inammissibilità eccepiti dalle parti private e/o dall’Avvocatura. La Corte, d’altra parte, ha expressis verbis chiarito che anche per economia di giudizio ad essa spetta, nel valutare il complesso delle eccezioni sollevate o sollevabili in riferimento alla questione prospettatale, stabilire l’ordine con cui affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre5. Tuttavia, le conseguenze che, per così dire, discendono dall’assorbimento di profili di inammissibilità sono totalmente differenti da quelle, cui poco fa abbiamo fatto fugace cenno, che derivano da un assorbimento di vizi di incostituzionalità. Ed è proprio su questo specifico aspetto che intendiamo appuntare la nostra attenzione in questo scritto. 2) La differenza basata sulla possibilità di operare l’assorbimento dei vizi di

costituzionalità e l’assorbimento dei vizi di inammissibilità nelle diverse decisioni della Corte – Riteniamo opportuno precisare innanzitutto che una differenza emerge lampante fin da subito ed è bene metterla prioritariamente in evidenza. Infatti l’assorbimento dei vizi di costituzionalità è tecnica che può essere impiegata nelle decisioni in cui la Corte, valutata la sussistenza di uno dei vizi evocati, non si pronuncia per economia di giudizio sui restanti altri e questo in quanto ciò, 4 Cfr. la dec. n. 293 del 2010, in Giur. Cost. 2010, 3810; in dottrina per approfondimenti cfr. V. A NGIOLINI, Censure di costituzionalità <<assorbite>> e processo incidentale sulle leggi, in Il Dir. della Reg. 1988, 516 ss.; L. D’ANDREA, Prime note in tema di assorbimento nei giudizi di costituzionalità, in A. RUGGERI-G. SILVESTRI (a cura di), Corte costituzionale e Parlamento. Profili problematici e ricostruttivi, Milano 2000, 96 ss.; C. MAINARDIS, Assorbimento delle censure di incostituzionalità e giudizio in via incidentale, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, IV, Napoli 2009, 1414 ss.; volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 27 ss.

5 Cfr. la dec. n. 181 del 2010, in Giur. Cost. 2010, 2677 ss. e la recentissima dec. n. 252 del 2013, in www.giuricost.org.


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appunto, sarebbe superfluo ai fini dell’annullamento della norma di legge sottoposta al suo vaglio. Insomma, tale tecnica può essere utilizzata nelle sole decisioni di accoglimento – e neanche in tutte se si considera che la Corte non può ricorrervi nelle sentenze di accoglimento “dal momento in cui” perlomeno qualora dalla declaratoria di incostituzionalità per contrasto con uno od alcuni dei parametri costituzionali invocati possano derivare effetti temporali più ampi di quelli discendenti dal ravvisato contrasto con il parametro che risultasse essere sopravvenuto rispetto alla disposizione impugnata6 – e tutt’al più in alcune particolari decisioni di inammissibilità e in particolare nelle decisioni di inammissibilità contenenti un’incostituzionalità accertata ma non dichiarata7: però la Corte non può – o, meglio ancora, non potrebbe, visto che poi nei fatti la Corte stessa in alcune occasioni vi è ricorsa ugualmente – ricorrere all’assorbimento dei vizi nelle decisioni di infondatezza né semplice né manifesta né interpretativa perché al fine di rigettare una questione di costituzionalità il Giudice delle leggi deve – rectius, dovrebbe – esaminare tutti i parametri evocati motivatamente uno per uno8. Tutt’altro è il ragionamento da svolgere per i vizi di inammissibilità, per i quali non esiste alcune preclusione relativa alla tipologia decisionale. In altri termini, la Corte può procedere all’assorbimento di vizi di inammissibilità non solo in decisioni, ovviamente, di inammissibilità, ma anche in sentenze di accoglimento e in decisioni di rigetto: questo accadrà se, per esempio, la Corte dichiara la questione inammissibile con riferimento a uno o ad alcuni dei parametri evocati – e sotto questo profilo può pronunciare l’inammissibilità anche solo per un motivo, assorbendo i restanti altri motivi di inammissibilità eccepiti –, e poi rispetto agli altri parametri invocati giunge ad una pronuncia di fondatezza o di infondatezza 9. 3) La differenza consistente nelle conseguenze che derivano dalla scelta di operare

l’assorbimento dei vizi di costituzionalità e l’assorbimento dei vizi di inammissibilità Esiste poi un’altra differenza tutt’altro che irrilevante fra i due “concetti” sui quali ci stiamo intrattenendo, differenza che pure, per così dire, paradossalmente muove da un elemento in comune fra gli stessi. Al proposito partiamo da questo elemento in comune per poi giungere a comprendere meglio la differenza in questione. Il minimo comun denominatore cui alludiamo è costituito dall’esistenza di criteri che sorreggono – anche se non sempre, ma comunque in un numero molto significativo di ipotesi – la scelta della Corte di anteporre l’esame di un vizio sia di 6 Per approfondimenti cfr., volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 68 ss.

7 Sui motivi di ciò cfr., volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 55 ss.

8 Il punto è stato da noi approfondito in altra sede cui ci permettiamo di rinviare: cfr. A. B ONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 94 ss.

9 Cfr. le decc. n. 138 del 2010, in Giur. Cost. 2010, 1605 ss. e n. 190 del 2013, in www.giurcost.org.


inammissibilità sia di incostituzionalità rispetto allo scrutinio di un altro vizio tanto di inammissibilità quanto di incostituzionalità, con la conseguenza che il vizio che viene esaminato per primo difficilmente – per non dire mai – risulterà compreso fra i vizi assorbiti ma caso mai potrà essere il vizio assorbente. Con più specifico riferimento ai vizi di incostituzionalità in molte sentenze ad esempio la Corte ha anteposto l’esame del vizio relativo alla violazione del giudicato costituzionale a tutti gli altri e in alcuni casi significativi la Corte ha anche, una volta accertata la fondatezza del vizio riconducibile all’art. 136 Cost., assorbito i restanti altri pure evocati dal giudice a quo10, così come in altre numerose decisioni la Corte ha scrutinato per primo e da subito il vizio di natura formale, dichiarando poi assorbiti – una volta assodato che il vizio formale era in effetti sussistente – i vizi di carattere sostanziale11. Anche con riferimento ai vizi di inammissibilità la dottrina ha constatato che sovente la Corte esamina per primi alcuni vizi di inammissibilità i quali dunque non risultano quasi mai o comunque difficilmente fra i vizi assorbiti laddove la Corte decida, una volta constatata la sussistenza del vizio appunto esaminato per primo, di non valutare se sussistono anche i restanti altri eccepiti o sollevabili. Un ruolo preferenziale sotto questo profilo assume da sempre il vizio relativo al difetto di rilevanza della questione, una volta assodato il quale, appunto, gli altri vengono assorbiti12; peraltro, sotto questo profilo non si può sottacere, come è stato esattamente rilevato13, che anche le eventuali carenze nella descrizione della fattispecie che la Corte pare talora evidenziare con priorità rispetto ad altri profili sono sostanzialmente strumentali ad una congrua valutazione della rilevanza della questione e quindi a questa dopotutto riconducibili, così come analogamente è ben vero che, quando il giudice a quo non ha preso chiaramente posizione sull’interpretazione di una certa disposizione oppure non si è risolto a scegliere fra più opzioni possibili, la Corte è solita arrestare il proprio giudizio alla constatazione di questa lacuna la quale viene valutata prioritariamente rispetto a ogni ulteriore profilo e comporta spesso altresì l’assorbimento delle ulteriori eccezioni d’inammissibilità, ma è anche vero che si tratta comunque di “aspetti non estranei alla rilevanza della questione atteso che l’assenza di una chiara determinazione interpretativa rende incerta l’individuazione della norma che deve essere applicata nel giudizio e si traduce quindi in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione o in vera e propria irrilevanza di essa” 14. 10 Sul punto cfr. G. GALIPÒ, Quadrare il cerchio (Il “Lodo Alfano” fra l’“ombra” del giudicato e i poteri in equilibrio), in R. BIN-G. BRUNELLI-A. GUAZZAROTTI-A. PUGIOTTO-P. VERONESI (a cura di), Il lodo ritrovato. Una quaestio e un referendum sulla legge n. 124 del 2008, Napoli 2009, 126 e ivi note 17 e 18; volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 141 ss.

11 Sul punto vedansi G. PELAGATTI, Giudizio di costituzionalità e assorbimento dei motivi, Napoli 2004, 143 ss.; volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 153 ss.

12 Per esempi significativi sul punto cfr. G.P. D OLSO, Giudici e Corte alle soglie del giudizio di costituzionalità, Milano 2003, 271 nota 1; volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 40.

13 In tal senso cfr. G.P. DOLSO, Giudici e Corte, cit., 271.


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Tuttavia, anche con riferimento al minimo comun denominatore al quale abbiamo fatto poc’anzi riferimento non si può sottacere una differenza fondamentale fra i vizi di costituzionalità e i vizi di inammissibilità. Infatti nel caso dei primi la scelta della Corte di anteporre, o meno, l’esame di alcuni vizi a quello di altri e soprattutto la decisione dei giudici costituzionali, una volta ritenuto sussistente il vizio esaminato per primo, di assorbire, o meno, i restanti altri è assolutamente e tendenzialmente libera, nel senso che – al di là di alcune conseguenze e anche di taluni “inconvenienti” che può produrre soprattutto nei confronti del legislatore futuro e in alcuni particolari casi del giudice del processo principale e dei giudici comuni15 – tale scelta però non incide sul fatto che comunque la norma di legge portata all’esame della Corte è in ogni caso annullata indipendentemente dal fatto che assorbimento vi sia stato o no: insomma, dopotutto “il carattere cassatorio delle decisioni di accoglimento dei giudici costituzionali… comporta… che scarso rilievo abbia… la determinazione della causa petendi… identificabile nel vizio dell’atto…”16. Se sulla dichiarazione di accoglimento della questione di costituzionalità da parte della Corte non incide in alcun modo la scelta di assorbire, o meno, alcuni dei vizi evocati in sede di ordinanza introduttiva, totalmente diverso è, invece, il ragionamento che deve essere svolto con riferimento alla scelta di assorbire alcuni dei vizi d’inammissibilità. In questo caso infatti sulla decisione di inammissibilità pronunciata dalla Corte pesa o comunque può incidere notevolmente l’eventuale assorbimento di vizi di inammissibilità praticato dalla stessa: in altri termini e detta altrimenti, la decisione della Corte, dopo aver assodato la sussistenza di un determinato profilo di inammissibilità, di assorbire i restanti altri, o invece, di valutare la sussistenza di tutti i vizi di inammissibilità eccepiti o sollevabili d’ufficio può acquistare un peso decisivo nei confronti del giudice a quo e finanche – se venissero in considerazione certi vizi di inammissibilità, quale quello correlato alla discrezionalità del legislatore 17 – erga omnes iudices. Per capire meglio questa affermazione è opportuno ricordare che, a partire dal periodo in cui si è dovuto porre il problema dell’eliminazione dell’arretrato a causa delle numerose questioni sollevate, la Corte costituzionale ha fatto ricorso alla formula 14 Così G.P. DOLSO, Giudici e Corte, cit., 271-72.

15 Su quali siano questi “inconvenienti” cfr., volendo, A. B ONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 258 ss.

16 A. PIZZORUSSO, Gli effetti delle decisioni delle Corti costituzionali nei giudizi ordinari, in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1987, 916.

17 Sui motivi di questa nostra affermazione – su cui non possiamo intrattenerci in questa sede in virtù dei limiti che ci siamo posti nella ricerca svolta in questo articolo – rimandiamo a A. A NZON, Nuove tecniche decisorie della Corte costituzionale, in Giur. Cost. 1992, 3204; volendo A. BONOMI, Quando la Corte può decidere ma decide di “non decidere”: le decisioni di “inammissibilità per eccesso di fondatezza”, le decisioni interpretative di inammissibilità per omessa interpretazione “conforme a” e alcune decisioni di restituzione degli atti per ius superveniens, in Forum di Quad. Cost. 2013, partic. § 2.


dell'inammissibilità anche nelle ipotesi in cui l'eliminazione del vizio riscontrato dalla Corte stessa rientrava nella disponibilità dell'autorità giudiziaria rimettente, ipotesi nelle quali invece in precedenza la Consulta aveva perlopiù fatto ricorso alla pronuncia di restituzione degli atti18. Peraltro, facendo proprie le acute intuizioni di autorevole dottrina 19, la Corte, a partire dalla sentenza n. 135 del 1984 20, “quando il titolo dell'inammissibilità dichiarata dalla Corte lo consente”21 e cioè se il motivo sulla cui base la prima volta era stata pronunciata l'inammissibilità era rimuovibile e è stato poi effettivamente eliminato nella nuova ordinanza di rinvio, non ha dichiarato inammissibile ma – sempre non sussistendo altre ragioni tali da imporre l’adozione di una pronuncia processuale – ha ripreso in esame nel merito la questione già dichiarata inammissibile riproposta dal medesimo giudice nello stesso procedimento: da ciò si evince dunque che nessuna efficacia preclusiva alla riproposizione può essere annessa alle decisioni di inammissibilità in questione. Qualora, invece, il vizio che viene riscontrato dalla Corte e che costituisce la ragione dell'inammissibilità sia insanabile da parte dello stesso giudice a quo, allora l'effetto della decisione di inammissibilità deve intendersi preclusivo nel senso che un'ulteriore riproposizione della questione da parte di quello stesso giudice nel medesimo procedimento andrebbe fatalmente incontro ad una nuova pronuncia di inammissibilità, con l’eccezione forse del caso in cui la decisione si fondi su un errore di fatto e cioè su un “<<abbaglio dei sensi>>,… una svista,… una distrazione del giudice, che non si accorge che dagli atti del processo emerge chiaramente l’esistenza o l’inesistenza di un fatto, di cui bisognava tener conto nel decidere” e tale da risultare “determinante… sulla decisione”22, atteso che in tal caso, secondo quanto sostenuto 18 Cfr. R. ROMBOLI, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte EDU come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in Consulta on line 2013, spec. § 1.

19 Il riferimento è soprattutto a L. C ARLASSARE, Le <<questioni inammissibili>> e la loro riproposizione, in Giur. Cost. 1984, 759 ss., la quale osservava che, siccome l'art. 2, comma 1 N. I. attribuisce al Presidente della Corte di accertare la regolarità dell'ordinanza e delle notificazioni prima di disporre la pubblicazione in Gazzetta e poiché ciò comporta, in caso di eventuali irregolarità o carenze, la richiesta al giudice a quo di colmare le lacune riscontrate o di procedere agli adempimenti omessi, “è impensabile che uno stesso difetto – ad esempio la mancata notificazione –, se rilevato dal Presidente provochi una richiesta di regolarizzazione affinché poi il giudizio possa avere il suo corso e, invece, se rilevato successivamente, consenta una decisione d'inammissibilità definitivamente preclusiva del giudizio di costituzionalità” (p. 759) e poteva così concludere nel senso che l'effetto preclusivo delle decisioni d'inammissibilità “nei confronti dello stesso giudice remittente… deriva unicamente dal contenuto della decisione, ossia dalle ragioni per le quali l'inammissibilità è stata dichiarata” (p. 760).

20 In Giur. Cost. 1984, I, 883.

21 A. LA PERGOLA, La giustizia costituzionale nel 1986, in Foro It. 1987, V, 156.

22 La definizione è di T. F ENUCCI, In tema di revocazione delle sentenze della Corte costituzionale, in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1999, 657 nota 12, il quale prosegue osservando che l’errore di fatto deve rivelarsi decisivo sulla decisione “a tal punto che essa sarebbe stata diversa se il giudice non fosse incorso in quella falsa rappresentazione della realtà…”.


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perlomeno da alcuni commentatori, il giudice, pur di fronte appunto ad una decisione di inammissibilità di tipo decisorio, non potendo chiedere la revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4 cod. proc. civ. applicato estensivamente, della decisione di inammissibilità suddetta23, potrebbe risollevare la questione nel medesimo procedimento 24. Ritornando comunque alla distinzione cui poco sopra abbiamo fatto cenno in seno alle pronunce di inammissibilità, si potrebbe osservare che la Corte “alla chiara, logica e razionale contrapposizione tra restituzione degli atti – effetto non preclusivo e inammissibilità – effetto preclusivo, ha sostituito una pronuncia di inammissibilità con effetto bivalente, da interpretare sulla base delle ragioni per le quali essa è stata adottata, più incerta quindi nel significato e foriera pertanto di equivoci e perplessità” 25: insomma, per rifarsi alla nozione adoperata dalla dottrina prevalente 26 – ancorché non condivisa da tutti gli studiosi27 – nonché dalla Corte costituzionale nella sua costante giurisprudenza28, è dirimente la natura decisoria o non decisoria della pronuncia di inammissibilità. Ora, tanto premesso, è chiaro che la scelta della Corte di assorbire alcune eccezioni di inammissibilità può comportare conseguenze di un certo rilievo. In certe ipotesi tale scelta, per così dire, “si limita” soltanto ad incidere sul principio di economia dei giudizi.

23 Tale presupposto è però negato da altri studiosi: in tal senso cfr. R. R OMBOLI, Decisioni di inammissibilità o fondate su errore di fatto e limiti alla riproposizione da parte del giudice a quo della stessa questione nel corso del medesimo giudizio, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, Milano 1990, 174 ss., partic. 183-85, il quale ritiene che legittimato a chiedere la revocazione della decisione di inammissibilità di tipo decisorio – e in particolare di quella motivata sulla base dell'irrilevanza della questione “dal momento che il fatto entra principalmente nel processo costituzionale attraverso il concetto di rilevanza” (p. 185) – sia innanzitutto il giudice a quo, al quale, una volta riassunto il processo sospeso a seguito della sentenza della Corte costituzionale, le parti potranno rivolgere istanza affinché richieda alla Corte la revocazione della sentenza stessa, e altresì la stessa Corte d'ufficio, nonché qualsiasi altro giudice che venga a trovarsi nella condizione di dover fare applicazione della sentenza della Corte affetta da errore di fatto; conformi T. FENUCCI, In tema di revocazione delle sentenze della Corte costituzionale, cit., 660-63; P. COSTANZO, Nonostante la <<sordina>>, la musica resta incerta (Ancora in tema di revocazione delle decisioni della Corte costituzionale), in Scritti in onore di Serio Galeotti, I, Milano 1998, 301 (il quale coglie “un certo favor almeno teorico” nei confronti della possibilità di chiedere la revocazione nella “risposta” offerta dalla Corte al ricorso per revocazione della sentenza n. 226 del 1993, in Giur. Cost. 1993, 1670); F. DAL CANTO, Giudicato costituzionale, in Enc. del Dir. – Agg., Milano 2001, 435.

24 In questo ordine di idee è esplicitamente L. P ESOLE, Sull'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale: i più recenti indirizzi giurisprudenziali, in Giur. Cost. 1992, 1612-13, secondo la quale, una volta che la questione fosse risollevata, il giudice dovrebbe ottenere una “pronuncia corretta (non importa se ancora una volta procedurale o di merito)”.

25 R. R OMBOLI, Il giudice chiama a fiori, ma la corte risponde a cuori, il giudice richiama a fiori, ma la corte risponde a picche, in Foro It. 1988, I, 1086.

26 Cfr., per tutti, R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), Torino 2005, 114 nota 81.


Si consideri il caso della decisione n. 126 del 2013 29 in cui la Corte, investita della questione di costituzionalità dell’art. 69 comma 5 l. n. 354/1975 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”) nella parte in cui non conferisce al magistrato di sorveglianza il potere di annullare, in sede di decisione sul reclamo proposto da un detenuto, il provvedimento adottato dall’amministrazione penitenziaria in via di autotutela per l’ipotizzata lesione degli artt. 3, 24 e 113 Cost., dichiara manifestamente inammissibile la questione per difetto di motivazione sulla rilevanza e assorbe l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato inerente il difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione stessa. Posto che si tratta di due vizi entrambi sanabili dal giudice a quo30, il fatto che la Corte abbia dichiarato l’inammissibilità della quaestio dopo aver assodato la sussistenza di uno solo di essi – il difetto di motivazione sulla rilevanza – implica che il giudice a quo non sa se egli ha anche omesso di motivare o motivato in modo del tutto insufficiente sulla non manifesta infondatezza, con la conseguenza che, nel momento in cui il giudice risolleva la questione motivando adeguatamente sulla rilevanza, la Corte potrebbe dichiarare di nuovo la questione inammissibile questa volta perché il giudice a quo non ha motivato esaurientemente in punto di non manifesta infondatezza: insomma, astraendo una regola generale, si può dire che in presenza di vizi tutti sanabili dal rimettente, l’assorbimento ha l’effetto di contrastare con il principio 27 Cfr., per es., E. LAMARQUE, Il seguito delle decisioni della Corte costituzionale, in E. MALFATTI-R. ROMBOLI-E. ROSSI (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”. Verso un controllo di tipo diffuso? , Torino 2002, 230 nota 105, secondo la quale il problema della riproponibilità della stessa questione da parte del giudice a quo nel medesimo procedimento va impostato “in termini diversi dalla natura decisoria, o meno, della decisione della Corte, collegandolo al divieto di impugnazione delle decisioni costituzionali”, per cui “la riproposizione è possibile ogni volta in cui essa non diventa “aggiramento” del contenuto prescrittivo della decisione costituzionale”, con la conseguenza che “anche una decisione di inammissibilità per un “errore” sanabile dal giudice a quo non è impugnabile, e dunque questi non potrà adire di nuovo la Corte, se non dopo aver proceduto alle “integrazioni” necessarie”. A noi pare, peraltro, che questa impostazione – definita dalla L. “sostanzialista, e non processualistica, dell’effetto preclusivo endoprocessuale delle pronunce di inammissibilità” – nelle conclusioni non disti poi più di tanto da quella che fa leva sulla distinzione fra carattere decisorio, o meno, della decisione d’inammissibilità, essendo evidente che il vizio non deve essere soltanto sanabile ma deve risultare poi anche effettivamente sanato dal rimettente al fine di poter risollevare identica questione nel medesimo procedimento senza incorrere nella “spada di damocle” della pronuncia d’inammissibilità.

28 Per esempi recenti di decisioni costituzionali sul punto cfr. R. R OMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (20082010), Torino 2011, 104.

29 In www.giurcost.org.

30 Sul punto cfr., per tutti, V. ONIDA-M. D’AMICO, Il giudizio di costituzionalità delle leggi. I. Il giudizio in via incidentale, Torino 1998, 369, secondo i quali la decisione di inammissibilità non preclude la riproposizione della questione da parte dello stesso giudice a quo “quando l’inammissibilità è fondata sulla circostanza che l’ordinanza di rimessione non contiene una motivazione sufficiente sulla rilevanza o sulla non manifesta infondatezza, oppure quando la rilevanza, non ancora “attuale” nel momento della prima ordinanza di rimessione, sussiste invece in un momento successivo, o quando il giudice a quo può eliminare gli elementi di perplessità (questioni alternative”) o di contraddizione che inficiavano la prima ordinanza”, mentre “naturalmente ciò non accade quando si tratti di una di quelle decisioni di inammissibilità, per la verità improprie, con cui la Corte in realtà risolve la questione nel merito, per esempio affermando che la situazione denunciata non è rimediabile con una pronuncia costituzionale, perché solo il legislatore può provvedervi”.


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dell’economia processuale che deve ritenersi applicabile – e che la Corte ha più volte applicato effettivamente in altri ambiti, quale quello, ad esempio, delle questioni sollevate in via subordinata al rigetto di un’altra questione sollevata in via principale 31 – anche al processo costituzionale. In altri casi, però, la scelta della Corte di assorbire alcune eccezioni di inammissibilità comporta conseguenze molto più rilevanti: innanzitutto essa in alcune ipotesi può, di fatto, far mutare la natura della decisione di inammissibilità perché, laddove i profili non esaminati ma assorbiti fossero insanabili, infatti, l’assorbimento renderebbe di natura non decisoria una decisione che, se la Corte avesse analizzato anche gli altri profili di inammissibilità, sarebbe potuta essere qualificata come avente natura decisoria in virtù appunto della non rimuovibilità dei vizi sottoposti ad assorbimento; in secondo luogo, anche in quei casi in cui sia il vizio sulla cui base la Corte ha pronunciato l’inammissibilità sia i vizi assorbiti fossero insanabili, a dispetto dell’apparenza, le conseguenze sarebbero di notevole rilievo. Si pensi alla decisione n. 6 del 2012 32 in cui la Corte era stata investita dal Tribunale di Arezzo il quale, nel corso di un procedimento di reclamo proposto ai sensi degli artt. 2674-bis cod. civ. e 113-ter disp. att. cod. civ. avverso un provvedimento del conservatore dei registri immobiliari, aveva sollevato questione di costituzionalità dell’art. 317-bis cod. civ. per contrasto con gli artt. 3 e 30, comma 3 Cost.: ebbene la Consulta dichiara la manifesta inammissibilità della questione pervenutale riscontrando il profilo d’inammissibilità costituito dal fatto che la questione di costituzionalità è sollevata, sì, da un giudice ma non nel corso di un giudizio perché tale non potrebbe essere considerato il procedimento di reclamo de quo, al contempo assorbendo il motivo di inammissibilità eccepito dall’Avvocatura e incentrato sull’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella configurabilità degli istituti processuali. E’ chiaro che, indipendentemente e a prescindere dalla valutazione pure del profilo di inammissibilità costituito dall’amplia discrezionalità in tema di conformazione degli istituti processuali, il giudice a quo non avrebbe comunque potuto risollevare la questione nel medesimo processo a ciò risultando ostativa la circostanza che quest’ultimo non è qualificabile un giudizio nella fattispecie concreta del giudizio principale da cui aveva preso l’avvio la questione di costituzionalità. Tuttavia, è anche vero che nei giudizi futuri e cioè nei confronti degli altri giudici non sarebbe stato irrilevante la valutazione della Corte in riferimento all’altro motivo di inammissibilità, nella circostanza assorbito: infatti ben potrebbe accadere che un altro giudice questa volta nel corso di un procedimento qualificabile quale giudizio sollevi la questione di costituzionalità delle stesse disposizioni legislative e sotto questo profilo sarebbe stato rilevante per lo stesso sapere se la discrezionalità legislativa a cui sopra si è fatto cenno poteva costituire un valido motivo per impedire l’esame nel merito della quaestio. 4) La differenza fra assorbimento dei vizi di costituzionalità e assorbimento dei vizi di

inammissibilità in punto di giudicato implicito – 31 … o anche delle questioni sollevate in via subordinata all’accoglimento di un’altra questione sollevata in via principale: sul punto cfr. A. S ACCOMANNO, La proposizione di questioni subordinate nel giudizio incidentale, in Giur. Cost. 2001, 1040 ss.

32 In www.giurcost.org.


C’è infine un’altra non secondaria differenza fra assorbimento dei vizi di costituzionalità e assorbimento dei vizi di inammissibilità: alludiamo alla questione del cosiddetto giudicato implicito33. Come abbiamo tentato di dimostrare in altra sede 34, con riferimento al “significato” da conferire al “silenzio” serbato dalla Corte in relazione alle censure assorbite si può ritenere, anche alla luce dei dicta – non sempre chiari ma suscettibili sotto certi profili di differenti interpretazioni, a dir la verità – contenuti nella sentenza n. 262 del 2009 della Corte costituzionale 35, che, se i vizi non sono legati da alcun rapporto di connessione ma risultano del tutto autonomi fra di loro, sui vizi assorbiti non può ritenersi formata alcuna risposta neanche implicita da parte della Corte e dunque nessun giudicato implicito, mentre se i vizi sono interdipendenti fra di loro e dunque avvinti in un rapporto di pregiudizialità, allora si può ragionare nei termini, appunto, di giudicato implicito e cioè si può sostenere che il vaglio positivo in ordine al contrasto con la disposizione costituzionale esaminata dalla Corte deve ritenersi inclusiva e cioè risolutiva, ex se, della questione posta in merito al vizio non esaminato in quanto assorbito dalla Corte. Totalmente diverso è invece, a nostro sommesso avviso, il ragionamento che deve essere condotto in quest’ambito in merito ai vizi di inammissibilità. Prima però di esporre la nostra opinione in materia riteniamo opportuno ricordare che, a giudizio di una certa impostazione dottrinale 36, è fondamentale distinguere, rispetto a tutti gli altri casi, l’ipotesi in cui il vizio assorbito rientri nel novero di quei vizi che devono costituire oggetto di delibazione in limine iudicii attenendo ad un vero e proprio presupposto di esistenza del processo e cioè ad un requisito che deve sussistere prima della proposizione della domanda affinché possa venire in essere un processo anche se, in ipotesi, destinato ad arrestarsi subito 37: ebbene – si sostiene – in 33 E’ bene precisare che con questa espressione non si intende alludere al giudicato implicito di cui ragiona la dottrina con riferimento alla del tutto differente problematica relativa alla possibilità di desumere, appunto, un giudicato implicito dalle sentenze costituzionali e cioè se i singoli operatori e in primis in giudici possano estendere interpretativamente gli effetti di annullamento discendenti dalla declaratoria di incostituzionalità di una norma anche ad altre norme aventi identico contenuto non “colpite” direttamente dalla Corte rendendole così automaticamente inefficaci: su questa questione problematica rinviamo a V. C RISAFULLI, In tema di questioni conseguenziali alla pronuncia di illegittimità costituzionale di un principio generale, in Giur. Cost. 1961, 1978-79; F. FENUCCI, Giudicato implicito ed impliciti effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi sugli atti amministrativi, in Giur. Cost. 1981, I, 1993-94; A. CELOTTO, Problemi derivanti dalla ennesima negazione del c.d. giudicato implicito delle sentenze costituzionali, in Giur. Cost. 1997, spec. 1804 ss.; volendo, A. B ONOMI, Ai fini della violazione del giudicato costituzionale è necessario che la legge dichiarata incostituzionale e quella riproduttiva siano perfettamente identiche?, in Forum di Quad. Cost. 2013, partic. § 5.

34 Ci permettiamo di rinviare sul punto ad A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 171 ss.

35 In Giur. Cost. 2009, 3686-87.

36 Il riferimento è a M. ESPOSITO, L’arbitrato tra autonomia privata e giurisdizione, in Giur. Cost. 1998, 251 ss.

37 Per questa definizione cfr. C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, I, Torino 1995, 40 ss.


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tal caso e cioè nell’ipotesi in cui la Corte assorba un vizio relativo non ad un presupposto semplicemente di validità o di procedibilità del processo – tale, cioè, da dover “esistere prima della proposizione della domanda perché il processo possa, anziché arrestarsi subito, procedere fino al conseguimento del suo scopo normale” 38 ossia la pronuncia nel merito –, ma ad un presupposto – come si diceva poc’anzi e nei termini in cui lo si esplicitava poco fa – di esistenza del processo, si deve ritenere che la Corte si sia voluta esprimere implicitamente e oggettivamente sull’insussistenza del vizio attinente, appunto, al presupposto di esistenza del processo. La tesi è stata concretamente sostenuta con riferimento all’ordinanza n. 410 del 199739, in cui la Corte, investita dal Collegio arbitrale di Carrara della questione di costituzionalità dell’art. 238 cod. proc. civ. così come formulato in relazione ai riferimenti religiosi contenuti nella formula del giuramento stesso per l’ipotizzata violazione degli artt. 3, 19 e 24 Cost., rileva che già con la sentenza n. 334 del 1996 40 era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma impugnata nella parte relativa ai riferimenti religiosi della formula del giuramento e conclude che resta pertanto “impregiudicata ogni valutazione circa la legittimazione del collegio rimettente a sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale”, dichiarando così la questione manifestamente inammissibile. Ebbene, si è osservato che la Corte si sarebbe dovuta occupare prioritariamente e cioè in limine iudicii della questione della legittimazione del giudice arbitrale ad adire la Consulta – trattandosi di un vero e proprio presupposto di esistenza del processo –, mentre essa ha invertito l’ordo iudicandi valutando dapprima il vizio inerente la circostanza che si trattava di questione già accolta con precedente decisione: da questo presupposto si trae la conclusione che “dietro l’agnostica affermazione [per la quale resta impregiudicata la sussistenza del vizio di legittimazione del giudice a quo] – in esito alla inversione del dovuto iter – traspare il riconoscimento della legittimazione del collegio arbitrale. La questione, cioè, non è rimasta impregiudicata” e si prosegue osservando che “l’incidente di costituzionalità ha dato luogo ad una pronuncia della Corte costituzionale, il che significa che il giudice remittente ha avuto accesso al processo costituzionale. La Corte non sarebbe neppure potuta pervenire all’ordinanza di manifesta inammissibilità sena avere prima (positivamente) deciso della esistenza o meno, in capo al soggetto che le aveva rimesso gli atti, del potere di introdurre il giudizio”41.

38 M. ESPOSITO, L’arbitrato tra autonomia privata e giurisdizione, cit., 252 nota 5.

39 In Giur. Cost. 1997, 3781 ss.

40 In Giur. Cost. 1996, 2919 ss.

41 M. ESPOSITO, L’arbitrato tra autonomia privata e giurisdizione, cit., 252, secondo cui la Corte non poteva giudicare dell’ammissibilità della questione sollevatale “schivando il suddetto problema [quello della legittimazione degli arbitri], qualificandolo come impregiudicato, dal momento che, così procedendo, essa ha invece dimostrato oggettivamente di aver ritenuto la sussistenza del presupposto processuale in discorso” (p. 253 nota 5).


Ora, questa tesi, secondo la quale la Corte, “qualora avesse ritenuto inesistente il potere del collegio arbitrale, avrebbe dovuto pronunciare l’inammissibilità (rectius: l’irricevibilità) dell’ordinanza di remissione. Non avendolo fatto, ha oggettivamente riconosciuto il potere del collegio arbitrale di sollevare questione di legittimità costituzionale, dal momento che le questioni non possono rimanere impregiudicate secondo libera scelta del giudice”, non ci lascia per nulla persuasi ma, anzi, ci trova fortemente perplessi. Più in particolare, non riteniamo affatto che si possa – in questo come anche in altri casi consimili che si dovessero presentare – ragionare, come pure esplicitamente si fa42, di una sorta di giudicato implicito con riferimento al vizio di inammissibilità rimasto assorbito, quasi che si potesse, così, instaurare un qualche parallelismo con i vizi di costituzionalità dichiarati assorbiti e legati da un rapporto di connessione e dunque di pregiudizialità con quello esaminato: e questo sulla base di varie ragioni che tenteremo di esporre. Innanzitutto la stessa distinzione da cui muove e prende le mosse l’impostazione dottrinale succitata e cioè quella fra presupposti di esistenza del processo – la cui assodata insussistenza dovrebbe preludere ad una pronuncia di irricevibilità della questione – e presupposti di validità del processo – la cui accertata non sussistenza dovrebbe comportare la pronuncia di inammissibilità – non convince, benché vanti una teorizzazione illustre in tempi sia pure non recenti. Già a suo tempo il Pierandrei 43 aveva delineato effettivamente la distinzione, assai simile per non dire sostanzialmente identica a quella poc’anzi esposta, fra l’irricevibilità (o l’improcedibilità), formula da riservare, a suo avviso, ai vizi inerenti l’instaurazione del giudizio incidentale, e l’inammissibilità (o l’improponibilità), “tipologia” decisoria dallo stesso autorevole studioso ritenuta idonea, invece, con riferimento ai vizi incidenti sulla sostanza e cioè sul merito della questione: in altri termini, a giudizio dell’illustre autore irricevibile sarebbe dovuta essere considerata la questione che “nel suo prodursi in fatto non corrisponde al modello descritto dall’ordinamento”44, come nel caso in cui essa non fosse sorta dinanzi ad un giudice oppure fosse manifestata in un procedimento che non sia un giudizio o non avesse presentato alcuna rilevanza per la soluzione della controversia, mentre inammissibile sarebbe dovuta essere valutata la questione “nell’ipotesi in cui non corrisponda al fine istituzionale per cui è prevista dall’ordinamento” 45, come quando fosse stata proposta contro un atto che non sia una legge formale o non sia dotato di valore di legge o fosse 42 Cfr., infatti, proprio M. E SPOSITO, L’arbitrato tra autonomia privata e giurisdizione, cit., 253 nota 7, secondo il quale “sembra estremamente improbabile prima ancora che infondato” sostenere che la Corte “disponga del potere di estrapolare dal contesto delle questioni che vengono al suo esame alcune – e tra esse anche quelle di rito – al fine di sottrarle al regime di efficacia delle decisioni, in forza del quale si ha anche giudizio per implicito”.

43 Cfr. F. PIERANDREI, Corte costituzionale, Milano 1962, 961.

44 Cfr. F. PIERANDREI, op. e loc. cit.

45 Cfr. F. PIERANDREI, op. e loc. cit.


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stato invocato un parametro privo di carattere costituzionale o la questione fosse stata politica o fosse risultata attinente non alla validità dell’atto ma all’interpretazione della norma o la questione fosse stata sollevata contro un atto per un motivo o per un altro non più applicabile. Ora, questa distinzione individuata dal Pierandrei fra “questioni pregiudiziali attinenti al processo” e “questioni preliminari di merito” – oltreché di dubbio accoglimento già sotto un profilo dogmatico e concettuale – non è mai stata comunque seguita – come rilevato ed ammesso, del resto, dallo stesso Pierandrei 46 – dalla Corte costituzionale, la quale non ha mai utilizzato – se si escludono i primi anni di giurisprudenza costituzionale – e in ogni caso non utilizza praticamente più nel processo in via incidentale la formula dell’irricevibilità 47, avendo invece, caso mai, seguito ben altra distinzione e in particolare quella – già ricordata in precedenza – fra vizi sanabili e vizi insanabili con riferimento ai vizi relativi alle condizioni di instaurazione del processo costituzionale48. In secondo luogo, poi, non ci sembra neanche che si possa ragionare di un ordo iudicandi da seguire rigorosamente e scrupolosamente con riferimento ai vizi di inammissibilità, nel senso che quelli attinenti ai presupposti di esistenza del processo debbano avere la precedenza su tutti gli altri: ci pare, anzi, che sia la stessa giurisprudenza costituzionale a dimostrare inequivocabilmente il contrario e cioè che “non sempre è necessario decidere le questioni in un rigido ordine di pregiudizialità, potendo intervenire anche valutazioni di opportunità ed economia” 49. Ben è potuto accadere, non a caso, che, ad esempio, la valutazione della sussistenza del vizio della carenza di forza di legge dell’atto impugnato – che pure sembrerebbe pregiudiziale naturaliter a tutti gli altri e dunque da esaminare per primo in quanto un presupposto di esistenza del processo – sia stata posposta all’esame della sussistenza di altri vizi non pregiudiziali o non così pregiudiziali, al punto tale che siffatto vizio è anche risultato il vizio addirittura assorbito: si pensi all’ordinanza n. 399 del 2000 50, in cui la Corte, dopo aver assodato il difetto di rilevanza, rileva che “la predetta ragione di inammissibilità esime la Corte da ogni ulteriore valutazione circa la forza di legge della disposizione impugnata…”. 46 Cfr. F. PIERANDREI, Corte costituzionale, cit., 962, il quale constatava che la Corte non aveva seguito la distinzione da lui delineata ma aveva bensì acceduto ad un criterio di “longanimità” con il restituire gli atti al giudice a quo affinché questi provvedesse a sanare il vizio.

47 Sul punto cfr. le osservazioni della Nota Redaz. all’ord. n. 161 del 2001, in Giur. Cost. 2001, 1308 e di A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009, 133.

48 In dottrina lo rileva anche R. R OMBOLI, Decisioni di inammissibilità o fondate su errore di fatto e limiti alla riproposizione da parte del giudice a quo della stessa questione nel corso del medesimo giudizio, cit., 16869.

49 Così la Nota Redaz. all’ord. n. 399 del 2000, in Giur. Cost. 2000, 2810.

50 In Giur. Cost. 2000, 2809.


Infine la stessa tesi del giudicato implicito sui vizi di inammissibilità ci pare che ad un attento esame non regga. Già infatti con riferimento ai vizi di costituzionalità, come abbiamo cercato di mettere in evidenza altrove partendo dalle statuizioni contenuti nel leading case costituito dalla sentenza n. 262 del 2009 della Corte costituzionale 51, non è possibile ragionare di un giudicato implicito in relazione ai vizi dichiarati assorbiti dalla Corte nella decisione, cioè, nonostante alcune pur autorevoli opinioni dottrinali in senso contrario – circoscritte, peraltro, al solo caso in cui la Corte abbia dichiarato incostituzionale una certa disposizione dopo aver assodato la sussistenza di un vizio sostanziale e abbia così assorbito i vizi di carattere formale 52 –, l’accertamento della sussistenza di uno qualunque dei vizi non implica mai alcuna pronuncia implicita sugli altri vizi rimasti assorbiti sui quali non si forma mai dunque un giudicato implicito: come è stato efficacemente osservato da un autorevole costituzionalista sotto il profilo del quale stiamo discorrendo, “il c.d. “giudicato implicito” è un non-senso” 53. L’unica ipotesi in cui pare possibile ragionare nei termini di giudicato implicito è quella in cui i vizi siano legati da un rapporto di connessione e dunque di pregiudizialità fra di loro: in questo caso, infatti, è legittimo ritenere – sebbene sul punto nella stessa decisione n. 262 del 2009 la Corte costituzionale non si sia formalmente ed espressamente pronunciata – che la soluzione del dubbio posto sui vizi esaminati sia risolutiva ex se della soluzione del dubbio sollevato su quelli poi assorbiti. Ora, nel caso dei vizi di inammissibilità non ci sembra che possa essere tendenzialmente mai riscontrato un rapporto di connessione e dunque di pregiudizialità fra essi in grado, come tale, di far ritenere che la soluzione dell’uno comporti una presa di posizione tacita della Corte sull’altro o sugli altri assorbiti.Per ritornare all’esempio della decisione n. 399 del 2000 poco sopra citata, non ci pare che fra il vizio del difetto di rilevanza e quello della carenza di forza di legge dell’atto impugnato vi sia alcun rapporto di connessione e pertanto di pregiudizialità, nel senso che la soluzione dell’uno non offre indicazioni sicure né in un senso né nell’altro in relazione alla soluzione dell’altro. In conclusione, ci pare di poter osservare come, a fronte di qualche elemento in comune, fra la prassi dell’assorbimento dei vizi di inammissibilità e la tecnica dell’assorbimento dei vizi di costituzionalità siano riscontrabili tali e tante differenze da renderli difficilmente inquadrabili nel novero di una stessa species: insomma, non si tratta di due genera della medesima species, ma di duae species totalmente differenti che, come tali, necessitano, ognuna di esse, di un proprio inquadramento concettuale e dogmatico e dunque di approfondimenti del tutto distinti. 51 Cfr., volendo, A. BONOMI, L’assorbimento dei vizi, cit., 177 ss.

52 Trattasi delle tesi – identiche nelle premesse da cui muovono anche se diverse poi nelle conclusioni a cui approdano con riferimento al “significato” da conferire al giudicato implicito che esse reputano, appunto, formatosi sui vizi formali assorbiti – di P.A. CAPOTOSTI, Intervista, in A. CELOTTO (a cura di), Il lodo Alfano – Prerogativa o privilegio?, Roma 2009, 91-2 e di A. PACE, Il giudicato implicito della sent. n. 24 del 2004 relativamente alla inidoneità della legge ordinaria a disciplinare ipotesi di improcedibilità penal-processuali in deroga agli artt. 3 e 24 Cost., in Giur. Cost. 2009, 3702-05.

53 Così F. MODUGNO, Prerogative (o privilegi?) costituzionali e principio di uguaglianza, in Giur. Cost. 2009, 3972 nota 1.


VERSO UNA MODIFICA DELLA LEGGE ELETTORALE TOSCANA: PRIMI APPUNTI * **

di Ruben Cheli (4 dicembre 2013) 1.

Le modifiche alla legge elettorale toscana, il contesto, gli obiettivi

La criticatissima legge n. 270/2005 si basa su un sistema proporzionale con premio di maggioranza e liste bloccate: per ciò stesso, e solo su queste approssimative basi (oltre che per evidenti ragioni di mera propaganda partitica) 1, nel dibattito nazionale la legge elettorale toscana è stata affiancata alla Calderoli. Nel contempo si è altresì affiancato un dibattito regionale, tutto toscano, sull’opportunità e le modalità di correzione della legge elettorale regionale: rilanciato dopo la doppia riduzione dei componenti del Consiglio (dalla prossima legislatura 40). Lo stesso Presidente della Regione Enrico Rossi fin dall’illustrazione del programma di governo2 si è sempre dichiarato favorevole a una modifica della legge regionale 13 maggio 2004 n. 25, modificata dalla l.r. n. 50 del 2009, e negli ultimi mesi sembra che tale auspicio sia stato fatto proprio dal gruppo PD in Consiglio regionale. A confermare un’accelerazione sul tema sono ora le dichiarazioni rilasciate alla stampa proprio del Presidente della Regione e dal capogruppo in Consiglio regionale Marco Ruggeri3, i quali hanno fatto riferimento al documento, frutto dell’attività di un gruppo di lavoro costituito ad hoc, da condividere con gli altri partiti per giungere a un accordo entro febbraio 2014. Questo documento, subito ribattezzato sulla stampa come “bozza Ruggeri” dal nome del capogruppo PD, presenta le seguenti innovazioni: a. il ripristino delle preferenze4, con possibilità di indicare due nomi, un uomo e una donna (la c.d. doppia preferenza di genere); b. l’introduzione del doppio turno per l’elezione del Presidente della Giunta nel caso in cui nessun candidato raggiunga il 40% dei consensi; c. l’abolizione del “listino” regionale5; d. l’abolizione della l.r. n. 70/20046 sulle elezioni primarie. Fin da una prima analisi tali modifiche appaiono atte a modificare in modo strutturale alcune caratteristiche della disciplina vigente, soprattutto in considerazione del fatto che nella materia non sono possibili interventi a sé stanti e che tutto dovrebbe essere sostenuto da una visione organica, dalla considerazione di fattori ulteriori e da ben precisi obiettivi e scopi. Per questo motivo sarebbe avventato considerare questi eventuali ritocchi *

Scritto sottoposto a referee.

1

Non saranno qui affrontati nello specifico gli evidenti punti di difformità tra il sistema nazionale e quello regionale che smentiscono il legame di “paternità” da molti erroneamente attribuito alla legge elettorale toscana rispetto alla legge Calderoli. Si pensi solo alla presenza di liste assai corte e alle limitazioni in fatto di “candidature multiple” nella legge elettorale toscana (oltre che al traino bipolarizzante assicurato dall'elezione diretta del presidente). 2 Come si ricorda in G.TARLI BARBIERI, Statuto regionale, referendum e proposte di iniziativa popolare sulla normativa elettorale: opportunità e limiti, Osservatorio sulle fonti, fasc.1/2012, p.2. 3 Il Tirreno, 22 novembre 2013, Rossi promette: entro fine anno legge elettorale con le preferenze. Il Tirreno, 27 novembre 2013, Via il porcellum toscano torneranno le preferenze. 4 Il Presidente Enrico Rossi ha parlato di «punto irrinunciabile» in merito a esse. 5 In attesa delle motivazioni, si può dire che - per i caratteri di cui ai punti a), b), c) - una nuova legge elettorale toscana di tal fatta sarebbe... a prova di giurisprudenza della Corte costituzionale (v. comunicato stampa Corte costituzionale del 4 novembre 2013 relativo alla legge 270/2005). 6

Legge regionale 17 dicembre 2004, n. 70, Norme per la selezione dei candidati e delle candidate alle elezioni per il Consiglio regionale e alla carica di Presidente della Giunta regionale.

1


slegati da una visione di fondo, valutandoli senza tenere a mente le modifiche politiche e istituzionali verificatesi negli ultimi mesi: infatti il contesto è tutt’altro che indifferente. Faccio riferimento alla legge statutaria regionale 24 aprile 2013, n. 18, che ha ridotto da 55 a 40 i membri del Consiglio regionale e alla proliferazione dei gruppi politici in seno ad esso nel corso della legislatura. Quest’ultima appare come una patologia molto frequente nel panorama politicoistituzionale italiano, locale e nazionale, e la IX legislatura toscana non fa eccezione. Appena dopo le elezioni regionali, nel 2010, i gruppi erano sette: Partito Democratico, Italia dei Valori, Federazione della Sinistra, Popolo della Libertà, Lega Nord, Unione di Centro e Gruppo misto (inizialmente “monogruppo” 7 composto dal socialista Pieraldo Ciucchi, eletto nel “listino” regionale PD). Ad oggi, quando manca ancora un anno e mezzo alla scadenza del mandato, i gruppi consiliari sono già saliti a dieci: Partito Democratico, Centro Democratico, Federazione della Sinistra – Verdi, Fratelli d'Italia, Popolo della Libertà, Popolo della Libertà-Nuovo Centrodestra, Italia dei Valori, Più Toscana/Nuovo Centrodestra, Unione di Centro, Gruppo Misto. È evidente che qualsiasi sia la soluzione da proporre essa dovrà tenere in considerazione questa mutazione del contesto e la definizione degli obiettivi che i promotori intendono perseguire con le modifiche dovrà confrontarsi con il combinato disposto dei nuovi fattori (minori eletti – crescita dei gruppi). Ciò detto, il primo passo attiene alla sfera politica ed è riassumibile nella domanda: che cosa realmente si vuole? In questo ambito gli obiettivi non potrebbero essere i più vari. Garantire e rafforzare la governabilità, a cui si collega la piena realizzazione del programma proposto dal candidato Presidente della Regione ai cittadini, ripristinare e rafforzare il legame eletto-cittadino consentendo un potere di scelta a chi vota, garantire e promuovere la presenza femminile in Consiglio, tutelare le minoranze da una sottorappresentazione8, mettere un freno ai c.d. costi della politica regionale che tanto stanno facendo scandalo in questi mesi, cercare di porre rimedio al fenomeno di disgregazione partitica che ha subìto un’accelerazione e così via. Com’è ovvio e naturale, è necessario che siano effettuate delle scelte tra queste esigenze dopo averle ordinate secondo una scala di priorità e dopo aver considerato alcuni dati oggettivi. 2.

La rappresentanza dei territori

Innanzitutto la riduzione del numero dei consiglieri a 40 membri se da un lato asseconda l’ondata di antipolitica in crescita nell’opinione pubblica dall’altro comporta mutamenti nella rappresentatività dei consiglieri regionali: se in un Consiglio regionale da 55 membri ciascun consigliere rappresentava 65.996 cittadini in un Consiglio da 40 ne rappresenterà ben 91.805, quasi quanto un deputato (94.339). In secondo luogo si ha una conseguenza sulla lunghezza delle liste bloccate, talmente vituperate, come già ricordato, da far associare erroneamente, come ho detto, la legge regionale toscana a quella nazionale. Infatti, ipotizzando una legge con circoscrizioni disegnate sulle attuali province e con la provincia di Firenze suddivisa a sua volta in quattro parti (ad es. città, empolese7

Sui gruppi c.d. “monocellulari”, quasi sempre favoriti da prassi politiche deprecabili quale quella di garantire seggi sicuri nel “listino regionale” a forze politiche alleate ma che non raggiungerebbero un numero di voti tali da superare la soglia di sbarramento, è intervenuto di recente il d.l. n. 174/2012 (convertito dalla l. 213/2012) che mira a disincentivare tale fenomeno, seppur non incisivamente. 8 Specialmente in Regioni in cui, come la Toscana, non si è mai verificata una piena e reale contendibilità della posta in palio e salvo rari casi si assiste da sempre a una omogenea distribuzione dei consensi su tutto il territorio regionale.

2


valdelsa, zona della “piana”, collina-montagna-nordest), le già corte liste dovrebbero trasformarsi in liste cortissime. In base a questa ipotesi, in presenza di 13 circoscrizioni (9 province più le 4 circoscrizioni fiorentine), gli eligendi non saranno più di 2-4 per collegio, in media anche meno, ottenendo dal rapporto 40 consiglieri/13 circoscrizioni un risultato prossimo a 3. Ciò significa, in termini di ripartizione territoriale e considerando il numero massimo di candidature9, che solo la Provincia di Prato manterrà lo stesso numero di consiglieri di 5 anni fa mentre diversi territori (Firenze, Lucca, Pisa) dovranno rinunciare a diversi rappresentanti. Tab.1a: Ripartizione seggi nelle circoscrizioni - anno 2010, popolazione 2001

323.288 933.860 211.086 326.444 372.244

Quozienti interi 4 14 3 4 5

197.652

2

1

3

1

384.555 268.503 227.886 252.288 3.497.806

5 4 3 3 47

1 0 0 1 6

6 4 3 4 53*

2 2 1 2

55 MEMBRI - 2010 Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa Carrara Pisa Pistoia Prato Siena TOTALE

1 0 0 1 1

Seggi della circoscrizione 5 14 3 5 6

numero minimo candidati 2 5 1 2 2

Migliori resti

*Più il Presidente eletto e il candidato/a Presidente miglior perdente. Fonte: Istat, censimento popolazione 2001

Tab.1b: Ipotesi ripartizione seggi nelle circoscrizioni - anno 2015, legge vigente, popolazione 2011

343.676 973.145 220.564 335.247 388.327

Quozienti interi 3 10 2 3 4

199.650

2

0

2

1

411.190 287.866 245.916 266.621 3.672.202

4 3 2 2 35

0 1 1 1 5

4 3 3 3 40*

2 1 1 1

40 MEMBRI 2015 Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Massa Carrara Pisa Pistoia Prato Siena TOTALE

1 1 0 1 0

Seggi della circoscrizione 4 11 2 4 4

numero minimo candidati 2 4 1 1 2

Migliori resti

* L.s.r. n. 18/2013, art.1. Fonte: Istat, censimento popolazione 2011 9

Non il numero minimo, che per ciascuna circoscrizione non può essere attualmente inferiore a un terzo del massimo.

3


Nei fatti, tuttavia, alle ultime elezioni (2010) furono 20 i consiglieri eletti mediante listino regionale (i c.d. capilista presenti in tutte le circoscrizioni, che nella “proposta Ruggeri” si intende abolire) e 32 nelle singole circoscrizioni provinciali 10. Così la ripartizione di questi ultimi: Arezzo 3, Firenze 8, Grosseto 2, Livorno 3, Lucca 4, MassaCarrara 2, Pisa 3, Pistoia 2, Siena 3, Prato 2. Quanto alle prossime elezioni (che dovrebbero tenersi nel 2015) riguardo al numero di seggi riportato in tabella n. 1b, nel caso di introduzione della “doppia preferenza di genere”, abbinandosi questa alla drastica riduzione dei consiglieri, ci si domanda se non diventi necessario e opportuno un aumento delle candidature nelle liste provinciali da un minimo di 3-4 a un minimo di 6-8. Non sarebbe altrimenti possibile, nelle circoscrizioni più piccole, garantire una “scelta” in presenza di 2 nomi da eleggere e 2 preferenze di genere. 3.

Il doppio turno e la reintroduzione delle preferenze

Altra modifica nella proposta del PD è quella di prevedere una seconda tornata elettorale, ma solo nel caso in cui il candidato Presidente più votato non abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei suffragi al primo turno, tra i due candidati che hanno ottenuto risultati migliori in prima votazione. Questa innovazione, oltre a scongiurare l’attribuzione di un premio di maggioranza pari o superiore al 20 per cento dei seggi 11 in presenza di un ammontare limitato di voti (inferiore, appunto, al 40 per cento), pare diretta a rafforzare ruolo, peso politico, prestigio e autorevolezza del futuro Presidente di Regione. È probabile che l’ipotesi di introduzione di questo istituto di rafforzamento della guida dell’esecutivo (specialmente in un periodo di disaffezione politica e di frammentazione partitica quale quello attuale) sia dovuta anche alla reintroduzione delle preferenze nel sistema toscano, alle derive localistiche che ciò può comportare e al timore di un conflitto esecutivo-legislativo dovuto alla doppia linea di legittimazione diretta. L’assenza del voto di preferenza in Toscana, senz’altro associato allo stile di governo del Presidente in carica, ha infatti accentuato i caratteri propri delle “forme di governo della transizione italiana” 12 rendendo evidente come l’indirizzo politico dato dal Presidente sia fatto proprio dal Consiglio regionale 13, con tutti i difetti ma anche i pregi del caso. Ma nel trade-off tra pregi e difetti, esigenze e rinunce, vizi e virtù delle preferenze è prioritario osservare lo stato dell’arte creatosi con il sistema vigente. Nel far ciò alcuni dati possono essere utili per affrontare la discussione su questo strumento, tanto invocato quanto controverso. Una prima considerazione sull’utilizzo, visto che il voto di preferenza sembra poco gradito o comunque, di sicuro, meno utilizzato dagli elettori del centro-nord. Come si vede dai dati del tasso di preferenza delle ultime quattro consultazioni regionali, in tabella n. 2, al di là di alcune specificità, l’indicazione del nome del candidato di lista preferito è una prassi molto sviluppata solo nel mezzogiorno. Dai dati si evince che in tutte le regioni del centro-nord, eccezion fatta per Umbria e Lazio, si è sotto al 50% e in molti casi di molto. 10

I restanti tre furono il Presidente Enrico Rossi e i due candidati alla Presidenza Monica Faenzi e Francesco Bosi. Si ricorda brevemente che il premio di maggioranza nelle elezioni regionali ha carattere eventuale e variabile e presenta il c.d. problema di “monotonicità”. Sul punto, tra i molti lavori che affrontano la questione, A. CHIARAMONTE, G. TARLI BARBIERI (a cura di), Riforme istituzionali e rappresentanza politica nelle Regioni italiane, Bologna 2007, pp. 226-232. 12 C. FUSARO, I limiti della legislazione elettorale vigente, in R. D’ALIMONTE, C. FUSARO (a cura di) La legislazione elettorale italiana, Bologna 2008, pp. 20-25. 13 Salvo rari casi, come ad es. quando il Consiglio regionale si è trovato a votare il documento di indirizzo da trasmettere al Governo in tema di riordino delle province (d.l. 95/2012 e ss.). 11

4


Del resto, nonostante un qualche incremento nel tempo 14, non solo non parrebbe esserci una così intensa “domanda di preferenze” come si vorrebbe far credere ma si avrebbero proprio nel centro-nord le percentuali maggiori di voti ai soli Presidenti 15. Tab. 2a: Tasso di preferenza elezioni regionali (1995-2010) Regione PIEMONTE LOMBARDIA VENETO LIGURIA EMILIA ROMAGNA TOSCANA UMBRIA MARCHE LAZIO CAMPANIA PUGLIA BASILICATA CALABRIA SICILIA (2006-20082012)

% 1995 16,8 11,6 16,3 26,3 11,1 15,4 30,7 28,6 26,6 46,4 41 63,4 61,5

% 2000 34,4 23,9 33,4 41,6 22,4 28,6 51,2 44,6 47 70,6 69,8 85,8 82,3

% 2005 41,3 26,6 39,1 46,2 28,2 0 55,7 49,5 54,4 76,8 78,5 89,6 87,4

% 2010 35 23,3 35,2 42 25,7 0 53 49,4 50,9 90,6* 75,7 85,9 84,1

n.d.

86,6

70,9

83,5

*Doppia preferenza di genere Fonte: dati CISE - Centro Italiano Studi Elettorali

Altro aspetto da considerare, soprattutto alla luce della crescente attenzione riservata al tema16, è quella relativa alla “questione femminile”, considerato il potere incentivante della legislazione elettorale. Sul punto è opinione consolidata e scientificamente provata che il voto di preferenza non favorisce la rappresentanza di genere e per la verità ciò appare vero anche per il collegio uninominale. La causa di tali penalizzazioni è da imputare al ritardo culturale del paese in tema di partecipazione femminile alla vita sociale, politica ed economica e al fatto che in competizioni aperte, dove sono necessarie ingenti risorse, non solo finanziarie, le donne partono svantaggiate. E ciò al netto della tendenza del voto di preferenza a “conservare” le élite politiche in carica. Per questi motivi la lista bloccata, se correttamente utilizzata e affiancata da specifici incentivi e vincoli – al contrario di quanto avvenuto in Toscana dove ogni incentivo alla parità di genere è stato annullato dall’ampliamento del listino da 2 a 5 nomi 17 – sembra essere l’unico sistema non sfavorevole rispetto a una rappresentanza di genere. Se non 14

D. FABRIZIO, P. FELTRIN, L’uso del voto di preferenza: una crescita continua, in A. CHIARAMONTE, G. TARLI BARBIERI (a cura di) Riforme istituzionali cit., pp. 175-ss. 15 A. CHIARAMONTE, Il rendimento dei sistemi elettorali regionali: un quadro comparato, in A. CHIARAMONTE, G. TARLI BARBIERI (a cura di) Riforme istituzionali cit., p. 242. Le Regioni con più alto vsp nel 1995, 2000 e 2005 sono Lombardia, Piemonte e Veneto. La Toscana nel quadro italiano è nella fascia alta con le seguenti percentuali di vsp (1995, 2000, 2005, 2010): 9,8%; 6,7%; 12,6%; 14%. 16 Recentemente la l. 215/2012 ha inteso ribadire l’importanza dell’argomento con l’art. 3, c.1, di modifica dell’art. 4, c.1, l. 165/2004, disponendo che tra i princìpi fondamentali in materia di elezioni regionali fosse da considerare anche «la promozione della parità tra uomini e donne nell’accesso alle cariche elettive attraverso la predisposizione di misure che permettano di incentivare l’accesso del genere sottorappresentato alle cariche elettive».

5


altro le organizzazioni partitiche, solitamente tendenti a considerare elettoralmente deboli le candidature al femminile, riescono con tale sistema ad ammortizzare rischi che altrimenti non si assumerebbero. La “bozza Ruggeri” cerca comunque di mitigare gli effetti delle preferenze introducendo il correttivo della doppia preferenza di genere, già prevista nella legislazione elettorale campana18 e che ha dato buoni risultati in sede di prima applicazione. Nonostante i buoni risultati campani (tabella n. 3) restano tuttavia dei dubbi sull’efficacia e sul potenziale di tale incentivo in un regime di possibilità e non di obblighi, soprattutto in un contesto di limitato utilizzo del voto di preferenza. Tab. 3: Presenza femminile nei Consigli regionali (2013) m CAMPANIA EMILIA-ROMAGNA TRENTINO-ALTO ADIGE * FRIULI VENEZIA GIULIA * PIEMONTE LAZIO * LOMBARDIA * MARCHE TOSCANA SICILIA * UMBRIA LIGURIA MOLISE * VALLE D'AOSTA ABRUZZO SARDEGNA PUGLIA VENETO CALABRIA BASILICATA *

f 46 39 55 39 48 41 65 35 45 75 26 34 18 30 41 73 66 57 49 21

tot. 15 11 15 10 12 10 15 8 10 15 5 6 3 5 4 7 4 3 2 0

61 50 70 49 60 51 80 43 55 90 31 40 21 35 45 80 70 60 51 21

% f/tot. 24,6 22,0 21,4 20,4 20,0 19,6 18,8 18,6 18,2 16,7 16,1 15,0 14,3 14,3 8,9 8,8 5,7 5,0 3,9 0,0

Fonte: siti istituzionali Consigli regionali. * voto 2013.

In questa analisi degli elementi correlati al voto di preferenza non si può non considerare l’aspetto finanziario, soprattutto in un periodo nel quale il contenimento dei c.d. costi della politica rappresenta uno degli obiettivi prioritari da conseguire nel tentativo di rispondere a una crescente domanda proveniente dall’opinione pubblica. Peraltro, come già detto, la drastica riduzione dei consiglieri regionali da 55 a 40 va, almeno in parte, in questa direzione. 17

In origine il listino regionale toscano poteva contenere soltanto 2 nomi, un uomo e una donna. L’aumento a 5 nomi senza alcun conseguente adeguamento in favore delle pari opportunità è stato oggetto del parere negativo della Commissione Pari Opportunità del Consiglio regionale e infatti per questa modifica la presenza femminile in Consiglio regionale nel 2010 si è ridotta rispetto al buon risultato del 2005 (24,6% di donne, erano il 12% nel 2000). 18 Si tratta della l.r. Campania n. 4/2009. Essa rende possibile l’utilizzo di due voti di preferenza purché a candidati di sesso differente e dispone la presenza in lista di almeno 1/3 dei candidati dello stesso sesso. Peraltro la doppia preferenza di genere è stata applicata per la prima volta in tutti i comuni andati al voto nelle elezioni amministrative del 2013, in forza della l. 215/2012 che ha esteso tale strumento ai Consigli comunali.

6


Tutto muove dal fatto che, anche nel caso di archiviazione dei procedimenti avviati dalla magistratura, attualmente esistono indagini su 16 Consigli regionali in Italia 19 e che comunque si rende necessaria una maggiore attenzione dei consiglieri regionali nell’uso delle risorse pubbliche a loro disposizione. Su questo, la Regione Toscana sembra rappresentare un unicum nel panorama nazionale20. Non essendo a conoscenza di studi specifici in merito si può sostenere che tale morigeratezza non dovrebbe essere dovuta a una natura sostanzialmente diversa e più virtuosa della classe politica toscana rispetto alle altre varietà regionali (la particolare storia e cultura politica può aiutare, ma non basta). Semmai tale accortezza pare imputabile alla legge elettorale che con il suo portato di incentivi e vincoli, abolendo le preferenze, unica in Italia, spinge gli eletti a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, ne spoglia di qualsiasi incentivo alla competizione interna ed esterna e limita il voto di scambio. Non dimenticando gli svantaggi connessi all’istituto delle preferenze, primi fra tutti l’assoluto potere conferito nelle mani degli estensori delle liste di partito (nonostante la legge regionale toscana sulle primarie, par. 4) e l’annullamento del rapporto dell’eletto con il territorio di elezione21 non è parimenti possibile omettere gli indubbi vantaggi. Si pensi solo per un momento al venir meno del fenomeno della competizione esasperata tra candidati dello stesso partito e al rischio di spaccature, soprattutto in tempi di fragilità partitiche tanto evidenti, così come al minore fabbisogno di risorse (in primis economiche, ma non solo) per la campagna elettorale e il mantenimento della visibilità. Risorse che, come dimostrato dalla storia italiana ma anche dalla cronaca, possono provenire e da gruppi di interesse ben organizzati e da pratiche al limite della legalità e talvolta fuori da essa. E ciò sembra valere soprattutto in una Regione come la Toscana nella quale l’esercizio della preferenza non è diffuso tra i cittadini e non sarebbe certamente usato in massa. Attingendo i dati della spesa dei Consigli regionali da un recentissimo lavoro 22 quanto segue intende dimostrare che il Consiglio regionale toscano è tra i più virtuosi in Italia quanto al costo per il suo funzionamento 23 in rapporto alla popolazione, tabella n. 4a, un po’ meno per quanto riguarda la spesa totale per consigliere, tabella 4 b, a conferma della “normalità toscana”, ma soprattutto, a riprova dell’effetto positivo che l’assenza di preferenze ha sui costi, che è ultimo in assoluto riguardo alla spesa per contributi ai gruppi consiliari in rapporto alla popolazione tabella n. 5a e solo dietro al Trentino-Alto Adige se rapportata al numero dei consiglieri, tabella n. 5b. Tab. 4a: Spesa totale per il Consiglio regionale in rapporto alla popolazione Pop. Lombardia

9.704.15 1

spesa totale CR (personale, indennità consiglieri, vitalizi, contributi ai gruppi, altre spese)

spesa totale/abitanti

(migliaia di euro)

(unità di euro)

68.452

7,05

19

Sinteticamente, a scopo esclusivamente riassuntivo, si veda Il Messaggero del 4 novembre 2013: Regioni, week end e lap dance la sprecopoli non è mai finita. 20 Al momento si può citare una richiesta di documentazione aggiuntiva formulata dalla Corte dei conti regionale in merito alle spese dei gruppi. Il Presidente della Regione ha dichiarato di presentare ricorso dinanzi la Corte cost. 21 Sebbene da una attenta osservazione del funzionamento del Consiglio regionale, dei lavori d’aula e del rapporto con l’Esecutivo regionale tale affermazione può quantomeno essere contestata, almeno in relazione ad alcuni territori. 22 R. PEROTTI, I costi della politica, 29 novembre 2013, www.lavoce.info. 23 Dove per costo di funzionamento si intende qui la spesa totale, comprensiva anche di quella per il personale, per le indennità dei consiglieri attuali e i vitalizi di quelli passati, i contributi ai gruppi consiliari, le altre spese.

7


Em.-Romagna

4.342.13 5

33.798

7,78

Veneto

4.857.21 0

51.606

10,62

Campania

5.766.81 0

66.358

11,51

Toscana

3.672.20 2

46.411

12,64

Puglia

4.052.56 6

52.810

13,03

Piemonte

4.363.91 6

61.680

14,13

Marche

1.541.31 9

22.042

14,30

Lazio

5.502.88 6

83.893

15,25

Liguria

1.570.69 4

32.545

20,72

Abruzzo

1.307.30 9

29.109

22,27

Umbria

884.268

21.464

24,27

Friuli-VG

1.218.98 5

32.958

27,04

Trentino-AA

1.029.47 5

29.073

28,24

Sicilia

5.002.90 4

156.107

31,20

Basilicata

578.036

21.318

36,88

Calabria

1.959.05 0

78.933

40,29

Molise

313.660

14.139

45,08

Sardegna

1.639.36 2

73.970

45,12

V. d'Aosta

126.806

14.340

113,09

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da R. PEROTTI, I costi della politica cit.

Tab. 4b: Spesa totale per consigliere spesa totale CR (personale, indennitĂ numero consiglieri, vitalizi, contributi ai gruppi, altre spese) consiglieri

spesa totale per consigliere

(migliaia di euro)

(migliaia di euro)

V. d'Aosta

35

14.340

410

Trentino-AA

70

29.073

415

Molise

30

14.139

471

Marche

43

22.042

513

Friuli-VG

64

32.958

515

8


Abruzzo

45

29.109

647

Em.-Romagna

52

33.798

650

Umbria

31

21.464

692

Puglia

70

52.810

754

Basilicata

27

21.318

790

Liguria

40

32.545

814

Veneto

62

51.606

832

Toscana

55

46.411

844

Lombardia

80

68.452

856

Sardegna

80

73.970

925

Piemonte

60

61.680

1028

Campania

61

66.358

1088

Lazio

71

83.893

1182

Calabria

51

78.933

1548

Sicilia

90

156.107

1735

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da R. PEROTTI, I costi della politica cit.

Tab. 5a: Spesa per contributi ai gruppi consiliari in rapporto alla popolazione popolazion e

contributi complessivi ai gruppi consiliari (migliaia di euro)

contributi ai gruppi/ab. (unitĂ di euro)

Toscana

3.672.202

716

0,19

Trentino-AA

1.029.475

781

0,76

Campania

5.766.810

4.454

0,77

Veneto

4.857.210

4.215

0,87

Lombardia

9.704.151

11.288

1,16

Em.-Romagna

4.342.135

5.250

1,21

Puglia

4.052.566

5.308

1,31

Abruzzo

1.307.309

2.074

1,59

Piemonte

4.363.916

7.411

1,70

Umbria

884.268

1.542

1,74

Liguria

1.570.694

3.602

2,29

Marche

1.541.319

3.577

2,32

Lazio

5.502.886

13.414

2,44

Sicilia

5.002.904

12.292

2,46

Sardegna

1.639.362

4.281

2,61

Basilicata

578.036

1.626

2,81

Calabria

1.959.050

5.858

2,99

Friuli-VG

1.218.985

5.020

4,12

V. d'Aosta

126.806

601

4,74

Molise

313.660

2.345

7,48

9


Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da R. PEROTTI, I costi della politica cit.

Tab. 5b: Spesa per contributi ai gruppi consiliari per consigliere numero consiglieri

contributi complessivi ai gruppi consiliari

contributi ai gruppi per consigliere

(migliaia di euro)

(migliaia di euro)

Trentino-AA

70

781

11,2

Toscana

55

716

13,0

V. d'Aosta

35

601

17,2

Abruzzo

45

2.074

46,1

Umbria

31

1.542

49,7

Sardegna

80

4.281

53,5

Basilicata

27

1.626

60,2

Veneto

62

4.215

68,0

Campania

61

4.454

73,0

Puglia

70

5.308

75,8

Molise

30

2.345

78,2

Friuli-VG

64

5.020

78,4

Marche

43

3.577

83,2

Liguria

40

3.602

90,1

Em.-Romagna

52

5.250

101,0

Calabria

51

5.858

114,9

Piemonte

60

7.411

123,5

Sicilia

90

12.292

136,6

Lombardia

80

11.288

141,1

Lazio

71

13.414

188,9

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati tratti da R. PEROTTI, I costi della politica cit.

4.

Abolizione dell’istituto delle primarie pubbliche

La legge elettorale toscana subisce il già ricordato torto dell’accostamento alla legge elettorale nazionale non solo per la presenza di liste bloccate più corte e di vincoli alle candidature multiple bensì anche per una peculiarità assente nel resto del panorama nazionale. Si tratta della l.r. n. 70/2004 rubricata “Norme per la selezione dei candidati e delle candidate alle elezioni per il Consiglio regionale e alla carica di Presidente della Giunta regionale”, la prima legge sull’istituto delle primarie dell’ordinamento italiano 24. La legge in parola, approvata solo successivamente al rigetto da parte della Corte costituzionale del ricorso del Governo contro lo Statuto della Regione Toscana, istituendo le primarie pubbliche, facoltative e non vincolanti, rappresenta sostanzialmente la 24

Non trattando qui nello specifico sulle caratteristiche della norma si rimanda in particolare a C. FUSARO, La legge elettorale toscana sulle primarie, Le Regioni, a. XXXIII, n. 3, giugno 2005.

10


soluzione di compromesso operata dal legislatore regionale a seguito dell’abolizione delle preferenze25. Al di là delle tante motivazioni possibili – le primarie sono una modalità di selezione in vista dell’elezione che mira a legittimare il futuro candidato, testarne le capacità e le proposte programmatiche, motivare il proprio elettorato, anticipare il conflitto intrapartitico, ecc. – con tale scelta si è cercato principalmente di rendere comunque possibile, nonostante la lista bloccata, l’esercizio della scelta dei candidati 26 ai cittadini, sebbene con il filtro delle organizzazioni partitiche. Non sorprende pertanto che, in vista di un ipotetico ripristino delle preferenze, la “bozza Ruggeri” disponga contestualmente anche l’abrogazione della normativa sulle primarie pubbliche. Ciò che stupisce è semmai la motivazione alla base di questa decisione, in primis lo scarso utilizzo e il costo dell’organizzazione delle consultazioni. Infatti il basso livello di adesione delle formazioni politiche e il calo di partecipazione dei cittadini alle due primarie organizzate 27 pare imputabile più alle resistenze delle forze politiche e al disinteresse di cittadini in una Regione dove la competizione è solitamente già segnata28 che all’impianto della legge stessa. Inoltre, seppur con tutti i limiti e i miglioramenti possibili del caso, tale sistema di primarie pubbliche, proprio in quanto tali, riesce a garantire agli elettori un minimo grado di omogeneità e di regole di base che, come dimostrano i recenti casi di primarie private, non sono mai ridondanti. Se a prevalere sarà l’orientamento delineatosi sarà un vero peccato rinunciare a migliorare la legislazione esistente solo perché non è stato fatto uso adeguato: quando nel prossimo futuro nuove condizioni politiche ed adeguati incentivi potrebbero renderla richiesta da più parti. ** Laureato magistrale in Scienze della politica e dei processi decisionali, "C. Alfieri", Università di Firenze; ricercatore presso UPI Toscana.

25

Una ricostruzione dell’intreccio tra approvazione della legge elettorale regionale, legge sulle primarie e modifica dello Statuto in A. FLORIDIA, Le primarie in Toscana: la nuova legge, la prima sperimentazione, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale Regione Toscana, Giugno 2006, n. 55. 26 A tutte e tre le arene di competizione, Presidente, lista regionale, lista circoscrizionale. 27 Alle primarie del 2005 per i consiglieri hanno partecipato 151.664 elettori, il 5% del totale, a quelle del 2009 sono stati 115.289, il 3,8% del totale. 28 E' questa un'altra ragione che consiglia primarie pubbliche al di là del fatto che la prassi delle primarie pare affermata nel partito fino ad oggi egemone nel panorama regionale toscano: finché la designazione alla candidatura a presidente del Pd equivale alla quasi elezione, farvi partecipare i cittadini con procedimento pubblicistico non è davvero un fuor d'opera e può ben... valere la spesa.

11


Il fenomeno del lobbismo negli Stati Uniti d’America: brevi considerazioni sugli strumenti di influenza delle lobbies e sulla evoluzione della relativa regolamentazione legislativa, fino alla sentenza “Citizens United v. FEC” * di Roberto Di Maria ed Alberto Doria ** (12 dicembre 2013) – Nel presente contributo gli Autori articolano una sintetica riflessione sul fenomeno del lobbying nel sistema istituzionale statunitense e sugli strumenti (legittimi) di contatto e pressione politica. In particolare, il focus è incentrato sui presupposti costituzionali comunemente evocati a sostegno del libero e legittimo – se non, addirittura, dovuto – esercizio della suddetta “pressione” sugli organi istituzionali, soprattutto Parlamento e Governo (i.e. il primo emendamento alla Costituzione) nonché sulla evoluzione della legislazione per la regolamentazione delle diverse forme di “pressione” delle lobbies – prevalentemente ispirate all’istituto della disclosure – e del correlativo contributo offerto dalla giurisprudenza della Corte Suprema, nel costante bilanciamento tra il «redress of grievance», il «freedom of speech» e la «equality» nell’esercizio dei diritti politici, fino alla recente e controversa sentenza Citizens United v. FEC. ABSTRACT

SOMMARIO:

1. Introduzione – 2. Il funzionamento del lobbismo: oltre il paradigma “lobbista = corruttore” – 3. Gli strumenti di influenza dei lobbisti – 4. La regolamentazione del lobbismo: le leggi federali di disclosure – 5. Un “rimedio” a livello statale: brevi cenni sul popular recall – 6. Lobbismo e perimo emendamento: la controversa sentenza Citizens United v. FEC.

1. Nel corso del 2007, l’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama, dichiarava: «[i]f you don’t think lobbyists have too much influence in Washington, then I believe you’ve probably been in Washington too long» 1; insediatosi poi alla Casa Bianca ed avviato il programma di riforme, il 44° Presidente degli Stati Uniti – con riferimento alla riforma dei prestiti per gli studenti – osservava criticamente: «[the] army of lobbyists spending millions of dollars in an unseccessful attempt to block passage of a bill reforming practices in the student loan industry»2. Il Senatore repubblicano del Kentucky, Rand Paul, è stato ancor più duro nei confronti delle lobbies, dichiarando: «[in the] last year, over 15.000 worked for organization whose sole goal was to rip you off. No, not the mafia or Goldman Sachs, but another distinctly criminal class: Washington lobbyists» 3. Entrambe le forze politiche del sistema federale statunitense appaiono dunque compatte nella critica al fenomeno del lobbismo; ed è innegabile, infatti, * Scritto sottoposto a referee.

1 P. BACON JR., Edwards, Obama Press Lobby Issue, in Washington Post, 06/08/2007, disponibile su http://voices.washingtonpost.com/44/2007/08/edwards-obama-keep-pressing-lo.html. 2 D. PALETTA, Obama Takes Another Swipe at Bank, in Wall Street Journal, 30/03/2010, disponibile su http://blogs.wsj.com/washwire/2010/03/30/obama-takes-another-swipe-at-banks. 3 R. PAUL, The Public Trough, AM Conservative, agosto 2009, disponibile su http://web.archive.org/web/20100326125712/http://www.randpaul2010.com/issues/a-g/campaign-financereform. 1


che buona parte della produzione legislativa federale sia influenzata – se non, addirittura, prodotta in toto – dalle lobbies: i lobbisti rappresentano lo strumento principale attraverso il quale i gruppi d’interesse raggiungono i propri obiettivi all’interno del gioco politico. Bisogna considerare, peraltro, che la crisi economica, il disastrato sistema sanitario e la catastrofe ambientale nel Golfo del Messico hanno reso, nel corso degli ultimi anni, le lobbies un obiettivo di opportunità per le forze politiche, sempre pronte a cercare un capro espiatorio4. Nonostante i continui attacchi da parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche, la legislazione sulle lobbies è stata tuttavia piuttosto permissiva nel corso degli anni: è soltanto nel 1995 che è approvata la prima, vera, legge riferita alle lobbies, ovverosia il Lobbying Disclosure Act5. Nello studio dei tentativi di regolamentare il fenomeno delle lobbies, sembrano emergere due forze contrapposte, a livello sia dottrinale sia giurisprudenziale. Da una parte, devono essere rilevati i tentativi del Governo federale di razionalizzare il fenomeno attraverso diversi strumenti: con riferimento alla riforme economiche, ad esempio, l’Amministrazione Obama ha proibito ai lobbisti di avere contatti con le forze politiche; nella stessa materia, poi, è stato stabilito che i commenti dei lobbisti debbano essere pubblicati su specifici sitiweb governativi6.

4 Ad esempio, nel febbraio del 2010, Elizabeth Warner dichiarava che le lobbies sono state le principali responsabili del fallimento della riforma finanziaria del 2009; cfr. Real Time with Bill Maher, disponibile su http://www.movieweb.com/tv/TEjWgpoqWFxjnk/elizabeth-warren-chair-congressional-oversightpanel-on-tarp. Robert Reich, ex Segretario del Lavoro degli Stati Uniti nell’Amministrazione Clinton, ha dichiarato che l’amministrazione Obama ha dovuto cedere nel tentativo di regolamentare ulteriormente il sistema sanitario al fine di «not to oppose healthcare legislation with platoons of lobbyists and millions of dollars of TV ads». Cfr, anche C. McGREAL, Revealed: Millions Spent by Lobby Firms Fighting Obama Health Reforms, in Guardian, 01/10/2009. Il membro del Congresso Dave Loesback ha spiegato che il disastro della piattaforma petrolifera “Deepwather orizont” è il risultato di «nearly a decade [of] Big Oil lobbyists [being] in charge of our energy policy». 5 La legge prevede che, a partire dal gennaio del 2006, lobbisti siano tenuti a registrarsi presso la Cancelleria della Camera dei Rappresentanti e la Segreteria del Senato; in caso contrario, sono previste sanzioni civili fino a 50.000 dollari. 6 Cfr. K. P. VOGEL, Obama Order Worries Speech Groups, in Politico, 28/03/2009. È utile ricordare, inoltre, come sulla materia siano intervenuti anche i Governi dei singoli stati proibendo alle lobbies di contribuire alle campagne elettorali attraverso i finanziamenti. 2


D’altra parte, la Corte Suprema ha più volte dichiarato i provvedimenti di cui sopra come contrari al primo emendamento 7. In altri termini – come affermato dalla stessa Corte nella sentenza Citizens United – le leggi dello Stato che regolano il fenomeno del lobbismo interferiscono eccessivamente con i diritti politici concessi dalla Costituzione; vieppiù – prosegue la Corte – non può essere definita “corruzione” il semplice contatto od influenza che le lobbies esercitano sugli attori politici; si tratta di corruzione – conclude la Corte – semmai soltanto in presenza di uno scambio reciproco tra i due soggetti (c.d. “quid pro quo corruption”). È pur vero, tuttavia, come il fenomeno del lobbismo sia stato spesso associato alla corruzione e che, secondo un’emergente dottrina economica, l’attività di rent-seeking delle lobbies rappresenti appunto lo strumento maggiormente distorsivo dell’economia statunitense 8. Ed è per tal motivo, indi che proprio l’influenza dei lobbisti – intenti ad ottenere vantaggi economici per i propri clienti – abbia indotto il Congresso a varare misure spesso inefficaci, dispendiose e totalmente inutili, oppure misure protettive per una determinata categoria di soggetti economici, così ulteriormente distorcendo l’economia di mercato e la libera concorrenza9. Tanto premesso, il presente contributo si propone di descrivere il fenomeno del lobbismo, seppur sinteticamente, cercando in specie di an dare oltre lo stereotipo “lobbista = corruttore”. A tal fine, ci si concentrerà sulla attuale legislazione statunitense riferita al fenomeno in esame, presentando infine alcune, brevi, riflessioni sulla controversa sentenza della Corte Suprema Citizens United v. FEC.

7 Basti pensare alle sentenze Citizens United v. FEC (su cui infra, §6) e Green Party of Connecticut v Garfield. 8 Si pensi al c.d. “caso Jack Abramoff”, per un resoconto dettagliato delle cui attività illecite si consiglia R. G. KAISER, So damn much money: the triumph of lobbying and the corrosion of american government. 9 Il caso emblematico è rappresentato dalla promulgazione di una legge, sostenuta dal lobbista Stevens, che prevedeva la costruzione del c.d. “bridge-to-nowhere”; ovvero un ponte, il cui costo è stato stimato intorno ai 223 milioni di dollari, che collega i 50 abitanti dell’isola di Gravina, Alaska, alla terra ferma.

3


2. Prima di presentare una panoramica sulla legislazione relativa alle lobbies è necessario, innanzitutto, descrivere il relativo fenomeno socio-politico sì come si manifesta negli USA. All’interno del sistema statunitense, il lobbying gode di esplicita protezione costituzionale: il primo emendamento, infatti, tutela in generale la libertà di espressione ma, soprattutto, vieta al Congresso di approvare leggi che limitino «il diritto che hanno i cittadini […] di inoltrare petizioni al Governo per la riparazione di torti subiti»10. È nel caso United States v. Harriss che la Corte Suprema, per la prima volta, affermava che la nozione di «riparazione dei torti subiti» contenuta nel primo emendamento dovesse essere interpretata in maniera ampia, in modo cioè da ricomprendervi il diritto di ogni cittadino di rivolgersi al Governo non soltanto per chiedere il ristoro di ingiustizie che egli avesse eventualmente subito, bensì anche per tentare di convincere il Legislatore ad adottare una ben determinata decisione o deliberazione. Il diritto di praticare lobbying, inteso in questo senso, risultava dunque tutelato da una delle più “sacre” clausole della Costituzione americana, ovverosia appunto il primo emendamento: l’attività dei lobbisti è da anni configurata, pertanto, come species del più ampio genus della libertà di parola, ossia come la libertà di parlare per convincere un decisore pubblico. Nonostante la “forte” tutela costituzionale concessa alle lobbies, il dibattito politico americano, specie negli ultimi anni, si è però concentrato sulle possibili degenerazioni di tale fenomeno; come anticipato, infatti, tanto l’opinione pubblica quanto le forze politiche progressiste e conservatrici, non hanno esitato a definire i lobbisti “corruttori” senza spiegare, tuttavia, come in realtà tali soggetti ottengano vantaggi per sé, ma soprattutto, per i propri “clienti” all’interno degli ambienti politici.

10 Cfr. E. PALICI DI SUNI PRAT, F. CASSELLA e M. COMBA (a cura di), Le Costituzioni del Paesi dell’Unione Europea, Torino, 2001, p. 903. 4


Sullo sfondo del citato dibattito, si intravedono diversi modelli ideali di “repubblica civica”: secondo un primo modello, all’interno del dibattito legislativo, il Legislatore presenta già una serie di preferenze sulle scelte politiche – di rado influenzate dall’interpretazione del volere dei costituenti – compiendo le proprie valutazioni in maniera indipendente ed avendo come unico obiettivo il bene comune, da ottenere attraverso le più eque politiche pubbliche11; un secondo modello ideale teorizza, invece, che le scelte del Legislatore siano guidate prevalentemente dal desiderio dei politici di essere rieletti – quelle preesistenti e votate al bene pubblico assumendo un valore meramente secondario – e che le decisioni degli attori politici siano indi finalizzate a catturare le “simpatie” degli elettori. È in relazione ai premessi modelli – nella visione “comune” – che soggetti senza scrupoli, ovvero i lobbisti, intervengono all’interno del procedimento decisionale, influenzando gli attori politici al fine di ottenere vantaggi per i propri “clienti”; ancor più comunemente, tali soggetti sono visti come una “criminal class” che – attraverso denaro o doni personali – corrompe i soggetti politici al fine di garantire iniqui vantaggi ai propri clienti 12. All’interno del succitato secondo modello di “repubblica civica”, peraltro, i candidati o i soggetti politici – proprio al fine di massimizzare le possibilità di rielezione – accettano ingenti contributi alla propria campagna elettorale dalle lobbies restando, perciò, “in debito” con organizzazioni, secondo la medesima visione comune, “criminali”13. Come sostenuto dall’ex governatore dell’Alaska – nonché candidata alla vice-presidenza degli Stati Uniti – Sarah Palin, in tale modello si creerebbe una ulteriore distorsione: soltanto i soggetti più ricchi, infatti, sarebbero in grado di affrontare le spese necessarie per una campagna elettorale tale da poter assicurare – o comunque, prospettare – il successo finale; ciò comporterebbe, indi, che la politica risponderà soltanto alle istanze delle classi più ricche ed a quelle dei clienti delle lobbies, sempre pronte a contribuire alla campagna elettorale di un candidato il quale, per forza di cose, diventerà manovrabile 14.

11 Per un interessante studio di questi modelli, cfr. R. L. HASEN, Clipping Coupons for Democracy: An Egalitarian/Public Choice Defense of Campaign Finance Vouchers, in Cal. Law Rev. 1, 11, 37/1996. 12 Cfr. R. PAUL, cit. 13 Cfr. I. PASTINE e T. PASTINE, Politician Preferences, Law-Abiding Lobbyists and Caps on Political Contributions, 145, in Pub. choice, 84-85/2010; i due Autori affermano che i contributi elargiti dai lobbisti inducono il politico a mettere in atto le politiche volute dalle lobbies, essendo consapevole che, senza tali contributi, non sarebbe in grado di influenzare efficacemente le masse: «[L]obbying groups can provide positions or business opportunities to associates, family members, or friends of the politician,give charitable contributions to causes favored by or helpful to the politician by supportingpositions the politician seeks to advance, and so forth». Cfr. L. A. BEBCHUK, Z. NEEMAN, Investor Protection and Interest Group Politics, in Rev. Fin. Stud., 1089, 1098-99/2010. 14 Cfr. R. POWERS, Palin Blames Lobbyists Like Her Campaign Manager for the Failure of Fannie Mae and Freddie Mac, in Thinkprogress, 17/09/2008, su http://thinkprogress.org/2008/09/17/palinblames-davis. 5


Si tratta – com’è evidente – di una visione eccessivamente superficiale ed essenzialmente influenzata da sentimenti popolari: le modalità con cui i lobbisti influenzano Washington sono – si vedrà – infatti molto più sottili e, comunque, nei limiti della legge; secondo la casistica sono pochissimi, invero, i casi di rapporti di corruzione nel senso inteso dalla Corte Suprema – e cioè come scambio “dollari-favori” da parte dei politici eletti – sussistenti tra lobbisti e soggetti politici. E dunque, a dispetto dell’opinione pubblica, i fenomeni di corruzione che coinvolgono i lobbisti sono molto meno frequenti di quanto si possa pensare. La dottrina statunitense – presa coscienza della superficialità del modello sopra esposto – ha tentato più volte di spiegare il fenomeno del lobbismo ed, in particolar modo, i termini di accesso al “gioco politico” dei c.d. “gruppi di pressione”; tuttavia lo studio condotto della medesima ha prodotto a risultati contrastanti, accendendo un vivace dibattito all’interno degli stessi ambienti accademici15. Per comprendere a fondo il fenomeno oggetto di studio, appare dunque necessario andare oltre il paradigma della corruzione e rappresentare effettivamente le modalità attraverso le quali i lobbisti ottengono ed esercitano la propria influenza su Washington. 3. I lobbisti dispongono di una enorme varietà di strumenti attraverso i quali esercitare la propria influenza su Washington: le campagne rivolte all’opinione pubblica (c.d. “grassroots lobbying”) e le conferenze stampa; l’invio di commenti o note ad agenzie di stampa; e, soprattutto, il contatto personale con gli attori politici16. Stabilito il contatto (c.d. “contact”) i lobbisti esercitano la propria influenza politica nei confronti dei membri del Congresso fornendo, principalmente, informazioni attendibili per difendere o promuovere una particolare iniziativa legislativa; è infatti nell’interesse del lobbista e del proprio cliente formulare argomentazioni solide a sostegno della adozione di determinati provvedimenti, proprio al fine di cementare un rapporto basato sulla fiducia reciproca17. Il lobbista non interviene, dunque, utilizzando minacce o favori al fine di modificare il procedimento legislativo; al contrario, egli si avvicina ad un soggetto politico che, fin dall’inizio, supporta la posizione utile al lobbista ed al 15 Ad esempio, secondo Schattschneider non vi è dubbio che le lobbies siano in grado di influenzare/distorcere il processo legislativo; cfr. E.E. SCHATTSCHNEIDER, Politics, pressures and the tariff, 1935; più scettico Bauer, secondo il quale, ad oggi, le azioni delle lobbies non sono in grado di modificare il volere del Legislatore; cfr. R. A. BAUER, American business and public policy, 1963. 16 Per uno studio dei vari metodi con cui I lobbisti influenzano il governo federale cfr. F. R. BAUMGARTNER, Lobbying and policy change: who wins who loses, and why, 151 tbl.8.1, 2009; A. J. NOWNES, Total lobbying: what lobbyists want (and how they try to get it); sempre secondo l’Autore, più del 80,6% dei lobbisti coinvolti nello studio intrattengono «[p]ersonal contact with rank-and-file members of Congress or staff», ibidem, p. 151. 17 Sul punto, cfr. ibidem, p. 135-136; cfr. anche S. AINSWORTH, The Logic and Rationale of Lobbying Regulations, in Congress&Presidency 1/1996; cfr. M. C. STEPHENSON, H. E. JACKSON, Lobbyists as Imperfect Agents: Implications for Public Policy in a Pluralist System, in Harv. Jour. on Legis., 1/2010, p. 47. 6


suo cliente, mediante la spendita di informazioni utili ed attendibili e, quindi, di solide argomentazioni a sostegno della relativa posizione 18. Dev’essere altresì sottolineato come le lobbies (ed i propri clienti) esercitino usualmente la suddetta influenza soprattutto in relazione a materie rispetto alle quali non si sia ancora formata una solida posizione del Legislatore o che, comunque, non siano oggetto di accesi o intensi dibattiti pubblici; le lobbies intervengono piuttosto in materie considerate dall’opinione pubblica marginali, riuscendo, così ad influenzare il Legislatore senza attirare troppa attenzione 19. Nel perseguire gli interessi dei propri clienti, l’azione dei lobbisti si concentra pertanto su materie di scarsa attenzione pubblica oppure sui dettagli relativi all’implementazione di una specifica legge 20. In simili circostanze il soggetto politico eletto – proprio perché non rischia alcunché di fronte all’opinione pubblica – si dimostrerà allora disponibile ad aiutare le lobbies ed i relativi clienti che, illo tempore, avessero già favorito la sua elezione – per esempio, attraverso contributi alla campagna elettorale – e che, ora, continuano a sostenerne la carriera politica. Una volta creato un solido rapporto con i soggetti politici, le lobbies possono utilizzare diversi strumenti per consolidarlo ed ottenere, indi, nuovi vantaggi: fra i molti, si pensi alle c.d. “revolving doors”. Per spiegare il funzionamento di tale strumento, appare sufficiente riportare il seguente dato: dal 1998 al 2004, più della metà dei Senatori, concluso il proprio mandato, è entrato a far parte della schiera dei lobbisti21; le revolving doors operano, dunque, tra le lobbies e gli attori politici che già, nel corso del proprio mandato, avevano appoggiato e supportato le azioni delle lobbies22.

18 Cfr. J. M. DE FIGUEIREDO, B. S. SILVERMAN, Academic Earmarks and the Returns to Lobbying, in J.L.&ECON. 597/2006, p. 49 e ss. 19 Nella loro opera, Birnbaum e Murray descrivono in maniera estremante dettagliata come nemmeno un “esercito” di lobbisti, altamente specializzati, siano riusciti ad influenzare, sotto l’amministrazione Reagan, la riforma del sistema fiscale del 1986 voluto da entrambi i partiti. La riforma, infatti, era fortemente appoggiata dagli elettori: ciò portò i Democratici e i Repubblicani a votare, quasi unanimemente, il testo legislativo; cfr. J. H. BIRNBAUM ed A. S. MURRAY, Showdown at Gucci gulch: lawmakers, lobbyists, and the unlikely triumph of tax reform, 1987. 20 Si pensi alla recente riforma del sistema fiscale statunitense: dopo diversi tentativi di sabotaggio, i lobbisti hanno collaborato alacremente con i membri del Congresso sui dettagli e sull’implementazione della legge. In questo modo, gli effetti negativi della riforma relativi ai propri clienti sono stati ridotti al minimo (cfr. B. APPELBAUM, On Finance Bill, Lobbying Shifts to Regulations, in N.Y. Times, 27/06/2010, disponibile su http://www.nytimes.com/2010/06/27/business/27regulate.html). 21 Cfr. G. PACKER, The Empty Chamber: Just how broken is the Senate?, in New Yorker, 09/08/2010, p. 38; «[Public Citizen legislative representative Craig] Holman said that in the 1970s only about 3 percent of retiring members of Congress wound up in K Street law and lobbying firms. These days, the figure is more like 32 percent, he said, in part fueled by the dramatic increase in pay for such positions». C. LEE, Daschle moving to K street: Dole played a key role in recruiting former Senator, in Washington Post, 14/03/2005, p. 17. 22 Andrew Zajac, in un proprio articolo, analizza molto lucidamente come un ex-membro del Congresso – divenuto un lobbista – sia riuscito, nel corso dell’iter di approvazione della riforma del sistema sanitario (la c.d. “Obamacare”), a ridurre l’originaria tassa di 40 miliardi di dollari gravante sull’industria farmaceutica a “soli” 20 miliardi, conseguendo un risparmio del 50% per i propri clienti; cfr. A. ZAJAC, Congressional Staffers Turn Lobbyists: Health Care Lobby Drafts Army of Insiders to Help Fight Overhaul, in Chicago Tribune, 20/12/2009. 7


Secondo la dottrina più attenta, il “passaggio” dal Congresso alle lobbies garantisce al soggetto politico un aumento significativo del proprio stipendio 23; ovviamente ciò implica che tale strumento, seppur indirettamente, sia in grado di influenzare l’attore politico anche nel corso del suo mandato: un Senatore, ad esempio, sarà disponibile ad “accontentare” una lobby per garantirsi, in un futuro abbastanza prossimo, uno stipendio a sei o più cifre 24. Appare infine evidente che gli strumenti di pressione di cui si avvalgono i lobbisti sono molto più sottili della semplice corruzione; è un gioco di “favori e scambi” basato sulla fiducia personale, dove la prospettiva di essere assunto da una lobby e, quindi, quadruplicare il proprio stipendio, rende molti membri del Congresso – i quali, magari, hanno già ricevuto ingenti contributi nel corso della propria campagna elettorale – solidi e fedeli alleati delle lobbies e delle loro cause. 4. Le preoccupazioni relative all’influenza delle lobbies nell’attività legislativa statunitense sono, invero, piuttosto risalenti: lo Stato della Georgia, ad esempio, già nella propria Costituzione del 1877 vietava il contatto tra le lobbies e Legislatore statale; mentre il Massachusetts, già nel 1890, emanava una legge sulla disclosure, obbligando i lobbisti a iscriversi in uno specifico registro nel quale, peraltro, si teneva traccia anche degli investimenti effettuati dagli stessi 25. A livello federale, poi, la necessità di una stretta regolamentazione del fenomeno cominciò ad avvertirsi nel 1913, in specie a seguito dello scandalo che coinvolse il Crédit Mobilier: dopo diverse indagini, infatti, fu pubblicato un rapporto all’interno del quale si evidenziava l’influenza esercitata dalla National Association of Manufacturers (NAM) sul Legislatore federale26.

23«Lobbying salaries offered to Democratic staffers leaving Congress for K Street about a year ago ranged from $250.000 to $500.000», K. BOGARDU e S. BRUSH, Democratic Aides May Get Cold Shoulder from K Street After Midterms, 13/09/2010, disponibile su http://thehill.com/business-alobbying/118495-democratic-party-aides-see-value-drop-on-k-street. 24 Cfr. S. CRABTREE, PMA’s Fallout Shines Spotlight on Revolving Door of Lobbyists, in Hill, 22/06/2009; cfr. M. RAJU e J. BRESNAHAN, Sen. Richard Shelby Steers Cash to Ex-Aides, in Politico, 29/07/2010, disponibile su http://www.politico.com/news/stories/0710/40388.html. Tra i tanti, si cita nel presente articolo il caso di Billy Tauzin, il quale, una volta scaduto il proprio mandato, ha “saltato la barricata” cominciando a lavorare per le lobbies farmaceutiche con uno stipendio di partenza di 2 milioni di dollari l’anno. 25 Cfr. W. N. ESKRIDGE JR., Federal lobbying regulation: history through 1954, in AA. VV., The lobbying manual, p.7-8. 26 «NAM controlled some committee appointments, paid the chief page of the House to report conversations by House Members on the floor and in the cloakroom, and enjoyed its own office in the Capitol. Less surprising, though still disturbing, were the large sums of money the lobbyists had at their disposal to influence legislation», ibidem, p. 8. 8


Nonostante il sopracitato rapporto – nonché i ricorrenti scandali che mettevano in luce la forte presenza delle lobbies a Washington – bisognerà attendere il 1946 perché il Congresso approvasse la prima legge organica, finalizzata a regolamentare il fenomeno in questione: il Federal Regulation of Lobbying Act, approvato «almost by accident» come parte di un intervento legislativo più ampio e non rivolto specificatamente a razionalizzare la disciplina delle lobbies27. Tale legge prevedeva uno specifico obbligo di registrazione per i lobbisti, così come una serie di rapporti quadrimestrali riferiti agli investimenti compiuti dagli stessi. Tuttavia essa non prevedeva, come obbligatoria, l’indicazione del membro del Congresso al quale erano destinati i fondi delle lobbies; l’eccessiva vaghezza della legge portò inoltre la Suprema Corte, nella sentenza United States v. Harriss, ad intervenire sul testo della riforma ritenuto contrario al primo emendamento; ed invero, tale opera di riscrittura da parte della Corte comportò l’inapplicabilità di uno strumento già rivelatosi effettivamente insufficiente. E nonostante l’inefficacia della legge, come strumento di disclosure, fosse già stata rilevata nella prima metà degli anni ‘50, sarebbero dovuti passare altri quaranta anni prima che il Congresso delineasse nuovi strumenti di disclosure28. È nel 1995, nonostante la strenua resistenza del Partito repubblicano, che il Congresso avrebbe infatti approvato – con 421 voti a favore, alla Camera dei Rappresentanti, e 98 al Senato – il Lobbying Disclosure Act (LDA)29.

27 Cfr. ibidem, p. 9. 28 Cfr. T. M. SUSMAN e W. V. LUNEBURG, History of lobbying disclosure reform proposal since 1995, in AA. VV., The lobbying manual, cit., p. 24. 29 Cfr. A. CLYMER, G.O.P. filibusters deal as setback to lobbying bill, in N.Y. Times, 07/10/1994, p. 1; cfr. anche K. Q. SEELYE, All-out strategy hobbled lobby bill, in N.Y. Times, 07/10/1994, p. 22.

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La legge in questione avrebbe migliora significativamente lo strumento di disclosure approvato nel 1946, introducendo – in primo luogo – una definizione di “lobbista”, pur se esclusivamente legata ad un criterio quantitativo: secondo il LDA, infatti, è da classificarsi lobbista «who is employed or retained by a client for financial or other compensation for services that include more than one lobbying contact, other than an individual whose lobbying activities constitute less than 20 percent of the time engaged in the services provided by such individual to that client over a 3-month period»30. In secondo luogo, gli obblighi di registrazione sono estesi anche ai soggetti facenti parte dello staff di un membro del Congresso e sono puntualizzate, altresì, le informazioni da includere all’atto di registrazione creando – in questo modo – un sistema molto più completo ed articolato rispetto a quello introdotto dal Federal Regulation of Lobbying Act. È così, dunque, che il Legislatore federale forniva una definizione più puntuale di “lobbyist client”, “lobbying contact”, “lobbying activities [and] communication”31. E tuttavia – nonostante la maggiore precisione del Legislatore nella definizione di alcuni elementi chiave del fenomeno del lobbismo – anche il meccanismo introdotto nel 1995 avrebbe rivelato, ben presto, la propria intrinseca debolezza: secondo una parte della dottrina, infatti, il sistema di informazione previsto nella legge era eccessivamente vago e, soprattutto, non accessibile ai cittadini 32; ed inoltre, ancora una volta, la legge non prevedeva tra gli obblighi d’informazione l’esatta indicazione, ad esempio, del membro del Congresso contattato dal lobbista 33. È dopo lo scandalo Abramoff del 2007 (cfr. supra, §1) e la relativa condanna del famoso lobbista con l’accusa di fraud, tax evasion, e conspiracy to bribe public officials che l’intervento del Legislatore – finalizzato a colmare le lacune del LDA – appariva indi come una necessità inderogabile; ed è appunto in tale sol co che si colloca, nello stesso anno, l’approvazione del Honest Leadership and Open Government Act (HLOGA). Tale legge prevedeva obblighi d’informazione più frequenti rendendo, peraltro, i relativi report facilmente accessibili ai cittadini attraverso la consultazione di un database on-line34. Inoltre, era esteso il periodo di attesa necessario per un Senatore al fine per essere assunto da una lobby da uno a due anni nonché 30 La soglia del 20% è stata criticata come arbitraria e difficile da misurare e pertanto agevolmente aggirabile, ma essa rimane ad oggi il criterio cui fare riferimento; cfr. W. V. LUNEBURG, cit., p. 91-111. 31 Cfr. W. V. LUNEBURG, e A. L. SPITZER, Registration, Quarterly Reporting, and Related Requirements, in AA.VV., The lobbying manual, cit., p. 54-77. 32 «[T]he disclosures required by the Act are minimal and are made in a format that is neither easily accessible nor decipherable by average citizens»; cfr. A. S. KRISHNAKUMAR, Towards a Madisonian, Interest-Group-Based, Approach to Lobbying Regulation, in Alabama Law Review, 58/2007, p. 513-520. 33 «Llobbyists need only state generally that they contacted the House of Representatives or the Senate or a particular federal agency, such as the Department of Energy at large, rather than specify individual legislators, committees, or federal employees with whom they corresponded»; ibidem, p. 521. 34 Secondo la dottrina prevalente, la legge del 2007 non fece altro che rendere più stringenti determinati obblighi già previsti dall’LDA; in particolar modo, l’HLOGA «expanded disclosure of lobbying coalitions; a new reporting system for lobbyist contributions and disbursements to or on behalf of legislative and executive branch officials and candidates for federal office; improved public access to information disclosed under the LDA and the Foreign Agents Registration Act»; per ulteriori informazioni relative al Foreign Agents Registration Act, cfr. R. L. MELTZER, Foreign Agents Registration Act, in AA. VV., The lobbying manual, cit., p. 307.

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sancita l’impossibilità per i membri del Congresso e per l’entourage dei soggetti politici di ricevere regalie da parte delle lobbies35. Anche la legislazione del 2007 si sarebbe tuttavia rivelata – nonostante le novità introdotte – sostanzialmente inadatta a razionalizzare ed arginare il fenomeno corruttivo: sebbene fosse stato il punto debole del sistema già delineato nel 1995, non fu introdotto alcun obbligo di specificazione dell’identità del soggetto (membro del Congresso, o parte dell’entourage di un deputato o ufficiale di un’agenzia federale) contattato dalle lobbies e fu garantito, invece, l’anonimato ai soggetti politici che curano gli interessi dei clienti delle lobbies, collaborando con quest’ultime36. Nel corso del 2009 il neo-eletto Presidente, Barack Obama, decretava una serie di novità nell’ambito della regolamentazione del fenomeno del lobbismo, ed in particolare: che i lobbisti non potessero comunicare – nemmeno oralmente – con l’Amministrazione, relativamente al pacchetto di riforme economiche programmate dal Governo; che nessun lobbista potesse ricevere incarichi presidenziali; che nessun membro dello staff dell’Amministrazione Obama, nel corso del proprio mandato, potesse lavorare per una lobby; che, infine, nessun membro delle lobbies potesse far parte dei comitati consultivi federali 37. Tali riforme hanno rivitalizzato il dibattito dottrinale sul fenomeno del lobbying: da una parte, le novità legislative introdotte nel 2009 sono state fortemente criticate, specie con riferimento all’impossibilità per le lobbies di comunicare con l’Amministrazione o emettere comunicati stampa, in quanto s’è rilevato in tale divieto una severa violazione del primo emendamento (posizione che sarà ripresa dalla Corte Suprema nella sentenza Citizens United v. FEC); altra parte della dottrina si è schierata, invece, in linea con il Presidente e le sue iniziative, pur rilevando come il lobbismo fosse talmente radicato a Washington che, diffi cilmente, una sola legge avrebbe potuto modificare nel giro di pochi anni la situazione. In particolare, Eisen ha affermato che la nuova normative «[is] not about the few corrupt lobbyists or specific abuses by the profession, but rather […] the system as a whole. For too long, lobbyists and those who can afford their services have held disproportionate influence over national policy making»; l’Autore ha proseguito, sottolineando che la riforma stessa «level the playing field», garantendo che non siano soltanto i più ricchi a poter proporre le proprie istanze a Washington, ma «all Americans and not just those with access to money or power»38. 35 Tale misura portò l’allora senatore del Mississippi, Trent Lott, a rassegnare le dimissioni in modo da poter collaborare immediatamente con le lobbies senza dover attendere il periodo di 2 anni, come previsto dalla riforma del 2007. Cfr. A. NOSSITER, D. M. HERSZENHORN, Mississippi’s Lott to Leave Senate Seat Held Since ’88, in NY Times, 27/11/2007, p. 20. 36 Per una approfondita valutazione circa le “debolezze” dell’HLOGA, cfr. W. V. LUNEBURG, The evolution of federal lobbying regulation: where we are now and where we should be going, in McGeorge Law Review, 41/2009, p. 85. 37 Cfr. W. N. ESKRIDGE, JR, cit., p. 45. Per una panoramica sulle iniziative del Presidente Obama in merito a tale divieto, cfr. J. A. THURBER, Changing the way Washington works? Assessing President Obama’s battle with lobbyists, in Presidential Stud., 358/2011, p. 41, nonché R. W. PAINTER, President Obama’s progress in government ethics, in Cost. Comment, 195/2010, p. 200. 38 N. EISEN, A Washington that is more reflective of all America, in White House blog, 09/11/2009. 38

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In definitiva, il pacchetto di riforme volute dal Presidente Obama ha introdotto significativi limiti alle attività delle lobbies, in specie con riferimento alla possibilità per le stesse di avere contatti o ruoli di rilievo all’interno dell’Amministrazione. E tuttavia, proprio i limiti imposti alla possibilità di comunicare apertamente le proprie posizioni, fa sì che la riforma presti il fianco a facili censure di natura costituzionale: la severità di tale limite – e dunque, il sacrificio delle libertà previste dal primo emendamento – potrebbe risultare infatti sproporzionato rispetto al fine e, nell’ottica della Corte Suprema, pertanto incostituzionale. Inoltre la legislazione del 2009 non introduce significative modifiche nell’ambito degli obblighi d’informazione e, soprattutto, non razionalizza la facoltà dei lobbisti di supportare con ingenti finanziamenti o con raccolte di fondi la campa gna elettorale dei candidati al Congresso39. 5. Tra i possibili rimedi ai fenomeni distorsivi derivanti dal lobbismo, qualche breve cenno lo merita l’istituto del recall. Mediante tale strumento gli elettori possono revocare l’eletto prima della naturale scadenza del suo mandato, “sanzionando” il rappresentate ritenuto non più meritevole di fiducia; e ciò anche laddove quest’ultimo, nell’appoggiare la posizione di una lobby, si sia macchiato di comportamenti di particolare gravità dal punto di vista etico40. Il meccanismo in questione trova la propria disciplina originaria nei primi anni del secolo scorso: lo strumento di revoca, infatti, era stato adottato in alcune City Charters e, successivamente, recepito all’interno di diverse costituzioni statali41. La disciplina generale prevede che una parte significativa del corpo elettorale possa sottoscrivere una apposita petition of recall, in cui siano esposte le ragio39 Sulla necessità di introdurre un freno ai contributi elargiti dalle lobbies ai candidati al Congresso, cfr. Task force on fed. lobbying laws, ABA, lobbying law in the spotlight: challenges and proposed improvements, 2011. Il report, inoltre, contiene una definizione specifica di attività di raccolta fondi promossa dalle lobbies per sostenere un determinato candidate: «[C]overed “fundraising” activity would include hosting or organizing fundraising events, serving on a campaign fundraising committee, sending communications (phone, print, email) soliciting contributions for the Member’s campaign, or participating in the ‘bundling’ of campaign contributions for the Member’s campaign». 40 Cfr. W. ANDERSON ed E.W. WEIDNER, American city government, in Harry Holt and Co. Rev., 1950, p. 324, secondo cui «the recall may be defined as the legal power of a given percentage of the voters to require the holding of an election upon the question of removing some public official from office before the end of his term». Cfr. anche J. W. GARNER, La révocation des agents publics par le peuple aux Etats-Unis , in Revue du droit public et de la science politique, 37/1920, p. 507 e ss. 41 Il recall fu previsto dapprima nella City Charter di Los Angeles (1903) e subito dopo in quella di Seattle (1906). Nel 1908 il recall fu disciplinato dalla Costituzione dell’Oregon; cfr. J.M. BARNETT, The Operation of Initiative, Referendum and Recall in Oregon, New York, 1915; G.. W. GUTHRIE, The initiative, referendum and recall, in Annals, 1912, p. 24. Si vedano, rispettivamente le Costituzioni dei seguenti Stati; California (1911: art II, sez. 13-19, ribadito in occasione della revisione del 1974); Colorado (art. 21); Washington (art. 1, sez. 33 che esclude i giudici); Idaho (statuto del 1995, titolo 34, cap. XVII); Nevada (art. 2, sez. 9); North Dakota (1920: art. III, sez. 10), Wisconsin (1926, confermato nel 1981: art. XIII, sez. 12); New Jersey (1947: art. 1.2b); Alaska (1960); Georgia (1979); Minnesota (1974, art. VIII, sez. 6 approvato il 5 settembre 1996). In realtà, l’istituto in questione affonda le sue radici alla fine del XVIII secolo: il recall, infatti, fu previsto per la prima volta all’interno della VI disposizione della Costituzione della Pennsylvania del 1776.

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ni dell’iniziativa42; qualora il funzionario decida di non dimettersi, raccolte le necessarie firme, si procederà ad una votazione ove il corpo elettorale può non solo revocare il mandato ma, al contempo, indicare il candidato che sostituirà il soggetto eventualmente revocato. Il recall sostanzialmente appare, quindi, come un meccanismo di check – ovvero una forma di impeachment by the people – che trova la propria ratio nella logica democratica della continuità tra elettori ed eletti, la quale dovrebbe sussistere non solo nel momento “genetico”; ma anche nell’effettivo svolgimento dell’incarico da parte del soggetto eletto 43. In tal senso, pertanto, l’istituto de quo pare poter rappresentare meccanismo di controllo sul corretto esercizio delle funzioni da parte dei funzionari eletti; il suo non frequente uso, tuttavia, lo rende soprattutto uno strumento ad effetto dissuasivo44. Dal punto di vista degli elettori – e secondo l’argomento oggetto della presente trattazione – il recall si configura, indi, come strumento mediante il quale il corpo elettorale possa far valere i propri interessi – quand’anche di natura particolare – all’interno di un sistema che comunque li tollera, prevedendo una disciplina molto elastica e priva di pregiudizi nei confronti delle lobbies45. 6. Il paragrafo conclusivo di questa breve trattazione vuole soffermarsi, infine, su una controversa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. La premessa è la seguente: nel 2007, un ente non-profit, la Citizens United, intendeva trasmettere alla vigilia delle primarie il cortometraggio «Hillary: the movie», realizzato grazie a ingenti finanziamenti provenienti da enti for-profit. La FEC (Federal Election Commission) decideva di bloccare tale messa in onda, poiché la pellicola era stata realizzata in asserita violazione del divieto, per le imprese, di finanziare direttamente le campagne elettorali 46; divieto che – introdotto all’interno del pacchetto di riforme operate tra il 1971 e il 1973, modificative del Federal Election Campaign Act ed istitutive della FEC – aveva peral42 Nella maggior parte degli Stati, la percentuale richiesta è quella del 10%; tuttavia, il New Jersey, il Colorado o il Minnesota prevedono una percentuale che oscilla dal 25 al 40%. Il procedimento del recall può essere illustrato nelle seguenti fasi: deposito presso un ufficio statale della petition che individua il funzionario da revocare e delinea i motivi della proposta di revoca; raccolta delle firme fino al raggiungimento del quorum (per le percentuali richieste dalle varie costituzioni statali); se è raggiunto il numero di firme richiesto vi sono due alternative per il funzionario proposed to be recalled: le dimissioni, la proposizione di una memoria difensiva, pubblicata nel Bollettino Ufficiale dello Stato o allegata alla richiesta di recall, con il quale il funzionario stesso espone le proprie difese restando in carica fino al voto per il recall; in quest’ultimo caso, si procede al voto: nella medesima scheda, gli elettori sono chiamati a confermare o meno il mandato del funzionario e, al contempo, a scegliere chi tra i diversi candidati eleggere al posto dell’eventuale revocato. Per un efficace sintesi del meccanismo di recall, cfr. J. W. GARNER, cit., p. 509-510. 43 Cfr. J.D. BARNETT, The operation of the recall in Oregon, cit., p. 52. 44 Da quando è stato introdotto, infatti, lo strumento del recall ha avuto “successo” solo due volte su trentadue: nel 1921, in Nord Dakota, contro il repubblicano Lynn J. Frazer, e nel 2003, in California, nei confronti del governatore democratico Davis. 45 Cfr. S. CURRERI, Democrazia e rappresentanza politica. Dal divieto di mandato al mandato di partito, Firenze, 2004, p. 165. 46 La disciplina principale che regola i finanziamenti nel corso della campagna elettorale, è contenuta all’interno del Federal Election Campaign Act (in precedenza, il Tillman Act del 1907, i Federal Corrupt Practices Acts del 1910 e 1925, e il Taft-Hartley Act del 1947 avevano avuto scarsa applicazione). La legge subì diverse modifiche a seguito dello scandalo Watergate.

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tro già superato il vaglio di costituzionalità in occasione della sentenza Buckley v. Valeo la quale sarebbe diventata, in materia, leading-case47. L’ente impugnava la decisione della FEC innanzi alla Corte Suprema, poiché riteneva che il divieto di trasmissione del cortometraggio violasse la libertà di espressione garantita dal primo emendamento. La decisione della Corte sarebbe arrivata nel 2010: l’organo giudicante avrebbe accolto la tesi della Citizens United48. Tuttavia, all’interno del proprio iter logico-giuridico, la Corte va ben oltre il petitum: in una vera e propria opera di overruling rispetto agli orientamenti precedentemente espressi, la Corte Suprema avrebbe affermato che le libertà sancite dal primo emendamento debbano essere riconosciute non soltanto all’individuo ma anche ai gruppi, intesi come corporations o unions49. In altri termini la Corte – attraverso un’interpretazione molto estensiva del primo emendamento, ed in particolare del termine “people” – equiparava le corporations alle persone fisiche: in questo modo la libertà di parola, sancita dal suddetto emendamento, deve essere riconosciuta sempre e comunque anche alle corporations. Tale orientamento porta indi alla decadenza delle norme che proibivano alle organizzazioni for-profit e non-profit di finanziare le campagne elettorali. In conclusione, il giudizio di bilanciamento tra il «[to] level playing field» e la libertà di parola sancita dal primo emendamento operato nella sentenza Citizens United v. FEC, porta la Corte Suprema ad affermare che la compressione di tale libertà non può essere giustificata attraverso esigenze espresse, tra l’altro, dall’Amministrazione Obama 50. E tale orientamento sembra precludere, 47 Per dovere di completezza, è necessario sottolineare che la sentenza in questione sancì, comunque, l’illegittimità costituzionale del divieto delle c.d. indipendent expenditures: la Corte Suprema ritenne legittimi i contributi destinati alla campagna elettorale di un candidato erogati da individui o gruppi (tipica mente organizzati in PACs, Political Action Committees) non legati direttamente ad un candidato. Tale sintetico richiamo appare interessante: infatti, se fosse stato istituito un apposito PAC, la vicenda giudiziaria oggetto della sentenza Citizens United v. FEC non avrebbe avuto luogo in quanto l’istituzione di tali gruppi consente di aggirare agevolmente i divieti sanciti dalla legislazione riferita ai contributi in corso di campagna elettorale. 48 Da registrare la spaccatura all’interno della Corte stessa tra i conservatori (Scalia, Alito, Thomas e Roberts) i quali richiamavano la sentenza Buckley v. Valeo, e i liberal (Stevens, Breyer, Ginzburg e Sotomayor) i quali propendevano per la tesi della Citizens United v. FEC. Il risultato fu una sentenza molto travagliata che vide lo swing vote decisivo di Kennedy. 49 Sempre nel 2010, è interessante segnalare una sentenza della Appellate Division della Superior Court del New Jersey relativa al finanziamento da parte delle unions, ovvero la Communications Workers for America v. Christie. Il neo-eletto governatore del New Jersey, Christopher Christie, esponente del partito Repubblicano, attraverso un executve order, limitava i finanziamenti elettorali effettuati da individui o imprese che avessero stipulato contratti con il governo di quello Stato. La Corte ha ritenuto illegittimo tale atto: infatti, secondo i giudici, l’introduzione di tale divieto doveva essere frutto di un’opera sostanzialmente legislativa, riservata al Congresso del New Jersey e preclusa al governatore; è comunque interessante che il governatore Christie, abbia cercato di giustificare la propria misura con la necessità di garantire uguali opportunità a tutti i candidati, riprendendo, sostanzialmente, le posizioni espresse da Obama ed Eisen. 50 Si ricorda che le leggi che limitano i fundamental rights sono sottoposte al giudizio più severo della Corte Suprema, ovvero il c.d. “strict scrutiny”: ciò significa che, quando una legge incide su un diritto fondamentale ed è quindi soggetta a strict scrutiny, per non essere illegittima, deve fondarsi sulla necessità di proteggere altri diritti fondamentali. Inoltre, la disciplina adottata deve limitarsi allo stretto indispensabile a tutelare l’altro o gli altri interessi in gioco. 14


vieppiù, qualsiasi intervento legislativo in materia che vada oltre il semplice disclosure: il primo emendamento rappresenta dunque, secondo il giudizio della Corte, una barriera invalicabile che garantisce alla lobbies di proseguire la propria attività nell’agone politico precludendo, almeno in apparenza, ulteriori interventi legislativi, ivi compresa una riforma anti-revolving doors la quale, in linea teorica, cadrebbe immediatamente sotto la scure della Corte Suprema alla stregua dell’orientamento espresso nella succitata sentenza 51. ** Professore associato di diritto costituzionale, Università degli studi di Enna “Kore”; Dottorando di ricerca in “Tutela giuridica dei beni archeologici e delle tradizioni culturali nell’area mediterranea”, Università degli studi di Enna “Kore”.

51 Sul punto, si ricorda il provocatorio testo di legge presentato il 28 aprile 2010 dal Senatore Michael Bennet: il Close the Revolving Door Act of 2010 prevedeva il divieto assoluto per gli ex-membri del Congresso di esercitare, una volta scaduto il mandato, la professione del lobbista. La proposta di legge, immediatamente definita provocatoria, destò fin da subito perplessità a livello costituzionale. Appare indubbio, a parere di chi scrive, che a seguito della Sentenza Citizens United v. FEC, una simile proposta di legge, qualora venisse approvata – e le possibilità sono davvero scarse – non passerebbe il vaglio delle Corti.

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Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini: un dialogo decennale fra CEDU e Corte Costituzionale italiana * di Silvia Favalli ** (9 dicembre 2013)

SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. L'istituto del parto anonimo: normative europee a confronto – 3. L'istituto del parto anonimo: la disciplina italiana – 4. Il precedente europeo: Odiévre c. Francia – 5. La Corte Costituzionale: sentenza 425/2005 – 6. Godelli c. Italia: la condanna della Cedu - 7. La Corte Costituzionale italiana: sentenza 278/2013 – 8. Considerazioni conclusive

1. Introduzione L’Italia, assieme alla Francia e al Lussemburgo, è uno dei pochi Paesi europei che mantiene l’istituto del parto anonimo, strumento volto a garantire alla donna di poter partorire non clandestinamente, in condizioni sanitarie adeguate, senza dover per ciò subire la costituzione di diritto della filiazione. Al diritto all'anonimato della madre, tuttavia, si contrappone il diritto a conoscere le proprie origini del figlio, che rischia comprovate ripercussioni psicologiche dalla totale assenza di informazioni al riguardo. In materia, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata nel 2003 con la sentenza Odièvre c. Francia1, fornendo un’interpretazione molto chiara delle caratteristiche che la normativa sul parto anonimo dovrebbe avere per essere conforme all’art. 8 della Carta. Il caso ha offerto spunti di riflessione interessanti al nostro legislatore: la legge francese, che ha passato il vaglio della Cedu, presenta forti similitudini con la nostra normativa, tanto da far auspicare una modifica ispirata al modello d'oltralpe. Non sono invero mancate proposte atte a inserire dei correttivi al nostro ordinamento su quel modello, ma fino ad ora senza esito2. La Corte Costituzionale italiana, adita sulla disciplina del parto anonimo nel 2005 3, ha mostrato tuttavia di non aver recepito l’orientamento della Corte Europea: questo atteggiamento, unito all’inattività del legislatore, ha condotto nel 2012 alla condanna dell’Italia nella sentenza Godelli c. Italia4. Ad un anno di distanza, tenendo conto stavolta della giurisprudenza di Strasburgo, la Consulta ha modificato la sua posizione con una nuova sentenza additiva di principio 5: * Scritto sottoposto a referee. 1 Odièvre c. Francia, n. 42326/98, del 13 febbraio 2002, in www.echr.coe.int/echr 2 Dal 2008 è all’esame del Parlamento italiano un progetto di legge in materia di accesso alle origini personali. In particolare, il riferimento è alle proposte di legge C-1899 del 12 novembre 2008 e C-3030 del 10.12.2009, che prevedono, al raggiungimento del venticinquesimo anno di età, la possibilità di rivolgersi al Tribunale dei minorenni, che ha il compito di chiedere il consenso al superamento del segreto. Le generalità del genitore vengono inoltre comunicate anche in caso di decesso della madre o se il padre è deceduto o non identificabile. Si segnalano anche le proposte di legge C-2919 del 11.11.2009 e S-1898 del 18.11.2009, che prevedono il diritto a conoscere l'identità dei genitori quando questi siano morti, irreperibili oppure quando, interpellati, abbiano dato il proprio consenso, nonché, in ogni caso, al raggiungimento del 40 anno di età. Nessuna di tali proposte ad oggi ha avuto esito. 3 Corte Costituzionale, sentenza 425 del 16 novembre 2005, in www.cortecostituzionale.it 4 Godelli c. Italia, n. 33783/09 del 25 settembre 2012, in www.echr.coe.int/echr 5 Corte Costituzionale, sentenza 278 del 18 novembre 2013, in www.cortecostituzionale.it

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dopo un dialogo decennale, durato dal 2003 al 2013, finalmente l’Italia ha recepito l’orientamento europeo. Nondimeno, si pone l'attenzione un particolare di tutt’altro che scarsa rilevanza: la sentenza della Corte Costituzionale rimanda al legislatore per la modifica normativa in analisi. Riuscirà l’Italia a uniformarsi effettivamente ai dettami di Strasburgo? 2. L'istituto del parto anonimo: normative europee a confronto Le normative europee in materia, se messe a confronto 6, offrono un quadro non omogeneo. La ragione di tale varietà può essere rintracciata nella teoria 7 secondo cui il panorama giuridico europeo si distingue in due modelli di riferimento, caratterizzati uno dall'obbligatorietà (modello tedesco) e l'altro dalla volontarietà (modello francese): il primo ritiene che l'attribuzione della maternità sia un effetto giuridico che scaturisce automaticamente e inderogabilmente dal dato fattuale del parto, senza che su di esso possa in alcun modo influire la volontà della gestante, mentre il secondo prevede che lo status di madre non possa mai instaurarsi contro la volontà della donna. Ovviamente, il parto anonimo non è concepibile nel sistema obbligatorio, che tende a creare un vincolo giuridico necessario e responsabilizzante fra madre e figlio 8. Dall'analisi della Corte, emerge che in Europa il parto anonimo appare minoritario, senza essere per questo eccezionale: gli unici Paesi in cui la legge prevede l'impossibilità di accesso alle informazioni dei genitori biologici sono l'Italia, la Francia e il Lussemburgo. Si hanno normative nelle quali il diritto a conoscere la propria origine è parzialmente garantito a partire da una certa età (Germania, Croazia, Ungheria, Lettonia, Portogallo). Altri Stati, invece, concedono il diritto ad un'ampia informazione, subordinato, tuttavia, a valutazioni e autorizzazioni da parte dei giudici al fine di apprezzare i differenti interessi in gioco (Bulgaria, Estonia, Lituania, Svizzera, Spagna, Regno Unito e Irlanda).

6 Tale confronto viene operato, ad esempio, nella sentenza Godelli c. Italia cit., par. 28-32 7 Vedi BOLONDI E., Il diritto della partoriente all'anonimato: l'ordinamento italiano nel contesto europeo, Nuova Giu. Civ. Comm., 2009, vol. II, pp. 291-295 e CAMPANATO G., Legislazione italiana ed europea a confronto. Nati indesiderati. Riconoscimento del nato e parto anonimo, p. 3, in http://www.cameraminorilepadova.it/wp-content/uploads/2009/01/dottssa-gcampanato-riconoscimento-del-natoe-parto-anonimo.pdf 8 In realtà, proprio la disciplina tedesca ha subito di recente un'evoluzione in senso volontaristico: fino ad oggi infatti non era possibile per la madre rimanere anonima, ma con una legge che, se approvata dal Parlamento, entrerà in vigore nel maggio 2014, al momento del parto la madre potrà usare un nome falso, mentre i veri dati saranno conservati presso un'agenzia apposita in busta sigillata, a cui il figlio potrà accedere dall'età di 16 anni; verrà reso di fatto possibile partorire in anonimato, ma con caducazione della riservatezza dopo un numero esiguo di anni. Invece, il sistema svedese presenta un'ulteriore peculiarità nel senso della obbligatorietà della filiazione: al nato da donna non coniugata è assicurato l'instaurarsi del vincolo di filiazione non solo con la madre, ma anche con il padre biologico. A tal fine è previsto un procedimento che conduce all'individuazione ed alla costituzione, anche coattiva, dello status filiationis. Al contrario, in Spagna il Tribunal Supremo nel 1999 ha ritenuto contrarie alla Costituzione, quindi da disapplicare, le norme relative al parto anonimo; i regolamenti ministeriali emanati in attuazione di questa sentenza prevedono ora l'inserimento nella dichiarazione di nascita non solo del nome della madre, ma anche delle sue impronte digitali. Al Regno Unito va riconosciuta la peculiarità di aver introdotto per primo un istituto centrale, l'Adoption Contact Register, al fine di consentire il contatto fra adottato e genitori naturali, e in ogni caso ha ammesso il maggiorenne a tutte le informazioni sulla propria storia preadottiva. Vedi BOLONDI E., Il diritto della partoriente all'anonimato cit., pp. 291 e STEFANELLI S., Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini, Studi in onore di Antonio Palazzo, 2009

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3. L'istituto del parto anonimo: la normativa italiana Tradizionalmente, l’Italia ha sempre guardato con sfavore al diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini: tale atteggiamento ha fatto in modo che anche la novella del 20019 sulla l. 184/1983 mantenesse intonsa la disciplina sull’anonimato della madre, nonostante il suo carattere profondamente innovativo in materia di diritto all’informazione dell’adottato. Si pensi ad esempio che solo a seguito di tale modifica normativa è stato sancito l’obbligo per i genitori adottivi di informare il figlio riguardo le circostanze della sua nascita, nonché la possibilità per l’adottato di conoscere le sue origini biologiche in alcune particolari ipotesi10. L’ampliamento operato dalla legge del 2001 invero è stato criticato 11 con veemenza, perché, si ritiene, costituirebbe una preoccupante lesione dell’istituto dell’adozione e della dignità degli stessi adottanti. Con la disciplina legislativa dei modi di accesso degli adottati maggiorenni all’identità dei loro procreatori sarebbe stato addirittura mortificato il ruolo dei genitori adottivi, trattati come “allevatori”. Parte della dottrina12 sostiene la necessità di distinguere le ipotesi in cui le informazioni concernenti i genitori biologici siano richieste al fine di soddisfare un desiderio di conoscenza per la ricostruzione dell'identità personale dell'adottato, dai casi in cui si abbia invece necessità di visionare i dati sanitari degli stessi per questioni attinenti la sua salute13: solo in quest'ultima situazione il testo della legge dovrebbe essere modificato per 9 L’art. 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184 è stato sostituito dall’art. 24 della l. 28 maggio 2001, n. 149. Nella formula originaria della legge sull’adozione il segreto sull’adozione era intangibile sia nei rapporti interni sia in quelli esterni. In particolare, il radicale cambiamento normativo è dovuto all’emersione nel panorama giuridico del diritto all’informazione quale garanzia sostanziale all’equilibrio psicologico della persona. Tuttavia, sembra condivisibile l’orientamento di chi sostiene che le concrete modalità di accesso all’informazione della legge 184 appaiono costrette da vincoli formali eccessivi. Cfr. CURRO’ G., Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in juscivile.it, 2013, 4. 10 In primo luogo, l’accesso ai dati summenzionati è consentito in linea generale e senza limitazioni all’adottato che abbia compiuto venticinque anni (art. 28 comma 8). Invece, per l’adottato maggiorenne infraventicinquenne è ammesso “se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica”, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni (art. 28 comma 5), mentre non è necessario adire il Tribunale quando i genitori adottivi siano deceduti o divenuti irreperibili; infine, per il minorenne è consentito ai genitori adottivi “se sussistono gravi e comprovati motivi, su autorizzazione del Tribunale”, oppure direttamente al responsabile della struttura ospedaliera, “ove ricorrano i presupposti della necessità e dell’urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore” (art. 28 comma 4). Rimane assolutamente preclusa la conoscenza di tali informazioni all’adottato la cui madre abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (art. 28 comma 7, così come sostituito dall’art. 177, comma 2, d. lgs. 20.06.2003, n. 196). L’unico “temperamento” della norma consiste nel disposto dell’art. 93 comma 2, d. lgs. 196 /2003, secondo cui il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, possono essere rilasciati in copia integrale decorsi cento anni dalla formazione del documento. Prima del decorso dei cento anni, possono essere rilasciati a chi vi abbia interesse in conformità alla legge, osservando le opportune cautele per evitare che la madre sia identificabile. 11 ERAMO F., Possibilità per l’adottato che ha compiuto i 25 anni di conoscere i genitori naturali, in Manuale pratico della nuova adozione, CEDAM, 2002, pp.179-198 12 BOLONDI E., Il diritto della partoriente all'anonimato cit. pp. 288-289; per ulteriori riferimenti vedi PARIS D., Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil Constitutionel e della Corte europea dei diritti dell’uomo (con alcuni spunti per una rilettura dell’inquadramento costituzionale dell’interruzione volontaria della gravidanza), scritto sottoposto a referee. 13 Si segnalano alcune decisioni significative in materia di anonimato e conoscenza dei dati sanitari degli ascendenti: Tribunale di Napoli, or. 9 ottobre 1998, su cui M. R. MARELLA, Il diritto dell'adottato a conoscere

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garantire la visione dei dati sanitari dei genitori biologici, grazie all'intermediazione del personale sanitario. Nel novembre 2012, poco dopo la sentenza Godelli, è stato approvato dalla Camera un emendamento alla legge 40 del 2004 14, volto a rendere possibile l’anonimato della madre anche a seguito di parto dovuto a procreazione medicalmente assistita (pma). L’intento era quello di parificare la situazione di colei che ricorre alla pma rispetto a colei che concepisce senza tali mezzi; certo, sembra difficile immaginare che una donna che ricorre alla fecondazione in vitro poi decida di abbandonare il figlio, eppure anche tale ipotesi è stata prospettata e fortemente sostenuta da parte della dottrina 15. L’emendamento è caduto nel nulla e nessuna modifica è stata fatta alla legge 40, anche se sembra significativo sottolineare che tale proposta è stata avanzata: dimostra infatti come in Italia esistano forti spinte nel senso di ampliare la disciplina dell’anonimato del parto, in controtendenza rispetto all’Europa. 4. Il precedente europeo: Odiévre c. Francia La Corte di Strasburgo aveva avuto modo di pronunciarsi in materia di parto anonimo già nel 2003 nella sentenza Odiévre c. Francia: la ricorrente, abbandonata da madre avvalsasi del diritto all'anonimato, in età adulta aveva cercato di ricostruire le sue origini, ma era venuta a conoscenza solo di informazioni parziali, fra cui la presenza di fratelli e sorelle. Impossibilitata a conoscerne l'identità, la donna si rivolgeva alla Corte europea, che giudicava ragionevole il sistema francese di bilanciamento tra il diritto dell'adottato alla conoscenza delle proprie origini e quello della madre all'anonimato del parto. La legge francese16 infatti, basata sul principio del consenso, istituisce un ente (il CNAOP) preposto, a richiesta dell’adottato, a mettersi in contatto con la madre naturale rimasta anonima, per ricercarne il consenso a rivelare la sua identità al figlio abbandonato; solo nel caso la donna lo accetti, le sue generalità verranno rivelate, in caso contrario rimarranno sconosciute. Nel caso di specie, il collegio osserva che la ricorrente ha comunque ottenuto alcune informazioni non identificanti sulla propria famiglia biologica, che le hanno permesso di ricostruire le radici della propria storia, nel rispetto degli interessi dei terzi. Tale pronuncia esprime chiaramente la posizione di Strasburgo in materia di parto anonimo e poteva, anzi doveva mettere in guardia l’Italia, evitandole la condanna della Corte europea; si aggiunga che la disciplina francese offre un ottimo spunto per il legislatore italiano, in quanto assolutamente compatibile con il nostro sistema. le proprie origini. Contenuti e prospettive, in Giur. it., 2001; Corte di Appello di Palermo, sez. min., decr., 11 dicembre 1992, in Dir. Famiglia persone, 1993, p. 587; Tribunale per i minorenni di Firenze, decr. 18 dicembre 2007, su cui ANNAPAOLA SPECCHIO, Il diritto dell’adottato di accesso alle informazioni concernenti la propria origine: un’interpretazione evolutiva da parte del Tribunale minorile fiorentino, Minori Giustizia, 2008, n. 2; Tribunale per i minorenni di Catanzaro, sentenza 116/12 in data 27/7-27/8/2012. 14 ZAGREBELSKY V., L’anonimato e il diritto dei neonati, in La Stampa, 12/11/2012. In rete, si possono trovare diversi commenti alla notizia, in particolare sono stati avanzati timori riguardo alla possibilità che tale emendamento sia un tentativo di inserire gradualmente la fecondazione eterologa in Italia: l’unica ipotesi per cui, razionalmente, una donna che concepisce un figlio in vitro lo vorrebbe abbandonare mantenendo l’anonimato, si argomenta, è la surrogazione di maternità. In tal modo, si permetterebbe alla madre surrogata di mantenere l’anonimato e ai genitori “committenti” di adottare il bambino aggirando almeno in parte la normativa italiana 15 Fra tutti, vedi BOLONDI E., Il diritto della partoriente all'anonimato: l'ordinamento italiano nel contesto europeo, Nuova Giu. Civ. Comm., 2009, vol. II, pp. 290-291 16 La disciplina dell'Accouchement soous X deriva dalle seguenti disposizioni: art. 57 code civil francais e art. L222-6 code de l'action sociale et de familles. La normativa è stata parzialmente modificata con l. n. 93 del 22 gennaio 2003.

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5. La Corte Costituzionale italiana: sentenza 425 del 2005 In materia di parto anonimo si è pronunciata successivamente la Corte Costituzionale italiana, che ha dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 28 comma 7 della legge citata con una sentenza, la n. 425 del 2005, criticata sotto diversi profili. Il Tribunale per i minorenni di Firenze sollevava la questione sulla base della violazione degli artt. 2, 32 e 3 della Costituzione 17, con lo scopo di sollecitare la Corte ad introdurre nella legislazione un modello di accesso alle origini fondato sul consenso, simile al sistema francese. La Corte però ritiene la questione infondata, in base ad un’argomentazione prettamente incentrata sulle finalità che la norma persegue 18. Addirittura, si può dire che la Corte, alla correttezza di una costruzione teorica del bilanciamento degli interessi coinvolti, preferisca una interpretazione giuridicamente più carente, ma concretamente più funzionale a evitare quelle che chiama “decisioni irreparabili”. Il giudice costituzionale non sembra chiedersi se il sacrificio del diritto a conoscere le proprie origini sia giustificato da un corrispondente della madre dell’anonimato, quanto piuttosto se tale sacrificio possa servire a evitare un “male maggiore”, cioè a distogliere la gestante da propositi di aborto, infanticidio o abbandono. Sembra opportuno osservare come le conseguenze prospettate costituiscano per la maggior parte (aborto clandestino, infanticidio, abbandono di minore) reati gravi e penalmente sanzionati; la vita e la salute del bambino, astrattamente, sono tutelate dall’incriminazione penale. Tuttavia, emerge con chiarezza la consapevolezza della Corte che in questi casi la sanzione risulta assolutamente insufficiente e per nulla dissuasiva. Piuttosto, non si capisce come mai la Corte ritenga di mantenere l’anonimato della partoriente anche per dissuadere dal ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, come regolata dalla l. 194/1978. Infatti, ciò che può essere decisivo per orientare la scelta della gestante non è, come ritiene la Corte, la garanzia di non essere successivamente 17 “La negazione a priori dell’autorizzazione all’accesso alle notizie sulla propria famiglia biologica per il solo fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato costituirebbe una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato”, ai sensi dell’art. 2 Cost., oltre ad essere “lesiva del diritto alla salute ed all’integrità psico-fisica”, ai sensi dell’art. 32 Cost., e a violare il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., “in quanto sottopone ad una diversa disciplina due soggetti che si trovano nella medesima condizione, quella di adottato, cioè l’adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza tenere in alcuna considerazione l’eventualità che possa aver cambiato idea”. In pratica, l’art. 28 comma 7 ritiene prevalente su tutti gli interessi in conflitto quello del genitore biologico, mentre sacrifica sempre e comunque l’interesse dell’adottato, anche a fronte di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica, cfr. Corte Cost., sentenza 425/2005, par. 2.1, reperibile in www.cortecostituzionale.it 18 “La norma impugnata mira evidentemente a tutelare la gestante che - in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi”. “Pertanto la norma impugnata, in quanto espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda, non si pone in contrasto con l’art. 2 della Costituzione”, cfr. Corte Cost., sentenza 425/2005, par. 4, reperibile in www.cortecostituzionale.it . Essendo consequenziale al diritto all’identità personale, la violazione dell’art. 32 cade automaticamente, mentre riguardo alla diversa disciplina prevista per adottati in regime di anonimato o meno non vi è contrasto con l’art. 3, perché “non è ingiustificata. Solo la prima infatti e non anche la seconda è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato” cfr. Corte Cost., sentenza 425/2005, par. 6, reperibile in www.cortecostituzionale.it

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mai interpellata dall’autorità giudiziaria, quanto piuttosto quella di rimanere padrona del proprio segreto, come avviene nella disciplina francese, in cui la volontà della madre risulta sempre l’ultimo veto al diritto all’informazione del figlio 19. Una prima immediata critica opposta alla pronuncia riguarda la sua scarsa lungimiranza e la sua lampante contrarietà all’orientamento della Corte europea in materia di parto anonimo, con particolare riferimento alla sentenza Odiévre c. Francia, di appena due anni prima: diversi autori20 , nell'analizzare tale pronuncia, avevano preventivato una condanna di Strasburgo all’Italia, che infatti è presto arrivata. Inoltre, il ragionamento usato dalla Corte in materia di bilanciamento di interessi presenta delle evidenti storture, tanto da farne ipotizzare la non utilizzabilità in materia: tale schema argomentativo, infatti, si presenta problematico, perché mette in relazione un interesse diretto dell’adottato, il diritto all’identità, e un interesse solo indiretto e di difficile individuazione della donna, posto che di sicuro la Costituzione non garantisce il diritto di abbandonare il proprio figlio. Semmai la posizione della madre può fare riferimento all’art. 32 Cost. e al suo diritto ad accedere alle cure necessarie al momento del parto: in questo caso è evidente che il diritto all’anonimato non viene tutelato in sé, ma come mero strumento per la salvaguardia del diritto alla salute 21. Non solo, ma la tecnica del bilanciamento prospettata presenta un’altra imperfezione: l’oggetto della questione viene identificato nel conflitto fra due adulti, l’adottato e la madre, che vogliono la tutela di interessi contrapposti, il diritto all’informazione e il diritto alla segretezza. Invece, nella motivazione si rappresenta la finalità della norma in relazione al diritto dell’adottato al momento del parto, in cui l’anonimato è volto alla tutela della sua vita: in tale momento, diritto della madre a del figlio collimano. Tale discrasia però rende la motivazione carente, perché “la norma impugnata è considerata in una dimensione non statica, rispetto al conflitto tra diritti fondamentali che si determina al momento della sua applicazione, ma diacronica, come necessaria proiezione futura del bilanciamento del diritto alla vita e alla salute dell’adulto e del minore realizzato al momento del parto” 22. 6. Godelli c. Italia: la condanna della Cedu Come preventivato, la Corte europea ha condannato l'Italia con una decisione largamente condivisa (si registra una sola opinione dissenziente) e argomentata in maniera chiara e dettagliata: emerge l'intento di non lasciar più spazio a dubbi sull'orientamento di Strasburgo in materia, in modo da non rendere più scusabili atteggiamenti simili a quello italiano, che ha ingiustificatamente ignorato il precedente Odiévre c. Francia. La ricorrente, Anita Godelli, dopo aver attivato un iter amministrativo (Ufficio dello Stato civile) e giurisdizionale (Tribunale, Tribunale per i minorenni e Corte d'Appello) per avere informazioni sull'identità della madre, si vede negare tali notizie in applicazione dell'art. 28, comma 7 della l. 184/1983; adisce dunque la Corte europea per violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, ai sensi dell'art. 8 Cedu, in quanto tale norma ricomprende

19 PARIS D., Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil Constitutionel e della Corte europea dei diritti dell’uomo (con alcuni spunti per una rilettura dell’inquadramento costituzionale dell’interruzione volontaria della gravidanza), scritto sottoposto a referee 20 Cfr. ad esempio: COZZI A.O., La Corte Costituzionale e il diritto di conoscere le proprie origini in caso di parto anonimo: un bilanciamento diverso da quello della Corte europea dei diritti dell’uomo?, in Giur. Cost., 2005, 6; BOLONDI E., Il diritto della partoriente, cit. 21 PARIS D., Parto anonimo cit. 22 COZZI A.O., La Corte Costituzionale cit.

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anche il diritto del bambino a conoscere le proprie origini, così come sancito da numerose fonti del diritto internazionale23. Nonostante l'argomentazione del Governo italiano 24, che oppone l’assenza di una violazione dell'art. 8, la Corte rinviene nei confronti della ricorrente una violazione della norma, ma non tanto con riferimento alla vita familiare, quanto con riferimento alla vita privata. Invero, l'interpretazione dell'art. 8 Cedu è molto ampia e in continua evoluzione 25, per questo di difficile delimitazione; tuttavia già in passato il diritto all'informazione sulle proprie origini era stato qui ricompreso. Dalla giurisprudenza della Corte emerge che la norma impone agli Stati obblighi sia negativi, di non ingerenza, sia positivi, di porre in essere misure che permettano il rispetto della propria vita privata e familiare nelle relazioni interpersonali26. La Corte ricorda che l’art. 8 tutela un diritto all’identità e allo sviluppo personale, a cui contribuisce anche la scoperta di dettagli relativi alla propria identità di essere umano; in particolare, le circostanze della nascita rientrano nella vita privata del bambino e poi dell’adulto, sancito dall’art. 8 Cedu, che trova così applicazione nel caso di specie27. La sentenza si focalizza poi sulla valutazione del bilanciamento degli interessi operato dalla normativa interna e sul margine di discrezionalità dello Stato in materia. Infatti, la scelta delle misure idonee a garantire il rispetto della Convenzione europea rientra nel margine di apprezzamento degli Stati contraenti; tuttavia, tale discrezionalità trova un limite nella valutazione della Corte, che deve vigilare al fine di assicurare che lo Stato, con la sua legislazione, appronti un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco 28. Nel caso di specie, la Corte ritiene che la normativa italiana non tenti di mantenere alcun equilibrio 23 La ricorrente richiama l’art. 7 della Convenzione di New York del 1989, l’art. 30 della Convenzione dell’Aja del 1993, la Raccomandazione 1443 (2000) del 26 gennaio 2000 del Consiglio d’Europa, in Godelli c. Italia, cit., par. 50-51 24 Godelli c. Italia, par. 44, in cui il Governo italiano sostiene che non si rinviene una lesione del diritto al rispetto della vita familiare, in quanto la norma presuppone l'esistenza di una famiglia, non bastando un mero legame biologico, come nel caso di specie. 25 Per una compiuta analisi dell'art. 8 nella giurisprudenza della Cedu, BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, CEDAM, 2012, pp. 297 ss. 26 Ad esempio, in Gaskin c. Regno Unito (Gaskin c. Regno Unito, 07.07.1989, ric. n. 10454/83, in www.echr.coe.int/echr per i riferimenti dottrinali vedi STEFANELLI S. , cit., pp. 1-3 e CURRÓ G., cit., pp. 237238) la Corte aveva riconosciuto “un interesse primordiale, protetto dalla Convenzione, a ricevere le informazioni di cui un individuo necessita per conoscere e comprendere la sua infanzia e i suoi anni di formazione”; non risponde al principio di personalità un regime che subordina al consenso dell'informatore la conoscenza di tali fatti, senza prevedere un organo indipendente, la valutazione dei motivi del dissenso e la decisione finale sull'accesso. Proprio a seguito di tale decisione, il Regno Unito ha istituito un'autorità apposita, l'Adoption Contact Register, al fine di consentire il contatto tra adottato e genitori naturali, e in ogni caso ha ammesso l'accesso del maggiorenne a tutte le informazioni sulla propria storia preadottiva. Secondo la decisione Mikulic c. Croazia (Mikulic c. Croazia, 07.02.2002, ric. n. 53176/99, in www.echr.coe.int/echr) poi l'interesse superiore del minore impone di adottare misure istituzionali idonee a dissipare l'incertezza sulla propria identità personale: l'inefficacia del sistema croato, che nel caso di specie si era manifestato in un procedimento giurisdizionale eccessivamente lungo, è per tale motivo stato ritenuto violativo degli obblighi nascenti dalla Convenzione. Infine, in Odièvre c. Francia (Odièvre c. Francia, 13.02.2003. ric. n. 42326/98, in www.echr.coe.int/echr) la Corte ritiene il sistema francese conforme ai requisiti dell'art. 8 sia perché istituisce un'autorità preposta a fare da intermediario fra genitore biologico e figlio, sia perché permette l'accesso ad alcune informazioni parziali e non identificative, ma sufficienti a ricostruire la storia della persona. 27 Godelli c. Italia, cit., par. 46 28 “Se il bilanciamento da parte delle autorità nazionali è operato nel rispetto dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, occorrono motivi seri perché quest’ultima sostituisca il suo parere a quello dei giudici interni”, Von Hannover c. Germania (n. 2) (GC), nn. 40660/08 e 60641/08, par. 107)

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tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa, perché viene data una preferenza incondizionata all’interesse all’anonimato della madre. A differenza della situazione nella causa Odièvre, la ricorrente non ha avuto accesso a nessuna informazione sulla famiglia biologica che le permettesse di stabilire almeno parziali radici della sua storia: la donna si è vista opporre un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini personali. Inoltre, contrariamente a quanto argomentato dal Governo italiano, l’interesse che può avere un individuo a conoscere la sua ascendenza non viene meno con l’età, anzi avviene il contrario. La ricorrente ha dimostrato un interesse autentico a conoscere l’identità della madre: un tale comportamento presuppone delle sofferenze morali e psichiche, anche se queste non vengono accertate da un punto di vista sanitario 29. Sembra interessante l’opinione30 secondo cui, in senso difforme a quanto affermato in Odièvre c. Francia, non si parla di interessi concorrenti tra due adulti, quanto piuttosto di un adulto e di un individuo che sebbene maggiore degli anni 18 ricorre per la violazione di un diritto derivante dalla propria infanzia; infatti, il diritto allo sviluppo è un concetto che riguarda l’intera sfera personale, interiore ed esteriore del minore. Ritenendo quindi che la materia concerna i diritti dei fanciulli, deve essere applicato il principio del superiore interesse del minore come guida per il bilanciamento degli interessi in gioco: di conseguenza, anche il margine di apprezzamento dello Stato non può che soccombere a tale interesse preminente. 7. La Corte Costituzionale italiana: sentenza 278 del 2013 Poco dopo la condanna di Strasburgo, la Corte Costituzionale è stata nuovamente interpellata in materia di parto anonimo: il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza n. 43 del 13 dicembre 2012, ha prontamente avanzato questione di illegittimità costituzionale. Il caso si presenta molto simile a quello già deciso dalla consulta nel 2005, tanto che il parametro costituzionale utilizzato è lo stesso (artt. 2, 3 e 32 Costituzione), a cui si aggiunge l’art. 117 comma 1, in riferimento alla sopracitata sentenza Godelli c. Italia. Ovviamente questa volta la Consulta non ha potuto ignorare la giurisprudenza della Corte europea, di conseguenza ha dichiarato la norma impugnata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 278 del 18 novembre 2013, ritenendo la disciplina all'esame “censurabile per la sua eccessiva rigidità”31. La pronuncia riprende in gran parte quanto già esposto nella decisione del 2005, approntando però al suo ragionamento alcune correzioni mutuate dalla critica dottrinale precedentemente analizzata. Secondo la Consulta, il diritto all’anonimato della madre e il diritto a conoscere le proprie origini del figlio rappresentano valori costituzionali di primario rilievo; tuttavia, mentre le precedenti sentenze della Corte Costituzionale del 2005 e della Corte europea del 2012 richiamavano la necessità di operare un equo bilanciamento degli interessi in gioco, la pronuncia in esame cambia radicalmente prospettiva. Specifica infatti come, in realtà, l’obiettivo del ricorso presentato non sia ottenere un bilanciamento di due diritti contrapposti, visto il loro carattere necessariamente alternativo, quanto piuttosto di introdurre nel sistema normativo la possibilità di verificare la persistenza della volontà della madre naturale di non essere nominata, abbattendo la barriera dell’irreversibilità del segreto, giudicata in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione. La Corte quindi ribadisce, come già nella sua decisione del 2005, l’importanza della tutela dell’anonimato come strumento di salvaguardia della vita e della salute sia della madre sia 29 Godelli c. Italia, cit., par. 69 30 BIANCHETTI M. P., La Corte europea dei diritti dell’uomo richiama l’Italia a realizzare il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini, reperibile in www.duitbase.it/note-e-commenti/ 31 Cfr. Corte Cost., sentenza 278/2013, par. 6, reperibile in www.cortecostituzionale.it

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del figlio, in quanto utili a garantire che la nascita avvenga in condizioni ottimali, e a distogliere la donna dal ricorso a strumenti “irreparabili” (aborto clandestino, abbandono di minore, infanticidio). Aggiunge però alla sua ricostruzione un correttivo mutuato dalla sentenza della Corte di Strasburgo, prendendo in considerazione il profilo “diacronico” della tutela assicurata al diritto all’anonimato della madre: la normativa odierna infatti risulta troppo rigida perché prevede che la scelta della donna sia irreversibile, cristallizzandosi al momento del parto. Di conseguenza, alla genitrice si permette di esercitare il suo diritto di scelta dell'anonimato una tantum, per poi “espropriarla” di qualsiasi futura possibilità di opzione. Addirittura, la scelta all'anonimato da libero esercizio di un diritto si trasforma in un vincolo indissolubile dalla forza espansiva, secondo uno schema estraneo ai modelli giuridici comuni. Si aggiunga che prospettare un termine centenario per l'acquisizione dei dati identificativi della madre, come statuito dall'art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, significa di fatto riconoscere in capo alla donna una sorta di “diritto all’oblio”, le cui finalità non sono condivise dalla Corte: si ritiene che la medesima tutela potrebbe essere raggiunta tramite un sistema di interpello simile a quello francese, piuttosto che da un sistema rigido come quello attualmente in vigore. Anche il timore di ledere erga omnes la riservatezza della donna, considerata esposta a rischio ogni volta che si metta in moto il meccanismo di interpello auspicato, risulta inaccettabile: sarà compito del legislatore ovviare a questo rischio tramite una disciplina di legge ben congegnata. La Corte poi opera una fondamentale distinzione fra “genitorialità giuridica”, intesa come l'instaurarsi del rapporto di filiazione e degli obblighi ad esso collegati, e “genitorialità naturale”, vale a dire il crearsi di una relazione di fatto fra madre e figlio, privo di qualsiasi vincolo giuridico. Mentre la scelta per l'anonimato impedisce l'insorgenza della prima, all'opposto non appare ragionevole rendere impossibile l'eventuale instaurarsi di un rapporto fra madre e figlio: “ove così fosse, d’altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost”. Infine, in riferimento al principio di uguaglianza dell'art. 3 Costituzione, la ricorrente lamenta un trattamento deteriore dell’adottato nato da donna che ha scelto il regime dell’anonimato piuttosto che dell’adottato nato da donna che non ha operato tale scelta: nella sua decisione del 2005, la Corte aveva giudicato non ingiustificata tale differenza di trattamento, al fine di tutelare la vita e la salute sia della madre che del figlio. La sentenza in esame invece, come già chiarito, opera un cambiamento di prospettiva: non ha senso far prevalere l'interesse della madre all'anonimato o l'interesse del figlio a conoscere le proprie origini, quando eliminando l’eccessiva rigidità della disciplina entrambe le esigenze prospettate possono trovare sufficiente tutela. Il vulnus della norma impugnata risiede esclusivamente nell'irreversibilità del segreto. La Corte tuttavia, dopo aver chiarito quale sia il nodo problematico della disciplina e aver raccomandato i correttivi adeguati, non può che affidarsi al legislatore 32: l'adeguamento effettivo della normativa italiana agli standard europei rimane ancora, dopo dieci anni, da approntare.

32 “Sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto”. Cfr. Corte Cost., sentenza 278/2013, par. 5, reperibile in www.cortecostituzionale.it

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8. Considerazioni conclusive Seguire l'evolversi del dibattito, mossosi in Italia e in Europa, sull'istituto del parto anonimo interessa non solo per l'analisi dei temi evidenziati, ma soprattutto per l'emersione di alcune problematiche nascoste: un ordinamento restio ad abbandonare la caratteristica irreversibilità dell'istituto del parto anonimo probabilmente è consapevole delle proprie carenze nel proporre mezzi più costruttivi di aiuto alla maternità. Ovviamente è più semplice fornire uno strumento totalmente deresponsabilizzante per la donna, come il parto anonimo, piuttosto che potenziare i mezzi di supporto alla madre nella gestione del nuovo nato. In particolare, in Italia il tema è scottante: il sistema di welfare in materia non è soddisfacente, basti pensare che l'aiuto alle madri in difficoltà è prevalentemente demandato a strutture benefiche, nel silenzio delle istituzioni. In questa situazione, l'intervento del legislatore potrebbe rivelarsi un'occasione non solo per correggere l'istituto condannato dalla Corte, ma anche per rivedere l'intero sistema di tutela della vita e di disincentivo all'aborto in Italia. Un'ultima precisazione: le proposte di legge fino ad ora presentate 33, volte a introdurre in Italia un sistema di interpello simile a quello francese, prevedono che l'ente incaricato di fare da tramite fra madre biologica e figlio non sia un apposito organismo, come il CNAOP d'oltralpe, ma il Tribunale per i Minorenni. Stabilire la competenza di tale autorità, già gravata di una mole spropositata di lavoro, anche riguardo a questi procedimenti, sembra un modo certo per conseguire un ulteriore rallentamento della giustizia minorile, oltre che per vanificare il sistema di interpello auspicato. ** Dottoranda in Diritto Pubblico, Giustizia Penale e Internazionale presso l'Università degli Studi di Pavia; silvia.favalli01@ateneopv.it

33 In particolare, cfr. le proposte di legge C-1899 del 12 novembre 2008 e C-3030 del 10.12.2009

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1 Finale di partita. Incostituzionale la legge elettorale * di Antonio D’Aloia (16 dicembre 2013) 1. La Corte Costituzionale ha bocciato il ‘porcellum’, dichiarando incostituzionali i suoi due elementi più controversi e al tempo stesso ‘qualificanti’: il premio di maggioranza, e le liste ‘bloccate’, con l’esclusione della possibilità degli elettori di esprimere uno o più voti di preferenza nell’ambito della lista prescelta. Una decisione che ha ‘sparigliato’ il dibattito politico italiano, probabilmente nemmeno del tutto attesa, anche perché erano forti alcuni dubbi che investivano la stessa ammissibilità del giudizio di legittimità costituzionale, per come era ‘nato’, per il tipo di pronuncia che si chiedeva alla Corte, e per gli effetti che potevano derivare dalla stessa, in termini di ‘disponibilità’ di una legge elettorale applicabile in caso di annullamento della l. 270, o di necessità di un successivo intervento di adattamento del legislatore. L’intervento della Corte certifica che il sistema è arrivato ad un punto di non ritorno. Al di là del probabile differimento formale delle conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità, che sembra cogliersi nel passaggio in cui il comunicato della Consulta accenna alla pubblicazione della sentenza “dalla quale dipende la decorrenza degli effetti giuridici”, e dal riconoscimento esplicito che “il Parlamento (questo Parlamento) può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali”, non c’è dubbio che il Parlamento viene ‘delegittimato’ non tanto (e non solo) nella sua composizione, ma nella sua incapacità di capire l’urgenza di alcune scelte [giustamente G. Azzariti, Dopo la decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale. «Blowin’ in the wind», in questa Rivista, 10 dicembre 2013, 3, sostiene che “l’attuale Parlamento è ancora legittimo dal punto di vista propriamente giuridico (…), così come appare altrettanto palese che esso è politicamente delegittimato…” ]. Questo Parlamento, dopo la sentenza sulla sua “legge di formazione”, potrà fare ancora poco, e soprattutto lo dovrà fare in poco tempo; e tra questo ‘poco’, ci deve essere una nuova legge elettorale. Proverò a concentrarmi sulle due ‘parti’ sostanziali della decisione, anche se al momento bisogna farlo un po’ ‘al buio’ e ‘provvisoriamente’, perché disponiamo non della sentenza, ma solo di un breve comunicato che si limita ad identificare i profili ‘censurati’ dalla Corte, non i motivi della dichiarazione di incostituzionalità. 2. La valutazione negativa sul premio di maggioranza era ‘nelle cose’. Credo che sia la parte più prevedibile della decisione della Corte, una volta superato il tema dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale. Nella decisione del 2008 (n. 15) sull’ammissibilità del referendum abrogativo sulla legge ‘Calderoli’, la Corte aveva già sottolineato i rischi legati all’assenza di una soglia minima per l'assegnazione del premio di maggioranza, elemento questo “potenzialmente foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa”, segnalando al Parlamento “l'esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l'attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi.” [analoghe posizioni erano state espresse anche in più di una Relazione sulla giustizia costituzionale dei Presidenti della Corte]. E allora, si trattava di un rischio ‘astratto’, ‘teorico’, in un contesto in cui il sistema politico italiano sembrava consolidato in una prospettiva di tendenziale bipolarismo. *

Il presente contributo, con poche variazioni e senza note, è stato già anticipato sul blog di cultura costituzionale www.confronticostituzionali.eu, il 6 dicembre 2013.


2 Quando le coalizioni che si contendono il governo del Paese sono due, è normale che entrambe (e certamente quella che prevale) raggiungano un livello di consenso elettorale elevato, almeno vicino alla maggioranza politica (e parlamentare), tale che il ‘premio di maggioranza’ funzioni effettivamente alla stregua di un piccolo correttivo numerico necessario per garantire una chiara indicazione di governabilità. In una situazione come quella che invece si è materializzata alle ultime elezioni, e caratterizza oggi un sistema disordinatamente frammentato in tre grandi blocchi elettorali, il premio di maggioranza può diventare (e in effetti è diventato) un vero e proprio fattore di stravolgimento, di radicale alterazione, delle dinamiche elettorali e dei significati più elementari del principio di rappresentatività del Parlamento. Probabilmente la Corte non ha giudicato incostituzionale il premio di maggioranza in sé [ipotizza invece una caducatoria ‘secca’ A. Ruggeri, La riscrittura, in un paio di punti di cruciale rilievo, della disciplina elettorale da parte dei giudici costituzionali e il suo probabile “seguito” (a margine del comunicato emesso dalla Consulta a riguardo della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005), in www.giurcost.org, 9 dicembre 2013, 2], anche perché sempre nella decisione del 2008 prima richiamata aveva escluso “che un referendum abrogativo che tenda ad influire sulla tecnica di attribuzione dei seggi, in modo da favorire la formazione di maggioranze coese e di diminuire, allo stesso tempo, la frammentazione del sistema politico non è, in sé e per sé, in contrasto né con l'art. 48 né con l'art. 49 Cost.”, affermando che “il principio di eguaglianza del voto non si estende al risultato delle elezioni, giacché esso opera esclusivamente nella fase in cui viene espresso”, e che la finalità di predisporre meccanismi premiali per favorire un più stringente processo di integrazione “può essere valutata in modo positivo o negativo da diversi punti di vista, ma non lede alcun principio costituzionale”; ma la versione adottata dalla l. 270, la mancanza di requisiti numerici minimi, il rischio (effettivamente realizzatosi) di una ricaduta distorsiva troppo marcata, e perciò irragionevole. Un premio di maggioranza così è semplicemente insostenibile, e dunque non poteva resistere al sindacato del Giudice costituzionale. Personalmente, penso che ci sia una doppia incostituzionalità della disciplina del premio di maggioranza. La distribuzione regionale del premio al Senato (al di là del fatto che, come dice la Cassazione, rende “il peso del voto …diverso a seconda della collocazione geografica dei cittadini elettori”) produce effetti del tutto irrazionali, contraddittori rispetto a quella stessa ratio di governabilità che ispira la tecnica dei premi di maggioranza, per effetto del casuale ed imprevedibile sovrapporsi dei riflessi numerici prodotti dal premio nelle diverse regioni. La legge 270 evidenzia una incoerenza ‘interna’, tra una delle finalità del meccanismo normativo e lo strumento predisposto per realizzarla. Né può sostenersi, a mio avviso, che la regionalizzazione del premio sia imposta dalla formula costituzionale (art. 57) per cui “Il Senato è eletto a base regionale”. Si tratta di una formula ambigua, pallido ricordo di un dibattito ben più complesso su come articolare in modo differenziato la cifra rappresentativa delle due assemblee parlamentari. Far derivare da essa un vincolo a strutturare in chiave regionale il premio di maggioranza mi sembra una lettura quantomeno troppo zelante, se non proprio infondata, della norma costituzionale. 3. L’incostituzionalità del meccanismo delle ‘liste bloccate’ era forse l’esito meno scontato del giudizio sul ‘porcellum’. La preclusione della possibilità di esprimere preferenze era diventato un po’ il simbolo della distanza tra la ‘casta’, e i suoi riti autoreferenziali di perpetuazione (tra cui, appunto, la legge elettorale), e il bisogno sempre più marcato di procedure ‘dirette’ e trasparenti di scelta da parte degli elettori.


3 Liste ‘bloccate, candidature multiple, spesso disancorate da un rapporto con le strutture politiche sul territorio, sembravano regole di un gioco ‘chiuso’, sostanzialmente ostile ai ‘nuovi’ candidati e ai nuovi partiti (si pensi alle regole asimmetriche sulla sottoscrizione delle candidature, nettamente sbilanciate in favore dei partiti e dei gruppi politici già presenti in Parlamento), condotto quasi esclusivamente sul terreno della cooptazione, e del ferreo controllo da parte degli apparati dirigenti dei vari partiti. Non appaiono certo sufficienti a risolvere il problema iniziative spontanee e parziali, come le ‘parlamentarie’ del M5S, o le primarie ‘di apparato’ del PD per la scelta dei candidati alla Camera e al Senato nell’ultima tornata elettorale. Tuttavia, il discredito di una soluzione di questo tipo, gli strali contro il Parlamento dei ‘nominati’, non sembravano potersi automaticamente tradurre in violazioni dirette della Costituzione. La stessa Corte EDU ha, nel caso Saccomanno e altri c. Italia (sent. 13 marzo 2012), escluso che il sistema delle liste bloccate sia in contrasto con le norme della Convenzione, trovando persino una giustificazione di questa scelta legislativa nell’obiettivo di contrastare l’influenza della criminalità organizzata sul risultato elettorale e di prevenire il commercio di voti, in considerazione della specificità del contesto italiano [v., da ultimo, Armanno, 2013, 7]. Per la Corte Costituzionale evidentemente non è così. Il ‘Porcellum’ è incostituzionale nella parte in cui “blocca” il voto di lista, facendo dipendere l’elezione di deputati e senatori dall’ordine di posizione nella lista dei candidati, ovvero da altri criteri a loro volta ‘sganciati’ dalla volontà dell’elettore, quali lo scatto del premio di maggioranza o l’opzione dei candidati eletti in più circoscrizioni. La ‘base’ della pronuncia di incostituzionalità non possono che essere i motivi proposti dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione. Per la Cassazione il voto ‘senza preferenze’ è un voto sostanzialmente ‘indiretto’, non in linea con “il nucleo sostanziale dell’art. 67 Cost. E’ molto forte il passaggio che di seguito si riporta: “vi è anche da chiedersi se possa ritenersi realmente ‘libero’ il voto quando all’elettore è sottratta la facoltà di scegliere l’eletto (… l’espressione ‘libertà di voto senza preferenza assume il significato di un drammatico ossimoro’) e se possa ritenersi ‘personale’ un voto che è invece ‘spersonalizzato’”. Su un piano diverso, la Corte ‘a quo’ sottolinea che un meccanismo come quello impugnato accentua irragionevolmente la posizione ‘privilegiata’ dei partiti, alterando un modello costituzionale in cui “i partiti concorrono, …, a determinare la politica nazionale, ma non si identificano con le istituzioni rappresentative da eleggere né con il corpo elettorale”. Due profili in particolare sono, secondo il mio punto di vista, i principali ‘candidati’ a rientrare nella motivazione di incostituzionalità del Giudice delle leggi. Il primo è il rapporto tra diritto (e democrazia) elettorale e partiti politici. La democrazia moderna ha sicuramente bisogno di partiti, come motore primario dei processi di integrazione politica e soggetti fondamentali della Costituzione materiale, ma non può essere interamente assorbita in essi, come sfera separata ed autoreferenziale, quasi una sorta di dimensione cetuale. L’art. 49 della Costituzione insiste su una doppia, irrinunciabile, dimensione del diritto di associazione politica; c’è un profilo collettivo ed uno individuale, e il primo, cioè il concorso pluralistico dei partiti è strumentale al secondo, al concorso dei cittadini, e tra questi dei candidati. In altre parole, il diritto (individuale) di associazione politica e delle associazioni politiche da un lato, e il principio dell’eguaglianza e delle pari opportunità dell’accesso (di “tutti”) alle cariche elettive (mediante il voto ‘diretto’ e ‘personale’ degli elettori) dall’altro, gli artt. 49 e 51 (oltre che 48), si presuppongono e si completano reciprocamente, senza che l’uno possa essere negato dall’altro. Un sistema elettorale che invece arriva quasi ad identificare l’elezione dei candidati con la scelta dell’ordine di iscrizione nelle liste [Frosini, 2006, 63], salvo situazioni ‘marginali’ (nel


4 senso etimologico del termine), mi sembra eludere il profilo individuale, puntando tutto su una lettura del diritto di associazione politica eccessivamente dominata dal partito. Secondo punto. Il voto di lista senza preferenze costituisce una indubbia limitazione della libertà di voto dell’elettore [Pinelli, 2006, 771]. Non è semplice né automatico parlare di lesione di un diritto costituzionale, in questo caso quello tutelato dall’art. 48 Cost. Tuttavia, in una sentenza non recente (la n. 203/75), relativa al sistema elettorale allora vigente per i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, la Corte Costituzionale ha fatto considerazioni che sembrano potersi estendere al problema qui in esame. Di fronte ad una censura che prendeva di petto proprio il potere dei partiti di predisporre le liste definendo discrezionalmente l’ordine di collocazione dei candidati al loro interno, dubitando della sua legittimità costituzionale sia in rapporto al rischio di influenzare l’elettore, condizionando il suo voto, sia in rapporto al diritto dei candidati di accedere alla competizione elettorale in condizioni di parità non alterate da indicazioni preferenziali nella fase di formazione della lista, il Giudice costituzionale respingeva la questione di legittimità costituzionale, da un lato sottolineando la insostituibile funzione dei partiti quali strumenti di esercizio del potere sovrano del popolo (in particolare, afferma la Corte che “ Una volta riconosciuta legittima, in linea di principio, la scelta operata dal legislatore di concedere alle formazioni politiche la facoltà di presentare proprie liste di candidati, nessuna rilevanza costituzionale può assumere la circostanza che lo stesso legislatore le ha lasciate libere di indicare l’ordine di presentazione delle candidature”), dall’altro segnalando –ed è questo il passaggio che ci interessa- che “le modalità e le procedure di formazione della volontà dei partiti (nella definizione delle liste e nella indicazione dell’ordine di presentazione delle candidature) non ledono affatto la libertà di voto del cittadino, il quale rimane pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza”. Viene allora da chiedersi: quale libertà ha il cittadino nel votare un elenco, spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose), di nomi che nemmeno conosce tutti, se poi la proiezione del suo voto sul piano della elezione dei candidati dipende da scelte fatte dai partiti e dai loro apparati dirigenti prima (definizione dell’ordine di presenza in lista) e talvolta anche dopo (opzione in caso di candidature multiple) il voto medesimo, peraltro in condizioni di scarsa trasparenza e partecipazione? [v. già, sul punto, A. D’Aloia, Una riforma da riformare: la legge n.270 del 2005, in C. De Fiores (a cura di), Rappresentanza politica e legge elettorale, Torino, 2007]. Non condivido qui l’opinione di quanti sostengono che in fondo anche il sistema maggioritario basato su collegi uninominali mette l’elettore di fronte ad una scelta ‘chiusa’, e che addirittura “la posizione dell’elettore sarà ben più pregiudicata rispetto all’ipotesi di voto con liste proporzionali bloccate” [M. Armanno, Il sistema delle liste bloccate. Riflessioni tra retorica democratica, divieto di mandato imperativo e ruolo dei partiti politici , in Federalismi.it, 27 novembre 2013, 17]. Mi sembra ci sia una differenza determinante. La competizione in un collegio uninominale è diretta, l’elettore sceglie di votare per uno dei candidati, e sa che se prevalgono i voti uguali al suo, quel candidato viene eletto: diversamente, in un contesto come quello della legge 270, il rapporto tra prevalenza dei voti uguali a quelli dell’elettore considerato ed elezione dipende da variabili indipendenti dall’espressione del voto, e soprattutto dalla collocazione in lista del candidato. 4. E ora? Non è facile capire le ricadute e i ‘vincoli’ per il legislatore discendenti da questa parte della decisione della Corte Costituzionale. Di sicuro, la sentenza non è, sul punto, ‘selfexecuting’, a differenza della parte concernente il premio di maggioranza.


5 La bocciatura del premio di maggioranza (secondo me non in assoluto, ma alla luce della particolare configurazione assunta da questo istituto nella l. 270) lascia sul campo un sistema elettorale privo di questo meccanismo, ma autosufficiente. Si può discutere se, nel contesto politico italiano, una simile combinazione non finisca col diventare una sorta di ‘blindatura’ del modello delle (più o meno) ‘grandi intese’, un ritorno alla politica delle ‘mani libere’ e dei governi dopo il voto: ma si tratta di valutazioni di opportunità politica, che non toccano la possibilità (di quel che resta) della legge di essere applicata e utilizzata in una nuova competizione elettorale. Non può essere lo stesso per l’esito relativo alla incostituzionalità delle ‘liste bloccate’. Le preferenze vanno introdotte, ma lo deve (e può) fare il legislatore, stabilendo ‘come’, ‘quante’ (a proposito: bisogna tener conto del risultato del referendum del ’91 sulle preferenze plurime, quasi unanimemente ‘bocciate’ dal popolo italiano? [o, più in generale, alla luce della sent. 199/2012, considerare come ‘vincolo referendario negativo’ l’impedimento ad adottare una legge elettorale come quella vigente dal 1948 al 1993?: così ancora G. Azzariti, op. cit., 3]), eventualmente con quale combinazione tra voto di lista e voto individuale, oppure dentro quale (rinnovato) sistema. Inoltre, la lista bloccata è incostituzionale in sé o solo nella versione accolta dal porcellum, vale a dire in un quadro di circoscrizioni molto ampie (diversamente dalla Spagna), senza combinarsi con meccanismo correttivi o diversi (come in Germania)? Su questo punto bisognerà attendere le motivazioni della sentenza. Certo, suonerebbe probabilmente troppo rigida una posizione del primo tipo, considerato che il meccanismo in esame è adottato in altre legislazioni elettorali europee, ha superato il controllo della Corte EDU e in Germania del BVG (con riferimento alla legge elettorale ‘europea’), lo stesso Mattarellum in fondo ne conteneva una traccia nel voto di lista limitato alla quota proporzionale del 25% dei seggi disponibili; senza contare che l’alternativa, rappresentata dal modello delle preferenze, presenta a sua volta non poche criticità (come ben dimostra l’esperienza pre-referendum del 1991) [A. Reposo, Questioni irrisolte ed equivoci in ordine alla riforma della legge elettorale, in Rivista AIC, n. 2/2013, 6]. Se fosse davvero così, le opzioni a disposizione del Parlamento si restringerebbero fortemente tra un proporzionale con preferenze (a meno che non si accolga l’invito di Napolitano a rispettare l’espressione popolare di superamento del sistema proporzionale del 1993), e un maggioritario puro, al massimo a doppio turno. La stessa proposta avanzata dal (probabile) nuovo Segretario del PD (sistema maggioritario con l’aggiunta di un doppio turno di coalizione con voto di lista e premio di maggioranza) potrebbe trovarsi ‘spiazzata’. Penso però che la Corte non sia arrivata (e non intenda arrivare) a tanto. In sostanza, la contestazione del modello della lista bloccata si riferisce alla ‘misura’ di questo meccanismo, al carattere ‘totale’ e pervasivo della sua concreta configurazione. In questo modo, lo spazio per la discrezionalità legislativa resta ampio. Anche questa però è una considerazione virtuale. La sentenza della Corte, come si è detto, costituisce al tempo stesso la dimostrazione della incapacità e dell’arroganza della politica. Il tempo del riscatto e della responsabilità si assottiglia sempre di più.


Sulla straordinaria necessità e urgenza di abolire il finanziamento pubblico dei partiti politici di Antonio Saitta * (17 dicembre 2013) È stato annunciato che nella seduta del 13 dicembre il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto-legge per la “Abolizione del finanziamento pubblico dei partiti politici” (così è indicato nel sito del Governo). Il provvedimento riprende i contenuti del disegno di legge A.C. 1154-A approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 16 ottobre 2013 i cui tratti più importanti concerne la contribuzione volontaria da parte di persone fisiche pari al 2 per mille del reddito I.R.P.E.F. e la detraibilità fiscale delle donazione effettuate da persone fisiche e giuridiche a favore dei partiti politici. Il Decreto-legge, al pari del disegno di legge che ha recepito, prevede obblighi di pubblicità e controlli sugli statuti dei partiti che intendono accedere alla contribuzione volontaria nonché sui bilanci e la rendicontazione esibita. Il provvedimento prevede, inoltre, penalizzazioni finanziarie per quei partiti che non assicurino parità tra i generi nell’accesso alle cariche elettive in occasione della formazione delle liste dei candidati alle elezioni politiche. La riforma determina anche la riduzione progressiva dei finanziamenti attualmente previsti, fino alla soppressione totale entro il 2017. A prescindere dai contenuti specifici del provvedimento e dal principio generale che lo anima, di assoggettare totalmente il finanziamento dei partiti alle contribuzioni volontarie dei cittadini, che giustificherebbe numerosi approfondimenti, sono due gli aspetti della vicenda che sorprendono e impensieriscono già sotto l’aspetto puramente formale, avuto riguardo al tipo di fonte utilizzata per introdurre le nuove norme nell’ordinamento. Il primo non è certo una novità, eppure merita egualmente di essere menzionato. Si tratta della prassi di trasformare un disegno di legge di iniziativa governativa in decretolegge nel bel mezzo dell’iter parlamentare. Per questa via si continua a utilizzare l’art. 77 Cost. come una sorta di proposta di legge a valenza politica rinforzata e, soprattutto, dall’iter super-accelerato. Entro sessanta giorni, infatti, le Camere, volenti o nolenti, dovranno pronunciarsi sulla proposta (recte, sul provvedimento già adottato) dal Governo convertendolo in legge o meno. Va da sé che, pur prescindendo dalla (ricorrente) proposizione della questione di fiducia, l’impegno politico della maggioranza a sostegno del Governo è ben maggiore nei riguardi di un decreto legge, soprattutto su un tema assai sentito dall’opinione pubblica (e che pure rientra esplicitamente tra i punti programmatici qualificanti dell’esecutivo in carica) rispetto ad un comune disegno di legge sul quale è ovviamente assai più facile fare, come diceva Calamandrei, “opposizione di maggioranza” rinviandone e procrastinandone l’approvazione grazie ai mille anfratti di cui sono ricche le procedure legislative. La seconda considerazione riguarda pure la natura dei provvedimenti d’urgenza del Governo ma è più grave sotto il profilo giuridico-costituzionale. Si tratta della difficoltà, ad essere eufemistici, nel trovare giustificazioni sotto il profilo dei presupposti di necessità e urgenza che possano dare ragione, in concreto, dell’emanazione di un decreto a norma dell’art. 77 Cost. Non si vede, infatti, quali possano essere i presupposti di fatto legittimanti


il ricorso alla decretazione d’urgenza alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale consolidatasi sin dalla sentenza n. 29 del 1995, poi definitivamente con la sent. n. 171 del 2007 e, da ultimo, con la n. 220 del 2013. Com’è noto, infatti, decidendo della riforma delle province adottata con decretolegge, la Corte ha ribadito che “i decreti-legge traggono la loro legittimazione generale da casi straordinari e sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità”: nel caso dell’abolizione del sistema del finanziamento pubblico dei partiti politici non si vedono davvero quali possano essere i fatti sopravvenuti che abbiano reso, il 13 dicembre del 2013, straordinariamente urgente e necessario provvedere con decreto, pur a fronte di un dibattito protrattosi per anni in modo sostanzialmente inconcludente e dopo che un primo (ancorché del tutto inadeguato) intervento in materia si era registrato con la L. n. 96 del 2012. La stessa Corte, inoltre, coerentemente con le premesse assunte, ha stigmatizzato l’uso del decreto legge per adottare riforme destinate ad avere efficacia differita nel tempo: è palese, infatti, la “inadeguatezza dello strumento del decreto-legge a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge, secondo il disegno costituzionale”. Il discorso era riferito al “pasticcio” operato a proposito della riforma delle amministrazioni provinciali, ma i principi si potrebbero applicare di peso anche al caso che qui ci interessa. La circostanza che la riforma del finanziamento dei partiti fosse già stata approvata da un ramo del Parlamento non attenua, ma accentua, i profili di incostituzionalità. Se, infatti, almeno metà dell’iter legislativo si era già compiuto, le ragioni di necessità e d’urgenza erano, se possibile, ancora più impalpabili e si sarebbe ben potuto attendere che il Senato esaminasse il provvedimento in via ordinaria, così come la Costituzione prevede all’art. 72, prima di intervenire con un atto normativo d’urgenza del Governo. Certamente quello del finanziamento dei partiti è un nodo così intricato da legittimare il dubbio che chissà quando (e semmai) il Parlamento lo avrebbe districato davvero, sicché si comprende bene l’iniziativa del Governo di reciderlo del tutto e sin alla radice. Sono anche evidenti le esigenze politiche che hanno indotto il Governo a produrre risultati concreti in materia nel bel mezzo del rinnovo della leadership del partito del Presidente del Consiglio. Tutto ciò, però, può portare a dire che ci dobbiamo rassegnare al fatto che l’unica strada per riformare le nostre istituzioni democratiche (tra le quali rientrano a gran titolo i partiti politici e le forme del loro finanziamento) passa necessariamente da così vistose forzature del disegno costituzionale? E poi, così operando si risolvono davvero le questioni agitate o non, piuttosto, le si avvia verso un orizzonte segnato da inevitabili contenziosi e rinvii alla Corte costituzionale che, magari, per un minimo di coerenza con la propria giurisprudenza, non potrà, dopo qualche tempo, che accogliere le questioni di costituzionalità sollevate rimettendo al centro il problema che, frattanto, si sarà ingarbugliato ancora di più? * Ordinario di Diritto costituzionale Università di Messina


Diritti civili e politici ed emergenze economiche: una prospettiva comparata di Stefano Ceccanti (13 dicembre 2013)

1. Diritti civili e crisi: la differenza tra minoranze insiders e outsiders Premessa: non mi soffermo qui sul diritto di proprietà e aspetti connessi (livelli complessivi di tassazione e di spesa pubblica) per due motivi. Il primo è che questa è materia in cui vale soprattutto l’effettività e qui dovremmo confrontarci soprattutto a partire da dati empirici, cosa che fuoriesce dal mio compito odierno. Il secondo è che, comunque, su questi aspetti, in periodi di crisi, è difficile non fare affermazioni scontate: un certo grado di incremento di spesa pubblica e di tassazione appare inevitabile a breve termine in funzione anti-ciclica e di temperamento delle disuguaglianze, anche se, a seconda di come tali incrementi sono concretamente congegnati, essi possono produrre effetti diversi, sia economici sia sociali sia in relazione alla possibile reversibilità successiva. In ogni caso, specie nel contesto europeo, e ancor più in quello italiano, sappiamo che non appare fondato stabilire una meccanica conseguenza tra ampiezza e incremento della spesa da un lato e riduzione delle disuguaglianze dall’altra. Né possiamo comparare in modo rigido situazioni come quelle europee a quella americana, dove i livelli di partenza della tassazione e della spesa pubblica sono molto diversi. Solo in questo secondo caso è stato possibile immaginare, proprio durante la crisi, una riforma sanitaria come quella di Obama, tesa a incrementare strutturalmente la spesa. In materia di diritti civili le innovazioni più interessanti e discusse su cui il dibattito politico si è concentrato, e su cui vale quindi la pena di riflettere più a fondo, presentano un bilancio diverso a seconda che si tratti di minoranze insiders (positivo) e outsiders (stabile o negativo). Per le prime entra in gioco soprattutto l’estensione delle tutele, spesso fino al matrimonio, per le coppie di persone omosessuali. In particolare questa soluzione, che sarebbe stata ritenuta estrema fino a pochi anni fa, si è affermata rapidamente in Francia (con legge e poi con conferma da parte del Conseil Constitutionnel), nel Regno Unito (legge) e negli Usa (due sentenze che hanno comportato ilriconoscimento sul piano federale delle autonome scelte degli Stati senza più discriminazione e che hanno consentito di ripristinare il matrimonio gay in California), anche se emergono resistenze in altri Stati (ad esempio col recente referendum croato; su questa soluzione in Italia l’opinione pubblica appare fortemente polarizzata e i dati di sondaggio non sono univoci) per cui il panorama non è obiettivamente univoco anche se il trend favorevole è visibile e inatteso nelle sue dimensioni ; per le seconde entra in gioco soprattutto la disciplina dell’immigrazione dove, nonostante l’oggettiva pressione ad ulteriori ingressi, le legislazioni restrittive sia sugli ingressi sia sulla cittadinanza, non mutano, sono interpretate in modo forte (Francia) ed anzi si annunciano ulteriori possibili strette (Regno Unito). Va comunque tenuto presente che pur trattandosi primariamente di diritti civili essi hanno comunque dei risvolti stringenti relativi ai diritti sociali (provvidenze per le famiglie estese alle coppie omosessuali, assistenza sanitaria, accesso a stato sociale )e politici (allargamento del suffragio ove si allarghi la cittadinanza o restringimento almeno potenziale ove ci si muova in direzione opposta).


Il bilancio sembra divaricarsi giacché l’ottenimento, pur recente, di diritti a una minoranza divenuta per lo più insider come le persone omosessuali ha comunque alle spalle una legittimazione culturale che ha le sue radici nella separazione tra sessualità e procreazione che si è affermata dagli anni ‘60. Il riconoscimento di tali coppie appare più scontato soprattutto alle generazioni più giovani che sono cresciute in un contesto in cui il legame tra sessualità e procreazione è divenuto una scelta possibile, non un esito inevitabile. Man mano che avanza il ricambio generazionale queste scelte legislative tendono a farsi valere al di là delle differenze destra/sinistra (ad esempio, pur essendo di norma le sinistre a promuovere tali aperture, nelle Comunità autonome spagnole le prime leggi per le coppie di fatto anche omosessuali sono state promosse dal Partido Popular) e/o di carattere religioso. Era quella diversa impostazione sociale e culturale che creava problemi al riconoscimento pubblico delle coppie omosessuali. Tale riconoscimento, comunque, non crea conflitti redistributivi non solo per questo cambiamento valoriale, ma anche perché il numero complessivo di coppie che accedono al matrimonio (e anche alle altre forme di stabile convivenza) tende comunque a diminuire: l’accesso alle coppie omosessuali non controbilancia la caduta del matrimonio (e delle stabili convivenze) tra le coppie eterosessuali. Invece per i nuovi immigrati,minoranza outsider, la ricaduta dei riconoscimenti in materia di diritti civili viene subito colta, a torto o ragione, da quote significative della popolazione, soprattutto a livello sociale medio-basso, trasversali alle appartenenze politiche, come minaccia diretta e immediata per i propri diritti sociali e di conseguenza ciò pone ai legislatori intenzionati a procedere nel senso dell’allargamento obiettive difficoltà, anche per la presenza di imprenditori politici populisti in grado di canalizzare paure vere o di crearne di inesistenti. Anche qualora sia dimostrato razionalmente che politiche più estensive, di inclusione contribuiscano all’equilibrio del sistema pensionistico (compensando il calo demografico dei residenti) e riducano le spese relative a ordine pubblico e sicurezza dando prevedibilità e certezza e quindi liberando risorse per altre prestazioni sociali, il terreno per il legislatore aperturista è obiettivamente impervio, se si esclude il solo caso dell’immigrazione ispanica negli Usa, dove però gli intenti di Obama sono favoriti dal fatto che i nuovi arrivi degli outsider poggiano già su una cospicua maggioranza ispanica insider, che ha votato prevalentemente per lui in entrambe le elezioni presidenziali (movimento Latinos for Obama). Insomma la crisi sembra polarizzare più nettamente sui diritti civili le minoranze insider e outsider. 2. Diritti politici: l’Eurozona come buco nero per la scissione tra politics e policies Sui diritti politici, in realtà,le questioni che si sono poste non sono tanto sulla titolarità dei diritti (tranne che per i riflessi già richiamati relativi alla cittadinanza) quanto per il loro esercizio. Scontati i problemi relativi all’esercizio dell’elettorato attivo e passivo per le elezioni infrastatuali: il periodo di crisi è strutturalmente nemico delle autonomie e quindi di tali diritti, specie laddove i divari interni siano particolarmente pronunciati. La spinta generale, quasi automatica e inerziale, è comunque alla riduzione, anche laddove il bilancio delle esperienze possa essere ritenuto ampiamente positivo, specie a livello di consenso territoriale. Tranne che in Catalogna, dove la situazione si è estremamente polarizzata come non mai, e per altro aspetti in Scozia, la percezione di una riduzione di tali autonomie non sembra però essere sfociata in livelli di conflitto eccessivi. Al contrario in Catalogna la spinta è stata quella a “scaricare” le responsabilità sullo Stato centrale e dare voce alle istanze secessioniste, rivendicando una particolare “virtuosità” economicofinanziaria della Comunità. In questo caso istanze dell’opinione pubblica e istanze dei


rappresentanti locali si sono in realtà abbastanza saldate. Il vero problema irrisolto diquesti anni sembra invece consistere nell’intreccio tra policies decisive sempre più europeizzate in una logica di negoziati intergovernativi raramente comprensibili e politics ancora nazionali. Il diritto di elettorato attivo e passivo sembra nel complesso usurato: giacché esso era visto come concentrato simbolicamente ed effettivamente nelle elezioni nazionali (le sole di serie A), mentre ora allo svuotamento simbolico e ancora più effettivo di tale livello non sembra subentrarne un altro parimenti decisivo. Anzi le elezioni europee, anche se forse incrementate nel loro significato complessivo dall’indicazione popolare del Presidente della Commissione, potranno sembrare il luogo principe dove protestare contro questo divorzio tra politics e policies. Se vogliamo superarla credo che dobbiamo andar oltre la confusa commistione tra luoghi dell’Eurozona (gli unici a credibile vocazione di integrazione politica avendo già condiviso la moneta) e luoghi della zona Ue complessivamente intesa che, non avendo messo in comune la moneta, non potranno che avere anche un’integrazione politica più limitata. Insomma l’inevitabile allargamento dopo gli eventi del 1989 ci ha fatto espandere in larghezza anziché in profondità: quando ti allarghi difficilmente puoi anche andare più in profondità perché cresce l’eterogeneità. Ora dobbiamo scegliere, con chi vuole, di crescere in profondità. 3. Diritti nel mercato o contro il mercato? Infine, però, al di là del tema a me assegnato, limitato al rapporto tra diritti ed emergenza economica, va obiettivamente rilevato che permangono approcci molto configgenti nel rapporto in sé tra diritti e democrazia pluralista operante in un sistema di economia di mercato. La globalizzazione dei diritti (o attraverso il diritto) sembra per alcuni costituire un’alternativa alla globalizzazione attraverso il mercato. Sembra rappresentare, aggiornando, ma non troppo, la cultura movimentista dei diritti degli anni ’70, una nuova forma di pretesa fuoriuscita dal sistema, mescolando individualismo e statalismo, come avviene in alcune retoriche relative ai “beni comuni”. Ma il mercato va visto anch’esso come un'istituzione (cioè con norme, regole e routine) "entro" la quale si svolgono gli scambi, si creano contratti, si producono equilibri, si produce efficienza per cui i diritti vanno fatti valere dentro il mercato anche grazie a istituzioni politiche rinnovate, capaci di regolare più che di gestire direttamente. Difficile quindi non convenire con Giuliano Amato e Andrea Graziosi quando ci invitano a rifuggire, in materia di diritti, da “una sommatoria di intenti e di buone intenzioni..senza indicazioni relative al rapporto tra mezzi e fini” (“Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia”, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 175).


Il controllo del giudice costituzionale sulla qualità della legislazione nel giudizio in via principale di Davide Paris * (in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2013) 1. La sentenza n. 70 del 2013 rappresenta un esempio significativo di come una tecnica legislativa particolarmente contorta possa ostacolare il normale dispiegarsi del giudizio di legittimità costituzionale instaurato in via principale. Il fenomeno non è nuovo, ma la pro nuncia in esame si segnala per il carattere particolarmente sofisticato della tecnica norma tiva seguita dal legislatore regionale e per la risposta netta della Corte costituzionale, che segna un notevole passo in avanti nel controllo giurisdizionale della qualità della legislazione, in quanto individua nell’oscurità della disposizione un elemento decisivo ai fini della dichiarazione di incostituzionalità. 2. Una prima minaccia all’effettività del controllo di legittimità costituzionale in via principale si ha quando, nelle more del giudizio, la legge impugnata viene abrogata e il suo conte nuto normativo riproposto, invariato nella sostanza, in altra disposizione. Se quest’ultima non viene a sua volta impugnata, infatti, la Corte non si pronuncia nel merito, ma dichiara l’estinzione del processo (qualora il ricorrente rinunci all’impugnazione a seguito dell’avvenuta abrogazione), oppure la cessazione della materia del contendere (allegando la sopravvenuta abrogazione della norma censurata in senso satisfattivo della pretesa avanzata con il ricorso e la mancata applicazione, medio tempore, della norma abrogata). Il contenuto normativo della legge impugnata (e poi abrogata) tuttavia sopravvive, transitando intatto da una disposizione all’altra al riparo dal giudizio di costituzionalità. A partire dalla sentenza n. 533/2002, la Corte costituzionale ha risposto a questa “strategia”, che chiaramente si presta a essere utilizzata anche in modo fraudolento per sottrarre una legge al giudizio di legittimità costituzionale già instaurato 1, disponendo d’ufficio il trasferimento della questione sulla nuova disposizione, che diviene così oggetto dello scrutinio di costituzionalità in via principale pur in assenza di impugnazione. Si legge infatti nella pronuncia citata: “il principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giu dizi in via di azione non tollera che, attraverso l’uso distorto della potestà legislativa, uno dei contendenti possa introdurre una proposizione normativa di contenuto identico a quella impugnata e nel contempo sottrarla al già instaurato giudizio di legittimità costituzionale. Si impone pertanto in simili casi il trasferimento della questione alla norma che, sebbene portata da un atto legislativo diverso da quello oggetto di impugnazione, sopravvive nel suo immutato contenuto precettivo”2. Successivamente, nell’ordinanza n. 137/2004, la Corte ha precisato i limiti entro i quali è possibile il trasferimento della questione: questo può avvenire “solo ove dalla disposizione legislativa sopravvenuta [sia] desumibile una norma sostanzialmente coincidente con quella impugnata nel ricorso” e non quando “la nuova disposizione introdotta dal legislatore regionale [sia] tale da determinare un mutamento sostanziale nella normativa in questione”. 1 Almeno nel caso della sent. n. 533/2002 il carattere fraudolento dell’operazione pare manifesto, essendo la stessa Corte a rilevare che “la complicata operazione del legislatore provinciale” mira a ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere: “lo attesta la relazione di accompagnamento al disegno di legge, nella quale, con riguardo a questo specifico punto, si afferma che «in tal modo dovrebbe anche risolversi, per cessazione della materia del contendere, il ricorso per illegittimità costituzionale avviato dal Governo avverso l’articolo abrogato»” (punto 3.1 del Considerato). 2 Punto 3.1 del Considerato. 1


In altre parole, il principio dell’effettività della tutela costituzionale prevale sul carattere dispositivo del giudizio in via principale sollevando il ricorrente dall’onere di “rincorre re” tutte le modificazioni della disposizione impugnata quando lo ius superveniens, sia che intervenga a modificare il testo della disposizione impugnata, sia che la abroghi e ne introduca una nuova, non modifica “il contenuto precettivo”, o “la sostanza normativa” 3, della disposizione impugnata. Quando invece manchi questa “sostanziale identità del contenuto precettivo”, si riespande il principio dispositivo e la nuova disposizione non potrà essere sottoposta allo scrutinio della Corte se non attraverso una tempestiva impugnazione. Di fronte a una modifica, anche lieve, del contenuto precettivo della disposizione, infatti, il ri corrente ben potrebbe scegliere di non procedere a una nuova impugnazione e non si giustifica pertanto il trasferimento d’ufficio della questione. Questi principi hanno trovato applicazione numerosissime volte nei casi di modifica sopravvenuta della disposizione impugnata 4, nel contesto di una cronica instabilità dell’oggetto del giudizio5. Più raramente, invece, la Corte ha richiamato il principio dell’effettività della tutela costituzionale per trasferire, o estendere 6, la questione da una disposizione abrogata a un’altra di identico contenuto 7. In questi casi, peraltro, la giurisprudenza costituzionale non ha voluto seguire sino in fondo l’approccio di carattere sostanziale che impronta l’istituto del trasferimento. Nella sentenza n. 341/2009, infatti, la Corte afferma di non poter trasferire la questione di costituzionalità dal comma 8 dell’art. 61 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 (abrogato dall’articolo 1, comma 10-quater, lettera b), del decreto legge 23 ottobre 2008 n. 162) al comma 7-bis dello stesso decreto legge n. 112 (introdotto dall’articolo 18, comma 4-sexies, del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185) “in ragione dell’intervallo di tempo trascorso fra l’abrogazione della norma impugnata (comma 8 dell’art. 61) e la successiva in troduzione di diversa disposizione dal contenuto identico (comma 7-bis dell’art. 61)”8. In altre parole, il giudice costituzionale sembra richiedere, quale requisito indispensabile per il trasferimento della questione, la contestualità fra l’abrogazione della disposizione impugnata e l’introduzione della nuova di identico contenuto, che devono avvenire con lo stes so atto. Quando tale contestualità manchi, come nel caso in esame in cui il decreto legge abrogante è di un mese precedente a quello che reintroduce lo stesso contenuto normativo, il trasferimento non può avere luogo9. 3 Così, ad esempio, nella sent. n. 193/2012; per il virgolettato seguente v., ad es., la sent. n. 139/2009. 4 Nel solo 2012 v. le sentt. nn. 30, 70, 79, 114, 147, 148, 159, 161, 173, 179, 193, 199, 214, 259 (cfr. la Relazione sulla giurisprudenza costituzionale nel 2012, a cura del Servizio studi della Corte, in www.cortecostituzionale.it, 51 s.). 5 Sul “continuo modificarsi della legislazione che si traduce in una modifica incessante del possibile oggetto del giudizio di costituzionalità” (177) e sulle conseguenze di questa situazione sul giudizio in via principale v. E. ROSSI, Parametro e oggetto nel giudizio in via principale: riflessi processuali della caotica produzione normativa statale e possibili rimedi, in AA.VV., I ricorsi in via principale. Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 19 novembre 2010, Milano, 2011, 152 ss., che esamina il problema con riferimento alla normativa statale. 6 Sembra corretto parlare di trasferimento della questione quando la disposizione abrogata non abbia avuto medio tempore applicazione e quindi la questione di legittimità costituzionale si trasferisce sulla nuova disposizione sostitutiva e riguarda quindi soltanto lo ius superveniens. Diversamente, quando non si possa escludere l’applicazione medio tempore della disposizione abrogata, la questione, oltre a riguardare la disposizione abrogata, si estende anche allo ius superveniens, per cui l’oggetto è costituito da due disposizioni. Sul punto v. D. MONEGO, Ius superveniens nel giudizio in via principale fra trasferimento della questione, estensione ed illegittimità consequenziale, in Reg., 2012, 647 s. 7 Fra i pochi casi v. la sent. n. 286/2007, in cui la Corte estende la questione di costituzionalità promossa nei confronti dell’art. 8 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia 13 dicembre 2005, n. 30 in materia di piano territoriale regionale, all’art. 10 della successiva legge reg. 23 febbraio 2007, n. 5, il quale disciplina il procedimento di approvazione del pia no “in termini identici a quelli contenuti nella disposizione censurata”, abrogata dall’art. 64 della stessa legge n. 5 del 2007 (punto 5 del Considerato); si tratta peraltro di una sentenza di rigetto. 8 Punto 3.2 del Considerato. 9 Dall’esame delle sentt. nn. 252/2009 e 70/2012, D. MONEGO, Ius superveniens, cit., 652, ricava un altro limite al trasferimento della questione, che sarebbe possibile soltanto quando lo ius superveniens incida “sulla sola disposizione

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Questa limitazione appare fortemente criticabile in quanto, in maniera contraddittoria, fa discendere da un mero dato formale (il ricorso a due atti distinti anziché a uno solo) la disapplicazione di uno strumento pensato per garantire “l’effettività della tutela costitu zionale”. In questo modo si apre la strada a quegli stessi comportamenti di carattere frau dolento cui il trasferimento della questione intende porre rimedio: è fin troppo facile, infatti, per il legislatore, statale o regionale che sia, disporre l’abrogazione e la reintroduzione di un’identica disciplina in due leggi diverse, evitando così il trasferimento della questione. È in questa direzione, del resto, che si è mossa la Regione Campania, nella vicen da terminata con la sentenza n. 70/2013, con un’ulteriore accortezza: mentre la legge di abrogazione è stata approvata nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, quella riproduttiva della disciplina abrogata è intervenuta, con effetto retroattivo, successivamente alla conclusione dello stesso. In altre parole, la Regione, vistasi impugnata una propria legge, dapprima ne ha disposto l’abrogazione ottenendo la rinuncia da parte del Governo e la conseguente estinzione del processo. Quindi la ha immediatamente reintrodotta con effetto retroattivo, costringendo il Governo a una nuova impugnazione, che ha portato que sta volta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nel complesso, la Regione, non si sa se in forza di un preciso disegno fraudolento volto a eludere il controllo della Corte costituzionale (come sostenuto nel ricorso governativo) o, più semplicemente, in ragione di una produzione normativa priva di una guida razionale, ha ottenuto una sorta di rinvio della dichiarazione di incostituzionalità. 3. Più nello specifico, la contorta vicenda si articola nei seguenti passaggi. La legge regionale 1 luglio 2011, n. 11, Disposizioni urgenti in materia di impianti eolici, stabilisce all’art. 1, c. 2 – ed è questo l’unico contenuto prescrittivo di una legge composta di soli due articoli – che “la costruzione di nuovi aerogeneratori è autorizzata esclusivamente nel rispetto di una distanza pari o superiore a 800 metri dall’aerogenerato re più vicino preesistente o già autorizzato”. Il Governo ne delibera l’impugnazione di fronte alla Corte costituzionale per contrasto con gli artt. 117, commi 1, 2 e 3 e 97 Cost. 10, ma nelle more del giudizio l’art. 52, comma 15, della legge 27 gennaio 2012, n. 1, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2012 e pluriennale 2012-2014 della Regione Campania - Legge finanziaria regionale 2012, ne dispone l’abrogazione a decorrere dal 29 febbraio 2012. Di conseguenza, nel giudizio instaurato la Regione chiede che venga dichiara ta la cessazione della materia del contendere. Prima ancora che l’abrogazione abbia effetto, tuttavia, il 22 febbraio 2012 il Consiglio regionale della Campania approva un disegno di legge recante Interventi per il sostegno e la promozione della castanicoltura, nel quale vengono inseriti due emendamenti del tutto estranei alla materia de qua. Uno di questi dispone che la prevista abrogazione della legge sulla distanza degli impianti eolici sia differita dal 29 febbraio al 30 giugno 2012. Il di segno di legge approvato il 22 febbraio diventerà poi la legge 21 maggio 2012, n. 13, con il diverso titolo di Interventi per il sostegno e la promozione della castanicoltura e modifiche impugnata, oppure su quella che la prima a sua volta aveva novellato”, laddove quando esso coinvolga “fonti ulteriori o semplicemente articoli ulteriori, rispetto a quelli sostituiti/modificati dalla disciplina oggetto di ricorso” la Corte potreb be ricorrere allo strumento della illegittimità consequenziale, ex art. 27, l. n. 87/1953. Lo stesso A., peraltro, rileva che nella sent. n. 286/2007 (cit. a nota 7) la Corte ha seguito un criterio differente (653). L’impressione che si ha, in genera le, è quella di un orientamento giurisprudenziale tutt’altro che univoco, che lascia ampia discrezionalità alla Corte costi tuzionale nello scegliere se, e con quale strumento, censurare le nuove disposizioni che non abbiano determinato un mutamento sostanziale della norma impugnata. 10 In particolare, come riporta l’ord. n. 89/2012, secondo il ricorrente “la norma denunciata violerebbe l’art. 117, comma primo e comma secondo, lettera a), Cost., e, per suo tramite, i «principi comunitari di ragionevolezza e proporzionalità degli obblighi posti in sede di autorizzazioni alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili»”, nonché “l’art. 117, terzo comma, Cost., per il mancato rispetto dei principi fondamentali in materia di produzione di energia” e “l’art. 97 Cost., sotto il profilo dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, in ragione dell’irrigidimento del procedimento di installazione degli impianti eolici”.

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alla legge regionale 27 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio an nuale 2012 e pluriennale 2012-2014 della Regione Campania - Legge finanziaria regionale 2012)11. Il divieto di installazione di nuovi impianti a una distanza inferiore a 800 metri da quelli preesistenti, idoneo a detta delle associazioni di categoria a determinare uno stallo dello sviluppo dell’energia eolica in Campania, viene così a operare “a singhiozzo”: è vigente dal 1° luglio 2011 al 28 febbraio 2012; viene meno dal 29 febbraio al 28 maggio; opera nuovamente con efficacia retroattiva dal 29 maggio (quando entra in vigore la legge n. 13/2012) fino 29 giugno; dal 30 giugno cade definitivamente. Nel frattempo, tuttavia, il Consiglio dei Ministri, verosimilmente all’oscuro di quanto approvato dal Consiglio regionale campano il 22 febbraio, nella riunione del 9 marzo 2012 delibera la rinuncia al ricorso considerando l’avvenuta abrogazione satisfattiva delle proprie richieste; conseguentemente la Corte costituzionale dichiara estinto il processo con ordinanza n. 89/201212. Quando però entra in vigore la legge n. 13/2012, il Consiglio dei Ministri ne delibera l’impugnazione limitatamente alla disposizione che differisce l’abrogazione ripristinando di fatto il divieto di cui alla legge n. 11/2011; ciò avviene peraltro nella riunione del 20 luglio 2012, vale a dire quando già è trascorso il termine del 30 giugno e il divieto deve considerarsi definitivamente abrogato. Forse in ragione del fatto che la disposizione impugnata è priva di un autonomo contenuto normativo, limitandosi nella sostanza a far rivivere temporaneamente il divieto di installazione di impianti eolici a distanza inferiore a 800 metri imposto dalla legge n. 11/2011, il ricorso governativo non ripropone le doglianze di merito indirizzate verso la legge n. 11/2011, bensì censura la nuova legge sotto tre profili che attengono al complesso dell’operazione normativa compiuta. Più precisamente, il ricorrente lamenta la violazione: a) del principio di leale collaborazione, in quanto “la Regione ripropone una norma dopo aver fatto venir meno unilateralmente e surrettiziamente le ragioni che avevano in dotto il Governo a rinunciare al pregresso giudizio di costituzionalità”; b) del principio di irretroattività, di cui alle disposizioni preliminari al Codice civile (con violazione quindi dell’art. 117, c. 2 Cost., in relazione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile); c) dell’art. 97 Cost., poiché “la disposizione regionale impugnata, attraverso la sorprendente riviviscenza della norma abrogata ingenera difficoltà applicative della legislazione regionale di settore con innegabili effetti negativi sia sull’operato delle amministrazioni pubbliche chiamate a procedere – in sede autorizzatoria – alle valutazioni tecniche del caso concreto, sia per i cittadini e per le imprese che necessitano di norme certe al fine di poter legittimamente esercitare i propri diritti”. 11 La modifica del titolo della legge in sede di coordinamento merita di essere segnalata: il problema dell’omogeneità del contenuto di una legge sembra qui essere affrontato non già evitando le norme intruse, quale certamente è quella relativa agli impianti eolici, bensì adeguando ex post il titolo della legge alla disomogeneità del suo contenuto. 12 Si noti che la rinuncia governativa solleva la Corte dall’indagine sull’applicazione medio tempore della norma impugnata, che sicuramente vi è stata se è vero che il T.A.R. Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti della legge n. 11/2011 (cfr. ord. 13 febbraio 2013, in G.U. n. 18 del 2 maggio 2013, iscritta al n. 79 del registro ordinanze del 2013), nell’ambito di un giudizio per l’annullamento della nota del 24 febbraio 2012, con la quale la Provincia di Benevento aveva comunicato l’esito negativo del procedimento di autorizzazione alla costruzione di un impianto di energia elettrica da fonte eolica, proprio in ragione del limite fissato dalla legge n. 11/2011. L’ordinanza di rimessione, che investe la legge n. 11/2011 “in combinato rimando” alla legge n. 1/2012 e alla legge n. 13/2012, ripercorre nella sostanza i motivi sollevati dal primo ricorso governativo, ed aggiunge: “La Consulta, sempre attenta a rimarcare i limiti entro cui l’attività legislativa può ritenersi razionalmente esplicata […] non potrà non stigmatizzare il legislatore campano – rispetto ai parametri di cui agli artt. 3, 77, 97, 117 e seg. della Costituzione – che ha mantenuto in vita la predetta legge, consentendo così la artificiosa definizione di procedimenti pendenti in adesione a tale normativa incostituzionale: per il tramite di una norma il cui effetto abrogativo è stato prima differito e poi prorogato quanto alla sua decorrenza, con un chiaro vulnus anche al principio della Costituzione europea che impone il canone della «buona amministrazione» (art. 41 della Carta di Nizza)”. La sentenza n. 70/2013, che qui si commenta, ha dichiarato l’incostituzionalità del solo art. 5, c. 2 della legge n. 13/2012, senza pronunciarsi sulla disciplina sostanziale della legge n. 11/2011. 4


Da ultimo, toccando forse l’apice dell’oscurità della volontà normativa, la norma impugnata viene abrogata dall’art. 42, comma 4, della legge regionale 9 agosto 2012, n. 2613, forse nella speranza di ottenere una dichiarazione di cessazione della materia del contendere nel nuovo giudizio instaurato davanti alla Corte costituzionale ed evitare così per la seconda volta la dichiarazione di incostituzionalità 14. 4. Lasciando da parte la censura più debole fra quelle avanzate nel ricorso, quella relativa alla retroattività della disciplina15, la Corte si trova dunque a disporre di due parametri costituzionali per aggredire un groviglio normativo a dir poco caotico, e, forse, fraudolento. Entrambi i parametri invocati, la leale collaborazione e l’art. 97, censurano la contorta tec nica normativa seguita dalla Regione Campania, ma in maniera significativamente differente. L’evocazione del principio di leale collaborazione guarda alla pessima qualità della legislazione come a un sintomo della cattiva volontà del legislatore: l’oscurità della legge sarebbe, in altri termini, un indizio, o meglio una prova, della volontà del legislatore regio nale di sottrarsi al controllo di costituzionalità previsto dall’art. 127 Cost., tempestivamente promosso dal Governo. Al contrario, il richiamo dell’art. 97 Cost., anziché risalire alle cause dell’oscurità della legge, guarda piuttosto alle sue conseguenze: la tecnica normativa utilizzata è tale da compromettere la capacità dell’amministrazione di conformarsi ai canoni di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. La Corte, anche in considerazione della propria consolidata giurisprudenza che esclude l’applicazione del principio di leale collaborazione alla funzione legislativa 16, sceglie quest’ultima via per affrontare la questione, giungendo a una pronuncia che segna un importante progresso rispetto alla possibilità di sindacare la cattiva qualità della legislazione in sede di giudizio di legittimità costituzionale. È bene chiarire che, nel caso in esame, la dichiarazione di illegittimità costituzionale non consegue alla violazione di un implicito principio di certezza del diritto o di chiarezza normativa, ricavabile dal concorrere di diverse disposizioni costituzionali. La Corte ha infatti sempre evitato di configurare la certezza del diritto come autonomo parametro costituzionale17, e la sentenza in commento non si discosta da questo orientamento: la cattiva qualità della legislazione e la sua oscurità non vengono infatti censurate in quanto tali, ma 13 Anche in questo caso parrebbe trattarsi di una norma intrusa, dal momento che la legge detta Norme per la protezione della fauna selvatica e disciplina dell’attività venatoria in Campania. 14 L’eccezione è in effetti proposta dalla difesa regionale (punto 2 del Considerato), allegando una nota dell’amministrazione regionale dove si certifica che nel periodo compreso tra il 29 maggio 2012 ed il 30 giugno 2012 “alcun pro cedimento ha avuto esito negativo in ragione della riviviscenza” della legge n. 11/2011. La Corte supera l’eccezione, da un lato osservando che occorreva prendere in considerazione anche il periodo compreso tra il 29 febbraio e il 28 mag gio, dall’altra, più in generale, rilevando che “con riguardo all’intero arco temporale compreso tra il 29 febbraio e il 30 giugno, in presenza di una norma di divieto, [non] vi è la certezza che essa non sia stata presa in considerazione nel cor so della fase istruttoria di procedimenti amministrativi, che avrebbero avuto esito favorevole proprio perché la parte istante si era uniformata a tale divieto”. 15 La retroattività della legge in questione andava semmai censurata alla luce dei limiti generali all’efficacia delle leggi per il passato, elaborati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Strasburgo, validi per le leggi regionali come per quelle statali. 16 Si noti peraltro che, a differenza di altri casi, qui il principio di leale collaborazione è invocato non per vincolare la funzione legislativa al rispetto di procedure di collaborazione fra Stato e Regioni, bensì per censurare un comporta mento asseritamente doloso della Regione, che avrebbe nella sostanza ingannato il Governo, inducendolo a rinunciare al ricorso per poi riproporre la stessa disciplina abrogata. 17 Come ricordano, ex multis, R. PINARDI, S. SCAGLIARINI, Sindacato sulle leggi e tecnica legislativa: un giudizio senza parametro?, in AA.VV., Scritti in onore di Michele Scudiero, III, Napoli, 2008, 1771, che criticano questa prudenza della Corte costituzionale (e la dottrina maggioritaria orientata in tal senso), sostenendo che dalla lettura di numerose norme costituzionali sia possibile ricavare un implicito principio di certezza del diritto, idoneo a porsi come autonomo parametro di legittimità costituzionale nel giudizio sulle leggi. 5


in quanto queste producono la violazione di un altro bene giuridico di rango costituzionale, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, espressamente tutelato dalla Costituzione. La necessità di formulare le leggi in maniera chiara, in altre parole, pur se priva di un esplicito riferimento in Costituzione, è tuttavia presupposta dall’art. 97: la cattiva qualità della legge, infatti, si riflette negativamente sul buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e l’eccessiva oscurità della legge può quindi portare alla sua dichiarazione di incostituzionalità per violazione dell’art. 97 18. Pur senza configurare la certezza del diritto come autonomo parametro di legittimità costituzionale, il menzionato legame fra chiarezza normativa e buon andamento e imparzialità dell’amministrazione rappresenta comunque una novità 19 rispetto alla precedente giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di qualità della legislazione 20, che sembra scontare in particolare due limiti 21. Da una parte, il suo riferirsi in prevalenza ad ambiti in cui l’esigenza della chiarezza legislativa dispone di un più esplicito fondamento costituzionale, quali quello delle leggi penali o della limitazione dell’elettorato passivo 22; dall’altra “il carattere quasi sempre aggiuntivo, confermativo o dimostrativo che il richiamo a certi principi [di tecnica della legislazione] assume nelle motivazioni delle pronunce della Corte”23. La sentenza in esame pone invece le basi per il superamento di questi due limiti, 18 Per un’analisi dei precetti costituzionali che possono risultare violati, “sia pure di riflesso”, dalla cattiva redazio ne delle leggi v. M. AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, Bari, 2010, 117 ss., che menziona anche l’art. 97 Cost., facendo però riferimento, diversamente dalla Corte nella sentenza in commento, al principio di legalità nel l’amministrazione. 19 Diversamente, P. MAZZINA, Qualità della legislazione e competitività: alcune riflessioni intorno ad una recente esperienza campana, in www.rivistaaic.it, Osservatorio costituzionale, ottobre 2013, 4 s., ritiene che l’interesse della pronuncia non risieda tanto nell’“individuazione da parte della Corte costituzionale di nuovi principî, ovvero [nell’] ela borazione di nuovi indirizzi giurisprudenziali, che difatti non è avvenuta”, bensì negli aspetti concernenti responsabilità del legislatore in ordine alla qualità della legislazione e alla certezza del diritto, soprattutto alla luce dei costi economici della cattiva qualità della legislazione. 20 La Corte per vero richiama un proprio precedente, la sent. n. 364/2010, in cui già avrebbe affermato la contrarietà all’art. 97 Cost. dell’adozione di una disciplina foriera di incertezze per regolare l’attività amministrativa, poiché ciò “può tradursi in cattivo esercizio delle funzioni affidate alla cura della pubblica amministrazione”. In questa sentenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Basilicata che trasferiva alla Provincia di Matera determinate funzioni prima esercitate dal Consorzio dei Comuni non montani del Materano, omettendo di dettare una disciplina tale da tenere indenne la Provincia dagli oneri derivanti dalla passata gestione del Consorzio. Al di là del passaggio richiamato dalla Corte, la sent. n. 364/2010 segue un’argomentazione del tutto diversa da quella della sentenza in commento, essendo incentrata sul controllo di ragionevolezza in rapporto ai principi fondamentali della finanza pubblica: non viene infatti censurata la tecnica normativa utilizzata dalla Regione, bensì un’omissione legislativa, che la Corte colma con una pronuncia additiva. Può essere interessante, invece, richiamare un lontano precedente, la sent. n. 101/1986, in cui lo Stato aveva impugnato una legge della Regione Sardegna che faceva salvi una serie di provvedimenti e regolamenti della Regione, senza indicarli espressamente. Secondo il ricorrente, la norma impugnata offriva “supporto normativo e forza di legge a situazioni e disposizioni non chiaramente individuate”, ponendosi così in contrasto con “il principio della certezza del diritto”, che veniva richiamato quale principio generale dell’ordinamento, come tale vincolante la potestà legislativa primaria delle Regioni a Statuto speciale. La pronuncia della Corte, peraltro, si era mo strata in quel caso “del tutto elusiva” in ordine alla possibilità di qualificare la certezza del diritto come principio gene rale dell’ordinamento o, ancor più, come principio costituzionale vincolante anche la potestà legislativa statale (così, a commento della pronuncia, R. GUASTINI, La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, in Reg., 1986, 1090). 21 Per un quadro generale della giurisprudenza costituzionale in materia di qualità della legislazione v. A. VEDA SCHI, Le tecniche legislative e la giurisprudenza della Corte costituzionale, in Iter legis, 1999, 415 ss.; V. PAMIO, Corte costituzionale e tecniche legislative. Il triennio 2002-2004, in Dir. soc., 2005, 75 ss.; P. TORRETTA, Qualità della legge e informazione parlamentare. Contributo allo studio dell’indagine conoscitiva nel procedimento legislativo, Napoli, 2007, 62 ss.; E. LONGO, Il contributo della Corte costituzionale alla qualità della normazione, in P. CARETTI (a cura di), Osservatorio sulle fonti 2007. La qualità della regolazione, Torino, 2009, 51 ss. 22 Cfr. G.M. SALERNO, La tecnica legislativa e la chiarezza normativa nella giurisprudenza costituzionale più recente, in Rass. parl., 1997, 1041. 23 Così R. ROMBOLI, Tecnica legislativa e qualità della legislazione: l’inidoneità del giudizio costituzionale a ve rificarne i vizi, in Foro it., 2008, 1424. 6


nella direzione di un più esteso controllo sulla qualità della legislazione da parte del giudi ce costituzionale. L’evocazione del parametro dell’art. 97, infatti, ha una portata estremamente ampia, essendo potenzialmente utile a censurare la cattiva formulazione di tutte le leggi che pretendono di indirizzare e delimitare la discrezionalità amministrativa, ben al di là degli ambiti piuttosto ristretti entro cui, come si è detto, è stato sinora confinato il controllo sulla chiarezza della legislazione. Ugualmente, nel caso in esame, la scadente qualità legislativa non è fatta oggetto di un semplice richiamo al legislatore a curare la qualità del prodotto legislativo, né viene richiamata ad abundatiam, bensì costituisce la ragione determinante della dichiarazione di incostituzionalità. Il carattere innovativo della pronuncia è in parte ridimensionato dalla considerazione che, in alcuni passaggi, il giudizio della Corte, più che a uno scrutinio sulla tecnica normativa utilizzata, assomiglia piuttosto a un giudizio di ragionevolezza 24, necessariamente condotto alla luce dell’evocato art. 97, anziché del più consueto art. 3, non invocato dal ricor rente. Ciò emerge, in particolare, quando la Corte parla di un “manifestamente irrazionale esercizio della discrezionalità legislativa”, di una normativa “continuamente mutevole, e, soprattutto, non sorretta da alcun interesse di rilievo regionale degno di giustificare una legislazione così ondivaga”, nonché quando sottolinea che “la frammentarietà del quadro normativo in tal modo originato non è giustificabile alla luce di alcun interesse, desumibile dalla legislazione regionale, a orientare in modo non univoco l’esercizio della discrezionali tà legislativa, così da accordarla a necessità imposte dallo scorrere del tempo”. In questi passaggi la Corte, anche nella terminologia utilizzata, sembra operare un giudizio sulla ragionevolezza nell’uso della discrezionalità legislativa: continuare a introdurre e revocare un divieto è irragionevole, e quindi incostituzionale, nella misura in cui ciò non sia giustifi cato dal perseguimento di un qualche interesse meritevole di tutela che giustifichi tale comportamento ondivago. Così, la Corte sembra censurare più il contenuto della volontà legislativa che non le modalità con cui essa si è manifestata. Tuttavia, la sentenza non soltanto è chiara nell’individuare nell’art. 97 il solo parametro violato25, ma lo è anche nell’affermare che tale violazione dipende dall’adozione di “una disciplina normativa foriera di incertezze”, soprattutto in relazione alla “tecnica, di per sé dagli esiti incerti, del differimento di un termine abrogativo già interamente maturato”, che porta alla riviviscenza di una normativa abrogata, che “può generare «conseguenze imprevedibili» […], valutabili anche con riguardo all’obbligo del legislatore di assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione”. In questi passaggi, così come quando la Corte parla di “una normativa difficilmente ricostruibile da parte dell’amministrazione”, le censure del giudice costituzionale sembrano invece appuntarsi proprio sulla maniera oscura e inintelligibile con cui si è espressa la volontà legislativa, prima ancora che sul suo contenuto. 24 Sulla possibilità che il giudizio di ragionevolezza possa in parte compensare l’impossibilità di configurare la violazione delle regole sulla qualità della legislazione come autonomo vizio di costituzionalità v. A. D’ALOIA, P. MAZZINA, Qualità della legge e giustizia costituzionale: appunti intorno ad una questione aperta, in V. COCOZZA, S. STAIANO (a cura di), I rapporti tra Parlamento e Governo attraverso le fonti del diritto. La prospettiva della giurisprudenza costituzionale, Torino, 2001, 866, e, recentemente, F. DAL CANTO, Formazione e valutazione della legge. La qualità della normazione nelle fasi di formazione e valutazione, relazione al Seminario del Gruppo di Pisa, “La tecnica normativa tra legislatore e giudici”, Novara, 15-16 novembre 2013, in www.gruppodipisa.it, 21. Per un caso recente in cui, pur riconoscendo che la norma impugnata ha “una portata incerta e indefinibile” che “pone le Regioni in una condizione di obiettiva incertezza”, la Corte affronta la questione sotto il profilo della ragionevolezza, anziché sotto quello della chiarezza normativa v. la sent. n. 200/2012, sul principio della liberalizzazione delle attività economiche, punto 8 del Considerato. 25 Sottolinea questo aspetto M. PICCHI, Tecniche normative e tutela del buon andamento della pubblica amministrazione: dalla Corte costituzionale un nuovo impulso per preservare la certezza del diritto (osservazioni a margine della sentenza n. 70/2013), in www.federalismi.it, 23 ottobre 2013, 6 e 12, dove si evidenzia come la Corte costituzionale abbia “riconosciuto al principio del buon andamento della pubblica amministrazione il valore di parametro di per sé sufficiente a limitare la discrezionalità del legislatore sotto il profilo della tecnica normativa utilizzata”. 7


5. La sentenza in esame, legando in una relazione di causa-effetto la cattiva qualità della legislazione e la violazione dell’art. 97 Cost., rappresenta ad oggi forse il punto più avanzato del controllo del giudice costituzionale sulla qualità della legislazione. A questa pronuncia la Corte è giunta, come si è visto, in circostanze del tutto peculiari, almeno sotto due profili. Da una parte, non può sottovalutarsi il carattere esasperatamente contorto della tecnica legislativa seguita dalla Regione Campania, che rende plausibile il sospetto di un’operazione sostanzialmente fraudolenta volta ad aggirare il giudizio di legittimità costi tuzionale, o comunque a perseguire altri non dichiarabili interessi. Dall’altra, occorre ricordare come l’impostazione della decisione sia stata fortemente condizionata dalla formulazione del ricorso, che, non evocando quale parametro l’art. 3 e il canone della ragionevo lezza, non denuncia tanto l’irrazionalità dell’atteggiamento ondivago della legislazione campana, quanto piuttosto le ricadute negative di una tecnica legislativa inappropriata sul buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa. Al di là delle peculiarità del caso in esame, tuttavia, la decisione della Corte contie ne, come si è detto, una forte potenzialità espansiva e non è da escludere, ed è anzi auspicabile, che la pronuncia in commento possa preludere a un controllo più ampio e più ri goroso da parte del giudice costituzionale sulla qualità della legislazione, statale o regionale che sia, superando la tendenziale cautela che la Corte ha sinora mostrato in questo ambito. Da questo punto di vista, il giudizio in via principale, più di quello in via incidentale, può costituire uno strumento efficace di controllo reciproco sulla chiarezza della legislazione regionale e statale a beneficio del buon andamento della pubblica amministrazione e dei diritti dei cittadini26. Nel giudizio in via incidentale, infatti, l’obbligo per il giudice a quo di esperire il tentativo di interpretare una legge oscura in maniera conforme alla Costituzione fa sì che spesso alla cattiva redazione delle leggi ponga rimedio il giudice ordinario in via interpretativa anziché il giudice costituzionale con una pronuncia caducatoria. Del resto, non mancano i casi in cui è stata la Corte stessa, posta di fronte a questioni di legittimità costituzionale concernenti la scarsa chiarezza del testo legislativo, ad affidare ai giudici il compito di chiarire il significato di formulazioni normative oscure, attraverso pronunce di rigetto, spesso accompagnate da un invito al legislatore ad una maggior precisione nella scrittura delle leggi27. Nel giudizio in via principale, invece, dove manca questo dialogo fra la Corte e i giudici ordinari e dove la possibilità dell’interpretazione conforme non è di ostacolo al promovimento di una questione di legittimità costituzionale 28, la Corte dispone certamente un numero maggiore di occasioni per pronunciarsi sulla chiarezza del dettato legislativo e sulle sue ricadute su altri beni di rango costituzionale, come, nel caso in esame, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. 26 Una posizione di scetticismo rispetto al contributo che il giudizio di legittimità costituzionale può offrire al ri spetto delle regole di tecnica normativa è stata invece espressa da R. ROMBOLI, Tecnica legislativa, cit., 1425. Nello stesso senso, precedentemente, cfr. V. CAIANIELLO, Il drafting delle leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Riv. trim. sc. amm., 1999, 26, che giudica “inappropriata e poco proficua l’utilizzazione a tal fine del controllo di costituzionalità delle leggi che risponde ad esigenze diverse da quelle riguardanti la loro redazione”, e F. SORRENTINO, Incertezza del diritto o mera oscurità della legge?, in Giur. cost., 1986, 566, che, a commento della sent. n. 101/1986 cit. a nota 20, ritiene difficile da immaginare che “il nodo” della corretta confezione delle leggi “possa essere sciolto con la spada della dichiarazione di incostituzionalità”. 27 Cfr. G.M. SALERNO, La tecnica legislativa, cit., 1052 ss., che esamina, in particolare, le sentt. nn. 364/1996, 388/1996 e 6/1997, criticando il self restraint della Corte. Come nota P. COSTANZO, Il fondamento costituzionale della qualità della normazione (con riferimenti comparati e all’UE), in AA.VV., Studi in memoria di Giuseppe G. Floridia, Napoli, 2009, 183, “un disincentivo alla sollevazione di questioni può essere derivato proprio dal rinvio effettuato dalla Corte alla tecnica interpretativa propria dei giudici come via d’uscita immediata dal tunnel della legge oscura”. 28 Su questo profilo, e sul ruolo delle sentenze interpretative di rigetto nel giudizio in via principale di cui subito infra, rinvio al mio Le sentenze interpretative di rigetto (e di inammissibilità) nel giudizio in via principale, in Giur. it., 2013, 1519 ss. 8


A ciò si aggiunga che un certo contributo della Corte costituzionale alla chiarezza normativa già avviene attraverso la tecnica delle sentenze interpretative di rigetto, con cui la Corte può efficacemente orientare l’interpretazione di una disposizione oscura e rimediare così, entro certi limiti, alla cattiva redazione delle leggi 29. La sentenza in commento offre ora un rimedio ulteriore, più drastico, dalla maggiore valenza sanzionatoria e certamente più consono al ruolo della Corte costituzionale 30, che, se ben sfruttato dallo Stato e dalle Regioni31, può contribuire a fare del giudizio in via principale uno strumento significativo per il miglioramento della qualità e della chiarezza delle leggi. * Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale nell’Università del Piemonte Orientale davide.paris@unipmn.it

29 Sul perseguimento della chiarezza normativa “non mediante la cancellazione delle disposizioni mal redatte, ma attraverso la correzione – posta in essere mediante l’attività interpretativa ed argomentativa della Corte costituzionale – delle disposizioni medesime verso i principi costituzionali” v., con riferimento al giudizio in via incidentale, G.M. SALERNO, La tecnica legislativa, cit., 1068 s., che cita quale esempio paradigmatico la sent. n. 312/1996. 30 Sulla possibilità che, a fronte di una produzione normativa (statale) assolutamente caotica, il giudizio in via principale diventi “il luogo nel quale si dipana la matassa legislativa prodotta da un legislatore statale sempre meno attento, almeno in termini di qualità della legislazione” v., criticamente, E. ROSSI, Parametro e oggetto, cit., 154 e 179, dove si paventa il rischio che l’impugnazione in via principale possa trasformarsi “in una sorta di richiesta di attestazione della correttezza della ricostruzione del dettato legislativo in un determinato ambito, ovvero di verifica autorevole di ciò che è vigente e ciò che non lo è” (corsivo nel testo). 31 Naturalmente, qualora fosse una Regione a impugnare una legge statale invocando l’art. 97 Cost. sotto il profilo qui in esame, dovrebbe dimostrare, trattandosi di un parametro diverso da quelli contenuti nel Titolo V della Parte se conda della Costituzione, la “ridondanza” dell’asserita violazione sul riparto di competenze tra Stato e Regioni, indican do le specifiche competenze lese e le ragioni di tale violazione. L’ostacolo, peraltro, non sembra insuperabile e, comun que, non può che essere valutato caso per caso. 9


“Oltre le apparenze”: Corte costituzionale e Corte di Strasburgo “sintoniche” sull’(in)effettività dei diritti dei detenuti in carcere * di Elena Malfatti (16 dicembre 2013)

Con la sent. n. 279/2013 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano – investiti dalle istanze di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena presentate da due soggetti detenuti in strutture carcerarie che non garantivano loro, non solo una superficie minima “desiderabile”, ma nemmeno uno spazio “vitale” secondo gli standards internazionali ed in particolare quelli stabiliti dalla Corte di Strasburgo - in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen. (che consente solo in ipotesi espressamente e tassativamente contemplate il suddetto rinvio); di tale previsione i giudici a quibus dubitavano con riferimento a diversi parametri costituzionali, tra i quali quelli degli artt. 27, terzo comma e 117, primo comma, Cost., invocati per affermare il contrasto del nostro ordinamento penale (anche) con l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella misura in cui l’ordinamento medesimo non risulterebbe dotato di strumenti atti ad impedire il protrarsi di trattamenti detentivi contrari al senso di umanità. Sono così andate deluse – almeno apparentemente - le aspettative createsi a seguito della nota pronuncia Torreggiani c. Italia, divenuta definitiva il 27 maggio 2013, di condanna (per molti “annunciata”) del nostro Paese, da parte della stessa Corte di Strasburgo, per la violazione del diritto dei detenuti a beneficiare di condizioni detentive adeguate; una condanna maturata attraverso il meccanismo c.d. della sentenza-pilota, con il quale si è chiesto allo Stato soccombente di istituire entro un anno (nel frattempo differendo la Corte l’esame delle analoghe cause pendenti) rimedi interni idonei a fornire riparazione (a sua volta) adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, creando un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi delle violazioni della Convenzione europea: quella della Corte costituzionale, nel senso auspicato dell’accoglimento “additivo”, avrebbe infatti potuto costituire una prima risposta – in assenza, finora (e in attesa, ancora), di un organico intervento del legislatore sui diversi fronti sui quali, in astratto, sarebbe possibile intervenire (ovvero, come da più parti messo in evidenza, depenalizzazione, regime della custodia cautelare, misure alternative alla detenzione, esecuzione della pena, provvedimenti generali di clemenza) - al problema denunciato a Strasburgo, che è problema sistemico (come sottolineato pure dal Capo dello Stato nel messaggio presidenziale dell’8 ottobre 2013, che non ha mancato di stigmatizzarlo, facendone risaltare la «intollerabilità») risultante dal malfunzionamento ormai cronico del sistema penitenziario italiano. La pronuncia dei Giudici della Consulta, riguardata nella sua motivazione, risulta tuttavia molto più significativa di quanto non appaia dal mero dispositivo, se si considerano, per un verso, l’argomento che impedisce alla Corte di accogliere le questioni sottopostele (che non è certo un argomento nel senso dell’infondatezza, ma discende esclusivamente dalla * Scritto sottoposto a referee.


pluralità di soluzioni normative che potrebbero essere adottate); per un altro verso, il tenore lapidario con cui la Corte, dapprima, evoca un rimedio estremo, che permetta la fuoriuscita dei detenuti dal circuito carcerario [richiamando proprio la sentenza Torreggiani la quale, pur riconoscendo il vulnus lamentato in giudizio - per l’ineffettività nella pratica del rimedio costituito dal reclamo al magistrato di sorveglianza, in virtù degli artt. 35 e 69 della legge italiana sull’ordinamento penitenziario – aveva in verità declinato con un tenore più generico le proprie affermazioni, sulla scorta della pregressa giurisprudenza in materia (lorsque l’État n’est pas en mesure de garantir à chaque détenu des conditions de détention conformes à l’article 3 de la Convention, la Cour l’encourage à agir de sorte à réduire le nombre de personnes incarcérées (…)), Torreggiani et autres c. Italie, 8 gennaio 2013, par. 94)]. Finendo poi per affermare – dopo aver riconosciuto come un intervento combinato sui sistemi penale, processuale e dell’ordinamento penitenziario richieda del tempo, mentre l’attuale situazione non può protrarsi ulteriormente, apparendo necessaria la sollecita introduzione di misure specificamente mirate - che «non sarebbe tollerabile» l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella stessa pronuncia. In tal modo, la Corte riprende testualmente una precedente sua decisione (sent. n. 23/2013, sul tema differente e delicato della sospensione del corso della prescrizione estintiva dei reati, laddove sia accertata l’irreversibile incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo), nella quale pure aveva dichiarato l’inammissibilità della questione per le molteplici possibilità di intervento normativo in materia, ma ancor più esplicitamente invocando una valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario, e conseguentemente formulando un severo monito (come opportunamente gli studiosi del diritto penale hanno osservato) al potere politico ad intervenire in materia. E’ altrettanto una discrezionalità nel quomodo – non nell’an dell’intervento parlamentare – ad illuminare, direi, la sentenza qui in commento, oltreché il durissimo comunicato stampa con il quale la Corte era intervenuta il 9 ottobre scorso, preannunciandola (il giorno successivo al messaggio del Presidente Napolitano, con una tempistica che non è probabilmente trascurabile): non limitandosi essa a sottolineare come il legislatore avrebbe dovuto (dovrà) intervenire nel più breve tempo possibile a porre rimedio al grave problema sollevato dai ricorrenti, ma giungendo ad affermare come, nel caso di (ulteriore) inerzia legislativa, la Corte si riservi di adottare in un eventuale successivo procedimento le necessarie decisioni dirette a far «cessare l’esecuzione della pena» in condizioni contrarie al senso di umanità. Il fraseggio della Corte, fermo nella motivazione della pronuncia in esame, inequivocabile nel comunicato stampa che l’ha preceduta, consente a mio avviso di “riallineare” la sent. n. 279/2013 alle forti esortazioni che, sul fronte del sovraffollamento carcerario, giungono ormai da anni al nostro Paese (non solo dalla Corte di Strasburgo ma, nelle sue diverse articolazioni) dal Consiglio d’Europa, come pure dal Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite; è un fraseggio che permette altresì, mi parrebbe, di ricondurre la decisione all’alveo di quelle più incisive pronunce che, dopo Torreggiani (e, forse, anche grazie a Torreggiani), la Corte costituzionale ha emanato nell’anno in corso, con riguardo a vicende


che parimenti coinvolgevano i diritti fondamentali dei detenuti e la loro (in)effettività, ovvero le sentt. nn. 135 e 143/2013. Sono state queste vicende, infatti [la prima, che ha dato vita a un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, insorto tra Magistrato di sorveglianza di Roma e Ministro della giustizia, per un provvedimento assunto dall’Amministrazione penitenziaria; la seconda, che si è tradotta in un giudizio in via incidentale], a costituire l’occasione per la nostra Corte, da un lato, per ribadire il carattere di rimedio generale proprio del reclamo al magistrato di sorveglianza, esperibile da tutti i detenuti - anche da quelli (come nel caso di specie) assoggettati al regime del c.d. carcere duro - quale strumento di garanzia giurisdizionale dei loro diritti; aggiungendo poi che le decisioni sui reclami devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici, come invece censurato nella prassi italiana dalla Corte Edu con la sentenza Torreggiani. Dall’altro lato, per qualificare le proprie affermazioni come addirittura “sintoniche” con quelle dei Giudici europei, sul più specifico fronte del diritto di difesa del detenuto (ex artt. 24 Cost. e 6 Cedu, quest’ultimo non invocato dal remittente Magistrato di sorveglianza di Viterbo, ma richiamato direttamente dalla Corte); diritto che comprenderebbe immancabilmente la difesa tecnica e quindi il diritto di conferire con il difensore, al fine di conoscere (tutti) i propri (ulteriori) diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli, senza che possa esserne compromessa l’effettività (e qui si torna al nodo di fondo), la quale costituisce «il limite invalicabile» ad eventuali operazioni di modulazione o limitazione dell’esercizio del diritto di difesa, tanto più di soggetti vulnerabili quali le persone ristrette in ambito penitenziario, da parte del legislatore. Così facendo, tra l’altro, la Corte costituzionale sembra privilegiare elementi di sostanza, piuttosto che gli ormai consueti canoni del raccordo con la dimensione sovranazionale, come noto sviluppati e poi raffinati a far luogo dalle sentt. nn. 348 e 349/2007 [schematicamente, tentativo di interpretazione convenzionalmente conforme delle norme di diritto interne che grava sul giudice comune, eventuale giudizio di compatibilità della Convenzione con i principi fondamentali del nostro ordinamento (ed eventuale bilanciamento tra diritti convenzionalmente protetti che vengano di volta in volta in considerazione con altre esigenze di rango costituzionale) riservato alla Corte costituzionale, “margine di apprezzamento e di adeguamento” che consenta alla stessa Corte di tener conto delle peculiarità del contesto in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi]; canoni dei quali, pure, c’è qualche rapido accenno nelle decisioni più recenti (sì che di un “dialogo fecondo” tra le Corti ha scritto prontamente un autorevole commentatore): in un gioco di rimandi, alla propria giurisprudenza e a quella di Strasburgo (di cui la sent. n. 279/2013 rappresenta semplicemente l’avamposto), in tutti e tre i casi più recenti la Corte costituzionale finisce per attingere a piene mani ai dati e alla complessità della realtà carceraria, per argomentare, anche de facto, l’incompatibilità delle previsioni e del provvedimento interni che sono stati portati al suo giudizio con l’esigenza di una tutela effettiva. Mutuando un’espressione della Corte, «lo statuto costituzionale e quello convenzionale» dei diritti dei detenuti (sent. n. 279/2013, punto 7.1 del Considerato in diritto, che riferisce testualmente tale statuto al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità) convergono


sull’esigenza che l’ordinamento appresti ai medesimi diritti le necessarie garanzie, dovendosi peraltro inserire tutti gli interventi dell’amministrazione penitenziaria in un contesto analogo di tutela effettiva. Senza garanzie di effettività della tutela, potremmo dire leggendo in tralice la giurisprudenza costituzionale dell’ultimo periodo, tutta la costruzione ordinamentale italiana dei diritti nella realtà carceraria - che pure nel corso degli anni si è giovata di un dibattito dotto, così come di apprezzabili contributi e suggestioni del foro, utili allo scopo di ricondurre le diverse norme ad un quadro più pregnante ed univoco – rischierebbe di ridursi a un guscio vuoto; e in quest’ottica il superamento della situazione attuale, costituita dal sovraffollamento quasi endemico degli istituti di pena (finora affrontato con scarso successo, come si ricorderà, con alcuni discussi interventi del Governo, “emergenza carceri” (d.l. n. 211/2011) e “svuota carceri” (d.l. 78/2013)), diventa a sua volta una sorta di pre-condizione, il cui rispetto (con nuove soluzioni organizzative e l’adozione di buone prassi, con rapida cessazione delle violazioni ormai perpetrate e ristoro dei pregiudizi subiti, come insegna la giurisprudenza europea) appare ineludibile, per non confinare il riferimento ai diritti (e – lo ha evidenziato la più avvertita dottrina - alle stesse possibilità di espansione della personalità dei soggetti privati della libertà personale), sul terreno della pura retorica.


PORTOGALLO. La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 381, 1º comma, del Codice di Procedura Penale * di Giovanni Vagli (15 dicembre 2013) I - La legge 21 febbraio 2013, n. 20, che ha riformato il CPP portoghese, ha dato all’art. 381 dello stesso codice, il seguente contenuto 1: «1. - È processato secondo il rito sommario chi viene arrestato in flagranza di reato, ai sensi degli articoli 255 e 256: a) quando l’arresto sia stato effettuato da qualunque autorità giudiziaria o ente di polizia; b) quando l’arresto sia stato effettuato da altro soggetto e, entro il termine non eccedente le due ore, l’arrestato sia stato consegnato ad un’autorità giudiziaria o ente di polizia e sia stato redatto verbale sommario di consegna. 2. – Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano agli arrestati in flagranza di reato per i reati di cui alla lettera m) dell’articolo 1 o per reati previsti nel titolo III e nel capitolo I del titolo v del libro II del Codice Penale e nella Legge Penale relativa alle Violazioni del Diritto Internazionale Umanitario.» Detta norma è stata oggetto di sindacato di costituzionalità da parte del Tribunale costituzionale portoghese (TC) per tre volte, sulla base di ricorsi presentati in sede di giustizia penale: vedremo tra breve le implicazioni che ciò comporta. II - Con la sentenza n. 428/13 2, il TC ha inteso «giudicare incostituzionale la norma di cui all’art. 381, 1º comma, del Codice di Procedura penale, nella redazione introdotta dalla Legge 21 febbraio 2013, n. 20, secondo l’interpretazione per la quale il processo sommario ivi previsto è applicabile ai reati la cui pena massima astrattamente applicabile sia superiore a cinque anni di reclusione, per violazione dell’articolo 32, commi 1º e 2º, della Costituzione»; nella sentenza n.º 469/13, lo stesso organo, ha aggiunto agli argomenti utilizzati nella sentenza dianzi citata anche il seguente: «senza che il Pubblico Ministero abbia utilizzato il meccanismo di limitazione della pena da applicare in concreto ad un massimo di cinque anni di reclusione, meccanismo previsto dall’art. 16, 3º comma, del CPP.» In entrambi i casi il TC ha ritenuto che tali disposizioni violassero le garanzie di difesa dell’imputato, così come sono previste dall’art. 32, commi 1º e 2º, della Costituzione portoghese (CRP). * Scritto sottoposto a referee. La stesura del presente lavoro è stata possibile grazie al contributo della Fundação para a Ciência e a Tecnologia. 1 Traduzione nostra, come tutte le altre contenute nel testo.

2 Tutte le sentenze del TC sono reperibili in www.tribunalconstitucional.pt.


Vediamo quindi come si esprimono tali norme costituzionali 3: «1. – Il processo penale assicura tutte le garanzie di difesa, compreso il ricorso. 2. – Si presume l’innocenza di tutti gli imputati, sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, dovendo il processo essere il più breve possibile compatibilmente con le garanzie di difesa.» La disposizione processualistica in esame è stata giudicata incostituzionale per la terza volta dal TC nell’ambito della sentenza n. 828/2013, che ha preso il via da un ricorso obbligatorio, presentato dal Pubblico Ministero di Guimarães contro una decisione della Corte d’Appello della stessa circoscrizione giudiziaria, la quale aveva giudicato incostituzionale 4 l’art. 381, 1º comma, CPP, per i motivi già visti, proferendo a tal fine l’annullamento del processo e della sentenza di 1º grado ed ordinando il proseguimento del processo secondo il rito comune. Nel corso della terza decisione sulla norma in esame, il TC, rifacendosi ai casi precedenti, ha ribadito che «il principio della celerità processuale non è un valore assoluto e deve essere compatibile con le garanzie di difesa dell’imputato. Alla luce del principio previsto dall’art. 32, 2º comma, della Costituzione non è consentito affermare che il rito sommario, meno solenne e garantistico, possa essere applicato a tutti gli imputati arrestati in flagranza di reato, indipendentemente dalla pena applicabile. Tanto più che, lo stesso rito comune, quando sia applicabile ai reati ai quali corrisponda una pena detentiva superiore a cinque anni, prevede dei meccanismi di accelerazione processuale per effetto dei limiti imposti alla durata delle misure di coazione che siano applicabili al caso di specie (articoli 215 e 218 CPP).» A ciò il TC ha poi aggiunto che la soluzione adottata dal legislatore «fa dipendere l’attribuzione della competenza del giudizio, per ciò che concerne i reati la cui pena massima astrattamente applicabile sia superiore a cinque anni, dal fatto incidentale, ed estraneo all’oggetto materiale della conoscenza da parte del Tribunale, dell’arresto in flagranza di reato. … / deduciamo che questo fatto, estraneo alla sostanza del litigio, finisce per determinare che, in modo disuguale ed iniquo, fatti della stessa natura e gravità, siano giudicati, distintamente, da un tribunale monocratico o da un tribunale collettivo, a seconda che, rispettivamente, l’imputato sia stato o meno arrestato in flagranza di reato. / … Dopo aver assunto che il giudizio di fronte ad un giudice monocratico offra minori garanzie di difesa per l’imputato di quanto offra il giudizio di fronte ad un tribunale collettivo, dobbiamo concludere che la nuova redazione del 1º comma dell’art. 381 del Codice di Procedura Penale, nella misura in cui permette che un imputato – arrestato in flagranza di reato per aver commesso un reato per il quale sia, astrattamente, applicabile una pena detentiva superiore a cinque anni – sia giudicato da un tribunale monocratico, non garantisce a tale imputato “tutte le garanzie di difesa”, dato che non gli garantisce il giudizio di fronte ad un tribunale collettivo, il quale gli 3 L’epigrafe dell’art. 32 CRP è «Garanzie del processo penale».

4 Forse è superfluo ricordarlo, ma in Portogallo vige pure il controllo diffuso della costituzionalità, essendo obbligatorio per i giudici rifiutare l’applicazione di una norma che ritengano incostituzionale (cfr. art. 204 CRP).


verrebbe garantito nel caso in cui non fosse stato arrestato in flagranza di reato. … Pertanto, si verifica ugualmente l’incostituzionalità della norma in esame per violazione del principio di uguaglianza delle garanzie del processo penale, risultante dalla combinazione del disposto degli articoli 13, 1º comma5, e 32, 1º comma, della Costituzione della Repubblica portoghese, risultante dalla trasgressione della dimensione della proibizione dell’arbitrio, nella misura in cui il legislatore ordinario ha deciso di trattare in modo differente (con ingiustificata diminuzione delle garanzie di difesa dell’imputato) situazioni che sono sostanzialmente uguali.»6 Nella motivazione della sentenza n. 828/2013, il TC si rifà esplicitamente alla sua precedente decisione n. 428/2013, riportandone testualmente il contenuto di alcune parti: «… La prima questione di costituzionalità che pone il nuovo criterio legale definito per l’ambito di giudizio nel procedimento sommario è quella delle garanzie di difesa dell’imputato. / Ai sensi dell’art. 32, 1º comma, della Costituzione il “processo penale assicura tutte le garanzie di difesa all’imputato”, il che comprende senza dubbio “tutti i diritti e gli strumenti necessari e adeguati affinché l’imputato difenda la propria posizione e si opponga all’accusa”7 … Il 2º comma dello stesso articolo, che associa il principio di presunzione dell’innocenza dell’imputato all’obbligatorietà di giudizio “nel più breve termine compatibilmente con le garanzie di difesa … ha quale oggetto il diritto ad un processo celere, partendo dalla prospettiva secondo cui l’eccessiva durata del processo penale, oltre che prolungare la condizione di sospetto e le misure coattive inerenti all’imputato, finirà per eliminare un senso ed un contenuto utile al principio di presunzione di innocenza 8 … / Le necessità di celerità processuale non possono, di conseguenza, evitare di rapportarsi con le garanzie di difesa, in quanto la Costituzione, in virtù del menzionato 2º comma dell’art. 32, dà speciale valore alla protezione delle garanzie di difesa a scapito della celerità processuale. Il che permette di definire la forma ideale del processo come il risultato di una tensione dialettica tra questi due fini costituzionalmente garantiti9 … / La forma del rito sommario corrisponde ad un 5 L’epigrafe dell’art. 13 CRP è «Principio di Uguaglianza»; il primo comma di tale disposizione recita: «Tutti i cittadini hanno uguale dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge.»

6 Il grassetto viene utilizzato dallo stesso TC, non si tratta di una nostra evidenziazione.

7 La sentenza cita la seguente dottrina: J.J. Gomes Canotilho / Vital Moreira, Constituição da República Portuguesa Anotada, vol. I, 4ª ed., p. 516.

8 Ibidem, p. 519.

9 Al riguardo, il TC cita la seguente dottrina: A. De Sousa Pinheiro / P. Saragoça Da Matta, Algumas notas sobre o processo penal na forma sumária, “Revista do Ministério Público”, ano. 16º, Julho-Setembro de 1995, n.º 63, p. 160.


procedimento accelerato quanto ai termini applicabili e semplificato quanto alle formalità esigibili … / Come il Tribunale costituzionale ha riconosciuto, il giudizio di fronte ad un tribunale monocratico offre all’imputato minori garanzie di difesa rispetto ad un tribunale collettivo, in primo luogo perché aumenta il margine di errore quanto all’apprezzamento dei fatti ed alla possibilità di una decisione meno giusta (tra le altre, si vedano le sentenze n. 393/89 e n. 326/90). E per ragioni inerenti alla stessa organizzazione giudiziaria, il tribunale monocratico sarà normalmente costituito da un giudice che si trova all’inizio della carriera, con minore esperienza professionale, il che potrà facilitare una minore qualità della decisione in confronto con le altre situazioni in cui intervenga un organo collegiale … / Da ciò deriva che la scelta legislativa relativa al rito sommario debba sempre essere limitata dal potere di condanna del giudice definito in funzione di un criterio quantitativo della pena da applicare, potendosi solo in questo modo accettare – come la giurisprudenza costituzionale ha pure sottolineato – che non si possa parlare, in tal caso, di una restrizione intollerabile delle garanzie di difesa dell’imputato. / Inoltre, la prova diretta del reato in conseguenza della flagranza di reato, sebbene faciliti la dimostrazione dei fatti giuridicamente rilevanti al fine dell’esistenza del reato e della punibilità dell’imputato, potrà non eliminare la complessità fattuale relativa agli aspetti che rilevano per la determinazione e per la misura della pena o per la sua attenuazione speciale, in particolare quando si riferiscono alla personalità dell’imputato, alla motivazione del reato ed alle circostanze precedenti e successive ai fatti che possano diminuire in modo accentuato l’illiceità del fatto o la colpa dell’imputato stesso. / E allorché sia in causa un tipo di criminalità grave, alla quale possa corrispondere la pena più elevata, niente giustifica che la situazione di flagranza di reato possa, di per sé, implicare un aggravamento dello status processuale dell’imputato con conseguente limitazione dei diritti di difesa e la sottoposizione ad una modalità processuale che implichi minori garanzie di una giusta decisione. / … il principio della celerità processuale non costituisce un valore assoluto e deve essere reso compatibile con le garanzie di difesa dell’imputato. / La soluzione legislativa viola quindi le garanzie di difesa dell’imputato, ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 32, commi 1º e 2º, della Costituzione.” Il TC ha perciò sancito, per la terza volta, l’incostituzionalità della norma in causa. Segnaliamo che le decisioni in tal senso sono state prese dalla 3ª sezione (sentenze n. 428/2013 e n. 469/2013) e dalla 2ª sezione (sentenza n. 828/2013). Si tratta in tutti i casi di decisioni proferite sulla base di ricorsi presentati ai sensi dell’art. 70, 1º comma, della legge sull’organizzazione, il funzionamento ed il processo del Tribunale costituzionale (LTC)10, il quale dispone che possono impugnarsi le decisioni che rifiutino l’applicazione di qualsiasi norma in base 10 Legge 15 novembre 1982, n. 28 e successive modifiche. Trattasi di una legge organica. Ai sensi del 3º comma dell’art. 112 CRP (“Atti normativi”), «Hanno valore rinforzato, oltre alle leggi organiche, le leggi che necessitano di approvazione a maggioranza dei due terzi, ed anche quelle che, ai sensi della Costituzione, siano il presupposto normativo necessario di altre leggi o che debbano essere rispettate da altre.»; l’art. 168, 5º comma, CRP dispone che «Le leggi organiche, nella votazione finale generale, necessitano di approvazione a maggioranza assoluta dei Deputati in effettività di funzioni …».


all’incostituzionalità della stessa; la competenza a decidere sul ricorso è, per l’appunto, del Tribunale costituzionale in sezione. Vediamo adesso le conseguenze di tutto ciò. III - L’art. 281, 3º comma, della CRP sostiene che “Il Tribunale costituzionale svolge l’apprezzamento e dichiara pure, con forza obbligatoria generale, l’incostituzionalità o l’illegalità di qualunque norma, allorché tale norma sia stata da esso giudicata incostituzionale o illegale in tre casi concreti.» Tale disposizione ha dato adito a varie interpretazioni, e non sussiste in dottrina un consenso pacifico circa la sua effettiva applicazione 11. Tuttavia, l’art. 82 della LTC ci viene in soccorso e, per lo meno apparentemente, ha risolto la situazione approvando una soluzione concreta in merito all’argomento in esame. Esso dispone che «Ogni qualvolta la stessa norma sia stata giudicata incostituzionale o illegale in tre casi concreti, il Tribunale costituzionale, per iniziativa di uno qualunque dei suoi giudici o del Pubblico Ministero, può promuovere l’istanza di un processo con le copie delle corrispondenti decisioni, il quale viene consegnato al suo Presidente, seguendosi i termini del processo di controllo astratto successivo della costituzionalità o della legalità, previsti nella presente legge.” La competenza a decidere è dell’organo in composizione plenaria e non potrebbe essere diversamente, trattandosi di una decisione con forza obbligatoria generale12. Come indicato dall’art. 82 LTC, si tratta comunque di una mera eventualità e non di un procedimento obbligatorio, nella misura in cui si afferma che “Il Tribunale costituzionale …. può promuovere …” e non “deve promuovere”: non ci sembra che detta espressione lasci spazio a incertezze esegetiche. Dubbi di incostituzionalità sull’art. 82 LTC sono sorti nella misura in cui esso prevede che siano gli stessi giudici del TC a sollevare la questione che porta allo svolgimento di un nuovo processo, nell’ambito del quale saranno essi stessi a pronunciarsi; in effetti il carattere di organo accentrato super partes del TC viene messo in crisi laddove sussista una coincidenza tra organo giudicante ed organo proponente; inoltre, la prerogativa di attivazione di un’istanza prevista dall’art. 82 LTC collide pure col carattere puramente giurisdizionale del TC 13. Qualcuno ha sostenuto, a giustificazione di tale prerogativa, che essa costituisca una sorta di eccezione al principio di iniziativa esterna 14; altri hanno 11 Sul tema si rimanda al nostro lavoro L’evoluzione del sistema di giustizia costituzionale in Portogallo, Pisa, 2001, pp. 158 e seguenti (e dottrina ivi citata).

12 L’art. 224, 2º comma, CRP recita: «La legge può determinare il funzionamento del Tribunale costituzionale in sezioni, salvo agli effetti del controllo astratto di costituzionalità e di legalità.»

13 La funzione giurisdizionale del TC si evince in modo ineluttabile dalla stessa CRP; l’art. 209 CRP (la cui epigrafe è “Categorie dei Tribunali”) sostiene che «Oltre al Tribunale costituzionale, esistono le seguenti categorie di tribunali: …”; a scanso di equivoci, riportiamo che l’art. 209 CRP si inserisce nel Capitolo II (la cui epigrafe è “Organizzazione dei tribunali”) del Titolo V (la cui epigrafe è “Tribunali”): mi sembra più che evidente la qualificazione voluta dal legislatore costituzionale portoghese.


affermato che il potere di iniziativa del Tribunale costituzionale (in realtà, come affermato poc’anzi, il potere è dei singoli giudici, non del TC come organo) si giustifica mediante una ponderazione tra l’opportunità e la convenienza dell’annullamento di una norma, dello stabilizzarsi definitivo di un orientamento giurisprudenziale, con le conseguenze che da esso si possano estrarre, e non attraverso il far operare una norma come limite intrinseco dell’atto 15. La nostra opinione è la seguente 16: l’iniziativa dei singoli giudici del TC va ad incidere sul loro rapporto con la materia su cui sono già intervenute le sentenze emanate nell’ambito del controllo concreto, ma soprattutto ha influenza sulla sentenza che dovrà essere emessa nell’ambito del controllo astratto. Non solo viene meno la distinzione tra autorità giudicante e autorità con potere d’iniziativa, che trova adito nella Costituzione portoghese in qualità di principio giuridico, con tutte le conseguenze immaginabili sotto il profilo dell’obiettività di giudizio, ma oltretutto ciò avviene attraverso una legge ordinaria. Qualora si fosse voluta creare un’eccezione a simile principio, come minimo si sarebbe dovuto operare attraverso una normativa di rango costituzionale 17; il fatto che ciascun giudice del TC possa attivare la procedura inerente al controllo astratto in caso di verifica di tre sentenze sulla stessa norma nell’ambito del controllo concreto infrange non solo il principio della distinzione tra chi giudica e chi detiene il potere d’iniziativa processuale, ma va contro lo stesso art. 281, n. 2, CRP, il quale elenca in modo tassativo i soggetti che godono di tale prerogativa relativamente al controllo successivo astratto 18. Perciò l’iniziativa da parte dei giudici del TC avrebbe dovuto essere inclusa nel n. 3 dell’art. 281, il quale invece si limita ad affermare che il TC, nel caso in cui si verifichino tre giudizi incidentali sullo stesso oggetto normativo da parte dello stesso organo, svolge l’apprezzamento e dichiara l’incostituzionalità con forza obbligatoria generale; il che significa, a nostro avviso, che i soggetti legittimati alla richiesta avrebbero dovuto essere quelli indicati dal 2º comma della stessa disposizione. Si potrebbe obiettare che la natura di detti organi non permetterebbe loro di usufruire in pieno di tale prerogativa, trattandosi in buona parte di organi politici, i quali non possono venire a conoscenza con facilità delle sentenze del TC emanate nell’ambito del controllo concreto; si tratterebbe però di obiezioni di poco conto, in quanto le sentenze del TC hanno quasi sempre una certa risonanza anche se proferite a livello di controllo concreto e comunque sarebbe sufficiente, al fine di ovviare a problemi di sorta, istituire in seno agli organi di cui all’art. 281, 2º comma, CRP, apposite unità operative addette a prendere conoscenza dei precedenti giurisprudenziali, oppure, in alternativa, incaricare di tale funzione il servizio legale degli stessi organi; non condividiamo affatto 14 Vitalino Canas, Os processos de fiscalização da constitucionalidade e da legalidade – natureza e princípios estruturantes, Coimbra, 1996, pp.103-104.

15 M. Galvão Teles, Inconstitucionalidade Preterita, in Nos dez anos da Constituição, opera collettiva a cura di J. Miranda, Lisboa, 1987, p. 335.

16 Ci rifacciamo espressamente a quanto da noi sostenuto in L’evoluzione del sistema di giustizia costituzionale, Pisa, 2001, p. 160, nota 305.


l’opinione espressa dal TC 19 secondo la quale l’art. 281, 3º comma, non elenca i soggetti legittimati alla richiesta del controllo e che quindi tale materia debba intendersi di competenza del legislatore ordinario: l’art. 281, 3º comma, non fa riferimento ai soggetti con legittimazione d’istanza per il semplice motivo che tale compito è svolto dal 2º comma dello stesso articolo. IV – Ci sia consentito concludere questo breve saggio con alcune considerazioni di carattere generale, che, sebbene prendano spunto da certi argomenti utilizzati dal TC nelle sentenze qui citate ed analizzate, ne varcano i confini. 17 In effetti, la CRP prevede eccezioni a principi da essa stessa sanciti; si pensi ad esempio al principio di costituzionalità, per il quale nessuna norma incostituzionale può vigere all’interno dell’ordinamento portoghese, principio sancito in modo diretto dall’art. 3, 3º comma, e, in modo indiretto, dall’art. 204 (su quest’ultima norma cfr. nota 5); a ciò tuttavia costituisce un’eccezione l’art. 277, 2º comma, il quale prevede che l’incostituzionalità organica o formale di trattati internazionali regolarmente ratificati non impedisce l’applicazione delle loro norme sempre che le stesse siano applicate all’interno dell’ordinamento giuridico dell’altra parte e non risultino in contrasto con disposizioni costituzionali fondamentali. Se dal punto di vista del merito di tale disposizione le giustificazioni che si possono addurre risiedono nella volontà di evitare le gravi conseguenze che deriverebbero dalla dichiarazione di nullità di un trattato (responsabilità internazionale dello Stato portoghese) e, pertanto, si è preferito adottare un sistema che permetta la vigenza di norme viziate di incostituzionalità (sebbene solo a certe precise condizioni), da un punto di vista formale e strettamente giuridico ciò risulta ammissibile, in quanto simile eccezione avviene attraverso una disposizione costituzionale, ovvero di grado pari a quelle che invece affermano il principio generale di costituzionalità; la sola obiezione che si potrebbe porre è quella per cui il principio di costituzionalità costituisce un cardine dell’ordinamento istituzionale, che non può ammettere eccezione alcuna, e che le disposizioni che lo prevedono acquisiscono un valore preminente, inderogabile, superiore a quello delle disposizioni costituzionali “comuni”; tuttavia, è pur sempre vero che anche le norme afferenti al controllo di costituzionalità sono materialmente superiori a quelle “comuni”: il controllo di costituzionalità per azione e per omissione è inserito tra i limiti materiali di revisione costituzionale (art. 288, lettera l), CRP) e, per quanto si possa alterarne il contenuto, non può essere soppresso. Ciò significa che anche l’art. 277, e con esso le altre norme che si riferiscono al controllo di costituzionalità, acquisiscono un valore superiore a quello delle norme costituzionali “comuni”. Con questa argomentazione si può ammettere l’esistenza del contenuto dell’art. 277, 2º comma, CRP, il quale acquisisce una sorta di valore di specialità rispetto al principio generale di costituzionalità, circostanza che si rende possibile grazie alla particolare forza giuridica che hanno le disposizioni relative al controllo di costituzionalità. Se vogliamo, le stesse disposizioni che disciplinano il controllo di costituzionalità possono considerarsi come espressione del principio di costituzionalità, costituendone una sezione che tratta le modalità di difesa del medesimo principio: anche se non esistesse una disposizione dal contenuto analogo a quello dell’art. 288, lettera l), CRP, dovremmo comunque considerare le disposizioni relative al controllo di costituzionalità alla stessa stregua di quelle che esprimono l’esigenza generale di conformità alla Costituzione delle norme di grado inferiore. Il principio di costituzionalità non va inteso astrattamente, bensì come concretamente regolato nei singoli ordinamenti. Poiché quello portoghese ha voluto da un lato esprimere, in generale, la necessità di conformità delle norme giuridiche alla Costituzione ed ai principi in essa contenuti e, dall’altro, ha voluto ammettere delle eccezioni, è in tal senso che andrà concepito il principio di costituzionalità all’interno dell’ordinamento lusitano. Sulle problematiche inerenti all’art. 277, 2º comma, CRP cfr. A. de Araújo, Relações entre o Direito Internacional e o Direito Interno – Limitação dos Efeitos do Juízo de Constitucionalidade (A norma do art.º 277, 2, da CRP), in Estudos sobre a Jurisprudência Constitucional, Lisboa, 1993, 18 e segg.; sul tema dei limiti materiali di revisione costituzionale nell’ambito della CRP si rimanda a J. Miranda, Sobre os limites materiais da revisão constitucional, in “Revista Jurídica da AAFDL”, 1990, n. 13/14, pp. 7-16 ed al nostro articolo Nascita, evoluzione e significato dei limiti materiali espressi di revisione nella Costituzione portoghese, “Quaderni Costituzionali”, n.° 1, 1998, pp. 101-122.


Il TC ha giustamente evidenziato come, anche in caso di flagranza di reato, sia opportuno, ed anzi costituzionalmente obbligatorio, assicurare il giudizio ad un organo collegiale anziché monocratico, oltre che non procedere con rito sommario, nei casi in cui ci si trovi di fronte a casi di reati particolarmente gravi. Inoltre, viene pure sottolineata la distinzione tra la complessità processuale e la facilità probatoria dei casi di flagranza di reato: anche in caso di flagranza il processo può implicare vari gradi di complessità. Tenuto conto del fatto che la complessità di un processo può inerire pure ai casi di reati non particolarmente gravi, per gli stessi motivi addotti dal TC nelle sentenze esaminate, dobbiamo chiederci quindi se lo stesso tipo di garanzia processuale non debba pure essere garantito per i reati minori; a tal scopo, non sarebbe pertanto opportuno che tutti i tribunali fossero collettivi? Ma, soprattutto, non sarebbe giusto, oltre che conveniente, ricorrere al rito comune anche per i casi di flagranza di reato non grave? La storia giudiziaria è densa di errori che si sono basati sul rito sommario a causa della flagranza; non ci illudiamo che l’eliminazione del rito sommario possa risolvere ogni difficoltà probatoria, ma per lo meno consentirebbe maggiori garanzie di difesa anche nei casi apparentemente più semplici. Del resto, lo stesso TC invoca il principio di uguaglianza per giudicare incostituzionale una norma che prevede un procedimento meno garantista sulla base di un elemento extra-processuale e meramente circostanziale, assolutamente esterno alla dinamica del processo; sulla base dello stesso principio, crediamo che tutti i processi dovrebbero avere lo stesso trattamento ed offrire le medesime garanzie agli imputati.

18 A questo riguardo cfr. A. de Araújo / J. Casalta Nabais / J.M. Vilalonga, Tribunal Constitucional de Portugal, ANUARIO IBEROAMERICANO DE JUSTICIA CONSTITUCIONAL 1998, II Conferencia de la Justicia Constitucional de Iberoamérica, Portugal e España, Madrid, 1998, p. 397, nota 56 e giurisprudenza ivi menzionata; la stessa considerazione non vale invece per il Pubblico Ministero, in quanto esso è rappresentato in seno al TC dal Procuratore Generale della Repubblica (art. 44 LTC), organo incluso nell’art. 281, 2º comma, CRP, che a tal fine conferisce piena legittimità d’iniziativa.

19 Sentenza n. 93/84. Sul tema, amplius, cfr. G. Vagli, L’evoluzione…, cit., pp. 136-137, nota 243.


Writing inequality (…non senza conseguenze). Nota a margine della pronuncia della Corte Suprema United States v. Windsor * di Lucilla Conte (12 dicembre 2013) Esistono senza dubbio una serie di buoni motivi per rileggere, a distanza di mesi, la pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America United States v. Windsor (26 giugno 2013) con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge federale nota come Defense of Marriage Act (DOMA). La vicenda da cui trae origine il caso posto all’attenzione della Corte, è la seguente: una coppia di donne (Edith Windsor e Thea Spyer) residenti nello Stato di New York contrae matrimonio nel 2007 in Canada. L’unione è riconosciuta come valida da parte dello Stato di New York (che, in seguito, con il Marriage Equality Act del 2011 ammetterà la possibilità di contrarre same-sex marriages anche all’interno dei confini dello Stato) cosicché, alla morte di Thea Spyer nel 2009, Edith Windsor, sua erede, invoca la federal tax exemption in quanto surviving spouse. Tuttavia, l’esenzione dall’imposta di successione le è preclusa dal § 3 del Defense Of Marriage Act, ove è stabilito (attraverso una modifica al Dictionary Act) che i termini marriage e spouse, presenti all’interno di leggi federali, non siano riferibili anche alle coppie di coniugi formate da persone dello stesso sesso. Non definibile come surviving spouse ai sensi del DOMA, Edith Windsor è obbligata a corrispondere una tassa di successione pari a $363,053. Il rifiuto, da parte dell’Internal Revenue Service, di rifondere Windsor della somma corrisposta costituisce la leva che mette in moto la vicenda giurisprudenziale che porterà alla dichiarazione di incostituzionalità nei confronti del Defense Of Marriage Act in quanto contrastante con il principio dell’equal protection contenuto nel Quinto Emendamento della Costituzione federale. Il DOMA, legge federale entrata in vigore nel 1996, è composto da due sezioni: la Section 2 (che fonda il diritto dei singoli Stati di non concedere riconoscimento giuridico ai same-sex marriages contratti sulla base di leggi vigenti in altri Stati) e la Section 3, della cui legittimità si discute all’interno del giudizio. Questa, in modo più pervasivo, agendo sul sistema delle parole e dei loro significati (non a caso, interviene nei confronti di un atto denominato Dictionary Act) introduce una nozione “federale” di marriage e di spouse, più restrittiva di quella eventualmente prevista dagli Stati membri e che incide in modo significativo su oltre 1.000 leggi federali in cui lo status di coniuge viene in considerazione. Tra queste, vi è anche quella che dispone l’esenzione dalla tassa di successione federale, in base alla quale è escluso dalla tassazione «any interest in property which passes or has passed from the decedent to his surviving spouse». È significativo, inoltre, che nella pendenza del giudizio relativo alla possibilità di ottenere la somma indebitamente corrisposta, sia avvenuto un fatto di rilevante importanza: l’Attorney General, infatti, comunicava al Congresso che il Department of Justice non avrebbe proseguito a difendere la costituzionalità del DOMA. Questa presa di posizione (definita unusual, p. 9 del testo della pronuncia) per le conseguenze di carattere processuale che determina, costituisce una sorta di procedural dilemma (p.12 del testo della pronuncia). La Corte Suprema, tuttavia, sceglie di decidere in ogni caso il merito della questione, anche in relazione al subentro da parte del Bipartisan Legal Advisory Group della House of Representatives (BLAG) nella difesa della costituzionalità del Defense Of Marriage Act. «This case is not routine», viene precisato nella pronuncia, e questa è l’affermazione con cui la Corte, programmaticamente, sceglie di addentrarsi nel merito della questione * Scritto sottoposto a referee.


nonostante l’imbarazzo procedurale derivante dal venir meno del sostegno dell’Esecutivo nella difesa del DOMA. Ed è proprio la specificità del caso concreto, che costituisce l’occasione mediante cui sottoporre (come nell’auspicio presidenziale) a heightened standard of scrutiny una legge federale che risulta fondata su una classificazione sulla base dell’orientamento sessuale (p.3 del testo della pronuncia), e quindi potenzialmente in grado di violare l’equal protection of the laws garantita dal Quinto emendamento e direttamente applicabile al governo federale (sul punto, cfr. A. SPERTI, La Corte Suprema degli Stati Uniti compie un passo verso il riconoscimento del diritto al matrimonio delle coppie omosessuali, in www.forumcostituzionale.it, 1 luglio 2013). La vicenda giudiziaria del caso Windsor si caratterizza per l’omogeneità dei giudizi precedenti a quello che si svolge dinanzi alla Corte suprema: tanto la District Court quanto il Second Circuit, infatti, concordano sull’incostituzionalità del Defense of Marriage Act. Alla Corte Suprema spetta dunque il compito di non ripetere le argomentazioni delle altre Corti, ma di formulare in modo convincente e autorevole l’ultima parola sulla quasi ventennale vigenza del DOMA. La pronuncia della Corte suprema prende le mosse da una prospettiva ben precisa: per storia e tradizione, infatti, è indiscusso che la definizione e la disciplina del matrimonio rientrino nella competenza dei singoli Stati membri. Questo ovviamente non significa che anche la legislazione federale non possa intervenire sulla definizione di matrimonio per meglio chiarire il proprio ambito di operatività (la stessa esistenza del DOMA testimonia, in concreto, questa possibilità), senza tuttavia creare una autonoma federal law of domestic relations (p.17 del testo della pronuncia). Il potere di conferire ad una determinata categoria di individui il diritto di contrarre matrimonio è riconosciuto come parte della sovranità statale: non costituisce il prodotto di un mero riparto di competenze, ma ha l’effetto di attribuire uno status di grandissima importanza, cui non a caso si ricollega l’elemento fondamentale della dignity, ad indicarne lo stretto legame con la valorizzazione della persona, dell’individuo come tale (la Corte suprema è chiara su questo punto, puntualizzando come «marriage is more than a routine classification for purposes of certain statutory benefits», p.19 del testo della pronuncia). Esiste dunque un sistema preesistente all’avvento del DOMA, e rispetto al quale il DOMA si pone come un elemento di discontinuità soprattutto in relazione a quegli Stati (tra cui si colloca anche lo Stato di New York), al cui interno sia stata elaborata una disciplina matrimoniale maggiormente inclusiva. Le conseguenze che ne derivano sono paradossali: la nozione di matrimonio considerata valida ai sensi del Defense Of Marriage Act non corrisponde a quella giuridicamente accolta all’interno dello Stato di New York e, pertanto, una parte delle coppie coniugate sulla base delle leggi in esso vigenti (nello specifico: le coppie coniugate formate da persone dello stesso sesso) risulterà priva di riconoscimento a livello di legislazione federale. Questo meccanismo, a giudizio della Corte Suprema, serve all’unico scopo del DOMA: vale a dire, quello di stigmatizzare giuridicamente - e perciò, pubblicamente- una determinata categoria di persone, e risulta chiarito dallo stesso titolo della legge federale e dalla sua relazione illustrativa, che evidenziano senza equivoci l’obiettivo di difendere «the institution of traditional heterosexual marriage» (p.21 del testo della pronuncia), ponendo alla base di tale intervento un moral disapproval nei confronti dell’omosessualità. Si tratta, quindi, di un intento inequivocabile, chiaramente e programmaticamente manifestato, unito alla consapevolezza degli effetti (di non secondaria importanza) di “depotenziamento” delle scelte sovrane degli Stati membri in tema di legislazione matrimoniale.


L’obiettivo della disapprovazione, si traduce dunque in un una minore stabilità e certezza giuridica dei same-sex marriages contratti all’interno dei singoli Stati ove siano giuridicamente ammessi. Questa incertezza può riverberarsi in un numero più che consistente di settori di intervento della legislazione federale, rispetto ai quali la vicenda concreta dell’esenzione dalla tassa di successione non costituisce che un’ipotesi. Ciò che risulta evidente è il configurarsi del DOMA come potenziale “moltiplicatore” delle diseguaglianze, imponendo una situazione di “caos normativo” (J.L.GROSSMAN, DOMA is dead: The Supreme Court Rules in United States v. Windsor that the Defense of Marriage Act is Uncostitutional, in verdict-justia.com, 26 giugno 2013) e, di fatto, contradictory marriage regimes (p.22 del testo della pronuncia). La Corte Suprema, in particolare, sottolinea come la stessa esistenza del DOMA abbia l’effetto di definire una categoria di persone unworthy of federal recognition, e che tale stigma, necessariamente, si trasferisca anche sui figli di questi ultimi e sulla loro possibilità di sentirsi parte di una famiglia pienamente riconosciuta dal diritto (nella misura in cui il riconoscimento giuridico costituisce precondizione per il riconoscimento sociale). Ovviamente, non si tratta solo di questo, e l’immaginifica descrizione delle vite delle coppie coniugate formate da persone dello stesso sesso e non riconosciute a livello federale quali «lives burdened, by reason of government decree, in visible and public ways» si traduce in un elenco in cui, a titolo esemplificativo, vengono dalla Corte illustrati i concreti ambiti di incidenza (dall’assistenza sanitaria e sociale al regime della sepoltura, alla disciplina fiscale) del sistema federale realizzatosi nella vigenza del DOMA (p.23 del testo della pronuncia). L’affermazione più interessante formulata dalla Corte giunge tuttavia alla fine della pronuncia. Si è detto: la Corte Suprema si pronuncia sul Defense Of Marriage Act quasi vent’anni dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo, in un contesto profondamente mutato. Il dato più significativo è costituito, più che dall’incidenza numerica, dalla rapidità con cui un numero crescente di Stati americani hanno reso possibile contrarre matrimonio anche da parte di coppie formate da persone dello stesso sesso. Questo stato di cose risulta difficilmente compatibile con una legislazione federale programmaticamente tesa a garantire riconoscimento al solo matrimonio eterosessuale. A questo, poi, si aggiunge la vicenda giudiziaria sulla base della quale si attiva anche la Corte Suprema e all’interno della quale le Corti inferiori avevano già fornito consistenti argomentazioni riguardo all’incostituzionalità del DOMA. In relazione a questi elementi, la pronuncia della Corte Suprema si sarebbe potuta configurare come un alto esercizio di stile che avrebbe in ogni caso condotto all’affossamento del Defense Of Marriage Act, senza tuttavia apportare nuovi elementi di riflessione. Questo però non accade, in quanto negli ultimi paragrafi della pronuncia è contenuta un’affermazione decisiva: «The power the Constitution grants it also restrains. And though Congress has great authority to design laws to fit its own conception of sound national policy, it cannot deny the liberty protected by the due process clause of the Fifth Amendment». Si tratta di un monito preciso, che si configura come la più degna ed efficace conclusione della vicenda giuridica del Defense Of Marriage Act, e costituisce una determinazione di limiti per il legislatore federale, il quale viene invitato a non servirsi più dello strumento della legge rendendolo funzionale alla creazione di un sistema di irrazionale diseguaglianza, che nel tempo si sarebbe potuto configurare come un vero e proprio “sepolcro imbiancato” (Matteo, 23, 27-32): un perimetro al cui interno si verifica il fenomeno di quelle vite di relazione riconosciute a livello statale eppure stigmatizzate ed oppresse («burdened») dalla legislazione federale, secondo l’immagine evocata dalla stessa Corte Suprema.


Constitutional Secularism in an Age of Religious Revival Oxford University Press Edited by Susanna Mancini, Professor of Comparative Public Law, University of Bologna Law, and Michel Rosenfeld, Professor of Human Rights and Director, Program on Global and Comparative Constitutional Theory, Yeshiva University Table of Contents 1: Susanna Mancini and Michel Rosenfeld: Introduction Part I: Theoretical Perspectives on the Conflicts between Secularism and Religion 2: Dieter Grimm: Conflicts Between General Laws and Religious Norms 3: Nadia Urbinati: The Context of Secularism: A Critical Appraisal of the Post-Secular Argument 4: Karl-Heinz Ladeur: The Myth of the Neutral State and the Individualization of Religion: The Relationship Between State and Religion in the Face of Fundamentalism 5: Andras Sajo: Preliminaries to a Concept of Constitutional Secularism 6: Michel Rosenfeld: Recasting Secularism as One Conception of the Good Among Many in a PostSecular Constitutional Polity Part II: Religion, Secularism and the Public Square 7: Susanna Mancini: The tempting of Europe, the political seduction of the cross. A Schmittian reading of Christianity and Islam in European constitutionalism 8: Pierre Birnbaum: On the Secularization of the Public Square: Jews in France and in the United States 9: Michel Troper: Sovereignty and Laïcité 10: Lama Abu-Odeh: Egypt’s New Constitution: the Islamist Difference 11: Ran Hirschl and Ayelet Shachar: The Constitutional Boundaries of Religious Accommodation Part III: Religion, Secularism and Women’s Equality 12: Patrick Weil: Headscarf v. Burqa: Two French bans with different meanings 13: John Borneman: Veiling and Women’s Intelligibility 14: Daphne Barak-Erez: Reproductive Rights in a Jewish and Democratic State Part IV: Religious Perspectives and the Liberal State 15: Gustavo Zagrebelsky: One among many? The Catholic Church between universalism and pluralism 16: Gidi Sapir and Daniel Statman: Religious Marriage in a Liberal State 17: Andrew F. March: Are Secularism and Neutrality Attractive to Religious Minorities? Islamic Discussions Of Western Secularism in the ‘Jurisprudence of Muslim Minorities’ (Fiqh AlAqalliyyat) Discourse Part V: The Confrontation between Secularism and Religion in Specific Contexts: Education and Free Speech 18: Gila Stopler: The Ultra-Orthodox Community in Israel and the Right to an Exclusively Religious Education 19: Robert Post: Religion and Freedom of Speech: Portraits of Muhammad



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