freakout n.47 gratis
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gennaiofebbraiomarzo2010 Freak Out magazine # 47
Dove c’eravamo lasciati? Ah! Si! Al ventesimo anniversario di Freak Out Magazine. Grande serata quella di luglio 2009 con i Buzzcocks, eh? Per di più ad ingresso gratuito… alla faccia di tutti quelli che hanno puntato il dito contro il nostro evento riproponendo, dopo oltre 30 anni, ancora la “caccia alle streghe” alla cultura punk e d.i.y. Eravamo duemila! Una grande festa per celebrare la Cultura, quella che muoviamo dal basso. Grazie a tutti! Oggi invece avete tra le mani il nuovo numero, il #47. Leggetelo e conservatelo per bene, con ogni probabilità il prossimo avrà ancora una volta una piccola-grande rivoluzione. Stay Tuned! Io intanto sento il bisogno di ringraziare tutti i collaboratori di redazione, su tutti quelli della versione on-line, il duel:beat, tutti i distributori del magazine e il Neapolis e Kaleidoscope che resistono. Infine, ma non per ultimo, do il benvenuto a Daniel. La cosa più importante che abbia mai fatto. Giulio Di Donna
N°13 della testata giornalistica registrata al tribunale di Torre Annunziata il 17/07/2003 n° 9
Freak Out Magazine C.P. 166, 80059 Torre del Greco (Na) Italia Via Giuseppe Verdi 18 - 80133, Napoli Italia www.freakout-online.com www.freakoutmagazine.it info@freakout-online.com www.myspace.com/freakoutmagazine su facebook.com cerca Freakout Magazine Direttore editoriale e di redazione: Giulio Di Donna Cap o redattore: Daniele Lama Segreteria: Antonio Ciano Red attore Cinema: Sandro Chetta hanno collaborato: Roberto Calabrò, Fausto Turi, Francesco Raiola, Guido Gambacorta, Vittorio Lannutti, Francesco Postiglione, Luigi Ferrara, Olga Campofreda, Micaela De Bernardo, Melissa Velotti, Ilaria Rebecchi, Luca Carusone. direttore responsabile: Roberto Calabrò Distribuzione Nazionale garantita da : Audioglobe, Family Affair, Self, Venus, Eaten by Squirrels, Goodfellas, Abraxsas, Giucar, Helidon, Edel. Ro ma: Brancaleone, Init, Circolo degli Artisti Milano: Supporti Fonografici, Circolo Magnolia, La Casa 139, Bologna: Il Covo, Disco D’oro, Undeground, Estragon Reg gio Emilia: Maffia Firenze: Tenax, Auditorium Flog, Viper,
Torino: Spazio 211, Catania: Zo, Indigena, Mercati Generali Rimini: Velvet Faenza: Mei, Clandestino Osimo: Loop Roncade (Tv ): New Age Siena: Sonar Senigallia (AN): Keo Records Bari Underground, New record Villadose (Ro): Ass. Cult. Voci per la libertà. Freak Out lo trov ate anche a : Verona, Reggio Calabria, Mestre, Potenza, Palermo, Venezia, Perugia, Pisa, Bolzano, Modena, Genova, Bergamo, Piacenza, Massa Carrara, Prato, Latina, Trani, Lecce, Cosenza, Cagliari, Sassari. In Campania: Napoli – Doria83, Centro S. Sofia, Perditempo, Oblomova, Tattoo, Velvet, Mamamù, Fonoteca, MMB, Fnac, Concerteria, Loveri, Duelbeat, Galleria Toledo, Trip, Lanificio25, Arenile Reload, Neapolis festival, La Controra, Cellar Theory, Volver Ercolano – Il Cratere - Torre del Greco – Ethnos, Jah Bless, Suonivisioni Pomigliano D’Arco – Spazio Musica Portici – Fabric, Pompei – Pompeilab Salerno – Disclan, Mumble Rumble, Iroko Avellino – Ananas&Bananas. Caserta – Jarmush, Kingstone Aversa – Zoo Benevento – Morgana Frattamaggiore – Audiozone. VUOI COLLABORARE? METTITI IN CONTATTO CON NOI! Chiuso in redazione il 30 Gennaio 2010 Tiratura 10.00 copie Impaginazione e Layout: Mario Maratea Stampa: SBR Portici In copertina: Les Claypool, nella foto piccola Wayne Coyne dei Flaming Lips
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di Sandro Chetta
La piazza lo vuole. Perciò coram populo parliamo di sexygate Cade Marrazzo Avete saputo dello scandalo Marrazzo dalle sue stesse parole, verso mezzogiorno. Quando con due occhiaie pari minimo ad altri due occhi, il governatore si butta nella selva di microfoni e biascica: “è tutto falso”, ma il viso è un puzzle senza metà dei pezzi. Una smorfia inesorabile tipica di chi ha appena pestato una merda e, ignaro, si ritrova in ascensore con la più bella del palazzo. “Tutto falso” giura, ma sorgono dubbi. Ore 17: un’agenzia ufficializza l’esistenza di ricatti e video con i trans a via Gradoli, quella famosa, del sequestro Moro. Siamo confusi: immaginiamo il Presidente, ex paladino tv, che fa il caschè con una mutanda rossa in testa griffata da una stella a cinque punte. E scandisce il comunicato n°4: “Un gocktail d’amore gon te…” in ciociaro. A mezzanotte, la tremenda verità. Marrazzo guarda i trans e i trans guardano nel sole mentre la Cristoforo Colombo sprofonda senza fretta. Cadde l’onorevole Mele In origine fu l’onorevole Mele. Remember? Cattolico dell’Udc, venne pizzicato nel luglio 2007 con una squillo in un hotel di via Veneto.
Per discolparsi balbettò: “Non sapevo fosse una prostituta. Se ha preso cocaina e pasticche non lo so, io dormivo!”. Un principiante. I tempi ora sono maturi per dichiarare a reti unificate: “…Era una ESCORT (che il 70% degli italiani crede sia una Ford fuori moda), l’ho invitata a casa per leggere i tarocchi a un amico in rotta con la calvizie e il commercialista. Le sconsigliai la cocaina, ché fa male, preparandole un infuso di passiflora e fiori di zucca. Alle 10 siamo andati a dormire nel lettone, ci siamo infilati il pigiama e abbiamo fatto la guerra dei cuscini. In mattinata lei è andata via lasciando un post-it sul frigo: “hai un gradevole aftershave, ci ho pisciato dentro tutta la passiflora”. Però quest’ultima parte giocatevela solo se vi intervista Minoli. Inciampa Bertolaso C’è una foto di Bertolaso all’uscita del Salaria Village, quello dei massaggi. Guido sorride inebetito. Perché? Più che da un’intensa prestazione sessuale, come dicono i giudici, sembra reduce da una partita di calcetto con Denis, finita 0-0. Lui, capo della protezione civile, sempre al cellulare a farsi intercettare dai Ros e il Tanque argentino che sbaglia a ripetizione gol a porta vuota. Berlusconi Signori, che altro dire?
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Finalmente il nuovo album dei canadesi Broken Social Scene Il collettivo canadese Broken Social Scene ha annunciato i dettagli del nuovo album e confermato che torneranno anche in tournée negli States. Il quattro maggio la band di Toronto pubblicherà il suo quinto full-lenght - che non ha ancora un titolo - presumibilmente sempre su Arts & Crafts Records, la label degli stessi leader. In effetti il collettivo, che è arrivato anche a diciannove musicisti, vive con i principali membri: Brendan Canning, Kevin Drew e Justin Peroff. Ma in questo nuovo lavoro prendono parte altri nomi illustri del panorama indie internazionale: Feist, Amy Millan e Evan Cranley degli Stars, Emily Haines e Jimmy Shaw dei Metric, Sam Prekop dei The Sea And The Cake, Spiral Stairs dei Pavement, l’ex dei Death From Above 1979 Sebastien Grainger e membri dei Tortoise tra cui John McEntire, che ne sarà anche il produttore. I Broken Social Scene arriveranno in Europa per una serie di show tra i quali l’imperdibile All To morrow ’s Parties festiv al del 14 Maggio. www.arts-crafts.ca/bss Eighties Colours, Garage, beat e psichedelia nell’Italia degli anni 80 Siamo orgogliosi di annunicare il lavoro svolto dal nostro direttore responsabile Rob er to Calabrò. Dopo un lungo lavoro verrà pubblicato in aprile, dalla prestigiosa Coniglio Editore, “Eighties Colours - Garag e, beat e psiched e lia ne ll’It alia de g li anni Ott ant a“. Un libro scritto da Roberto con passione e meticolosità, profondo nell’analizzare gli aspetti meno commerciali di un periodo italiano che artisticamente viveva una fase molto più intensa, aperta e profonda e non ultima attenta al passato senza rinnegarlo. Gli anni Ottanta non sono stati solo quelli degli yuppies e della Milano da bere, di DJ Television e del pentapartito al potere, ma hanno rappresentato anche un periodo di straordinaria creatività sotterranea. Eighties Colours racconta l’effervescente scena neo-Sixties italiana di quel decennio. Di centinaia di giovani che, stanchi dei dogmi della politica come delle atmosfere oscure del dark e della new wave, decisero di guardare agli anni Sessanta come inesauribile fonte di ispirazione. Il libro ripercorre tutte le tappe di un movimento che per alcuni anni – dal 1985 al 1990 – rivitalizzò la scena musicale alternativa in Italia e all’estero attraverso un circuito in cui si pubblicarono decine di dischi, si pubblicarono fanzine e fogli di controinformazione, si organizzarono concerti e tour. Le testimonianze dirette dei protagonisti di quella scena (musicisti, giornalisti, discografici, promoter e organizzatori), la descrizione di tutti i dischi usciti in quel periodo e un impressionante apparato fotografico rendono l’atmosfera di febbrile eccitazione, di entusiasmo, di spontaneità – anche un po’ naif – di quegli anni irripetibili. note biografiche: Roberto Calabrò (Reggio Calabria, 1971), giornalista, scrive per «L’Espresso», «la Repubblica» e «il Venerdì».
Finalmente in tour Alan Wilder e i suoi Recoil: atteso e richiesto on stage da oltre 25 anni finalmente porterà in giro per il mondo (e per ben due date in italia) la scienza elettronica dei Recoil. Coadiuvato sul palco dal suo amico e collaboratore Paul Kendall (fonico e produttore della Mute records e al lavoro con band del livello di Renegade Soundwave, Fad Gadget, Barry Adamson, Nitzer Ebb, Wire, Depeche Mode, Recoil, Sonic Youth, Big Black, Butthole Surfers, e molti altri). Alan Wilder, anima elettronica dei Depeche Mode fino al 1995, è uno dei progetti elettronici più inovativi degli ultimi 30 anni. Il progetto Recoil nasce nel 1986 quando Alan Wilder era ancora parte integrante dei Depeche Mode, anzi nel periodo di maggior produttività e creatività della celebre band composta da Martin Gore e Dav e Gahan. Dopo tanti anni passati in studio a registrare e programmare nuovi suoni, Alan decise di rendere “reali” tante sue idee innovative non realizzabili con i Depeche Mode, idee fatte dell’elettronica più sperimentale possibile al tempo. Il primo lavoro, dal nome ‘1+2’, vide la luce nel 1986 e presentava i primi accenni di Musica Ambient che la scena elettronica ricordi. Alan, amante dell’elettronica minimale, con il suo esordio a nome Recoil fu visto e accolto come un nuovo guru dei synth. In primavera Recoil pubblicherà ‘Selected’, greatest hits in uscita per Mute records. ecco i dettagli del tour: Venerdì 9 Aprile 2010 M ilano, Magazzini Generali, S ab ato 10 Aprile 2010 Roma, Circolo degli Artisti.
Gog ol Bordello: nuovo album, due tappe italiane in attesa dei festival I Gogol Bord ello, la gipsy punk band americana, sarà di nuovo in italia per un paio di date prima di ritornare a luglio per festival e presentare il nuovo album che uscirà su major. Intanto il 24 maggio suoneranno all’Estragon di Bologna e il 25 maggio all’Alcatraz di Milano. Reduci da una tournèe in Russia e Sud America, gli infaticabili Gogol hanno già in calendario una serie di date tra Australia e Germania (tra cui la partecipazione all’importante ‘Rock am Ring Festival’ tedesco a giugno), anticipate da concerti benefici in favore del popolo di Haiti e della Ong ‘Tibet House’ di New York, a cui prenderanno parte, tra i tanti, anche Patti Smith e
Iggy Pop. Per marzo 2010 è poi atteso un nuovo disco da studio della band, prodotto dal Re Mida del rock Rick Rubin, già al lavoro con Red Hot Chili Peppers, System of a Down, Slayer. Fedeli alla loro tradizione, che valica ogni frontiera, e allo spirito gitano, divisi tra concerti in giro per il mondo, collaborazioni e solidarietà, i Gogol Bordello annunciano che nelle due date italiane di maggio ad aprire i concerti ci saranno anche due nuove band newyorkesi, i Matt & Kim, ovvero la nuova sensazione del “disco punk” americano: il duo risiede a Brooklyn, in pochissimo tempo si è affermata come una delle più interessanti band della scena indipendente newyorkese; e gli El Mariachi Bronx, nuova band nata dalle ceneri del gruppo hardcore punk di LA The Bronx. Il loro suono è una patchanka di melodie tra punk, armonie caraibiche e “tex mex”. Questi gli appuntamenti: GOGOL BORDELLO + Matt & K im + El M ar iach i Bro nx 24-05-10 | Estragon – Bologna; 25-05-10 | Alcatraz – Milano www.gogolbordello.com Fun Lov in’ Criminals, dopo cinque anni un nuovo disco con ... È solo al momento che si ha la fortuna di ascoltarli nuovamente che ci rendiamo conto di quanto siano mancati. I pluripremiati eroi funk/soul Fun Lov in’ Criminals, ritornano sul
luogo del delitto a cinque anni di distanza dalla loro ultima fatica. Classic Fantastic, questo il titolo dell’album, si avvale delle prestigiose collaborazioni di Roots Manuva e Paul Kaye. Huey, Fast e Frank sono stati fuori dalla scena musicale per ben cinque anni a causa della lunga battaglia con il loro ex manager con il quale si sono lasciati, evidentemente male, nel 2003. Il nuovo “Classic Fantastic” esce da quel periodo buio e difficile come solo un’alba radiosa può fare. Formatisi nel 1993, i FLC hanno rovinato la festa di un euforico Britpop con il clamoroso disco, poi diventato un classico, “Co me Find Yo urself”. Quell’album conteneva i singoli ‘Stick ‘em up punk, it’s the Fun Lovin Criminal’ e soprattutto ‘Scooby Snacks’. Così come oggi lo sono The Killers e Kings Of Leon, ai tempi del loro esordio gli stessi Fun Lovin’ Criminals sono stati amati sin dai primi singoli anche in Inghilterra. Durante questi cinque anni di silenzio i tre fratelli del crimine si sono comunque dati da fare in ambito musicale, su tutti Huey che è diventato un carismatico personaggio televisivo e radiofonico in Inghilterra. È infatti conduttore del programma The Huey Show sulla londinese BBC6 e della seria Slips su MTV. funlovincriminals.tv Dopo i sold out di novembre i Wilco tornano in Italia a maggio Dopo i clamorosi due sold out di novembre a Milano e Firenze tornano in Italia per due date i Wilco, uno tra i gruppi più amati e influenti degli ultimi 15 anni, autori di album fondamen-
tali nella storia del rock come Yankee Hotel Foxtrot, A Ghost Is Born e Sky Blue Sky, per presentare il bellissimo e acclamato ultimo album Wilco (the album), uscito in Italia su Warner Music, oltre ai capolavori estratti dai numerosi album precedenti. Il settimo album in studio di Jeff Tw eedy e soci nasce nel gennaio del 2009 praticamente in tour, e viene completato nello studio della band a Chicago con l’aiuto di Jim Scott alla produzione. Wilco (the album) già incluso nelle liste dei
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Da oltre venti anni si occupa di tutto ciò ha a che fare con la cultura underground e il rock’n’roll: è stato a lungo una firma del mensile «Rockerilla» e ha collaborato con molte altre testate specializzate – tra cui «Rumore», «Bassa Fedeltà», «Urlo», «Ruta 66», «I-94 Bar» – in Italia e all’estero. Direttore responsabile della rivista «Freak Out», blogger e appassionato di “citizen journalism”, ha pubblicato Queens Of The Stone Age: il suono del deserto (Arcana, 2004). Per la stessa casa editrice ha curato la revisione editoriale dell’Enciclopedia Rock 1954-2004. www.coniglioeditore.it/
migliori album del 2009 da moltissime riviste specializzate, riesce a combinare perfettamente l’intimità del precedente lavoro Sky Blue Sky (2007) con la sperimentazione di A Ghost Is Born (2004) in un set che vanta solide melodie e strabilianti e spudorati arrangiamenti pop. Questi gli appuntamenti: domenica 30 maggio 2010 – Roma - Auditorium Parco Della Musica (Sala Santa Cecilia) lunedì 31 maggio 2010 – Ferrara – Teatro Comunale www.wilcoworld.net i Bad Brains sono tornati! C’è una tappa italiana per il reunion-tour I Bad Brains sono una seminale band del punk hardcore mondiale. Nativi di Whashigton DC sono una rartità in un mondo - quello punk e h.c - ad uso (quasi)
esclusivo di teenager e giovani/adulti bianchi: i Bad Brains infatti sono tutti afroamericani. Il loro suono nasce nel contesto del più caldo funk e dell’improvvisazione jazz fusion sul finire dei ‘70s per poi virare su territori estremi, trovando una formula unica di hardcore viscerale ultra-veloce e “black”. Allontanati da tutti i club di Washington trovano rifugio a New York dove sposano la religione rastafari e virano sonoricamente verso il reggae. Due loro dischi - quantomeno unici nel loro sound - “Rock The Light“ e “Bad Brains“ sono due album dove l’hc viene esaltato dalla immensa tecnica strumentistica della band, due dischi che sono pietre miliari del rock moderno e che hanno influenzato pesantemente musicisti come Beastie Boys, Red Hot Chili Peppers, Tool, No Doubt e Living Colour. Oggi i Bad Brains tornano per una reunion che avrà dell’indimenticabile, ecco la formazione con cui saliranno sul palco: H.R. - voce; Dr. Know - chitarra; Darryl Jenifer - basso;
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Earl Hudson - batteria. Unica tappa italiana per questa storica rimpatriata è quella di v enerdì 9 Luglio 2010. A breve avremo tutte le informazioni sulla venue, sul costo dei biglietti e sullo spettacolo. The Residents a maggio in Italia con un nuovo show A maggio i The Residents saranno in Italia per ben tre date per presentare il nuovo spettacolo ‘The Residents’ Talking Light’.
La band degli occhi sarà a Roma il 13 Maggio 2010, all’Estragon di Bologna il 14 Maggio e al Teatro Leonardo da Vinci di Milano il 15 Maggio. Il nuovo show dei Residents parla di chi non cammina più tra noi, chi ha lasciato la vita come la intendiamo noi, ovvero i fantasmi. Uno spettacolo nuovo che segue di due anni il disco e relativo tour di ‘The Bunny Boy’. Anche stavolta ci troveremo dinanzi ad una nuova disturbante esibizione della band californiana, e alla messa in scena del loro folle mondo in cui nulla è reale, in cui nulla è terrestre. Questi i dettagli per assistere agli show: Giov e dì 13 Mag gio 2010 - Roma Venerdì 14 Maggio 2010 - Bologna, Estragon Sabato 15 Magg io 2010 - Milano, Teatro Leonardo da Vinci www.residents.com Annunciato lo stratosferico cast del Coachella Festival in California Il Coachella Festival di Indio in California è uno dei maggiori appuntamenti all’aperto degli
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Stati Uniti. Si svolgerà dal 16 al 18 aprile 2010 ed avrà un cast eccezionale. Grandi band recentemente tornate in attività come Pav eme nt, Sp ecials, Sly & The Family Stone e Faith No More saranno solo una costola dello spettacolare cast che alimenterà il festival. Tra questi anche side project di rockstar internazionali come Them Crooked Vultures (di David Grohl e Josh Homme) e i Dead Weather, ma anche il set solista di Thom Yorke che verrà sperimentato sul prestigioso stage del festival. Tra gli altri spiccano LCD Soundsystem, Gary Numan, Vampire Weekend, MGMT, Grizzly Bear, Devo, Phoenix, Spoon e Julian Casablancas; inoltre Jay-Z - headliner della prima serata - e Damon Albarn con i Gorillaz in quali proporranno un set altamente tecnlogico.
Ecco il cast completo: Venerdì 16 aprile: Jay-Z, LCD Soundsystem, Them Crooked Vultures, Vampire Weekend, Deadmau5, Public Image Limited, The Specials, Grizzly Bear, Passion Pit, Echo and the Bunnymen, Benny Benassi, Fever Ray, Grace Jones, She & Him, Erol Alkan, The Avett Brothers, Calle 13, The Whitest Boy Alive, The Cribs, La Roux, Yeasayer, Lucero, DJ Lance Rock, The Dillinger Escape Plan, Proxy, Ra Ra Riot, Deer Tick, Wolfgang Gartner, Aeroplane, Iglu & Hartly, Sleigh Bells, P.O.S., Baroness, Hockey, Little Dragon, White Rabbits, Wale, Kate MillerHeidke, As Tall as Lions, Jets Overhead, Alana Grace, Pablo Hassan. Sabato 17 aprile: Muse (headliner), Faith No More, Tiësto, MGMT, David Guetta, The Dead Weather, Hot Chip, Devo, Coheed and Cambria, Kaskade, 2Many DJ’s, Major Lazer, Dirty Projectors, Gossip, Z-Trip, The xx, John Waters, Les Claypool, The Raveonettes, Mew, Sia, Camera Obscura, Tokyo Police Club, Porcupine Tree, Old Crow Medicine Show, Aterciopalados, Bassnectar, Frightened Rabbit, Dirty South, Flying Lotus, Corinne Bailey Rae, Pretty Lights, Shooter Jennings, RX Bandits, The Almighty Defenders, Edward Sharp and the Magnetic Zeros, Craze & Klever, Zoe, The Temper Trap, Portugal. The Man, Band of Skulls, Girls, Beach House, Steel Train, Frank Turner. Dome nica 18 apr ile: Gorillaz, Pavement, Thom Yorke, Phoenix, Orbital, Spoon, Sly and the Family Stone, De La Soul, Julian Casablancas, Plastikman, Gary Numan, Charlotte Gainsbourg, Sunny Day Real Estate, Yo La Tengo, MUTEMATH, Deerhunter, Infected Mushroom, Club 75, Matt & Kim, The Big Pink, Gil Scott-Heron, King Khan and the Shrines, Florence and the Machine, Yann Tiersen, Little Boots, Miike Snow, Talvin Singh, Ceu, B.o.B., Babasonicos, Owen Pallett, The Glitch Mob, Mayer Hawthorne, Local Natives, Rusko, The Middle East, Hadouken!, The Soft Pack, Kevin Devine, Paparazzi, Delphic, One EskimO. Chi di voi andrà? www.coachella.com Badly Draw n Boy si appresta a registrare il suo settimo album Badly Draw n Boy ha annunciato che presto
entrerà in studio per le registrazioni del suo settimo full-lenght. Damon Gough in arte Badly Drawn Boy ha pubblicato di recente ‘Is There Nothing We Could Do?’ original soundtrack del serie tv ‘The
Fattest Man In Britain’. Gough non è nuovo a questi lavori, basti ricordare il successo ottenuto anni fa con la colonna sonora del film dei fratelli Weitz “About A Boy” con Hugh Grant. Oggi per il cantautore inglese arriva una nuova sfida che lo porterà al settimo lavoro discografico ma, soprattutto, dovrà ripetere il buon successo del 2006 con Born In The U.K. nonchè rinverdire i fasti del 2000 quando con ‘The Hour Of Bewilderbeast’ entrò nell’olimpo del pop internazionale. “Con tutta onestà - dichiara Damon - questo nuovo album sarà un nuovo inizio“. “Sento che devo provare a fare cose che nella mia musica non ho ancora provato, dovrò investigare dentro di me - continua Damon - provando a registrare cose difficili da fare“. In effetti senza il supporto della Emi, che ha chiuso il contratto, le tempistiche e la metodologia di lavoro dovranno necessariamente cambiare per lo strampalato cantautore. www.badlydrawnboy.co.uk
loro più grandi successi “Hunger Strike“. Insomma se in generale le reunion ci lasciano un po’ di amaro in bocca, questa la aspettiamo a braccia aperte. Grunge never died, o meglio Grunge’s coming back! www.chriscornell.com Ennio Morricone, una data a Londra per l’All Tomorrow’s Parties Il maestro Ennio Morricone suonerà con un’orchestra di 100 elementi il 10 Aprile in quel di Londra alla prestigiosa Royal Albert Hall in occasione di una data one-off del festival All Tomorrow ’s Parties sezione live Don’t Look Back series .
Il 2010 comincia con una notizia bomba: la reunion dei Soundgarden Sarà la reunion dell’anno! I Soundgarden tornano assieme e a confermarlo è il leader Chris
Il noto compositore italiano, molto apprezzato dal circuito musicale e cinematografico indipendente, ha collaborato di recente con Quentin Tarantino per le colonne sonore dei film Kill Bill e Inglourious Basterds. www.enniomorricone.it - www.dontlookbackconcerts.com/
Co rnell sul suo twitter. Già tornano alla mente ricordi sbiaditi di un gruppo che ha fatto la storia del grunge. Alice in Chains (anche loro riuniti), Pearl Jam, Nirvana (rip), Soundgarden e tanti altri divennero LA musica degli anni novanta, Sub Pop e Geffen due delle etichette che diedero i fasti al movimento. “I 12 anni di break sono terminati & la scuola è tornata“, e anche sul sito è stato postato un messaggio simile, proprio una settimana dopo che l’ex bassista di Nirvana Krist Novoselic scrisse sul blog di Seattlewekly.com che le voci sulla reunion dei Soundgarden non era vera, dicendo che la notizia l’aveva avuta da una “fonte eccellente”. Appunto Ma a seguire i segni forse avremmo potuto capirlo. Soprattutto il “Tadgarden“ show dello scorso marzo, quando tre quarti del gruppo Kim Thayil, Matt Cameron e Ben Shepherd fecero una jam con Tom Morello (con Cornell negli Audioglobe) e Tad Doyle (leader dei Tad). Poi ci fu la dichiarazione dell’ex Audioglobe a MusicRadar nello scorso aprile, quando disse che era rimasto in ottimi rapporti col resto della band: “Siamo sempre stati buoni amici; vederli riuniti, ultimamente su Youtube? Ho pensato che fosse fantastico. Mi ha dato un’ottima sensazione. Avrei desiderato essere lì!”. Terzo segno la reunion dei Temple of the Dog a ottobre, con Chris Cornell assieme ai Pearl Jam sul palco in California per la reprise di uno dei
Il mondo della musica in lutto: ci ha lasciato Vic Chesnutt La notizia che speravamo di non dover dare è stata pubblicata ieri, 25 dicembre, sul sito della Constellation Records: “circondato dalla famiglia e dai suoi amici, Vic Chesnutt è morto ad Athens, Georgia, oggi pomeriggio, venerdì 25 dicembre alle 14:59“. Appena ieri davamo la tragica notizia del suo coma, causato - secondo alcune indiscrezioni - da un tentativo di suicidio
(leggi qui: http://www.freakout-online.com/ news.aspx?idnews=3505). Nel comunicato pubblicato dall’etichetta di Chesnutt si legge che “maggiori informazioni saranno rese disponibili a seconda della volontà dei familiari e gli amici di Vic”. Per il momento non possiamo che piangere uno dei più emozionanti songwriter degli ultimi anni. www.cstrecords.com Pixies, finalmente in Italia. A Giugno a Ferrara Dopo anni di attesa arrivano finalmente in Italia i Pixies, padri dell’Indie Rock americano e inventori di un nuovo linguaggio rock che ha segnato il punto di partenza per la gran parte dell’alternative rock anni 90. Dalla loro originale miscela di garage-rock,
power-pop e hardcore hanno preso le mosse band fondamentali degli anni 90 come i Nirvana, per stessa ammissione di Kurt Cobain, oltre a numerose altre formazioni del decennio successivo. Combinando sonorità noise, melodie accattivanti, testi enigmatici e armonie pop, i Pixies, considerati anche i precursori del grunge, sono stati in grado di creare uno stile unico e irresistibile che ancora oggi si afferma come pietra miliare del rock alternativo. Formatisi nel 1986 a Boston, Massachusetts, per mano del chitarrista Joey Santiago e del futuro frontman Black Francis, a cui presto si aggiungono la bassista Kim Deal e il batterista Dav id Lo vering, i Pixies vengono presto notati da Iv o Watts-Russell, proprietario di una delle più più prestigiose case discografiche inglesi, la 4AD, che decide di metterli immediatamente sotto contratto. Vede così la luce nel 1987 il primo vero lavoro della band: l’EP Come On Pilgrim, seguito poi nel 1988 dal primo vero album Surfer Rosa, registrato da Steve Albini. Con questo album ha inizio il mito dei Pixies, che subito ottengono il plauso dell’intero mondo musicale e riescono a catturare una schiera di fan d’eccezione come David Bowie e U2 che riconoscono l’enorme portata innovativa di questo album.
Dalla migliore tradizione psichedelica di San Francisco, ecco il ritorno di una delle più potenti e travolgenti band in circolazione, i Black Reb el Motorcycle Club che presenta il nuovo
album Beat The Dev il’s Tatto o (Abstract Dragon /Cooperative Music/Self) in uscita a Marzo 2010. Il nuovo disco, Beat The Devil’s Tattoo, uscirà a Marzo 2010 e nell’attesa i BRMC immettono sul mercato, prima uscita
per la loro etichetta Ab st ract Drag on (distribuita in Europa via Cooperative Music – distr. Self) il loro primo album live ufficiale intitolato semplicemente Liv e. Il CD dal vivo contiene quattordici tracce, mentre il DVD (che è stato girato prevalentemente in bianco e nero, nello stile della band) propone un dietro le quinte dei concerti e il making of di How l, il loro disco del 2005. Il mondo sonoro dei BRMC continua sulla scia della psichedelica, dell’indie-rock e del punkblues con l’influenza di band storiche come Velvet Underground, Jesus & The Mary Chains ma anche di band più underground come i mitici Brian Jonestown Massacre. Influenze oscure e shoegaze che aprono ai BRMC strade diverse rispetto a quelle di band che come loro escono allo scoperto agli inizi degli anni 2000 come The White Stripes e The Strokes. La band californiana è certamente una band rock’n’roll ma di certo non assomiglia a nessuna delle band in circolazione: nelle esibizioni live esce fuori tutto
il loro mondo fatto di noise, ricerca psichedelica, feedback che si fonde alla base pop e blues della loro musica. Il risultato è un sound potente che gli fa guadagnare i favori della critica e del pubblico. La formazione è composta da: Peter Hayes alla voce, chitarra, basso, armonica, tastiere, autoharp e harmonium; Robert Levon Been alla voce, chitarra, tastiere e basso; Leah Shapiro alla batteria. Queste le date del tour italiano: 07 Magg io 2010 Milano - Magazzini Generali; 08 Maggio 2010 Bologna – Estragon; 09 Maggio 2010 Roma - Piper www.blackrebelmotorcycleclub.com
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L’anno successivo arriva il mitico Doolittle, in cui l’impatto melodico e l’impronta pop si fanno più marcati pur se alternati all’urgenza e all’aggressività garage che avevano segnato Surfer Rosa, e che si piazza ai primi posti della classifica sia negli Stati Uniti che in Uk. Nel 1990 è la volta di Bossanova in cui la vena pop prende il sopravvento. Oramai la fama dei Pixies è enorme e nel 1991 il quartetto si esibisce al Festival di Reading come headliner. Nello stesso anno arriva Trompe le Monde, che non ottiene però lo stesso appoggio dei precedenti lavori da parte della critica musicale. Nel frattempo si consuma la rottura artistica tra Black Francis e Kim Deal, e Black Francis nel 1993 durante un’intervista radiofonica annuncia lo scioglimento della band. Nel 2004 arriva finalmente la reunion ed una serie di date live (anche in Italia) culminate nell’esibizione al COACHELLA, i cui biglietti vengono esauriti nel giro di pochi minuti! Seguono performance da headliner nei più importanti festival musicali del mondo: Lollapalooza, e in seguito Leeds e Reading, per i quali la band di Boston sceglie come supporto gli Weezer. Nel 2009 per il ventennale di Dolittle, Black Francis e soci tengono una serie di concerti interamente dedicati a questo album. Nel 2010 arriva finalmente il momento dell’Italia! data unica: 6 giugno 2010 – Ferrara – Piazza Castello www.pixiesmusic.com - www.4ad.com/pixies/
Arcade Fire, in arrivo il terzo album e poi tanti concerti in estate Secondo voci USA gli Arcade Fire pubblicheranno il nuovo album il prossimo maggio. La band canadese arriva così al fatidico terzo lavoro dopo gli splendidi “Funeral” del 2004 e “Neon Bible” del 2007. Dopo la ‘benedizione’ di David Bowie la band di Montreal è diventata un culto, con un sound per palati fini, artisti affascinanti e aristocratici. Capitanati dalla coppia - anche nella vita - Win Butler e Régine Chassagne gli Arcade Fire hanno pubblicato dopo Natale il primo singolo, mentre l’album, prodotto nuovamente da Markus Dravs, già al banco mixer per ‘Neon Bible’, uscirà prima dell’estate per permette alla band di fare un buon tour estivo negli migliori festival d’America ed Europa. www.arcadefire.com
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se la musica fosse una grande presa per i fondelli? Provatelo a chiedere a Les Claypool, uno dei bassisti più influenti e carismatici in circolazione, per la sua vena artistica, per la sua tecnica, per la sua follia, per i suoi testi ironici, per il suo canto sguaiato. Per il suo essere unico. Negli anni novanta coi Primus ha rivoluzionato la musica alternativa americana. Nel successivo decennio ha dato vita a svariati progetti di difficile catalogazione, come i Frog Brigade, gli Oysterhead e i C2B3. Numerose sono le sue collaborazioni: da Tom Waits (“Bone Machine”, “Mule Variation” e “Real Gone”) ai Gov’t Mule, da Buckethead alla sua scoperta Gabby La La, passando per Jerry Cantrell degli Alice In Chains, Adrian Belew , Jack Irons e i Metallica (nell’album “Garage Inc.”, suona il banjo nella cover dei Lynyrd Skynyrd “Tuesday’s Gone”). E poi il cinema, la scrittura, l’arte e la sua etichetta discografica, la Praw n Song, che prende spunto nel nome dalla storica Swan Song dei Led Zeppelin. E se non bastasse ha pure un fan club che è tutto un programma: Club Bastardo (www.clubbastardo.com). Influenzato tanto da Stanley Clarke e Larry Graham, quanto da Geddy Lee dei Rush, annovera tra i suoi miti-amici il compianto bassista dei Morphine, Mark Sandman. Ma Calypool ama
Soda”, un lavoro strabiliante e fuori dalle mode che si piazza a sorpresa al settimo posto della classifica dei dischi dell’anno, stilata dal settimanale Billboard. Il primo singolo estratto “My Name Is Mud ”, invece, entra nella top 10 del “Modern Rock Tracks” (una raccolta delle quaranta canzoni più ascoltate sulle radio rock statunitensi). Il grottesco nonsense di “Welcome To This World“ e “The Ol’ Diamondback Sturgeon” , la strumentale “Hamburger Train“, la fulminante “DMV”, il lancinante grido di dolore “Bob” e la psicotica “Mr. Krinkle” sono alcune delle tracce audaci che il disco del maiale tra le bollicine regala. Il successo crescente li porta a suonare come headliner a Lollapalooza nel 1993 e nei principali festival europei. Partecipano alla riedizione di Woodstock nel ‘94 dove suonano “My Name Is Mud” (il mio nome è Fango) in una situazione surreale: Claypool è costretto a fermarsi per chiedere di smettere di tirare fango sui diffusori. Inoltre, alla fine dello show il pubblico li acclama per un bis, che visto l’elevato numero di band coinvolte nel festival, non era previsto. Ma Les, ritornato sul palco, esegue una versione funambolica di “Master Of Puppets” dei Metallica in un minuto e mezzo. La definitiva consacrazione arriva con la pubblicazione del quarto album in studio “Tales from the
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IL RITORNO DI
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anche travestirsi durante gli show con maschere, abiti stravaganti, cappelli e buffe acconciature. Un personaggio a dir poco eccentrico che, in un quarto di secolo di carriera - divisa tra Primus e svariati side-project - ha prodotto grande musica senza mai cedere alle leggi del mercato. Considerato un autentico guru per un’intera generazione, Les Claypool è un virtuoso del basso elettrico. Il suono che esce dal suo Carl Thompson è inconfondibile. Ti accorgi subito che è lui a suonarlo. Slap, finger-tapping, riff velocissimi e ossessivi, uso sapiente di effetti e uno stile ultrapersonale lo hanno reso un punto di riferimento, un artista straordinario che, oltre alla musica si è dedicatola all’arte a 360 gradi: cinema, letteratura, scultura, pittura, scrittura. E metteteci pure la sua grande passione per la pesca, che se vogliamo è una grande arte. Un audace sperimentatore che fa vivere la musica e che non vive di sola musica. Nato a Richomond (California) poco meno di mezzo secolo fa, ma cresciuto a El Sobrante in una famiglia di operai, a chi gli chiede se è stanco di fare il musicista dopo tutti questi anni risponde: è molto meglio del mio vecchio lavoro da carpentiere! Fin dalla scuola inizia la sua complicità col basso elettrico (suo compagno di classe è stato Kirk Hammett dei Metallica) cimentandosi col rock di Hendrix e dei Led Zeppelin. Proprio i Metallica nel 1986, dopo la morte di Cliff Burton, pensano a lui come sostituto, ma poi ripiegano sul più modesto Jason Newsted perché Les è considerato troppo funky. Sul finire degli anni ottanta è alla guida dei Blind Illusion, una trash metal band della Bay Area guidata da Marc Biedermann. In seguito, con il chitarrista Larry LaLonde (allievo di Steve Vai e fanatico di Frank Zappa) e il poderoso batterista Tim “Herb” Alexander, crea i Primus (inizialmente conosciuti come Primate con Todd Huth alla chitarra e Jay Lane alla batteria). Per un decennio (tra il 1990 e il 2000) il trio di San Francisco è di gran lunga il gruppo più cool della scena indie. Un’autentica cult band che, partendo dalla
Il geniale bassista/cantante leader dei Primus presenta in tre concerti italiani il suo secondo album da solista “Of Fungi and Foe”
strumentazione base del rock (chitarra, basso e batteria), ha saputo inventarsi un suono particolarmente originale. Un marchio di fabbrica, subito riconoscibile. Un crossover che fonde le influenze più disparate: funk,metal, fusion, rock e progressive. L’esordio discografico avviene con un album live “S uck On This” (1989) seguito dal primo lavoro in studio “ Frizzale Fry” (1990). Brani come “John The Fisherman”, “Too Many Puppies” e “Mr. Knowitall” segnano l’inizio della Primus-Era, al grido di Primus Sucks! Con “Sailing The Sea Of Cheese” - pubblicato nel 1991 dalla Interscope - la band californiana si impone definitivamente all’attenzione generale, superando le cinquecentomila copie vendute. Il brano “Tommy The Cat ” vede la partecipazione di Tom Waits. Questa è solo la prima di una serie di collaborazione tra Waits e Claypool nel corso degli anni. Tra le altre composizioni del disco, impossibile non citare “Jerry Was a Race Car Driver” (che diviene colonna sonora del primo episodio del videogame Tony Hawk’s Pro Skater), “Those Damned Blue-Collar Tweekers”, “American Life”, “Here Come The Bastards” e l’ipnotica “Fish On”. Nel 1992 pubblicano “Miscellaneous Debris”, una raccolta con rivisitazioni di brani di Peter Gabriel, Pink Floyd, Xtc, Residents. L’anno successivo è la volta di “Pork
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Punchbow l”, datato 1995 e subito disco d’oro. Il tormentone “ Wy nona’s Big Brown Beav er ” impazza in radio e su Mtv. Brani come “Southbound Pachyderm” e “Professor Nutbutter’s House Of Treats” mostrano ancora una volta l’enorme talento della band. Mai scontati, mai uguali a se stessi, col basso di Claypool sempre in primo piano. Realizzano inoltre la sigla di “South Park” (gli autori Trey Parker e Matt Stone sono grandissimi fan dei Primus) e partecipano alla compilation Chef Aid, legata sempre a South Park, col brano “M ephisto and Kevin”. Con l’uscita di Tim Alexander dalla band e l’arrivo di Bryan “Brain” Mantia (ex Goldfish e attuale batterista dei Guns N’ Roses, o meglio del gruppo di Axl Rose) lo stile del combo di San Francisco vira verso un crossover più vintage e orecchiabile. Non a caso il “Brown Album” (1997) è interamente registrato in analogico al Rancho Relaxo, lo studio di registrazione - ma anche dimora - di Claypool. “Shake
LES CLAYPOOL Hands With Beef “e “Over the Falls” sono i due singoli estratti. Se i Beatles hanno pubblicato il “White Album” e i M etallica il “Black Album”, noi allora pubblichiamo il “Brown Album” ! Un anno dopo eccoli tornare con l’Ep “Rhinoplasty”, una raccolta che comprende cover, esecuzioni dal vivo e il remix di “Too Many Puppies“. Nel disco compare anche una versione di “The Thing That Should Not Be” dei Metallica (ecco, ci risiamo…). Tra me e i Metallica c’è solo sesso , dichiarò Claypool in occasione della conferenza stampa tenuta prima del concerto al Neapolis Festival nel luglio del 1998. Antipop (1999), album dal titolo più che mai esplicito, è l’ultimo vero lavoro in studio del trio. “È una risposta a quella che è stata la radio degli ultimi anni: zuccherosa, flaccida e noiosa “. Numerosi gli ospiti presenti nel disco: Tom Morello (Rage Against The Machine), Fred D urst (Limp Bizkit), Stew art Copeland (Police) e soprattutto Tom Waits che suona il mellotron nella conclusiva “Coattails of a Dead Man”. Con l’arrivo del nuovo millennio, gli orizzonti musicali di Claypool si allargano ulteriormente. L’avventura dei Primus viene momentaneamente sospesa e iniziano a nascere svariati progetti, tutti diversissimi tra loro. Come già accaduto in passato con “Riddles Are A bound Tonight” dei S ausage (1994) e “Highball w ith the D evil” dei Les Calypool & The Holy M akarel (1996) arrivano nuovi lavori dalle imprevedibili, quanto ironiche, composizioni. Stavolta è il turno dei Les Claypool’s Frog Brigade. Tre i dischi all’attivo: nel 2001 “Liv e Frog Set 1” e “Liv e Frog Set 2” (la riproduzione live dell’album Animals dei Pink Floyd) e nel 2002 “Purple Onion”. Contemporaneamente forma con Stew art Copeland e Trey A nastasio (Phish) gli Oy ste rhe ad, un eccezionale trio che pubblica per la Elkekra Records l’abum “The Grand Pecking Order”. Nel 2003 i Primus si riuniscono con la formazione originale, per un tour e per registrare l’EP/DVD “Animals Should Not
Try to Act Like People”: cinque inediti più tutti i videoclip e alcune rarità. Un lavoro che lo stesso Claypool definisce come il primo DVD con musica in aggiunta. Il tour reunion dei Primus riscuote un grande successo e fa segnare svariati sold out. Pubblicano così il Dvd “Hallucino Genetic”: il concerto integrale tenuto all’Aragon Ballroom di Chicago. Durante quello show (in piena contestazione all’amministrazione Bush) Claypool invita gli spettatori a uscire dal teatro per andare al cinema a vedere “Fahrenheit 11/9” di Michael Moore. Nel 2005, mentre i Primus si esibiscono al Lollapalooza e al Vegoose, Les trova il tempo di creare un nuovo side-project chiamato Les Claypool & His Fancy Band. Un anno prima era stata la volta dei C2B3, ovvero i Colonel Claypool’s Bucket of Bernie Brains. Un quartetto che comprendeva Buckethead alla chitarra, Bryan Mantia alla batteria e Bernie Warell (Parliament/ Funkadelic) alle tastiere e che ha pubblicato il disco “The Big Eyeball in the Sky”. Nel 2006
l’esordio come scrittore, pubblicando “South of the Pumphouse ” per Akashic Books. Il libro - torbida ed esilarante storia nera che narra le vicende di due fratelli agli antipodi - è stato pubblicato anche in Italia (tradotto da Fabio Genovesi) col titolo: “A sud del capanno”. Ma la sua verve creativa si estende anche ala scultura e a varie forme di arte. Di recente ha realizzato anche un film come attore e regista dal titolo “Electric Apricot”: una parodia della scena delle jam band, nella tradizione dei finti documentari di Spinal Tap. “Electric Apricot” è anche un cd, con Les che suona la batteria e canta in diversi brani. Nel film “Pig Hunt” di James Isaac, invece, veste i panni di un sacerdote, oltre a curarne parte della colonna sonora. Il suo ultimo album – il secondo da solista - s’intitola “Of Fungi And Foe” e segue di tre anni il precedente “Of Whales And Woe”. 12 brani, tra strampalerie varie, voci da cartoon, archi deformati, testi ironici e un pizzico di follia psichedelica, che rendono difficilmente decifrabile le sue coordinate. Ritmi ossessivi, rumori, jingle per videogame, riff sincopati e atmosfere dilatate creano un crossover estremo che lascia poco spazio alla forma canzone. Tra gli ospiti, Eugene Hutz dei Gogol Bordello che canta e suona la chitarra in “Bite Out Of Life”. A marzo di quest’anno, Claypool torna in Europa (dopo oltre dieci anni di assenza) per un tour che partirà dall’Inghilterra - l’8 al Koko di Londra, già sold out - e toccherà la Germania, l’Olanda, la Svizzera e l’Austria, per poi concludersi il 25 al Barby Venue di Tel Aviv. Dall’11 al 13 marzo sarà anche in Italia, rispettivamente all’Alcatraz di Milano, all’Estragon di Bologna e al New Age di Roncade (Treviso), con gruppo spalla gli Hot Head Show (la band di Jordan Copeland, figlio del suo amico Stewart). Tre concerti-evento imperdibili, che segnano il ritorno dell’uomo che ha “navigato i mari di formaggio”, senza mai affondare! www.lesclaypool.com Umberto D i Micco
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FLAMING LIPS
di Daniele Lama
uemilaeuno. Sala Stampa del Festival di Benicàssim (ben prima che quest’ultimo diventasse un evento per teenagers inglesi ingordi di sangria e brit-rock). Wayne Coyne, leader indiscusso dei Flaming Lips, si presenta in conferenza stampa poche ore dopo un concerto che ha lasciato migliaia di persone - compreso il sottoscritto - a bocca spalancata. Ad una domanda di una giornalista riguardo i prossimi progetti della sua band, Wayne risponde - serio “L’unica cosa che m’interessa, al momento, è realizzare un film natalizio ambientato su Marte”. Prevedibili risate generali. Duemilaotto, sede napoletana di una famosa catena di negozi di dischi & altro. Mi ritrovo tra le mani il DVD “Christmas On Mars”, e non posso fare a meno che ricordare conferenza, ridendo sotto i baffi. Marco quella Messina “L’hanno fatto sul serio”, ho pensato. Ebbene si: i Flaming Lips sono una delle poche band al mondo capaci di realizzare i propri sogni, o semplicemente rendere sotto forma d’opera d’arte tutte le proprie allucinazioni, conservando quello spirito “freak” che li contraddistingue fin dagli esordi. Ovviamente potete obiettare che, scavando (neanche troppo) nell’underground, ci sono in giro centinaia di band che fanno musica al di fuori degli schemi, fregandosene di tutto e di tutti. Certo. Ma qui parliamo di un gruppo che incide da ormai dieci anni per una major (la Warner), e che attira migliaia di persone ai propri concerti. Una cosa ben diversa da un fenomeno per “pochi iniziati”, insomma. Una band - fondata da Coyne nel lontano 1983 dopo aver rubato degli strumenti musicali in una chiesa (!) - semplicemente “unica”, dalla biografia travagliata (ad alto tasso di sostanze stupefacenti) e piena di bizzarrie, che ha subìto traumatici cambi di formazione, che è passata dalle auto-produzioni dal sapore garage (le prime pubblicazioni sono raccolte nell’ottimo doppio “Finally The Punk Rockers Are Taking Acid” del 2002) alla firma di un contratto per una multinazionale; che avuto il coraggio di pubblicare
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un sogno psichedelico lungo (quasi) trent’anni
(era il ’97) un’assurdità come “Zaireeka”, quadruplo CD concepito per essere ascoltato in contemporanea da quattro lettori CD diversi (stavate pensando ai Radiohead quando si parlava di gruppi major capaci di sperimentare? non scherziamo!), che dal vivo si presenta contornata di decine di comparse mascherate (alieni, babbi natale, stramberie d’ogni genere) e un cantante che spesso e volentieri si lancia sul pubblico avvolto in un’enorme pallone di gomma trasparente (vedere video su youtube per credere). Una band che è capace di rendere commovente un brano di Kylie Minogue (la cover di “Can ‘t Get You Out Of My Head”), di scrivere ballad tra le più belle che le vostre orecchie potranno mai ascoltare (“Do you realize“) e di farsi citare in giudizio per plagio da Cat Stevens. Una band che per realizzare un videoclip fa appello ai propri fan che abbiano voglia di farsi riprendere mentre girano in bici completamente nudi (!), che è capace di regalarci uno dei più grandi dischi pop degli ultimi tempi (“The Soft Bulletin”), per poi finire in classifica, nella top 10 di vendite in America - per la prima volta in 26 anni di carriera - con un disco lungo e ostico come “Embryonic”, il suo ultimo LP (senza considerare il rifacimento per intero di “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd, realizzato avvalendosi della collaborazione di Henry Rollins, Peaches e i Stardeath and White Dwarfs , che di punto in bianco è spuntato qualche settimana fa in vendita su iTunes). Un (capo)lavoro in cui i nostri eroi decidono di ri-tuffarsi a capofitto nella psichedelia più acida e deviata, facendo in un sol colpo svanire i dubbi su di un presunto calo d’ispirazione (l’ultimo “vero” disco della band, “At War With The Mystics”, del 2006, non sarà senz’al-
tro ricordato come uno dei migliori della sua lunga discografia) e dimostrando che gli ex-ragazzi di Oklahoma City possono mangiarsi in un sol boccone le nuove generazioni di musicisti neo-psichedelici (dagli Animal Collective in giù). “Embryonic” è un lungo viaggio lisergico, in cui i suoni sono saturati, riverberati, distorti fino al parossismo: un fiume di magma rovente in cui gli strumenti si fondono fino a perdere le proprie connotazioni timbriche. Un concentrato di rock acidissimo, lasciato libero di fluire, sporcato di pesanti influssi kraut, eppure mai “vittima” di spinte auto-referenziali o di sperimentazioni fini a se stesse: la band, incredibilmente ispirata, non perde mai di vista il fattore emotivo, pur celando il proprio peculiare spirito pop sotto una “scorza” ispida e d apparentemente impenetrabile. L’inizio del disco lascia senza fiato: “Convinced of the Hex” si muove su un ipnotico groove iper-distorto, con una fitta trama delirante di chitarre e suoni di imprecisata provenienza sullo sfondo a graffiarci le casse; “The Sparrow Looks Up At The Machine” immerge una melodia dolcissima in una lenta spirale di rumori, effetti, feedback, disturbi; “Ev il”, semplicemente struggente (“I wish I could go back / Go back in time / But no one ever really can / Go back in time”), combina un’anima quasi soul, cori angelici e un tappeto sonoro fatto di poche, evanescenti note in loop. Il disco riserva sorprese ad ogni angolo: “Pow erless” è un lentissimo dub infernale con un lancinante assolo di chitarra tremolante, “Silv er Trembling Hands” è puro pop à la Flaming Lips, con dei suoni liquidi che ricordano i primi Tortoise, “The Impulse” è un trip in assenza di gravità, con la voce di Wayne che riesce ad essere emozionante anche se filtrata dal vocoder. La sensazione di trovarsi in un’atmosfera spaziale è ricorrente (e sappiamo quanto la fantascienza e l’immaginario sci-fi in generale siano temi cari alla band), a tal punto da far pensare quasi ad un concept album (ascoltate “Virgo Self-Esteem Broadcast”, ad esempio, o la placida “Gemini Syringes”, con la voce del matematico Thorsten Wörmann), “I can be a frog” dà invece libero sfogo alla vena surreale della band (“She said I can be a frog / I can be a bat / I can be a bear / Or I can be a cat”), che ospita Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, impegnata (dal telefono di casa sua) a far versi di animali. Chi pensava che con la “maturità” i Flaming Lips avessero finito per “normalizzarsi”, adagiandosi sul proprio status ormai consolidato di abilissimi autori di pop adulto e ricercato, resterà a bocca aperta. “Embryonic” è il capolavoro che non t’aspetti. Pura gioia per le nostre orecchie stanche di tanto appiattimento creativo. Tra i capitoli più entusiasmanti di una storia semplicemente surreale. Come un Natale da festeggiare su Marte.
Tw o Door Cinema Club - Roma, Akab 02.02.2010 Si era parlato di un band che secondo il fiuto di molti (NME compreso) avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere la rivelazione del 2010. Sia dato il caso, che proprio tale band sarebbe passata per Roma in toccateffuga, all’Akab. Il fatto è che da un po’ di tempo- mi dico- quello che pensa NME bisogna considerarlo come un OGM: la maggior parte dei fenomeni che ci hanno propinato negli ultimi due anni almeno altro non erano che adolescenti obbligati al digiuno, purificati dall’acne con metodi chimici altamente corrosivi, infine infilati in un involucro d’alta moda stretto a puntino (da cui si può dedurre sia derivato l’effetto “voce bianca”). Dopo uno sguardo veloce al myspace, senza avere tempo di ascoltare i brani, accanto all’immancabile occhiale a montatura spessa da nerd del bassista, alla pettinatura da secchione e il bello stile degli altri membri, mi scappa di leggere che i Tw o Door Cinema Club sono irlandesi di Belfast. Questa cosa mi tormenterà per tutto il tragitto verso Testaccio, come pure i loro dati anagrafici: il più grande del gruppo ha 23 anni. Ventitrè. Al che vi sottopongo un piccolo momento di brain training: se all’alba del 2010 questi ragazzi hanno vent’anni (venti!) e hanno firmato con l’etichetta francese Kitsune (almeno) nel 2009, anno che li ha visti già calcare il palco del Glastonbury e degli studi della BBC, possiamo considerare (almeno) due anni di lavoro che sottratti a venti…fanno 18. Insomma. Per farla breve all’ingresso dell’Akab alle 10 e mezza tre ragazzi tentavano di entrare al locale e l’addetto all’apertura insisteva che il locale era ancora chiuso, che avrebbe aperto dopo le undici, e neanche. Scambio due parole con loro una volta dentro, risolto ogni dubbio identitario: i Two door cinema club non si sono ancora montati la testa, mi raccontano dei loro concerti, che si succedono irrefrenabili da circa due anni, mi raccontano di quando erano a scuola, alla grammar school di Belfast e di quando hanno semidistrutto il locale di un concerto a Vienna promosso da FM4, uno dei loro primi eventi importanti. Ci andiamo a bere una
birra in attesa che si faccia ora della performance e allora ho l’occasione di constatare che gli occhiali del bassista sono veri occhiali da vista, che evidentemente alla grammar school s’è chinato troppo su quel vocabolario, che il pomeriggio ci ha perso tempo, magari, con gli spartiti e le corde. Un po’ sorrido sollevata, lo ammetto. Un segno stupido, da cui, magari esagerando, ho estrapolato un senso di autenticità che ho sommato alle radici irlandesi, alla passione per l’elettronica e ai loro (nostri?) vent’anni chiusi insieme agli anni zero. A questo insieme di cose corrisponde esattamente il loro modo di fare musica: fresca, articolata, veloce, melodica ma mai al punto del già vistogià sentito. All’attacco delle prime note di Come back home, la seconda traccia di Tourist History, in uscita a Marzo, ogni singola porzione dell’Akab è occupata, alla seconda canzone, Und e rco v e r Mart yn, primo singolo di lancio, molti iniziano a ballare come nei migliori dj set dei weekend romani. E non smettono più, accompagnati dalla chitarra che sparava note come da una mitragliatrice, senza sosta, con una concentrazione da cesellatore. Difficile dire se i Two door cinema club siano o meno animali da palcoscenico, ristretti com’erano sul piccolo stage dell’Akab, ma la musica la sanno fare e non hanno bisogno di esibirsi in altro modo. Fanno esibire il pubblico. I quaranta minuti che hanno visto i Two door cinema club suonare sul palco sono stati un’intensa lezione di aerobica, la sensazione che tutto è durato forse troppo poco ha lasciato un po’ di amaro, quanto basta per tornare a riascoltarli a casa, dal myspace, in attesa che esca l’album. www.myspace.com/twodoorcinemaclub Olga Campofreda 24 Grana + Libera Velo – Napoli, duel:beat 09.01.10 Un Duel:Beat stracolmo, una fila di persone lunga svariate decine di metri, incurante della pioggia e del freddo, che congiungeva l’ingresso del piccolo club napoletano al centro dell’enorme parcheggio del locale, hanno accolto come si deve uno degli esponenti più importanti della musica campana. Francesco Di Bella, leader dei 24 Grana, sui palchi da più di dieci anni, è tornato a dare spettacolo in occasione di iSabato, rassegna di musica indiependente curata da Freak Out. Dopo la sua ultima esibizione, sempre al Duelbeat di qualche settimana prima ma con un’altra formazione, sabato 9 gennaio Di Bella è stato giustamente premiato da un bagno di folla come pochi che ha saturato ogni spazio possibile all’interno del locale. Non sono state poche le persone che, vista la capacità del club, sono dovute rimanere fuori. Alle 23:30 il concerto è stato aperto da Libera Velo. Assolutamente nulla da eccepire nella sua esibizione, d’altronde il collaudato binomio Libera – 24 Grana non è una novità: da anni ormai i due artisti hanno condiviso il palco in numerosissime occasioni con risultati davvero degni di nota. Libera offre al pubblico mezza dozzina di brani, per poco più di mezzora di show, riuscendo però a costruire in questo breve lasso di tempo un magnifico rapporto con il pubblico. Quest’ultimo, ad eccezione delle prime file, non canta. Ma ciò, in questo caso, non vuol significare nulla: il groove c’è ed è evidente. La folla, infatti, reagisce quantomai positivamente, lasciandosi andare ad ogni occasione anche a semplici “la, la, la” pur di
accompagnare l’artista. Un’ottima vocalità, affiancata da scelte stilistiche originali ed inaspettate (non capita proprio di vedere tutte le sere suonare un kazoo) hanno reso l’esibizione di Libera Velo tra le migliori della rassegna per quanto riguarda i gruppi d’apertura. Bella anche l’idea di distribuire i testi di una “ballata anarchica”: Il Galeone, poesia dell’anarchico carrarese Belgrado Pedrini, scritta nel 1967 dalla galera di Fossombrone e musicata in seguito da Paola Nicolazzi. Il pubblico apprezza e stavolta, non avendo alcuna scusa, canta con piacere. Libera chiude con Vaginal Trips, senza prima dimenticare un breve ma incisivo tributo a I’m w aiting for the man dei Velvet Underground. Il tempo dei saluti al pubblico, un rapido cambio di strumenti accompagnato da una bella selezione musicale, e poco dopo le 00:20 salgono sul palco gli headliners. I 24 Grana hanno offerto un vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo, aprendo con pezzi di Ghostwriter, l’ultimo lavoro quasi cantautoriale di Di Bella fino a Loop, uscito ben 13 anni fa. Una scaletta che ha lasciato senza fiato sia i nuovi ascoltatori che gli aficionados, da L’alba fino a Lu Cardillo, passando per l’immancabile Accireme (tra le più acclamate della serata) a Perso into ‘o cavero, dando la possibilità ai presenti di usufruire quasi di una sorta di doppio spettacolo, riuscendo a soddisfare sia chi è rimasto incantato dalla capacità compositiva dimostrata nell’ultimo album sia chi si sente ancora legato strettamente alle sognanti sonorità dub talvolta allegre e talvolta rabbiose, dei primi, storici, lavori: tra la voglia di cantare e quella di interfacciarsi quasi fisicamente con le onde sonore provenienti dalle casse. Uno spettacolo che colpisce bene e a fondo, migliorato ancor di più dal modo di porsi di Francesco che, dal palco, non delude mai: i suoi “Grazie uagliù” e le piccole confusioni riguardanti gli attacchi ed i testi sono dettagli che non fanno nient’altro che renderlo ancora più amato dalla folla. Il pubblico non fa che aspettare l’occasione per ringraziarlo con scroscianti applausi e cori da stadio, bypassando il semplicistico rap-
porto artista-spettatore, fino ad urlare per qualche minuto “Francesco, uno di noi!”. Tra una Kanzone su un detenuto politico e Carcere, si arriva alla fine del concerto che si conclude, senza la canonica uscita e rientro degli artisti sul palco “per farvi risparmiare tempo ed applausi” con un valzer da ballare assieme a Libera Velo: Sbaglio e parol’. Così, in un’atmosfera rilassata, dopo oltre un’ora e mezza di pogo, a volte anche un po’ forzato, la serata si è chiusa in bellezza, riconfermando la capacità artistica, compositiva e di presa sul pubblico, di quello che è diventato più che meritatamente uno dei gruppi storici di Napoli. Di Bella sbaglierà le parole, non saprà se ha avuto la costanza, vestirà sempre uguale ma, questo è certo, è incapace di deludere. www.24grana.it A. Alfredo Capuano
live report
Depeche Mode - Parigi Bercy 20.01.2010 A un certo punto del concerto, eravamo sulle note di Policy of truth, con i palloncini che invadevano i lead alle spalle del gruppo e quelli veri nelle prime file... ho pensato che gli ’80 non li ho vissuti coscientemente (musicalmente si intende!), ma probabilmente sarebbero stati anche un po’ così... elettronici. Pensare che fino a qualche anno fa, per me tutto chitarra, basso, batteria un pensiero del genere sarebbe stato non solo impossibile, ma da condannare assolutamente. Sarà che Gore, Gahan e soci nonostante l’età, i soliti “ultimi album che non sono come i primi” etc... danno un bel po’ di punti ai gruppi che tanto ci piacciono, ma che live lasciano non poco a desiderare. Il concerto di Parigi, a Bercy presso le Palais Omnisports, a dispetto di un ultimo album non proprio indimenticabile è stato assolutamente piacevole. Due date andate complete, megapalco, lead con bei visual e audio ottimo hanno aiutato una performance che ha mescolato momenti di energia pura ad altri da pelle d’oca. Non siamo nella bolgia che preme sul palco, ma le gradinate tornano una visuale completa, che fa godere a pieno anche dello spettacolo della scenografia e soprattutto dei fan, uno spettacolo nello spettacolo. Il concerto ovviamente prevede pezzi dell’ultimo album come il singolone Wrong, ma anche Hole to feed, ma è stato soprattutto un best of, un percorso attraverso la loro carriera musicale, con tutte le loro canzoni più famose (e anche qui i fan hanno storto il naso: chiedevano più bside!): Walking in my shoes, It’s not good e A question of time. Con Precious torniamo nei 2000 (2005 per la precisione, l’album era Playing the Angel), ma è un attimo, dato che arriva subito World in my eyes e con lei I hav e learned so much una poesia di Daniel Ladinsky che accompagna i DM sul lead. Se fino a quel momento protagonista assoluto del palco era stato Gahan che si dibatteva sul palco senza fermarsi e con i tatuaggi ben in vista, con Free Lov e e Home il palco è quasi tutto per Gore che rimane solo con la chitarra e le tastiere di Fletcher molto nascoste sul palco. Da pelle d’oca... Si riprende, un attimo di fiato e Across the Universe torna protagonista con Come back alla quale fa subito da contraltare coi suoi palloncini Policy Of the truth, quasi a voler rimarcare che questo è un best of tour. In your room e I feel you precedono gli astronauti che accompagnano Enjoy the silence e le mani che si muovono al ritmo di Nev er Let Me Down Again chiudono lo show... fino ai
20 minuti di bis! Con Dressed in Black si riaprono le danze poi Stripped e Be hind t he wheel fino alla chiusura, che non poteva che essere affidata a... Perso nal Jesus, ovviamente. La stessa Personal Jesus, blusissima!, che la sera prima era stata anticipata da qualche nota di I just can’t get enough, grande assente della serata. I Depeche escono, poi rientrano, tocca ai saluti e ai ringraziamenti un paio di minuti a beccarsi applausi e... ciao ciao. www.depechemode.com/ Francesco Raiola
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recensioniTOP3 12
Blur
Tom Waits
Fionn Regan
All The People - Live at Hyde Park
Glitter And Doom
The Shadow Of An Empire
(EMI)
(Anti)
(Heavenly)
l ventunesimo secolo ha aperto le porte dell’Europa e ha moltiplicato le capitali che fanno tendenza. Vent’anni fa, però, Londra deteneva il primato indiscutibile restatogli addosso dai tempi dei caschet-
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ti dei Beatles. L’english style si è diffuso a macchia d’olio tra i desideri dei più giovani che in quegli anni si tenevano ben stretta la loro musica, un sound nuovo, non preso in prestito dai genitori: il britpop era figlio delle loro passioni e dei loro idoli che portavano il nome di Oasis e Blur. E per i primi dieci anni di vita le due band si sono rincorse a suon di successi mondiali, giungendo al nuovo millennio con qualche titubanza. Ai fratelli Gallagher piace litigare e annunciare scioglimenti del gruppo, i Blur – invece – si sono sciolti sul serio. Erano anni che non li vedevamo insieme, poi in un caldo 2 luglio a Londra un mare di gente è stata protagonista della loro reunion sul palco di Hyde Park (perché le cose vanno fatte per bene!); il tutto è stato replicato il giorno successivo. Le serate sono ora su due doppi dischi intitolati “All The People” e con scaletta identica, una sorta di ringraziamento a chi c’era e ai nuovi arrivati. Un regalo natalizio che Damon Albarn e soci incartano per i fans, mettendoli anche in copertina e lasciandoli trepidare per l’uscita del documentario sulla loro storia “No Distance Left To Run”, in Inghilterra da questo gennaio. È una festa che si apre con “She So High” e ripercorre la lunga storia d’amore attraverso “Out of Time”, “Tender”, “Chemical World”, “End of a Century”, “Song2” e si chiude con la magia di “The Univ ersal”. Una scatola senza fondo dalla quale ognuno tira fuori ciò che trova: i ricordi, l’eleganza musicale, i video, le colonne sonore, le vacanze, l’amore lontano, il ritorno a casa, la moda inglese. Siamo lontani dagli sterili bestof, siamo invece molto vicini alla commozione per il tempo che passa e che ci ripropone le note degli attimi passati. Onde evitare sdolcinerie, però, festeggiamo bevendoci su… come gli inglesi ci insegnano! www.blur.co.uk Micaela De Berardo
osa si può dire di un personaggio e un musicista di cui è stato già detto tutto? Beh, forse che questo Glitter and Doom, nonostante la più che trentennale carriera dell’ormai sessantenne Tom Waits, è soltanto il secondo album ufficiale dal vivo della sua carriera, a vent’anni e più da Big Time del 1988. Ma non pensate di aspettarvi un greatest hits dal vivo dei suoi migliori pezzi: nel senso che in queste 17 canzoni eseguite in dieci diverse serate del suo ultimo tour del 2008 la selezione è precisa e forse anche un po’ drastica (ed è curata da Tom in persona): niente di pescato dagli album degli anni ’70 (nemmeno da Blue Valentine), niente da Heartattack and Vine, niente da Swordfishtrombones o Franks Wild Years (gli album più noti e belli degli anni ’80), insomma niente di vecchio né tantomeno di classico. Tutta la scaletta è tratta dagli ultimi lavori, da Singapore che proviene da Rain Dogs del 1985, fino a pescare molto da Bone Machine del 1992 con Dirt in the Ground, Such a Scream, e Goin’ out West o The Black Rider con I’ll Shoot the Moon o Lucky Day, con molto spazio ovviamente agli ultimi, Blood M oney, Alice, Real Gone e Orphans: Brawlers, Bawlers and Bastards, tutti degli anni 2000. Quasi una testimonianza testarda del fatto che il talento non si è spento come capita ai più, insieme forse alla provocazione di uscire fuori dai soliti clichè del tour preconfezionato con una lista di successi che tutti cantano a squarciagola. No, Tom Waits va ascoltato, gustato, celebrato e “bevuto” fuori dai clamori, e i bassifondi e i personaggi improbabili strambi e stralunati che ha sempre cantato non si prestano ai cori da stadio. La selezione comunque risponde bene al criterio della varietà: dai blues dinamici di Lucinda / Ain’t Goin Down (Birmingham - 03/07/08) e Singapore (Edimburgo - 28/07/08) alle ballate malinconiche come Fannin Street (Knoxville - 29/06/08) e Falling Down (Paris - 25/07/08), dai foschi quadretti suburbani di Dirt In The Ground e Such A Scream (entrambe prese dai concerti di luglio a Milano) ai toni più visionari e onirici di The Part You Throw Away (Edimburgo - 28/07/08) e Trampled Rose (Dublino - 01/08/08), e il lavoro e l’originalità del più assurdo dei cantastorie musicanti dei nostri tempi ne esce premiato e rinvigorito. Aggiungeteci ben quaranta minuti di Tom Tales, ovvero storielle da lui raccontate a metà fra musica e teatro durante il tour, fra bizzarri racconti su ratti ragni e avvoltoi fino a ironie sui cinesi e autoironia su se stesso), e il quadretto è completo. L’album non ha certo l’ambizione di far conoscere completamente Waits a chi vi si accosta per la prima volta, ma di farlo amare a tutti, neofiti e non, certamente sì. Del resto, come non si può non amare (musicalmente e in generale) un uomo che ha creato un genere e lo ha poi percorso praticamente da solo senza emulazioni per trent’anni suonati? Come si può non amare un’autentica leggenda dei giorni nostri, una figura che si stenta a pensare musicista al piano durante gli anni ’80 del trionfo dell’elettropop? Amatelo e godetelo quindi, come storyteller, incantatore, indagatore dolce inquieto e sofferente degli abissi della città e del proprio ego. www.tomwaits.com Francesco Postiglione
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e qualcuno vi dicesse che “The S hadow of an Empire“, ultimo brano che dà il titolo a quest’album è una traccia inedita di Bob Dylan periodo “Blood on the Tracks”, voi ovviamente direste che non è vero, però sareste obbligati a riflettere sul fatto che una tale maturità compositiva è alquanto strabiliante in certo cantautorato moderno, visto quello che gira. Quindi, se siete un pò tirchi nei confronti di certe scene e se solo un altro bravo figliolo come Jens Lekman negli ultimi anni ha portato un raggio di sole nel vostro oscuro cuoricino, allora mostrerete un atteggiamento serio e rispettoso nei confronti di quest’artista e di quest’album che segue ‘The End of the History’ del 2007, allora disco dell’anno in Irlanda, nonchè nomination al Mercury Prize (stesso anno in cui partecipava Amy Winehouse ma vinsero i Klaxons). Prendiamo ad esempio ‘Violent Demeneaour‘: è la ‘Suzanne’ di Leonard Cohen ricantata da Devendra Banhart. Bella suggestione, vero? Questa la caratteristica di Fionn Regan: ‘impitoccarvi’ con delle sbiadite istantanee folk-rock americane 1974 o giù di lì ma con un mood assolutamente moderno (altrimenti mica ci mettevano la sua ‘Be Good or Be Gone‘ dall’album precedente in Grey’s Anatomy?). Se ‘Protection Racket‘ potrebbe essere praticamente riassunta come “Dylan meets Bolan” o una qualsiasi altra killer song di Alex Chilton, non ne sentirete minimamente il peso di tanta ‘storia’. Non c’è un solo episodio che sia scartabile in quest’album, e se “Lines Written in Winter“ potrebbe essere la traccia più debole con il suo intimo carico di allegria, speranza e buonumore invernali (mi si è aperto anche un popup pubblicitario per San Valentino su questo brano..), trovate dieci altri albums ‘tutti’ deboli così e segnalatelo. Le ispiratissime “Coat Hook”,”House Detectiv e“ e “Genocidee Matinee“ con i loro ritmi ‘mezzo stomp’ sono tutto un fremito Gun Club/Grant Lee Buffalo (ancora America, sì, ma all’interno di una compostezza formale tipicamente albionica). Questo è uno di quegli album che bisogna davvero ascoltare: per molti potrebbe essere disco dell’anno già a Febbraio. www.myspace.com/fionnregan A.Giulio Magliulo
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intervista
Co’Sang la Vita Bona di due rapper napoletani
ando alle mezze misure, al politically correct e al volemose bene. Luchè, insomma, non le manda a dire, perché in poche righe metà Co’ Sang (l’altra è ‘Nto), ci spiega perché l’hip hop, e il rap in particolare, in Italia, a differenza che in Francia, per esempio, non attecchisce: perché il “90 percento dei rapper italiani sono scarsi” e perché le case discografiche non ci credono poi tanto. Ma non finisce qui, ovviamente il discorso non poteva non cadere anche su Mumento d’onestà, la canzone che li ha messi nell’occhio del ciclone per il loro pensiero su “chi ha sfruttato il fenomeno gomorra, vendendo alla povera gente un’utopia (quella di poter cambiare le cose con delle canzoni, brutte tra l’altro) con il solo scopo di darsi visibilità” e sul giornalismo italiano. Vita Bona – il loro nuovo album - è anche altro, è un cambiamento nel sound del gruppo, una virata verso la Francia, appunto, che sfocia in due collaborazioni interessanti, una con un colosso del movimento d’oltralpe (Akhenaton) e l’altro con una giovane speranza (Monsi du VI), oltre a quella con Raiz e con Marracash dei Club Dogo e El Koyote ed è un atto di Riconoscenza alla loro città. Chi more pe’ mme è del 2005, Vita Bona del 2009. Cosa è successo in questi 4 anni? Beh sono successe tante cose, in primis abbiamo fatto un bel tour di 45 date che per un gruppo hip hop proveniente dall’underground non è affatto male, in più si è allargata la nostra fan base che ci permette di far girare la nostra musica sempre di più. Se i testi raccontano per la maggior parte i v ostri luoghi e la società in cui v iv ete, come succedeva, in qualche modo anche in Chi more pe’
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mme, il suono si è modificato. Siete molto vicini alla Francia, dov e l’hip hop è una cultura ben radicata... Si, il primo disco ha un sound molto più underground di questo, ma il tutto è frutto del fatto che “Chi more pe mme” è stato realizzato più di 3 anni fa, in quanto la sua concezione è durata almeno 2 anni. In tutto questo tempo il sound dell’hip hop è cambiato e noi siamo sempre stati degli attenti osservatori. La Francia ha sempre avuto una scena hip hop fortissima, infatti nutriamo un grande rispetto per i francesi che sono riusciti a fondare un proprio movimento forte. In Italia rap fa rima con polemiche. È abbastanza evidente a chi vi riferite quando parlate di gente che si è fatta i soldi sulla scia di Gomorra. Dall’esterno sembra che quasi sia fisiologico, che ce ne sia bisogno... non c’è il rischio di parlare solo a pochi? Ma il rischio di parlare solo a pochi ce l’hanno un po tutti gli artisti non-commerciali. Il brano-polemica di cui tu parli è “Mumento d’onesta”, ma è solo uno su 13 tracce, non è che noi facciamo polemica ogni volta che scriviamo un testo. Diciamo che in questo momento ci andava di chiarire il nostro punto di vista su cosa sta succedendo tra gli artisti di Napoli, nell’era post gomorra. Monsi du Six e Akhenaton sono rapper francesi, ma con un legame con Napoli. Cosa vi lega oltre a questo? Con Monsi ci lega un’amicizia che dura da diversi anni, visto che ha vissuto a Napoli per un bel po’, con Akhenaton ci lega una rispettiva ammirazione (titolo del brano che li vede assieme ndr) per i posti da cui proveniamo e dalla musica
che facciamo. Non v olete essere etichettati come i rapper contro la camorra. Capisco quello che v olete dire ma non rischiate un fraintendimento? Di un fraintendimento non ce ne può fregar di meno. Essere etichettati come tali è semplicemente riduttivo e a dir poco pesante. Noi non predichiamo, non ci sentiamo in grado di poter dire cos’è giusto e cos’è sbagliato. Mettiamo solo la nostra vita in musica per far sì che la gente si rispecchi. Veniamo a una polemica che v i ha colpito. Non posso non notare come parlate ad esempio anche di magistrati oltre a cantanti “che v ogliono sf ruttare la scena”, insomma sembra un attacco a tutto quello che c’è stato dopo Gomorra. Il gomorrismo ha diverse facce, ma non si rischia di gettare tutto nello stesso calderone? La parte dei magistrati è stato un errore di qualche giornalista che invece di andarsi a leggere il testo tradotto si è valutato capace di intendere il nostro dialetto, causando la diffusione errata di una delle nostre rime. Nto nella prima strofa del pezzo, dice “cantanti-magistrati sfruttano la scia di un marchio registrato”, ecco, cantanti-magistrati , non solo magistrati, intendendo questi cantanti che assumono un ruolo quasi da magistrato, riducendo la loro musica ad una utopica battaglia contro la criminalità. Non vogliamo fare di tutta l’erba un fascio, abbiamo fatto solo un pezzo dove puntiamo chi ha sfruttato il fenomeno gomorra, vendendo alla povera gente un’utopia (quella di poter cambiare le cose con delle canzoni, brutte tra l’altro) con il solo scopo di darsi visibilità. “Voi fate i nomi do sistema e non
chill’ do stat’”, ma prima non si facev ano manco quelli... Questo è vero, adesso almeno si fanno i nomi, perchè qualcuno ha capito quanti soldi si possono guadagnare sulle disgrazie di un popolo, ma se non ci sarà mai un intervento preciso e veramente efficace (da parte dello stato), questo fare nomi non farà altro che dipingerci per sempre come un popolo di criminali. Fare nomi non cambia la condizione della nostra vita. La gente ha sempre più paura di venire qui, siamo visti come la fogna d’Italia. Intanto qui la fame è ancora cosi forte che non c’è davvero più speranza per il futuro. Perché non parliamo dei problemi che la gente normale deve affrontare tutti i giorni? E’ cosi facile condannare un peccatore. Un criminale o va in galera o muore da criminale, ma in tutto questo, chi gli ha permesso di vivere da criminale? Da che parte stanno i Co’ Sang? Siamo dalla parte nostra. Ci siamo fatti il culo per arrivare ad avere quel poco che abbiamo. Ci sono le nostre vite di cui prendersi cura, ed il nostro lavoro si chiama musica, non magistratura o polizia. Veniamo pagati per fare concerti ed intrattenere la gente, siamo sinceri verso il pubblico. Nei nostri pezzi c’è la nostra vita, fatta di sbagli e di scelte dolorose, poi sta al pubblico capire il senso delle nostre rime. Nessuno ci paga per combattere contro qualcosa nè siamo nati con il dono divino di poter cambiare il mondo. Solo in Italia si può pretendere da un gruppo musicale di schierarsi contro qualcosa per poi attaccarlo se non si dice ciò che si vuol sentirsi dire. www.cosang.com di Francesco Raiola
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tirare la carretta fa la webcam girl (il Marrazzogate è anni luce avanti). Verdone non infila una battuta che sia una. Si ride? Eccome. Ma non per situazioni o trovate brillanti. E’ lo “strappo” comico che estorce un sorriso, ma così, per inerzia, come può esserlo una faccia smorfiosa o un tono di voce alterato. Non si gusta quasi mai divertissment di sostanza e spesso la battuta è didascalia (in sala si rideva, per dirne una, quando il fratello cocainomane tira su con la narice. Tutto qua). Anche le scene si riciclano in carta carbone, come in alcuni cartoon Disney. La sfuriata contro la psicologa (Finocchiaro) ricorda da vicinissimo quella contro la psicolabile Camilla-Buy di “Maledetto il giorno che ti ho incontrato”. L’arrivo inatteso in un momento topico di “allegre” donne di colore
Sbanca il botteghino ma i veri fans piangono: Carlo dove sei? L’emorragia comico-creativa anni 2000 non si arresta neanche con l’ultimo “Io loro e Lara”
Verdone quo vadis? lando con la Muti) con uno che un giorno c’ha i capelli verdi, un altro cell’ha arancioni. Ma come c’usciva sto figlio? De martedì grasso ce usciva”. “Compagni di scuola” è un bel film “serio”, riflessivo, visto che è stato speso anche questo aggettivo per definire “Io loro e Lara”, ultimo lavoro del regista romano. “Stasera a casa di Alice” è un bel film. Lo è anche “Perdiamoci di vista” con la Laura Chiatti di allora, Asia Argento. “Sono pazzo di Iris Blond” è un bel film. “Io e mia sorella” è un bel film. “Al lupo al lupo” è un bel film. “Io loro e Lara” non lo è. Perché affastella troppe idee, si affida a generici senza sugo, rivernicia stereotipi: il prete in crisi (ullalà), i giovani che si drogano in discoteca (porcomondo), la ventenne precaria (oggi non ce n’è uno che non sia precario) che per
poi chiuse a chiave in bagno fa il paio con la scena dell’amichetta africana che si fionda in casa di Manuel Fantoni in “Borotalco” (1983). Fortunatamente siamo lontani dall’abisso del “Mio miglior nemico”, la più grande toppata del nostro. Ma la risacca cominciata con “C’era un cinese in coma” (1998), ancora non cessa. Tutto questo tempo in standby, senza smalto: fateci caso, non ricordate neanche un film degli ultimi dieci anni. E se lo ricordate fate una faccia un po’ così (“Ma che colpa abbiamo noi”, “Grande grosso e Verdone”, “L’amore è eterno finchè dura”, ecc.). Un vuoto confermato da quest’ultimo, pur generoso, tentativo, tra l’altro dai grandissimi numeri al botteghino. Ma una cosa sono gli incassi - euforizzanti, ma li fa anche Pieraccioni - un’al-
tra è un discorso franco sulla qualità dell’opera. La vena, non solo comica, ahimè, s’è implacabilmente isterilita. Ricorda per certi versi il brancolare degli ultimi 5 anni di Salvatores. E credo che Verdone, in fondo, lo sappia. Ah, quanto ci/gli manca il sostegno in sceneggiatura di angeli come Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Oldoini. Ma tenaci e fiduciosi, noialtri per-sempre-riconoscenti fan, lo aspetteremo ancora. Anche perchè senza di lui al cinema, in Italia, nun se ride più (Ficarra e Picone? Naaaaaa. Checco Zalone? Bravo in tv. Salemme? Buonanotte. De Sica? Sotto le parolacce il nulla. Luciana Littizzetto? Al cinema è incolore. Aldo Giovani e Giacomo? Ma per favore). www.carloverdone.com di Alessandro Chetta
cinema
o loro e Lara”, l’ultimo film di Carlo Verdone fa ridere grandi e piccini e sbanca il botteghino. Stimola addirittura il dibattito (Claudio Magris versus Carlo: sei stato troppo nichilista). Ma ai fan, quelli veri, chi ci pensa? Chiedete, per cambiare campo, agli ultrà dei Prodigy. L’ultimo, pecoreccio, “Invaders must die” entra nell’ipod di tutti i discotecari ma il groove di “Music for the Jilted Generation“ è inarrivabile e fa scorrere qualche lacrimuccia. Voglio un bene dell’anima a Carlo Verdone. Non ci credete? Vi cito un paio di battute a impronta, su due piedi, e neanche dai film più famosi. “…Ma come avvocà (rivolto a Sordi), la milza è n’organo superfluo? Ma che er padreterno se metteva affà gli organi superflui. Era da ricoverallo, era…”. Ancora: “…Ma come se fa a sta’ (par-
recensioni
Richard Haw ley Truelove’s Gutter (Virgin) Richard Haw ley si è dato da fare in campo musicale. Qualcuno lo ricorda agli inizi degli anni Novanta con i Longpigs, qualcuno a fine decennio con i Pulp, gruppo che ebbe decisamente miglior sorte rispetto al primo. I più curiosi, invece, hanno letto il suo nome nelle collaborazioni con gli addetti ai lavori del pop internazionale o nelle più recenti avventure con Elbow e Arctic Monkeys. Ha messo lo zampino persino nella fantasiosa colonna sonora del film “Romeo + Juliet” di Baz Luhrmann, giusto per precisare chi è questo romantico tenebroso britannico. “Truelove’s Gutter” è il suo nuovo concept album, il sesto lavoro da solista. Otto lunghe tracce che presentano un Hawley a luce spenta, in una versione decisamente più acustica rispetto ai precedenti episodi. Otto ballate che probabilmente non vi entusiasmeranno al primo ascolto, ma che vi torneranno utili alla prima cena a lume di candele. Un bell’ascolto che pecca nel non scavare troppo a fondo con una voce che potrebbe graffiare molto di più e lasciare dunque un segno indelebile. Al quarantaquattrenne Hawley resta comunque il piglio dei cantautori d’oltreoceano che esplode come nel brano d’apertura “As the Dawn Breaks” o in “Don’t Get hung Up in Your Soul”. Una serata romantica che si chiude con “Don’t You Cry”, ma che – come tutte le serate romantiche – ricomincerà dalla prima traccia. www.richardhawley.co.uk Micaela De Bernardo Yeasayer Odd Blood (Secretly Canadian)
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“Od d Blo od”: così intitolato l’album della giovane band proveniente da NYC Yeasayer, potrebbe ricordare ai molti appassionati una serie di videogiochi prodotti nel 1994 intitolata “Oddworld”, che narra le vicende degli abitanti alieni dell’omonimo pianeta grande dieci volte la terra, minacciato da una sadica società industriale. Gli alieni e il sound fantascientifico possono essere interpretati come i fattori chiave di questo nuovo lavoro degli Yeasayer. L’album, prodotto dalla Secretly Canadian, si apre con un intro, “The Children”, degno di tale definizione, che ci trasporta in una dimensione psichedelica che si collega perfettamente agli happening multicolore che caratterizzano gli show della band. L’album prosegue seguendo un’ottica psicoelettronica che attraversa varie fasi della sperimentazione di un nuovo ed originale sound. “Ambling”, traccia numero due, gioca in chiave ironica sul netto contrasto tra la voce ‘umana’ del cantante Anand Wilder e il ritmo frenetico del background musicale che riempirebbe qualsiasi dancefloor di sudore gratuito e balletti isterici. I falsetti in “Madder Red” ricordano indubbiamente “Winter Wonder Land” degli Animal Collective, ma sia chiaro agli esperti: è proprio con questo brano che l’album prende una piega folk-elettronica che successivamente si dipana in due orizzonti culturali: quello scandinavo, richiamato nel brano
“I Remember”, nel quale la voce di Wilder ricorda pienamente i dolci acuti di Jónsi Birgisson leader dei Sigur Ros, e quello esotico di “O.N.E”, dove tamburi tribali e sintetizzatori ricordano il tormentone estivo dei Friendly Fires “Kiss Of Life”. L’album prosegue con un ritmo a volte lento a volte incalzante che esalta i suoni e contrasti e che permette di esperire diversi universi musicali. Così scivolano perfettamente “Love Me Girl”, ”Rome” e “Strange Reunions”, brani che non fanno altro che arricchire la vena spasmodica del ritmo dettato dalla band. Acuti nel finale con i due brani in chiusura, nettamente in contrasto l’uno con l’altro. In “Mondegreen” ritroviamo un rock psichedelico nel quale riecheggiano chitarra e fiati su uno sfondo fatto di suoni distorti che rimanda a vecchie perle dell’elettro indie come “Space and Woods” dei Late Of The Pier. “Grizelda” ci conduce fuori dall’astronave aliena sulla quale siamo stati catapultati attraverso una rivisitazione del mix di sounds affrontati in questo viaggio spaziale. Ancora una volta i falsetti ci ricordano gli Animal Collective. L’astronave atterra e noi siamo sopravvissuti a questo splendido viaggio sperimentale. www.yeasayer.net Melissa Velotti Julian Plenti Is… Skyscraper (Matador) Con gli Interpol l’abitudine è quella di ammirarlo algido e deliziosamente profondo, elegantissimo di fasciato in nero, con l’immancabile sigaretta e la fedele chitarra, malinconico e raffinato come fosse la reincarnazione di Ian Curtis. Lui è il loro leader, Paul Banks, che se con gli Interpol sta per finire il quarto album della carriera, da solista ha recentemente vestito i panni di Julian Plenti, suo alter-ego artistico, perfezionista ed impeccabile, che dalla sua Grande Mela riesce, più spigliato e sorridente, con Julian Plenti Is… Skyscraper a collezionare una serie delicatissima e impeccabile di canzoni strappa-cuori, ballate contemporanee attraverso le quali Paul/Julian esaspera il romanticismo errante della sua band, sperimentando nuovi universi sonori. C’è lo stampo di album Turn On The Bright Lights e Our Love To Admire nel singolo prescelto per presentare al mondo l’album stesso, “Games For Days”, e la consueta riverente subordinazione alla new wave di stampo dark e mitigata dal pop ma ricca di fascinazioni moderne e metropolitane, e vincente in quella voce baritonale da manuale. Ma l’album non si limita a questo, perché con “Only If You Run”, si affacciano melodie vagabonde e convincenti, con “No Chance Survival” l’atmosfera di fa calda e tetra, per una lullaby sofferente, con “On The Esplanade” l’artista si mette a nudo sintetizzando una passione travolgente per la matrice cantautorale e soffice nell’apparente minimalismo di una chitarra classica (sospesa però tra violini e intermezzi vocali sintetici, mentre con “Fly As You Might” si fa spazio un post-rock azzardato e compiaciuto di dilatazioni sconvolgenti, il ritornello ipnotico di “Fun That We Have” inquieta e l’amarezza strumentale di “Skyscraper” trionfa per dolcezza agrodolce di amori incompiuti. Oscuro nell’anima e nella propensione artisti-
ca, Paul Banks risulta ottimo anche senza la sua già storica band, tra glaciali influssi misteriosi e malinconie geniali. E’ lui il nuovo Ian? julianplenti.com Ilaria Rebecchi Ret ribution Gospel Choir 2 (Sub Pop) Passano alla Sub Pop dopo l’esordio omonimo per la microscopica etichetta Caldo Verde, gli americani Retribution Gospel Choir, ed ecco il loro secondo disco intitolato laconicamente 2, e la band, formata da Alan Sp ar haw k (chitarra, voce), S t ev e Gar rington (basso) ed Eric Pollard (batteria e voce), può aspirare, ora, ad un salto di scala distributivo. Alan Sparhawk e Steve Garrington sono in effetti componenti anche dei quieti, intellettuali e morbidamente psichedelici Low, ma nei RGC si dedicano ad un hard blues psichedelico fatto di strappi improvvisi di ritmo e anche di volume; dunque passaggi da toni indie rock soffusi, anche acustici, con voci filtrate in lontananza, fino a grandiosi riff proto stoner, con dinamiche che ricordano i Procol Harum (tipicamente in ‘Workin’ Hard’), i Grateful Dead, Johnny Winter, ma anche i compagni d’etichetta Blitzen Trapper (in ‘Hide it Aw ay’, ad esempio), e poi contemporanei più rocciosi come Wolfmother (‘White Wolf’) e Year Long Disaster. E non si tratta soltanto di un divertimento parallelo ai Low, per i protagonisti, ma di un progetto serio, poiché il trio si impegna da due anni in lunghi tour - sono stati l’estate scorsa anche in Europa: al Primavera Sound in Spagna, e all’All Tomorrow’s Parties nel Regno Unito - ed è ora ripartito per promuovere quest‘album, e a marzo 2010 visiterà nuovamente l’Europa, malgrado per adesso non siano previste date italiane. ‘Poor Man’s Daughter ’ e ‘Your Bird’ sono i brani che soprattutto impressionano, in questo disco: definiscono infatti, in maniera esemplare, l’impatto hard del terzetto, e le visioni blues più suggestive; ma anche il retro rock ‘Something’s Going on’, col drumming possente e marziale, pinkfloydiano, di Eric Pollard, a portare il brano sulle spalle. Notevole conferma per una band lanciata direttamente tra i grandi nomi del rock. retributiongospelchoir.com Fausto Turi Daniel Johnston Is and always was (Eternal Yip Eye) Daniel voleva essere i Beatles. Per il suo nuovo disco si è ritrovato a collaborare con un produttore, Jason Falkner, che ha lavorato (tra gli altri) con Paul Mc Cartney. Non è proprio la stessa cosa, ma non è neanche un dettaglio di poco conto, se consideriamo che per anni il Nostro ha realizzato dischi utilizzando un registratore da due soldi e poco altro. Il tentativo di “normalizzare” (perlomeno sul piano della qualità di registrazione) l’arte di Johnston, operazione portata avanti, con diversi co-protagonisti e diversi risultati dall’inizio degli anni ’90, è una fac-
cenda piuttosto delicata: ogni orpello, ogni minima “levigatura” del suo stile così spontaneo, naïve e viscerale corre il rischio di snaturare l’essenza della sua musica. Falkner, che oltre a produrre il disco ha suonato quasi tutti gli strumenti (tranne la batteria, suonata da Jo e y Waro nke r, già con REM, Beck, Smashing Pumpkins), ha avuto l’accortenza di preservare l’anima delle canzoni di Johnston, senza che gli arrangiamenti e la registrazione professionale potessero risultare “posticci” o peggio ancora “scollegati” dal mood generale dei brani. Il risultato: undici canzoni, per trentacinque minuti circa, con una serie di episodi davvero memorabili, ed altri meno entusiasmanti. Un lavoro assolutamente godibile, apprezzabile anche da chi non hai mai ascoltato Johnston neanche una volta. Il talento melodico di Daniel esplode in pop song semplicemente commoventi come “High Horse”, la sua anima rock si rivela nella divertente “Fake records of rock rock and roll”, mentre la title track è infarcita di psichedelia agro dolce. Daniel, come sempre, alterna temi e stati d’animo: un attimo prima lo trovi a rimpiangere la sua cagnolina scomparsa (la splendida “Queenie the doggie”), e poco dopo a scherzare (?) sulla propria malattia mentale (“I had lost my mind”). Tra le più gradite sorprese dell’anno appena passato. www.hihowareyou.com/ Daniele Lama Jimi Teno r & Tony Allen Inspiration information (Strut) Un po’ come “In the fishtank” dell’olandese Konkurrent per gli appassionati di indie-rock e sonorità affini, la serie “Inspiration information” della Strut ambisce a diventare un appuntamento classico per gli amanti della musica black (intesa in senso ampissimo: jazz, reggae, soul e commistioni varie…), con la stessa intenzione di sollecitare incontri artistici e documentare poi su disco i frutti partoriti da tali inediti sodalizi. Dopo il clamoroso album firmato da Mulatu Astatke con gli Heliocentrics, tra l’altro foriero pure di un tour internazionale che ha riscosso ovunque un incredibile successo (il loro concerto fiorentino in aprile è al momento quanto di meglio ho potuto vedere dal vivo quest’anno!), il nuovo episodio della collana si posiziona appena un gradino al di sotto, ma sempre su altissimi livelli. A fianco dello storico batterista nigeriano Tony Allen si schiera il finlandese Jimi Tenor, già frequentatore di territori afrobeat con i lavori “Joystone” e “4th dimension” realizzati rispettivamente nel 2007 e nel 2009 insieme ai Kabu Kabu (non a caso presenti anche qui, a dar man forte ai due attori protagonisti). Nato da una sessione berlinese dello scorso novembre e poi perfezionato in due successive sedute in Finlandia e a Parigi, l’eccitante materiale di “Inspiration information 4” raccoglie danze afrobeat (“Sinuhe”, “Got my Egusi“), flauti svolazzanti (“Mama Englad”), momenti avant-soul alla Daniel Givens ma con propulsione free-jazz (“Path to wisdom”), lampi dub immortalati dall’intervento dei fiati (la suadente “Selfish gene”), ipnotici rituali percussivi (“Cella’s walk”, “Three continents”) e colate laviche di grooves (“Against the wall”, “Darker side of night”). www.jimitenor.com Guido Gambacorta
The Bloody Betroots è, oramai, il fenomeno italiano per eccellenza. La ‘tendenza’ che ha proiettato l’Italia nel gotha dell’electro mondiale (senza dimenticare gli stimati Crookers, Congorock e pochi altri). Li potremmo definire come importatori della parte più violenta del “french-touch” ma sarebbe limitativo: il progetto, sebbene affondi le radici nella cultura-electro, così come intesa dai pionieri Daft Punk, finisce poi per distaccarsene quando ad avere la meglio è la “scostumatezza” e l’attitudine sovversiva del duo, insomma è attitudine punk. Romborama è il loro primo album e riesce bene a mostrare cosa sono stati e cosa sono i Bloody Betroots. Un lavoro di 20 tracce (gli inediti sono la maggioranza, ma non mancano vecchie glorie come “Cornelius” e “I love Bloody Betroots”). Un album tosto pubblicato dalla statunitense Dim Mak e riproposto in Italia dalla major Universal. Senza esitare lo definiamo un album punk, per la durezza dei beat e le continue esplosioni di suoni, affiancata ad un immaginario ed un senso di caos ed anarchia trasmessi dalle grafiche di Bob Rifo e Tommy Tea. Tuttavia se a mostrare il loro dark side ci pensano tracce come “Storm”, che sembra davvero trasportarci nel bel mezzo di una tempesta con tanto di nuvoloni, pioggia, tuoni e fulmini, è con ”It’s Better Dj on 2 Turntables” o “Thelonius” che si ‘addolciscono’ le note; come anche in “Mother” (stessa carica emotiva di “Valentine” dei Justice) o in “House n°84” (che ci ricorda “Veridis quo” dei Daft Punk). Numerose le collaborazioni, dai toni barocchi dell’italiano Cecile in “Have merci on us”, all’incontro/rissa con l’amico Stev e Aoki in “Warp 7.7”, mentre è notevole anche l’intro con gli All Leather. Discutibile invece la collaborazione con il rapper italico Marracash in “Come la Cina”, singolo tarato per il mercato italiano, quello meno dance, quasi superfluo per i palati fini ma soprattutto avulso dalle dinamiche musicali del disco. www.myspace.com/thebloodybeetroots Luca Carusone Mumford & Sons Sigh No More (Island) Lo ammetto, ascoltare quest’album in una Parigi autunnale e piovosa, camminando in un luogo che senti tuo solo in parte, ti mette, in certi casi, in uno stato d’animo malinconico dal quale non vorresti uscire più. Quest’album d’esordio di Mumford&Sons è uscito in un periodo perfetto, diciamoci la verità. Sappiamo bene quanto valga un buon packaging per vendere un prodotto e sappiamo bene anche quanto sia importante azzeccare il periodo di uscita di un album per renderlo – rimanendo nel campo del marketing - appetibile. Ecco! La Spin-go ci ha preso in pieno. Autunno, con momenti che ricordano l’estate e altri che ti avvisano che l’inverno sta arrivando. Ma limitarsi alle temperature e al meteo sarebbe non dare merito a un album che suona veramente bene, ascrivendosi a pieno nel filone ormai non più di nicchia del nu folk britan-
nico (Noah and the whale), strizzando l’occhio a grandi gruppi folk americani come Crosby Still Nash, come suggerisce la cartellina stampa. I colori caldi del folk e il freddo della malinconia che in certi punti ti assale e ti si appiccica addosso come una coperta calda, fanno di questo album Sigh no More un vero gioiellino, uscito dalle mani di Marcus Mumford, Winsto n Marshall, Ben Lo v et t, Te d Dw ane e del produttore Markus Dravs (Arcade Fire, Bjork, The Maccabee’s). “Sigh no more”, la title track comincia con un un coro e si sviluppa chitarra e banjo in un crescendo continuo che fa ben sperare e le promesse vengono mantenute alla perfezione da “The Cave”; “Winter Winds” e “Roll away your stone” sono molto americane in stile Calexico, canzoni ad ampio respiro, che riprendono nella seconda parte di “White blank Page” e fanno da contraltare alla più intimista “I Gave you all” che comincia rilassato con banjo e chitarra acustica per ravvivarsi (ritmicamente) nel finale. “Little Lion man”, singolo dell’album, ha, invece, più accentuate varianti country (ricordano i nostri Gentlemen’s Agreement in alcuni punti), continuando, poi, col folk più melanconico con “Timshel” e “Thistle & Weeds”, ancora più cupa della precedente sebbene il testo, anch’esso abbastanza cupo, si chiuda con una speranza e un consiglio. L’album si chiude con la perfetta (anche nel titolo) “After the storm”. La melodia del gruppo continua a farla da padrona, anche grazie alla bella voce di Mumford. Un sound che spazia nelle diverse sfumature del folk, senza mai perdere un colpo. Riprende e mescola, ridando anima agli stilemi del folk-che-cigira-intorno. Veramente un gran bell’album! www.mumfordandsons.com/ Francesco Raiola Riceboy Sleeps s/t (Parlophone) Il polivalente Jo n Thor (Jó nsi) Birgisso n, conosciuto magari solo come leader dei Sigur Ros, espone in realtà da anni con lo pseudonimo di Rice bo y Sleeps le sue opere grafiche. Quest’album, edito per la Parlophone e distribuito da Emi, è il commento a quelle opere, e nasce da un pezzo, Happiness, commento musicale di una di queste opere, scritto per una compilation, che ha dato poi il via agli altri. Come tutti gli album solisti (anche se qui c’è anche il contributo di Alex Somers, il suo compagno) dei leader di una band importante, la domanda è la solita: perché? Perché un progetto solitario se poi le sonorità, le strumentazioni, l’ispirazione di fondo sono le stesse che accompagnano i lavori ufficiali della band (accade a Jonsi come a moltissimi altri)? Qui la risposta si può trovare forse nel fatto che i nove percorsi musicali di questo esperimento sono più strumentali ed essenziali di quanto Jonsi ci ha abituato con i Sigur Ros. Sono più sfumati, onirici, evanescenti, più di quanto forse le esigenze commerciali per un album targato Sigur avrebbero consentito. Anche se proprio per i Sigur Ros parlare di esigenze di mercato è difficile: Jonsi e gli altri ci hanno già abituato a scelte estreme e lontane dalle esigenze di vendita. E allora, perché? Meglio non chiederselo, e godere di queste melodie purissime, ispirate agli elementi, acqua, (“Atlas
Song” , “Boy 1904”), vento (“Indian Summer”, “Howl”) e aria (“Happiness”, “Daniell in the Sea”, “Sleeping Giant”) soprattutto, protagonisti nei richiami del violino o della tastiera, suggestivi e come sempre angelici, quasi provenienti da un’altra dimensione. L’unico difetto sarà forse che i nove pezzi si dissolvono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, e nella loro essenzialità sembrano essere sfumature diverse di un’unica ispirazione, un’unica scia melodica di fondo su cui si innestano a tratti rumori di natura, linee di piano e di archi, e impalpabili cori. I Sigur Ros ridotti all’essenza, insomma, il che è quanto dire: questo forse il concetto portante di un esperimento riuscito, anche se, probabilmente, non necessario. Suonato esclusivamente con strumenti acustici in Islanda (con la partecipazione delle solite Amiina, insieme al coro di Kopav ogsdaetur), poi rivoltati al computer, Riceboy Sleeps ha decisamente un “tocco organico”; i suoi sibili che sembrano onde e flutti della marea, pulsazioni e distorsioni, e in Howl, versi di animali, grugniti, sbuffi e fusa. Ed è comunque profondo e con aspirazioni spirituali. Un disco fuori dal tempo e dello spazio, come e più di quanto i Sigur Ros ci hanno già regalato. www.jonsiandalex.com Francesco Postiglione Kings of Convenience Declaration of Dependance (Emi) La notizia era di quelle ghiotte: la seconda parte del 2009 avrebbe consegnato al mercato musicale il nuovo, terzo album dei Kings of Convenience, giunti al successo planetario con Riot on an Empty Street, un successo forse inaspettato per i cavalieri di un genere di nicchia come il folk indipendente, tanto da aver fatto vacillare la compattezza del gruppo. E perciò, ci voleva forse una lunga pausa. Rieccoli adesso, Erlen d Øy e e Eir ik Glambek Bøe, norvegesi doc ma alfieri di un genere tanto americano nella sua tradizione, che i due rinnovano con sfumature venate di malinconia post-moderna, e evoluzioni chitarristiche molto indie. D eclaratio n of Dep end ance ha una produzione che si muove fra Città del Messico e Puerto Vallarta in Messico, gli appartamenti privati di Erlend in Norvegia, e anche un po’ di casa nostra, precisamente all’Esagono Studio di Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, città del loro produttore artistico Dav ide Bertolini. Un motivo in più per ascoltare con attenzione questo disco, che si presenta sin dalle prime battute più scarno, più essenziale, incentrato solo sulle due chitarre e le due voci. I due si divertono a sperimentare tutte le possibili opzioni della classica situazione di duo acustico (ispirati, anche in questo, a Simon & Garfunkel di cui, si può ormai dire senza dubbio, sono gli eredi definitivi): “24-25” è nebbiosa e dark come i pezzi più ispirati del loro collega Josh Tillmann, “Mrs Cold” è una sorprendente bossanova in chiave norvegese, il singolo “Boat Behind” è un pezzo pop nella versione meno pop possibile (solo pochi archi supportano qui l’acustica integrale del pezzo), “Rule My World” un pezzo divertito e solare, “My Ship isn’t pretty” una ballata difficile e quasi da menestrello. Erlend Øye ha dichiarato di aver fatto “il disco
pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”, e ciò rivela la loro intenzione più profonda: colpire e stupire con l’assoluta integrità di due chitarre cercando di ricavare da esse ritmo e atmosfere poppeggianti e solari, ma senza rinunciare agli episodi più profondi e di chiara ispirazione nordica, che sono alla fine ciò che del disco rimane forse più nel cuore (si pensi alla waitsiana “Renegade”, o all’autocitazione di Riot on an Empty Street, o ancora all’intimista “Power of Not Knowing”). Il disco è bellissimo, e consacra il duo mettendolo fuori pericolo dalla deriva commerciale in cui rischiavano di precipitare dopo il troppo successo di pezzi come Misread. E anche se indie lo sono ormai poco visto che l’etichetta è la Source, di proprietà EMI, bisogna dire che i due ragazzotti norvegesi hanno mantenuto alte le aspettative e anzi hanno composto un album più difficile e meno immediato del precedente, ma forse proprio per questo più bello. Divieto assoluto di ascoltarlo in cuffia mentre si è in metro o per strada nel traffico. Prendetevi la vostra ora di pace e di ispirazione a casa sul divano con lo stereo ad alto volume. E la Dichiarazione di Dipendenza (dalla buona musica, evidentemente) sarete pronti a sottoscriverla anche voi. www.kingsofconvenience.org Francesco Postiglione
recensioni
Bloody Betroots Romborama (Dim Mak/Universal)
MSTRK RFT Fist Of God (Downtown) Fist o f Go d è il secondo disco in studio dei M S TRK RFT. Da quando la techno è stata sdoganata in ambienti fino a pochi anni fa impensabili e paradossalmente nell’era della crisi dell’album a favore d’improbabili playlist, anche Dj/producers oggi possono vantarsi di una vera discografia ed essere di conseguenza riconosciuti con lo status di “star”. Forse il difetto di questo duo è proprio che il successo, aldilà dei numerosi remix, è arrivato prematuramente e i tentativi di estraneità al trend, per adesso restano solo chiacchiericcio da intervista. Nel frattempo Je sse F. Ke e ler e Al-P, nonostante un passato e una concezione di estrazione punk, hanno facce, linguaggio e sound che sono riconducibili a una scena electro-dance, nel frattempo battezzata anche Nu-Rave, trasversale alla nazionalità e assorbita in un sound globale e seriale, che poco si differenzia all’interno di una lungo elenco di nomi che indossano lo stesso modello di occhiali da sole, righe di lato e baffetti che involontariamente ricordano Moroder, anche se il friulano Giorgio è diventato affascinante solo in vecchiaia. La critica più aspra è da intendersi nel sound. “Fist of God” è un bel disco a tutti gli effetti, sebbene in qualche caso un po’ disordinato e ridondante. Se però un buontempone volesse fare uno scherzo e sostituire sulla copertina il nome M S TRK RFT con qualcun altro, non so in quanti individuerebbero la paternità dei brani. Vi sono molti ospiti presenti in “Fist of God”, soprattutto per riempire i vuoti melodici di rigide e spigolose strutture di synth compatti o acidi e colmati dalle voci di Joh n Le ge nd , N.O.R.E., E-40, Gh ost face K illah tra gli altri, all’insegna di un meltin’pot hip-hop house/techno. Molto bello il
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singolo “1000 Cigarettes” dall’aria vagamente “Megaloman”, fa molto sigla serie TV di supereroi giapponesi. www.mstrkrft.com/ Luig i Fer rara Hot Chip One life stand (Parlophone records) Il nuovo attesissimo disco degli Hot Chip conferma Alexis Tay lor e compagni come una delle band più creative dei nostri tempi, e non soltanto nell’immaginario nerd digitilazzitato, di cui sono vere e proprie icone, ormai. Uscito per la Parlophone records, già costola della Emi, l’album ribadisce in chiave R&B e soul due caratteristiche distintive che il gruppo londinese non ha mai celato: cupezza compositiva e vocazione categoricamente dance– pop. ‘One life stand’ esce fuori da un cappello vittoriano e non è una sorpresa, piuttosto indice di una continuità che la band non trascura ma al contrario persegue in maniera coraggiosa e impertinente. Di sicuro gli Hot Chip si fanno notare dalla EMI perché testimoniano di essere assolutamente padroni di un suono brit pop proprio, innovatore e sperimentale. James Murphy, già frontman degli Lcd Soundsytem e timoniere dell’etichetta indipendente americana di genere più in picchiata degli ultimi anni (la DFA records) lo sa bene. In tempi non sospetti li ha individuati come affini collaboratori. Al quarto album in studio, gli Hot Chip proseguono il progetto professionale che hanno intrapreso, si confermano abili manipolatori pick’nd mix e riescono ad imprimere ai suoni un mood quasi post – apocalittico.
Squisitamente occidentali per l’impostazione new age dei testi e terribilmente anglosassoni per le partiture elettroniche, i brani del disco riescono ad essere cupi in maniera scanzonata, ballabili e allegri ma allo stesso tempo intrisi di percettibili sfumature grigie. ‘Thieves in the night’ stabilisce in apertura le sonorità di tutto il disco: un assemblaggio di beat sintetici che si intrecciano in un crescendo a tratti psichedelico e disegnano piumaggi ondulari su una curva dark andante. ‘Hand me down your love’ ha un incipit martellante che ripete incessante la strofa del titolo, sullo sfondo di una tastiera trasparente ed una batteria sound check style. ‘Slush’ è una ninna nanna gospel semplicemente incantevole. ‘I feel better’ conferma lo stato di grazia, ‘We have love’ e ‘Brothers’ strillano ululati e inni d’ amore e fratellanza, rassegnati vocalizzi, prediche postgenerazionali che si sforzano di gridare alla fine del decennio l’intensa sensibilità, la precaria vivacità, l’eccessiva creatività, lo smisurato individualismo che lo hanno caratterizzato. Quasi a voler ribadire valori ancestrali in bilico, principi esistenziali sospesi tra l’incertezza del futuro e la ferma convinzione di vivere il presente. Suoni sperimentali e melodici, testi concisi e significativi. Un bel disco davvero, in attesa che il prossimo sia preventivato con l’unica promessa di giocare l’ennesima scommessa su loro stessi! hotchip.co.uk Antonio Ciano The Knife Tomorrow, in a Year (Rabid Records) Detto tra noi questo doppio “Tomorrow, in a Year” dei The Knife
non è in assoluto un album pionieristico, tanto meno un esempio rappresentativo della musica sperimentale e d’avanguardia. Comunque il gesto è esemplare e quindi merita un momento di approfondimento. L’opera è stata commissionata dal gruppo teatrale danese Hotel Pro Forma, si tratta di musicare “L’origine delle Specie” di Charles Darwin e vede la partecipazione di Mt. Sims con il compositore di musica da camera Planningrock e sarà portata presto sui palchi in giro per l’Europa. Innanzitutto sarebbe interessante scoprire la scheda tecnica. Ci sono di mezzo essenzialmente synth analogici trattati in maniera radicale che hanno egemonia gerarchica e rubano la scena a tutto; li senti ruggire come dei vecchi leoni soprattutto se gli oscillatori non sono in sync, lasciati liberi di schizzare ovunque come quando si schiaccia un uovo con le mani. Chi ha lavorato al missaggio è stato magistrale, l’output è piuttosto “decompresso” e si riescono a riconoscere separatamente tutti gli strumenti. La voce di Karin fa breccia nel suono, traccia una linea melodica fiammeggiante, ma è costretta a coabitare coi synth onnipresenti e suonati in maniera piuttosto cosmica, non disdegnando qualche drone o pad tirato all’infinito, almeno fino a quando il fonico non se ne accorge e disincantandosi si ricorda di abbassare il volume. Se non c’è lui, se ne occupa Olof Dreijer che gioca intimamente con le intonazioni, le fa salire e scendere come un ascensore in un palazzo d’inizio novecento, perlomeno quando non è impegnato con le sue dispotiche modulazioni a far vibrare le tracks in un unico tremolo. “Tomorrow, in a Year” è teatrale, la voce della Andersson svetta sempre di più verso i piani alti e gli archi tracciano la linea dell’orizzonte, il resto è impressionismo puro. Se vi viene mal
di testa, non v’intimorite, forse è perché la state usando, altrimenti inserite il secondo disco, nel quale i fratelli Dreijer riprendono un po’ di confidenza con il pop e, anche se l’aria è meno densa, non si differenzia estremamente da quella della prima parte. Qui i The Knife prima si trasformano letteralmente in Peter, Bjorn and John, poi a un certo punto entrano dei tom quasi tribali che annunciano cattive notizie dalla divina provvidenza e…un po’ di maltempo, ma quando subentra Karin in estasi elettronica, i pitch di Olof, gli archi e il resto, tutto allora, come previsto implode. Ad ogni modo il pubblico li ha aspettati con fermentata impazienza considerata anche l’ottima prova solista di Fever Ray e avendo il duo da sempre avuto un’ottima intuizione nel riuscire a far parlare di se, inoltre in squadra c’è quella fuoriclasse di Karin Dreijer An dersson, nonché star ispirata e raccomandata direttamente da Odino, con ottime idee artistiche e sempre maggior sorprendente personalità. Cari sperimentatori e affini, potete finalmente uscire dalle vostre caverne underground, ci sono per voi due nuovi profeti che, una volta tanto, hanno avvicendato il vecchio caro amico pop stuprato, sventrato e abbandonato alla mercé di tutti. Questa convincente irruzione dei The Knife non potrà lasciare indifferente il mercato dell’indie. Magari a sonorità un tantino più inusuali e ricercate si converte anche qualche nuova specie “darwiniana” di Homus “ciuffetto-cravattina-maglia-a-strisceConverse-anche-sulla-neve”, amante oltre che della propria immagine costruita, anche del solito riff di chitarra abusato, accompagnato da ritornello melodico che sa di zazzera profumata! http://www.theknife.net/ Luig i Ferrara
intervista
onestà musicale... il ritorno dell’ex Ritmo Tribale di Francesco Raiola
E
dda. Stefano “Edda” Rampoldi è stato, assieme ai Ritmo Tribale, uno dei protagonisti del rock italiano di inizio anni 90, uno bravo e rispettato. Ma un po’ di timore mi assale, derivato dal gran parlare del suo ritorno sulle scene e per tutta la storia di questo ragazzo quasi 50enne. Il rischio di fermarsi troppo sulla vita, quella vita che da quel lontano ‘96 lo ha visto prima scomparire per abbracciare la droga come nuova dea e poi in comunità fino a poco tempo fa, e troppo poco sulla musica. Un timore dovuto anche da una forte empatia provata verso la sua musica, i suoi testi, la sua voce che spazza via tutto: roca, sbilenca, assolutamente affascinante. “Semper biot” è uno di quei dischi che forse ha bisogno di qualche ascolto in più per essere capito a pieno, per abituarsi a quel cantato a volte un po’ strascinato, a testi che a volte procedono per suggestioni: “ quando faccio i testi e mi viene una melodia, apro un libro a caso e cerco delle parole poi compongo un testo ”.
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Edda
Come sei arrivato a realizzare “Semper Biot”? Nasce che ho conosciuto Walter Somà che è coautore dei pezzi, poi ho conosciuto Andrea Rabuffetti che è il musicista con cui ho suonato e con cui sto suonando in concerto, mi sono trovato in tasca quelle canzoni di Walter che a me piacevano molto, ci ho messo sopra un po’ anche io le mani e... Non me l’aspettavo, non era nei miei programmi fare un disco, non avevo assolutamente preso in considerazione l’idea, alla fine non è che è stato meditato, però nel giro di due tre anni a furia di suonarli questi pezzi abbiamo detto ‘ma sì proviamoci!’ e poi le cose un po’
sono venute da sole Quando e in quanto tempo sono state scritte queste canzoni? Beh ormai sono un po’ vecchiotte, di due tre anni fa, insomma. Ti ho v isto molto timido dalla Bignardi (era ospite dell’Era Glaciale su Rai Due, ndd), sebbene, paradossalmente, al centro dell’album ci sia tu (nei testi) e la tua voce mentre gli arrangiamenti sono, appunto, molto nudi! Sai non me l’aspettavo della Bignardi. Beh i testi non è che parlino propriamente di me, diciamo che poi mi ci trovo avendoli scritti, ma gli arrangiamenti li ha fatti Takedo (Gohara, che ha curato la produzione artistica ndr). Io non sapevo che disco fare, sapevo che non volevo una band, anche perché non ce l’avevo, ma non ce l’avevo anche perché non mi andava di suonare quasi con nessuno. Infatti leggevo che ai tempi dei Ritmo Tribale portavi così le canzoni e gli altri le arrangiav ano... Esatto, esatto... adesso non lo rifarei più un disco così, semmai dovessi fare un altro disco non sarebbe più così... In che senso... cioé hai idea di farne un altro? Come sarebbe allora? E come suonerebbe? Il pensiero c’è, perché i testi che non sono entrati in questo disco ci sono e potrebbero andare su un altro, ora non so se lo faremo se ci sarà la possibilità, però appunto già pensando al fatto di, eventualmente, farne un altro, vorrei che non suonasse come questo... Sul come
suonerebbe, non lo so, ci sto pensando. Che effetto ti ha fatto tornare davanti a un pubblico? Beh guarda il discorso è che per vivere faccio ponteggi, e quando sono lì che sto lavorando e ho un concerto la sera mi dico: ‘mamma mia, devo andare a suonare, che palle!, non ha senso, vorrei tornare a casa, guardare la televisione’, però al tempo stesso mi viene voglia di... beh arrivati a un certo punto nasce quasi l’esigenza. Prima suonare era un lavoro, ora è quasi un’esigenza, come dire: ‘lo faccio perché lo sento veramente’. Io sono una persona abbastanza emotiva e sensibile, quindi il trovarmi di fronte alla gente mi fa un po’ paura, però avendo nuovi stimoli riesco anche ad affrontarla. Hai detto che per un periodo non hai ascoltato musica... come l’hai trov ata al tuo “ritorno”? Guarda, non ascoltavo musica e adesso che la riascolto ascolto cose vecchie, non riesco a essere molto aggiornato anche perché non ho tempo di ascoltarla; vivo di rendita, di quelli che sono stati i miei ascolti; in pratica ho ascoltato musica per quasi 30 anni e adesso sono quasi 15 anni che non è che ne ascolto quanto ne ascoltavo prima. Ho un bagaglio di melodie che partono dall’infanzia e arrivano fino
ai 30 anni. Adesso non saprei neanche dirti, forse Moltheni, anche se non è proprio una nuova leva. Ti è capitato di pensare alla musica e di scrivere durante quegli anni di buio? L’inutilità e il pessimismo che a v olte macchiano l’album sembrano arriv are direttamente da lì... No in quel periodo buio musica niente, anzi dopo che ne sono uscito pensavo di aver perso del tempo a suonare. Ho passato 15 anni a suonare e mi dicevo che avevo buttato via il mio tempo, adesso, invece, che è uscito il disco posso dire che... è una vita un po’ strana quella dell’artista, ammesso che tu lo sia e io non credo di esserlo. Diciamo che in quel periodo era l’ultimo dei miei pensieri; oltre a non farla non mi interessava manco ascoltarla. Ti dà fastidio il fatto che sembra che non si possa slegare il parlare della tua vita dall’album? Cioè ti dà fastidio questa “curiosità” quasi morbosa a volte? Più che altro la capisco, magari a qualcuno interessa capire che è successo. Fastidio no, anche perché io non ho segreti, quello che faccio lo dico, anche se non sono cose belle... non mi dà fastidio, diciamo che forse la ripetizione... Non mi imbarazza quello che è successo, certo non ne vado fiero, ma alcune cose vanno dette, raccontate! myspace.com/stefanoeddarampoldi
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intervista
nnanzitutto bisogna ricordare che Dieter Moebius e Joachim Roedelius suonano insieme da quarant’anni, le registrazioni per “Klopfzeichen”, primo album dei radicali Kluster con il violoncellista C. Shnitzler, sono datate 1969. Oggi, dopo una carriera straordinaria e unica, esce “Qua”, edito dalla Klangbad di Faust Hans-Joachim Irmler e con Tim Story nelle vesti di produttore che ha apprezzato ancora una volta la grande capacità compositiva dello storico duo. “Qua” è un bell’album di semplice musica elettronica, merce di questi tempi piuttosto rara se escludiamo le imponenti releases techno-oriented, indiscusse padrone della scena. C’è poco da meravigliarsi però, i Cluster hanno sempre avuto un approccio reale e concreto con la “contemporaneità”, Roedelius e Moebius si sono lasciati appena coinvolgere dal digitale, nel senso che diciassette pezzi sono abbastanza rispetto a quanto proposto nelle precedenti uscite della coppia. Si cade in errore fare paragoni con l’indissolubile passato, il disco in oggetto fila dritto fino alla fine, complice l’ottima scelta del percorso eufonico dei brani. La
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di confronto, ma non di sfida, con le nuove generazioni anzi, va apprezzato il coraggio di porsi sempre in discussione. Tra l’altro Moebius e Roedelius hanno deciso di suonare live solamente il disco descritto poc’anzi. Appena entrati nel club, Moebius confessa:“Spero che non sia troppo grande per noi”. Fa un certo effetto sentir dire certe cose da un così rilevante esponente di un mo(vi)mento che ha creato cultura. I dischi e le notizie sui Cluster sono arrivate sempre col contagocce e con una limitata attendibilità, un po’ come per l’Iliade e l’Odissea che sono state tramandate oralmente per secoli e che hanno visto Omero in veste di notaio delle gesta di Ettore, Achille, Ulisse e associati. Il locale, in effetti, sarà piuttosto spazioso. Resta il prestigio di aver ospitato e intervistato una delle più grandi band di tutti i tempi e che sul tempo stesso ha concentrato la sua sfida. Interessante quanto afferma Julian Cope nel
Cluster
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ricchezza non ridondante di sonorità usate con la sapienza dei maestri minimalisti, non rende prolisse le esecuzioni e le atmosfere, questa volta non lunari, possono sembrare altresì notturne, intense e anche misteriose come in “Gissander” con melodie eteree eseguite da fauni. I beats sono fluidi e quindi la meccanicità di un tempo è lievemente tralasciata, e in alcune vicende pare di trovarsi davanti ad un album della Raster-Noton. Tutte queste considerazioni fanno sì che “Qua” in ogni momento può prendere direzioni non apparentemente in programma, del resto i Cluster hanno sempre avuto un forte senso compositivo molto più “fisico” che “elettronico”, tradotto sempre in una certa flessibilità e imprevedibilità. Scendono sulla terra quindi e ricreano ambienti sonori idealizzabili in un museo di arte contemporanea. L’ipotetico incontro con il passato, a metà strada tra “Zuckerzeit” e “Sowiesoso”, avviene in “Albtrec Com” sospesa tra un motivetto da castello della Disney in attesa di Cenerentola e una vignetta di “Peanuts”, in questo caso i Cluster dimostrano ancora una volta di conoscere alla perfezione il suono e quindi una precisa consapevolezza e “responsabilità” di ciò che stanno facendo, in ogni istante del disco, fermo restando un forte distinguo tra le personalità artistiche dei due. Il 19 dicembre 2009 i Cluster si sono per la prima volta esibiti a Napoli, al Kaleidoscope Festival. Un live che sa
suo Krautrocksampler a proposito di “Musik Von Harmonia”: “Non sembra prodotto da musicisti contemporanei, esiste in un’epoca che non è la nostra”. F. O.: Ho ascoltato “Qua”, il vo stro nuovo album. E’ un bel disco di musica elettronica e siete tornati a co mporre dopo parecchio tempo. Cosa ci potete raccontare di q uesta nuov a esperienza? Moebius: “E’ stato molto bello lavorare finalmente in studio di nuovo, con un ingegnere del suono e altri strumenti elettronici, possibilità nuove. Roedelis: “Non c’è niente di veramente nuovo, seguiamo il nostro percorso cominciato a Berlino nel 1969 e finirà in un luogo qualsiasi dell’universo e finché saremo qui sulla Terra, suoneremo in studio o dal vivo nello stile della “scuola dell’improvvisazione” che stabilimmo a suo tempo. F. O.: Generalmente av ete usato strume ntazione acustica. Per re g ist rare “Qua” avete usato tecnologia digitale e nuovi sintetizzatori, apprezzate questo modo di suonare, che differenze ci sono considerando il v ostro modo “fisico” d i comp orre musica? Roedelius: “Non uso solo strumenti acustici nei miei lavori solisti, suono tutto ciò che è utilizzabile e ragionevole a essere usato a un certo punto della creatività / produzione. “Qua” è stato fatto da due di noi solo con
apparecchiature digitali, assestate e arricchite da Tim Story che ha completato le tracce con i suoi studio-tools e plug-in. F. O.: Suonate ancora “free” o sessioni improv visate? Moebius: “Si, improvvisiamo sempre la maggior parte delle volte”. Roedelius: “Ovviamente, pressoché tutte le volte, eccetto quando sono in tour con la mia collega Alessandra Celletti o quando suono solista recitando le mie poesie. F. O.: Esattamente quarant’anni fa, il 21 dicem bre 1969, av e te re gist rat o
Roedelius: http://en.wikipedia.org/wiki/Conny_Plank http://images.google.com/images?hl=de&clie nt=safari&rls=dede&um=1&q=conny+plank&sa=N&start=20 0&ndsp=20 But please google yourself, troverete moltissime informazioni su Connie. E’ stato un ottimo amico e ci ha sostenuti al massimo. E’ stato un membro silenzioso del gruppo fintanto che producevamo nel suo studio. Ha aiutato i Cluster con i suoi consigli sul come usare lo studio come uno strumento. F. O.: Potete spiegarci la grande esplosio ne culturale av venuta in Germania all’inizio dei sev enties? Roedelius: “Non c’è molto da spiegare. Nel mondo c’era tanta sofferenza a causa della Seconda Guerra Mondiale, fascismo e comunismo. Così era il momento adatto a un cambiamento dopo quella guerra, la quale è essa stessa un evidente processo culturale che sfocia in tali catastrofi anche a causa dell’imminente cambiamento del millennio con tutte le sue turbolenze. Soprattutto il fatto che stava-
I nonni dell’elettronica moderna “Klopfzeichen” in un’unica sessione, a quei tempi pensavate di arriv are fino a oggi con una carriera ricca di soddisfazioni? Moebius: “No, nessuno sulla terra è capace di guardare avanti nel futuro di quarant’anni.” F. O.: Ci potete raccontare della vostra esperienza a Forst e delle registrazioni di “Musik Von Harmonia” e “Deluxe”? Moebius: “Ci furono due modi diversi di registrare, la prima armonia fu improntata molto simil-Cluster. La seconda, Deluxe, fu molto più costruita, molto più elaborata”. Roedelius: “Specialmente “Musik von Harmonia” fu composto nella maggior parte dei casi nel modo in cui i Cluster avevano suonato dal vivo e in studio, improvvisando. Ci sono alcune live-tracks da diversi concerti in “Deluxe”, ma è in qualche modo un disco elaborato, basato sull’abilità compositiva di Micheal Rother, ma con l’approccio alla musica dei Cluster come si sente dal background o meglio ancora nei brani stessi. F. O.: Nei mesi scorsi è uscito “Tracks and Traces re-released”, cosa pensate oggi di quelle sessioni con Brian Eno? Ha mai av uto modo di manifestare il rispetto che prov a per voi? Roedelius: “Brian venne nella nostra località rurale e fu felicissimo di far parte della nostra comunità. Il nostro rapporto non è stato tutto concentrato sulla musica / registrazioni, ma per il puro piacere di stare insieme e condividere la propria presenza l’uno con gli altri. Ci siamo divertiti molto insieme e questo lo si può sentire dalle tracce dei dischi. Leggete la nuova biografia di Brian Eno “On Some Faraway Beach” scritta da David Sheppard. In quest’occasione Brian parla della sua collaborazione con I Cluster e gli Harmonia con grande rispetto”. F. O.: Molta gente oggi non conosce il nome di Connie Plank. Un ricordo per questo grande tecnico/musicista? Moebius: “E’ stato meraviglioso e un grande aiuto per molti gruppi a quei tempi.”
mo entrando in un nuovo millennio fu la base per tutti i cambiamenti positivi nel contesto sociale.” Moebius: “Negli anni sessanta e nei settanta non esisteva una propria identità musicale. C’era solo Shagler e chiaramente musica classica, oppure band che volevano fare rock imitando quelle inglesi o americane. Così abbiamo preferito “sfuggire” e fare qualcosa di veramente nuovo.” F. O.: Ogg i è un buon momento per la Kosmische Musik. Molte riviste specializzate hanno riscoperto il fenomeno e le ristampe oggi escono fuori dal nulla. Inoltre c’è una buona attiv ità di musica liv e e qualche nuov o disco. Vi capita di incontrare musicisti di quel momento? Moebius: “Si, a volte incontriamo qualcuno ai festival, ma molti di loro fanno la stessa cosa di vent’anni fa!” Roedelius: “Non siamo mai stati parte del Kosmische Movement, non ci siamo mai rispecchiati in quella categoria e abbiamo lavorato sempre separatamente da quella scena etichettata come Krautrock. Abbiamo creato la musica dei Cluster come un’etichetta speciale all’interno del campo della musica elettronica e contemporanea. Ma spesso li incontriamo coloro che sono stati parte di gruppi identificati nella Kosmische, anche se non suoniamo insieme. Molti di loro come Klaus Schulze, Florian Schneider-Esleben, Manuel Goettsching ed altri sono nostri amici! Luigi Ferrara
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