Hauser - Storia sociale dell'arte

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Storia sociale dell’arte

da

di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume primo. Preistoria. Antichità. Medioevo, trad. it. di Anna Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e 1987 Titolo originale:

Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck, München

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Indice

il medioevo

VIII. Il romanticismo cortese e cavalleresco

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IX. Il dualismo dell’età gotica

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X. Cantieri e Arti

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XI. L’arte borghese del gotico tardo

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il medioevo Capitolo ottavo Il romanticismo cortese e cavalleresco

Il sorgere del gotico segna la svolta piú profonda nella storia dell’arte moderna. L’ideale stilistico valido ancora oggi, coi suoi criteri di fedeltà al vero e d’intensità affettiva, di sensualità e di sensibilità, ha qui la sua origine. Di fronte a questo modo di sentire e di esprimersi, l’arte dell’alto Medioevo appare non solo rigida e impacciata – come il gotico di fronte al Rinascimento – ma anche rozza e sgradevole. Solo il gotico ci ripresenta opere d’arte in cui le figure hanno proporzioni normali, si muovono con naturalezza e sono «belle» nel senso proprio della parola. Anch’esse non ci fanno mai dimenticare che si tratta di un’arte da gran tempo superata, ma, almeno in certi casi, suscitano un immediato piacere, che non dipende soltanto dalla nostra cultura e predisposizione. Come si è operato questo radicale cambiamento? Come è nata l’arte nuova, cosí vicina alla nostra sensibilità? A quale intrinseco mutamento dell’economia e della società si ricollega il nuovo stile? La risposta a questi quesiti non rivelerà alcuna svolta improvvisa; per quanto diverso, nel suo complesso, dall’alto Medioevo, il periodo gotico, all’inizio, pare semplicemente continuare e compiere quell’epoca di transizione che, nel secolo xi, scosse il sistema economico e sociale del feudalesimo e la staticità dell’arte e della cultura romanica. A quest’epoca risalgono gli inizi dell’economia monetaria e di scambio e i primi segni di rina-

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scita della borghesia urbana occupata nell’industria e nei traffici. Chi osserva il fenomeno ha l’impressione che si ripeta la rivoluzione economica dell’antichità, da cui nacque la civiltà urbana della Grecia. In ogni caso, il nuovo mondo occidentale sembra economicamente piú affine alla polis che al mondo dell’alto Medioevo. Come già nell’antichità, il centro della vita sociale torna a spostarsi dal contado alla città; di qui partono tutti gli stimoli e qui confluiscono tutte le vie. Se finora i conventi erano le tappe che via via si toccavano nei viaggi, ora sono di nuovo le città i luoghi dove ci si incontra e si entra in contatto col mondo. Ma esse si distinguono dalle antiche poleis soprattutto perché queste ultime erano essenzialmente centri politici, mentre le città medievali sono quasi soltanto mercati, in cui la dinamizzazione della vita è ancor piú rapida e radicale che nelle comunità urbane dell’evo antico. Non è facile dire quale sia l’origine diretta di questa nuova vita cittadina, e che cosa venga prima: la produzione industriale e l’estensione del commercio, o la disponibilità di denaro e l’inurbamento. Può darsi che il mercato si ampliasse, perché era cresciuta la capacità d’acquisto della popolazione, e l’aumento della rendita fondiaria agevolava il fiorire delle industrie1; ma è altrettanto possibile che questo aumento derivasse dai nuovi mercati, dai nuovi e maggiori bisogni delle città. Ma comunque procedesse l’evoluzione, decisivo per la storia della civiltà è il sorgere dei nuovi ceti professionali: artigiani e mercanti2. Artigiani e mercanti c’erano anche prima; e un artigianato privato non si trovava soltanto nelle fattorie e nei castelli, nelle tenute dei monasteri e nelle officine dei vescovati, e cioè nel quadro dell’economia curtense: perché molto presto una parte della popolazione rurale s’era applicata a produrre manufatti per il mercato libero. Ma questa piccola industria con-

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tadina non costituiva una produzione regolare, e per lo piú veniva esercitata solo quando il podere non bastava a mantenere la famiglia3. Quanto agli scambi, si trattava solo di un commercio occasionale. La gente comprava e vendeva secondo la necessità e l’occasione, ma non c’erano mercanti di mestiere, se non isolati e dediti al commercio con l’estero; non c’era, comunque, alcun gruppo a sé che si potesse designare come classe mercantile. In generale, i produttori stessi curavano la vendita dei loro prodotti. Ma, a cominciare dal secolo xii, accanto ai produttori rurali troviamo un artigianato urbano indipendente e regolarmente attivo, e un ceto di mercanti professionali. «Economia urbana» si contrappone, nelle classificazioni di Bücher, alla produzione intesa a coprire il fabbisogno immediato del gruppo: significa cioè «produzione per il cliente», cioè di beni che non vengono consumati nell’azienda che li ha prodotti. Essa si distingue dallo stadio successivo dell’«economia nazionale» perché lo scambio delle merci procede pur sempre in forma diretta, cioè i beni per lo piú passano immediatamente dal produttore al consumatore, e di regola non c’è una produzione di scorte e per il mercato libero, ma solo su diretta ordinazione e per clienti ben noti. È questo il primo stadio che separa la produzione dal consumo immediato, ma siamo ancora ben lontani dall’assoluta astrattezza della produzione di merci, per cui generalmente i beni debbono passare attraverso molte mani prima di giungere al consumatore. Questa fondamentale differenza fra l’«economia urbana» medievale e la moderna «economia nazionale» permane anche se cerchiamo di avvicinare il «tipo ideale» dell’economia urbana di Bücher alla realtà storica concreta, e, anziché pensare a una pura produzione per clienti, di cui non si può parlare neppure per il Medioevo, ci limitiamo a supporre – fra produttori e consumatori – un rapporto piú

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diretto di quello moderno, e teniamo presente che il produttore non si trova di fronte a un mercato del tutto ignoto e indeterminato, come sarà piú tardi. Il carattere della produzione «urbana» si riflette naturalmente anche nell’arte; se comporta, in confronto con l’epoca romanica, una maggiore indipendenza dell’artista, tuttavia non determina il fenomeno moderno dell’artista incompreso, straniato dal pubblico, operante nel vuoto, fuori del tempo. Il «rischio del capitale», che è la vera differenza tra la produzione per committenti e quella di magazzino, è sopportato ancora quasi esclusivamente dal mercante, o, in ogni caso, egli dipende piú di ogni altro dai casi imprevedibili del mercato. Egli rappresenta lo spirito dell’economia monetaria nella sua forma piú pura, e il tipo piú evoluto della nuova società tutta intesa al guadagno. È soprattutto merito suo se, accanto alla proprietà terriera, finora unica forma importante di ricchezza, si costituisce il capitale mobile degli affari. Finora la riserva di metalli preziosi era tesaurizzata quasi esclusivamente in forma di oggetti utili, specialmente coppe e piatti d’oro e d’argento. Le poche monete disponibili, per lo piú in possesso della Chiesa, non circolavano; a farle fruttare non si pensava affatto. I conventi, precursori dell’economia razionale, prestavano bensí ad usura4. Ma erano solo affari occasionali; il capitale finanziario, per quanto se ne può parlare nell’alto Medioevo, era infruttifero. È il commercio a ridare impulso al capitale inerte. Grazie ad esso il denaro, non solo diventa il mezzo universale di scambio e di pagamento, la forma prediletta di formazione della ricchezza, ma ricomincia a «lavorare», ridiventa produttivo: infatti serve all’acquisto di materie prime e di utensili, e permette di accumulare le merci ai fini della speculazione; e costituisce il substrato delle operazioni di credito e delle transazioni bancarie. Ma con ciò appaiono

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anche i primi caratteri della mentalità capitalistica5. Poiché la ricchezza diventa piú mobile, ed è piú facile convertirla, trasferirla e accumularla, gli individui cominciano a liberarsi da ogni soggezione naturale e sociale; si elevano piú facilmente da una classe all’altra e hanno piú voglia e coraggio di far valere la propria personalità. Il denaro, che permette la misura, lo scambio e l’astrazione dei valori, e rende neutra e impersonale la proprietà, fa sí che anche l’appartenenza degli individui ai vari gruppi sociali dipenda dal fattore impersonale e astratto del loro sempre variabile potere finanziario; e finisce cosí per distruggere il rigido sistema delle caste. Il prestigio determinato dal censo è generalmente collegato al livellamento dei soggetti economici, ma poiché l’acquisto della ricchezza dipende da qualità schiettamente personali – intelligenza, fiuto, senso della realtà, abilità nelle combinazioni – e non dalla nascita, dalla posizione e dai privilegi, l’individuo guadagna in prestigio personale quello che ha perduto come rappresentante di un determinato ceto. Sono ormai le sue qualità positive, e non piú le qualità irrazionali della nascita, a dargli credito. L’economia monetaria delle città minaccia di rovina l’intero sistema economico feudale. Quella del feudo, come sappiamo, era un’economia senza mercati, che, per l’impossibilità di vendere i propri prodotti, si limitava a produrre secondo il bisogno. Ma appena si trovò la possibilità di valorizzare i prodotti eccedenti, quell’economia tradizionalistica, sterile e senza ambizioni, si destò a nuova vita. Si passò a metodi produttivi piú intensi e piú razionali, e si fece di tutto per produrre piú di quanto si consumasse. Ma poiché la parte spettante ai proprietari terrieri dei proventi delle loro terre era piú o meno strettamente limitata dalla tradizione e dal costume, la nuova eccedenza favorí anzitutto i contadini. Intanto i signori avevano sempre piú bisogno di

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denaro, e non solo per l’aumento dei prezzi connesso allo sviluppo del commercio, ma anche per la seducente offerta di articoli sempre piú nuovi e preziosi. Dalla fine del secolo xi le esigenze sono enormemente cresciute, e si è raffinato il gusto in fatto di vestiario, di armi, di arredamento; ora non ci si contenta piú di una rozza praticità senza pretese, e in ogni oggetto d’uso si vuol possedere un oggetto di valore. Poiché le entrate della nobiltà terriera restano stazionarie, questa situazione non può non dar origine a un disagio economico, a cui da principio si apre come sola via di scampo la colonizzazione dei terreni incolti. I proprietari cercano di affittare gli appezzamenti disponibili, fra cui anche quelli disertati dai contadini, e di trasformare in pagamenti in denaro le antiche prestazioni in natura. Perché, se essi hanno soprattutto bisogno di denaro, cominciano a rendersi conto che, in quest’epoca d’incipiente razionalismo, coltivare la proprietà con i servi della gleba spesso non è piú redditizio. Si fa strada in loro l’idea che il lavoro libero frutta molto di piú del lavoro servile, e che la gente preferisce assumersi carichi piú gravosi, ma stabiliti in precedenza, anziché impegni indefiniti, anche se in realtà piú lievi6. Essi sanno ricavare tutto il vantaggio possibile dalla critica situazione: liberando i contadini, non solo acquistano fittavoli piú attivi dei servi della gleba, ma incassano, in cambio di questo favore, somme considerevoli. Spesso non riescono a cavarsela neppure cosí, e, per tenere il passo coi tempi, debbono contrarre prestiti su prestiti e, finalmente, cedere parte delle loro terre ai borghesi, desiderosi di acquistarle e in grado di pagarle. Comprando quei beni, la borghesia vuole anzitutto consolidare la sua posizione sociale ancora dubbia; la proprietà terriera è come un ponte per salire ai ceti superiori. In questo periodo, il mercante o l’artigiano svincolato dalla terra è un fenomeno in sé e per sé pro-

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blematico. Egli ha un posto intermedio fra i nobili e i contadini; da un lato è libero, come lo è solo il nobile; ma dall’altro viene dalla plebe come l’ultimo servo della gleba. Anzi, nonostante la sua libertà, è in certo qual modo inferiore al contadino, e passa, nei suoi confronti, per uno spostato senza radici7. In un tempo in cui sola condizione legittima è il vincolo personale col suolo, egli vive su un terreno che non gli appartiene, che non coltiva, e che è pronto a lasciare in qualsiasi momento. Gode di privilegi che finora erano stati appannaggio della nobiltà terriera, ma deve acquistarseli col denaro. Materialmente indipendente, talvolta piú agiato dei nobili, non sa impiegare la sua ricchezza secondo le regole della vita aristocratica: è un villan rifatto. Disprezzato e invidiato da nobili e da contadini, gli occorrerà molto tempo per uscire da questa pericolosa condizione. Solo nel Duecento la borghesia urbana sarà considerata una classe importante, per quanto non ancora del tutto rispettabile. Da questo momento alla ribalta della vita sociale, assume quella posizione di «terzo stato» che determinerà il corso della storia moderna e imprimerà il suo carattere all’Occidente. Dalla costituzione della borghesia come classe fino alla fine dell’ancien régime non si operano piú grandi mutamenti nella struttura della società occidentale8, ma ogni mutamento è opera della borghesia. L’immediata conseguenza dell’economia urbana e mercantile è la tendenza al livellamento delle antiche differenze sociali; senonché il denaro suscita nuove distinzioni. Dapprima esso è un ponte fra i ceti separati dal diritto del sangue, ma a sua volta diventa uno strumento di differenziazione sociale e finisce per suddividere la stessa borghesia, agli inizi ancora omogenea. I contrasti di classe, che cosí si determinano, ricoprono, incrociano o inaspriscono le antiche differenze di ceto. Tutti quelli che hanno la stessa professione – cavalieri o

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chierici, contadini o mercanti o artigiani – oppure lo stesso tipo di proprietà – commercianti piú o meno ricchi, padroni di grandi o di piccole aziende, maestri indipendenti e i loro compagni di bottega – ora sono pari, ma si contrappongono come rivali inesorabili. E questi nuovi antagonismi cominciano ad essere sentiti piú acutamente delle antiche divisioni. Alla fine tutta la società è in fermento; i vecchi confini si perdono, i nuovi sono netti, ma si spostano continuamente. Fra la nobiltà e i servi della gleba si è insinuata una nuova classe che riceve rinforzi dalle due parti. L’abisso fra libero e servo non è piú cosí profondo; in parte i servi si mutano in fittavoli, in parte fuggono in città e diventano operai liberi. Per la prima volta essi possono disporre di se stessi e concludere contratti di lavoro9. La sostituzione del canone d’affitto all’antica prestazione in natura comporta nuove libertà finora inimmaginabili. A parte il fatto che ora il lavoratore può disporre come vuole del suo salario – e ciò non può non rafforzare la sua coscienza di sé – ha piú tempo libero di prima e può passarlo come meglio crede10. Ne derivano incalcolabili conseguenze culturali, benché un influsso diretto degli elementi plebei sulla cultura si verifichi solo lentamente e non nella stessa misura in tutti i campi. Salvo in certi generi letterari, come il fabliau, la poesia continua a rivolgersi esclusivamente ai ceti superiori. E per quanto le corti accolgano molti poeti di origine borghese, questi di solito si fanno portavoce della cavalleria e rappresentanti del gusto aristocratico. Quale committente e compratore di opere d’arte il borghese singolo non ha ancora un peso, ma gli artisti e gli artigiani sono quasi tutti borghesi, come i membri delle corporazioni cittadine, che esercitano un notevole influsso sull’arte, specie sulla costruzione delle chiese e degli edifici pubblici. Urbana e borghese è l’arte delle cattedrali gotiche, in confronto dell’arte romanica, monastica e nobiliare;

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urbana e borghese anche nel senso che i laici svolgono una parte sempre maggiore nella costruzione delle cattedrali, mentre l’influsso del clero sull’arte diminuisce in proporzione11; urbana e borghese, infine, perché quelle opere sono inconcepibili senza la ricchezza delle città e perché nessun principe della Chiesa avrebbe potuto sostenerne il costo. Ma non solo l’arte delle cattedrali rivela i segni della mentalità nuova; tutta la civiltà cavalleresca è in certo qual modo un compromesso fra l’antica visione feudale e gerarchica e il nuovo orientamento borghese e liberale. L’influsso della borghesia si manifesta specialmente nella secolarizzazione della cultura. L’arte non è piú il misterioso linguaggio di un piccolo gruppo d’iniziati, ma una forma di espressione quasi universalmente comprensibile. Lo stesso cristianesimo non è piú soltanto una religione di chierici, ma diventa sempre piú decisamente una religione popolare. Sugli elementi rituali e dogmatici prevale il contenuto morale12. La religione si fa piú umana e piú commossa; e anche la tolleranza verso i «nobili pagani» – uno dei pochi effetti tangibili delle crociate – è una manifestazione del nuovo spirito religioso, piú libero, ma piú intimo. Il misticismo, gli ordini mendicanti, le eresie del secolo xii sono tutti sintomi dello stesso processo. L’orientamento laico della cultura dipende anzitutto dalla città in quanto centro commerciale. Qui, dove la gente confluisce da ogni parte, dove i mercanti di province e di nazioni lontane si scambiano merci e, senza dubbio, anche idee, si produce una circolazione intellettuale ignota a tutto l’alto Medioevo. Coi traffici internazionali si ravviva anche il commercio artistico13. Finora le opere d’arte, soprattutto manoscritti miniati e prodotti d’artigianato, passavano dall’uno all’altro solo come doni occasionali o in seguito a ordinazioni dirette. Talvolta oggetti d’arte venivano semplicemente sottratti a un paese e trasferiti in un altro. Cosí, ad esem-

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pio, Carlo Magno trasportò ad Acquisgrana colonne e altri frammenti architettonici tolti agli edifici di Ravenna. Ma, a partire dal secolo xii, fra Oriente e Occidente, fra Mezzogiorno e Settentrione, si istituisce un commercio artistico piú o meno regolare, e l’Europa del Nord si limita quasi esclusivamente all’importazione. In ogni campo della vita si vede sottentrare all’antico campanilismo una tendenza all’universalità, un tratto internazionale e cosmopolita. In contrasto con la stabilità dell’alto Medioevo, una gran parte della popolazione è in continuo movimento: cavalieri che prendono la croce, credenti che si fanno pellegrini, mercanti in viaggio di città in città, contadini che disertano la zolla, operai e artisti, dottori e studenti, vaganti di cantiere in cantiere, di università in università; e fra di loro comincia a svilupparsi una specie di romanticismo del vagabondaggio. A parte il fatto che il commercio fra persone di tradizioni e costumi diversi suole indebolire la fede avita e le vecchie abitudini mentali, l’educazione necessaria a un uomo d’affari doveva progressivamente emanciparlo dalla tutela intellettuale della Chiesa. Le conoscenze richieste per l’esercizio del commercio: leggere, scrivere e far di conto, venivano impartite, almeno all’inizio, dai chierici, ma non avevano nulla a che fare con la cultura clericale, con la grammatica latina e la retorica. Il commercio estero esigeva una certa conoscenza delle lingue, ma non del latino. Ne seguí che il volgare trovò accesso in tutte le scuole per i laici, aperte in ogni grande città fin dal secolo xii14. Ma l’insegnamento nella lingua viva annullò il monopolio dei religiosi sull’istruzione, e determinò la secolarizzazione della cultura, al punto che già nel Duecento c’erano laici istruiti che non sapevano piú il latino15. La trasformazione della struttura sociale nel secolo xii è dovuta, in ultima istanza, al sopravvento che la divi-

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sione in ceti professionali prende sulla divisione in caste. Anche la cavalleria ha carattere professionale, benché poi si trasformi in un ceto ereditario. Inizialmente si compone di soldati di mestiere, e include elementi di origine diversissima. Un tempo erano stati guerrieri anche i principi e i baroni, i conti e i grandi proprietari terrieri, e avevano ricevuto i loro possedimenti soprattutto in cambio di servizi militari. Ma nel frattempo l’impegno militare implicito nelle donazioni ha perduto ogni efficacia; e fra la gente d’antica nobiltà gli esperti nelle armi sono (e forse erano fin da principio) troppo poco numerosi per bastare alle esigenze delle guerre e delle faide ininterrotte. Ora chi voleva guerreggiare – e chi, fra i signori, non lo voleva? – doveva assicurarsi l’aiuto di milizie piú fidate e numerose di quel che non fosse il suo antico seguito. A ciò venne educata la cavalleria, uscita per lo piú dai ranghi dei ministeriales. La gente che troviamo al servizio di ogni feudatario, comprendeva gli amministratori delle terre e i castaldi, gli impiegati di corte e i sovrintendenti alle officine, i membri del seguito e della guardia, soprattutto scudieri, staffieri e sottufficiali. Da quest’ultimo gruppo venne la maggior parte della cavalleria. Per lo piú, i cavalieri erano dunque di origine servile. I liberi, ben diversi dai ministeriales, erano discendenti dell’antica classe militare, che non avevano mai posseduto un feudo o erano decaduti al livello di mercenari. Ma i ministeriales formavano almeno i tre quarti della cavalleria16, e la minoranza residua non si distingueva da loro, perché la coscienza di classe, prima che la truppa fosse fatta nobile, mancava ai liberi come ai servi. Un netto confine sussisteva, a quel tempo, solo fra il signore e il contadino, fra i ricchi e la povera gente, e il criterio della nobiltà non risiedeva in qualifiche giuridiche, ma in uno stile di vita17. E a questo riguardo non c’era alcuna differenza fra i compagni d’arme, liberi o servi, del feudatario; fino alla

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costituzione della cavalleria, i due gruppi facevano parte del seguito. Principi e grandi proprietari avevano bisogno di guerrieri a cavallo e di vassalli devoti; ma questi, perdurando l’economia naturale, potevano essere compensati soltanto con feudi. In ogni caso, principi e grandi proprietari erano pronti a concedere tutte le terre superflue, pur di accrescere il numero dei loro vassalli. Tali concessioni cominciano nel secolo xi, e nel xii i guerrieri del seguito sono ormai sazi di beni feudali. Il diritto al feudo è il primo passo dei ministeriales verso lo stato nobiliare. Per il resto si ripete anche qui il noto processo di formazione della nobiltà. Ai guerrieri, in cambio di servigi resi o da rendere, vengono destinati poderi da cui possono trarre di che vivere; dapprima essi non possono disporre liberamente di queste proprietà18, ma poi il feudo diventa ereditario e il titolare si affranca dal signore. Cosí il ceto professionale degli uomini del seguito si trasforma nel ceto ereditario dei cavalieri. Ma essi restano pur sempre una nobiltà inferiore e conservano un atteggiamento servile verso l’alta aristocrazia. Non si sentono rivali dei loro signori, come i membri dell’antica nobiltà feudale, che sono tutti naturali pretendenti alla corona e costituiscono per il principe un costante pericolo. Tutt’al piú, per un buon compenso, passano al servizio del partito avverso. La loro incostanza spiega la posizione preminente attribuita alla fedeltà del vassallo nel sistema etico della cavalleria. La grande novità della storia sociale dell’epoca consiste nel fatto che le barriere della nobiltà si aprono, e che il povero diavolo del seguito col suo piccolo podere appartiene ormai allo stesso ceto dei cavalieri a cui appartiene il suo ricco e potente signore. Il ministerialis di ieri, che si trovava su un gradino sociale ancora piú basso del contadino libero, è divenuto nobile, e passa da uno degli emisferi del mondo medievale – l’emisfero di

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coloro che non hanno alcun diritto – all’altro: l’emisfero, da tutti ambito, dei privilegiati. A ben guardare, anche il sorgere della nobiltà cavalleresca non è che un aspetto del generale movimento della società, di quel processo di ascesa che trasforma gli uomini liberi in borghesi, e i servi della gleba in liberi salariati e fittavoli indipendenti. Se davvero, come sembra, i ministeriales costituirono la parte preponderante della cavalleria, il carattere di questa classe e il contenuto di tutta la cultura cavalleresca dovettero subire l’influsso della loro mentalità19. Sullo scorcio del secolo xii e all’inizio del xiii la cavalleria comincia a diventare un ceto chiuso, a cui non si può accedere dall’esterno. D’ora in poi, possono diventare cavalieri solo i figli di cavalieri. Per essere considerati nobili, non basta piú il diritto al feudo, e neppure l’alto tenore di vita, ma occorrono le precise condizioni e tutto il rituale dell’investitura20. L’accesso alla nobiltà viene cosí nuovamente sbarrato, e probabilmente non si sbaglia a supporre che furono proprio i cavalieri nuovi di zecca a propugnare col massimo zelo questa serrata. Comunque, il momento in cui la cavalleria si trasforma in ceto ereditario e diventa una casta militare chiusa è senza dubbio il momento piú importante nella sua storia e uno dei momenti piú decisivi in quella della nobiltà. Non solo perché d’ora in poi i cavalieri fanno parte integrante della nobiltà, e sono in netta maggioranza rispetto agli antichi nobili, ma perché ora soltanto, e proprio per opera loro, si foggia l’ideale cavalleresco, la coscienza di classe e l’ideologia di classe della nobiltà. Soltanto ora, in ogni caso, i principî della condotta e dell’etica nobiliare acquistano quella chiarezza e quell’intransigenza con cui si presentano nell’epopea e nella lirica cavalleresca. È un fenomeno ben noto, che spesso si ripete nella storia delle classi sociali, quello per cui i nuovi membri di un ceto privilegiato ne difendano con

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piú rigore i principî; e delle idee, che uniscono e distinguono il gruppo, siano piú coscienti di coloro che in esse sono cresciuti. L’homo novus è sempre incline a compensare a usura il proprio senso d’inferiorità e a inasprire i presupposti morali dei privilegi di cui gode. Cosí accade in questo caso: la nuova cavalleria, sorta dagli umili ministeriales, è piú rigida e intollerante – nelle questioni in cui è in gioco l’onore di casta – dell’antica aristocrazia di nascita. Ciò che a quest’ultima appare naturale e ovvio, diventa – per chi viene dal nulla – un avvenimento e un problema, e il senso di appartenere alla classe dominante, ormai inavvertito nella vecchia nobiltà, costituisce per lui una grande e nuova esperienza21. Là dove il nobile di antica schiatta agisce quasi per istinto e con perfetta naturalezza, il cavaliere scorge un compito speciale, una difficoltà, l’occasione di un atto eroico e la necessità di far forza su se stesso: sente cioè qualcosa d’insolito e d’innaturale. E anche là dove il gran signore non si cura minimamente di distinguersi dagli altri, il cavaliere esige dai membri della sua classe che si distinguano a ogni costo dai comuni mortali. L’idealismo romantico e l’eroismo riflesso e «sentimentale» della cavalleria, questo idealismo ed eroismo di seconda mano, nascono soprattutto dalla consapevolezza e dall’ambizione con cui la nuova nobiltà sviluppa il suo concetto dell’onore. Tanto zelo è solo indizio di un’incertezza e di una debolezza che l’antica nobiltà non conosce o, almeno, non conobbe finché non subí l’influsso della nuova cavalleria, intimamente malsicura. Questo squilibrio interiore della cavalleria si manifesta soprattutto nell’ambivalenza dei suoi rapporti con le forme convenzionali del costume aristocratico. Mentre essa si attacca alle esteriorità ed esaspera il formalismo della vita aristocratica, considera l’intima nobiltà dell’animo al di sopra della nobiltà esteriore e formale della nascita e del tenore di vita. Sentendosi subordinata,

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esagera il valore delle pure forme; ma, nella coscienza delle attitudini e delle virtú che possiede come o piú dell’antica aristocrazia, torna ad abbassare il valore delle forme e della stirpe. La tendenza a collocare la nobiltà dell’animo al disopra di quella della stirpe è anche un segno della completa assimilazione del cristianesimo da parte dei guerrieri feudali, è cioè il risultato finale di un processo che conduce dal rozzo uomo d’arme dell’età barbarica al cavaliere di Dio del pieno Medioevo. La Chiesa favorí la formazione della nuova nobiltà cavalleresca con tutti i mezzi di cui disponeva, consolidò la sua importanza sociale mediante l’ordinazione, le assegnò la protezione dei deboli e degli oppressi, e ne fece il campione di Cristo, conferendole cosí una specie di dignità religiosa. Il vero scopo della Chiesa era evidentemente quello di arginare il processo di secolarizzazione che partiva dalla città, processo che minacciava di essere accelerato dalla cavalleria, per lo piú senza mezzi e relativamente libera da ogni vincolo. Ma le tendenze mondane di quest’ultima erano cosí forti, che nel suo atteggiamento verso la dottrina della Chiesa, nonostante i vantaggi connessi con l’ortodossia, giunse al massimo a soluzioni di compromesso. Tutte le creazioni della civiltà cavalleresca, il sistema etico, la nuova concezione dell’amore, e la nuova poesia, mostrano lo stesso antagonismo fra tendenze mondane e religiose, sensuali e spirituali. Il sistema etico della cavalleria, come quello dell’aristocrazia greca, è permeato dall’idea della kalokagathía. Non è pensabile alcuna virtú cavalleresca senza la forza fisica e l’esercizio fisico, e tanto meno in contrasto con essi, come le virtú del cristianesimo primitivo. Nelle singole parti del sistema che, ad analizzarle attentamente, comprendono le virtú stoiche, cavalleresche, eroiche e aristocratiche in senso stretto, il valore delle doti fisiche e di quelle spirituali è in ognuna diver-

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so, ma in nessuna di queste categorie il fisico perde del tutto la sua importanza. Il primo gruppo contiene essenzialmente, come è stato affermato del resto per tutto il sistema22, i noti principî della morale classica in veste cristiana. Forza d’animo, tenacia, misura e dominio di sé costituivano già i concetti fondamentali dell’etica aristotelica, e piú tardi, in forma piú rigida, di quella stoica; la cavalleria li ha semplicemente ricevuti dall’antichità attraverso la mediazione della letteratura latina del Medioevo. Le virtú eroiche, specie il disprezzo del pericolo, del dolore e della morte, l’assoluta osservanza della parola data, la sete di gloria e di onore, sono già in gran pregio nella prima età feudale; l’etica cavalleresca non ha fatto che mitigare l’ideale eroico di quell’epoca, infondendogli un colorito sentimentale, ma è rimasta fedele al principio. Il nuovo senso della vita si afferma – nella forma piú pura e immediata – nelle virtú propriamente «cavalleresche» e «gentili»: da un lato la generosità verso i vinti, la protezione del debole e il culto della donna, cortesia e galanteria; dall’altro, le caratteristiche del moderno gentiluomo, liberale e disinteressato, superiore ai vantaggi materiali, sportivamente corretto e gelosissimo del proprio decoro. Sebbene la morale cavalleresca non sia del tutto indipendente dall’emancipata mentalità borghese, tuttavia, nel culto di queste nobili virtú, è in netto contrasto con lo spirito borghese del guadagno. La cavalleria si sente minacciata nella sua esistenza materiale dall’economia monetaria borghese, e si volge con odio e con disprezzo contro il razionalismo economico del mercante, contro il calcolo e la speculazione, contro l’attitudine a risparmiare e a contrattare. Antiborghese è tutto il suo tenore di vita, ispirato dal principio noblesse oblige, la sua prodigalità, il suo gusto per la cerimonia, il suo disprezzo di ogni lavoro manuale e di ogni regolare attività di lucro.

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Molto piú difficile dell’analisi storica del sistema etico cavalleresco è spiegare storicamente le due altre grandi creazioni culturali della cavalleria: il nuovo ideale amoroso e la nuova lirica amorosa. È evidente fin da principio che esse sono in stretto rapporto con la vita di corte. Le corti non sono soltanto il loro sfondo, ma anche il terreno che le alimenta. Ora però sono le corti minori, quelle dei principi e dei feudatari, e non piú quelle dei re, a determinare lo sviluppo generale. La cornice piú modesta spiega anzitutto il carattere relativamente piú libero, individuale e vario, della cultura cavalleresca. Qui tutto è meno solenne, meno ufficiale, tutto incomparabilmente piú agile ed elastico che non nelle corti regali che erano state un tempo i centri della cultura. Anche in queste piccole corti dominano convenzioni abbastanza rigide; aulico e convenzionale furono sempre e sono tuttora equivalenti, perché appartiene all’essenza della civiltà cortese indicare vie battute e porre limiti precisi all’arbitrio individuale, ribelle alle forme. Anche i rappresentanti di questa piú libera civiltà cortese debbono il loro prestigio, non già a doti particolari che li distinguono da altri membri della corte, ma al contegno comune a tutti. Essere originali, in questo mondo dominato dalle forme, equivale ad una scortesia inammissibile23. Appartenere al circolo di corte è in sé il maggior premio e onore; ostentare la propria originalità è come disprezzare quel privilegio. Cosí tutta la civiltà dell’epoca resta legata a convenzioni piú o meno rigide. Come sono stilizzate le buone maniere, l’espressione dei sentimenti, anzi i sentimenti stessi, cosí lo sono anche le forme della poesia e dell’arte, le rappresentazioni della natura e i tropi della lirica, la curva falcata e il gentile sorriso delle figure gotiche. La cultura della cavalleria medievale è la prima manifestazione moderna di una cultura organizzata dalle corti, la prima in cui fra il signore, i cortigiani e i poeti

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ci sia una vera comunione spirituale. Le corti delle Muse non sono soltanto strumenti di propaganda e istituzioni culturali sovvenzionate dai principi, ma rappresentano organismi complessi in cui quelli che inventano le belle forme di vita e quelli che le mettono in pratica mirano allo stesso fine. Ma una simile comunione è possibile solo dove ai poeti che salgono dal basso è aperto l’accesso ai piú alti strati della società, dove tra i poeti e il loro pubblico c’è una grande somiglianza di vita (che sarebbe stata inconcepibile un tempo), e dove cortesia e scortesia non implicano solo una differenza di condizione, ma di educazione: dove quindi non si è necessariamente «gentili» per nascita e grado, ma lo si diventa per istruzione e carattere. È evidente che questo canone dei valori fu stabilito per la prima volta da una nobiltà professionale, che ricordava ancora come fosse venuta in possesso dei suoi privilegi, e non da una nobiltà di sangue, che quei privilegi aveva sempre avuto24. Ma con lo sviluppo della kalokagathía cavalleresca, cioè del nuovo concetto di civiltà, secondo cui i valori estetici e intellettuali sono nello stesso tempo valori morali e sociali, si produce un nuovo iato fra cultura ecclesiastica e laica. La funzione di guida, soprattutto nella letteratura, passa dal clero, unilaterale nella sua concezione del mondo, alla cavalleria. La letteratura monastica perde la sua funzione storica di guida, e il monaco non è piú la figura rappresentativa del tempo; la quintessenza ne è ora il cavaliere, com’è rappresentato a Bamberga, nobile, fiero, vigile, perfetta espressione della cultura fisica e spirituale. La civiltà cortese del Medioevo si distingue da ogni altra – anche da quella delle corti ellenistiche, pur fortemente influenzata dalla donna25 – soprattutto per il suo carattere spiccatamente femminile; e non solo perché le donne prendono parte alla vita intellettuale e contribuiscono a orientare la poesia, ma perché, sotto

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molti rispetti, è femminile anche il pensiero e il sentimento degli uomini. Mentre gli antichi poemi eroici, e le stesse chansons de geste, erano destinate a un uditorio maschile, la poesia amorosa provenzale e i romanzi bretoni del ciclo di Artú si rivolgono anzitutto alle donne26. Eleonora d’Aquitania, Maria di Champagne, Ermengarda di Narbona, o comunque si chiamino le protettrici dei poeti, non sono soltanto gran dame, coi loro «salotti» letterari, esperte e promotrici di poesia, ma sono spesso loro a parlare per bocca dei poeti. E non basta dire che gli uomini debbono alle donne la loro educazione estetica e morale, che esse sono la sorgente, l’argomento e il pubblico della poesia. La donna, nell’evo antico semplice proprietà dell’uomo, preda di guerra, oggetto di contesa e schiava, nell’alto Medioevo ancora soggetta all’arbitrio della famiglia e del signore, ora acquista una dignità che non è cosí facile comprendere. Perché, anche se la superiore cultura delle donne potesse spiegarsi col fatto che gli uomini sono continuamente impegnati nel servizio militare, e con la progressiva secolarizzazione della cultura, rimarrebbe pur sempre da chiarire come mai la cultura goda di tanto rispetto da consentire alle donne di dominare – attraverso di essa – la società. Non fornisce una spiegazione soddisfacente neppure il nuovo diritto, che prevede, per certi casi, la successione al trono in linea femminile e il trapasso dei grandi feudi nelle mani di donne, e che, in linea di massima, può aver contribuito al maggior prestigio del loro sesso27. E tanto meno può servire da spiegazione la concezione cavalleresca dell’amore, che non è la premessa, ma un sintomo della nuova posizione della donna nella società. La poesia cortese e cavalleresca non ha scoperto l’amore, ma gli ha dato un nuovo significato. Nella letteratura antica, specie dopo la fine del periodo classico, il motivo erotico conquista sempre maggiore spazio, ma

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non acquista mai l’importanza che gli viene attribuita nella poesia cavalleresca del Medioevo28. Nell’Iliade l’azione s’impernia bensí su due donne, ma non sull’amore. Elena e Briseide potrebbero essere sostituite da qualsiasi altro oggetto di lite, e non muterebbe per questo la sostanza dell’opera. Nell’Odissea l’episodio di Nausicaa ha un particolare valore affettivo, ma è appunto un episodio isolato, e nulla piú. Il rapporto dell’eroe con Penelope è ancora sul piano dell’Iliade: la donna è un oggetto di proprietà e fa parte della casa. Presso i lirici greci dell’età preclassica e classica si tratta ancora e sempre dell’amore sensuale; fonte di gioia o di dolore, e pur sempre confinato nella sua propria sfera e resta senza influenza sul complesso della personalità. Euripide è il primo poeta che fa dell’amore il motivo capitale di un’azione complicata e di un conflitto drammatico. Da lui la commedia antica e la commedia nuova ricevono il fecondo motivo, che entra cosí nella letteratura ellenistica, dove acquista tratti romantici e sentimentali, specialmente nelle Argonautiche di Apollonio. Ma anche qui l’amore appare tutt’al piú come sentimento soave o traboccante passione, e non mai come un superiore principio educativo, una potenza etica e un tramite all’esperienza del mondo, come nella poesia cavalleresca. È noto quanto debbano Enea e Didone agli amanti di Apollonio, e che cosa abbiano significato per il Medioevo, e quindi per tutta la letteratura moderna, le piú famose fra le antiche eroine dell’amore, Didone e Medea. L’ellenismo ha scoperto il fascino delle storie amorose, e ha creato i primi idilli romantici, le storie di Amore e Psiche, Ero e Leandro, Dafni e Cloe. Ma, a prescindere dall’epoca ellenistica, l’amore come motivo romantico non trova posto nella letteratura fino alla cavalleria; la trattazione sentimentale dell’amore e la tensione prodotta dall’incertezza sulla sorte finale degli amanti, non sono tra gli effetti poetici ricercati dall’an-

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tichità classica o dall’alto Medioevo. L’antichità prediligeva miti e storie di eroi, l’alto Medioevo storie di eroi e di santi; qualunque parte vi avesse l’amore, era privo di ogni alone romantico. Perché anche i poeti che lo prendevano sul serio condividevano, nel migliore dei casi, l’opinione di Ovidio, per cui l’amore è una malattia che toglie la ragione, paralizza la volontà e rende miseri e vili29. Ciò che contraddistingue la poesia cavalleresca nei confronti dell’antichità e dell’alto Medioevo, è soprattutto il fatto che l’amore, per quanto spiritualizzato, non vi si eleva a principio filosofico, come in Platone o nei neoplatonici, ma conserva il suo carattere sensuale ed erotico; e proprio in quanto tale opera la rinascita della personalità morale. Nuovo, nella poesia cavalleresca, è il culto consapevole dell’amore, il senso che l’amore va protetto e alimentato; nuova è la credenza che l’amore sia la fonte di ogni bontà e bellezza e che ogni atto turpe, ogni bassa inclinazione sia un tradimento verso l’amata. Nuovo è l’intimo e dolce affetto, la pia devozione, che l’amante prova in ogni pensiero per la sua donna; nuova l’infinita, inappagata e inappagabile, perché illimitata, sete d’amore. Nuova è la felicità dell’amore, che è indipendente dalla soddisfazione del desiderio e resta suprema beatitudine anche nel piú duro insuccesso. Nuovo infine è l’intenerimento e la femminilizzazione dell’uomo innamorato. Già il fatto che l’uomo faccia la parte del corteggiatore capovolge il primitivo rapporto fra i sessi. Le età arcaiche ed eroiche, in cui bottini di schiave e ratti di fanciulle sono all’ordine del giorno, ignorano il corteggiamento. Che, del resto, contrasta anche con l’uso del popolo. Qui è la donna, e non l’uomo, che canta canzoni d’amore30. Ancora nelle chansons de geste sono le donne a fare gli approcci; solo alla cavalleria questo comportamento appare scortese e sconveniente. Cortese è appunto la ritrosia femminile e

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lo spasimare dell’uomo. Cortese e cavalleresca è l’infinita pazienza e la perfetta abnegazione dell’uomo, che sopprime la propria volontà e il proprio essere davanti alla volontà e all’essere superiore della donna. Cortese è la rassegnazione di fronte all’inaccessibilità dell’oggetto adorato, l’abbandono alle pene d’amore, l’esibizionismo e il masochismo sentimentale dell’uomo: tutte caratteristiche del moderno romanticismo amoroso, che appaiono qui per la prima volta. L’amante nostalgico e rassegnato, l’amore che non esige accoglimento e adempimento, anzi si esalta per il suo carattere negativo, l’«amore di ciò che è lontano», senza un oggetto tangibile e definito: cosí comincia la storia della poesia moderna. Come si può spiegare la nascita di questo singolare ideale amoroso, apparentemente inconciliabile con lo spirito eroico del tempo? Come può un signore, un guerriero, un eroe reprimere tutto il suo orgoglio, tutto il suo impeto, e davanti a una donna mendicare l’amore, anzi la grazia di poterlo confessare, accettando, in compenso della sua dedizione e fedeltà, uno sguardo benevolo, una parola gentile, un sorriso? La situazione è tanto piú strana, perché proprio in questo rigoroso Medioevo l’amante confessa apertamente la sua inclinazione, tutt’altro che casta, per una donna maritata, e che, per giunta, è generalmente la moglie del suo signore e ospite. Ma l’inversione dei rapporti raggiunge il colmo quando il menestrello squattrinato e vagabondo si dichiara, franco e libero come un nobile, alla moglie del suo signore e protettore, e da lei spera e chiede quanto chiederebbero principi e cavalieri. Nel tentativo di risolvere questo problema, viene naturale supporre che nelle promesse di fedeltà e nell’omaggio erotico si esprimano soltanto i concetti giuridici generali del feudalesimo, e che la concezione cortese e cavalleresca dell’amore non sia che la trasposizione

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del rapporto politico di vassallaggio nel rapporto con la donna. Quest’idea della servitú d’amore come imitazione del vassallaggio si trova già accennata nei primi studi critici sulla poesia trovadorica31; ma la piú decisa versione, secondo cui l’amore cortese e cavalleresco deriva solo dal servigio, e il vassallaggio amoroso non è che una metafora, è di piú fresca data, ed è stata formulata per la prima volta da Eduard Wechssler32. In opposizione alla piú antica teoria idealistica sull’origine del vassallaggio – per cui il rapporto sociale derivava da quello etico e il vincolo feudale dipendeva non solo dall’inclinazione personale del signore verso il vassallo, ma anche dalla fiducia e dall’amore del vassallo per il suo signore33 – la tesi del Wechssler parte dal presupposto che l’«amore» del vassallo per il signore come per la dama non sia altro che la sublimazione della sua sudditanza. Secondo lui, la canzone d’amore esprime solo l’omaggio dell’uomo del seguito e non è che una forma di panegirico34. In effetti la poesia cavalleresca prende a prestito dal costume feudale non solo forme, immagini e paragoni, e il trovatore non si dichiara soltanto devoto servo e fedele vassallo della donna amata, ma spinge la metafora al punto di affermare davanti a lei anche i propri diritti di vassallo, e di pretendere a sua volta fedeltà, favore, protezione e aiuto. È chiaro che queste pretese non sono che formule convenzionali di corte. Il principale argomento per spiegare come fosse passata la canzone di omaggio dal signore alla dama, era quello che principi e baroni, implicati nelle guerre, erano – spesso e a lungo – assenti dalle corti e dai castelli e, durante la loro assenza, il potere feudale veniva esercitato dalle donne. Nulla di piú naturale che i poeti al servizio della corte cantassero le lodi della dama, in forme sempre piú galanti, atte a lusingare la sua vanità femminile. Non dobbiamo respingere interamente la tesi del Wechssler, che tutto il servigio della dama, cioè il culto

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dell’amore cortese e le forme galanti della lirica d’amore cavalleresca siano state in realtà promosse dalle donne e che gli uomini non fungessero che da strumenti. L’argomento piú grave che è stato opposto a quelli di Wechssler, è che proprio il piú antico trovatore, il primo a presentare la sua dichiarazione d’amore come un omaggio feudale, Guglielmo IX conte di Poitiers, non era un vassallo, ma un gran principe. L’obiezione non persuade del tutto, perché la dichiarazione di omaggio, che nel caso del conte di Poitiers può non essere stata che un’idea poetica, poté, o piuttosto dovette, per la maggior parte dei trovatori successivi, poggiare su rapporti reali. Senza questo fondamento reale, la trovata poetica (che del resto, anche nel suo inventore, era condizionata, se non da circostanze personali, dalle condizioni generali del tempo) non avrebbe mai potuto diffondersi tanto e conservarsi cosí a lungo. Si riferisse a rapporti reali o fittizi, fin dall’inizio il linguaggio della lirica cavalleresca si presenta come una rigida convenzione letteraria. La lirica trovadorica è «poesia di società», dove anche le esperienze vere debbono rivestire le rigide forme della moda imperante. Tutte le poesie cantano la donna amata nello stesso modo, le attribuiscono gli stessi caratteri, vedono in lei l’incarnazione di uno stesso tipo di virtú e di bellezza; nella composizione ricorrono sempre le stesse formule retoriche, come se il poeta fosse uno solo35. La moda letteraria è cosí tirannica, cosí assoluta la convenzione di corte, che spesso abbiamo l’impressione che agli occhi del poeta non appaia una donna determinata, individualmente caratterizzabile, ma un’astratta immagine ideale, e che il sentimento s’ispiri a un modello letterario piuttosto che a una creatura viva. E soprattutto questa impressione indusse il Wechssler a interpretare come una finzione tutto l’amore cortese e a riconoscere solo in casi eccezionali nei sentimenti descritti nelle poesie

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d’amore un’esperienza vissuta. Secondo lui di positivo non c’è che l’elogio della dama; per lo piú l’amore del poeta è solo finzione convenzionale, lode stereotipa. Le dame volevano essere cantate e lodate anche per la loro bellezza. Nessuno badava alla sincerità dell’amore ch’essa ispirava. Il tono sentimentale del corteggiamento era «consapevole illusione», concertato gioco di società, pura convenzione. La descrizione di sentimenti forti e schietti, pensa Wechssler, non sarebbe stata certo gradita alla signora e alla società di corte; avrebbe offeso la decenza e la misura36. Era senz’altro escluso che la signora ricambiasse l’amore del poeta, perché, a parte la differenza sociale fra la dama e il cantore, anche solo l’apparenza dell’adulterio sarebbe stata duramente punita dal consorte37. Il poeta per lo piú dichiarava il suo amore solo per deplorare la crudeltà della dama; ma il rimprovero equivaleva in realtà a un elogio, e doveva testimoniare della condotta esemplare della signora38. Per provare l’infondatezza di questa teoria ci si è richiamati all’alto valore artistico della lirica d’amore, e si è parlato, alla maniera delle vecchie scuole, della sincerità di ogni vera arte. Ma la qualità estetica, e anche il valore sentimentale di un’opera d’arte trascendono i criteri di schiettezza e artificio, spontaneità e ricercatezza, esperienza viva e cultura; perché in nessun caso si può stabilire che cosa abbia veramente sentito l’artista, e se l’impressione del lettore corrisponda a un reale sentimento dell’autore. Si obbietta che quelle liriche, se non fossero state che adulazioni pagate, come afferma Wechssler, non avrebbero potuto interessare un vasto pubblico39. Ma si sottovaluta cosí il potere della moda in una società di corte dominata dalle convenzioni, società che del resto, pur essendo presente in tutti i paesi civili dell’Occidente, non costituiva in nessun luogo un «vasto» pubblico. Né il pregio artistico, né il successo della poesia cortese sono di per sé argomenti contro il

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suo carattere fittizio; e nondimeno non si può accettar senza riserve la teoria del Wechssler. Certo l’amore cavalleresco non è che una varietà del rapporto di vassallaggio, e perciò «insincero», ma non è una finzione cosciente, una mascheratura voluta. Il nucleo erotico è schietto, benché travestito. Troppo a lungo durarono gli ideali e la poesia trovadorica, per essere pura finzione. Si è osservato che nella storia della letteratura non mancano esempi di vicende sentimentali persuasive, e nondimeno fittizie40; ma qui il fenomeno durerebbe per generazioni. Benché il vassallaggio domini tutta la struttura sociale dell’epoca, se i ministeriales non si fossero elevati al grado di cavalieri, se i poeti non avessero assunto nuova dignità presso le corti, non si potrebbe spiegare perché improvvisamente questo tema sia venuto ad assorbire in sé tutto il contenuto sentimentale della poesia. La situazione economica e sociale della cavalleria – in corso di costituzione e in parte priva di mezzi – e la funzione di questo ceto eterogeneo come fermento dello sviluppo, ci aiutano a comprendere la nuova concezione dell’amore come ci aiuta a comprenderla la generale struttura giuridica del feudalesimo. C’erano molti figli di cavalieri, cadetti per cui non bastava piú il feudo paterno, che andavano squattrinati per il mondo a guadagnarsi la vita, magari come cantori erranti, assumendo, dov’era possibile, un servizio stabile alla corte di un gran signore41. Spesso il troubadour, il Minnesänger era di umile origine; ma poiché un giullare dotato, protetto da un gran signore, poteva facilmente elevarsi fino al grado di cavaliere, la diversità dell’origine non aveva gran peso. Questi elementi, impoveriti e sradicati, o venuti dal basso, erano per forza di cose i rappresentanti piú avanzati della civiltà cavalleresca. Poveri e spostati, si sentivano liberi dagli obblighi dell’antica nobiltà feudale e, senza timore di abbassarsi, potevano

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osare innovazioni contro le quali, in un ceto piú saldamente radicato, sarebbero sorti innumerevoli dubbi. Il nuovo culto dell’amore e l’esercizio della nuova poesia sentimentale di corte fu opera, per lo piú, di questi elementi sociali relativamente fluttuanti42. Furono essi a formulare la dichiarazione di omaggio verso la dama nelle forme della lirica amorosa, in un linguaggio di corte, ma non del tutto fittizio, e ad affiancare il servigio della donna al servigio del signore; furono essi a interpretare l’omaggio come amore e l’amore come omaggio. In questa trasposizione della situazione economica e sociale nelle forme erotiche dell’amore operarono senza dubbio anche motivi psicologico-sessuali, ma anch’essi sociologicamente condizionati. Dappertutto, alle corti e nei castelli, ci sono molti uomini e pochissime donne. Quelli del seguito, che vivono alla corte del signore, per lo piú sono celibi. Le fanciulle delle famiglie nobili vengono educate nei conventi e non si riesce mai a vederle. La principessa, o la castellana, è il centro; tutto si raccoglie intorno a lei. Cavalieri e poeti di corte, tutti rendono omaggio alla dama nobile e colta, ricca e potente, spesso anche giovane e graziosa. I quotidiani rapporti fra una schiera di giovani celibi e una donna cosí desiderabile, in un mondo cosí chiuso e isolato, l’involontaria presenza alle tenerezze coniugali, il pensiero sempre presente che la donna appartiene a uno e a uno solo, non può non suscitare una tensione erotica, che per lo piú, non potendo trovare altro sbocco, si sublima nell’espressione dell’amore cortese. La storia comincia cosí: molti dei giovani che circondano la signora sono venuti a corte, sono entrati in casa ancora fanciulli, e hanno subito l’influsso di quella donna negli anni piú importanti per lo sviluppo di un ragazzo43. Tutto il sistema dell’educazione cavalleresca favorisce il sorgere di forti vincoli erotici. Fino a quattordici anni il ragazzo è guidato esclusiva-

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mente dalle donne. Dopo gli anni dell’infanzia, trascorsi sotto la tutela della madre, è la signora della corte a sorvegliare la sua educazione. Per sette anni egli è al suo seguito, la serve in casa, l’accompagna per la strada, è introdotto da lei all’arte della vita di corte e alla conoscenza degli usi cortesi. Tutto l’entusiasmo dell’adolescente si concentra su quella donna, e la fantasia foggia a sua immagine l’oggetto ideale dell’amore. Lo scoperto idealismo dell’amore cortese e cavalleresco non può ingannarci sul suo latente carattere sensuale, né celarne l’origine, la ribellione al comandamento religioso della continenza. Il successo della Chiesa nella lotta contro l’amore fisico rimase sempre assai inferiore all’ideale44; ma ora che vacillano i confini fra categorie sociali e con essi i criteri dei valori morali, la sensualità repressa irrompe con raddoppiata violenza e invade i costumi, non solo delle corti, ma, in parte, anche del clero. In tutta la storia dell’Occidente non c’è letteratura in cui si parli tanto di bellezza fisica e di nudità, di vestirsi e spogliarsi, di fanciulle e donne che bagnano e lavano l’eroe, di notti nuziali e di amplessi, di visite in camera e inviti a letto, come nella poesia cavalleresca del costumatissimo Medioevo. Persino un’opera cosí seria e di cosí alti fini morali come il Parzival di Wolfram è piena di episodi che toccano l’oscenità. Tutta l’epoca vive in una costante tensione erotica; basta pensare allo strano costume, ben noto, dei tornei, per cui gli eroi portavano sulla pelle il velo o la camicia della donna amata, e all’effetto magico attribuito a questo talismano, per farsi un’idea della natura di quell’erotismo. Nulla riflette cosí chiaramente gli intimi contrasti del mondo sentimentale della cavalleria, quanto l’ambivalenza del suo atteggiamento verso l’amore, dove la piú alta spiritualità si congiunge alla sensualità piú intensa. Ma per quanto illuminante possa essere l’analisi psicologica di questa duplicità dei sentimenti, il dato

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psicologico presuppone circostanze storiche che vanno spiegate a loro volta, e che possono essere spiegate solo sociologicamente. Il meccanismo psichico dell’impegno assunto verso la donna altrui, e l’esaltazione di questo sentimento attraverso la libertà della confessione, non avrebbe mai potuto scattare, qualora non si fosse attenuata l’efficacia degli antichi tabú religiosi e sociali e se l’ascesa di una nuova, emancipata aristocrazia non avesse creato il terreno ideale per la diffusione delle inclinazioni erotiche. Come spesso accade, anche in questo caso la psicologia non è che sociologia dissimulata, non condotta fino in fondo. Ma la maggior parte degli studiosi, di fronte al mutamento di stile che l’avvento della cavalleria porta con sé in tutti i campi dell’arte e della cultura, non si accontentano né della spiegazione psicologica né di quella sociologica, e vanno in cerca di influssi storici diretti e di dirette imitazioni letterarie. Alcuni, Konrad Burdach in testa, riconducono la novità dell’amore cavalleresco e della poesia trovadorica a un’origine araba45. E in effetti c’è tutta una serie di motivi comuni alla lirica provenzale e alla poesia aulica islamica, soprattutto l’entusiastica esaltazione dell’amore sessuale e l’orgoglio della pena amorosa; ma nulla veramente prova che i tratti comuni – che del resto sono ben lungi dall’esaurire l’idea dell’amore cortese – derivino alla poesia trovadorica dalla letteratura araba46. Uno dei principali motivi che ci fanno dubitare di questo influsso immediato, è il fatto che i canti dei poeti arabi si riferiscono per lo piú a una schiava, e manca del tutto l’identificazione della signora con l’amata, essenziale nella concezione cavalleresca47. Altrettanto insostenibile è la teoria classicista. Perché, per quanto le canzoni provenzali siano ricche di singoli motivi, immagini e concetti che risalgono alla letteratura classica – soprattutto a Ovidio e a Tibullo – lo spirito di questi poeti pagani è loro del tutto estraneo48. La poesia d’a-

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more cavalleresca, pur cosí sensuale, è affatto medievale e cristiana, e ben lontana dal realismo degli elegiaci romani. Là si tratta sempre di una reale esperienza amorosa; sappiamo invece che per i trovatori non si trattava, in parte, che di una metafora, di un pretesto poetico, di una generica tensione affettiva senza un vero oggetto. Ma, per quanto convenzionale sia il motivo di cui si serve il poeta per tentare le corde del suo cuore, il suo rapimento, che leva la donna al cielo, l’attenzione ch’egli dedica ai moti dell’animo, la passione con cui scruta i propri sentimenti e analizza l’esperienza interiore sono sinceri e affatto nuovi rispetto alla tradizione classica. La meno persuasiva di tutte le teorie sull’origine letteraria della lirica trovadorica è quella che la fa derivare dal canto popolare49. La forma originaria della canzone cortese sarebbe una ballata popolare, una maggiolata, la cosiddetta chanson de la mal mariée, col solito motivo della giovane sposa che una volta l’anno, in maggio, si libera dalle catene coniugali e si prende per un solo giorno un giovane amante. Nulla, tranne il rapporto di questo tema con la primavera, «il preludio naturale»50 e il carattere adulterino dell’amore descritto51, corrisponde qui ai motivi trovadorici; e anche questi tratti, secondo ogni apparenza, provengono dalla letteratura di corte, e solo di là sembrano essere passati nella poesia popolare. Non c’è traccia infatti di canto popolare con «preludio naturale»52 anteriore alla poesia cortese. I sostenitori di questa teoria, specialmente Gaston Paris e Alfred Jeanroy, procedono con lo stesso metodo con cui i romantici credevano di poter provare la spontaneità dell’«epos popolare». Dai documenti letterari conservati – tutt’altro che popolari e relativamente tardi – cominciano a indurre un antico, «originario» stadio di poesia popolare, e da questo stadio, arbitrariamente costruito, non documentato e probabilmente mai esisti-

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to, fanno poi derivare le poesie da cui sono partiti53. Ciò nonostante si può benissimo pensare che nella poesia cortese e cavalleresca siano penetrati motivi popolari, briciole di saggezza popolare, proverbi e locuzioni, come del resto questa poesia assorbe molto del «pulviscolo poetico» diffuso nella lingua e proveniente dalla letteratura antica54, ma l’assunto che la canzone cortese si sia sviluppata dal canto popolare non è dimostrato e sarà difficilmente dimostrabile. Può darsi che in Francia, anche prima della poesia cortese, ci fosse una lirica amorosa popolare, ma – in ogni caso – essa è completamente scomparsa; e nulla ci autorizza a riconoscere nelle forme raffinate e scolasticamente complicate della poesia cortese che si esauriscono spesso in un abilissimo gioco di idee e sentimenti, i vestigi di quella perduta, certo ingenua poesia popolare55. Pare che sulla lirica d’amore cortese abbia influito soprattutto la poesia latina dei chierici. Ma il concetto cavalleresco dell’amore nel suo complesso non fu certo delineato dai chierici, benché i poeti laici abbiano ripreso da essi alcuni dei suoi principali elementi. Una tradizione pre-cavalleresca, ecclesiastica, del servigio d’amore, quale si credeva di poter supporre56, non c’è stata. Le epistole fra chierici e monache ci mostrano, fin dal secolo xi, rapporti singolarmente appassionati, oscillanti fra l’amicizia e l’amore; e vi si può riconoscere quella mescolanza di tratti spiritualistici e sensuali che ci è già nota dall’amore cavalleresco; ma anche questi documenti non sono che un sintomo di quella generale rivoluzione degli spiriti che s’inizia con la crisi del feudalesimo e si compie nella cultura cavalleresca. Perciò poesia cortese e letteratura clericale si dovrebbero considerare fenomeni paralleli, anziché parlare di influssi e imitazioni57. Per quanto riguarda il lato tecnico della loro arte, certo i poeti cavallereschi hanno appreso molto dai chierici, e indubbiamente, nei loro primi tentativi poe-

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tici, ebbero nelle orecchie le forme e i ritmi dei canti liturgici. Ci sono punti di contatto anche fra la poesia d’amore cavalleresca e l’autobiografia ecclesiastica del tempo, che, rispetto agli schizzi autobiografici piú antichi, presenta un carattere del tutto nuovo, e direi quasi moderno, ma anche questi punti di contatto, soprattutto l’accresciuta sensibilità e l’analisi piú precisa degli stati d’animo, dipendono dal generale rivolgimento della società e dalla nuova valutazione dell’individuo58 e, nella letteratura sacra e in quella profana, risalgono a una comune radice storica e sociale. Il lato spirituale dell’amore cortese è senza dubbio di origine cristiana; ma troubadours e Minnesänger non debbono averlo desunto soltanto dalla poesia dei chierici: tutta la vita affettiva della cristianità era dominata da tale spiritualismo. Il culto della donna poteva essere facilmente concepito secondo il modello del culto dei Santi59; ma la derivazione del servigio d’Amore dal servigio di Maria, caratteristica trovata romantica60, manca di ogni fondamento storico. La venerazione di Maria è ancora poco sviluppata nell’alto Medioevo; e in ogni caso, gli inizi della poesia trovadorica sono piú antichi del culto mariano. Anziché ispirare il nuovo ideale amoroso, è il culto della Vergine ad assumere i tratti dell’amore cortese e cavalleresco. Da ultimo, neppure la dipendenza della concezione cavalleresca dell’amore dai mistici, come Bernardo di Clairvaux e Ugo di San Vittore, è cosí sicura come si volle credere61. Ma, comunque influenzata e determinata, la poesia trovadorica è poesia laica, radicalmente opposta allo spirito ascetico e gerarchico della Chiesa, e con essa il poeta profano prende definitivamente il posto del chierico poetante. Finisce cosí un periodo di circa tre secoli, in cui i monasteri erano stati pressoché le sole sedi della poesia. Anche durante l’egemonia intellettuale dei monaci la nobiltà aveva continuato a essere una parte del

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pubblico letterario; ma di fronte a questa funzione puramente passiva del laicato, la comparsa del cavaliere poeta è un fenomeno cosí nuovo che si potrebbe considerare come una delle cesure piú profonde della storia letteraria. Certo non dobbiamo semplificare e generalizzare il processo di ricambio sociale che mette il cavaliere alla testa dell’evoluzione civile. Accanto al trovatore c’è pur sempre il giullare professionale, e tale si riduce qualche volta anche il cavaliere, quando deve campare con la propria arte, pur rappresentando nei confronti del giullare un ceto a sé. Accanto al trovatore e al menestrello c’è ancora, naturalmente, il chierico poeta, benché abbia perduto la sua funzione storica di guida. E, infine, ci sono i vagantes, straordinariamente importanti per l’evolversi della storia e dell’arte, che conducono una vita molto simile a quella dei giullari vagabondi, e vengono spesso scambiati con quelli, ma che, nella coscienza della propria cultura, cercano ansiosamente di distinguersi dai piú umili concorrenti. I poeti dell’epoca si distribuiscono pressoché fra tutti i ceti sociali; ci sono fra loro re e principi (Enrico VI, Guglielmo d’Aquitania), membri dell’alta aristocrazia (Jaufré Rudel, Bertran de Born), della piccola nobiltà (Walther von der Vogelweide) e ministeriales (Wolfram von Eschenbach), borghesi (Marcabru, Bernart de Ventadour) e chierici di ogni categoria. Fra i quattrocento nomi conosciuti ci sono anche diciassette donne. Con le antiche storie di eroi, che, dopo la formazione della cavalleria, dalle fiere, dai sagrati e dalle locande risalgono fino ai ceti superiori e svegliano l’interesse di tutte le corti, tornano a essere apprezzati anche i giullari del popolo. Essi restano ancora molto al di sotto del poeta cavaliere o chierico, che non vuole esser confuso con loro, come i poeti e gli attori del teatro di Dioniso ad Atene non volevano essere confusi coi mimi, o gli skop barbarici coi buffoni. Ma una volta i poeti di diver-

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sa origine sociale trattavano anche argomenti diversi, e questo bastava a differenziarli. Ora invece, poiché il trovatore tratta la stessa materia del giullare, deve cercare di elevarsi sui cantori comuni per il modo di elaborarla. Il trobar clus, che viene ora di moda, l’oscurità enigmatica e voluta, l’accumulazione delle difficoltà nella tecnica e nel contenuto, non è che un mezzo per escludere i ceti inferiori, incolti, dal godimento artistico dell’alta società distinguendosi nello stesso tempo dalla marmaglia dei buffoni e degli istrioni. Una volontà or piú or meno manifesta di distinzione sociale basta quasi sempre a spiegare il gusto dell’arte difficile e complicata; il fascino estetico del significato occulto, delle associazioni sforzate, del modo slegato e rapsodico, dei simboli non immediatamente evidenti e che non si lasciano mai esaurire completamente, della musica difficile da ricordare, delle «melodie di cui non si sa fin dall’inizio come finiranno», insomma tutto il fascino dei piaceri e dei paradisi segreti. Possiamo valutare tutta l’importanza di questa tendenza aristocratica nei trovatori e nella loro scuola, se pensiamo che Dante apprezzava su tutti gli altri poeti provenzali Arnaut Daniel, il piú oscuro e complicato di tutti62. L’umile giullare, pur restando in sottordine, gode di eccezionali privilegi come collega del poeta cavalleresco; altrimenti non gli sarebbe mai stato concesso di parlare apertamente di sé, dei suoi sentimenti personali, cioè, per dirla in altre parole, di passare dall’epica alla lirica. Soltanto la nuova posizione sociale del poeta ha reso possibile il soggettivismo poetico, la confessione lirica e tutta l’ostentata analisi dei sentimenti. E solo in quanto partecipava del prestigio sociale del cavaliere, il poeta poté far nuovamente valere i suoi diritti d’autore e di proprietà. Se il mestiere non fosse stato esercitato anche da individui di elevata condizione, non avrebbe potuto affermarsi cosí presto l’uso di nominarsi nelle proprie

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opere. Marcabru fa il proprio nome in venti delle quarantatre poesie superstiti, Arnaut Daniel quasi in tutte63. I giullari, che s’incontrano di nuovo in ogni corte e che d’ora in poi, anche nelle corti piú modeste fanno parte del seguito, erano esperti dicitori, cantavano e recitavano. Le poesie che declamavano erano opera loro? Probabilmente, come i mimi loro antenati, cominciarono con l’improvvisare, e fino alla metà del secolo xii furono senza dubbio poeti e cantori a un tempo. Ma poi dovette subentrare la specializzazione, e pare che almeno una parte dei giullari si limitasse a recitare le opere altrui. Principi e nobili fecero il loro tirocinio poetico presso i giullari, che certo li aiutarono, in qualità di esperti, a risolvere le difficoltà tecniche. Fin da principio i cantori plebei erano al servizio degli illustri dilettanti, e piú tardi probabilmente anche i cavalieri decaduti servirono nello stesso modo i gran signori. Talvolta i poeti di professione cui arrideva il successo esigevano i servigi di giullari piú poveri. I ricchi dilettanti e i trovatori piú illustri non recitavano personalmente le loro composizioni, ma le facevano recitare da giullari pagati64. Sorge cosí fra gli artisti una speciale divisione del lavoro che, almeno da principio, sottolinea fortemente la distanza sociale fra il trovatore aristocratico e il comune giullare. Ma questa distanza diminuisce poi a poco a poco, e, come risultato di questo livellamento, cominciamo a trovare, specialmente nella Francia del Nord, un tipo di poeta già molto simile allo scrittore moderno; non compone piú versi da declamare, ma scrive libri da leggere. Ai suoi tempi si cantano ancora gli antichi poemi eroici, si recitano le chansons de geste, e – con ogni probabilità – si legge ancora in pubblico l’antica epopea aulica; ma i romanzi d’amore e d’avventure vengono scritti per la lettura privata, soprattutto per quella delle dame. Si è definito questo prevalere delle donne nella composizione del

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pubblico come il mutamento piú significativo nella storia della letteratura occidentale65. Ma altrettanto importante per il futuro è la nuova forma di recezione: la lettura. Perché solo dove la poesia diventa lettura, essa può diventare passione, bisogno quotidiano, abitudine. Soltanto ora la poesia diventa «letteratura», e il suo godimento non è piú legato alle ore solenni della vita, a festività e circostanze particolari, ma può diventare un passatempo consueto. Cosí la poesia perde anche l’ultimo resto del suo carattere sacrale e diventa pura «finzione», invenzione a cui non è piú necessario credere per trovare in essa un interesse estetico. Ecco perché Chrétien de Troyes è caratterizzato come il poeta che non soltanto non crede piú ai misteri delle saghe celtiche, ma non afferra piú neppure il loro vero significato. La consuetudine della lettura trasforma il devoto ascoltatore in lettore scettico, ma anche in esperto conoscitore; per cui dalla cerchia degli uditori e dei lettori nasce quel che si può chiamare un pubblico letterario. E la fame di letture di questo pubblico suscita, fra l’altro, il noto fenomeno della letteratura di moda, di quella letteratura effimera che ha il suo primo esempio nel romanzo d’amore cortese. La lettura determina – rispetto alla recitazione e alla declamazione – una tecnica narrativa affatto nuova; esige e permette l’uso di effetti sinora del tutto ignoti. L’opera destinata al canto o alla declamazione impiega per lo piú, come mezzo compositivo, la semplice giustapposizione; e si compone di singoli canti, episodi, strofe, piú o meno in sé conclusi. La recitazione può essere interrotta pressoché in qualsiasi punto, e l’effetto complessivo non viene essenzialmente intaccato quando si tralasciano singole parti. L’unità di un’opera siffatta non è garantita dalla composizione, ma dalla coerenza della visione del mondo e del senso della vita che pervade tutte le parti. Cosí è costruita anche la Chan-

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son de Roland66. Invece Chrétien de Troyes ottiene speciali effetti di tensione con ritardi, digressioni e sorprese, che non risultano dalle singole parti, bensí dai rapporti tra le varie parti, dalla loro successione e contrapposizione. Ma il poeta del romanzo d’amore e d’avventure non segue questo metodo solo perché, come è stato affermato67, ha a che fare con un pubblico piú difficile di quello della Chanson de Roland, ma anche perché scrive per lettori e non per ascoltatori, e quindi può e deve prefiggersi effetti che sarebbero stati impensabili con una recitazione sempre necessariamente breve e spesso arbitrariamente interrotta. Qui ha inizio la letteratura moderna; non soltanto perché sono queste le prime storie romantiche dell’Occidente, le prime opere narrative in cui l’amore soverchia tutto il resto, il lirismo sommerge ogni cosa e la sensibilità del poeta è il vero criterio della qualità artistica, ma anche perché, per parafrasare un noto concetto della drammaturgia, esse sono i primi récits bien faits. L’evoluzione, che nell’epoca della poesia cortese procede dal trovatore cavalleresco e dal giullare popolano come da due tipi sociali completamente diversi, dapprima tende a riavvicinarli, ma poi, verso la fine del Duecento, torna a separarli, e il risultato è che troviamo, sia il menestrello a impiego fisso, il poeta di corte in senso stretto, sia il giullare nuovamente decaduto e senza padrone. Da quando le corti cominciano a tenere poeti e cantori stabili, con incarico ufficiale, i giullari ambulanti perdono la clientela dell’alta società e tornano a rivolgersi, come prima dell’epoca cavalleresca, al pubblico degli umili68. I poeti di corte con impiego fisso tendono invece a diventare, in consapevole contrasto coi giullari ambulanti, veri e propri letterati, con tutta la vanità e l’alterigia dei futuri umanisti. Il favore e la liberalità dei grandi signori non bastano piú a soddisfarli; essi pretendono, nei confronti dei loro protettori, al

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ruolo di maestri69. I principi del resto non li mantengono piú soltanto per divertire gli ospiti, ma per avere in loro compagni, confidenti e consiglieri. Sono anch’essi ministeriales, come rivela il nome di menestrels, ma assai piú stimati; sono l’autorità suprema in tutte le questioni del buon gusto, degli usi di corte e dell’onore cavalleresco70. Sono i veri precursori dei poeti e degli umanisti del Rinascimento, o lo sono almeno nella stessa misura dei loro antagonisti, i vagantes, a cui il Burckhardt attribuisce questa funzione71. Il vagans è un chierico o scolaro che va in giro come cantore ambulante, un frate fuggiasco o uno studente fallito; e cioè uno spostato, un bohémien. È un prodotto della stessa trasformazione economica, un sintomo della stessa dinamica sociale che ha generato la borghesia cittadina e la cavalleria di mestiere; ma presenta già alcuni aspetti tipici del moderno intellettuale avulso dalla società: privo di ogni rispetto per la Chiesa e per le classi dominanti, è un ribelle e un libertino, che insorge per principio contro ogni tradizione e costume. In fondo, è una vittima della crisi sociale, un fenomeno di transizione, esempio tipico del passaggio di larghi strati della popolazione da gruppi rigidamente chiusi, che dominano tutta la vita dei loro membri, a gruppi piú aperti, che offrono maggior libertà, ma minor protezione. In seguito alla rinascita delle città e al concentramento della popolazione, e soprattutto alla fioritura delle università, si può osservare un nuovo fenomeno: il proletariato intellettuale72. La sicurezza economica viene a cessare anche per una parte del clero. Prima la Chiesa aveva potuto provvedere a tutti gli alunni delle scuole episcopali e conventuali, ma ora che – con la maggior libertà personale e il generale desiderio di elevarsi – scuole e università si riempiono di giovani poveri, la Chiesa non è piú disposta a occuparsene e a trovar loro una sistemazione. Molti giovani, che spesso non rie-

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scono neppure a terminare gli studi, menano l’esistenza vagabonda dei mendicanti e dei comici. Nulla di piú naturale che siano sempre pronti, col veleno e col fiele dei loro versi, a vendicarsi della società che li trascura. I vagantes scrivono in latino; sono i giullari dei signori ecclesiastici, e non dei laici. Per tutto il resto, non c’è molta differenza fra la vita di uno scolaro vagabondo e quella di un giullare. Anche la differenza di cultura non dev’essere stata cosí forte come generalmente si pensa; insomma, chierici o studenti falliti erano colti solo a metà, come i mimi e i jongleurs73. Ciò nonostante le loro opere, almeno nella tendenza, costituiscono una poesia dotta e di classe, che si rivolge a un pubblico relativamente ristretto e istruito. E benché questi vagabondi siano spesso costretti a intrattenere anche circoli profani e a poetare in volgare, si mantengono rigorosamente distinti dai comuni giullari74. La poesia dei vagantes e la poesia di scuola non si possono sempre esattamente distinguere75. Una parte considerevole della lirica amorosa in latino è – nel Medioevo – opera di studenti, e in parte non è che poesia di scuola, e cioè produzione poetica nata dall’insegnamento. Numerosi fra i piú ardenti canti d’amore sono semplici esercitazioni scolastiche; il loro contenuto di esperienza vissuta non può quindi essere stato molto ricco. Ma la lirica latina del Medioevo non è tutta qui. Conviene ammettere che almeno una parte dei canti conviviali, se non anche delle canzoni d’amore, sia nata nei conventi. Inoltre, componimenti quali Il concilio d’amore di Remiremont o Il contrasto di Fillide e Flora, vanno probabilmente attribuiti all’alto clero. Se ne deduce che nel Medioevo quasi tutti gli strati del clero collaborarono alla poesia latina d’argomento profano. La lirica amorosa dei vagantes si distingue da quella dei trovatori soprattutto perché parla delle donne con piú dispregio che entusiasmo e tratta l’amore fisico con

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un’immediatezza quasi brutale. Ma anche in questo dobbiamo scorgere solo un segno dell’irriverenza con cui i vagantes trattano tutto ciò che la convenzione vuole che si rispetti; e non già, come si è pensato, una specie di vendetta per la continenza, che probabilmente essi non esercitarono mai. Nella poesia goliardica la donna appare nella stessa cruda luce dei fabliaux. Questa analogia non può essere casuale, ma fa piuttosto supporre che i vagantes abbiano contribuito alla genesi di tutta la letteratura misogina e antiromantica. Conferma quest’ipotesi il fatto che nei fabliaux lo scherno non risparmia nessuno, sia monaco o cavaliere, cittadino o villano. All’occasione il poeta vagante intrattiene anche il borghese, anzi a volte scorge in lui un alleato nella sua guerriglia contro i potenti della società, eppure lo disprezza. Sarebbe tuttavia un grave errore ritenere i fabliaux, nonostante il loro tono impertinente, la loro forma incolta e il loro acerbo verismo, una letteratura in tutto e per tutto popolare e supporli rivolti a un pubblico puramente borghese. Gli autori dei fabliaux sono certamente borghesi, come lo spirito che li anima, razionalistico, scettico, antiromantico, pronto a ironizzare su se stesso; ma come il pubblico borghese si diletta ai romanzi cavallereschi oltre che alle allegre storie del proprio ambiente, cosí il pubblico nobiliare presta volentieri orecchio agli audaci racconti dei giullari accanto alle gesta eroiche e romantiche della poesia cortese. I fabliaux non sono una letteratura specificamente borghese nello stesso senso in cui il canto eroico è una letteratura della nobiltà guerriera o i romanzi d’amore sono una letteratura della cavalleria cortese. Sono piuttosto una letteratura autocritica e distaccata, e l’ironia che il borghese vi esercita su se stesso la rende gradita ai ceti superiori. D’altronde il gusto del pubblico nobile per la letteratura amena dei ceti borghesi non significa che la nobiltà la metta sullo stesso piano dei roman-

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zi cavallereschi; essa vi trova diletto, come alle esibizioni dei mimi, degli istrioni e dei conduttori d’orsi. Nel tardo Medioevo la poesia s’imborghesisce sempre piú, e con essa e col pubblico s’imborghesisce il poeta. Oltre il «maestro cantore», borghese per condizione e mentalità, il Medioevo non produce nuovi tipi, limitandosi a variare quelli esistenti; il loro albero genealogico presenta all’incirca questo aspetto:

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Capitolo nono Il dualismo dell’età gotica

In generale, la mobilità intellettuale dell’età gotica si può studiare meglio nell’arte figurativa che nella poesia; non solo perché l’esercizio dell’arte figurativa resta legato, per tutto il Medioevo, a un ceto professionale relativamente unitario e quindi si evolve quasi senza soluzione di continuità, mentre la produzione poetica passa da un ceto all’altro e si sviluppa, per cosí dire, a scosse e a scatti in singole tappe spesso discontinue; ma anche perché lo spirito della borghesia, che è l’elemento propulsore della nuova società turbata nel suo equilibrio, si afferma piú rapidamente e radicalmente nell’arte figurativa che nella poesia. In quest’ultima, solo generi isolati e periferici rispetto alla massa della produzione esprimono immediatamente la gioia di vivere, il realismo, il gusto mondano della borghesia, mentre questo orientamento domina quasi tutte le forme dell’arte figurativa. Qui la grande svolta dello spirito occidentale, il ritorno dal regno di Dio alla natura, dalle cose ultime alle prossime, dai tremendi misteri escatologici ai problemi piú innocui del mondo delle creature, è piú evidente che nelle forme ufficiali della poesia; e qui si comincia a osservare che l’interesse dell’arte va spostandosi dai grandi simboli e dalle grandi concezioni metafisiche alla rappresentazione dell’immediato e del vissuto, dell’individuale e del sensibile. Il vivente e l’organico, di cui, dalla fine dell’evo antico, si era smarrito il senso e il

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valore, torna a essere adeguatamente apprezzato, e le singole cose della realtà empirica non hanno piú bisogno di una legittimazione oltremondana, soprannaturale, per diventare oggetto dell’arte. Nulla illumina il senso di questo mutamento meglio delle parole di san Tommaso: «Dio si rallegra di tutte le cose, perché ognuna è in armonia col Suo Essere». C’è già tutta la giustificazione teologica del naturalismo artistico. Ogni realtà, per quanto piccola, per quanto passeggera, è in diretto rapporto con Dio; ogni cosa esprime a suo modo il divino, e quindi ogni cosa ha un suo valore e un suo significato per l’arte. E anche se, per il momento, le cose meritano attenzione solo in quanto testimoniano di Dio, e debbono disporsi in rigido ordine gerarchico, secondo il loro grado di partecipazione al divino, la semplice idea che nessun grado dell’essere, per quanto basso, sia del tutto insignificante o abbandonato da Dio, e perciò indegno dell’attenzione dell’artista, segna l’inizio di una nuova epoca. Anche nell’arte, sull’antica immagine di un Dio fuori del mondo prevale l’idea di una potenza divina operante nelle cose stesse. Il Dio che «imprime il moto dall’esterno» corrispondeva, alla concezione autocratica propria del primo feudalesimo; il Dio presente e attivo in ogni ordine della natura corrisponde a un mondo piú aperto, che non esclude piú la possibilità dell’ascesa sociale. La gerarchia metafisica delle cose riflette pur sempre una società articolata in caste, ma il liberalismo del tempo si manifesta già nel fatto che anche l’infimo grado dell’essere è considerato insostituibile nella sua specifica natura. Prima le classi erano divise da un abisso insuperabile, ora sono in contatto; e il mondo, come materia dell’arte, forma anch’esso una realtà continua, benché esattamente graduata. Non si può certo parlare, in pieno Medioevo, di un naturalismo che livelli e uniformi ogni cosa, e riduca l’intera realtà a una somma di dati sensibili; come non

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si può parlare di una totale eliminazione del dominio feudale da parte dell’ordine borghese, o del tramonto della dittatura spirituale della Chiesa e dell’elaborazione di una cultura autonoma e mondana. Si può soltanto parlare, per l’arte come per tutti gli altri campi, di un equilibrio fra individualismo e universalismo, di un compromesso fra libertà e costrizione. Il naturalismo gotico è un equilibrio instabile tra l’affermazione e la negazione dei valori mondani, come tutta la cavalleria è in se stessa una contraddizione, e tutta la vita religiosa dell’epoca oscilla fra dogmatismo e interiorità, fede clericale e pietà laica, ortodossia e soggettivismo. È lo stesso intimo dissidio, la stessa polarità spirituale, che si manifesta negli antagonismi sociali, religiosi e artistici. Il dualismo gotico si esprime soprattutto nel sentimento della natura. Questa non è piú il mondo materiale, muto e inanimato, come lo concepiva l’alto Medioevo, secondo l’immagine giudaico-cristiana di Dio e la concezione di un Signore invisibile e spirituale, Creatore del mondo. L’assoluta trascendenza di Dio aveva condotto alla svalutazione della natura, come ora il panteismo conduce alla sua riabilitazione. Fino a san Francesco, soltanto l’uomo era stato «fratello» dell’uomo; d’ora in poi lo è ogni creatura76. Anche questa nuova idea dell’amore corrisponde alla tendenza liberale dello spirito del tempo. Nella natura non si cercano piú soltanto analogie e simboli di una realtà soprannaturale, ma le tracce del proprio io, i riflessi del proprio sentimento77. Il prato in fiore, il fiume gelato, la primavera e l’autunno, il mattino e la sera, diventano momenti dell’anima. Ma, nonostante questa corrispondenza, manca ancora la visione individuale della natura: le immagini tratte dal vero sono rigide e stereotipe, prive di sfumature o d’intimità personale78. I paesaggi primaverili o invernali della poesia amorosa si ripetono cento volte e

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finiscono per diventare formule vuote e convenzionali. Ma è già significativo che la natura sia oggetto d’interesse, e appaia di per sé degna di rappresentazione. L’occhio deve aprirsi alla natura, prima di potervi scoprire tratti individuali. Assai piú coerente e piú chiaro che nelle immagini di paesaggio, il naturalismo gotico si esprime nella rappresentazione dell’uomo. In questo campo, ci troviamo dovunque di fronte a una concezione dell’arte affatto nuova, del tutto opposta alla stereotipia e all’astrazione romanica. Qui l’interesse si accentra sull’individuale e sul caratteristico, e non solo nelle statue dei re a Reims, e nei ritratti dei fondatori a Naumburg; l’espressione fresca, viva e parlante di questi ritratti è già presente, in qualche modo, nelle statue del portale occidentale di Chartres79. Anche qui il segno è cosí preciso da farci sentire con certezza che si tratta di studi eseguiti su modelli reali. L’artista deve aver conosciuto personalmente quel vecchio semplice, dall’aspetto di contadino, con gli zigomi forti, il naso breve e largo e gli occhi un po’ obliqui. Ma lo strano è che queste figure, ancora cosí grevi e ottuse, cosí lontane dalla mobilità che assumeranno nell’epoca cortese e cavalleresca, siano già mirabilmente caratterizzate. La sensibilità per l’individuale è uno dei primi sintomi della nuova dinamica spirituale. Stupisce vedere come a un’arte avvezza a considerare la specie umana nella sua totalità e uniformità e a distinguere solo tra eletti e dannati, ma incurante di ogni differenza individuale, subentri d’improvviso la tendenza a sottolineare i tratti individuali delle figure e a fissare ciò che è unico e irripetibile in ciascuna di esse80; come a un tratto spunti l’amore della vita consueta e quotidiana; come s’impari di nuovo a osservare, a veder «giusto», e a trovar piacere in tutto ciò che è triviale e casuale. E nulla è piú significativo per la trasformazione stilistica in corso del fatto che persino un idealista come Dante

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trovi, nell’osservazione del particolare caratteristico e minuto, la fonte di un’altissima poesia. Che cos’è propriamente accaduto? In sostanza, questo: l’arte unilaterale, spiritualistica dell’alto Medioevo, che rinunciava a ogni somiglianza con la realtà immediata, a ogni conferma dell’esperienza, ha ceduto il passo a una visione che fa dipendere la validità di ogni espressione artistica (anche quando si tratta dell’oggetto piú trascendente, piú ideale, piú divino) da un’ampia corrispondenza alla realtà naturale e sensibile. Appare cosí trasformato l’intero rapporto fra spirito e natura. La natura non è piú caratterizzata dalla sua mancanza di spiritualità, ma dalla sua trasparenza spirituale, dalla sua capacità di esprimere lo spirito (anche se non da una spiritualità in proprio). Questo mutamento ha potuto prodursi solo perché si è modificata la concezione stessa della verità, che ha assunto, al posto della sua primitiva forma unilaterale, una forma bilaterale; solo perché, in altri termini, si sono aperte due vie distinte alla verità o piuttosto si sono scoperte due distinte verità. Che la rappresentazione di un oggetto o di un rapporto vero in sé, per essere artisticamente giusta, debba conformarsi all’esperienza dei sensi, che quindi il valore artistico e ideale di un’immagine non debbano necessariamente coincidere, è un concetto nuovo, completamente ignoto all’alto Medioevo, e in sostanza, non è che la dottrina della «doppia verità» (ben nota alla filosofia del tempo) applicata all’arte. Il dissidio prodotto dalla rottura delle antiche tradizioni feudali e dall’incipiente emancipazione dello spirito dalla Chiesa trova la sua massima espressione in questa dottrina, che sarebbe apparsa mostruosa a ogni cultura precedente. Che cosa avrebbe potuto essere piú inconcepibile, per un’epoca salda nella sua fede, dell’idea che due fonti distinte del vero – fede e scienza, autorità e ragione, teologia e filosofia – potessero contraddirsi, e tuttavia, ciascuna a suo

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modo, testimoniare di una verità? La dottrina apriva una via irta di pericoli, ma era la sola via d’uscita per un’epoca in cui la fede non era piú indiscussa e la scienza non aveva ancora radici abbastanza salde; per un’epoca che non voleva sacrificare la sua scienza alla fede, né la sua fede alla scienza, e soltanto sulla loro sintesi poteva edificare la sua civiltà. L’idealismo dell’arte gotica era insieme un naturalismo che cercava di foggiare correttamente, anche sotto l’aspetto empirico, le figure ideali di origine oltremondana, come l’idealismo filosofico dell’epoca poneva l’idea non sopra, ma nella singola cosa, senza rinunciare né all’una né all’altra. Tradotto nel linguaggio della disputa sugli universali, questo significava che i concetti generali erano concepiti come immanenti ai fatti empirici e che non si riconosceva loro esistenza oggettiva se non in questa forma. Questo nominalismo temperato, come è definito nella storia della filosofia, si fondava quindi su una visione del mondo ancora idealistica e soprannaturale, ma era piú lontano dall’idealismo assoluto – cioè dal «realismo» della disputa degli universali – che dal nominalismo estremo del periodo successivo, che negava l’esistenza obiettiva delle idee in qualsiasi forma, e considerava veramente reali solo i fatti empirici individuali, concreti, unici e irripetibili. Perché il passo decisivo ebbe luogo quando si cominciò a tener conto delle cose singole nella ricerca della verità. Chi diceva «cosa singola», e faceva entrare in gioco la sostanzialità della singola esistenza, diceva già individualismo e relativismo e ammetteva almeno la parziale dipendenza della verità da principî temporali e mondani. Il problema intorno a cui si svolse la disputa degli universali non è solo il problema centrale della filosofia, il problema per eccellenza, di cui tutte le questioni fondamentali – empirismo e idealismo, relativismo e assolutismo, individualismo e universalismo, storicismo e

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antistoricismo – non sono che le varianti; ma è qualcosa di piú di un semplice problema filosofico, è la quintessenza delle questioni vitali che nascono da ogni sistema culturale e davanti a cui si è costretti a prender posizione non appena si diventa consapevoli della propria esistenza spirituale. Il nominalismo temperato, che non nega la realtà delle idee, ma le considera inseparabili dalle cose della realtà empirica, è la chiave di tutto il dualismo gotico, cosí degli antagonismi della struttura economica e sociale, come delle intime contraddizioni del naturalismo e dell’idealismo artistico. La funzione del nominalismo corrisponde qui esattamente a quella della sofistica nella storia dell’arte e della cultura antica. L’uno e l’altra rientrano tra le dottrine filosofiche tipiche delle epoche antitradizionalistiche e liberali. L’uno e l’altra sono filosofie illuministiche, che concepiscono le norme già considerate universali ed eterne, come valori relativi, cioè mutevoli e transitori, e negano i valori «puri», assoluti, indipendenti da speciali premesse. La dislocazione delle basi filosofiche del mondo medievale, il trapasso della metafisica dal realismo al nominalismo, diventa comprensibile solo in rapporto con lo sfondo sociologico. Perché, come il realismo corrispondeva a un ordine sociale sostanzialmente antidemocratico, a una gerarchia in cui solo i vertici contavano, a un’organizzazione assolutistica superindividuale che costringeva la vita nei vincoli della Chiesa e del feudalesimo, senza lasciare al singolo la minima libertà di movimento; cosí il nominalismo corrisponde alla dissoluzione delle forme collettive di tipo autoritario e all’affermazione di una vita sociale individualmente articolata e varia contro il principio dell’incondizionata subordinazione. Il realismo esprime una visione statica e conservatrice; il nominalismo, una visione dinamica, progressiva, liberale. Il nominalismo, che a ogni cosa singola

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assicura una partecipazione all’Essere, corrisponde a un ordine di vita in cui anche quelli che si trovano sugli ultimi gradini della scala sociale hanno una possibilità di salire e di elevarsi. Il dualismo che domina il rapporto dell’arte gotica con la natura affiora anche nella soluzione dei problemi compositivi. È vero che il gotico supera la forma di composizione ornamentale dell’arte romanica, per lo piú ispirata al principio della coordinazione, e la sostituisce con una forma piú vicina all’arte classica, e guidata dal principio di concentrazione; ma d’altro canto divide la scena – che nell’arte romanica era dominata, se non altro, da un’unità decorativa – in composizioni parziali che, prese una per una, mostrano di sottoporsi al criterio classico di unità e subordinazione, ma, nel loro insieme, rivelano un’accumulazione piuttosto indiscriminata di motivi. Cosí, nonostante lo sforzo di alleggerire la folta composizione romanica, e di rappresentare scene concluse nel tempo e nello spazio, invece di collegare le singole forme secondo criteri puramente concettuali o decorativi, predomina anche nel gotico un modo di comporre aggiuntivo, opposto all’unità spaziale e temporale dell’opera d’arte classica. Il principio della rappresentazione «continua», la tendenza all’indugio «cinematografico» sulle singole fasi dell’avvenimento e la disposizione a sacrificare il «momento pregnante» a favore dell’ampiezza narrativa, caratterizzano una tendenza che, apparsa per la prima volta nell’arte tardoromana, non è stata mai del tutto abbandonata nel Medioevo, e che torna ora a predominare nella forma della composizione ciclica. Questo principio trova la sua espressione piú grossolana nel dramma medievale, che, in considerazione della sua tendenza ad avvicendare e variare, è stato definito, in opposizione al dramma classico (dominato dal principio dell’«unità di luogo»), «dramma di movimento»81. I

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misteri della Passione – con tutti i loro quadri giustapposti, centinaia di attori e un’azione spesso protratta per molti giorni – che seguono l’avvenimento passo per passo, indugiano su ogni episodio con insaziabile curiosità e sono piú interessati alla successione degli eventi che alla singola situazione drammatica, questi «drammi cinematografici» del Medioevo sono per certi aspetti le creazioni piú caratteristiche dell’arte gotica, pur essendo forse le piú insignificanti per qualità. La nuova tendenza artistica per cui le cattedrali gotiche rimasero cosí spesso incompiute, la loro forma sostanzialmente aperta, per cui anche un edificio completo a noi – come già a Goethe – pare in realtà non finito, cioè infinito, concepito in un eterno divenire – quell’aspirazione allo sconfinato, quell’incapacità di placarsi e di concludere, sono espresse dai misteri della Passione in forma molto ingenua, ma appunto per ciò tanto piú chiara. Il dinamismo del tempo, l’inquietudine che dissolve i modi tradizionali di pensare e di sentire, la tendenza nominalistica verso la molteplicità delle cose singole, mutevoli e passeggere, si manifesta nel modo piú immediato nel «dramma di movimento». Il dualismo che appare nelle tendenze economiche, sociali, religiose e filosofiche, nel rapporto tra economia di consumo ed economia di profitto, tra feudalesimo e borghesia, trascendenza e immanenza, realismo e nominalismo, e domina cosí il rapporto dello stile gotico con la natura come i suoi criteri compositivi, ci si presenta anche nel razionalismo e nell’irrazionalismo dell’arte gotica, e soprattutto dell’architettura. L’Ottocento, che cercò di spiegare il carattere di questa architettura secondo lo spirito della propria visione tecnologica, ne rilevò soprattutto i caratteri razionali. Gottfried Semper la definí una «pura traduzione della filosofia scolastica»82, e Viollet-le-Duc non vi scorse che l’applicazione e l’illustrazione di leggi matematiche83; entrambi la

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considerarono, in sostanza, come un’arte in cui domina una necessità astratta e del tutto opposta all’irrazionalità dei motivi estetici. Entrambi la interpretarono, e con loro tutto l’Ottocento, come «un’arte di calcolo e di ingegneria», che attinge l’ispirazione dal pratico e dall’utile e nelle sue forme esprime unicamente la necessità tecnica e la possibilità costruttiva. Si vollero dedurre i principî formali dell’architettura gotica, soprattutto l’inebriante verticalismo, dalla volta a crociera, cioè da un’invenzione tecnica. Questa teoria tecnicistica si adattava benissimo all’estetica razionalistica del secolo, per cui, in una vera opera d’arte, non c’era nulla da mutare; e per cui un edificio gotico, con la sua logica rigorosa e la sua stretta funzionalità, appariva come il prototipo di un complesso artistico dove nulla si poteva togliere e nulla aggiungere senza totalmente distruggerlo84. È incomprensibile come questa teoria potesse essere applicata proprio all’architettura gotica, quando proprio la storia della costruzione degli edifici gotici, cosí ricca di peripezie, fornisce la miglior prova che nella forma definitiva di un’opera d’arte il caso, o ciò che appare casuale in rapporto al progetto originario, ha una parte altrettanto grande quanto l’idea prima. Secondo il Dehio, l’invenzione della volta a crociera costituisce il momento propriamente creativo nella genesi del gotico, e le singole forme artistiche non sono che le conseguenze di tale conquista tecnica. Soltanto Ernst Gall inverte il rapporto e assume l’idea formale della struttura verticale come l’elemento primario, e l’esecuzione tecnica di quell’idea solo come elemento strumentale e derivato, artisticamente e storicamente secondario85. Da allora è stato fatto osservare, anche da parte di altri, che l’utilità pratica della maggior parte delle «conquiste tecniche» del gotico non va sopravvalutata; in particolare la funzione costruttiva della crociera è puramente illusoria, e in origine la volta a crociera e il

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sistema dei contrafforti avevano uno scopo essenzialmente decorativo86. In questa controversia fra razionalisti e irrazionalisti si tratta, in fondo, dello stesso contrasto che opponeva già Semper e Riegl87. Da un lato si vuol derivare la forma artistica dal problema pratico e dalla sua soluzione tecnica, dall’altro si fa notare che spesso l’idea artistica si afferma in una certa opposizione ai mezzi tecnici dati, e che la stessa soluzione tecnica è, almeno in parte, una creazione della volontà formale. Dai due lati si commette, con segni invertiti, lo stesso errore: e se il tecnicismo di Viollet-le-Duc fu giustamente definito «meccanica romanticizzata» 88, è altrettanto lecito considerare l’estetismo di Riegl e di Gall come una ipostatizzazione altrettanto romantica, non piú della costrizione, ma del libero intento dell’artista. In nessuna fase della genesi di un’opera d’arte intento formale e tecnica sono dati indipendentemente l’uno dall’altro, ma risultano sempre compenetrati in un insieme, da cui possono essere separati solo teoricamente. L’estrapolazione di uno dei due elementi come variabile indipendente significa l’ingiustificata, irrazionale esaltazione di quell’elemento sull’altro, ed è proprio di una mentalità «romantica». La successione psicologica dei due principî nell’atto della creazione è di scarso significato per il loro effettivo rapporto reciproco poiché dipende da un numero cosí elevato di fattori incalcolabili che siamo costretti a considerarla come «accidentale». Di fatto, è possibile che «la crociera sia nata per ragioni puramente tecniche e poi se ne sia scoperto l’uso artistico»89; ma è altrettanto possibile che l’invenzione tecnica sia stata preceduta da una visione formale, e che da questa visione formale, magari senza saperlo, l’architetto sia stato guidato nelle sue considerazioni tecniche. La questione è scientificamente insolubile. Ma si può sempre stabilire con certezza come questi principî si ricolleghino allo sfondo sociale delle

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creazioni artistiche, e spiegare perché si accordino o si contraddicano. Quando la civiltà, come nell’alto Medioevo, procede – nell’insieme – senza conflitti, fra intento artistico e tecnica non sussiste quasi mai un contrasto di principio; le forme artistiche dicono quel che dice la tecnica e i due fattori sono ugualmente razionali o irrazionali. Ma in epoche come il gotico, quando tutta la civiltà è lacerata da antagonismi, accade spesso che nell’arte gli elementi spirituali e materiali parlino due linguaggi diversi e che, come nel nostro caso, la tecnica sia razionale, ma irrazionali i principî formali. La chiesa romanica è una forma spaziale in sé conchiusa, con uno spazio interno relativamente ampio, solenne, quieto, su cui lo sguardo può riposare in assoluta passività. Invece la chiesa gotica è in uno stato di divenire, come se nascesse davanti ai nostri occhi; è un processo, non un risultato. La risoluzione di tutto il sistema materiale in un gioco di forze, la dissoluzione di tutto ciò che è rigido e statico in una dialettica di funzioni e subordinazioni, quello zampillare e salire, quella circolazione e trasformazione delle energie è come un dramma che si svolge e si decide davanti ai nostri occhi. E l’effetto dinamico è cosí predominante, che ogni altra cosa appare solo un mezzo a quel fine. Perciò l’incompiutezza non intacca minimamente l’efficacia di un siffatto edificio, anzi gli aggiunge forza e fascino. La forma aperta, propria di ogni stile dinamico – com’è noto, anche del barocco – non fa che accentuare l’impressione di movimento infinito e ininterrotto e la provvisorietà di ogni sosta e di ogni conclusione. La predilezione moderna per l’incompiuto, l’abbozzato, il frammentario, ha qui la sua origine. Dal gotico in poi ogni grande arte – eccettuate le poche, effimere manifestazioni di classicismo – ha in sé qualcosa di frammentario, un’incompiutezza intrinseca o esteriore, un arresto – volontario o involontario – prima dell’ultima parola. Per lo

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spettatore o per il lettore, resta sempre qualcosa da fare. L’artista moderno evita di pronunciare l’ultima parola, perché sente l’inadeguatezza di ogni parola. Sentimento ignoto prima del gotico. Ma un edificio gotico non è solo un sistema dinamico in se stesso: mette in moto anche chi lo guarda e trasforma l’atto della fruizione artistica in un processo con una direzione determinata e uno sviluppo graduale. Un edificio gotico non si lascia mai abbracciare da un solo punto di vista e non offre da nessuna parte una visione conclusa e soddisfacente della struttura complessiva; ma costringe lo spettatore a mutare continuamente di posizione, e solo nella forma di un movimento, di un atto, di una ricostruzione, gli consente di farsi un’idea dell’opera intera90. L’arte greca nell’epoca della democrazia, in condizioni sociali analoghe, ha suscitato nello spettatore un’attività analoga. Anche allora lo spettatore era strappato alla tranquilla contemplazione dell’opera d’arte e costretto a partecipare interiormente al movimento del tema rappresentato. La dissoluzione della forma cubica chiusa e l’emancipazione della plastica dall’architettura sono i primi passi del gotico sulla via di quella rotazione delle figure, con cui l’arte classica metteva in moto l’osservatore. Anche qui il passo decisivo è la soppressione della frontalità. Questo principio è definitivamente abbandonato; d’ora in poi esso riemerge solo per brevissimi periodi e forse solo due volte in tutto: al principio del Cinquecento e sullo scorcio del Settecento. La frontalità, col rigorismo che comporta per l’arte, sarà d’ora in poi un programma erudito e arcaicizzante e mai pienamente realizzabile. Anche per questo rispetto l’arte gotica è all’origine di una tradizione destinata a durare ininterrotta fino ai nostri giorni, e superiore – per significato e portata – a ogni altra tradizione piú tarda. Nonostante le somiglianze tra l’illuminismo greco e

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l’illuminismo medievale e le conseguenze che ne derivano per l’arte, il gotico riesce per la prima volta a sostituire la tradizione antica con qualcosa di affatto nuovo, opposto e tuttavia non inferiore alla classicità. Solo col gotico l’antichità è effettivamente superata. La trascendenza del gotico era già propria dell’arte romanica, per molti aspetti piú spiritualizzata di ogni arte piú tarda, ma formalmente piú vicina alla classicità della pur tanto piú sensuale e mondana arte gotica. Il gotico è dominato da un carattere che cerchiamo invano nell’arte romanica, e che rappresenta la vera novità nei confronti dell’antichità classica: la sua sensibilità, che è la forma tutta particolare in cui si compenetrano lo spiritualismo cristiano e il sensualismo realistico dell’età gotica. L’intensità affettiva del gotico, in sé, non è nuova; anche la tarda classicità era commossa, anzi patetica, e anche l’ellenismo voleva commuovere e rapire, inebriare e sconvolgere i sensi; ma nuova è l’intimità espressiva che a ogni opera dell’arte gotica e post-gotica dà un carattere di confessione. E qui ci troviamo nuovamente di fronte a quel dualismo che pervade tutte le manifestazioni del gotico. Il «carattere di confessione» dell’arte moderna, che presuppone la genuinità e unicità dell’esperienza, dovrà – d’ora in poi – aprirsi la strada contro una routine sempre piú impersonale e piú piatta. Perché non appena l’arte supera l’ultimo residuo di primitiva imperizia, non appena cessa di dover lottare per la conquista dei mezzi espressivi, affiora subito il pericolo di una tecnica sempre pronta a qualunque uso. Col gotico comincia il lirismo dell’arte moderna, ma comincia anche il moderno virtuosismo.

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Capitolo decimo Cantieri e Arti

Nei secoli xii e xiii il cantiere era la comunità degli artisti e degli artigiani addetti alla costruzione di una grande chiesa, per lo piú di una cattedrale, sotto una direzione artistica e amministrativa imposta o approvata dai fabbricieri. L’«operaio» (magister operis), a cui toccava provvedere i materiali e le maestranze, e l’architetto (magister lapidum) responsabile del lavoro artistico, della distribuzione dei compiti e della coordinazione delle singole attività, furono certo, in molti casi, una persona sola; ma di regola tali funzioni toccavano a due individui distinti. Fra il direttore artistico e il direttore amministrativo dovevano esserci rapporti simili a quelli fra il regista e il direttore di produzione, e del resto il collettivo di lavoro del film è l’unico perfetto parallelo del cantiere edilizio. Ma c’è una differenza essenziale fra i due: di solito il regista lavora con un personale diverso per ogni film, mentre le variazioni nel personale di un cantiere non sempre coincidevano col variare degli incarichi. Una parte degli operai costituiva il personale stabile del cantiere e rimaneva fedele all’architetto anche dopo l’esecuzione di un incarico; una parte si avvicendava nel corso stesso dei lavori. Si sa che gli artigiani costituivano gruppi di lavoro già presso gli Egizi91; Greci e Romani arruolavano nelle maggiori imprese intere corporazioni di lapicidi; ma nessuna di queste associazioni aveva il carattere del

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cantiere edile conchiuso in sé e con amministrazione propria. Un simile gruppo professionale autonomo sarebbe stato inconciliabile con lo spirito dell’antichità. E se nell’alto Medioevo ci fu qualcosa di simile a un cantiere, non fu che il lavoro comune delle officine di un monastero impegnate in una determinata costruzione; mancava uno dei caratteri essenziali delle associazioni piú tarde: la mobilità. È vero che i cantieri dell’età gotica, quando la costruzione delle chiese andava per le lunghe, si fermavano spesso per generazioni nello stesso luogo; ma quando il lavoro era terminato o interrotto, se ne andavano, sotto la guida dell’architetto, ad assumere nuovi incarichi92. Ma la libertà di movimento, cosí importante per tutta l’arte di allora, non si manifestava tanto negli spostamenti dei gruppi, quanto nella vita errabonda dei singoli artigiani che andavano e venivano, passando da un’associazione all’altra. Già nelle officine dei conventi troviamo mano d’opera estranea e avventizia, se pure la maggioranza degli operai ivi impiegati erano frati del convento stesso, che opponevano una forte resistenza agli influssi esterni. Ma non appena la produzione passa dal convento al cantiere e se ne impadroniscono i laici, cessa la stabilità del lavoro, e quindi la continuità e relativa lentezza dello sviluppo artistico. Da allora stimoli di ogni provenienza vengono accolti e diffusi per ogni dove. I fabbricieri dell’epoca romanica dovevano generalmente contentarsi delle prestazioni dei servi e dei vassalli; ma quando poterono disporre di denaro, divenne piú facile impiegar mano d’opera libera e forestiera e cominciò a formarsi un mercato interregionale del lavoro. L’estensione e il ritmo dell’attività edilizia sono regolati d’ora in poi dalla disponibilità di liquido, e se la costruzione delle chiese gotiche si protrae talvolta per secoli, ciò si deve anzitutto alla periodica scarsità di denaro. Quando ce n’era, si costruiva rapidamente e

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senza interruzione; ma, in tempi di magra, l’attività edilizia subiva rallentamenti e ogni tanto cessava del tutto. E cosí si sviluppano, a seconda dei mezzi finanziari disponibili, due forme distinte di organizzazione del lavoro: un’azienda edilizia regolarmente funzionante, con personale pressoché stabile; e una produzione intermittente e irregolare, con un numero ora maggiore ora minore di artisti e artigiani93. Quando, col risorgere delle città e lo sviluppo dell’economia monetaria, l’elemento laico prese il sopravvento nell’edilizia, gli mancava ancora un’organizzazione atta a sostituir la disciplina della bottega monastica. Inoltre la costruzione di una cattedrale gotica era in sé impresa piú lunga e complicata di quella di una chiesa romanica; vi si impiegava un maggior numero di operai e l’esecuzione esigeva un tempo assai piú lungo, per ragioni intrinseche e, come si è detto sopra, spesso anche estrinseche. Queste circostanze esigevano una disciplina severa, diversa dai metodi tradizionali. La soluzione fu il cantiere, con le sue precise disposizioni circa l’ammissione, la retribuzione e l’istruzione della mano d’opera, con la sua gerarchia che comprendeva l’architetto, i maestri muratori e i manovali, la restrizione del diritto alla proprietà artistica individuale e la totale subordinazione del singolo alle esigenze del lavoro artistico comune. Si mirava ad attuare senza attriti la divisione e l’integrazione del lavoro, la massima specializzazione e il perfetto accordo delle attività singole. Ma per ciò era necessario un orientamento veramente comune. Soltanto con la volontaria subordinazione delle tendenze personali all’intento dell’architetto, con un costante e intimo contatto fra il direttore artistico e ciascuno dei suoi collaboratori, era possibile ottenere il desiderato livellamento delle differenze individuali senza distruggere la qualità artistica delle singole prestazioni. Ma come fu possibile una divisione del lavoro

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di questo genere in un processo spirituale cosí complesso come la creazione artistica? A questo proposito ci sono due posizioni radicalmente opposte, simili solo per il loro carattere romantico. L’una è incline a scorgere nella collettività della produzione artistica la condizione stessa del massimo successo; per l’altra, invece, l’atomizzazione dei compiti e la limitazione della libertà individuale mettono per lo meno in pericolo la realizzazione di vere opere d’arte. La posizione positiva si riferisce soprattutto all’arte medievale, la negativa, per lo piú, al cinematografo. I due punti di vista, nonostante l’opposizione dei risultati, si fondano sulla stessa concezione dell’essenza dell’attività artistica: entrambi scorgono nell’opera d’arte il prodotto di un atto creativo unitario, indifferenziato, indivisibile, quasi divino. Il romanticismo ottocentesco personificò lo spirito collettivo del cantiere in una specie di anima popolare o di gruppo, individualizzando cosí qualcosa di essenzialmente non individuale, e facendo nascer l’opera – creazione comune di una collettività – da quest’anima di gruppo concepita come unitaria e individuale. I critici del film, invece, non dissimulano la collettività, e cioè la struttura composita del lavoro cinematografico, e sottolineano anzi il suo carattere impersonale, o, come suol dirsi, «meccanico», ma proprio perciò, per l’impersonalità e l’atomizzazione del processo creativo, contestano il valore artistico dei risultati. Essi dimenticano soltanto che anche il modo di lavoro del singolo artista indipendente è ben lontano dall’essere cosí unitario e organico, come vuole l’estetica romantica. Ogni processo spirituale un tantino complesso – e la creazione artistica è senza dubbio dei piú complicati – consta di tutta una serie di funzioni piú o meno indipendenti – coscienti e inconscie, razionali e irrazionali – e l’intelletto critico dell’artista deve vagliarne i risultati e sottoporli a una redazione conclusiva allo

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stesso modo come il capo del cantiere esamina, corregge e armonizza le prestazioni dei singoli operai. L’unità perfetta delle facoltà e delle funzioni psichiche è una fantasia romantica non meno insostenibile dell’ipotesi di un’anima popolare e di gruppo intesa come realtà per sé stante, al di fuori delle anime individuali. Queste, se si vuole, son parti e rifrazioni di un’anima collettiva, ma quest’anima collettiva esiste solo nelle sue componenti e rifrazioni. Cosí anche l’anima individuale si estrinseca per lo piú solo nelle sue funzioni singole; l’unità delle sue attitudini – tranne che nello stato di estasi, che non ha a che fare con l’arte – dev’essere conquistata con fatica e sforzo, non è un dono dell’attimo fuggente. Il cantiere come associazione di lavoro corrisponde a un’epoca in cui la Chiesa e le comunità cittadine eran pressoché i soli interessati alle opere d’arte. Era una clientela relativamente ristretta, con esigenze soltanto periodiche e, per lo piú, presto soddisfatte. L’artista doveva mutare sovente di luogo per trovare impiego e attività. Ma non doveva girare per il mondo solo e senz’appoggi: il cantiere a cui poteva aggregarsi possedeva l’elasticità richiesta dalle circostanze; s’impiantava in un luogo e vi restava finché c’era lavoro, se ne andava appena non c’era piú nulla da fare, per stabilirsi nuovamente dove trovava nuova occupazione. Per quei tempi, esso offriva un ampio margine di sicurezza; un abile operaio poteva restarvi quanto voleva, ma era libero di passare a un altro cantiere o, se gli piaceva la vita sedentaria, di aggregarsi a una grande Opera del Duomo, come quelle di Chartres, Reims, Parigi, Strasburgo, Colonia o Vienna. Solo quando la capacità d’acquisto della borghesia cittadina crebbe al punto che i suoi membri poterono costituire, anche in quanto privati, una clientela costante per i prodotti dell’arte, l’artista poté svincolarsi dal cantiere e stabilirsi in una città come maestro indipendente94. Ciò avvenne

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solo nel corso del Trecento; ma da principio furono solo i pittori e gli scultori a emanciparsi dal cantiere e a diventare imprenditori in proprio. Per quasi due secoli i lapicidi rimasero ancor legati ai cantieri, perché solo verso la fine del Quattrocento il singolo cittadino cominciò ad agire come impresario edile, a cui ci si poteva appoggiare. Allora anche i lapicidi abbandonano la comunità del cantiere e si aggregano alle Arti, a cui scultori e pittori appartenevano già da lungo tempo. La concentrazione degli artisti nelle città e la concorrenza che ne derivò, resero necessarie fin da principio misure economiche collettive, che si potevano applicare nel modo migliore nel quadro della corporazione, organizzazione autonoma, che gli altri mestieri si eran già data da secoli. Nel Medioevo le Arti sorsero dovunque un gruppo professionale si sentiva minacciato nella sua esistenza economica dall’afflusso di elementi forestieri. Esse miravano a escludere o almeno a limitare la concorrenza. La democrazia interna, da principio ancor viva, prese subito – verso l’esterno – l’aspetto del piú intollerante protezionismo. I regolamenti avevano il solo scopo di proteggere il produttore, e non certo il consumatore, come voleva l’apparenza e come ancor oggi vorrebbe far credere l’idealizzazione romantica delle Arti. L’abolizione della libera concorrenza implicò fin da principio gravi danni per i consumatori. Anche i requisiti minimi posti alla qualità dei prodotti industriali non erano prescritti per altruismo, ma formulati con sufficiente avvedutezza per assicurare uno smercio regolare e costante95. Ma il romanticismo, che cercò di contrapporre le Arti allo spirito industriale e mercantile dell’epoca liberale, non si limitò a negarne il carattere fondamentalmente monopolistico e il predominio in esse di fini egoistici: nell’organizzazione corporativa del lavoro, nelle norme vigenti per la qualità della merce e nelle misure pubbliche di controllo volle scorgere un

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mezzo rivolto a «dare al mestiere la nobiltà dell’arte»96. In opposizione a questo «idealismo», il Sombart afferma a ragione che «la massa degli artigiani non ha mai raggiunto un alto livello artistico» e che mestiere e produzione artistica sono sempre state due cose ben distinte97. Ma, anche se gli statuti delle corporazioni possono aver contribuito alla miglior qualità dei prodotti industriali – che in realtà non avevano nulla a che fare con l’arte – essi costituivano, per l’artista, nello stesso tempo remore e stimoli. Ma l’Arte, per quanto illiberale, fu un reale progresso sul cantiere, proprio dal punto di vista della libertà artistica. Cantiere e Arte si distinguono soprattutto perché il primo è una organizzazione gerarchica di salariati ai fini di un lavoro comune, mentre l’altra, almeno in origine, è una associazione ugualitaria di imprenditori autonomi. Il cantiere è un istituto collettivo, in cui nessuno è libero, neppure l’impresario o l’architetto, che deve sempre regolarsi secondo un programma formulato dall’autorità ecclesiastica e generalmente elaborato fin nei minimi particolari. Invece, nelle singole botteghe che fanno capo all’Arte, il maestro è padrone, non solo d’impiegare come vuole il suo tempo, ma anche nella scelta dei mezzi artistici. Gli statuti delle Arti, benché molto stretti, si limitano per lo piú alle prescrizioni tecniche e non si estendono alle questioni propriamente artistiche, a differenza delle direttive a cui dovevano attenersi gli artisti dei cantieri. Le norme corporative, se restringono la libertà di movimento dei maestri, non prescrivono che cosa essi debbano fare o non fare, entro certi limiti per lo piú considerati come ovvi. La personalità artistica non è ancora sentita come tale, la bottega è tuttora organizzata come ogni altra azienda artigiana, e il pittore non si sente per nulla sminuito dal fatto di appartenere alla stessa corporazione dei sellai; ma nel maestro indipendente, abbandonato a se stesso, solo responsabile del-

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l’opera sua, il tardo Medioevo preannunzia già il libero artista moderno98. Nulla definisce la tendenza di sviluppo dell’arte medievale meglio del progressivo allontanamento del luogo di lavoro degli artisti dalla piazza della chiesa. Nel periodo romanico tutto il lavoro artistico si svolge sull’edificio stesso. La decorazione pittorica delle chiese consiste esclusivamente di affreschi, che naturalmente si possono eseguire solo in loco. Ma anche la decorazione plastica nasce sulle impalcature: lo scultore lavora après la pose, cioè sbozza e scalpella la pietra dopo che il muratore l’ha incastrata nella parete. I cantieri, che sorgono nel secolo xii, determinano, anche per questo rispetto, un cambiamento, come è già stato osservato da Viollet-le-Duc. Il cantiere offre allo scultore un laboratorio piú comodo e tecnicamente meglio attrezzato dell’impalcatura. Per lo piú egli esegue le sue sculture dal principio alla fine nell’atelier; non piú in chiesa, ma accanto alla chiesa. All’edificio si applicano solo i pezzi già finiti. Il mutamento non fu certo cosí brusco come suppone Viollet-le-Duc99. Il sopravvento della tavola dipinta sull’affresco ha nel campo della pittura lo stesso significato. L’ultima fase dello sviluppo è nella definitiva separazione del laboratorio dall’edificio. Pittori e scultori abbandonano la piazza della chiesa per ritirarsi nelle loro botteghe, e talvolta non vedono neppure le chiese per cui debbono eseguire ancone o cibori. Tutta una serie di caratteri stilistici del gotico tardo dipende dalla separazione del laboratorio dal luogo a cui l’opera è destinata. Con lo spostamento della produzione artistica dal cantiere alla bottega, è soprattutto in rapporto il tratto piú «moderno» dell’arte del tardo Medioevo: la modestia borghese dei suoi prodotti, le loro dimensioni ridotte e senza pretese. I borghesi, in quanto privati cittadini, non fanno ancora costruire chiese e manieri, né ordinano cappelle sepolcrali o cicli

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di affreschi, ma solo cibori e pale d’altare; ma li ordinano a centinaia e a migliaia. Questi generi corrispondono cosí al potere d’acquisto come al gusto della borghesia, e corrispondono anche all’attività di piccola industria degli artisti indipendenti. Nell’angusto spazio della bottega cittadina, coi pochi aiuti di cui il maestro dispone, si possono assolvere solo ordinazioni relativamente modeste. Queste circostanze favoriscono pure l’uso del legno, leggero, agevole e a buon mercato. È difficile dire se la modestia del formato e del materiale sia la conseguenza di un mutamento di stile, o se il nuovo stile, piú vario, flessibile ed espressivo, sia la conseguenza di queste condizioni materiali. Le piccole dimensioni e il materiale meno ostico invitano, in ogni caso, a innovazioni ed esperimenti, e favoriscono fin da principio la tendenza a uno stile piú dinamico, piú espansivo, piú ricco di temi100. Non solo le statue lignee dei cibori, ma anche i monumenti di pietra abbandonano i modi grandiosi, grevi, solenni, per uno stile piú minuto, leggero, intimo; ma ciò di per sé non prova nulla contro l’influsso del materiale sullo stile; nulla di piú naturale che si affermi anche nella pietra lo stile della scultura in legno in un periodo in cui questa prende il sopravvento. Comunque sia, le forme artistiche tendono – in ogni formato e in ogni materiale – alla gentilezza, alla raffinatezza, alla leggiadria. Assistiamo qui alla prima vittoria del virtuosismo moderno, della tecnica troppo facile, dei mezzi troppo agevoli, che non offrono resistenza. Ma questo virtuosismo non è, in un certo senso, che un sintomo di quel processo che condurrà, nel gotico tardo, e cioè nell’epoca dell’economia monetaria pienamente sviluppata e della produzione mercantile, all’industrializzazione della pittura e della scultura, e a un gusto per cui il dipinto è un ornamento della parete, e la statua un oggetto d’arredamento. Si può, anzi si deve star contenti a questa corri-

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spondenza fra storia degli stili e storia dell’organizzazione del lavoro. Sarebbe ozioso chiedersi quale sia l’elemento primario e quale il secondario. Basta indicare che alla fine del Medioevo artisti sedentari, industria di bottega, materiali docili e a buon prezzo si accompagnano al piccolo formato e a forme leggiadre, strane e capricciose.

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Capitolo undicesimo L’arte borghese del gotico tardo

Il tardo Medioevo non vede soltanto il successo della borghesia: è un’epoca borghese. L’economia monetaria e mercantile, che determina l’intera evoluzione a partire dai secoli centrali del Medioevo, conduce all’indipendenza politica e culturale, e piú tardi all’egemonia intellettuale della borghesia urbana. Come nell’economia, cosí anche nell’arte e nella cultura questo ceto rappresenta la tendenza piú progressiva e piú feconda. Ma la borghesia del tardo Medioevo è un organismo sociale straordinariamente complesso, diviso nei piú vari gruppi d’interessi, e di cui sarebbe difficile segnare i confini sia verso l’alto che verso il basso. L’antica uniformità, gli scopi economici comuni e le tendenze politiche egualitarie hanno ceduto il passo a una tendenza irresistibile che conduce alla differenziazione secondo il censo. Non solo alta e piccola borghesia, commercio e artigianato, capitale e lavoro si separano sempre piú nettamente; ma si formano anche numerosi stadi di transizione fra l’impresa capitalistica e la piccola industria da un lato, il padrone indipendente e il proletariato operaio dall’altro. Nei secoli xii e xiii la borghesia lottava ancora per l’esistenza materiale e la libertà; ora lotta per conservare i propri privilegi contro i nuovi elementi che vengono dal basso. Il ceto progressivo in lotta per il progresso sociale, si è trasformato in una classe sazia, conservatrice.

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L’inquietudine che nel secolo xii aveva scosso le basi del feudalesimo e aveva poi sempre continuato a crescere, raggiunge il suo acme nelle rivolte e nelle lotte salariali del tardo Medioevo. Tutta la società è divenuta instabile. La borghesia, sazia e sicura com’è, aspira al prestigio della nobiltà e cerca d’imitare i costumi aristocratici; la nobiltà cerca a sua volta di adattarsi allo spirito economico e affaristico, alla visione razionalistica della borghesia. Ne consegue un vasto livellamento sociale: da un lato l’ascesa delle classi medie, dall’altro il declino dell’aristocrazia. Si accorcia la distanza fra gli strati superiori della borghesia e gli strati inferiori e meno agiati della nobiltà: mentre le differenze economiche diventano sempre piú insuperabili. Implacabile diventa l’odio del cavaliere povero verso il ricco borghese, irriducibile l’opposizione fra il salariato senza diritti e il padrone privilegiato. Ma anche in alto l’edificio sociale mostra pericolose crepe; la spina dorsale della vecchia e potente feudalità, che sfidava i principi, è spezzata. Col trapasso dall’economia naturale all’economia monetaria, anche l’alta nobiltà piú o meno indipendente si trasforma in una clientela del re. In seguito alla dissoluzione della servitú della gleba e alla trasformazione delle terre feudali in poderi dati in affitto o coltivati da braccianti liberi, i proprietari possono essere diventati piú poveri o piú ricchi, ma non dispongono piú degli uomini con cui potevano guerreggiare coi re. La nobiltà feudale scompare, ed è sostituita dalla nobiltà di corte, che trae i suoi privilegi dal servizio del re. Anche prima, senza dubbio, il seguito del principe si componeva di nobili, ma essi erano indipendenti dalla corte o potevano rendersene indipendenti in qualsiasi momento. Tutta la vita dei nuovi cortigiani dipende invece dal favore e dalla grazia del monarca. I nobili diventano funzionari di corte, e i funzionari nobili. L’antica nobiltà di spada si mesco-

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la con la nuova nobiltà di diploma, e nella nuova aristocrazia mista, tra cortigiana e burocratica, che esse finiscono per costituire, non sono sempre i membri dell’antica nobiltà ad avere la parte piú importante. I re preferiscono scegliere tra i borghesi i loro legali e i loro economisti, i loro segretari e i loro banchieri; il valore professionale determina la scelta. Anche qui prevalgono le direttive dell’economia monetaria: il criterio della concorrenza, l’indifferenza dei mezzi atti a un determinato fine, la trasformazione delle relazioni personali in rapporti oggettivi. Il nuovo stato, tendenzialmente assolutistico, non si fonda piú sulla fedeltà dei vassalli e sulla lealtà, ma sulla dipendenza materiale di una burocrazia stipendiata e di un esercito mercenario permanente. Ma questa metamorfosi diventa possibile solo quando i nuovi criteri dell’economia monetaria cittadina si sono estesi a tutta l’amministrazione statale, e quando si possono trovare i mezzi necessari al mantenimento di un sistema cosí costoso. La nobiltà si trasforma – nella sua struttura – insieme con lo stato, ma conserva il rapporto col proprio passato. Decade invece del tutto la cavalleria come unico ceto guerriero e come portatrice della cultura laica. È un processo lungo, e gli ideali cavallereschi non perdono dall’oggi al domani il loro seducente splendore, almeno agli occhi della borghesia. Ma sotto sotto, tutto prepara la disfatta di Don Chisciotte. Si è voluto attribuire la decadenza della cavalleria alla nuova tecnica militare del tardo Medioevo, e si è fatto notare che la cavalleria pesante, dovunque si scontrò con la nuova fanteria mercenaria o con le brigate contadine, subí gravi batoste. Essa fuggí davanti agli arcieri inglesi, ai lanzi svizzeri, all’esercito nazionale polacco-lituano, cioè davanti a ogni armamento diverso dal proprio, davanti a ogni forza militare che non accettava le sue regole di guerra. Ma la nuova tecnica militare non fu la vera causa delle scon-

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fitte della cavalleria; anche questa tecnica non era che un segno, una espressione del razionalismo del nuovo mondo borghese, in cui la cavalleria non riusciva a ritrovarsi. L’arma da fuoco, il carattere anonimo della fanteria, la rigida disciplina degli eserciti di massa, tutto ciò implicava la meccanizzazione e razionalizzazione della guerra, e l’inattualità dell’impostazione individuale ed eroica della cavalleria. Le battaglie di Crécy, Poitiers, Azincourt, Nicopoli, Varna, Sempach non furono perdute per ragioni tecniche, ma perché i cavalieri, anziché un vero esercito, formavano unità staccate e indisciplinate di avventurieri, e tenevano alla gloria personale piú che alla vittoria comune101. Che l’invenzione delle armi da fuoco e l’impiego di fanterie mercenarie abbian democratizzato il servizio militare e reso quindi inutile la cavalleria è una tesi nota, ma che non può essere accettata senza forti limitazioni. È stato fatto giustamente notare102, contro questa teoria, che le armi cavalleresche non furono soppiantate e rese inutili dalla carabina e dall’archibugio, senza contare che i fanti per lo piú combattevano con archi e spiedi, e non con armi da fuoco. Anzi, il tardo Medioevo segnò l’apogeo dello sviluppo degli armamenti pesanti della cavalleria, che fino alla guerra dei Trent’anni conservò la sua importanza, spesso decisiva, accanto alla fanteria. Non è vero, del resto, che le fanterie fossero costituite esclusivamente di contadini; nei loro ranghi troviamo figli di borghesi e gentiluomini. La cavalleria è diventata un anacronismo, non perché sono invecchiate le sue armi, ma perché è invecchiato il suo «idealismo» e il suo irrazionalismo. Il cavaliere non capiva le molle della nuova economia, della nuova società, del nuovo stato; e il borghese, col suo denaro e il suo «spirito di merciaio», continuava a sembrargli un’anomalia. Il borghese sapeva invece come regolarsi col cavaliere. Partecipava con piacere alla mascherata dei tornei cavallereschi e delle corti d’amo-

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re, ma tutto questo, per lui, non era che un gioco; negli affari era freddo, duro e senza illusioni, insomma tutt’altro che cavalleresco. Molto piú intimamente che con la nobiltà feudale, la borghesia si mescola con le «grandi famiglie» cittadine. A poco a poco i «nuovi ricchi» vengono considerati dall’antico patriziato come suoi pari, e infine pienamente assimilati per via di matrimoni. Non ogni ricco cittadino è senz’altro un patrizio; tuttavia non è mai stato cosí facile per un plebeo farsi strada fra l’aristocrazia col solo aiuto della sua ricchezza. L’antica nobiltà cittadina e i nuovi capitalisti si dividono il governo della città e costituiscono la nuova classe dirigente, caratterizzata soprattutto dall’eleggibilità al consiglio comunale. Fanno parte di questo ceto anche le famiglie i cui membri, pur non avendo un seggio in consiglio, tuttavia, per la loro posizione economica, sono considerati pari grado dei consiglieri e possono entrare nelle loro famiglie attraverso matrimoni. Questi notabili, che, direttamente o indirettamente, ricoprono le cariche cittadine, formano ormai una casta rigidamente chiusa; i loro costumi hanno un carattere del tutto aristocratico e il loro dominio si fonda su un monopolio degli uffici e delle dignità quasi altrettanto esclusivo di quello dell’antica nobiltà feudale. Lo scopo e il senso vero del dominio di questa classe è tuttavia il monopolio economico. Dappertutto, e specie nei grossi affari d’esportazione, essi dominano il mercato, già solo in quanto sono i possessori delle scorte di materie prime. Si trasformano da industriali in commercianti, e fanno lavorare altri per sé; essi si limitano a provvedere le materie prime e a pagare un salario fisso per il lavoro. L’originaria uguaglianza degli artigiani organizzati nelle Arti cede cosí il passo a una differenziazione graduata secondo la potenza politica e i mezzi finanziari103. Da principio i piccoli maestri vengono scacciati dalle Arti maggiori, poi anch’essi si pre-

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muniscono contro l’afflusso dal basso e proibiscono ai compagni piú poveri di giungere al grado di maestri. I piccoli artigiani perdono a poco a poco ogni influsso sul governo cittadino, specie sulla distribuzione dei gravami e dei privilegi economici, e alla fine si adattano alla sorte di una piccola borghesia diseredata. I compagni scendono al livello di salariati permanenti, e, cacciati dalle Arti, si riuniscono in nuove compagnie. Cosí fin dal Trecento si sviluppa una particolare classe di lavoratori, che, esclusa da ogni possibilità di ascesa, costituisce ormai il substrato della nuova forma di produzione, già molto simile alla moderna industria104. Se si possa fin d’ora parlare di capitalismo, dipende dalla definizione che si dà di questo termine. Se per economia capitalistica s’intende l’allentarsi dei vincoli associativi, il progressivo espandersi della produzione oltre i confini, ma anche oltre la sicurezza offerta dalle corporazioni; cioè un’attività economica e affaristica esercitata in proprio e guidata dal principio della concorrenza e dal criterio del profitto, non si può non assegnare già il pieno Medioevo all’età capitalistica. Se si ritiene inadeguata questa definizione e si considera come caratteristica essenziale del capitalismo lo sfruttamento – da parte delle imprese – di mano d’opera estranea e il dominio del mercato del lavoro attraverso la proprietà dei mezzi di produzione, e cioè la trasformazione del lavoro da servizio in merce, occorre datare gli inizi dell’era capitalistica dal xiv e dal xv secolo. Certo non si può ancora parlare – neppure per il tardo Medioevo – di una vera accumulazione del capitale, di grandi riserve liquide nel senso moderno, e neppure di un’economia coerentemente razionalistica, regolata solo ed esclusivamente dal principio del rendimento. Ma la tendenza al capitalismo è innegabile fin d’ora. L’individualismo economico, il graduale estinguersi dell’idea di comunità, la fredda praticità delle relazioni personali guadagna ter-

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reno dovunque; per quanto ancora lontana dalla realizzazione integrale del concetto di capitalismo, l’epoca è sotto il segno della nuova forma economica e sotto il dominio della borghesia, in quanto rappresentante del nuovo modo di produzione. Nel pieno Medioevo la borghesia urbana non partecipava ancora direttamente alla creazione della cultura; gli elementi borghesi erano, come artisti, poeti e pensatori, i delegati del clero e della nobiltà, esecutori e mediatori di una concezione che non aveva radici nella loro mentalità. La situazione muta radicalmente nel tardo Medioevo; i costumi cavallereschi, il gusto di corte, le tradizioni ecclesiastiche restano, sotto molti rispetti, normativi anche per l’arte e la cultura borghese, ma ora la borghesia è la vera portatrice della cultura: le opere d’arte sono ordinate per lo piú da privati cittadini, non da re o principi della Chiesa, come nell’alto Medioevo, o dalle corti e dai municipi, come nell’età gotica. Nobiltà e clero continuano a esercitare la funzione di fondatori e fabbricieri, ma il loro influsso non è piú creativo: gli stimoli innovatori provengono ormai quasi sempre dalla borghesia. La concezione artistica di un ceto cosí complesso e scisso da cosí profondi contrasti non poteva naturalmente essere unitaria: non si deve pensare, per esempio, che fosse in tutto e per tutto popolare. Per quanto i fini artistici e i criteri di valore della borghesia fossero diversi da quelli del clero e della nobiltà, proprio ingenui e popolari, e cioè comprensibili senza premesse culturali, non erano. Il gusto di un mercante poteva essere piú «volgare», realistico e materiale di quello di un fabbriciere della prima età gotica, ma non era per questo molto piú semplice, né meno estraneo alla concezione del basso popolo. Spesso le forme di un dipinto o di una scultura tardogotica ispirata al gusto borghese erano anche piú raffinate e capricciose delle forme corrispondenti di un’opera gotica piú antica.

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Il carattere popolare del gusto si rivela piuttosto nella letteratura, che anche ora – come quasi sempre quando si tratta di un «patrimonio culturale decaduto» – penetra in strati sociali piú bassi che non possa fare l’arte figurativa, coi suoi prodotti accessibili solo ai ricchi. Ma anche il carattere popolare delle opere letterarie non è che la manifestazione di uno spirito meno prevenuto, piú disposto a liberarsi dai pregiudizi morali ed estetici della cavalleria; non troviamo mai una vera poesia popolare; mai si afferma la spontanea arte del popolo, indipendente dalla tradizione letteraria dei ceti superiori. L’apologo medievale è sempre stato considerato dalla storia della letteratura e dal folclore come la diretta espressione dell’anima popolare. Secondo la teoria romantica, accolta fino a poco fa da tutti, le storie di animali, tramandate oralmente, passarono dal semplice popolo analfabeta nella letteratura, dove rappresenterebbero una sedimentazione tarda, e parzialmente deformata, delle forme popolari originarie. In realtà il processo sembra essersi svolto in senso inverso. Non conosciamo apologhi popolari piú antichi del Roman de Renart; quelli francesi, finnici, ucraini derivano già tutti dall’apologo letterario, da cui discende, con ogni probabilità, anche la poesia favolistica del Medioevo105. Lo stesso vale per la canzone popolare del tardo Medioevo: che non è se non un tardo rampollo della lirica dei trovatori e dei vagantes, la semplificazione e popolarizzazione della canzone amorosa letteraria. Essa fu diffusa dai giullari piú umili che «suonavano e cantavano per la danza e recitavano appunto le canzoni che vengono considerate come le canzoni popolari dei secoli xiv, xv e xvi, e che erano cantate in coro anche dai danzatori... Molto di ciò che elaborava la poesia latina di allora passò – attraverso di loro – nel canto popolare»106. Che, infine, i cosiddetti «libri popolari» del tardo Medioevo non siano che la versione volgare e prosaica degli anti-

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chi romanzi cortesi, è cosa abbastanza nota e non occorre insistervi. In un solo genere letterario, nel dramma, ci troviamo di fronte a qualcosa che può considerarsi una poesia popolare tardogotica. Neppure qui possiamo parlare di una creazione originale del «popolo», ma almeno della continuazione di una schietta tradizione popolare, tramandatasi nel mimo fin dalla piú remota antichità e raccolta nel Medioevo dal dramma sacro e profano. Insieme con la tradizione del mimo sono passati nel teatro medievale numerosi motivi della poesia d’arte, soprattutto della commedia romana; ma anch’essi avevano radici cosí profonde nel terreno popolare, che per lo piú non fanno che rendere al popolo quel ch’era già suo. Ma specialmente il teatro religioso del Medioevo è vera arte popolare, perché non solo gli spettatori, ma anche gli attori provenivano da ogni ceto sociale. I membri della compagnia sono chierici, mercanti, artigiani, in parte gente qualunque; dilettanti insomma, ben diversi dagli attori del teatro profano, che sono mimi, danzatori e cantori di mestiere. Lo spirito del dilettantismo, che non riuscí mai ad affermarsi nelle arti figurative fino all’epoca moderna, si fa valere nella poesia medievale a ogni avvicendarsi degli elementi portatori di cultura. Anche i trovatori sono, da principio, dilettanti, e solo a poco a poco si trasformano in poeti di mestiere. Dopo il tramonto della cultura cortese, gran parte di questi poeti, che vivevano di impieghi piú o meno regolari presso le corti, resta disoccupata e sparisce a poco a poco. Per il momento la borghesia non è abbastanza ricca, né ha tali pretese letterarie, da accoglierli e mantenerli tutti. Ai giullari subentrano – almeno in parte – nuovi dilettanti che continuano ad attendere alle loro occupazioni borghesi dedicando le ore d’ozio alla poesia. Essi portano nella poesia lo spirito del loro mestiere, anzi sottolineano ed esagerano gli elementi tecnici e artigianali

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della creazione poetica, quasi a riscattare il loro dilettantismo che mal si adatta al solido stile della vita artigiana. Come gli attori del dramma religioso, anch’essi si associano in corporazioni, sottoponendosi a mille regole, precetti e divieti, che per molti rispetti ricordano gli statuti delle Arti. E questo carattere artigiano non si manifesta solo nella poesia degli artigiani dilettanti, ma anche nelle opere di quei poeti di mestiere che, nello stesso spirito, si chiamano «maestri» e «maestri cantori», e si sentono infinitamente superiori agli umili giullari. Essi si foggiano difficoltà artificiali, soprattutto nella tecnica del verso, per eclissare, col loro virtuosismo e la loro dottrina, la massa incolta dei giullari. Questa poesia di scuola, che si ricollega, sia dal punto di vista formale, sia da quello del contenuto, all’ormai antiquata poesia cortese, non solo è la forma artistica piú lontana dalla tendenza naturalistica del gotico tardo – e quindi la meno popolare –, ma è anche il genere letterario meno fecondo del tempo. Il naturalismo dell’arte gotica nel suo fiore corrisponde in certo qual modo a quello della Grecia classica; l’imitazione della realtà si muove anche qui nei limiti di severe forme compositive e rinuncia ai particolari che possono mettere in pericolo l’unità della composizione. Il naturalismo tardogotico spezza (come l’arte del iv secolo a. C. e dell’ellenismo), questa unità formale, e si dedica all’imitazione della realtà con una noncuranza spesso brutale per la struttura formale. Non già il naturalismo in sé è proprio dell’arte tardogotica, ma la scoperta del valore intrinseco di questo naturalismo, che è ormai sovente fine a se stesso e non è piú – o non è piú del tutto – al servizio di un significato simbolico e soprannaturale. I significati trascendenti non mancano neppure qui, ma l’opera d’arte è prima di tutto un’immagine, e non un simbolo che si serve delle forme naturali come di semplici mezzi. La natura in sé non è

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ancora piena di significato, ma è già abbastanza interessante per essere studiata e rappresentata per se medesima. Nella letteratura borghese del tardo Medioevo – apologo e farsa, romanzo in prosa e novella – si manifesta già un naturalismo tutto profano, gustoso e robusto, in radicale contrasto con l’idealismo dei romanzi cavallereschi e coi sentimenti sublimati della lirica d’amore aristocratica. Qui per la prima volta i caratteri sono vivi e veri: e comincia il predominio della psicologia nella letteratura. Tratti di carattere esattamente osservati appaiono già nella precedente letteratura medievale – la Divina Commedia ne è piena – ma, sia per Dante che per Wolfram von Eschenbach, quello che piú importa non è l’individualità psicologica, ma il valore simbolico dei personaggi; che non hanno il loro significato e la loro giustificazione in sé, ma rispecchiano un significato che trascende di gran lunga la loro esistenza individuale. Le descrizioni di caratteri nella letteratura del tardo Medioevo si distinguono dai modi piú antichi per il fatto che i poeti non scoprono piú come per caso i singoli tratti delle loro figure, ma li cercano, li raccolgono, li spiano. Ma proprio questa vigilanza psicologica è, piú di ogni altra cosa, un prodotto della vita urbana e dell’economia mercantile. L’accentrarsi in una città di tanta gente diversa, la ricchezza e il frequente avvicendarsi dei tipi che s’incontrano ogni giorno, bastano già di per sé ad acuire lo sguardo per le peculiarità dei caratteri; ma il vero impulso all’osservazione psicologica è l’esigenza – essenziale nel mercante – di conoscere gli uomini e di saper apprezzare giustamente chi è in rapporto d’affari con lui. La nuova economia urbana, che strappa l’uomo alla stasi delle consuetudini e delle tradizioni, immergendolo in una realtà dinamica, in un mondo in cui mutano di continuo attori e condizioni, spiega anche la nuova curiosità dell’uomo per le cose del suo ambien-

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te. Poiché questo è ormai il vero teatro della sua vita, in esso egli dovrà far buona prova, e dovrà quindi conoscerlo a fondo. Cosí ogni particolare della vita diventa oggetto di osservazione e di rappresentazione: non soltanto l’uomo, ma gli animali e le piante, non soltanto la natura viva, ma la casa e le suppellettili, la foggia del vestire e gli arnesi diventano motivi in sé validi dell’arte. L’uomo di quest’epoca borghese che è il tardo Medioevo, considera il mondo con altri occhi e da un punto di vista diverso da quello dei suoi antenati, tutti rivolti alla vita futura. Egli è, per cosí dire, al margine della via su cui scorre variopinta, inesauribile, incontenibile la vita; e non solo tutto ciò che vi si svolge gli sembra degnissimo di osservazione, ma egli stesso si sente coinvolto in quella vita e in quell’attività. «Paesaggio dei viaggi»107 è il tema pittorico piú adeguato dell’epoca, e nell’altare di Gand la processione dei pellegrini è, in certo qual modo, il paradigma della sua visione del mondo. L’arte tardogotica torna sempre a rappresentare il viandante, chi passa e chi parte: dappertutto cerca di suscitare l’illusione della via, e sempre le sue figure sono sospinte dal desiderio del movimento, dall’amore del vagabondaggio108. Le immagini passano davanti allo spettatore come le scene di una processione: lo spettatore è spettatore e attore a un tempo. E questo mettersi «al margine della via», sopprimendo la netta divisione fra ribalta e uditorio, è l’espressione tutta particolare, che potremmo quasi definire «cinematografica», del senso dinamico della vita proprio dell’epoca. Anche lo spettatore è sul palco, e la platea è insieme lo scenario. Palcoscenico e platea, realtà estetica ed empirica si toccano, formano un mondo solo, continuo: il principio di frontalità è del tutto abolito, l’arte mira all’illusione completa. Davanti all’opera non si è piú esclusi, come chi abiti in un altro mondo, ma si è tratti nella sua

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sfera; e solo identificando l’ambiente della scena con quello in cui ci si trova si raggiunge la perfetta illusione dello spazio. Ora che la cornice del quadro è sentita come la cornice di una finestra attraverso la quale si apre lo sguardo sul mondo, e induce in chi guarda l’impressione di uno spazio continuo al di qua e al di là della «finestra», solo ora lo spazio pittorico acquista profondità e realtà. È dunque merito della nuova visione «cinematografica», condizionata dal senso dinamico della vita, se il tardo Medioevo è in grado di rappresentare lo spazio reale – lo spazio come noi l’intendiamo – ciò che non era riuscito all’antichità né all’alto Medioevo. Ed è soprattutto a questa spazialità che le opere tardogotiche debbono il loro aspetto naturalistico. Benché lo spazio illusorio del tardo Medioevo, confrontato con la concezione rinascimentale della prospettiva, sia ancora piuttosto inesatto e incoerente, si manifesta già, nella nuova rappresentazione dello spazio, il nuovo realismo della borghesia. La cultura cortese e cavalleresca non cessa nel frattempo di esistere e di operare, e non solo indirettamente, attraverso le forme della cultura borghese, che hanno in essa, per piú rispetti, le loro radici, ma anche nelle forme sue proprie, che in alcuni centri, e soprattutto alla corte di Borgogna, hanno una tarda ma rigogliosa fioritura. Qui si può e si deve ancora parlare di una cultura aulica e aristocratica opposta a quella borghese. La poesia si muove ancora nelle forme della vita cavalleresca, e l’arte è ancor sempre al servizio della società di corte. Anche la pittura dei van Eyck, che ci sembra cosí borghese, si sviluppa nella vita di corte, ed è destinata ai circoli della corte e alla borghesia illustre in rapporto con essi109. Ma stupisce – e rivela nel modo piú chiaro il trionfo dello spirito borghese sullo spirito cavalleresco – che il naturalismo prevalga anche nell’arte aulica, e persino nella sua forma piú lussuosa, la

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miniatura. I libri d’ore dipinti per i duchi di Borgogna e per il duca di Berry non solo rappresentano l’inizio del «quadro di costume», e cioè del genere pittorico per eccellenza «borghese», ma per certi aspetti sono l’origine di tutta la pittura borghese, dal ritratto al paesaggio110. Insieme con lo spirito dell’antica arte ecclesiastica e aulica, scompaiono a poco a poco anche le forme esteriori: l’affresco monumentale è sconfitto dal quadro di cavalletto, l’aristocratica miniatura dalla stampa. E la forma che prevale non è soltanto meno costosa, «piú democratica», ma piú intima, piú affine all’animo borghese. Solo il quadro su tavola libera dall’architettura il dipinto, facendone un arredo della casa privata. Ma la tavola dipinta è ancora destinata al personaggio esigente e facoltoso; l’arte della gente modesta, dei piccoli borghesi, se non dei contadini e dei proletari, è la stampa. Xilografia e incisione in rame sono i primi prodotti popolari, relativamente a buon mercato, dell’arte figurativa. La riproduzione meccanica permette di raggiungere lo scopo conseguito dalla poesia con la recita ripetuta di fronte a vasti uditori. La stampa è il riscontro popolare dell’aristocratica miniatura; quel ch’erano i codici miniati per principi e gran signori, sono per i borghesi le incisioni, singole o raccolte in fascicoli, messe in vendita nelle fiere e alle porte delle chiese. La tendenza a diffondere l’arte fra il popolo è ora cosí forte, che la xilografia, piú grossolana e a buon mercato, trionfa non solo sulla miniatura, ma anche sull’incisione in rame, piú fine e piú costosa111. Non si può dire quanto abbia influito sullo sviluppo dell’arte moderna la diffusione di queste stampe. Una cosa è certa: se l’opera d’arte perde a poco a poco quel carattere magico, quell’«aura» che possedeva ancora nell’alto Medioevo, e mostra una tendenza che corrisponde al «disincantamento della realtà» operato dal razionalismo borghese, ciò avviene anche perché ormai essa non è piú

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unica, ma si può cambiare e sostituire, grazie alla riproduzione meccanica112. Un epifenomeno della tecnica e dello sfruttamento della stampa è anche la natura sempre meno personale dei rapporti fra l’artista e il pubblico. La stampa, prodotta meccanicamente, circolante in molti esemplari e diffusa quasi sempre per mezzo di intermediari, ha, rispetto all’opera d’arte originale, un esplicito carattere di merce. E se il lavoro di bottega, dove i garzoni si dedicavano alle copie, tende già alla «produzione di merci», la stampa, coi molteplici esemplari di una stessa immagine, costituisce un perfetto esempio della produzione di scorte, e proprio in un campo che prima conosceva solo il lavoro su ordinazione. Nel secolo xv sorgono officine in cui si copiano in serie anche i manoscritti, illustrandoli con rapidi schizzi a penna; e gli esemplari finiti vengono esposti come in una libreria. Anche pittori e scultori cominciano a produrre scorte, e cosí il principio della produzione impersonale si afferma dappertutto nell’arte. Per il Medioevo, che insisteva sul mestiere e non sulla genialità dell’artista, la meccanizzazione della produzione non era cosí difficile da conciliare con l’essenza dell’arte come lo è per i tempi moderni, e come sarebbe stato per il Rinascimento, se la tradizione medievale dell’arte come attività artigiana non avesse posto alcun limite alla diffusione del suo concetto di genialità.

max weber, Wirtschaftsgeschichte, 1923, p. 124. k. bücher, Die Entstehung der Volkswirtschaft cit., p. 397. 3 Ibid., pp. 139 sgg. 4 r. génestal, Le rôle des monastères comme établissements de crédit, 1901. 5 Cfr. per quanto segue georg simmel, Philosophie des Geldes, 1900, passim e e. troeltsch, Die Soziallehren ecc. cit., p. 244. 6 alfred rambaud, Histoire de la civilisation française, I, 1885, p. 259. 1 2

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte h. pirenne, Les Villes du moyen âge, 1927, p. 192. Cfr. charles seignobos, Essai d’une histoire comparée des peuples d’Europe, 1938, p. 152; h. pirenne, Les Villes cit., p. 192. 9 p. boissonnade, Le travail ecc. cit., p. 311. 10 w. cunningham, Essay on Western Civilisation in its Economic Aspects. Ancient Times, 1911, p. 74. 11 albert hauck, Kirchengeschichte Deutschlands, IV, 1913, pp. 569-70. 12 gioacchino volpe, Eretici e moti ereticali dall’XI al XVI sec. nei loro motivi e riferimenti sociali, «Il Rinnovamento», i, 1907, 1, p. 666. 13 Cfr. per quanto segue i. bühler, Die Kultur des Mittelalters cit., p. 228. 14 h. pirenne, History of Europe cit., p. 238; id., Les Villes cit., p. 201. 15 j. w. thompson, The Literacy of the Laity in the Middle Ages, 1939, p. 133. 16 hans naumann, Deutsche Kultur im Zeitalter des Rittertums, 1938, p. 4. Sulla differenza delle condizioni in Germania e in Francia a questo riguardo: louis reynaud, Les origines de l’influence française en Allemagne, 1913, pp. 167 sgg. 17 marc bloch, La Ministérialité en France et en Allemagne, «Revue historique de droit français et étranger», 1928, p. 80. 18 viktor ernst, Mittelfreie, 1920, p. 40. 19 paul kluckhohn, Ministerialität und Ritterdichtung, «Zeitschrift für deutsches Altertum», vol. LII, 1910, p. 137. 20 marc bloch, La Société féodale, II, 1940, p. 49 [trad. it. La società feudale, Torino 1949]. 21 alfred von martin, Kultursoziologie des Mittelalters, in Handwörterbuch der Soziologie, ed. da A. Vierkandt, 1931, p. 379; j. bühler, Die Kultur des Mittelalters cit., p. 101. 22 gustav ehrismann, Die Grundlagen des ritterlichen Tugendsystems, «Zeitschrift für deutsches Altertum.», vol. LVI, 1919, pp. 137 sgg. 23 hans naumann, Ritterliche Standeskultur um 12oo, in Höfische Kultur, ed. con. Günther Müller, 1929, p. 35. 24 hennig brinkmann, Die Anfänge des modernen Dramas, 1933, p. 9, n. 8. 25 erwin rhode, Der griechische Roman, 1900, 2a ed., pp. 68 e sgg. 26 h. o. taylor, The Medieval Mind, I, 1925, p. 581. 27 e. wechssler, Das Kulturproblem des Minnesangs, 1909, p. 72. 28 Cfr. per quanto segue alfred körte, Die hellenistische Dichtung, 1925, pp. 166-67. 29 wilibald schröter, Ovid und die Troubadours, 1908, p. 109. 30 e. k. chambers, Some Aspects of Medieval Lyric, in Early English Lyrics, a cura di E. K. Chambers e F. Sidgwick, 1907, pp. 26o-61. 7 8

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte m. fauriel, Histoire de la poésie provençale, I, 1947, pp. 503 sgg.; e. henrici, Zur Geschichte der mittelhochdeutschen Lyrik, 1876. 32 e. wechssler, Frauendienst und Vasallität, «Zeitschrift für französiche Sprache und Literatur», vol. XXIV, 1902; id., Das Kulturproblem des Minnesangs, 1909. 33 jacques flach, Les origines de l’ancienne France. II : Les origines communales, la féodalité et la chevalerie, 1893. 34 e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 113. 35 friedrich dietz, Die Poesie der Troubadours, 1826, p. 126. 36 e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 214. 37 Ibid., p. 154. 38 Ibid., p. 182. 39 i. feuerlicht, Vom Ursprung der Minne, «Archivum Romanicum», xxiii, 1939, p. 36. 40 alfred jeanroy, La poésie lyrique des troubadours, I, 1934, p. 89. 41 p. kluckhohn, Ministerialität ecc. cit., p. 15 42 m. fauriel, Histoire de la poésie provençale cit., I, p. 532. 43 Cfr. per quanto segue: i. feuerlicht, Vom Ursprung ecc. cit., pp. 9-11; e. henrici, Zur Geschichte ecc. cit., p. 43; friedrich neumann, Hohe Minne, «Zeitschrift für Deutschkunde», 1925, p. 85. 44 h. von eicken, Geschichte und System ecc. cit., p. 468. 45 konrad burdach, Über den Ursprung des mittelalterlichen Minnesangs, Liebesromans und Frauendienstes, «Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaft», 1918. Gli elementi di questa teoria si trovano già in sismondi, De la littérature du Midi de l’Europe, I, 1813, p. 93. 46 a. pillet, Zur Ursprungsfrage der altprovenzalischen Lyrik, «Schriften der Königsberger Gelehrten Gesellschaft, Geisteswissenschaftliche Hefte», 1928, n. 4, p. 359. 47 josef hell, Die arabische Dichtung im Rahmen der Weltliteratur. Erlanger Rektoratsrede, 1927. 48 Cfr. d. scheludko, Beiträge zur Entstehungsgeschichte der altprovenzalischen Lyrik. Klassich-lateinische Theorie, «Archivum Romanicum», xi, 1927, pp. 309 sgg. 49 alfred jeanroy, Les origines de la poésie lyrique en France au moyen âge, 3a ed., 1925; gaston paris, Les origines de la poésie lyrique en France au moyen âge, «Journal des Savants», 1892. 50 g. paris, Les origines cit., pp. 424, 685, 688. 51 Ibid., pp. 425-26. 52 wilhelm ganzenmüller, Das Naturgefühl im Mittelalter, 1914, p. 243. 53 hennig brinkmann, Entstehungsgeschichte des Minnesangs, 1926, p. 45. 54 werner mulertt, Über die Frage nach der Herkunft der Troubadourkunst, «Neuphilologische Mitteilungen», xxii, 1921, pp. 22-23. 31

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte k. burdach, Über den Ursprung ecc. cit., p. 1010. h. brinkmann, Entstehungsgeschichte des Minnesangs cit., p. 17. 57 f. r. schröter, Der Minnesang, «Germ.-Roman. Monatsschr.», xxi, 1933, p. 186. 58 f. von bezold, Über die Anfänge der Selbstbiographie und ihre Entwicklung im Mittelalter, in Aus Mittelalter und Renaissance, 1918, p. 216. 59 e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 305. 60 a. w. schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst cit., I, 14. 61 etienne gilson, La Théologie mystique de Saint Bernard, 1934, p. 215. 62 bédier-hazard, Histoire de la littérature française, I, 1923, p. 46. 63 e. wechssler, Das Kulturproblem cit., p. 93. 64 edmond faral, Les Jongleurs en France au moyen âge, 1910, pp. 73-74. 65 a. thibaudet, Le Liseur de romans, 1925, p. xi. 66 karl vossler, Frankreichs Kultur im Spiegel seiner Sprachentwicklung, 1921, 3a ed., p. 59 [trad. it., Civiltà e lingua di Francia, Bari 1948]. 67 Ibid. 68 emile freymond, Jongleurs und Menestrels, 1883, p. 48. 69 j. bédier, Les Fabliaux, 1925, 4a ed., pp. 418, 421. 70 e. faral, Les Jongleurs ecc. cit., p. 114. 71 holm süssmilch, Die lateinische Vagantenpoesie des 12. und 13. Jahrhunderts als Kulturerscheinung, 1917, p. 16; cfr. la recensione di wolfgang stammler in «Mitteilungen aus der historischen Literatur», vol. XLVIII, 1920, pp. 85 sgg., e georg von below, Über historische Periodisierungen, 1925, p. 33. 72 Carmina Burana, ed. da alfons hilka e otto schumann, II (Kommentar), 1930, p. 82. 73 j. bédier, Les Fabliaux cit., p. 395. 74 hennig brinkmann, Werden und Wesen der Vaganten, «Preussische Jahrbücher», 1924, p. 195. 75 Cfr. per quanto segue hilka-schumann, Carmina Burana, II, pp. 84-85. 76 max scheler, Wesen und Formen der Sympathie, 1923, pp. 99-100. 77 w. ganzenmüller, Das Naturgefühl ecc. cit., p. 225. 78 alfred biese, Die Entwicklung des Naturgefühls im Mittelalter und in der Neuzeit, 1888, p. 116. 79 wilhelm vöge, Die Bahnbrecher des Naturstudiums um 1200, «Zeitschrift für bildende Kunst», n. s. xxv, 1914, pp. 193 e sgg. 80 henri focillon, Origines monumentales du portrait français, in Mélanges offerts à M. Nicolas Jorga, 1933, p. 271. 55 56

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte arnulf perger, Einortsdrama and Bewegungsdrama, 1929. gottfried semper, Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten, I, 186o, p. 19. 83 viollet-le-duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle, I, 1865, p. 153. 84 «Dans un bel édifice du commencement du xiiie siècle... il n’y a pas un ornement à enlever». viollet-le-duc, Dictionnaire raisonné ecc. cit., I, p. 146. 85 ernst gall, Niederrheinische und normannische Architektur im Zeitalter der Frühgotik, 1915; id., Die gotische Baukunst in Frankreich und Deutschland, I, 1925. 86 victor sabouret, Le voûtes nervurées: rôle simplement décoratif des nervures, «Le Génie Civil», 1928; pol abraham, Viollet-le-Duc et le rationalisme médiéval, 1934, pp. 45, 6o; h. focillon, L’art d’Occident, 1938, pp. 144, 146. 87 Cfr. dagobert frey, Gotik und Renaissance, 1929, p. 67. 88 pol abraham, Viollet-le-Duc ecc. cit., p. 102. 89 paul frankl, Meinungen über Herkunft und Wesen der Gotik, in walter timmling, Kunstgeschichte und Kunstwissenschaft, 1923, p. 21. 90 Cfr. ludwig coellen, Der Stil der bildenden Kunst, 1921, p. 305. 91 richard thurnwald, Staat und Wirtschaft im alten Ägypten, «Zeitschrift für Sozialwissenschaft», iv, 1901, p. 789. 92 carl heideloff, Die Bauhütte des Mittelalters in Deutschland, 1844, p. 19. 93 g. knoop - g. p. jones, The Medieval Mason, 1933, pp. 44-45. 94 Cfr. hans huth, Künstler und Werkstatt der Spätgotik, 1923, p. 5. 95 h. von lösch, Die Kölner Zunfturkunden, I, 1907, pp. 99 sgg. 96 otto von gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, I, 1868, pp. 199, 226. 97 werner sombart, Der moderne Kapitalismus cit., I, p. 85. 98 wilhelm pinder, Die deutsche Plastik vom ausgehenden Mittelalter bis zum Ende der Renaissance, 1914, pp. 16-17. 99 wilhelm vöge, Die Anfänge des monumentalen Stiles cit., p. 271. 100 w. pinder, Die deutsche Plastik ecc. cit., p. 19. 101 f. j. c. hearnshaw, Chivalry and its Place in History, in Chivalry, ed. da Edgar Prestage, 1928, p. 26. 102 max lenz, Recensione a lamprecht, Deutsche Geschichte, 5 voll., in «Historische Zeitschrift», vol. LXXVII, 1896, pp. 411-413. 103 w. sombart, Der Moderne Kapitalismus cit., p. 8o. 104 karl kautsky, Die Vorläufer des neuern Sozialismus, I, 1895, pp. 47, 50. 105 bédier-hazard, Histoire de la littérature française cit., p. 29. 106 w. scherer, Geschichte der deutschen Literatur cit., p. 254. 107 w. pinder, Die deutsche Plastik ecc. cit., p. 144. 81 82

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte h. schrade, Künstler und Welt im deutschen Spätmittelalter, «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenshaft und Geistesgeschichte», ix, 1931, pp. 16-40. 109 j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 389 [trad. it., L’autunno del Medioevo, Firenze 1942]. 110 h. karlinger, Die Kunst der Gotik, 1926, 2a ed., p. 124. 111 g. dehio, Geschichte der deutschen Kunst cit., II, p. 274. 112 walter benjamin, L’oeuvre d’art à l’époque de sa reproduction mécanisée, «Zeitschrift für Sozialforschung», v, 1936, 1, pp. 4o-66. 108

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