Valori culturali, tutela dell'ambiente e modelli di sviluppo

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FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE Corso di Laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali

Tesi di laurea VALORI CULTURALI TUTELA DELL’AMBIENTE MODELLI DI SVILUPPO

Relatore Maria Ruini

Candidato Francesco De Marco matr. 1128034 AA.2007/2008 1


Indice Presentazione

p. 04

CAPITOLO I L’uomo e la natura 1.1 Dal mythos al logos 1.2 L’uomo, essere sociale 1.3 Evoluzione dell’uomo e teorie evoluzioniste

p. 07 p. 09 p. 15

CAPITOLO II L’uomo e la cultura 2.1 Il significato di cultura e l’approccio socio-antropologico 2.2 Varie scuole e correnti culturali 2.3 Le differenze culturali ed il relativismo

p. 23 p. 29 p. 34

CAPITOLO III L’ambiente ed il rischio 3.1. L’ambiente e la cultura postmoderna 3.2. L’etica della responsabilità ed il paradigma dell’ambiente 3.3. L’ambiente come sistema 3.4 L’ambiente ed il rischio

p. 42 p. 46 p. 50 p. 53

CAPITOLO IV La tutela e lo sviluppo 4.1. lo sviluppo sostenibile 4.2. le tappe storiche 4.3. La teoria dello sviluppo 4.4. La tutela e l’interazione socio-ambientale

p. 59 p. 64 p. 69 p. 71

Conclusione

p. 76

Bibliografia

p. 79

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“Il fattore più importante nella formazione dell’esistenza è la creazione di un fine: quello di una comunità libera e di esseri umani felici, che con un continuo sforzo interiore lottino per liberarsi dall’eredità di istinti antisociali e distruttivi. In questa battaglia l’intelletto può costruire l’aiuto più potente” (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino, 1965, p.148)

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Presentazione

Scrivo la presentazione del presente testo di studio dal titolo Valori culturali, tutela dell’ambiente e modelli di sviluppo dopo essermi appassionato alla ricerca dello studio dell’uomo, del suo agire e di come le conseguenze delle sue azioni si riverberano nel nostro pianeta chiamato Terra. Appositamente ho deciso di inserire nel primo capitolo una parte del dialogo di Platone e Glaucone preso dal settimo libro della Repubblica al quale ho operato una piccola revisione nel merito della vicenda: oggi la luce ha invaso la caverna, prigionia dell’uomo e gli ha fatto scoprire la voglia di rincorrere il sole e di liberarsi dalle oppressioni e dalle diseguaglianze. Così si compone la prima parte, dal mythos al logos e da questo alla scoperta della teoria evoluzionista di Darwin. Il tratto fra i tre poli non è stato certamente breve, e durante il percorso si sono alternate momenti particolarmente difficili e periodi fiorenti. In almeno quattro milioni di anni di storia, le tracce dell’umanità si sono impresse nell’ambiente e si sono tramandate nelle culture. Così con un occhio al passato e uno al presente ho osservato, con l’umiltà dello studente alle prime armi e la consapevolezza di aver considerato una delle infinitesime parti, questo strano umano primitivo e il suo successore protagonista della modernità. Il confronto, seppur a prima vista possa apparire bizzarro, mi ha lasciato perplesso e fiducioso. Perplesso perché se mi catapultassi indietro nel tempo, non saprei proprio come poter sopravvivere. Non sarei in grado di cacciare per procurarmi del cibo con le rudimentali armi e probabilmente non saprei sopravvivere all’inverno fabbricandomi una pelliccia. Ma fiducioso perché quell’uomo del passato ha permesso non solo di vendere la carne nelle macellerie, di predisporre 4


ambienti caldi e confortevoli ma di superare lo spazio ed il tempo tramite la comunicazione e l’interazione globalizzata. Un ruolo importante durante questi processi è stato assunto dalla cultura anzi dalle culture che sono state il mezzo attraverso il quale l’uomo si è avvicinato al suo simile ed alla natura. Ogni interazione tra uomo e natura deve tener conto della mediazione culturale1. Nel secondo capitolo ho ribadito questo concetto e lo studio dell’uomo è considerato alla luce del suo agire culturale. L’osservazione in quest’ultimo caso cambia a proposito del tipo di approccio teorico considerato. Ne sono stati inseriti vari per considerare, con una visione d’insieme, il significato di cultura. A tal proposito ho più volte ripreso la definizione di Edward Burnett Taylor, che è anche la prima del genere, formulata nel lontano 1871. Penso sia ancora attuale, poiché nel nostro viver quotidiano, nelle relazioni interumane, il riferimento al termine cultura diventa sinonimo di conoscenza, arte, morale, diritto etc. In questo studio ho però dato ampio spazio allo studio delle differenze culturali. Nella piena considerazione delle culture altre, ho tentato di creare una similitudine alla sovranità, elemento per eccellenza di distinzione dello Stato. È inevitabile non solo tutelare le culture altre considerandole, al pari dello Stato, tutte sovrane ed è ineluttabile non soltanto l’individuazione dei valori universali per la tutela della specie umana ma la determinazione di sanzioni pacifiche per prevenire quei comportamenti dannosi. Oggi lo spazio ed i luoghi, così come il tempo e le dimensioni temporali, per parafrasare Bauman, sono diventati gli elementi di una modernità liquida, si sono avvicinati e le culture sono entrate in contatto a velocità stellari. Nell’immediatezza sappiamo e vediamo quello che fa il nostro simile a New York, a Pechino ed Hong Kong. 1

C.A.Viano, Etica, Isedi, Milano 1975, pag. 156

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Seguendo questa impostazione metodologica, ho affrontato un altro tema attualissimo ovvero il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. In una primissima fase la capacità di modificare l’ambiente era assai limitata e l’uomo poteva considerarsi alla stregua degli altri esseri viventi, in seguito la sua capacità di adattare l’ambiente ai suoi bisogni e alle sue necessità è cresciuta a ritmi vertiginosi. Perciò il primo uomo è “ecologico”: in quanto a causa della mancanza dei mezzi tecnici non è in grado di turbare l’equilibrio ambientale; l’altro, quello successivo è un uomo “tecnologico”: grazie alle sue invenzioni e la sua capacità domina gli altri esseri viventi. Tuttavia ha turbato profondamente l’ambiente ed i suoi equilibri. L’inizio del processo comincia nel Neolitico allorquando iniziano gli scambi fra tribù e l’uomo diventa capace di rompere il cordone ombelicale che lo lega alla natura, acquisendo una relativa indipendenza da essa. Scopre la possibilità di allevare animali, raffina le sue tecniche che gli consentono di costruire un solido riparo, inventa l’agricoltura. Tutto ciò gli permette di programmare la sua esistenza, non più lasciata al caso, ai miti, agli déi ma organizzata su quanto anche artificialmente può procurarsi. In ultima istanza, con l’analisi della teoria dello sviluppo ci siamo resi consapevoli di come quello umano sia uno dei tanti sottosistemi che compongono il sistema ecologico della natura. Tuttavia è un sottosistema assai singolare. Esso, a differenza degli altri, può usare o abusare delle sue relazioni con gli altri sottosistemi ed influire radicalmente sul loro destino2. L’uomo, giunto ad incredibili livelli di sviluppo tecnologico, è pervenuto alla capacità virtuale e reale di provocare perturbazioni sostanziali, cioè irreversibili nell’equilibrio dei sottosistemi.

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T. Manoldo, La speranza progettuale. Ambiente e società, Einaudi, Torino 1970 e 1971, pag.17

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CAPITOLO I L’uomo e la natura 1.

Dal mythos al lògos “..paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo,come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli». «Li vedo», disse. «Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono». «Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!». «Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?»

Il dialogo di Platone e Glaucone – nel testo tratto dal settimo libro de “La Repubblica” – rappresenta l’oscurità dell’uomo e della sua condizione, e la continua ricerca verso la luce e la verità che l’essere umano in quanto tale non deve mai smarrire. Segnare un cammino, per sua natura impervio, è il destino di quell’essere che ha cominciato a far parlare di sé, allorquando ha cominciato a camminare su due gambe. Nel bene e nel male, quell’essere è vissuto per più di quattro milioni di anni, duranti i quali ha scoperto modi di vivere differenti. È passato dalla totale oscurità della notte, nella quale ignorava cosa lui stesso fosse, alla luce del giorno, individuando significati 7


sempre nuovi e diversi della proprio esistenza. Il periodo intermedio tra la notte ed il giorno, ha segnato (e segna) un assestamento nel quale gli occhi dell’uomo, esposti alle prime luci dell’alba, ne sono rimasti traumatizzati. La comprensione totale, se mai un giorno ci sarà, segnerà una nuova epoca. Oggi, la soluzione dell’apparizione dell’uomo sulla terra sembra essere a portata di mano. Poco più di un mese fa, i ricercatori e gli scienziati del CERN di Ginevra hanno cercato di ritornare indietro nel tempo fino al big ben, al fine di cercare l’origine dell’universo. Sul quotidiano Il Messaggero del 10 e 20 settembre sono apparsi i seguenti articoli: Gli scienziati del CERN di Ginevra hanno ripreso l'esperimento per scoprire i segreti della nascita dell'universo grazie al Large Hadron Collider (Lhc), l'acceleratore più grande del mondo che è partito ieri dopo

20

anni

di

incredibile

lavoro

del

gotha

della

fisica

mondiale. Completato con successo il primo giro del fascio di protoni iniettati è stato osservato un lampo, forse per interazione protoneprotone. L'Lhc è l'acceleratore di particelle più grande e più potente del mondo: nella galleria sotterranea circolare di 27 km di circonferenza, i fisici intendono far circolare due fasci di particelle a oltre il 99,9% della velocità della luce, per farli scontrare e creare una pioggia di nuove particelle, da analizzare e studiare per tentare di scoprire i segreti del Big Bang. Dopo 20 anni di preparativi, lo scorso 10 settembre il CERN (Organizzazione europea per la ricerca nucleare) ha celebrato il primo giro di un fascio di particelle lungo i 27 km dell'Lhc. Sono seguiti esperimenti per sincronizzare i fasci di protone. Obiettivo delle attività del Lhc è quello di andare indietro nel tempo fino al Big Bang, la gigantesca esplosione che ha fatto nascere l'Universo 14 miliardi e più di anni fa. Un viaggio a ritroso nella storia della vita per 8


cercare la "particella di Dio", il bosone di Higgs. Con il suo lavoro, Lhc andrà a caccia di quelle particelle che c'erano in quel primo potentissimo respiro del cosmo e che gli scienziati, fino ad ora, non hanno mai potuto vedere ma solo ipotizzare

Tuttavia, più sembra vicina la soluzione e più questa si allontana. Risolto un mistero, se ne pone subito un altro, ed un altro ancora. Il genere umano sembra essere un eterno navigante che, affacciato dall’oblò della nave, scorge l’orizzonte con il desiderio di toccarlo. Chissà se prima o poi riuscirà almeno a segnarne la distanza, ad avvicinarsi quel tanto che basta per vedere appagata la sua voglia di verità. Forse come Colombo, non approderà mai nelle Indie ma scoprirà l’America.

2.

L’uomo, essere sociale L’uomo, quell’essere che da almeno quattro milioni di anni3 si

evolve, individua nuovi spazi fisici e mentali, ne crea di altri come quelli virtuali, riesce a muoversi e a spostarsi con velocità sempre maggiori, comunica con i suoi simili attraverso un sistema complesso di linguaggi. Egli ha sviluppato un elemento che l’ha accompagnato costantemente nel corso della sua evoluzione e l’ha legato indissolubilmente al suo antenato ed la suo successore: “la cultura”. Nelle scienze sociali “la cultura” è sempre stata al centro di ampi dibattiti: i diversi significati, infatti, non riflettono solo una diversa visione del concetto in sé, ma un differente sguardo della realtà, una differente interpretazione di essa e di conseguenza diverse categorie percettive.

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Almeno quattro milioni di anni fa negli spostamenti, i pre-ominidi hanno cessato di appoggiare qualche volta le nocche, dando inizio così alla loro camminata, in modo eretto, anche se ancora molto curvi sulla schiena. Essi erano però più simili alle scimmie che all’uomo, avevano la fronte sfuggente, il cranio piccolo, la mandibola sporgente e il corpo tutto ricoperto dal pelo.

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Già Guglielmo Ferrero4, nel creare una diretta correlazione tra natura e cultura, affermava che: era la paura nei confronti della natura misteriosa e minacciosa e nei confronti dell’altro, visto come un possibile nemico [… ] che spinge l’uomo a compiere una serie di sforzi per costruire artificialmente una condizione di stabilità e di sicurezza. Tutta la civiltà non è che il solo sforzo per uscire dalla precarietà dello stato di natura.5

Tuttavia, la prospettiva di Ferrero si limita a individuare nella paura quella condizione che spinge l’uomo a fissare la natura attraverso la cultura. Un’interpretazione diversa è invece fornita da Carlo Mongardini nella “Conoscenza Sociologica”; scrive: L’uomo si ritiene portatore di un’istanza superiore, che legittima il tentativo di ordinare e incanalare gli accadimenti naturali verso i fini che questa istanza gli assegna. Perciò si ritiene legittimato a resistere alla natura, a modificarla, se possibile a riordinarla e persino a violentarla, se necessario. 6

Il legame uomo – cultura – natura, nelle immagini fornite dagli autori, sembra indissolubile ed in questo senso la cultura è il collante con la natura che potrebbe sovvertire inesorabilmente l’uomo, qualora questo non riesca a fissarla per poi imprigionarla ed infine plasmarla a suo totale piacere, per il soddisfacimento dei suoi bisogni. Sebbene il rapporto

“natura – cultura”

abbia acceso notevoli

dibattiti, abbia ispirato e creato scuole di pensiero,

si può sostenere

l’ipotesi che sia stata la necessità, e non la paura, ad aver spinto già l’uomo dell’antichità ad intraprendere un cammino che nel corso del tempo si è polarizzato, ed alle cui estremità ha fissato il mythos ed il lògos. Il primo 4

Storico vissuto tra il 1871 e il 1942 Cfr. L. Pellicani, Il pensiero politico di Guglielmo Ferrero, in “Storia e Politica”, a. VIII, n.2 aprile – giugno 1969 6 C. Mongardini, La conoscenza sociologica, Ecig, Genova 2002, pag. 247 e segg. 5

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inteso come la spiegazione “fantasiosa” di una realtà percepita ed il secondo come l’esperienza del “vero”, la certezza della ragione scientifica. Gli antichi greci cercarono di interpretare i cambiamenti visibili in natura, di fornire delle spiegazioni, di trovare ciò che di perenne esiste per discernerlo da ciò che è transeunte, non facendo più ricorso ai miti, ma alla ragione e alla percezione, in alcuni casi cercando “l'arché” da cui tutto ha origine. Inaspettatamente per quegli uomini, il solo fatto di dover individuare una spiegazione a ciò che accade, ha traghettato l’umanità verso una modernità “in continua evoluzione”, ha accesso la speranza, in seno agli uomini, di uscire dalla caverna7, per abbracciare la luce e abbandonare le ombre che per tanto tempo sono state gli unici anelli di congiunzione con il mondo esterno. Il fatto quindi che la cultura sia una dimensione presente in tutte le collettività umane, sostiene la condizione di necessità che ogni uomo avverte di trovare una rappresentazione del mondo tale da “garantirgli, almeno nella maggior parte dei casi, la possibilità di dare una definizione alla situazione in cui egli è inserito e di fornirgli un repertorio di azioni atto ad interagire con il suo ambiente in modo adeguato”. 8 Per cui, analizzando la natura umana da un punto di vista culturale, si presuppone che una determinata azione sociale, in una definita società, possa spiegare molte delle caratteristiche strutturali di quella società9. In ragione di ciò, nel cammino evolutivo, l’elemento che ha distinto l’uomo, diversificandolo dal suo predecessore, è il modo di intendere il Creatore, il creato e se stesso. Questa continua ricerca della comprensione giustificata dal raggiungimento della verità, ha spinto l’individuo ad elaborare delle strutture e delle istituzioni capaci di delineare e difendere ciò che è buono 7

Platone, La Repubblica, quindicesima edizione marzo 2006, BUR, RCS libri Spa, Milano, pag 487 e segg. 8 M. Ruzzeddu, La cultura della natura umana, in M. Ruini (a cura di), Caleidoscopio, Bulzoni Roma 2008, pag. 28 9 Sul concetto di società vedi C. Mongardini, op. cit., pag. 11 e segg.

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da ciò che non lo è. La sottile linea fluttuante di demarcazione tra bene/male separa l’intendere la salvezza, l’identità ed i valori, da ciò che può minarli e distruggerli. Qual è allora il minimo comune denominatore dell’umanità? Il motivo che spinge l’uomo a scegliere una strada non è dettato dalla volontà di proteggersi, tutelarsi, scegliere ed affrancarsi un futuro certo? Non a caso Hobbes afferma che l’uomo entra in società per sottrarsi allo stato di natura. In quella condizione esso si presentava come un animale che avrebbe potuto annientare il suo simile e quindi se stesso. Così quell’essere, intraprende il cammino della socialità, scende dalle montagne e si stanzia in pianura. Incomincia a coltivare la terra, affina le armi per la caccia e per la pesca. Si stanzia insieme ai suoi simili e crea quelle strutture idonee a fissare i propri valori; le istituzioni che Durkheim designerà tali, quelle forme organizzate - famiglia, istruzione, giustizia – tese a perseguire un fine sociale e una determinata funzione. Le istituzioni si plasmano, e l’uomo, soggetto attivo del cambiamento, si lascia infine attraversare dalla forza di reazione delle stesse che non si annientano, ma si trasformano fino a riprendere vigore. Infatti, se nel medioevo l’apparente dissoluzione dei pubblici poteri e l’anarchia feudale avrebbe potuto ingannare l’errante, che giurava fedeltà al signore, pur di avere una terra da controllare e dei contadini da soggiogare, nell’età moderna le istituzioni si fortificano. Riprendono forza, perché hanno imparato dagli errori del passato. I sovrani, infatti, non soltanto rafforzano il loro potere, ma lo accentrano nella loro figura. Creano strutture di governo complesse, caratterizzate da una grande divisione dei compiti, per gestire e difendere il proprio territorio e la propria influenza. Contestualmente però l’azione dell’uomo non si fa attendere. Infatti, con la formazione degli Stati assoluti, sboccia paradossalmente il seme che li condurrà al totale disfacimento. La storia dell’uomo, per parafrasare Marx, 12


sembra storia di lotte tra azioni e reazioni, formazioni e dissoluzioni. Nascite e morti tra uomini e istituzioni. Sembra che, nei momenti di massima tensione sociale, l’uomo abbia ritrovato una nuova forza, si sia liberato delle catene che ne tentavano di bloccarne l’evoluzione

ed ha conquistato la libertà di azione e di

pensiero.10 Il passaggio a epoche diverse e l’aumento demografico hanno segnato una svolta nei rapporti umani, che sono passati dall’essere caratterizzati da una solidarietà meccanica a un’organica. Durkheim nella Divisione del Lavoro sociale – ne ha individuato i segni nella divisione del lavoro che ed ha implicato la cooperazione cosciente e libera degli agenti sociali, quindi lo sviluppo delle relazioni sociali e la nascita dello Stato moderno

centralizzato,

gestionale,

e

la

conseguente

concezione

dell’individuo come persona. In quest’ambito fioriscono le tutele giuridiche e le regolamentazioni, prevale

l’adozione di

un diritto privato, un sistema definito che

comprende il diritto domestico, il diritto contrattuale, il diritto commerciale, il diritto delle procedure, il diritto amministrativo e costituzionale. Le relazioni regolate da tali diritti sono completamente diverse dalle precedenti: esse esprimono un concorso positivo, una cooperazione che deriva essenzialmente dalla divisione del lavoro. L'individuo diventa consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società e del fatto che da questa provengono le forze che lo trattengono e lo frenano. Questa situazione crea disagio perché seppur sia vero che la società tutela l’individuo, il sacrificio che questo deve 10

Si consideri ad esempio la Rivoluzione Francese, come un fenomeno sia urbano sia rurale. Fu l’emergenza di un bisogno di eguaglianza profonda a scardinare una società essenzialmente fondata sul privilegio. Il regno era articolato in strutture feudali e aveva fatto nascere numerosi abusi garantiti dalla legge. La Rivoluzione riuscì quindi a coinvolgere sia gli strati più abbienti, più ricchi, più colti, privilegiati, che quelli popolari, che da sempre sollecitavano istanze di uguaglianza. La popolazione intera si attaccò a quest’opportunità politica, improvvisa, imprevista, per richiedere ed esigere eguaglianza. Si veda l’intervista rilasciata dal prof. Paolo Viola, docente di Storia moderna all’Università di Palermo, il 25.04.2000 all’istituto scientifico “Copernico” di Napoli

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sopportare è altissimo. Egli, infatti, si sente espropriato del proprio spazio fisico a favore di un ruolo sociale e di una vita socialmente totalizzante. Lo sviluppo delle istituzioni favorisce una “sorta di equilibrio fra fiducia e rischio, sicurezza e pericolo”11. Ma la modernità fa tendere quel legame sociale che teneva unite le popolazioni, soprattutto nell’ambito dei nuclei familiari, e le organizzazioni nello spazio e nel tempo. La disaggregazione familiare e comunitaria è andata di pari passo con la distanziazione12 spazio temporale e con l’espressione di un allentamento e di una rarefazione significativa dei rapporti sociali. La reazione dell’individuo di fronte al sacrificio di se stesso e della propria appartenenza di gruppo, può rivelarsi dannosa per la stessa socialità. Discostandosi dai valori sociali, l’uomo deraglia verso una nuova socialità, diventa deviante. Così la rottura si esteriorizza nella realtà, e la devianza diventa il comportamento attraverso il quale gli individui sfuggono alla pressione sociale. Se per un verso le norme, nella loro astrazione, definiscono il comportamento ideale degli individui, il comportamento reale, col suo grado di conformità/difformità dalla norma, determina la permanenza o l’evolversi delle condizioni che rendono possibile, accettata e vincolante una determinata norma.13 In altri termini potremmo dire che il comportamento reale è la reazione individuale all’ideale proposto nella norma. Se si genera un consenso, ed in questa sede si tralascia il tipo ed il grado di consenso, non si generano conseguenze. Ma se il comportamento dell’individuo si realizza in un dissenso,m esso provoca una reazione del gruppo sociale, volta a ristabilire l’ordine violato. Tanto più il comportamento degli uomini si proietta nella devianza, tanto più vicino sarà il punto di anomia. Quel punto cioè nel quale il gruppo ritiene di non poter più accettare il comportamento difforme dalla norma e associa ad esso una sanzione. 11

A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1990, pag 109 Ivi, p.110 13 C. Mongardini, op. cit, pag .343 12

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Gli effetti della devianza possono essere molteplici e di diversa natura. Infatti, può rafforzare la norma e accrescere la coesione del gruppo. Oltre ad un certo limite si giunge al declino della norma. Può generarsi anche un altro effetto, l’innovazione poiché il comportamento deviante spinge verso un’innovazione normativa e una costante revisione e difesa dei valori, degli usi, della produzione culturale fino a quel momento percepito dal gruppo sociale.14

3. Evoluzione dell’uomo e teorie evoluzioniste Gli interrogativi che sovvengono sono numerosi e complessi proprio in ragione della diversità che è percepita dal gruppo a seguito della devianza quando questa sfocia in anomia. Merton definiva l’anomia Un crollo della struttura culturale che si verifica specialmente quando c’è una profonda disgiunzione tra norme e obiettivi culturali e capacità socialmente strutturate dei membri del gruppo di agire in sintonia con essi15

Diverso è il concetto di anomia per Durkheim, il quale ne La Division du travail social la indicava come l’assenza di norme, riferita al sistema economico entrato in crisi nel 1600. Ne Le Suicide del 1987, lo stesso Durkheim riferisce il concetto di anomia alla incapacità di ottenere un equilibrio e una garanzia alle aspirazioni del singolo da parte di norme codificate che non paiono in grado di rispondere alle esigenze dell’individuo. In entrambi i casi, l’anomia è una condizione che può determinarsi, come afferma Merton, nel conflitto fra mete culturali e strutture sociali 14 15

C. Mongardini, op. cit. pag 345 e segg. Cit in R. Daherendorf, la libertà che cambia, Laterza, Bari 1981, p.205

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disponibili per conseguirle. Se ciò è vero, l’uomo deviante sposta lo steccato dell’evoluzione a un livello superiore, e questo individuo è comune a tutte le epoche. Perché l’uomo del presente si sente così lontano da quello del passato, seppur questo ne abbia segnato la sua evoluzione? E perché l’uomo considera se stesso diverso e migliore del suo simile? Vi può essere una relazione tra questi due interrogativi? Con curiosità le domande emergono nella mente, come fossero proiettate

in

sovraimpressione

su

uno

schermo.

Con

la

stessa

predisposizione si cercherà di valutare in questa sede il significato che l’uomo si è attribuito nel corso del tempo, di capirne la tensione e l’evoluzione del suo stato. La società dell’antichità classica si caratterizzava per l’assenza del concetto di umanità16. In quest’epoca, l’individuo viveva vincoli di solidarietà reciproca solo con persone con cui aveva legami parentali (nella gens) o politici (nella civitas); coloro che erano esclusi da questi sistemi venivano ad esser trattati come schiavi. In seguito al Cristianesimo cominciò a diffondere l’idea che tutti gli uomini fossero creature e figli di Dio accomunati da un uguale destino. Lo stesso messaggio di Cristo, non essendo destinato ai soli ebrei, ma a chiunque decidesse di accettarlo, costituiva il seme di quell’universalismo che si accompagnava all’idea di umanità.17 Così, nel medio evo l’uomo riscopre la ragione, cui i classici avevano fatto riferimento nella loro continua ricerca e percezione della realtà e della natura18, e nutre per essa una grande fiducia. In quest’epoca l’uomo cercava 16

L'umanità è intesa come la natura, l'essenza dell'uomo; in quanto tale definisce il sentimento di fratellanza e solidarietà che unisce gli uomini fra loro, li rende solidali e consapevoli della partecipazione ad un destino comune. Vedi Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana lo Zingarelli 2008, Zanichelli editore, Piotello, Giugno 2007. 17 M. Ruzzeddu, in M. Ruini, (a cura di) op. cit, pag.29 18 Già Platone nel Teeteto, in Di Plati e Dardi Bembo (a cura di), Opere di Platone,Giuseppe Bettinelli, 1742, distingue tre accezioni in riferimento alla definizione del sapere come “credenza vera associata a un lògos: lògos è la manifestazione del pensiero attraverso i suoni articolati di una lingua; è il rendere conto di una cosa enumerando gli elementi, è l'enunciazione della differenza.

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di difendere le verità di fede con l'uso della ragione. A tal fine, si preferì la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all'elaborazione di nuove conoscenze. Si cercò quindi di sviluppare un sapere armonico, integrando la rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo greco - ellenistico, convinti della loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, un preludio delle verità di fede. La crisi di questa corrente filosofica, nel XIV secolo, con autori come Duns Scoto e soprattutto Guglielmo di Ockham, fu segnata da un crollo di fiducia nella ragione e da un conseguente crescente fideismo che portò alla fine del pensiero medioevale ed alla nascita del pensiero moderno. L'umanesimo ed il rinascimento furono dei poderosi tentativi di rispondere a tale crisi, proponendo come modelli, gli "antichi", come risposta al crollo di fiducia nella ragione umana. Il concetto di rinascimento implica sì l'idea di un rinnovamento, ma di un rinnovamento che si riaggancia a radici, a quelle classiche: é un tornare radicalmente alla cultura classica latina e greca, cercando di dimenticare la “tragica” parentesi del medioevo; anche in campo religioso si vuole tornare alle origini del cristianesimo, al Vangelo, alle fonti antiche. Lutero stesso, il padre della Riforma, é quindi assolutamente coerente con le teorie rinascimentali. Giordano Bruno, filosofo dell’epoca, descriverà il rinascimento servendosi dell’immagine di una pianta amputata, ma non ancora morta; il tronco é ancora vivo e dopo secoli bui (il medioevo) ricomincia a germogliare. Per la prima volta, si ha coscienza di un’avvenuta rottura con il mondo classico, che va ripreso, pur nella consapevolezza che esso sia ben diverso. Il concetto di umanesimo é diverso rispetto a quello di rinascimento; il modo più semplice di intenderli, evitando di dire che essi appartengono a due 17


periodi distinti, é sostenere che essi si riferiscono a due aspetti diversi della stessa cosa. Con il termine umanesimo ci riferiamo a determinati aspetti di questo rinascere, e più precisamente alle “humanae litterae”: nel 1400 rinasce l'interesse per la letteratura latina che era andato perduto nel medioevo. Umanesimo significa anche humanitas, che implica la centralità dell’uomo in ogni campo; ciò non significa che egli sia al vertice della realtà (dove invece ci sarà sempre Dio), bensì vuol dire che é al centro del creato. L'uomo come essere assume un significato importantissimo: egli sta a cavallo tra mondo razionale e mondo celeste, tra mondo spirituale e mondo non spirituale, tra angeli e cose. Già Ficino aveva definito: l' uomo copula mundi: l’uomo è ugualmente distante da Dio quanto dagli strati bassi della creazione, è il centro di simmetria fra il mondo inferiore e superiore. (…) l’uomo è posto in posizione centrale nel sistema, è il termine medio, condizione unica e invidiabile che lascia l’individuo libero di decidere che cosa voglia essere se tendere verso l’alto (spiritualità) o il basso (corporeità).19

La centralità dell' uomo poi si manifesta nel cosiddetto "umanesimo civile" , dove l'uomo adempie a funzioni politiche e sociali. Durante tale periodo si sviluppa il passaggio da una visione teocentrica ad un’antropocentrica nella quale, l’uomo in quanto tale, è posto al centro del suo destino e riscopre la sua somiglianza con Dio. Espressiva è una citazione di Pavel Florenskij: L’arte del rinascimento, basata sulla prospettiva che mette l’uomo al centro, subordina Dio all’uomo e perciò fa di Dio un riflesso, un’ombra dell’anima. Dio viene ridotto ad una dimensione puramente psicologica e concepito come

uno specchio nel quale l’uomo si osserva e si

conosce.20 19

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Ubaldo Nicola, Antologia di filosofia. Atlante illustrato del pensiero, Giunti, Firenze 2000, pag 228 Cfr. N. Misler, Nella tradizione dell’arte russa, in AA. VV., Per Tarkovskij, Centro Sperimentale di Cinematografia Roma 1988, pp. 43-53; P. Florenskij, in La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di

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Agli antipodi si pone la visione del Vasari, con il rifiuto della prospettiva, anzi con la sua prospettiva rovesciata, che “muove dallo sguardo di Dio sul mondo e non viceversa”. Ed è proprio nel rinascimento e nell’umanesimo che si sedimenta un profondo individualismo nel quale l’uomo non è un semplice individuo, bensì un individuo unico impegnato in tutti i campi del sapere. Sarà nell’epoca moderna, e particolarmente con l’illuminismo, che l’uomo respinge tutto ciò che non supera la “critica della ragione”, così come respinge le fondamenta delle strutture tradizionali in quanto tali e non in virtù di una validità razionalmente riconosciuta. L’uomo si libera dell’obbedienza alle Scritture, alle tradizioni religiose, ed affida al libero pensiero i criteri per definire gli scopi individuali e collettivi

da

raggiungere. Molti autori hanno fornito il loro contributo riflettendo sulla qualità del genere umano (buono – cattivo) e sulla capacità di agire dell’uomo. Nel primo filone c’è Hobbes, che nel Leviatiano espone la propria teoria della natura umana, una natura egoistica ed un uomo le cui azioni sono volte alla sopravvivenza ed alla sopraffazione. L’uomo, nello stato di natura è un essere cattivo che cerca di danneggiare gli altri - homo homini lupus – sempre in guerra con l’altro. È per porre ordine e garantire la propria sicurezza che esce dallo stato di natura ed entra nella società civile, affidando questo potere a un superorganismo, lo Stato, cui spetta il diritto di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, spodestando dalle scelte non soltanto i sudditi ma anche le religioni. Ottimistica è invece la visione di Rousseau che vede una divaricazione sostanziale tra la società e la natura umana. Egli afferma come l’uomo sia in natura un buon selvaggio ma che N. Misler, Casa del libro, Roma 1983,pp. 73-135.

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sia stato “corrotto in seguito dalla società civile e acculturata che lo conduceva al vizio e alla mollezza”. Un’interpretazione ripresa in parte da Freud che dirà due secoli dopo, sulla natura dell’uomo, “per il primitivo è facile essere sano, mentre per l’uomo civilizzato è un compito difficile.”21 Nel secondo filone, quello che intende l’uomo nella sua capacità di agire, specularmente collochiamo Kant, il quale ritiene che l’essere umano si caratterizzi per la sua coscienza e non per la sua azione22, e Hegel che con il suo idealismo, pone l’essere umano come l’unico in grado di porsi in un rapporto dialettico nei confronti della realtà23. Il dibattito sulla natura umana riceverà una drastica sterzata dal XX secolo grazie al progredire delle nuove scienze ed al sorgere della teoria evoluzionista. Già Morgan asseriva che lo sviluppo della società passa attraverso tre fasi: stato selvaggio, barbarie e civiltà e queste tre distinte condizioni sono connesse l’una con l’altra in una sequenza progressiva tanto naturale quanto necessaria. Secondo gli evoluzionisti, le istituzioni umane sono stratificate come la terra e il loro succedersi avviene in modo uniforme, indipendentemente dalle differenze di razza o di linguaggio. Ed è proprio con “L’origine della specie” di Darwin che, nella seconda metà dell’800, si crea scompiglio tra le varie comunità scientifiche. Secondo Darwin, infatti, il passaggio dal semplice al complesso avviene senza l’aiuto di un’intelligenza superiore la quale, fino a quel momento, sarebbe dovuta intervenire per modificare una natura di per sé immutabile. In seguito, con “L’origine dell’uomo” Darwin esclude l’intervento divino nella comparsa dell’uomo, facendo a questi perdere lo status di “essere superiore” a favore di un”essere evoluto”. 21

M. Ruini, Società del disagio e società del benessere: un percorso culturale, in F. Cappellini Vergara (a cura di), la promozione del benessere nella famiglia, nella scuola, nei servizi, F. Angeli, Milano, 2001, pag.9 22 L’azione politica collettiva connota i tratti distintivi dell’umanità 23 L.F. Morgan, La società antica, Feltrinelli, Milano1974.

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Il determinismo naturale solo in parte può spiegare l’eterogeneità dell’uomo, il quale condividendo spazi fisici e sociali con comunità diverse per lingua, etnia, cultura e religione ha costretto l’uomo a costruire delle rappresentazioni che fornissero delle giustificazioni plausibili a tali diversità24. Si tratta allora di accettare un determinismo sociale tale che “solo confrontandosi con sensibilità, credenze e abitudini diverse ci si accorge di condividere certe idee e usanze con un determinato gruppo”25 Proprio partendo da queste ultime affermazioni, possiamo formulare una possibile spiegazione al quesito che ci siamo posti, e intendere la lontananza tra l’uomo del presente e quello del passato proprio nella diversa concezione di vivere nella società. Pur considerando come minimo comune denominatore l’uomo deviante, anello di congiunzione tra le epoche, il diverso significato che l’uomo si è attribuito l’ha spinto non a guardare al presente o al passato contiguo ma al futuro vicino. In ragione di ciò, le mosse da un allontanamento sono forse prese in forza a una paura d’involuzione sociale. tanto più vicino è il passato che ci può inghiottire. Tanto questo è lontano, tanto minimo sarà il pericolo di un ritorno a esso. Il passato remoto, considerato sempre con grande attenzione, guida gli uomini a evitare gli errori commessi. Il passato prossimo lo spinge al futuro. In quest’operazione si perde il contatto con il precedente e con tutto quanto questo ha fatto per adire al miglioramento sociale. Così facendo, l’uomo è proiettato al futuro e nel futuro si considera migliore del suo simile rimasto ai margini del passato. E ciò porta a formulare l’ipotesi di una trasmissibilità tra individui per cui, se il passato prossimo rappresenta un pericolo d’involuzione, e questo periodo è associato all’azione di uomini che hanno vissuto quell’epoca, allora tutti gli uomini che vivono condizioni di vita disagiate nel presente, sono considerati più affini al passato. Ciò li 24 25

M. Ruzzeddu, in M. Ruini, (a cura di), op. cit, pag. 33 A.R. Ember, M. Ember, Antropologia culturale, Il Mulino, Bologna 2004, pag.25.

21


immerge nel pregiudizio, poichĂŠ le loro particolari condizioni sociali sono intese come portatrici di malessere e di arretratezza e non di progresso.

22


CAPITOLO II L’uomo e la cultura 1. Il significato di cultura e l’approccio socio-antropologico Nel corso dei secoli, abbiamo potuto vedere come l’uomo ha evoluto il suo modo di pensare, di intendere e di concepire la natura e l’altro 26. Egli ha scoperto immagini diverse nell’altro e avendone paura, ha innalzato barriere razziali ed etniche. La diversità culturale non è stata concepita come peculiare all’uomo del luogo ma come sintomo d’inferiorità, d’imperfezione e quindi soggetta a sopraffazione.27 Tuttavia, nel corso degli ultimi due secoli si è sviluppata con maggiore intensità una tendenza (o meglio)

una

corrente

di

pensiero

che

ha

ribaltato

questa

concettualizzazione, tendendo al supermento del pregiudizio razziale. Sono sorti dei moti che hanno cercato di imporre una visione paritaria e ugualitaria dell’essere uomo.28 Tuttavia se alcuni individui sono mossi nel loro agire dal pregiudizio razziale, dal sentimento di diffidenza e di sopraffazione nei confronti del “diverso”, merito ed emulazione dovrebbero suscitare coloro che hanno profuso le loro energie a rafforzare il rapporto tra l’uomo ed il suo simile e tra questi e la natura. Si pensi che già nelle tribù primitive, il legame tra gli 26

L’altro in questo caso è inteso come il simile dell’uomo che si differenzia da costui per cultura, razza, religione, etnia, estrazione sociale etc. 27 Tanti sono gli esempi storici che caratterizzano queste affermazioni, tra tutte si veda la tratta degli schiavi africani che assunse delle enormi proporzioni. Gli europei giustificarono un tale barbara azione, nell’inferiorità culturale e nella missione di civilizzazione. 28 Schiavitù e tratta degli schiavi sono nozioni che siamo soliti associare a epoche tanto buie quanto remote della storia dell'umanità. La comunità internazionale si è impegnata fin dai primi anni dell'Ottocento nella lotta contro questo genere di barbarie . I valori di libertà e di eguaglianza, su cui si fonda la società moderna, valori sanciti solennemente nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, sono ormai riconosciuti dalla totalità delle Nazioni.

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uomini, soprattutto nei gruppi e nei clan, sia stato eretto a totem; e in esso l’uomo si è plasmato. Si è fatto proteggere dall’animale totemico (cioè dal legame con il suo simile e quindi dal suo simile) ed ha perseguito il fine ultimo: tutelare se stesso29. Egli ha trasmesso ai suoi simili la conoscenza, la tradizione, l’arte, la morale, il diritto, il costume e infine ha indissolubilmente strappato al tempo il suo sapere e l’ha fissato nella cultura. La prima definizione antropologica di cultura che si allontana sia dall'universalismo illuminista sia dalla visione etnocentrica della prima antropologia si fa risalire a Edward Burnett Tylor, nel 1871, con la pubblicazione in Inghilterra del libro “Primitive culture” che si apre con la definizione di cultura intesa come quel complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine che l'uomo acquisisce come membro di una società.30 Il concetto di cultura è stato, nel corso di questo secolo, notevolmente ampliato da Malinowski, Mauss e Lévi-Strauss, i quali ne hanno affermato la dimensione relativista e la necessità di immergersi nel tessuto culturale della comunità studiata per comprendere a pieno gli autentici significati. La rivoluzione metodologica per una totale comprensione dei fenomeni culturali è stata in questo senso dettata da Malinowski che con gli “Argonauti del Pacifico”, ha descritto la lunga esperienza vissuta alle Trobiand, un gruppo d’isole a est della costa della Nuova Guinea. Per Malinowski il segreto per comprendere lo spirito autentico degli indigeni sta nella combi29

Le tribù primitive erano divise in gruppi o clan, ognuno dei quali era portatore di un “totem”, che di solito era un animale commestibile, innocuo o pericoloso, e temuto; oppure, più raramente, era una pianta o un elemento naturale (pioggia, acqua) legato a tutto il clan da un rapporto particolare. Secondo la descrizione che ne fa Freud, il totem «è in primo luogo il capostipite del clan, ma ne è anche lo spirito tutelare e il soccorritore che trasmette oracoli alla sua gente e, se pur pericoloso agli altri, riconosce e risparmia i suoi figli. I membri del clan, per contro, soggiacciono all'obbligo sacro — pena una sanzione che vige di per sé — di non uccidere (o distruggere) il loro totem e di astenersi dal consumare la sua carne (o comunque dal trarne godimento)» vedi S. Freud, Totem e Tabù, del 1912 – 1913 pag.11 30 vedi anche C. Mongardini, op. cit, pag. 248

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nazione di tre elementi: possedere reali obiettivi scientifici, isolarsi dalla società dei bianchi e andare nei villaggi. Ed è nello “studio di campo” che l’antropologo vede la cultura come “un tutto inscindibile, un sistema integrato dove le parti sono in stretta relazione tra di loro”. Ciò che spiega un fatto culturale non è la sua origine, ma la sua interrelazione con altri fatti culturali all’interno della cultura come sistema. È insomma una realtà sui generis e deve essere studiata come tale31. Essa scrive in un altro saggio Malinowski, è nello stesso tempo il meccanismo minimo per la soddisfazione dei più elementari bisogni della natura animale dell’uomo, e anche un sistema sempre in sviluppo e sempre crescente di nuovi fini, nuovi valori e nuove possibilità creative.32

La cultura può essere così scissa in valori, simboli, significati, ma anche in modelli di comportamento e ruoli sui quali si costituiscono i rapporti sociali e le istituzioni, che fissano la vita collettiva e ne costituiscono il territorio sociale. Il fatto che un sistema culturale sia comune a tutti gli individui (di quel sistema) e tenda a definire le aspettative reciproche e a stabilizzare la vita collettiva non significa però che tutti gli individui sono nella stessa misura partecipi di esso, sia per una diversa interiorizzazione di valori e sia per una diversa distribuzione dei ruoli degli individui. Al centro del significato di cultura trova così sempre più spazio l'idea di quotidiano - e ciò che si sviluppa nel quotidiano: i ruoli, le aspettative, le credenze, i miti, i riti e tutte le pratiche che strutturano l'agire quotidiano. Non solo, con la cultura s’individua uno di strumento prescrittivo capace di fornire un significato al mondo e agli individui (identità). 31

Malinowski scrive questa definizione di cultura nell’articolo Culture per l’Encycloppaedia Britannica vedi anche C. Mongardini, op. cit., pag 251 32 B. Malinowski, Man’s Culture and Man’s Behavior, in Id., Sex, Culture and Myth, Londra, 1963, p.196

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Gli sviluppi più recenti dell'antropologia hanno posto alcuni accenti critici su una tale visione di cultura, specie sulla sua dimensione statica intesa come bagaglio di prescrizioni definite e necessarie alla definizione del “noi”. Una tale concettualizzazione, infatti, acuirebbe le differenze, renderebbe le culture come entità pure e statiche e non lascerebbe alcuno spazio per l'autonomia individuale (per questo si parla d’individui iperculturizzati). James Clifford ha introdotto, sulla scia di queste critiche, l'idea che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico di continua ibridazione con altre culture.33 In sostanza si passa da una visione di cultura come “roots” ad una come “routes”. Ed è ancora Clifford che in un altro suo saggio del 1997, “Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century”, avvicina lo studio della cultura a concetti quali “strade” e “viaggio”: ove centrale diviene il senso del passaggio di frontiera, del superamento del confine, del contatto con nuovi mondi a significare la costante ibridazione al centro delle culture nel mondo contemporaneo. Un'altra nota definizione di cultura c’è fornita da Clifford Geertz, che la accomuna ad una rete di significati che gli individui hanno creato e continuano a ricreare, restandone così invischiati. Come spiega lo stesso antropologo: il concetto di cultura che esporrò [...] è essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo, insieme con Max Weber, che l’uomo è un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la 33

Nel suo libro “The Predicament of Culture: Twentieth Century Ethnography, Literature, and Art” scritto nel 1988 e tradotto in italiano col titolo “I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura e arte nel XX secolo”. Clifford sostiene l'impossibilità per un codice culturale di definirsi e presentarsi come puro in un mondo sempre più al centro di scambi e interazioni, dove le identità hanno perso le loro certezze e i luoghi sono sempre più permeabili a molteplici influssi culturali: le culture, allora, non sono da intendersi come entità stabili e originarie (roots), bensì come percorsi di significato in costante negoziazione a contatto con altri codici culturali (routes)

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cultura consista in queste reti e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato 34

Geertz chiarisce inoltre che per significato non intende una qualche misteriosa proprietà delle cose custodita nelle menti degli uomini: si tratta piuttosto di un prodotto sociale. La cultura, rete di significati, è pubblica perché è prodotta ed esiste in pubblico, nelle interazioni locali tra uomini che “badano alle loro pecore nelle loro vallate”. La cultura, questa sorta di documento agito, è quindi pubblica come la parodia di un ammiccamento [...] Benché contenga il mondo delle idee non esiste nella testa di nessuno; benché non sia fisica, non è un’entità occulta. [...] Una volta che il comportamento umano sia visto come azione simbolica [...] la questione se la cultura sia comportamento strutturato o forma mentale [...] non ha più senso. Quello che ci si deve chiedere [...] [dei comportamenti] non è quale sia il loro status ontologico [...] si tratta di cose di questo mondo [...] è quale sia il loro significato: [...] ciò che viene detto quando avvengono o mediante la loro azione.35

Un concetto, in parte ripreso e riformulato da Hannerz, che intende la cultura come una rete di significati continuamente riformulata dalle interazioni e dalle pratiche sociali. Ulf Hannerz parla di networks come momento culturale fondamentale della contemporaneità. In quanto organizzazione sociale del significato, la cultura può essere vista come una serie di interconnessioni estremamente complesse(..) un network di prospettive, con una produzione continua di forme culturali esplicite.36

Il punto centrale di quest’approccio è il rifiuto sia della visione critica dell'imperialismo culturale, dove gli effetti della globalizzazione 34

C. Geerzt, Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, pag 41 C. Geerzt, op. cit., pag 47 36 Cfr. U. Hannerz, la complessità culturale, Il Mulino, Bologna, 1998 pag. 89 35

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culturale ricadono a cascata nei vari contesti locali omologandoli, sia della visione spesso normativa del particolarismo, che vede nel sorgere di specificità culturali una forma di reazione agli effetti di una cultura mondiale. Anche in sociologia la cultura è sempre stata al centro dello studio, seppure l'interesse non sia verso la comparazione con altre culture bensì dal ruolo occupata all'interno del sistema sociale. Durkheim, ad esempio, pone l'accento sulla dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive come momento costituente la coesione necessaria a definire un organismo sociale. Illuminanti sono al riguardo le analisi che Durkheim dedica al fenomeno del totemismo e della religione. Il primo è visto come legame che viene a intercorrere tra un simbolo o norma e l’identità di un clan o gruppo di persone. Sulla base di tale legame, la compatibilità o l’incompatibilità tra i diversi totem regola i rapporti tra i diversi clan, giustificando interdizioni di tipo matrimoniale, alimentare, ecc. La religione è considerata come una cosa eminentemente sociale. Le rappresentazioni religiose sono delle manifestazioni collettive che esprimono delle realtà generali; i riti sono delle maniere di agire che nascono all’interno dei gruppi associati e che sono destinate a suscitare, a mantenere o a riprodurre certi stati mentali di tali gruppi37. Marx,

al

contrario,

definisce

la

cultura

come

l'elemento

sovrastrutturale necessario a mantenere l'ordine sociale derivato dalla ripartizione e proprietà dei mezzi materiali di produzione. Tutti gli aspetti della conoscenza e del pensiero umano sono compresi in questa posizione: Marx e tutti i sociologici classici dopo di lui sostengono che (..) i saperi sono profondamente influenzati dalle forme dominanti dell’organizzazione sociale: tutto quanto pertiene al pensiero e alla conoscenza umana è determinato dalle attività produttive della 37

F. Crespi e F. Fornari, Introduzione alla sociologia della conoscenza, Donzelli Editore, Roma 1998, pag.83

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società, che s’identificano con le strutture materiali del lavoro, le istituzioni economiche e politiche, le forme della tecnologia38

Gramsci riprende l'approccio critico marxista e introduce il concetto di egemonia culturale per identificare quei processi di dominio da parte di una classe che impone la propria visione del mondo attraverso le pratiche culturali. Chiara è la figura di Gramsci nel testo di Pietro Lucia: In Gramsci si vede chiaramente il ruolo decisivo che deve assumere la cultura per la costruzione dell’egemonia e per la formazione di un blocco storico alternativo al blocco di potere che ha nelle mani le leve di comando nell’economia e nello Stato39

Ma è lo stesso Gramsci che afferma come I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria permanente spezza, e non immediatamente, la subordinazione40

2. Varie scuole e correnti di culturali Un altro approccio critico è stato affrontato con la Scuola di Francoforte - tra gli altri Adorno, Horkheimer e Marcuse - i quali introducono i termini d’industria culturale e di cultura di massa. Rianimando l'idea illuminista di una cultura alta, la Scuola parla d’industria culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali attraverso i media e l'industria che favorirebbero una cultura e una società

38

Doyle E. McCarthy, La conoscenza come cultura: la nuova sociologia della conoscenza, Meltemi editore srl, Roma,2004, pag.40 39 Piero Lucia, intellettuali italiani del secondo dopoguerra: impegno, crisi e speranza, Guida Editori, Napoli 2003, pag. 119 40 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,Einaudi, Torino 1977, pag. 1863

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massificata, ossia uniforme, senza stimoli, priva di creatività in quanto destinata a raggiungere il maggior numero di persone. Attraverso i mass-media il potere sociale impone valori, comportamenti e bisogni uniformi, amorfi e asettici, inconciliabili con i contenuti delle autentiche esperienze di vita; nel facile e indifferenziato consumo l’industria sociale ha perfidamente realizzato l’uomo come essere generico, cioè l’apoteosi del tipo medio appartenente al culto di ciò che è a buon prezzo.41

Dall’altra parte del continente, Appadurai, sottolinea il ruolo delle informazioni, rivelandone i possibili effetti dannosi che queste possono generare nella società e nella riformulazione delle culture: le sofferenze della riproduzione culturale in un mondo globalmente disgiunto non sono ovviamente alleviate dagli effetti dell’arte meccanica (o mass media) perché questi media offrono potenti risorse per contro nuclei identitari che i giovani possono utilizzare contro le aspirazioni o i desideri dei loro genitori.42

Un'altra scuola, sorta nell’ambito accademico dell’università di Chicago, si è interessata fra l’altro, all'analisi dei modelli culturali degli emigrati negli Stati Uniti in termini d’integrazione e assimilazione: l'approccio si rifà all'idea di una cultura statica, omogeneizzata che non implica nei suoi rapporti l'ibridazione. Questa Scuola individua in area metropolitana le linee fondamentali di un’ecologia umana intesa come “lo studio delle relazioni spaziali e temporali degli esseri umani in quanto influenzati dalle forze selettive, distributive e adottive che agiscono nell’ambiente”43

41

J. Habermas, trad it, Teoria dell’agire comunicativo. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale,Il Mulino, Bologna,1986 pag.496 42 A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi Editore srl, Roma 2001, pag.67 43 Park, Burgen, Mekenzie, La città, Comunita, Milano 1967

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La corrente funzionalista, al contrario, pur con le divergenze dei casi singoli, si è avvicinata alla cultura come funzione d’integrazione e di trasmissione delle norme, delle aspettative, dei ruoli e dei fini sociali. Evidente l'influsso durkheimiano ove l'idea di cultura si lega al processo di socializzazione col quale la cultura è trasmessa e reiterata. Sta, infatti, alla base dell’importante contributo di Durkheim alla sociologia della conoscenza, (l’idea) secondo la quale l’intero complesso delle categorie conoscitive ha una genesi sociale. Originario non è l’individuo, ma la società, dalla quale soltanto assume significato l’interazione dei singoli.44 Con l'affermarsi della fenomenologia in sociologia, si sviluppa quella corrente definita interazionismo simbolica e si amplia la funzione dell’interazione nel paradigma di

cultura . Secondo il G.H. Mead,

l'interazione simbolica, ossia lo scambio di segni e significati, mediante le pratiche comunicative, è alla base dello sviluppo del sé; ove il sé è (per Mead): il risultato dell’oggettivazione che l’individuo opera di se stesso: così si costruisce in primo luogo attraverso i rapporti sociali e si sviluppano gli atteggiamenti individuali particolari, ma anche gli atteggiamenti dell’altro generalizzato. L’immagine che l’individuo ha di sé è il prodotto della sua esperienza e delle forme di mediazione simbolica che fanno parte della sua esperienza (...) in questa prospettiva la società è concepita come precondizione essenziale non solo del sé, ma anche della conoscenza.45

Il vantaggio di un tale approccio sta nel riconoscere sia un'autonomia dell'individuo nell'interpretare i significati sia uno spazio dinamico dove la cultura viene ogni volta riformulata e condivisa attraverso le pratiche.

44

Fabrizio Crespi e Fabrizio Fornari, Introduzione alla sociologia della conoscenza,Donzelli Editore, Roma, pag.80 45 Aurelia Marcarino, Sociologia dell’azione comunicativa, Guida Editori, Napoli, 1988, Pagg. 29 e 30

31


Sulla scia dell'interazionismo simbolico si sviluppa l'approccio costruttivista46 di Berger e Luckmann e l'etnometodologia di Garfinkel, entrambi concordi nel sostenere la percezione del reale come una costruzione sociale. Specie nel primo caso, la cultura s’identifica con tutte quelle pratiche che danno forma alla conoscenza: non esiste così una realtà oggettiva, ma solo una realtà percepita, riflesso della cultura di appartenenza. Berger e Luckmann nel saggio la realtà come costruzione sociale (1996; tr. It. 1999) i due autori trattano in maniera sistematica il tema della socializzazione e dei processi d’interiorizzazione intesa, quest’ultima, coma la percezione o l’interpretazione immediata di un evento oggettivo come esprimente un significato, cioè una manifestazione di processi soggettivi di un altro che così diventa soggettivamente significativo per me stesso.47 Pierre Bourdieu nel suo libro La distinzione. Critica sociale del gusto (1983) riprende l'approccio critico ed affronta un aspetto centrale, anche se spesso dimenticato o misconosciuto, del consumo culturale in genere: l’organizzazione sociale dei gusti. Egli sottolinea come i gusti culturali sono segni distintivi di una classe, la quale esprime una visione del mondo e modelli culturali inconsci (habitus) che informano la distinzione sociale. Secondo Bourdieu il gusto (…) riferito a questo o quel genere di prodotti culturali (il culturale è qui inteso in senso assolutamente ampio: si va dal gusto estetico per un’immagine, ai prodotti gastronomici, dall’arredamento della casa, ai gusti musicali, letterari ecc) è un elemento tutt’altro che personale, cognitivo o psichico. Al contrario ciò che guida ciascuno nella ricerca di percorsi di legittimità (..) è un fattore eminentemente sociale e relazionale (…)non a caso, quando debbono 46

47

L’approccio costruttivista esercita un grande fascino anche nel campo della socializzazione delle persone con “bisogni speciali” perché spinge l’osservazione oltre il già acquisito, e fa affiorare quegli aspetti delle dinamiche educative che sono l’opera ma di cui non si ha consapevolezza. A maggior ragione se l’ambito di realtà è rappresentato dalle persone disabili Fabio Ferrucci, La disabilità come relazione sociale. Gli approcci sociologici tra natura e cultura, Rubbettino Editore srl, Soveria Mannella (CZ) 2004 Pag.121

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giustificarsi, si affermano in forma, tutta negativa, attraverso il rifiuto opposto a gusti diversi(…) ogni gusto si sente fondato per natura, e praticamente lo è, dal momento che è habitus.48

La novità rispetto a Marx è che l'elemento culturale non è più una sovrastruttura ma parte integrante della struttura. Tale visione ricorda in qualche modo gli interessi ideali di Weber e le sue analisi sul ceto. Secondo il sociologo tedesco, tuttavia, la distinzione in base al prestigio legato allo status di una posizione sociale (il ceto), espresso in un'etica e in un'estetica specifiche, non si sovrappone necessariamente alla posizione economica come in Bourdieu. Gli sviluppi più recenti della sociologia, riguardo alle trasformazioni sociali degli ultimi decenni, si concentrano su due concetti fondamentali: globalizzazione e post-modernità. Questi non devono essere considerati come concetti separati ma come aspetti caratteristici della cultura nella nostra particolare società. Sempre più spazio, infatti, prende l'idea che gli effetti del villaggio globale di McLuhan se inseriscano e si contamino con le specificità culturali locali: gli effetti così sono di un’interdipendenza culturale, dove i modelli si confrontano, si mischiano e si formano attraverso l'ibridazione (glocalisation). Così oggi ci ritroviamo a parlare di film orientali premiati a Cannes o ancora dei diversi usi che internet ha conosciuto in India o in Corea o in altre parti del mondo.

3. Le differenze culturali ed il relativismo 48

Cristina Grasseni, Antropologia ed epistemologia per lo studio della contemporaneità,Guaraldi, Rimini 2006, Pag.152

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Altro elemento che suscita notevole discussione nel mondo scientifico riguarda la convivenza di culture differenti all'interno degli stati nazionali e del sistema mondo. Qui in generale s’individuano due approcci: il multiculturalismo che rileva la presenza di diverse culture dai confini labili e fra loro permeabili; e il relativismo che pone l’accento l'incommensurabilità delle culture che rimangono così universi separati e fra loro non comunicanti. Ma volendo per un momento tralasciare la spiegazione epistemologica fornita dai due approcci, cosa ci viene in mente quando pensiamo o osserviamo culture altre, e che confrontiamo indegnamente con la nostra, ad esempio quando osserviamo la vita degli indiani delle pianure, o quella vissuta all’interno dei villaggi africani, o quella affrontata dai beduini nel deserto? In un bel saggio, scritto tra il 1924 ed il 1925 Ruth Fulton Benedict, allieva di Franz Boas, antropologo, fondatore di una scuola di pensiero nota come relativismo culturale o culturalismo scriveva: “I matrilinei Zuni sono un popolo dove la sessualità è rilassata, la gelosia maschile è molto attenuata, le case costruite dagli uomini appartengono alle donne, il divorzio è semplice (basta mettere i vestiti del marito fuori dalla porta) non comporta problemi, dove non esiste senso di colpa legato al sesso, e l’omosessualità rappresenta una condizione onorevole. La morte è vissuta con naturalezza e senza sfoggio di terrore, l’omicidio è virtualmente inesistente, il suicidio così violento che non è neanche contemplato. Salvo alcune violazioni di carattere rituale, non esiste alcun crimine. Le controversie economiche si risolvono senza grandi liti”.49

A questa descrizione, la Benedict ne affianca altre sempre legate a popolazioni autoctone che individuano modelli di cultura caratterizzanti le 49

Benedict Ruth, Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano 1960

34


popolazioni. Il suo libro Modelli di Cultura (1934) sviluppa l’idea secondo la quale la “modellizzazione produce una forma culturale media per ogni tipo di società” Lo studio delle culture autoctone ci dovrebbe fornire una tolleranza fortemente accresciuta verso la loro diversità ed un’abilità maggiore a sottoporre a giudizio i tratti dominanti della nostra civiltà 50. La tolleranza presuppone la presenza di culture diverse, così come appare diversa la nostra cultura agli occhi degli altri. Volgendo lo sguardo al macrocosmo, avremmo dinanzi ai nostri occhi, non una cultura gerarchicamente posta a un livello superiore, che detta i canoni su cui compiere la comparazione nei confronti delle altre culture ma culture sovrane, che si adagiano orizzontalmente nei continenti, negli stati, nelle regioni, nelle provincie, nei comuni e nei villaggi del mondo. Potremmo definire la cultura peculiare alla sovranità. Come uno Stato esercita, in un determinato territorio e su un determinato popolo, la potestà di governo assoluta, esclusiva e originaria, così la cultura in quel determinato territorio ha un carattere originario, perché sorge con il sorgere della comunità, esclusivo e assoluto in quanto i rapporti tra i membri della comunità, che sono stabiliti e regolati in virtù delle conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, e costume valgono erga omnes e sono accettate in quanto poste dagli appartenenti alla medesima comunità. Se ciò è vero, non è più possibile affermare che esistano culture inferiori, barbare o antiche. Inoltre se è proprio il principio di sovranità che detta le linee guida nella gestione delle relazioni internazionali fra Stati, sostanziandosi nella effettiva e concreta autonomia di ciascuno Stato, l’incontro fra culture diverse, deve svolgersi al pari, e deve ispirarsi a principi di riconoscimento, tolleranza e tutela reciproca. 50

Stocking, George W. Jr. (1992), The Ethnographer’s Magic and Other Essays in the History of Anthropology, University of Wisconsin Press, Madison & London., pag. 300

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Così scriveva François Marie Arouet, noto come Voltaire: La tolleranza è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore. Non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie. È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani". "Il diritto all'intolleranza è assurdo e barbaro: è il diritto delle tigri; è anzi ben più orrido, perché le tigri non si fanno a pezzi che per mangiare, e noi ci siamo sterminati per dei paragrafi51

Tuttavia, fino a tutto il XIX secolo, si riteneva che esistessero popoli provvisti di cultura e popoli privi di essa. I gruppi etnici “diversi” da quelli occidentali, seppur portatori di cultura, erano considerati popoli di natura, "primitivi" o "barbari". Questa divisione così netta era dettata da una forma di etnocentrismo dell’uomo occidentale52, autoproclamatosi unico detentore del sapere "universale", in grado di proporre la propria cultura come termine di paragone per le altre. Tale approccio si fonda principalmente sul confronto tra società moderne e società tradizionali; e dal fatto che queste ultime assumono caratteristiche proprie del sottosviluppo. Tuttavia l'errore di valutazione nel considerare una zona sottosviluppata nasce da un pregiudizio nell'utilizzo dei parametri tipici a considerare un luogo sviluppato o sottosviluppato. Nel sistema socio-economico capitalista occidentale, vengono infatti impiegati, per definire il grado di sviluppo, il reddito pro-capite, il livello di produzione, l'alfabetizzazione, il tasso di natalità e di mortalità. Questa tendenza ad interpretare e valutare le culture altre, utilizzando come metro di confronto la propria, diviene evidente presso gli europei 51

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Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli Editore, Milano 1995, pag.62 L'etnocentrismo, nella sua accezione più moderna e comune, è la tendenza a giudicare le altre culture ed interpretarle in base ai criteri della propria proiettando su di esse il nostro concetto di evoluzione, di progresso, di sviluppo e di benessere, basandosi su una visione critica unilaterale. Il termine è stato introdotto nel primo decennio del XX secolo dal sociologo e antropologo statunitense William Graham Sumner nel 1906 nel suo importante Folkways.

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dopo le grandi spedizioni geografiche, con la scoperta dell’America, delle isole del Pacifico e dell'estremo oriente. Alcuni antropologi, ad esempio, consideravano i popoli pre - letterati privi di qualsiasi forma di religione o anche provvisti di una "mentalità pre-logica" (come sostenne l'antropologofilosofo Lucien Levy-Bruhl) semplicemente perché il loro modo di pensare non corrispondeva a quello della cultura sviluppatasi nell’Europa occidentale.53 Non stupisce, quindi, il fatto che i rappresentanti delle culture non occidentali, ed in modo particolare i popoli privi di scrittura, siano stati in passato ampiamente descritti come esseri immorali, illogici, a volte perfino perversi. Per difendere la sopravvivenza delle culture "primitive", che non erano riconosciute, se non come esistenti ad uno stato inferiore di evoluzione, si sviluppò all’inizio del '900 il cosiddetto "relativismo culturale". Gli assertori di tale teoria combattevano l’etnocentrismo, negando l'esistenza di un'unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali, e affermando che ogni cultura sia portatrice d’istituzioni e ideologie la cui validità poteva non aver significato al di fuori della cultura stessa. Emerse un nuovo punto di vista che facilitò una profonda comprensione e un più sottile apprezzamento nei confronti delle culture diverse. Si comprese così che i bisogni umani universali potevano essere soddisfatti con mezzi culturalmente diversi e, ciò che era considerato 53

In base alla teoria del "prelogismo", i primitivi sarebbero caratterizzati da una struttura psichica in cui non vige il principio di non contraddizione, e in virtù della quale la loro mentalità, il rapporto soggetto/mondo, il rapporto naturale/sovrannaturale, sono differenti dai nostri. Per Levy-Bruhl è dunque metodologicamente sbagliato utilizzare le rappresentazioni collettive dell'uomo occidentale per interpretare sistemi logico-culturali affatto diversi. Al contrario, rifiutando l'impostazione eurocentrica, "l'attività mentale dei primitivi non sarà più interpretata in partenza come una forma rudimentale della nostra, come infantile e quasi patologica. Apparirà anzi come normale nelle condizioni in cui essa si esercita, come complessa e, a suo modo, sviluppata. La teoria del prelogismo costituisce il filo rosso che lega le maggiori opere di Levy-Bruhl, da Les fonctions mentales dans les sociétés inférieurs (1910) a La mentalité primitive (1922), fino a Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive (1931)

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morale in una cultura poteva essere considerato amorale o eticamente indifferente in un’altra. Presso alcune culture, per esempio, non è amorale uccidere una bambina alla nascita o un uomo troppo anziano non più produttivo, in una situazione in cui non è possibile ottenere cibo a sufficienza per tutti. L’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e giudicati nell’ambito della stessa, porta alla conclusione che non si può considerare una cultura superiore o inferiore a un’altra. Nell’etnocentrismo è implicita una sopravvalutazione della società cui si appartiene; vittime dell'etnocentrismo sono stati anche studiosi, quali etnologi e antropologi che, soprattutto negli ultimi tempi, hanno fatto delle popolazioni “primitive” un fertile oggetto di ricerca e di studio. Già Sumner nel 1906 scriveva: è vano immaginare che un uomo, anche se di “mentalità scientifica”, possa spogliarsi dal pregiudizio o dalle opinioni preconcette per porsi in un atteggiamento neutrale di indipendenza nei confronti dei mores: sarebbe come se volesse sottrarsi alla gravità o alla pressione atmosferica.

In certo senso, dunque, l’etnocentrismo attribuisce al progresso e allo sviluppo un valore irrinunciabile e necessario cui nessuna società può sottrarsi, così che il mutamento economico conseguente è considerato come un fenomeno inevitabile e spesso indolore. Questa eccessiva fiducia nei modelli evolutivi, a discapito di quelli non considerati tali, ha giustificato azioni d’intolleranza. Non dimentichiamo, infatti, che sono state compiute, nei secoli passati, azioni di intolleranza eticamente inaccettabili. Il problema dell’etnocentrismo non riguarda solo avvenimenti accaduti in passato, ma investe anche fenomeni attuali, come l’integrazione tra i popoli, la globalizzazione delle culture nell’odierna società occidentale, e gli episodi drammatici di conflitto sociale. Va oltre al resto ricordato che l’etnocentrismo è un fenomeno intrinseco di ogni comunità umana e di qua38


lunque cultura. Quando esso è socialmente controllato non può che contribuire alla coesione sociale del gruppo e ne assicura il mantenimento della sua identità sociale. Tuttavia il superamento dell’etnocentrismo occidentale era necessario per comprendere o spiegare le altre culture nelle loro particolarità storiche o funzionali. La professionalizzazione del fieldworker54, promossa da Malinowski, poggiava esplicitamente sull’idea che solo una solida preparazione teorica potesse permettere al ricercatore di avvicinarsi alle culture altre, senza essere sopraffatto dai propri pregiudizi sui “primitivi” o sui “selvaggi”. L’atteggiamento relativistico verso le differenze culturali costituiva un pre-requisito della ricerca antropologica, un vantaggio metodologico che l’antropologo professionale acquisiva sui dilettanti attraverso lo studio e la preparazione teorica. La via verso l’elaborazione di una conoscenza scientifica delle culture non viziata da idee e punti di vista preconcetti e svalutativi. È chiaro che l’etnocentrismo si presenta come un ostacolo alla comprensione, qualcosa che impedisce di cogliere altre razionalità o altre moralità, sovrapponendo ai contesti culturali altri giudizi che in quei contesti non hanno senso. Oggi il criterio discriminante è più spesso la cultura (stili di vita, credenze, costumi, storia, etc.): si dovrebbe perciò preferire l'espressione culturocentrismo. Il principio etnocentrico non è più dichiarato nei documenti ufficiali (come quelli di Hitler e di Perón) ma è praticato attraverso l'esportazione dei modelli economici e dei valori culturali dell'occidente progredito nel Terzo Mondo in via di sviluppo. Un'attualizzazione dell'etnocentrismo è il pregiudizio eurocentrico ovvero l'americanismo se si fa riferimento ai modelli di consumo. Parados54

L’uso del termine fieldwork sta ad indicare la ricerca sul campo e risale al Alfred Haddon, che lo mutò dalle scienze naturali, dove si era sviluppato sin dal diciottesimo secolo. La raccolta in loco di parole, costumi e artefatti sembrava la naturale raccolta di esemplari botanici, zoologici e minerali

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salmente l'etnocentrismo può coesistere con l'accresciuto interesse delle persone giovani e scolarizzate verso i popoli degli altri continenti, probabile atteggiamento di risposta alla crescente omologazione a uno stile di vita "occidentale". Degli altri popoli si sa di più e si può vedere di più (viaggi, TV, libri); questi movimenti volontari verso le altre culture non portano però ad un’eliminazione automatica dei pregiudizi razziali, dei campanilismi e degli atteggiamenti etnocentrici, poiché l’azione che si compie nell’osservare gli altri è quella di paragonarli con noi stessi. Il dibattito sul relativismo culturale è vivace e denso di stimoli intellettuali. Da Herskovits in poi, si giunge alla precisazione di un’esigenza di relativizzare il relativismo propugnata anche dal Papa teologo Ratzinger. Dice Marco Aime, in difesa del relativismo e citando Toynbee: essere relativisti oggi e qui significa semplicemente tenere conto della storia, l’occidente non è mai stato l’unica parte importante del mondo, l’occidente non è mai stato il solo attore della storia moderna nemmeno dell’apogeo della sua potenza (e quest’apogeo è forse oramai passato)55

Preveggenza e criticità sono in questa citazione strettamente connesse. Ne consegue una doverosa attenzione verso le diversità, le alterità e verso tutto quello che rappresenta la sostenibilità di un mondo nostro e di un mondo altro. Per tal motivo il concetto di ambiente sostenibile è troppo scarno e insufficiente se non si lega alla parola quasi assiomatica “cultura”. Cultura e sostenibilità dell’ambiente garantiscono e tutelano una partecipazione allo sviluppo, che è doverosa e fondamentale per la nostra civiltà.

55

M. Aime, Gli specchi di Gulliver, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pag.61

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CAPITOLO III L’ambiente ed il rischio 1. L’ ambiente e la cultura postmoderna Ora è impossibile e perfino anacronistico parlare di "ambiente" senza considerare la presenza umana. Ogni area del pianeta risente direttamente o indirettamente della presenza antropica. Nei capitoli precedenti abbiamo teorizzato come non sia possibile parlare di uomo senza associare a questo il paradigma di cultura. Ne consegue che natura e cultura sono immediatamente correlate per l’intermediazione dell’uomo. Natura e cultura costituiscono, quindi, un insieme integrato e retroagente: ogni azione dell'uno determina un "feedback", una risposta dell'altro in base alla quale si determineranno nuove scelte e nuovi comportamenti. Ad esempio, il feedback della componente "natura" alla combustione di idrocarburi operata dall'uomo è costituito da un aumento della temperatura che, come effetto, comporterà la desertificazione, l’alterazione delle fasce climatiche, l’erosione del suolo, etc. In tal caso il "feedback" è una reazione a una forte pressione, tesa ad alterare gli equilibri naturali. Anche la sociologia ha cominciato a interessarsene, dedicando particolari studi sui disastri ecologici e sui loro effetti sociali. Oggi la disciplina sociologica ha ampliato la sua attenzione verso l'ambiente e la crisi ecologica mondiale, sviluppando diversi studi sull'argomento. Inoltre ha considerato con attenzione il problema ambientale come uno dei fattori che caratterizzano la società postmoderna. 42


Fra gli anni 60 - 70 si è fatta strada questa nuova concettualizzazione di società: che è appunto la post-modernità. Così Andrzej Kobylinski la qualifica: sarà un’epoca che segue l’epoca moderna. (..) con la postmodernità ha inizio la quarta – dopo antica, medioevo e moderna – grande epoca dell’umanità(..) la distinzione tra moderno e post moderno porta con sé un chiaro giudizio di valore; distinguendo tra moderno e postmoderno si vuole dire che ci troviamo a disagio nel nostro tempo e che riteniamo di aver anticipato il futuro. 56

Seppur legata ai caratteri della modernità, questa si esprime in una dimensione diversa a causa di una serie di fenomeni di “ultima generazione”: vita lavorativa caratterizzata da una molteplicità di esperienze, crescita esponenziale del ruolo dei mass media, globalizzazione a cui fa da contraltare il localismo, dissolvimento di punti universali di riferimento: Il passaggio dal moderno al postmoderno si può identificare con il dissolversi delle certezze universali della ragione, con la crisi del concetto di legge universale necessaria, con il moltiplicarsi dei linguaggi, con la sfida della complessità e, soprattutto, con il moltiplicarsi indefinito di tutti gli aspetti del nostro vivere. Essere postmoderno significa accettare il compito di “decostruire” il mondo della nostra vita.57

Ciò porta a pensare a una certa liquidità di valori: "Uno dei tratti più impressionanti dell’attuale fase della modernità sarebbe quello di non avere più nulla di “solido” o, in altre parole, la

56

Cfr per il significato postmodernità Andrzej Kobylinski, Modernità e postmodernità, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1998, pag 43 57 S. Nicolosi, La fine della storia moderna, pag.64:

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liquidità, intesa come un processo continuo di decomposizione, sembra essere la mobile icona del mondo globalizzato58

Se da un lato la postmodernità, tra decostruzione e liquidità di valori, sbriciola l’individuo dal proprio interno, la crisi ecologica e la problematica ambientale riducono le chance di trovare riparo all’esterno. Il tutto sembra avere risvolti negativi per l’uomo che, sempre più imprigionato nella gabbia d’acciaio59, deve individuare ora e subito delle soluzioni concrete. Per molto tempo, per "ambiente" si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente naturali, considerati all'origine di tutto ciò che circonda l’uomo. Non a caso il termine deriva dal latino "ambire": ossia circondare, andare intorno60. Nella semantica del termine, s’individua un senso di centralità dell'uomo, considerato non come parte integrante della biosfera ma quale componente esterna, capace di plasmare, gestire un "ambiente" creato appositamente per la sua crescita materiale e spirituale, in virtù delle superiori doti intellettive di cui è dotato. Questa visione ha aperto la strada a una pericolosa azione antropica ispirata a una visione economicista della vita, al cui vertice nella scala dei valori, vi è il soddisfacimento ad ogni costo dei bisogni. Non dimentichiamo che la crescita demografica e l'utilizzo di tecnologie dal forte impatto hanno inciso alterando negativamente l'ambiente. Fino al 1600 la crescita della popolazione mondiale era così lenta da far registrare un aumento del 2-3% per ogni secolo: furono necessari ben 58

cfr Zygmunt Bauman in Modernità Liquida, Laterza Roma - Bari, 2006 Il concetto di gabbia d’acciaio è stato usato da Weber per indicare un individuo collocato nella cultura moderna senza possibilità di cambiamento. Ivi la modernità era caratterizzata per un verso dalla spersonalizzazione dei rapporti nelle moltepliche sfere dell’organizzazione sociale, per l’altro dall’affermarsi di una razionalità formale per la quale i mezzi diventano essi stessi i fini. Cfr. C. Mogardini, op. cit., pag 588 e seg. 60 Cfr Dizionario etimologico, Rusconi Libri, Genova 2004 59

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sedici secoli perché dai 250 milioni di abitanti all'inizio dell'era cristiana si passasse a circa 500 milioni di abitanti. Da questo momento in poi il tempo di raddoppio della popolazione è andato sempre diminuendo tanto che, oggi, in alcuni Paesi del mondo, ci si avvicina al cosiddetto "limite biologico" nella velocità di crescita di una popolazione (3-4% l'anno). Secondo l'ONU si supereranno gli otto miliardi di abitanti intorno al 2025: tali previsioni sono considerate attendibili dalla maggior parte degli studiosi, a differenza di quelle che si spingono molto lontano e che non possono prevedere quali mutamenti sociali, economici, culturali si verificheranno. 61 Bisogna considerare le notevoli differenze che attualmente si registrano fra Paesi avanzati, arrivati quasi al "punto zero" della crescita, e Paesi in via di sviluppo che contribuiscono al 90% dell'incremento demografico odierno. Nel 2025, secondo le previsioni dell'ONU, la Nigeria ad esempio, avrà una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti e l'Africa supererà di tre volte l'Europa per numero di abitanti. Il sovrappopolamento, unito ad arretratezza, analfabetismo e mancanza di adeguate strutture igienico-sanitarie, costituisce sicuramente un grave problema non solo per l'Africa a causa delle inevitabili conseguenze di tale fenomeno a livello mondiale. Si verifica, infatti, uno squilibrio tra domanda e offerta di risorse disponibili, dovuto anche all'utilizzo di circa l'80% delle risorse energetiche mondiali da parte dei Paesi industrializzati. 62 Gli effetti provocati da una gestione inadeguata delle risorse naturali e dei territori, la crescita demografica e le stime relative ai profondi

61

Fonte: “Associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi dell'art. 13 legge n. 349/86” i dati sono consultabili al sito http://www.aiig.it 62 Fonte: “Associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi dell'art. 13 legge n. 349/86” i dati sono consultabili al sito http://www.aiig.it

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cambiamenti complessivi63 hanno fornito l'input per una "rivoluzione copernicana" volta alla tutela ed allo sviluppo dell’ambiente.

2.

L’etica della responsabilità ed il paradigma dell’ambiente Seppur tutto ciò che circondi l’uomo costituisce l’ambiente, in esso

avviene una profonda e continua interazione tra componenti naturali ed antropiche. In ogni territorio si sovrappongono visibilmente delle trasformazioni determinate nei "tempi brevi" della storia e delle modificazioni avvenute nei "tempi lunghi" della natura. Non solo, l’ambiente si sviluppa e ha bisogno di: -

Un supporto spaziale, che serve a stabilizzare le comunicazioni tra gli elementi;

-

Un territorio, che è lo spazio da cui trae i suoi input;

-

Inclusioni, che sono parti dell’ambiente fisico situate entro il sistema

-

Artefatti, che sono oggetti fisici costruiti dal sistema per i suoi scopi.

63

Fonte “Associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi dell'art. 13 legge n. 349/86” scaricabile sul sito: http://www.aiig.it L'aumento della temperatura delle acque oceaniche sta determinando l'alterazione degli equilibri che consentono la persistenza della barriera corallina e la riproduzione di molte specie marine. Il rischio di estinzione interessa sia le specie animali e vegetali che vivono alle alte quote sia quelle presenti nelle aree semidesertiche in condizione estreme (le temperature più alte porteranno a compimento il processo di desertificazione già in atto). Con l'aumento dell'evaporazione, inoltre, si avrà una progressiva scomparsa delle zone umide e delle grandi foreste paludose del Borneo. La biodiversità, insomma, è un bene a rischio in tutte le aree del pianeta: molti organismi vivono in nicchie ecologiche caratterizzate da livelli di tolleranza ristretti per quanto riguarda la temperatura. Si possono facilmente dedurre i gravi effetti del "Global Change" sulla produttività agricola e zootecnica a livello mondiale. E' necessario, quindi, tenere sotto controllo gli indicatori del "Global Change" per comprendere le modalità di reazione del sistema Terra ai programmi finalizzati alla riduzione ed inversione di un fenomeno, l'effetto serra, che provocherebbe un impatto ambientale difficilmente controllabile e modifiche profonde a livello economico e strategico.

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Tutto questi fattori si attivano coesistendo nel macrocosmo che è appunto l’ambiente. Ogni individuo, in qualsiasi parte della terra, contribuisce con la costruzione

di

artefatti

alla

degradazione

dell’ambiente

e

al

depauperamento delle risorse, per cui la responsabilità, la cautela, la riflessione impongono un cambiamento di rotta attuabile attraverso una gestione responsabile delle risorse. Se, infatti, nella società postmoderna64 l’uomo opera un controllo sugli spazi e sui processi naturali, e ciò può considerarsi una grande conquista del genere umano, soggiogato per molto tempo alla

natura

“divina”65, non può essere elusa la responsabilità che assume l’uomo in qualità di “primus”. Non solo, come accennato in premessa, maggiore attenzione deve essere posta all’ambiente che da ogni parte avvolge e ingloba l’uomo”66 quest’essere che nasce, cresce si sviluppa e muore in esso. Già Hans Jonas, in simmetrica opposizione ad autori come Ernst Bloch, che hanno favorito il pensiero utopistico di dominio della natura e di progresso senza limiti, teorizzava il principio della responsabilità: Essi non si sono accorti che – invece di produrre grandi trasformazioni in positivo – hanno finito per minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutto il pianeta, prendendo sul serio le utopie e trasformandole così da innocuo esercizio letterario o filosofico in pericolosi programmi di stravolgimento del mondo67

64

Sul significato del termine cf il paragrafo 1 del capitolo III. Nella storia dell’Occidente è la natura aveva un ruolo dominante tra gli antichi. Per i greci, l’ordine del mondo era un ordine necessario, e nella sua necessità ospitava in qualche modo il divino. I boschi erano pieni di ninfe, le cime dei monti erano la sede degli dei. L’uomo era un elemento della natura sottomesso alle sue sacre leggi. 66 Cosimo Quarta, Luisella Battaglia, Una nuova etica per l'ambiente, edizioni Dedalo, Bari 2006, pag. 6 67 Cfr H. Jonas, Il principio della responsabilità. Un’etica per la società tecnologia, Einaudi, Torino 1990, pag.3 e segg 65

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Le utopie dell’uomo, (aggiungiamo noi) hanno però permesso uno sviluppo della conoscenza in tutti i campi del sapere; ciò che ieri appariva lontano oggi si trova a portata di mano. In Weber questa considerazione emerge chiaramente. Egli, infatti, ha inteso individuare uno spirito positivo nella natura dell’azione dell’uomo, la quale amplia continuamente lo scibile con la ricerca dell’impossibile. il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile68

L’atteggiamento di Jonas, sulla scelta in negativo, di evitare il sommo male dell’autodistruzione dell’uomo (allorché non è possibile trovare un accordo generalizzato su cosa sia e come si debba perseguire il bene comune) si scontra quindi con l’etica della responsabilità di Max Weber, fondata su una lungimiranza appassionata dell’uomo. Nell’etica della responsabilità possiamo individuare un carattere generale, nel quale da un lato si deve “non fare”, non depauperare, non disperdere, le risorse naturali, e dall’altro si deva “fare”, cioè compiere scelte a difesa, tutela e salvaguardia dell’ambiente.

Seguendo queste

direttrici, in ultima istanza, l’uomo limiterà i danni causati da se stesso. Il passo che deve necessariamente seguire per conseguire quest’obiettivo è riconoscere la natura come forma di auto-riconoscimento. Il riconoscimento ambientale diviene una forma di auto-riconoscimento. Con l’antropizzazione, infatti, l’uomo imprime nella natura i significati del proprio operare, secondo i modelli culturali che gli sono di volta in volta propri69.

Non solo. L’auto-riconoscimento si deve completare nell’etica della responsabilità al fine di perseguire efficacemente gli obiettivi di tutela dell’ambiente.

Ciò

implica

una

conoscenza

approfondita

delle

68

M. Weber, La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966, p.121 69 C. Quaranta, op. cit, pag. 66

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problematiche ambientali e una sedimentazione delle stesse nei tessuti culturali. Al riguardo, tanto è stato fatto, all'inizio del nuovo millennio, la cura e la protezione dell'ambiente sono diventate delle priorità globali: gli studi delle commissioni internazionali e gli appelli delle agenzie delle Nazioni Unite hanno a più riprese richiamato l'attenzione dei governi verso un inquinamento insostenibile per il nostro pianeta.70 Il tema dell'ambiente è entrato prepotentemente nelle agende di ogni politico o scienziato e nei dibattiti di ogni giorno. Da tema di approfondimento culturale, appannaggio esclusivo delle èlites, la tutela dell’ambiente è considerata argomento prioritario nella vita di tutti. Un segno sorprendete di questo passaggio lo abbiamo riscontrato nell’assegnazione del premio Nobel per la pace nel 2007 ad Al Gore – ex vice presidente americano con la seguente motivazione: costruire e diffondere una conoscenza maggiore sui cambiamenti climatici provocati dall'uomo e porre le basi per le misure necessarie a contrastare tali cambiamenti.71

Episodio non unico; nel 2004 il Nobel fu assegnato

a

un’ambientalista e pacifista keniana Wangari Maathai. La natura diviene un progetto sociale, un’utopia che la società stessa si propone di ricostruire, modellare e trasformare. Ciò apre una seconda fase della modernità in cui i vari fattori di pericolosità fanno emergere la società del rischio.

70

71

Nella sua IX edizione, il Rapporto Energia e Ambiente dell’ENEA sottolinea come alle questioni dell’approvvigionamento, della sicurezza, del costo dell’energia, si possa rispondere efficacemente rendendo più equilibrato l’apporto delle diverse fonti, mentre alle sfide del cambiamento climatico e dell’espansione dei consumi, sia necessario rispondere non solo con l’efficienza energetica e con la promozione delle energie a emissione zero, ma soprattutto con l’accelerazione del cambiamento tecnologico. Fonte Enea– Ente per le nuove tecnologie, l’energia è l’ambiente, consultabile al sito web: http://www.enea.it/produzione_scientifica/REA.html Cfr l’articolo apparso sul Corriere della Sera del 12.10.2007 dal titolo Al Gore vince il Nobel per la pace

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Se l’attuale società è dunque caratterizzata dalla fine della natura, cioè

dalla sua socializzazione,

deve necessariamente

ricomparire

nell’azione dell’uomo la responsabilità alla tutela dell’ambiente.

3. L’Ambiente come sistema Al pari delle altre forme di vita, quella sociale si caratterizza per le transazioni che avvengono tra il sistema e l’ambiente. Un sistema semplicemente lo possiamo definire come un complesso di elementi in interazione72. La società, adottando un’analisi struttural funzionale, la definiamo come un insieme di funzioni che, intersecandosi e integrandosi, adempiono lo scopo di rendere funzionante l’intero sistema sociale73. Un sistema sociale è composto d’istituzioni, di relazioni, di ruoli e di aspettative, che nascono in chi assume un determinato ruolo sociale. Ogni sistema deve essere in grado di svolgere almeno quattro funzioni: 1. Adattarsi all’ambiente; il sottosistema che svolge questa funzione è quello economico. 2 Definire i propri obiettivi; il sottosistema che svolge questa funzione è quello politico. 3 Integrare le parti; il sottosistema che svolge questa funzione è quello giuridico e religioso. 4 Conservare la propria organizzazione; i sottosistemi che svolgono questa funzione sono la famiglia e la scuola.74 Ma che rapporto stabiliamo tra sistema e ambiente? 72

Mazzoli L., L’impronta del sociale. La comunicazione fra teorie e tecnologie, Franco Angeli, Milano 2001. 73 Pietro Boccia, Socializzazione e controllo sociale, Editore Liguori, Napoli 2002 74 Pietro Boccia, op. cit, pag. 136 e segg.

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Una risposta la individuiamo nel rapporto di Luhmann75. Il sociologo parte dal presupposto che l’evoluzione della società consiste nell’aumento della complessità e che quest’ultima, per essere analizzata, va “ridotta” all’interno del rapporto sistema – ambiente – mondo. Il mondo è inteso come la complessità interminabile, l’insieme delle illimitate possibilità che comprende sia l’ambiente e sia il sistema in quanto prodotto determinato. Il primo, l’ambiente, è concepito come l’insieme delle possibilità determinabili, presenti in una situazione concreta; il sistema si ritiene costituito in base all’effettiva selezione di alcune delle possibilità determinabili dall’ambiente con l’esclusione di altre. Per semplicità, possiamo considerare il mondo come un grande contenitore ove sollevando il coperchio troveremmo due cubi, i nostri due elementi, l’ambiente e il sistema, uno incluso nell’altro come nel gioco delle scatole cinesi. Il primo è più grande del secondo e lo ricopre completamente; il secondo, quello più piccolo, può scegliere come collocarsi all’interno di quello più grande. Ambiente e sistema sono quindi da intendere come livelli progressivi di riduzione della complessità del mondo. L’umanesimo di un tempo, alla luce di queste interpretazioni, non ha dunque più la sua valenza significante. Luhmann scrive: se l’uomo è considerato come parte dell’ambiente della società (anziché come parte della società stessa) si modificano i presupposti di tutte le problematiche poste dalla tradizione; e dunque anche i presupposti dell’antico umanesimo.76

Interessante è l’approccio dei sistemi fornito dalla teoria generale dei sistemi che rappresentano il superamento dell’analisi scientifica 75

Niklas Luhmann è uno dei rappresentanti più autorevoli e originali del pensiero sociologico tedesco contemporaneo: egli è il più grande “teorico dei sistemi”. 76 N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, il Mulino, Bologna 1990 pag 353 cfr a tal proposito P.P. Donati, Teoria relazionale della società,F. Angeli, Milano 1991

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classica, la quale si limitava allo studio delle relazioni causa-effetto tra variabili, portando alla nascita di uno schema astratto di riferimento per l’unificazione delle varie scienze. Questa teoria si fonda sul concetto dell’isomorfismo definito come “corrispondenza biunivoca tra oggetti, in differenti sistemi, che preserva la relazione tra oggetti”. I sistemi, infatti, possono differire tra loro in vari aspetti ma possono rassomigliarsi strettamente per certe strutture e certi processi di base. Per questo diventa possibile individuare un numero ristretto di sistemi generali e pervenire quindi a un’unificazione della scienza. Una grande bipartizione dei sistemi prevede la divisione in: 1) controllati o cibernetici o formali 2) incontrollati o ecologici o informali. I primi hanno un centro di controllo in grado di intervenire sui sistemi mediante flussi d’informazioni che scorrono nei canali di comunicazione. Siccome questi sono numerosi e complessi, occorre creare un unico punto di controllo (selettore) in grado di operare su tutti. Nel centro hanno sede le istituzioni, gli individui, i processi che regolano il sistema. E’ da qui che si diramano come ragnatele i nervi del potere che controllano il sistema e le periferie; quest’ultime sono depauperate di risorse naturali, umane (forza lavoro) e finanziarie (capitali), che sono attratte dalla maggiore possibilità di reddito al centro. S’innesca quindi la spirale sviluppo – sottosviluppo in un processo dicotomico che si trova a ogni livello del sistema socio – territoriale. L’emergenza della problematicità centro-periferia a livello globale è indice che la Terra si comporta come sistema chiuso, cioè non ha uno spazio esterno con cui interagire creativamente e su cui scaricare le proprie 52


tensioni. L’aumento delle dimensioni assolute di un sistema comporterebbe un sovraccarico dello stesso e un conseguente naturale decentramento dei processi di controllo e di decisione.

4. L’ambiente ed il rischio Possiamo affermare a questo punto che la questione ecologica assume un’autentica centralità, poiché si ha la percezione di vivere rischiosamente e c’è la necessità di correre ai ripari. I rischi cui è esposto l’uomo moderno sono difficilmente comparabili con quelli dell’uomo premoderno, in quanto qualitativamente differenti, sia nella loro origine che nel modo in cui sono vissuti. Per l’uomo premoderno le minacce derivavano prevalentemente dal mondo fisico: terremoti, eruzioni, uragani. Per l’individuo moderno molti rischi sono connessi e prodotti dalle stesse attività umane. La stessa fenomenologia della paura è differente rispetto al passato. Oggi le incertezze si giocano su una serie di tematiche che si legano alle troppe contraddizioni del sociale. Ci legano anche a una globalizzazione che si espande con velocità stellare e accelera effetti non voluti che agiscono sulle condizioni di vita dell’uomo. Generalmente per rischio s’intende: non solo la possibilità che si manifesti un fenomeno(…) - secondo la definizione proposta dall’Ufficio del Coordinatore delle Nazioni Unite per il soccorso in caso di catastrofe – si tratta della probabilità di perdita di valore di uno o più elementi (popolazione, manufatti, attività sociali o economiche) esposti al pericolo degli effetti prodotti da un particolare fenomeno naturale ritenuto pericoloso.77

77

U. Leone, La sicurezza fa chiasso: ambiente, rischio qualità della vita, Giuda Editori, Napoli 2004, pag 24

53


Una corrente della psicologia, il cognitivismo, definisce il rischio come il “prodotto delle probabilità e delle conseguenze del verificarsi di un certo evento avverso”. Il rischio, secondo una definizione dell’UNESCO del 1972, è dato dal prodotto di tre parametri: la pericolosità, la vulnerabilità e il valore esposto: R: H x Vu x Va Nella quale H indica la pericolosità, Vu la vulnerabilità e Va il valore esposto a rischio. La pericolosità è la probabilità che, in un dato intervallo di tempo, l’evento si verifichi con una definita intensità in una data area. La vulnerabilità è la stima percentuale delle opere, costruite dall’uomo che non è in grado di resistere all’evento considerato e della perdita presumibile in vite umane. Il valore esposto a rischio è valutato sia sulla perdita in vite umane che dal prevedibile danno economico.78

Il concetto di pericolosità e quello di rischio spesso sono usati come sinonimi, nonostante abbiano significati molto difformi: il rischio implica una duplice potenzialità di guadagno o di perdita, che dipende dal ruolo attivo dell’uomo. Il pericolo comporta una possibilità di danno, subìto passivamente. L’attività scientifica che ha come oggetto il rischio è strutturata nei seguenti grandi ambiti tematici, tra cui ci sono aree di distinzione:

1. Rischio Tecnologico 78

U. Leone, op. cit., pag 24 e segg.

54


2. Rischio Socio-Sanitario 3. Rischio Sociale 4. Rischio Ambientale. L’aumento dei rischi che minacciano la società si lega nelle parole di F.M. Emmanuele (presidente del World Social Summit, recentemente svolto a Roma sui rischi planetari) al terrorismo, alle possibilità di guerre nucleari, alla criminalità organizzata e non, alle catastrofi ambientali, alle malattie provocate dai virus mutanti ma anche e soprattutto alla crescita delle condizioni di incertezza che connotano lo sviluppo dei percorsi di vita degli individui e che si traduce in un sentimento con cui sempre più ampie parti di popolazione mondiale sono costrette a confrontarsi. È proprio su questo ultimo aspetto che dobbiamo centrare l’attenzione perché si collega strettamente ad ogni componente ambientale e sociale del pianeta Proprio il rischio ambientale, per essere approfondito attentamente, deve necessariamente considerare sia la componente umana che quella naturale, perché il concetto stesso di rischio è strettamente collegato con la possibilità di misurare un danno. Quindi un concetto che si riferisce quasi esclusivamente all’uomo, ai suoi insediamenti ed alle sue attività produttive.79

La

componente

umana

determina

dei

rischi

legati

all’inquinamento, mentre la componente naturale determina eventi come terremoti, maremoti, dissesti ideologici. In entrambi i casi, l’uomo può essere considerato il principale agente, poiché i suoi comportamenti sono in grado di incidere sulle cause e accelerare i tempi dei rischi naturali. I fattori di rischio antropico si considerano come le azioni che direttamente possono determinare un’alterazione dello stato dell’ambiente o di parti di esso. La “pressione antropica” può essere misurata sistematizzando informazioni relative a diversi fattori quali la densità 79

U. Leone, op. cit., pag. 26 e seg.

55


demografica, l’abbandono di aree o centri abitati, la concentrazione urbana dell’edificato ed i flussi turistici. Facendo riferimento ai dati reperiti dalle numerose banche dati, è possibile elaborare la “Carta del Rischio Antropico”80: documento di analisi delle fonti di rischio determinato dalla pressione antropica e la relativa previsione dei possibili effetti di quest’ultima sul territorio. La Carta deve evidenziare, in particolare, le dinamiche di variazione della presenza dell’uomo nelle aree oggetto di indagine, quantificando le seguenti tendenze: 1) Abbandono delle aree; 2) Concentrazione di popolazione; 3) Pressione turistica. La previsione del fenomeno consente di organizzare degli interventi di prevenzione ed educazione, a sua volta suddivisa in informazione alla popolazione e formazione degli informatori con l’obiettivo di definire politiche ed azioni per il progressivo disinnesco del rischio. Per dare invece una definizione di “area a rischio ambientale”, si può partire dalla legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente dell’8 luglio 1986 n. 394: ove “gli ambiti territoriali e gli eventuali tratti marittimi prospicienti caratterizzati da gravi alterazioni degli equilibri geologici nei corpi idrici, nell’atmosfera o nel suolo, sono dichiarati “aree a elevato pericolo di crisi ambientale”.

80

In Italia La "Carta del Rischio" è un sistema informativo realizzato dall'Istituto Centrale per il Restauro al fine di fornire agli Istituti e agli Enti statali e locali preposti alla tutela, salvaguardia e conservazione del patrimonio culturale, uno strumento di supporto per l'attività scientifica ed amministrativa. Lo strumento di base è costituito da un Sistema Informativo Territoriale (SIT), che è a oggi lo strumento tecnico più adatto per produrre rappresentazioni cartografiche tematiche integrate a dati alfanumerici. Il primo SIT della Carta del Rischio è stato realizzato fra il 1992 e il 1996.

56


Per una corretta elaborazione di un Programma di Previsione è necessario identificare dove si verificano delle situazioni di rischio territoriale; come si manifesta un determinato rischio, quanto danno causano all’ambiente e quando questo possa avvenire. Per quantificare l’incidenza del rischio, con l’obiettivo di pianificare interventi per la sua riduzione, è necessario individuare i campi di analisi, considerando l’intervento di almeno quattro ordini di fattori: 1. delimitazione dell’ambito fenomenico entro cui s’intende condurre l’analisi dei rischi; 2. Identificazione degli insiemi di eventi potenzialmente forieri di effetti dannosi a ciascuno dei quali si cercherà di associare una probabilità (P) di accadimento; 3. descrizione delle conseguenze e associazione a queste di una misurazione della gravità del danno atteso (Magnitudo M); 4. Individuazione di criteri di valore che consentano di valutare l’utilità

delle

attività

potenzialmente

rischiose

che

giustifichino

l’attribuzione di un’utilità in negativo alle conseguenze attese. R = f(P,M) In seguito alla valutazione dei fattori di rischio è necessario predisporre misure d’intervento idonee ad affrontare almeno tre fasi, complementari e interagenti, di manifestazione del rischio. 1. Prevenzione: Il rischio, in questa fase, è visto come potenzialità e s’ipotizza di poterlo evitare o di evitare che si estenda.

57


2. Gestione: fase in cui è imminente una decisione che si ritiene connessa all’attivazione di fonti di pericolo o per minimizzare le conseguenze di eventi negativi già parzialmente attuali. Questa fase comprende due nuclei tematici: a) uno concernente la negoziazione e la partecipazione nell’ambito di processi decisionali inerenti a scelte potenzialmente rischiose - gestione partecipata; b) uno riguardante la comunicazione e il ruolo dei mass media nella formazione dell’opinione pubblica - comunicazione. 3. Reintegrazione: fase in cui gli effetti indesiderabili sono fenomeni

già accaduti, che hanno già operato danni e distruzioni. Il problema è di mitigarne gli effetti e di ricostruire le condizioni sociali, economiche e ambientali alterate.

58


CAPITOLO IV La tutela e lo sviluppo

La salvaguardia dell’uomo stesso dipende da quanto questi, riesce a ritornare in equilibrio con la natura. Tale concetto guiderà quest’ultimo capitolo, dedicato esclusivamente alla tutela e allo sviluppo sostenibile dell’ambiente, con il solo scopo di individuare metodologie utili a migliorare l’esistenza umana. Più che mai siamo convinti che la tutela dell’ambiente, così come lo sviluppo sostenibile, sia una necessità più che un lusso.

1.

Le origini dello sviluppo sostenibile Nel 1824, durante la rivoluzione industriale, un ufficiale francese,

Sadi Carnot scrisse un libro intitolato Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco. Fu quella la data di nascita della formulazione teorica della termodinamica. I primi passi della termodinamica furono di dimostrare che gli atomi e le molecole di un corpo sono in continua agitazione – agitazione termica – e che quindi essi producono energia in forma microscopica detta energia interna. Da qui l’idea di sfruttare l’energia interna dei corpi per ricavarne lavoro cd. macchina termica. In termodinamica abbiamo due postulati importanti: I.

L’energia non si crea né si distrugge;

59


II.

La materia che entra nel sistema (ad esempio quella proveniente dal sole) è in uno stato di bassa entropia, mentre quella che ne esce è in stato di alta entropia.

Il primo principio, interpretato nell’ottica del pensiero fisiocratico, significa che l’attività umana non è in grado di produrre nuova energia ma solo di trasformare quella esistente. Il secondo principio è spiegato da Georgescu-Roegen utilizzando i concetti di energia libera, in relazione allo stato iniziale di bassa entropia e di energia legata, in riferimento allo stato finale di alta entropia.81 L’energia libera è utilizzabile dall’uomo, quella legata non lo è più perché è stata utilizzata in precedenza. Ciò significa che l’energia utilizzabile, cioè a bassa entropia, è rara perché può essere utilizzata dall’uomo una volta sola. L’unica fonte di energia illimitata è il sole che la trasmette sotto forma di flusso infinito.82 Il secondo principio della termodinamica ci può indicare la strada da percorrere affinché la vita sulla Terra possa continuare ad esistere. In particolare il secondo principio, evidenzia la tendenza universale verso il disordine (in termodinamica verso la massima entropia), che è anche perdita dell’informazione e della disponibilità di energia utile. Questa tendenza, chiamata da Clausius la morte termica, porta al cosiddetto equilibrio termodinamico, che

appunto provoca

la morte dei sistemi

biologici e degli ecosistemi, attraverso la distruzione delle diversità. Due sono le strade che posso portare a questa situazione: 1. Quando, scambiando energia sotto forma di calore, le differenze di temperatura vengono meno, portando alla livellazione delle energie e all’impossibilità pratica di fare qualsiasi cosa, perché lo scambio di energia utile è impedito; 81 82

D. Giardi e altri, Uomo ambiente e sviluppo, Geva edizioni, Roma 2006, pag 76 D. Giardi e altri, op. cit¸ pag. 77 e segg.

60


2. Quando un sistema rimane isolato, consumando le proprie risorse,

porta a un grande aumento dell’entropia interna e, in ultima analisi, alla propria autodistruzione. Per questa ragione i sistemi viventi cercano di evitare la soluzione di equilibrio termodinamico, mantenendosi il più lontano possibile da esso, auto-organizzandosi grazie ai flussi di materia e di energia che ricevono dall’esterno e da sistemi in condizioni di temperatura e di energie diverse dalle loro. 83 Ne consegue che la globalizzazione, la distruzione della diversità, sia biologiche che culturali, l’omologazione, il pensiero unico portano ineluttabilmente alla morte termica, alla distruzione finale. La stessa sorta segnerà quello Stato, o Paese, o Nazione che fa del proprio isolamento, del rifiuto alla contaminazione culturale, un dogma politico. Abbiamo già definito la terra come un sistema chiuso84, in quanto presenta una serie di limiti che potremmo sintetizzare in vincoli: di territorio, di assorbimento dei rifiuti e degli inquinamenti, di acqua, di aria, d’ossigeno. Questi vincoli limitano l’aumento indiscriminato della popolazione e della produzione. Infatti, se la popolazione aumenta, questa ha bisogno di più cibo per sfamarsi. Per aumentare la produzione di cibo dovrebbe aumentare la superficie di terra coltivabile o bisognerebbe produrre di più per ogni ettaro di terreno utilizzato. Inevitabilmente si andrebbe a impoverire i suoli, inquinare le falde acquifere, eutrofizzare i mari, deforestare, e così via. In questo quadro, avremmo inoltre la perdita della biodiversità, che farà saltare gli equilibri del carbonio e dell’ossigeno - c.d. effetto serra –

83 84

E. Tiezzi e N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?Donzelli Editore, Roma 1999, pag 10 Ibidem, pag. 47- 48

61


che provocherà un cambiamento climatico, il quale si andrebbe a ripercuotere sull’agricoltura ed in ultima istanza sull’uomo85. La storia della terra in quest’ottica, possiamo se non altro considerarla storia dell’uomo che da oltre quattro milioni di anni si evolve86. Una storia evolutiva dai caratteri stupefacenti e meravigliosi. Grazie al flusso di energia solare e alla fotosintesi87, si sono sviluppate numerose specie biologiche. La biodiversità diviene fondamentale per il mantenimento della vita sulla terra proprio perché tutto è in relazione al tutto, su questo pianeta. La stessa vita dell’uomo e degli altri esseri viventi è subordinata a un continuo flusso di energia proveniente dall’esterno, e questo flusso è costituito proprio dall’energia solare catturata tramite fotosintesi. Purtroppo con lo spreco energetico e con tecnologie non integrate nella natura, l’uomo rischia di far saltare questo meccanismo vitale. Il sole è un enorme macchina che produce energia e offre al pianeta Terra la possibilità di ricevere grandi quantità di energia entropica negativa, permettendo un bilancio globale complessivo che non contraddice il secondo principio della termodinamica.

85

Il clima è generato da vari fattori, in primo luogo dall’energia trasmessa dal Sole alla Terra. Tal energia è trasformata in calore che scalda la terra e l’aria, fa evaporare l’acqua, o fonde la neve. Parte di questo calore è rinviato verso lo spazio, ma è assorbito da alcuni gas presenti in atmosfera detti gas serra, tra cui spicca l’anidride carbonica, che intrappolano l’energia solare, immettendo calore in tutte le direzioni e contribuendo ad un ulteriore riscaldamento del Pianeta. Tale fenomeno fisico prende il nome di effetto serra. Esso è un fenomeno naturale indispensabile per la vita, senza il quale la Terra avrebbe una temperatura media di –18˚C. A questa condizione termica, il nostro Pianeta sarebbe molto diverso: le acque sarebbero congelate e non ci sarebbe vita, almeno nelle forme in cui oggi la conosciamo. Per contro, un’intensificazione dell’effetto serra, dovuto all’immissione eccessiva di gas da parte dell’uomo e di altri fattori, può provocare squilibri climatici di dimensione planetaria. Cfr Commissione Nazionale Italiana Unesco, Sviluppo sostenibile e cambiamenti climatici, Roma 2007, pag 6 e segg. 86 Vedi pag.4 87 La fotosintesi si rivela come quel processo con cui le piante catturano molecole povere di energia e in agitazione disordinata dell’acqua e dell’anidride carbonica e grazie all’energia solare la organizza costruendo strutture complesse.

62


Ogni anno il sole invia sulla Terra una quantità enorme di energia che il consumo annuo globale del pianeta è assolutamente trascurabile per quanto minimo esso sia88. Ma se il pianeta fosse circondato da una barriera adiabatica, che non lasciasse uscire il calore degradato, il pianeta stesso si riscalderebbe fino ad un punto tale che la vita cesserebbe di esistere: l’aumento di CO2 sta portando a questa situazione. Gli studi scientifici dimostrano largamente questo, l’atmosfera del pianeta Venere, ricca di CO2, ha portato la temperatura su quel pianeta a oltre 400° C e, a tale temperatura, la vita non è possibile. Noi essere umani, siamo fatti in gran parte di acqua e bolliremmo al raggiungimento della temperatura di 100° C. La natura stessa ha relegato il carbonio nelle viscere della terra. Oggi però le tecnologie stanno invertendo questo processo. Utilizzando il petrolio e il carbone per muovere ogni cosa sulla terra, questi elementi non potranno però mai essere energie rinnovabili. È all’interno dei vincoli biofisici che si deve muovere la programmazione economica, in sintonia con i ritmi della natura. I vincoli definiscono la capacità di sostenere la popolazione e tutte le altre forme di vita. Questa rappresenta la base della sostenibilità. Vi è però una critica che è mossa a questa teoria detta bioeconomica: la Terra non è un sistema chiuso bensì aperto, in quanto riceve energia dal sole. Inoltre secondo tali critici i dati empirici confermano che a partire da un dato livello di sviluppo, al centro della curva della crescita economica si rileva sistematicamente un calo della curva delle emissioni inquinanti.

88

Potremmo dire che il sole invia una quantità di 260 tonnellate e l’uomo ne consuma 15 chilogrammi. Cfr E. Tiezzi e N. Marchettini, op. cit, pag 20

63


Questo fenomeno è noto con il nome di deinquinamento ma purtroppo i dati a supporto di tale teoria non riguardano tutti i Paesi bensì solo quelli a più alto tenore di crescita.89

2.

Le tappe storiche Nel 1962 fu pubblicato un libro che divenne un potente catalizzatore

dell’opinione pubblica: Primavera silenziosa90 di Trachel Carson che metteva in guardia dai pericoli derivanti dall’uso indiscriminato degli insetticidi e dei loro effetti all’agricoltura. Con il dibattito che ne seguì, si ottenne il bando del DDT dai paesi industrializzati. L’ecologismo dell’epoca si sposò perciò con una critica al consumismo, alla cultura della produttività, prese di mira i simboli dell’uno e dell’altra dando vita ai primi movimento hippy che opponevano all’individualismo forme di solidarietà comunistico, all’economicismo imperniato dell’avere, l’esigenza di un mondo improntato ai valore dell’essere91. In quel periodo nascevano anche le prime associazioni ambientaliste come il WWF (1961) Friend of Herth (1969) e Greenpeace (1971) La spinta dei movimenti giovanili alle problematiche ambientali penetrarono nella società americana al punto che la politica non potrà più eludere la tematica. L’allora presidente degli Usa, Richard Nixon nel 1970 esplicitamente sostenne la necessità di cominciare a porre rimedio ai danni inferti alla natura.

89

D. Giardi e altri, op. cit, pag.79 R. Carsons, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1963 91 Un libro che ha indagato la dicotomia dell’avere/essere nella cultura degli anno 60 – 70 è stato quello di E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1986 90

64


Da lì, a poco il tema dell’ambiente diventerà di dominio pubblico. Quando uscirà il primo rapporto del Club di Roma92, la questione ambientale investirà la società nel suo complesso. A quel rapporto seguì la prima conferenza delle Nazioni Unite sul tema “Ambiente dell’uomo”. Era il 1972. Il club di Roma pose l’accento sull’impossibilità di avere una crescita materiale indefinita in un mondo dai limiti fisici finiti.93 Nella conferenza di Stoccolma del 1972 si riunirono 152 esperti di cinquantotto paesi che stilarono un significativo studio sui problemi ambientali del nostro pianeta.94 Nel 1987 Herman Daly e altri scienziati s’incontrarono per discutere del passaggio dalla “capacità di sostenere” allo “sviluppo sostenibile”. Pochi anni dopo la banca mondiale, nel maggio del 1990, organizza una conferenza internazionale interdisciplinare su “Ecological Economics of Sustainability” (I.S.E.E.) nella quale si gettano le basi di una nuova disciplina l’eco-economia, per ridirezionare l’economia verso la comunità, l’ambiente e un futuro sostenibile95 Poco prima della conferenza internazionale veniva posta un’altra pietra miliare per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile con il rapporto Bruntland96, stilato nel 1987. La commissione mondiale delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo, detta Commissione Brundtland, lavorò per due anni al fine di individuare un giusto equilibrio tra la tutela dell'ambiente e lo sviluppo. La

92

In Italia nacque il Club di Roma per iniziativa di Aurelio Peccei, ex dirigente della Fiat e dell’Olivetti. Egli aveva avuto l’idea di fondare un cenacolo composto di un gruppo scelto e limitato di uomini di scienza, cultura e industria che avessero lo scopo di sensibilizzare il mondo dell’informazione, della politica e della cultura sui grandi problemi dell’umanità. Oltre a Peccei vi erano Adriano Buzzati Traverso, fondatore dell’istituto di Biofisica e Genetica di Napoli, la sociologa Eleonora Barbieri Masini, Altiero Spinelli, Umberto Colombo che diverrà presidente dell’Enea e Roberto Vacca 93 E. Caretto, Ambiente, sostenibilità e qualità della vita, Amaltea edizioni, Lecce 2002, pag 36 94 B. Ward, R. Dubos, Una sola terra, Mondadori, Milano 1972 95 H. Daly e J.B. Cobb jr, For the Common good, Beacon Press, Boston 1989 96 Brundtland dal nome dell’allora primo ministro della Norvegia signora Gro Harlem Brundtland

65


commissione giunse alla conclusione che lo sviluppo avrebbe dovuto essere sostenibile: ove per sostenibilità s’intese: far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro (…) Lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali.

Questa dichiarazione pur sintetizzando alcuni aspetti importanti del rapporto tra sviluppo economico, equità sociale, rispetto dell'ambiente, la cosiddetta regola dell'equilibrio delle tre "E": ecologia, equità, economia, non sembra essere lungimirante a sufficienza, poiché pone al centro della questione non tanto l'ecosistema e quindi la sopravvivenza e il benessere di tutte le specie viventi, ma piuttosto le sole generazioni umane. Se da un lato lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore, dall'altro nella proposta persiste un’ottimistica (per alcuni critici eccessiva) fiducia nella tecnologia che porterà ad una nuova èra di crescita economica. Comunque sia, un aspetto merita di essere sottolineato: la centralità della partecipazione di tutti ed il soddisfacimento di bisogni essenziali che esige non solo una nuova èra di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiamo la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Il rapporto Brundtland ha ispirato alcune importanti conferenze delle Nazioni Unite, documenti di programmazione economica e legislazioni nazionali ed internazionali. Per favorire lo sviluppo sostenibile sono state 66


messe in atto molteplici attività ricollegabili alle politiche ambientali intraprese dai singoli Stati e dalle organizzazioni sovranazionali sia a specifiche attività collegate ai vari settori dell'ambiente naturale. Nel 1994, l'ICLEI (International Council for Local Environmental Initiatives) ha fornito un'ulteriore definizione di sviluppo sostenibile: “Sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare l'operabilità dei sistemi naturali, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi”. Ciò significa che le tre dimensioni economiche, sociali e ambientali sono strettamente correlate, e ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle reciproche interrelazioni. Nell’ambito di tale Convenzione Quadro, nel 1997, con il Protocollo di Kyoto, è stabilita una riduzione media del 5,2 % di gas serra a carico di tutti i Paesi industrializzati da realizzarsi nel periodo 2008-2012. L’accordo di Kyoto non rappresentava un punto di arrivo, ma un cambio di ciclo per i problemi del clima e dello sviluppo sostenibile. La realizzazione degli obiettivi dell’accordo fu affidata, soprattutto, ai Paesi maggiormente responsabili dei gas serra: all’Unione Europea è assegnata una riduzione delle emissioni pari all’8%, agli Stati Uniti del 7% ed al Giappone del 6%. L’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto è stata più complessa di quanto si auspicasse inizialmente. Per rendere operativo l’accordo raggiunto era indispensabile che esso, una volta sottoscritto, fosse ratificato da non meno di cinquantacinque nazioni firmatarie e che quest’ultime fossero responsabili, complessivamente, del 55% delle emissioni inquinanti. Questo target é stato raggiunto solo nel febbraio 2005, a seguito della ratifica della Federazione Russa, mentre gli Usa, responsabili di quasi il 25% delle emissioni globali, ancora oggi, si astengono dal ratificare il trattato.97 97

Commissione Nazionale Italiana Unesco, op. cit., Roma 2007, pag. 18 e segg.

67


Per raggiungere gli obiettivi, si decise di sviluppare politiche che accentuassero: -

il risparmio energetico attraverso l'ottimizzazione sia nella fase di produzione che negli usi finali (impianti, edifici e sistemi ad alta efficienza, nonché educazione al consumo consapevole),

-

lo sviluppo delle fonti alternative di energia invece del consumo massiccio di combustibili fossili. Nel 2001, l'UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che "la diversità culturale è necessaria per l'umanità quanto la biodiversità per la natura (...) la diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale".98 In questa visione, la diversità culturale diventa il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile, accanto al tradizionale equilibrio delle tre E (ecologia, equità, economia del rapporto Brudtland) L'evoluzione dei modelli organizzativi stanno recependo con forte attenzione il tema dello sviluppo sostenibile. Una prova tangibile è la norma ISO 9004, da decenni punto di riferimento internazionale per i sistemi di gestione per la qualità in ambito aziendale e non. Essa fornisce "Linea guida per il miglioramento delle prestazioni" al fine di raggiungere un successo sostenibile. Nella stessa norma è proposta la definizione di "sostenibile" come "capacità di un'organizzazione o di un'attività di mantenere e sviluppare le proprie prestazioni nel lungo periodo" attraverso un bilanciamento degli interessi economico-finanziari con quelli ambientali.

98

Art 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001

68


In Italia alla luce del DLgs n°152 del 03/04/2006 e delle modifiche apportate dal Dlgs n° 4 del 16/01/2008 si intese come principio dello sviluppo sostenibile: Ogni attività umana, giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice, deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future(…) Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell'ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell'ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell'ambiente anche futuro.

3. La teoria dello sviluppo sostenibile Herman Daly è il padre della teoria della sostenibilità, che basa il suo studio sulla seconda legge della termodinamica. Il concetto si basa essenzialmente sui seguenti punti: a) Esistenza dei vincoli in un pianeta finito, o meglio sul

riconoscimento che esiste una carrying capacity99 del pianeta Terra. b) Consapevolezza che la seconda legge della termodinamica pone

dei limiti agli usi e alle trasformazioni energetiche. c) Economia dello stato stazionario100. 99

Intesa come capacità di portare, di sostenere la popolazione. Stazionario significa simbiosi tra uomo e natura e sviluppo di un sistema che si basa sui flussi naturali rinnovabili di energie e di risorse della natura, senza accelerare la crescita e la distruzione di risorse non rinnovabili e dell’ambiente. Se usiamo il termine di crescita per indicare un cambiamento quantitativo e sviluppo per riferirsi a una modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in

100

69


Nello stato stazionario Daly presuppone almeno due condizioni: 4.

Equa ripartizione delle ricchezze e delle risorse terrestri tra popoli ed esseri umani;

5.

Controllo demografico delle nascite accompagnato alla riforma del diritto di proprietà, poiché senza di questo si ridurrà soltanto il numero dei poveri.

Lo stato stazionario è dunque visto come il fine necessario e desiderabile dall’economia di tipo capitalista e rimarrà per lungo tempo uno dei punti fissi della teoria economica. Oltre naturalmente a Daly, anche Smith, Ricardo, Mill e Keynes, proporranno come unica soluzione possibile all’inquinamento

e

allo

sfruttamento

crescente

delle

risorse

il

raggiungimento dello stato stazionario, caratterizzato da popolazione costante, produzione industriale costante e progresso dell’informazione e dei servizi illimitato.101 Chi fa coincidere quindi il concetto di economia florida con l’equilibrio economico e con la crescita del prodotto nazionale lordo contraddice due fenomeni per così dire eclatanti nei paesi industrializzati: crescente disoccupazione e un crescente degrado ambientale fino alla distruzione delle risorse essenziali al mantenimento della vita.102 La ragione principale la riscontriamo nel fatto che l’equilibrio economico non ha niente a che vedere con l’equilibrio biofisico, che è invece alla base dello sviluppo sostenibile. Daly ritiene che solo ritornando ai fondamenti biofisici della natura ed ai fondamenti morali della società, l’economia potrà affrontare la sfida della complessità ecologica e della sostenibilità. 101 102

stato stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra di cui l’economia umana è un sottoinsieme. Cfr E. Tiezzi, op. cit, pag 28 D. Giardi e altri, Uomo ambiente e sviluppo, Geva edizioni, Roma 2006, pag 79 Una piccola deroga a questa citazione l’abbiamo decritta a pag 58 tuttavia, abbiamo precisato che i dati relativi al deinquinamento riguardano una piccola parte di Paesi, quelli cioè a più alto tenore di sviluppo.

70


Oggi si riscontra una nuova cultura dell’ambiente nelle nuove categorie di comportamento dell’uomo volte alla tutela. A livello politico molti Paesi realizzano le loro grandi opere, ed anche in Italia, valutando ab origine l’impatto ambientale. Questo segna un passaggio di ciclo, un elemento di discontinuità con il passato, che a oggi non è sufficientemente sottolineato. Non sono poi così lontani gli anni durante i quali i sostenitori della questione ideologica erano considerati detrattori del nuovo e delle stesse idee di crescita economica e di progresso sociale. Numerosi sono gli ambiti di attività, dove la “rivoluzione ambientale” ha dispiegato i suoi effetti: l’agricoltura con il suo ramo biologico, il turismo con i parchi naturali, l’industria con il ripensamento sui cicli produttivi finalizzati a ottimizzare i processi c.d. Industria verde.

4.

La tutela e l’interazione socio ambientale Alla luce di questa nuova visione, l’uomo non deve più plasmare la

natura indiscriminatamente, poiché da questa attinge gli elementi per la propria

sopravvivenza.

Inoltre

la

tecnologia

ne

può

modificare

l’interdipendenza ma mai annullarla del tutto. I principi ecologici della Scuola di Chicago consideravano che sia ogni soggetto interessato alla propria sopravvivenza a modellare le sue relazioni verso direttrici simbiotiche o di tipo competitivo nei confronti dei propri simili. Questa teoria vedeva il comportamento umano in termini funzionali e non ne considerava l’aspetto etico. Vi è poi chi vede l’ambiente come misura astratta dello spazio, come distanza fisica fra un soggetto e un altro. La distanza significa assenza e condiziona le relazioni umane rendendole più fredde, la vicinanza invece,

71


afferma Simmel103, invece comporta compresenza e quindi rapporti diretti e diffusi: con persone assai vicine si è di solito (in termini) amichevoli o ostili e l’indifferenza reciproca è esclusa in proporzione alla prossimità spaziale.

L’ambiente non è solo uno strumento che rende possibile l’interazione umana, esso è anche un concreto spazio fisico che misura lo squilibrio delle relazioni umane. In questa visione dello spazio inteso come territorio, l’azione collettiva s’inserisce in maniera conflittuale: è rivendicazione di maggiore equità e reciprocità, cui gli uomini tenderebbero in quanto nessuno ama essere sottomesso e tutti aspirano a relazioni equilibrate. Si aprono così quattro prospettive di analisi dell’interazione socio ambientale: l’approccio ecologico, quello strategico dei movimenti, l’approccio cognitivo e quello interattivo. Nell’approccio ecologico l’azione collettiva riconosce un primato esplicativo all’ambiente. I movimenti sociali si mobilitano a suo favore, allorquando vedono minacciata la propria esistenza. Le azioni che s’intendono svolgere sono effettuate mediante proteste comuni, diffusione di critiche con l’utilizzo dei mass media; sono tutte azioni che scattano quando la società percepisce di essere in pericolo. Dagli anni ’80 con riguardo ai movimenti ambientalisti è da sottolineare la tendenza al processo di istituzionalizzazione: in molte si sono costituite in associazioni iscritte negli appositi registri, con lavoratori il cui compito è la direzione delle organizzazioni di movimento

103

Geroge Simmel, (1858-1918) in qualità di sociologo ricordato per la sua sociologia formale, nella quale cerca di approfondire l’analisi socio psicologica delle forme, delle figure tipiche di ogni cultura e di quei processi attraverso i quali ogni individuo diventa membro e partecipe della vita associata

72


ambientalista. Circa la tipologia di azione delle entità collettive a difesa dell’ambiente si può confrontare la tabella di seguito riportata.

Tipo di Organizzazione Ricorso alla

Centralizzat

Protesta

a

Decentrata

gruppo professionale di protesta

gruppo partecipativo di

3 es.

protesta

Greenpeace

es. LAV

lobby di interesse

gruppo di pressione di tipo

Frequente

1

Infrequente 2

pubblico es. Legambiente

4

volontario es. Amici della Terra

1. Greenpeace coniuga l’organizzazione centralizzata ad un frequente ricorso alla protesta. Si distingue in tutto il mondo per forme clamorose di protesta. 2. Legambiente è un’associazione centralizzata cui si associa un non frequente ricorso alla protesta. Oltre ad operare come lobby d’interesse pubblico, Legambiente si è interessata nel corso degli anni all’educazione ambientale.

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3. La Lega antivivisezione è un tipo di organizzazione decentrata con un frequente ricorso alla protesta organizzata attraverso gruppi autonomi sparsi sul territorio che spesso ricorrono a forme di proteste spettacolari. 4. Gli Amici della Terra sono un gruppo di pressione decentrato caratterizzato da azioni a favore dell’ambiente svolte da volontari. Qui introduciamo la definizione di volontario, “quale animatore di un servizio che è svolto dall’intera comunità”.104 e per l’intera collettività. È insomma un individuo che liberamente ispira la sua vita a fini di solidarietà”. Egli impegna energie, capacità, tempo ed eventuali risorse a iniziative aperte alla leale collaborazione con le pubbliche istituzioni e le forze sociali; condotte con adeguata formazione specifica. Risponde proprio a questa figura la realtà generale dei gruppi ambientalisti in Italia, anche se in realtà l’istituzionalizzazione dell’ambientalismo appare la tendenza dominante in tutto lo scenario europeo. Nell’approccio cognitivo l’ambientalismo sembra ben esprimere lo spirito dell’attuale società postmoderna, in cui l’ambiente non è più un condizionamento, né oggetto di una strategia ma piuttosto una sorta di “spartiacque culturale” che divide e mobilita la società. Secondo Eder, l’ambientalismo ha una capacità di incidere sul pubblico in quanto pone al centro dell’attenzione proprio un

bene

pubblico: tradizionalmente era la religione il fondamento dell’identità collettiva, adesso alla comunità di credenti si sostituisce una comunità associativa di essere umani, basata sull’espressività dei soggetti: sentimenti, riflessività, convivialità.105 Ma l’approccio di Eder evidenzia anche come le associazioni ambientaliste tendono a strutturarsi lungo un continuum ai cui estremi stanno le associazioni che nascono allo scopo di “individualizzare gli individui”, cui si oppongono altre che intendono le finalità ed il senso 104

C. De Luca, Il volontario per la formazione solidale, Rubbettino editore srl, Soveria Mannella (CZ) 2004, pag. 66 105 Cfr G. Osti, La natura, gli altri, la società: il terzo settore per l’ambiente in Italia, FrancoAngeli, Milano 1998, pag.73

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dell’associarsi come legati all’affermarsi di una determinata relazionalità umana ri-tribalizzazione delle cerchie sociali. La ricerca di una “nuova relazionalità” da parte delle associazioni ambientaliste deve fare i conti con il proprio processo storico: la periodizzazione dell’ambientalismo. 1. L’ incompatibilità tra ambientalismo ed economia 2. Il concetto di sviluppo sostenibile cerca di conciliare le due posizioni 3. Postambientalismo (attuale) caratterizzato dalla presenza di una cultura d’ambiente nelle società occidentali. Con l’approccio interattivo si ritiene che un movimento si qualifichi per la presenza di una rete di relazioni informali tra una pluralità d’individui, gruppi e organizzazioni. Queste reti alimentano un’identità collettiva altrimenti detta solidarietà. La solidarietà del movimento si fonda su una comune visione della realtà e su sequenze di scambi reciproci; l’identità e lo scambio formano la rete, ossia il “movimento”. Diani

ritiene

tale

rete

fondamentale

per

l’esistenza

delle

organizzazioni: la scomparsa di essa comporta il venir meno del movimento sociale. Particolare elemento della relazione è la reciprocità, ossia lo scambio di oggetti che non hanno una chiara calcolabilità e restituibilità, quindi gli scambi non avvengono in base ad un principio di autorità o di mercato, ma secondo il principio della reciprocità che tiene conto che la caratteristica di un comune reticolo ambientalista è data dal fatto che l’ambiente è un dono continuamente scambiato fra i membri del network. Il bene naturale che si vuole difendere non è un fine, ma un fattore che circola e crea legami di solidarietà.

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Conclusione Se la modernità ha prodotto una società civile individualistica e artificiale la crisi attuale prelude una “reazione” in rapporto alla quale gli osservatori esprimono pareri assai contrastanti: alcuni prevedono come necessario un proseguimento e un’ulteriore spinta radicalizzante del processo di individualizzazione. Per altri, le società occidentali si trovano a fronteggiare la rilevante questione dell’identità collettiva: questo pare segnalare la “fine dell’individualismo” e un ritorno di principi costruttivi delle identità collettive. A questo punto sorge un problema: quali sono i caratteri specifici di questa “nuova relazionalità”? Sarebbe possibile selezionare molti punti di partenza ma appare fondamentale: uscire dall’individualismo radicale per costruire un tipo di relazione in cui “il bene che sta nella relazione non consiste nel beneficio utilitaristico che l’individuo ne può trarre, bensì in qualcos’altro che la relazione può fare per lui”. Tra queste relazioni interumane e quelle dell’uomo con le cose in quanto natura esiste un’interdipendenza che ci si augura possa mettere in moto la dinamica di un nuovo senso di società civile “attraverso la natura”. Infatti, la sostenibilità ambientale è alla base del conseguimento della sostenibilità socio – economica: la seconda non può essere raggiunta a costo della prima. Se la globalizzazione ha rappresentato un elemento fondamentale per l’evoluzione sociale e tecnologica, quindi per favorire alcuni modelli di sviluppo, ciò non esclude che abbia lasciato tracce pesanti che hanno influito proprio nei confronti di paesi altri e di culture altre. Occorre allora ridefinire lo sviluppo e forse il parlare di sviluppo sostenibile può apparire datato perché alla prova dei fatti non sono state trovate risposte soddisfacenti. Il pensiero di una cultura dello sviluppo è il fine di una politica sociale che deve considerare la cultura dello sviluppo 76


come referenziale alla salvaguardia dell’umanità. Come disse Ashis Nandy già nel 1989 “il recupero degli altri sé, delle culture e delle comunità, se non definite dalla coscienza globale dominante, può rivelarsi il primo compito della critica sociale e dell’attivismo politico e la prima responsabilità di una salutazione intellettuale nelle prime decadi del prossimo secolo”106

Il nostro modo di vivere, consumare, comportarsi, decide la velocità del degrado entropico, la velocità con cui è dissipata l'energia utile e il periodo di sopravvivenza della specie umana. Si arriva così al concetto di sostenibilità, intesa come l'insieme di relazioni tra le attività umane, la loro dinamica e la biosfera, con le sue dinamiche, generalmente più lente. La terra va vista non come una nostra proprietà da sfruttare, ma come un capitale naturale avuto in prestito dai nostri genitori per i nostri figli.107 Queste relazioni devono essere tali di permettere alla vita umana di continuare, agli individui di soddisfare i loro bisogni e alle diverse culture umane di svilupparsi, ma in modo tale che le variazioni apportate alla natura dalle attività umane stiano entro certi limiti così da non distruggere il contesto biofisico globale. Se riusciremo ad arrivare a un'economia da equilibrio sostenibile come indicato da Herman Daly, le future generazioni potranno avere almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto: è un rapporto tra economia ed ecologia, in gran parte ancora da costruire, che passa dalla strada dell'equilibrio sostenibile. Giorgio Nebbia conclude il suo saggio Lo sviluppo sostenibile108, con un'importante osservazione: 106

In A. Escobar, Immaginando un’era di postsviluppo, in R. Malighetti (a cura di), Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Meltemi, Roma 2005, pag 214 107 E. Tiezzi e N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile?Donzelli Editore, Roma 1999, pag 25 108 G. Nebbia, Lo sviluppo sostenibile,Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1991

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Occorre avviare un grande movimento di liberazione per sconfiggere le ingiustizie fra gli esseri umani e con la natura, una nuova protesta per la sopravvivenza capace di farci passare dalla ideologia della crescita a quella dello sviluppo.

Nessuno ci salverĂ se non le nostre mani, il nostro senso di responsabilitĂ verso le generazioni future, verso il "prossimo del futuro", di cui non conosceremo mai il volto, ma cui la vita, la cui felicitĂ dipende da quello che noi faremo o non faremo domani e nei decenni futuri. La costruzione di uno sviluppo sostenibile e la pace si conquistano soltanto con la giustizia nell'uso dei beni della Terra, nostra unica casa comune nello spazio, con una giustizia planetaria per un uomo planetario. Senza giustizia nell'uso dei beni comuni della casa comune, del pianeta Terra, non ci sarĂ mai pace.

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