Franco Cocchi
Viaggio di mezza estate nella ceramica umbra
2014
Franco Cocchi
Viaggio di mezza estate nella ceramica umbra
2014
Viaggio di mezza estate nella ceramica umbra
Sabato 12 luglio 2014. Parte da Perugia questa esplorazione estiva sulla ceramica umbra. C’è un po’di pioggia pomeridiana ad appesantire l’aria già greve dalle prove di dj Ralf, nuova star di Umbria Jazz, che anticipa una lunga notte che dovrebbe tenere svegli sia i fans discotecari che i perugini del quartiere. Affretto perciò il passo verso l’ex ospedale Fatebenefratelli che ospita Sensational Umbria di Steve Mc Curry che, a sua volta, ospita nel seminterrato Ceramica
Made in Umbria mostra contemporaneo,
Banchetto
appena inaugurata delle opere commissionate alla giovane designer Elisabetta Furin dalla Regione dell’Umbria, con l’intento di
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salvare la ceramica umbra dalla infelice condizione che la vede ancora nel pieno della crisi. La situazione è grave: nel giro di dieci anni la produzione e gli addetti della ceramica artistica umbra si sono dimezzati e, nono-stante le ricette dei sindaci e delle associazioni di categoria, niente di buono si è visto all’orizzonte. Come un dottore al capezzale del moribondo, l’assessore Riommi si è assunto il difficile compito di resuscitare la ceramica umbra con una cura che
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appare radicale e potente fino al trapianto. Infatti, la Regione si è inventata imprenditrice e ha acquistato sia il lavoro della designer, tacitandone i diritti d’autore, che quello delle diverse aziende produttrici che hanno curato l’esecuzione dei progetti, così che adesso la collettività dispone di 25 prototipi pensati, in particolare, per i mercati di Russia e Cina, puntando –dice l’assessore- a ripensare l’offerta formativa, l’immagine stessa del prodotto e la sua internazionalizzazione, attraverso l’aggregazione in rete delle imprese.
L’operazione è macchinosa e sa di dejàvu, ché lo stesso ragionamento animò negli anni ‘Ottanta sia l’iniziativa regionale
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quando l’assessore Gubbini inventò a Gualdo Tadino il Centro Tecnicopromozionale della Ceramica Umbra, che quella del Multiplo d’artista ideata da Mario Lispi per il Consorzio Deruta 2000 presieduto da Alviero Moretti. Esperienze utili a seminare qualche tentativo di cambiamento nelle imprese umbre, ma che non ebbero grande seguito industriale e commerciale. E anche la partenza non è delle migliori. La receptionist di Sistema Museo, una cooperativa che cura guardiania e animazione di molti musei umbri, avverte che la mostra non è visitabile nonostante gli avvisi contrari apparsi nei comunicati stampa.
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Mi rassegno, dopo l’invito cortese dell’addetta, alle quattro opere esposte in giardino. Due sedute-fioriere e due fioriere-fioriere che rivisitano le forme antiche dell’orcio. Uno, sezionato di un quarto, è divenuto una seduta che porta sullo schienale un alloggiamento per una testaccia1, un altro è messo sdraiato e con un incavo al posto giusto diviene un pouf-panchina dalle cui pareti laterali aperte può ben spuntare qualche verdura. Le fioriere stanno invece in un quarto superiore d’orcio appoggiato a terra che dalla bocca fa uscire un bouquet floreale. Tutto di bianco, salvo una fascia di colore alla base delle fioriere. Come elemento decorativo una 1
Vaso da fiori in umbro. Dal latino testa (terracotta).
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modanatura a corda che si annoda a imitazione dei nodi gordiani che si vedono spesso nei dipinti di Pinturicchio e Perugino. E’ vero che l’orcio ha da tempo perduto la sua funzione utilitaria di contenitore dei prodotti dell’agricoltura, ma fin dai tempi delle ville e giardini medicei l’orcio serve anche, così com’è, da ornamento monumentale arricchito di elementi decorativi, per lo più di erudizione classica. L’orcio da giardino ha avuto, e lo ha anche ora, un successo mondale e ha fatto la fortuna dei vasai dell’Impruneta ma anche di quelli di Ripabianca di Deruta che, anche quando cuociono a legna con
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il sistema antico, riescono a vendere a buon prezzo. La forma ovoidale dell’orcio, unita al rosso della terra cotta rappresenta un archetipo ceramico che pare ancora funzionare ed è perciò che non si può dire che la Furin non abbia coraggio nell’imbiancarlo e sezionarlo perché russi e cinesi se ne portino via un pezzo. Sarà l’effetto di dj Ralf accoppiato a Umbria Jazz, ma mi accompagna una netta sensazione di cavoli a merenda, che spinge a chiedersi perché la stessa Regione che manda Mc Curry a cercare gli ultimi scampoli di Umbria antica e rurale, si ingaggi con la “Ceramica made in Umbria” in un’operazione di trasfigurazione e modernizzazione di un
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prodotto tipico a cui si dovrebbe proprio la tipicità identitaria. Per il momento resto senza risposta che rinvio all’apertura della mostra. Magari ci tornerò alla fine del mio viaggio. Mi sposto di poco e ripiego su Première alla Rocca Paolina, mostra di giovani e talentuosi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, dove prende un certo spazio un tappeto di cocci di ceramica, più o meno decorati alla maniera tradizionale, su cui sono poggiati due contenitori (ancora fioriere?) uno bianco e l’altro rosso, che sembrano vagamente ispirarsi per la forma alle volute delle foglie d’acanto dei decori rinascimentali. Un’installazione di Angela Burla, artista in formazione, sulla cui finalità il titolo
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“Rinascita” non lascia dubbi. Anche qui ci si spinge verso un’innovazione che vede il passato come macerie da cui risollevarsi. Benché un po’didascalica, l’opera interpreta un comune sentire fra gli operatori e fuori. Cioè che la ceramica artistica tipica dei vari centri della regione abbia fatto il suo tempo e che non piaccia più. Anche l’Accademia, dove ceramica se ne insegna poca, spinge forte sul design o, visti i tempi, sul redesign.
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Salita una rampa di scale mobili, trovo piazza Italia e Corso Vannucci affollati di banchetti di venditori di patacche e dei tavolini dei caffè e dei ristobar. Nei giorni di Umbria Jazz, come in quelli di Eurochocolate e del Festival del Giornalismo, si vede un bel giro di visitatori. Pare un controsenso, allora, che anche Palazzo Baldeschi al Corso, dove la Fondazione Cassa di Risparmio ha collocato una collezione di ceramica rinascimentale, in gran parte umbra e fra le più costose che si siano viste sul mercato antiquario negli ultimi decenni, sia chiuso. Lo è da tempo perché apre solo per manifestazioni e mostre.
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Certo, però, che se si vuole promuovere la ceramica antica o, in alternativa, quella alla Furin, si dovrà pure farla vedere.
11 Bisogna raggiungere il bookshoop della Galleria Nazionale dell’Umbria per trovare esposte, con molta discrezione, le piccole sculture e i gioielli di Luca Leandri, Maurizio Tittarelli Rubboli e Annalisa Piccioni, artisti-artigiani
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ceramisti e animatori di mostre e iniziative culturali. Il genere è raffinato, ricco di citazioni colte e sofisticazioni tecniche, sia che si tratti di vasi raku (Leandri) che di gioielli di lustro color rubino (Rubboli) o di fuseruole decorate in miniatura (Piccioni). La mia visita è quasi finita, ma sarebbe incompleta senza un passaggio alla Madonna di Maestà delle Volte, un pannello in maiolica a rilievo di Germano Belletti, artista faentino trapiantato a Perugia negli anni Quaranta per insegnare ceramica all’Istituto d’Arte e maestro di un buon numero di artisti umbri. Edgardo Abbozzo, innanzitutto, a sua volta maestro di Giulio Busti, a sua volta maestro di Clarissa Sirci che un anno fa
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ha restaurato la maiolica per conto dei Lyons. Il pannello è del 1945, voluto dai ceramisti del CIMA (ex Salamandra) salvati dal disastro della guerra. Chissà che la Madonna non intervenga ancora a salvare la ceramica umbra dai disastri del nuovo millennio. Il mio primo itinerario si ferma qui. Riordino i miei appunti al Caffè di Perugia fra i grandi vasi della Grazia di Deruta e quelli a testa di moro di Caltagirone voluti da Leonardo Servadio, quando fece riadattare l’antico negozio di famiglia per farne uno dei migliori locali della città.
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Il vasaio detesta il vasaio Gualdo Tadino, Domenica 20 luglio. La strada per Gualdo Tadino è una via tortuosa che da Perugia attraversa Valfabbrica e, prima, sfiora Ripa piccolo forte sulla valle, celebre perché verso la metà del Cinquecento ci nacque il cavalier Cesare Ripa, appunto, autore conosciutissimo meno che in patria, della “Iconologia. Descrittione dell'Imagini Universali cavate dall'Antichità et da altri luoghi" il viaggio è lento e piacevole sui i saliscendi della valle del Chiascio. Così c’è anche tempo per pensare. E Ripa da’ da pensare. La sua Iconologia fu riscritta e ampliata più volte, Diventò un bestseller dell’epoca con il suo repertorio di immagini simboliche di virtù
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e difetti umani “necessario à Poeti, Pittori, et Scultori, per rappresentare le virtù, vizi, affetti et passioni ”. Trattò anche dei vasai per ricordarne l’antico detto Figulus figulum odit (il vasaio detesta il vasaio) ad illustrazione dell’emulazione e della ricerca di gloria. Insomma, la rivalità fra i vasai è una storia antica che segna anche la condizione più attuale, checché ne pensino amministratori locali, consorzi e associazioni di categoria che insistono
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contro ogni evidenza nel volerli riunire. Uno storico esempio viene proprio da Gualdo Tadino, quando nel secolo scorso si accese una rivalità tra la fabbrica Rubboli e la Santarelli attorno al lustro gualdese. La prima avviata nella seconda metà dell’Ottocento da Paolo Rubboli venuto a Gualdo da Fiorenzuola di Focara, piccolo castello finis terrae sull’Adriatico, mentre la seconda fondata da Alfredo Santarelli, nativo ma avviato al lustro nella bottega Rubboli e con qualche passaggio a Deruta ai primi del Novecento. Quando le strade si separarono, Santarelli replicò il successo che già aveva reso famoso Paolo e si trovarono tifosi dell’una e dell’altra parte a combattersi
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anche a colpi di storiografia ceramica, per stabilire di chi fosse il lustro rosso più brillante o l’idea più originale. La verità è che erano entrambi di straordinaria bravura ed entrambi condividevano il gusto storicista che li portava a riprodurre in grande serie, su vasi e grandi piatti “da parata”, scene auliche tratte da stampe antiche. Un genere istoriato e rivisitato a lustro, ancora ricercato da amanti di antichità per passione o per lucro. Una storia finita da tempo con la scomparsa dei protagonisti, che solo l’ultimo dei Rubboli, Maurizio, si ostina a rendere attuale. Ha salvato la antica fabbrica di famiglia, con tanto di insegna maiolicata, dal diventare un delizioso condominio di mini appartamenti nel centro storico di
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Gualdo e, meraviglia, ancora cuoce nelle antiche “muffole”, quando ne ha piacere e quando vuole, i suoi splendidi lustri. Ha messo su una specie di compagnia di maestri del lustro di cui Alain CaigerSmith è il decano, e che quando si riunisce ci da’ giù forte a lustrare. Ci ha rimesso un bel po’ di tempo e soldi, ma è riuscito nell’intento di farne un museo della rete comunale. O almeno ci prova perché lo work in progress è oramai più che decennale e la collezione Rubboli al momento resta chiusa nelle casse e si vede solo nel bel catalogo di Marinella Caputo e dello stesso Tittarelli Rubboli. L’andamento lento non sorprende più di tanto nell’Umbria felix, persino il grande cartellone stradale all’ingresso della città che annuncia che Gualdo è una città della ceramica ammonisce di moderare la
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velocità. Ma il rallentamento sembra eccessivo. Le fabbriche chiuse o quasi, il Premio Internazionale della ceramica che dopo trentotto edizioni dal 1959 non si tiene più da cinque anni, la Commissione per la ceramica di antica tradizione della legge 188/90 costituita e mai riunita. A ricordare una stagione passata e gloriosa quando di ceramica e lustri viveva la città, resta in via Calai la bella insegna dell'albergo Matteo da Gualdo realizzata dalla Cooperativa ceramisti che non c’è più.
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Come è potuto accadere che l’attività di una comunità di migliaia di artigiani e artisti si sia dispersa in così poco tempo che oggi è davvero difficile per un viaggiatore credere che ci sia stata una fiorente industria ceramica? Gli esperti, i governanti regionali e locali, incolpano la crisi, o gli amministratori precedenti, ma io credo che c’entrino tanto le rivalità distruttive che l’inerzia degli attori, anzi che l’una serva all’altra.
Sulla piazza domenicale di Gualdo, dopo la messa delle undici non c’è molta animazione. Solo i bene informati sanno che nella ex Chiesa di San Francesco, la direttrice del polo museale gualdese resta l’ultima, o quasi, testimone della passata stagione. Non si rassegna e guarda
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indietro nei magazzini del Premio e riesuma qualche artista. Per la stagione estiva ha confezionato due mostre. La prima una selezione delle opere, vincitrici e non, dei premi internazionali di solito (mal) conservate nei depositi della pro loco. Undici opere significative scelte per sostanziare il titolo Francescanesimo e Pace che si avvia con la composizione plastica di Nino Strada e i pannelli di Angelo Biancini e di Eusanio Terregna ( i primi due vincitori ex aequo del concorso “Divino ed umano nel misticismo umbro” del 1963) e prosegue con il bassorilievo di Aligi Sassu vincitore del concorso “La pace, aspirazione e conquista dell'uomo” del 1964. Questo primo gruppo da’ una efficace visione di insieme del protrarsi di oltre un ventennio delle emergenze della ceramica italiana degli anni ‘30 e ’40,
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quando questi autori rappresentavano, su fronti diversi, i poli del dibattito artistico e culturale del periodo. Di tutt’altro genere le opere più recenti, a partire da quella di Aldo Rontini vincitore nel 1982 del concorso “Dalla terra di S. Francesco d'Assisi un messaggio di pace, fraternità, solidarietà verso gli uomini e l'ambiente” fino al grande tondo di Mark Aspinall e ai due pannelli di Salvatore Cipolla del concorso “Guerra e pace” del 1997. Non so se è per scelta o per necessità che la mostra si rivela una sorta di crudité scondita.
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Tutto è minimalista, dall’allestimento al catalogo dove la curatrice Monacelli è avara di riflessioni critiche e soprattutto di memorie che, visto che si tratta di una retrospettiva, non guasterebbe circostanziare. A me piace anche così: le opere parlano da sole grazie alle loro paternità e alle loro caratteristiche tecniche e formali, ma mi pare difficile che senza conoscere lo spirito del tempo qualcuno possa andare al di là del “mi piace-non mi piace”, come un’iconcina di facebook, e apprezzare perché Aligi Sassu si decise a partecipare al Premio Internazionale di Gualdo o perché gli anni Ottanta abbiano visto il trionfo di Rontini. La seconda mostra della stagione estiva gualdese è una personale di Riccardo
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Monachesi, altro vincitore del Premio (1990) che espone le sue opere attuali alla Rocca Flea. E’ un po’ un precotto perché la mostra è una riedizione di quella romana che ha celebrato l’attività ultratrentennale dell’artista che esordì proprio in Umbria al Multiplo d’artista di Deruta nel 1981 e, subito dopo, al museo della ceramica di Laveno con una precoce personale organizzata da Silvano Sandini. Peccato che il bel catalogo a cura di Francesco Paolo del Re, anche con il breve supplemento della direttrice del polo museale, non ne faccia menzione. L’ora tarda mi spinge verso Gigiotto a fianco della cattedrale, albergo-ristorante degli artisti degli anni ruggenti. Non c’è più. Anche se non c’è passata la Regione si è modernizzato in GG8, sedie di
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plastica e un effluvio di Mondrian. Però si mangia ancora bene. Anche a Nedda Guidi piacevano sia gli spaghetti del Gigiotto che le interminabili discussioni a tavola fra artisti. Ebbe il secondo premio nel 1966 e il primo nel 1981. Artista militante emigrata da Gubbio a Roma, per raggiungere l’amata Gualdo preferiva fare la strada di Spoleto, per respirarne un po’ l’aria e ripassare per i luoghi di Leoncillo.
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Gubbio-Ducato di Urbino Mercoledì 23 luglio. La distanza tra Gualdo e Gubbio è molto di più dei venti chilometri di strada che le separano.
26 Pur nella comune collocazione a ridosso dell’Appenino umbro-marchigiano l’una guarda al di qua della frontiera quanto l’altra guarda con nostalgia al Ducato di Urbino dei tempi dei Montefeltro. Anche per la ceramica, ché Mastro Giorgio Andreoli ci venne da Intra
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cinquecento anni fa a impiantare una fabbrica di maiolica. C’è da sapere che in quel periodo le fornaci di Deruta e di Gubbio erano in grado di sfornare maiolica che, all’epoca, non aveva l’attuale significato, ma indicava le ceramiche lustrate. Cioè decorate con colori splendenti d’oro e di rosso ottenuti con un procedimento speciale a tre cotture anziché due, di cui l’ultima decisiva, con fumaggi e ingredienti da alchimista. Maiolica perché le originali venivano dalla Spagna dominata dagli arabi e le spedizioni partivano da Maiorca o, appunto, Maiolica come anche Dante Alighieri la ricorda. La fabbrica di Mastro Giorgio ebbe un successo strepitoso durato più di mezzo secolo, cioè fino alla metà del
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Cinquecento favorito dalla vivacità culturale ed economica del Ducato governato da menti illuminate. L’inverso di quanto accadeva nei domini pontifici a cui negli stessi anni si piegava l’autonomia di Perugia. Anche allora i modi di governare si dividevano fra quelli, diremmo oggi, orientati alla crescita del benessere e allo sviluppo industriale e commerciale e quelli, più orientati al mantenimento dell’apparato burocratico e di corte con una elevata pressione fiscale. Particolarmente apprezzate dai mercati internazionali di allora, le maioliche venivano vendute a prezzi elevati proprio per la loro ricercatezza e complessità tecnica. I lustri di Giorgio Andreoli propendevano per un prezioso rosso tonalità rubino ed erano ancora più
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speciali quando il maestro le applicava sugli istoriati dei pittori di Urbino e le siglava con la propria cifra. Per vedere un originale dei migliori occorre recarsi almeno al museo Civico di Bologna dove sta il piatto Presentazione della Vergine al tempio dipinto da Francesco Xanto Avelli e lustrato da Andreoli che, infatti, lo sigla "1532 M. G. finĂŹ de maiolica", mentre a Gubbio nel Museo della Ceramica a lustro nella Torre Medioevale di Porta Romana (un museo privato) resta di Mastro Giorgio Il ratto di Proserpina, un
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bel piatto del 1537.
Un’eredità
importante, insomma, che
ancora impegna i vasai eugubini sia che vogliano liberarsene che, di contro, vogliano proseguire a distanza di secoli la virtuosità del lustro. Con lustri e raku ci prova con una esposizione estiva al museo del Bargello, e appendice in quello diocesano, anche Solaris alias Giancarlo Ianuario che, partito dagli studi artistici all’ IPIA per la Ceramica e la Porcellana di Capodimonte, è nuovamente approdato alla ceramica passando per gli studi di psicologia (interrotti) e quelli di sociologia (compiuti), ma fulminato dall’insegnamento extrauniversitario di Antonio Meneghetti inventore della Ontopsi-
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cologia e della Ontoarte che Solaris, si apprende dal curriculum nel catalogo di mostra, vide nascere durante un concerto del 1976. Ma cos’è la Ontoarte? “Un essere arte che presuppone un essere per la vita (sanità, realizzazione, superamento in progress di tutti quelli che si definiscono 'bisogni primari e secondari'). Un essere arte che presuppone un uomo che si attua come risposta ottimale a tutte le tensioni che lo chiamano come responsabilità. Storico e razionale coordinatore del suo spazio e del suo tempo” si legge sul sito http://www.galleriaontoarte.it/it/3/Ontoart e-Antonio-Meneghetti.html e ancora “…Il codice segnico di un principio fondante l'esistere che, nel porre l'uomo e il suo esistere, li ha voluti a sua immagine e
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somiglianza, anzi: permeati di sé. Una rivoluzione culturale dei tempi moderni o il recupero dei valori più alti dell'Umanesimo perenne?” Boh! Forse non sapremo mai se l’una o l’altra cosa, poiché il fondatore è recentemente scomparso portandosi via i segreti della Ontoarte, ma sta di fatto che l’incontro delle tecniche produttive ed espressive della ceramica con le congetture teoriche Onto ha fatto sì che Ianuario imboccasse la strada di un’arte ceramica alchemicometafisica che sembra ben rispecchiare le complicate argomentazioni delle teorie cui l’autore si ispira. Franco Bertoni ne è entusiasta e lancia un ardito parallelo con Leoncillo, facendo però un torto a entrambi. A Leoncillo che aveva tutt’altra base artistica e visione del
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mondo, da partigiano e comunista militante fino ai fatti di Ungheria del ’57 quando abbandonò partito e realismo a favore dell’astrattismo e, per le stesse ragioni, anche a Ianuario il cui credo coincide con quello di Meneghetti alla ricerca del Sé ontico, cosicché il nostro artista rimane tanto enigmatico e complesso nel messaggio, quanto problematico nella tecnica e nel modellato anche nel vederlo all’opera (https://www.youtube.com/watch?v=_DeJ T4UbYD0). Che ci piaccia o no, in questo luglio eugubino “Il fuoco nell’anima” di Solaris è l’unica testimonianza attuale che la città sia la patria del lustro. Così la scommessa sul terreno dell’arte contemporanea, lanciata nell’introduzione al catalogo dalle
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curatici della mostra Catia Monacelli e Elisa Polidori, è vinta più per abbandono che per competizione, poiché l’ iniziativa copre un vuoto inspiegabile lasciato dalla inerzia delle istituzioni culturali cittadine, in genere dotate di maggiori mezzi di quanti ne possano disporre Bargello e Diocesano messi insieme. La cosa ha del drammatico se si pensa che dal 1999 Gubbio, su impulso di Giancarlo Bojani, aveva inaugurato un percorso di riflessione ricco di mostre e incontri sul lustro di attualità, enfaticamente intitolata Vitalità perenne del lustro, di cui si annovera un ultimo e felice esempio nel 2008 con la mostra che il curatore Ettore Sannipoli dedicò ad Alan Caiger-Smith, aggiungendo un tributo ad Alan Peascod e una ricognizione di maestri umbri.
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Spenta anche Lumen et Splendor, che nel 2010 aveva impegnato Lucia Angeloni e Maurizio Tittarelli Rubboli con l’assistenza critica di Marinella Caputo e Ettore Sannipoli, saltata l’edizione 2014 del Premio Ajò, ferma la Biennale d’arte e la sua sezione ceramica, a rilento anche la commissione per la ceramica ex legge 188/90, resta, per fortuna, l’instancabile iniziativa di Sannipoli. Espressione del genius loci, l’Ettore è un altro ostinato. Sforna saggi storici a ripetizione su riviste locali che starebbero meglio sui bollettini scientifici di musei d’arte antica e cura, ogni anno da tredici anni, per conto del Maggio Eugubino l’edizione delle Brocche d’autore, rivisitazione d’artista delle brocche che servono a rinfrescare i ceraioli della Corsa
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dei Ceri. Quelle del 2014 interpretate da Marta Pachon Rodriguez, Roberto Fugnanesi e Luigi Stefano Cannelli, sono di notevole bellezza e genio artistico. Purtroppo la loro esposizione dura poco piĂš del tempo della corsa, poi finiscono, come i Ceri, in magazzino.
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Peccato, perchÊ sarebbe meglio lasciarle esposte per un anno intero fino alle nuove dell’anno successivo. Le nove brocche, tre per ogni santo, fanno meglio di un poster
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per promuovere l’antica città della ceramica e, non fosse altro, si può sperare sulla benevola intercessione dei Santi proprietari perché la collezione di oramai più di cento brocche d’artista divenga museo permanente.
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Vasi e guepières Umbertide, sabato 26 luglio. Si scende dall’Appennino per la Statale 219, lungo la valle dell’Assino, per raggiungere Umbertide. Altra città umbra dove la ceramica è di casa. La strada scorre abbastanza veloce e nel primo pomeriggio di questo sabato fresco di pioggia leggera non c’è traffico. Lasciato Gubbio da una ventina di chilometri, poche case lungo la strada segnalano la frazione di Camporeggiano, antico feudo dei Gabrielli. Si esce a sinistra per l’abazia protoromanica subito dopo il ponte
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sull’Assino. L’abazia risale al 1000 e fu motivo di una storia di conversione e di santità pauperistica molto prima di San Francesco. Di santità, ma anche di industria ché i monaci costruttori vi istallarono un molino, una fornace per il vetro e un ospedale per i pellegrini. Come dire, chi predica adesso turismoartigianato-cultura come panacea dell’economia umbra non ha inventato niente, l’idea ha un migliaio d’anni. Il monumento è importante e antichissimo, ma lo stato di conservazione e di fruibilità non corrisponde alla sua importanza. Il sito oggi è chiuso ed è visitabile la chiesa quando ci sono funzioni religiose, ma il grosso del complesso, di proprietà privata, è in rovina e transennato da un alta rete oscurante. Dirimpetto alla chiesa,
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un’abitazione moderna in pietra faccia a vista in perfetto stato e perfettamente stridente con la chiesa e l’abazia in laterizio. Uno, che sarei io, si chiede perché avendo difronte un esempio di architettura antica chi ha rifatto la villetta non si è uniformato o non ne ha tenuto alcun conto? Nessuno andrebbe ad una festa di gala in tuta da ginnastica e neanche il contrario, non si è mai visto nessuno fare jogging in giacca e cravatta. Perché i progettisti non hanno lo stesso buon senso quando lavorano in contesti come questi? La sosta è breve perché devo trovarmi alle
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15,00 alla Fabbrica Moderna di Umbertide, un palazzotto in cemento e vetro ricavato da una ex chiesa, che ospita insieme al cinema e alla biblioteca, al piano seminterrato, l’esposizione permanente dei pezzi storici della fabbrica Rometti a Umbertide. La collezione è visitabile solo il sabato e la domenica e per poche ore. Almeno così si legge sul sito www.informagiovaniumbertide.it. Ma non è così. Nessuno apre e l’unico orario esposto è quello della biblioteca aperta dal lunedì al venerdì. Devo aver sbagliato sito. Ma un sito informaanziani non c’è e neppure un altro che dia un’informazione corretta. Non c’è nemmeno nessuno a cui chiedere e il telefono indicato dall’informagiovani non da’ segni di vita. Deve essere che la crisi ha colpito anche il museo. Sperando in una sorte migliore,
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mi ritiro verso la Rometti sulla vecchia statale 3bis. Annunciata delle grandi sculture di Ambrogio Pozzi, la fabbrica si trova in un parallelepipedo nero con un’ampia vetrina sul fronte strada dove sono ordinati con gusto i pezzi pregiati della produzione attuale. Arrivo in contemporanea ad uno dei proprietari della fabbrica che gentilmente mi invita a entrare. Dino Finocchi è un signore cortese, più o meno, della mia età che con semplicità snocciola un’ottima
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competenza in materia ceramica: “Non sono un ceramista ma sono tanti anni che dirigo questa fabbrica e oramai la ceramica non ha più segreti”. Si rammarica che io non abbia potuto visitare la collezione storica e mi mostra i pochi pezzi rimasti nella fabbrica e poi avvia una fitta discussione sui cambiamenti degli ultimi anni nel mercato della ceramica artistica. E’ convinto che per la ceramica d’uso artigianale non ci sia più mercato, che nessuno compri più costosi servizi da tavola realizzati a mano visto che anche ai supermercati se ne trovano di produzione industriale di buona qualità e a prezzi imbattibili. Messa così ha indubbiamente ragione, se non fosse che la ceramica artistica artigianale da tempo non ha più una vocazione d’uso. Chi compra, o
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comprava, un servizio da tavola alla Ubaldo Grazia di Deruta o alla Mastro Giorgio del professor Biagioli di Gubbio lo faceva in nome della decorazione, dell’abbellimento della tavola e del rispetto dell’ospite delle occasioni importanti e non certo per il maccherone quotidiano. Ma se fino a una quindicina di anni fa i prezzi erano proporzionati e accessibili ad un ampio target di clienti, per effetto del passaggio all’Euro, del cambio EuroDollaro, delle difficoltà dell’economia statunitense piazza privilegiata per la ceramica umbra, i prezzi di vendita sono decuplicati e collocano i prodotti delle officine umbre in una fascia di prezzo alta e inaccessibile ai più. Le soluzioni offerte nella ricerca di un buon marketing mix sarebbero molteplici, quella scelta dalla
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Rometti e Monini, dopo l’ingresso del nuovo socio Monini è stata di abbandonare del tutto la produzione utilitaria da tavola, cambiando radicalmente l’impostazione produttiva e le connotazioni del prodotto, adesso orientato all’arredo d’autore che presenta firme importanti: da Ambrogio Pozzi e Liliane Lijn, alle collaborazioni più recenti con Monica Pioggia dell’Istituto Italiano del Design, e Chantal Thomass, stilista che riesce a dare un’accesa sensualità a vasi e coppe in bicromia rosa-nero, cui fa indossare corsetti e guepières. Le azioni di promozione sono all’altezza del nome. Da un lato, il recupero della migliore produzione in stile moderno degli anni Trenta del Novecento celebrata in “Amabili presenze”, catalogo e mostra
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in luoghi strategici dalla Casina delle Civette di Villa Torlonia a Spoleto per il Festival dei Due Mondi. Dall’altro significativi presenze sui massmedia con la felice trovata di fornire arredi per la casa della tredicesima edizione di “Grande Fratello” e passaggi su riviste specializzate francesi, oggi mercato privilegiato dall’azienda, dopo l’accordo per la produzione di arredi in esclusiva per Roche Bobois. Con le dovute differenze, alla Rometti si trova ancora tanto dello spirito innovativo degli anni Trenta, quando le presenze di Cagli e Baldelli determinarono il successo dell’azienda. Neanche allora, a differenza delle altre manifatture umbre, vi erano intenti storicistici a caratterizzare la produzione e le strategie commerciali
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dell’azienda. Che ciò avvenisse a Umbertide, priva di radici antiche nella produzione di ceramica, non stupisce. CosÏ neanche la produzione di oggi ha il carattere del prodotto tipico e identitario umbro, ma guarda ad un pubblico attuale e potrebbe essere prodotta ovunque se non fosse indispensabile il know how e il marchio della Rometti.
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Le porcellane di Città di Castello Sabato 26 luglio. Giorgio Ricciardi ama l’essenzialità e la semplicità. Ricercata quasi fosse un maestro zen, mentre è un ceramista che nella sua città ha impiantato il Laboratorio Castello, uno studio pottery ben attrezzato dove lavora di grès e porcellana tenera. Niente maiolica, niente decorazioni con il pennellino, ma una laboriosa ricerca su materiali e smalti per un disegno netto e rigoroso anche quando si rivolge a forme più morbide. Non mancano a Città di Castello tradizioni ceramiche antiche e recenti, quest’ultime contrassegnate dalla significativa presenza di Dante Baldelli e dei suoi discendenti, ma alla domanda del perché non abbia indulgenza verso la ceramica tradizionale umbra, Ricciardi
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spiega che partito giovane da Città di Castello avendo chiaro ciò che non voleva e meno chiaro ciò che avrebbe voluto, si illuminò quando conobbe Nanni Valentini, suo docente alla Scuola
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Politecnica di Design di Milano. La rivelazione gli fornì la spinta alla sperimentazione continua e alla ricerca su tutti i fronti della ceramica. Dalla ricerca
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sulle argille che reperisce in loco, raffina e combina con altri impasti, a quella sugli smalti e colori anch’essi frutto di combinazioni personali. Autarchico anche per la foggiatura e la cottura, cura personalmente anche le vendite nelle fiere che si tengono in varie città d’Europa, ma non quelle dei saloni destinati ai grandi commerci dei buyers internazionali. Non cura invece molto la promozione, perché non ha neppure un’insegna che indichi la fabbrica, a cui rimedia con un bel sito web. Se non è un artigiano Ricciardi non si vede a chi possa essere assegnata questa nobilissima qualifica. Eppure il nostro si tiene lontano da associazioni, consorzi e consorterie, finanziamenti europei o regionali e il resto dell’apparato assistenziale dell’artigianato umbro. Non
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ha ricette né soluzioni per la crisi della ceramica umbra, ma sottolinea con amarezza che gli istituti d’arte per la ceramica, trasformati in licei artistici, non sono più –da tempo- luoghi dove si possano apprendere tutte le tecniche e le espressioni della cultura ceramica e che questo fatto ha il suo peso nelle difficoltà attuali.
La sua produzione di stoviglie e oggetti d’uso si fa apprezzare per essenzialità ed equilibrio tra forme, tecnica e colore, persino quando realizza il tondo perfetto
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di stoviglie in porcellana doppio strato, nera all’esterno e bianca all’interno, che meriterebbero un posto d’onore in qualche museo d’arte moderna oltre che nelle nostre case. Non si direbbe una produzione tipica, ma a vederla con Nanni Valentini si deve ammettere il contrario: “A me piace pensare –scriveva il maestro- che nella terra abita l’anima del luogo. Perciò un’anima per ogni luogo. […]l’anima del luogo non si può, come invece accade con le parole, trasportare. È come una pianta con la sola radice”. Così il bicchiere in porcellana di Città di Castello con cui Giorgio Ricciardi mi offre un sorso d’acqua prima di congedarci, mi appare come una tazza sacra per la cerimonia del thè.
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Fighille-Ficulle-Orvieto Domenica 27 luglio Il viaggio nella ceramica umbra riparte da Fighille nel comune di Citerna e si dirige verso Orvieto. Il passaggio a Fighille è una sorta di riverenza alle origini antiche della ceramica perché deve il nome a figulus (vasaio) per cui doveva esserci nell’antichità un insediamento artigiano. Oggi resta attiva una cava di terra argillosa che è, verosimilmente, la ragione principale dell’antica colonia di vasai. Per scendere dai confini settentrionali dell’Umbria converrebbe riprendere la E45, ma un itinerario meno frequentato e più suggestivo, se si ha la pazienza di affrontarlo con un mezzo più adatto al turismo lento come uno scooter o un’auto d’epoca, ci riporta a Umbertide per
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imboccare la ex statale 416 del Niccone e seguire il confine umbro-toscano dove si incontra il passato remoto degli antichi castelli di Lisciano, Reschio, Sorbello e Pierle, per poi costeggiare la sponda nord ovest del lago Trasimeno ai confini con la Toscana.
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L’attività ceramica della zona, un tempo fiorente, è anche qui scomparsa. In questo caso non era l’argilla ad abbondare, ma la rena del lago Trasimeno ricercata, ricorda Cipriano Piccolpasso (1548) come
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indispensabile ingrediente per il marzacotto da cui si ottenevano gli smalti bianchi per piatti e vasi. Da Castiglione del Lago la statale 71 Umbro Casentinese raggiunge Città della Pieve, antica città di mattoni. Sui mattoni i pievesi non avevano rivali: nel 1277 il Comune di Perugia ne bandiva una fornitura di centomila da realizzarsi “ad modum castri Plebis".
Le testimonianze delle remote attività ceramiche si vedono ancora nelle architetture in laterizio della città, ad
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esempio nel monastero delle Clarisse (XIII secolo), mentre per vedere un esempio attuale occorre rivolgersi al Laboratorio Terrarte, associazione no profit che vende vasi, sculture e oggetti d’arredo prodotti nell’atelier di ergoterapia e inserimento sociale. Sì, perché la ceramica può far bene anche alla salute psicofisica e sociale. Il primo a convincersene fu in California il dottor King Brown che nel 1911 avviò l’Arequipa Pottery in un sanatorio femminile. Ma senza andare così lontano, vale la pena di ricordare il laboratorio ex Don Guanella all’Elce di Perugia negli anni Settanta, primo esempio in Italia di attività produttiva vera fuori le mura delle istituzioni totali. Lo conduceva Vinicio Barcaccia, ancora animatore di analoga esperienza a Fratta Todina.
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Ripreso il percorso è d’obbligo una sosta a Ficulle. Bel castello a poca distanza da Orvieto vi restano oggi solo un paio di laboratori di terrecotte di quello che fino a mezzo secolo fa era un fiorente centro di produzione.
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Secondo una versione ottocentesca il nome, come giĂ per Fighille, deriverebbe da figulus e, in particolare, dalla colonizzazione di un gruppo di vasai
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provenienti dalla perduta città di Ficulea, importante insediamento alle porte di Roma, più o meno l’equivalente del Kerameikos per Atene, abbandonato all’inizio del V secolo. Se così fosse, Ficulle sarebbe ciò che resta del sancta sanctorum della ceramica italica. Orvieto, finalmente, dopo un viaggio di centoventi chilometri e di un paio d’ore (sosta compresa) risalendo alle origini della ceramica attraverso le produzioni di laterizi e terrecotte dell’antichità. Su
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queste poggia anche la vocazione ceramica di Orvieto, esplosa nel medioevo quando fu tra i primi centri ad applicare smalti e colori agli oggetti d’uso o, più esattamente, una coperta di bianco stannifero di fondo e decorazioni in verde di rame e bruno manganese. Questa la tavolozza della cosiddetta, dai ceramologi, “maiolica arcaica” che fece la fortuna della corporazione dei vascellari di Orvieto. Una ceramica raffinatissima, utile alla mensa sì, ma decorata con un vasto repertorio di motivi geometrici o di derivazione naturale, fogliame e vegetazione o zoomorfi, fino a figure mostruose come animali dotati di teste umane. In loco se ne vedono al Museo dell’opera del Duomo e al Museo delle Maioliche Medievali e Rinascimentali orvietane (privato).
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Alberto Satolli, Presidente dell’Istituto Storico Artistico Orvietano, architetto, storico e ceramologo fra i più accreditati, ritiene che lo sviluppo fu determinato dall’enorme, e mai interrotto, cantiere della fabbrica del Duomo. I lavori popolarono dalla fine del Trecento la città di architetti, disegnatori, artisti, miniaturisti, artigiani di ogni specie che non potevano non avere un’influenza decisiva sulla produzione dei vasai che “attingevano a quello stesso repertorio iconografico, geometrico, naturalistico o araldico, che adattavano alle superfici delle ceramiche”. Alberto è un altro invasato che ha speso una vita a studiare
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cocci, frammenti e a scrivere storie e microstorie ovunque gli fosse data l’occasione. Meriterebbe un monumento per le scoperte e le intuizioni che ha offerto alla storia della ceramica. Lo trovo di domenica mattina allo studio d’arte di Marino Moretti in piazza del Duomo. Dove se no? Marino si è incamminato da tempo sugli stessi passi dei vascellari antichi e traduce nuovamente in ceramica le antiche simbologie, questa volta però passate attraverso le riflessioni storico ceramologiche, la sofisticazione tecnologica e, non ultimo, la propria visione. Il suo percorso artistico, infatti, parte dallo studio, fin dall’infanzia, della collezione di ceramica medioevale orvietana del padre. Dalla riproduzione è
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giunto alla reintepretazione e alla attualizzazione dell’universo simbolico e iconografico della ceramica orvietana e delle sue fonti ispiratrici. E’ una rilettura colta, ma non citazionista. Ricompaiono la regina, la sirena a coda bifida e il pesce, ma sono tipologie umane, circostanze e situazioni della vita come riviste da Marino. Se poi si volesse trattare delle tecniche, il nostro ha pochi rivali nell’ottenere colori ed effetti inconsueti, trasparenze mai viste. Nel suo laboratoriocastello di Viceno assomiglia piÚ a Merlino che a un
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moderno disegnatore con la matita nel taschino. Se si insiste, Marino dice di essere un artigiano e basta. E come gli altri che si affollano attorno alle vie che conducono al Duomo vi ha aperto la sua rivendita. Questa domenica è affollata di turisti, ma non sono tutti uguali. Sono sempre piÚ quelli che entrano per chiedere e per capire, sempre meno quelli che si accontentano delle patacche da souvenir che anche se fatte a mano e di produzione locale certificata restano patacche. Fra' Bevignate, Lorenzo Maitani, Andrea Pisano, e tutti i maestri del Duomo, approverebbero.
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Verso Perugia Lunedi 28 luglio Il ritorno, che passi per Prodo o costeggiando le sponde del Tevere, è suggestivo per le vedute ed il paesaggio tra fiume e montagna fin che non si giunge a Todi. Per una delle due vie certamente si incamminò Petrucciolo, vasaio di Orvieto, che raggiunse Todi nel 1335 per impiantare una bottega di “vasas pictas”. A ritroso è, invece, il percorso che conduceva le strabilianti ceramiche dei vasai derutesi verso la capitale dove i commerci erano fiorenti o nel viterbese dove si insediò nel Seicento una colonia di derutesi. Gli arrovellamenti, le forre e le gole che separano da Todi inducono a ripensare a
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quel mondo perduto di mostri e figure fantastiche quando l’idea della vita era popolati di misteri, pericoli e figure ambigue che i vasai medioevali raffiguravano sulle ceramiche e che ispirano, oggi, le pitture di Marino Moretti. Ci pensarono i derutesi, che respiravano l’aria del rinascimento perugino, a sostituirli con la bellezza delle donne, le virtù dei santi e dei cavalieri. Ma allora ad indicare loro la strada dell’umanesimo neoplatonico avevano un Maturanzio, non qualche intellettuale di risulta. Il fatto è che i vasai di un tempo si muovevano forse più di quanto non facciano ora. Spinta dalle necessità e dalle opportunità e, ci viene da pensare, dallo spirito di avventura e dalla ricerca di fortuna, la mobilità dei vasai generò in
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passato scambi di conoscenze, tecniche e stili, in tempi in cui vi era minore interesse alla denominazione di origine e all’identità locale e una maggiore larghezza di vedute. Recentemente ha generato, invece, studi, ricerche e convegni. L’ultimo di recente organizzato da Luca Pesante a Civita di Bagnoregio, dedicato ai passati commerci e trasporti della ceramica nell’Italia centrale. A Todi, il museo civico nel palazzo del Capitano del Popolo possiede una buona dotazione di ceramica antica, proveniente da ritrovamenti locali. Una
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serie di versatori e “panate� simili a quelli orvietani, terrecotte invetriate e una buona presenza di maioliche derutesi. Tra queste, si nota un piatto di fine Quattrocento in frammenti, di cui si salva il medaglione centrale con una coccatrice. Strano animale, evoluzione del basilisco, una specie di drago con la testa e le zampe di gallo era meglio non incrociarlo per strada. Il suo sguardo mortale poteva fulminare qualsiasi avversario e nemmeno il suo alito fetido lasciava scampo.
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Ci si rincuora con il ritratto di una bella donna in una coppetta lustro dei primi del Cinque. Mancano i grandi piatti rinascimentali con le “belle” del Rinascimento che tanto piacevano ad Andreano Concole di Todi da comporci un sonetto al "Mastro de lavorio a Diruta” (1557). Visto con gli occhi di oggi quello delle belle derutesi fu la straordinaria business idea di commercializzare l’espressione del sentimento più forte e diffuso del mondo. Non piatti da minestra, ma ritratti, motti e promesse per corteggiare l’amata da tenere negli spazi privati della casa. I pezzi migliori dell’epoca sono da tempo nei più qualificati musei del mondo, portati ad esempio del rinascimento Italiano e poco resta in Umbria.
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Ancora nel museo di Todi si trova un bel gruppo di terrecotte invetriate antiche che, se non vengono dalla vicina Marsciano, possono testimoniare una certa continuità nella produzione locale che a Todi ha origini antiche. Qualche anno fa, infatti, a Chioano di Todi i lavori di ristrutturazione della antica casa di famiglia del primario pediatra dell’ospedale, hanno fatto ritrovare numerose brocche medioevali scarti di
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una vicina fornace che rappresentano una delle più antiche testimonianze della ceramica umbra postclassica. Nessuno, tuttavia, tentò come avvenne a Gubbio, Gualdo Tadino, Deruta e Orvieto tra Otto e Novecento, di riportare in vita le antiche vocazioni ceramiche, sicché se ne è persa la memoria. Solo nell’ultimo quarto del Novecento gli studi storico ceramologici di Tiziana Biganti da un lato, e le esperienze di arte contemporanea di Nino Caruso e Piero Dorazio dall’altro, hanno riproposto la questione della ceramica di Todi. Nonostante i contributi siano stati di prim’ordine, la città pare distratta da altri avvenimenti e la ceramica non sembra un argomento all’ordine del giorno. Così il museo la cui istituzione risale al 1871 non
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ha ancora il catalogo della ceramica e il Centro Internazionale della Ceramica Montesanto fondato nel 1978 da Piero Dorazio e Nino Caruso, che ha visto le presenza di Max Bill, Sebastian Matta, Kenneth Noland, Antoni Tapies, Joe Tilson, Carla Accardi e la direzione di Graziano Marini, è chiuso da un pezzo. Ci provano, oggi e per tutt’altra via, Rita Miranda, artista specializzata in tecnica Raku a cui unisce una sensibilità non comune nel rappresentare, per mimesi, organismi naturali delle profondità marine con cui ha partecipato al Padiglione Italia-Umbria della Biennale di Venezia (2011), e AbOvo galleria di arte applicata, esempio raro in Italia, dove espongono artisti-artigiani internazionali.
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Raku e terrecotte segnano il passaggio alla vicina Marsciano. Il primo per la presenza dello studio pottery La Fratta che Luca Leandri, artista di solida formazione, conduce con Elisabetta Corrao dedicandosi oltre che alla propria personale produzione raku, alla edizione di corsi per tutte le età e non solo di ceramica, così che è possibile non solo partecipare alle attività artistiche attraverso seminari, ma anche dedicarsi alla meditazione o, semplicemente, farsi una vacanza nella campagna umbra. Tripadvisor dice che La Fratta ArtHouse è al primo posto dei bed & breakfast della zona, Vanity Fair conferma (http://www.vanityfair.it/viaggitraveller/cinquesensi/hotel/14/04/28/weekend-umbria-hotel-la-fratta-corsi-tai-chidisegno-ceramica). In centro città, il
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Museo dinamico del laterizio e delle terrecotte testimonia una vocazione perduta per le terrecotte invetriate (pignatte, orci, brocche e roba simile che fino a qualche decennio fa ancora servivano nelle campagne) di cui Marsciano era una sorta di capitale nel XVI secolo, e un’altra in ottima salute per il laterizio di cui leader nazionale la Fornaci Briziarelli. Il museo offre una vasta campionatura della ceramica d’uso agricolo e domestico del passato e nella galleria degli orci
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conserva alcuni pregevoli esemplari della fornace ottocentesca del marchese Coppoli di Sant’Enea.
Pochi chilometri separano Marsciano da Deruta, fino a un decennio fa la principale città della ceramica nazionale, oggi molto ridotta per aziende e maestranze attive. Per la strada Marscianese del piano, la rotonda di Sant’Angelo di Celle, dove sta un colorato monumento in ceramica con le sembianze di un girotondo di carabinieri double face (un lato i gendarmi di Pinocchio e dall’altro volute di foglie d’acanto), indica che è il momento di girare a destra per raggiungere Deruta sull’altra sponda del Tevere.
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Per la E45, invece, dopo aver superato il santuario della Madonna dei Bagni e i suoi ex voto in ceramica, avremmo incontrato un mattonellone a forma di stella, copia in grande formato di una piccola formella del pavimento maiolicato del 1524 i cui resti si trovano nel Museo della ceramica di Deruta.
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E’ più grande di un’insegna stradale e non è ben chiaro perché gli autori (Romano Ranieri e la sua scuola su commissione del Comune) abbiano voluto affliggere di gigantismo un lavoro che originariamente è poco più di una miniatura. Deve esserci qualche malattia, perché lo stesso è accaduto ad una pagina dello statuto di Deruta del 1465 con l’intestazione miniata che è divenuto grande come un letto a due piazze e il
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Comune lo ha sistemato nei giardini fuori porta. Aveva cominciato, qualche decennio fa, un imprenditore del settore con un vasone super decorato, che ancora si vede lungo la superstrada di guardia al capannone, prima di provare a decentrare la produzione in Tunisia e in Cina. Tentativo sfortunato, nonostante le vendite promozionali che associavano un motorino elettrico in omaggio all’acquisto di un servizio di piatti con decori tipici, ma che servÏ ad attirargli le ire di qualche altro produttore locale. Deve essere stato, poi, contagiato anche Silvano D'Orsi che ha piazzato una super caffettiera nei pressi dell’hotel Melody.
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Spiace però, vedere in rovina l’insegna e il portale della antica Maioliche Deruta, premiato a Faenza nel 1907, e popolarsi di panchine in pietra lavica i giardini del centro storico e del borgo. La differenza segna il tono del cambiamento. L’opera di un secolo fa rappresentò una riuscita esercitazione di bello stile, quelle di oggi, nella migliore delle ipotesi, un’operazione citazionista. Le panchine da picnic vicino al monumento ai caduti del centro storico sembrano in attesa dell’orso Yoghi, mentre quelle coloratissime del giardinetto nord del borgo dovrebbero avere il profilo delle sirene prese dalle grottesche dei classici decori derutesi, ma sembrano più delle galline passate sotto uno schiacciasassi.
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La visita alle botteghe, quelle che resistono, può rappresentare una buona opportunità per rifarsi l’occhio. Per le lavorazioni e le decorazioni tipiche, anche con qualche rielaborazione attuale, tengono duro Grazia, Sambuco e Nicolini. Da Grazia ci si faccia aprire anche il museo di fabbrica e visitare l’intero stabilimento, meglio se con l’assistenza della direttrice, per apprezzare la storia plurisecolare dell’impresa familiare Grazia ricordata dall’Economist come tra le più antiche al mondo, e incontrare Ubaldo il titolare, molto noto
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negli States e meno a casa nostra. Per le esperienze che dagli anni ‘50 hanno legato Deruta alle correnti attuali dell’arte, ci si rivolge al Museo regionale della Ceramica (a dispetto del nome è un museo comunale) dove sono raccolte le opere premiate ai concorsi derutesi – quattro fra il 1954 e il 1972- e alcune rarissime opere di Edouard Pignon. Alla galleria Moretti dell’Antica sono raccolti i prototipi e pezzi unici realizzati dai tanti artisti che frequentarono la fabbrica. Per l’attualità si veda anche la Freemocco’s House una galleria-casa d’artista, dove Attilio Quintili organizza mostre lampo di artisti ceramisti. Il luglio derutese non offre di più, ma a fine stagione il Comune e la proloco hanno in programma la settima edizione
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di Magia di un’arte. Il programma della manifestazione prevede laboratori nelle botteghe artigiane e, nel Museo, l’esposizione di una collezione privata e la personale “Anima e materia” di Paolo Ballerani, artista finora noto per le sculture in polistirolo. Il resto del festival è fatto di concerti, inaugurazioni, pub e locande, mentre il pezzo forte sembrerebbe il “Palio della brocca”, una gara competitiva di abilità atletiche in costumi d’epoca. Cioè la ceramica c’entra poco e niente e viene il dubbio che per sostanziare la magia che sta nel titolo, il festival debba intendersi come un rito propiziatorio perché passi la crisi o se la magia consisterà, a forza di provarci, nella sparizione definitiva delle attività secolari della ceramica.
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Sono spariti dal palcoscenico del festival, ma per fortuna sono vivi e vegeti, gli artisti derutesi che, come spesso accade in provincia, sono piÚ amati fuori che in patria. Tra questi, Giulio Busti ricomparso sulla scena artistica nella collettiva Ricognizione 2014 dell’arte contemporanea in Umbria in corso al CIAC di Foligno; Silvano D’Orsi esponente di successo del Movimento degli Arcani del critico Paolo Levi; Marino Ficola selezionato per la ceramica al Padiglione Italia-Umbria della Biennale di Venezia 2011; Nicola Boccini le cui porcellane interattive sono attualmente in mostra, dopo una durissima selezione, alla Taiwan Ceramics Biennale.
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Dentro il Museo della ceramica è più facile trovare una cerimonia di matrimonio (http://proderuta.blogspot.it/p/blogpage.html) che le loro opere e perciò, se si vuole avere cognizione dell’attuale sviluppo dell’antica arte derutese, sarà necessario andare a trovare questi artisti nei loro atelier. Sono tutti di buon carattere e ospitali, come la maggior parte dei derutesi.
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E’
d’obbligo,
quindi,
una
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deviazione a Torgiano per una visita al Museo di Arte Ceramica Contemporanea, raccolta di una sessantina di sculture in ceramica di Nino Caruso donate dall'artista, e un numero crescente, ad ogni edizione, di vaselle d’autore opera di ceramisti internazionali (no designers, e nemmeno architetti e stilisti) scelti dallo stesso Caruso. Salvo accertarsi prima che il museo sia aperto, la visita è l’unica possibilità di apprezzare una così vasta e aggiornata campionatura di ceramica
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contemporanea. A seguire, presso il Museo del Vino della Fondazione Lungarotti, L'infanzia di Bacco, piatto lustrato di Mastro Giorgio Andreoli, parte della cospicua collezione di ceramica che giunge fino ad opere contemporanee dei giĂ citati Caruso e Busti, e prosegue oltre con Pompeo Pianezzola, Gio Ponti, Piero
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Fornasetti, Jean Cocteau e Joe Tilson. Il passaggio a Torgiano serve anche a prepararsi al ritorno a Perugia, dove
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finalmente la mostra Made in Umbria è riemersa dal seminterrato del Fatebenefratelli per distribuirsi fra biglietteria e bookshop, in anticamera alla mostra di Mc Curry, sicché il visitatore è obbligato a passarvi di fronte. L’allestimento, il primo in un angolo e il secondo in un tavolo apparecchiato, sa un po’ troppo di mercatino delle strenne, ma chi ha pensato la nuova collezione della nuova ceramica umbra ha il dichiarato intento di vendere per cui non ci si stupisce più di tanto. Stupisce invece il risultato dello studio degli antichi decori stilemi e tecniche che alla fine ha partorito una ventina di pezzi di maiolica bianca con, al massimo, qualche pennellata grossa di colore, dalle
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forme che si ispirano a qualche elemento di umbro antico. Ciò che tiene insieme la nuova collezione è infatti, il bianco dello smalto e i rilievi stampati.
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richiamano i segni a spolvero o le reti dei ferrapignatte. L’operazione Ceramica Made in Umbria, però era partita dalla collezione di vasi realizzati da Michele De Lucchi alla Grazia di Deruta due anni fa. Costosa e sofisticata, il nome dell’architetto e la complessità tecnica avrebbero giustificato un prezzo elevato per mercati selezionati. La soluzione attuale è l’esatto opposto e il risultato genera, almeno in me, una notevole perplessità. Così al giovane operatore addetto alla biglietteria che al termine della visita
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gentilmente mi chiede il mio giudizio, rispondo con un “lei le comprerebbe?” La domanda è semplice e mi pare strano che nessuno se la sia posta, perché una buona strategia di marketing partirebbe dal porsi la questione piuttosto che da una swot analysis fra produttori e amministratori o, peggio, dall’aderire a prescindere all’interpretazione di un progettista, bravo o no che sia. Se l’intento è quello di aggiungere valore all’oggetto con una denominazione regionale d’origine (ma esiste un Umbria doc?), anche a voler essere dei tifosi ci vorrà un po’ di fatica per convincere che solo perché ha un brutto manico stampato a occhio di penna di pavone, una tazza impilabile dalle forme tipo Pagnossin anni Sessanta è un pezzo d’Umbria. Non meno che comprarsi un mobiletto all’Ikea
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volesse dire comprarsi un pezzo di Svezia. E poi, a cucire su un piatto un filo di lana proveniente da pecore che l’Umbria non sanno nemmeno dov’è, non ci vuole più tempo che a dipingere una grottesca? Infine, sicuri che lo stile rinascimentale non piaccia più? Solo cinque anni fa la mostra Art and Love in Renaissance Italy, con tanto di piatto da pompa derutese, al Metropolitan di New York ha fatto 2500 visitatori al giorno e in meno di tre mesi oltre duecentomila presenze. Perché una passata di bianco dovrebbe attirare di più? In compenso, fatto nuovo per la media
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delle aziende del settore, si deve apprezzare la cura rivolta dalla designer al packaging e alla presentazione del prodotto con tanto di istruzioni per l’uso nell’elegante catalogo e, perfino, un foulard-tovaglia con la stessa grafica degli imballaggi che copre il tavolo dell’esposizione. Insomma, la confezione del prodotto c’è ma il prodotto manca. Anche il mandato pare confuso. Nel giro di pochi anni gli amministratori comunali e regionali, sulla spinta dei produttori più influenti, hanno cambiato idea più volte. Buttata a mare la legge 188/90 (quella sulla tutela delle produzioni tradizionali) dopo averla per anni reclamata, hanno tentato la strada della lotta ad una contraffazione per lo più inesistente, quella della moda,
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dell'innovazione tout court, del fatto a mano, e infine quella del progetto di alta qualità per finire al design e basta. I musei sono quasi chiusi o usati per altri scopi, mostre e concorsi da tempo abbandonati. Nel frattempo le espressioni migliori della ceramica umbra sono cresciute per altre strade, molto simili a quelle che l’Europa ha già conosciuto dopo la crisi delle manifatture industriali. Le ho trovate negli studio-pottery, atelier individuali o poco più, dove gli artigiani-artisti umbri producono una ceramica colta e di elevata qualità tecnica, sia che guardi a tecniche esoteriche come il raku o che rivolga l’attenzione ai trascorsi umbri, con una offerta composita anche di eventi culturali, formativi e di ospitalità che pare vicina al gusto postmoderno della società liquida
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attuale e che sta ancora piÚ a Occidente che a Oriente. Il mio viaggio nella ceramica umbra, finisce qui. Uscendo dal Fatebenefratelli rivolgo un ultimo sguardo alla lunetta maiolicata che sovrasta il portone d’ingresso della Chiesa. Ben dipinta nel secolo scorso, vi si vede San Giovanni che soccorre un malato piuttosto conciato. Conciato, ma vivo come la ceramica umbra.
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Steve Mc Curry /Sensational Umbria / 2014/Perugia Angela Burla/2014/Perugia Palazzo Baldeschi al Corso/Perugia Castello/ Ripa Cooperativa ceramisti/1923/Gualdo Tadino Aldo Rontini/1982/Gualdo Tadino Palazzo dei Consoli/Gubbio Francesco Xanto Avelli - Giorgio Andreoli/ 1532/Bologna Luigi Stefano Cannelli/2014/Gubbio Abazia/Camporeggiano Umbertide Ambrogio Pozzi/Ceramiche Rometti/2009/Umbertide Chantal Thomass/Ceramiche Rometti/2012/Umbertide Città di Castello Giorgio Ricciardi/2009/Città di Castello Reschio/Castello Città della Pieve Terrecotte/2014/Ficulle Orvieto Boccale orvietano/sec. XIV/Orvieto Marino Moretti/2013/Viceno Santa Maria della Consolazione /Todi Piatto derutese (frammenti)/sec.XV/Todi Piatto derutese/sec.XVI/Paris, Musée du Louvre Museo dinamico del laterizio e delle terrecotte/Marsciano Deruta Romano Ranieri/Deruta Fabbrica Grazia/1924/Deruta Giulio Busti/2014/Deruta Torgiano Nino Caruso/2011/Torgiano Elisabetta Furin/ Ceramiche Rometti/2014/Perugia Michele De Lucchi/Ceramiche Grazia/2012/Deruta Elisabetta Furin/ Ceramiche Grazia/2014/Perugia Pannello/Chiesa San Giovanni di Dio/Perugia Umbria
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