#3 2013/ FREEMAGAZINE /
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Benvenuti alla Grande Abbuffata di Freaks n°3, il
succulento numero dedicato al Cibo! Il ricco menu Slow Movie che la cucina, anzi la redazione vi propone, è una lista di fenomeni di eccellenza elaborati per voi dai nostri Chef, guidati come consuetudine con maestria dal capo cuoco Steve Della Casa, che apre le danze con un antipasto insolito, Bagna Cauda alla Berlinguer. La lista delle suggestioni culinarie prosegue poi inarrestabile in un trionfo di gusti e tentazioni a 35 mm irresistibili. Cominciamo dunque con la cucina casereccia rivisitata appositamente per voi attraverso i fagioli e le salsicce di Bud Spencer e Terence Hill, si continua gustando i piatti forti dal libro di ricette di Hannibal Lecter e per rimanere in tema di palati robusti, un attore ci racconterà come assaporare un “filetto” di scena piuttosto indigesto… Ma niente paura, facciamo una pausa con il formidabile “Digestivo Antonello”, l’unico toccasana contro i mattoni in celluloide! Ripartiamo con calma curiosando tra i pranzi e le cene di famiglia, e in un crescendo pantagruelico divoriamo i cetriolini della DDR tornati sugli scaffali della nostro negozio di fiducia, attraversiamo sempre più affamati le Delicatessen francesi, ci sediamo volentieri al Pranzo dell’Alleanza di nonna Babette e per finire, lasciamoci travolgere dal variegato Menu d’Amore per il gran finale. Quasi un suicidio alla Grande Bouffe, sperando che riusciate a sopravvivere, anche perché dovrete adoperare le vostre residue energie per fuggire dagli zombies tenuti a stecchetto da Vincent Price che, poveretti, dovranno pur mangiare anche loro… Se avete ancora fame, tornando a casa fermatevi a fare uno spuntino nel chioschetto AMNC con la loro specialità, “Il Cinema da Mangiare”. Buona visione. Stefano Delmastro / Roberto Melle
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/Copertina: Delight&Design / StudioPiùLuce
Alla regia di FREAKS #3 /Editore: HI-MEDIA di Giancarlo Musto via Cernaia 25 - Torino /Direttore responsabile: Antonio Verteramo /Regia: Roberto Melle, Stefano Delmastro /Aiuto regia: Pierpaolo Bottino /Collaboratori: Filippo D’Arino, Matteo Emme, Mario Fassio, Mauro Melis, Macs Padrini, Dario Quatrini, Giorgio Rubbio, Selvaggia Scocciata, Giacomo Sturniolo, Francesca Trinca, Miriam Visalli. /Ringraziamenti: Steve Della Casa, Film Investimenti Piemonte, Eataly Torino, Pierrezeta.com (progetti 3D), Vintage Movie Collection.
/Con la collaborazione di
/Pubblicità: HI-MEDIA: emotional communication via Cernaia 25 - Torino - tel. +39 011 6694724 P.I. 10194980016 commerciale@freaksmagazine.com /Seguici e contattaci su: www.facebook.com/FreaksZine oppure cercaci e scaricaci su: www.issuu.com/freaks_mag scrivici a: redazione@freaksmagazine.com /Stampa: GRAFART viale delle Industrie 30 • 10078 Venaria Reale (TO) • tel: 011 4551433 • www.grafart.it
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Autorizz. del Tribunale di Torino n° 14 del 21/05/13 Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione.
4_Mangiare il Cinema Emanuele Tealdi - AMNC 7_Il pranzo dell’alleanza F. Trinca 8_Un boccone amaro S. Scocciata 11_Spree wald rabe! G. Sturniolo 14_Civiltà cannibale M. Visalli 16_Mangiare e non essere mangiati G. Distefano 18_Vintage Movie Collection FREAKS Concept
22_Berlinguer e il professore S. Della Casa
#INDEX
20_Tagliata alla Lecter F. d’Arino
24_The beans brothers A. Verteramo 26_La dolce morte R. Melle 28_Attenti a quei due FREAKS Interview (FIP) 32_Indovina chi viene a cena? M. Fassio 34_Menu d’amore P. Bottino 36_Lyrics FREAKS Concept
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MANGIARE IL CINEMA di Emanuele Tealdi - Associazione Museo Nazionale del Cinema
Ciò che fuoriesce da parole attualmente poco decantate come “cultura”, “arte” e nello specifico “cinema”, ha molto in comune (e forse non dovrebbe) con ciò che viene comunemente definito cibo. Affinità che condivide con un altro aspetto fondamentale dell’esistenza umana, la sessualità (Marco Ferreri docet). Se quest’ultima detiene esplicitamente (attraverso il voyeurismo e la pornografia) un legame saldo con il mondo della cinematografia, per quanto concerne cibo e alimentazione la questione si fa più sottile, a tratti forzata, ma comunque
prodiga di spunti. Innanzitutto un simbolico cannibalismo, generato dalla quotidianità tangibile e antropomorfa del cinema, in un corto circuito fra autori, spettatori, documento e memoria. Corto circuito che grazie all’immortalità del cinema può continuare nel tempo a nutrire lo spettatore futuro. Penso, come esempio, al poco conosciuto Julio Bressane cineasta espressamente definito antropofago (che certamente nulla ha in comune con Hannibal Lecter o i suoi simili cinematografici). Oppure penso ancora ad una famosa e significativa sequenza dell’attore che si nutre della camera da presa e dell’operatore (e quindi dello spettatore), antropofagia evocata nel 1901 da James Williamson con The Big Swallow. Andando oltre, un secondo legame,
Julio Bressane - sul set di A Agonia, 1976 - copyright Ivan Cardoso
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non certo lusinghiero per il cinema, è espresso da una delle massime personalità intellettuali del Novecento: Bertolt Brecht. Adottandola nell’universo cinematografico, la sua famosa affermazione sull’opera borghese e quindi gastronomica e culinaria è, dopo ovviamente un ulteriore livellamento verso il “basso”, assolutamente valida anche oggi. Risulta pressoché impossibile riuscire a destreggiarsi e ad orientarsi, per il semplice spettatore, nella straripante produzione di rapidissimo consumo di cinema nelle sale, nelle televisioni, nei dvd o blue-ray e soprattutto nella rete. Se vale fare un paragone culinario, a differenza degli Anni Venti di Ascesa e caduta della città di Mahagonny, oggi proprio come l’arte anche il cibo, subendo una doppia reificazione attraverso i meccanismi del consumo, oltre che prodotto diventa una caricatura di se stesso, un simulacro, attraverso la velocità e quantità del fast food estremo: pertanto ora non solo di arte gastronomica si tratta, ma addirittura di una gastronomia avariata ed immorale. La pessima qualità del cibo comunque non incide più di tanto, è semplicemente un valore aggiunto. Anche se non si trattasse di pessimo cibo o addirittura di veleno, il destino dell’Occidente resta invariato, il prezioso cibo bramato nelle sequenze neorealiste diventa simbolo di un’opulenza deleteria. La fame diventa un’esigenza secondaria, il consumo ossessivo arriva a strozzarci, generando indigestioni e godimenti compulsivi fino alla morte, probabilmente in croce come il povero Stracci, protagonista de La ricotta, per il quale “crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione”.
The Big Swallow (Il grande boccone) - James Williamson, 1901
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“I hate people who are not serious about meals. It is so shallow of them.” Oscar Wilde, The Importance of Being Earnest
Apro una porta umile, un ultimo sguardo alla collina che segna il confine del mio campo visivo, e affronto una scala angusta. Sono numerose le domande che mi tormentano prima di entrare in casa. È una domenica insolita, in cui - al torpore domestico e inconcludente - si contrappone un’uscita, anzi, ben di più, un’anomala riunione tra i pochi superstiti di una famiglia, poco avvezzi a ritrovarsi insieme, persi nel fango di incomprensioni, rancori e fraintendimenti. La nonna non si accontenta e, dopo anni di mancati incontri, impone sfide maggiori, estendendo l’invito a due vicini, sorpresi di essere accolti nel gruppo e grati di tanta generosità. Lei è appesantita, affaticata dal dolore del corpo e dello spirito, eppure sempre fiera e solare. Si muove in uno spazio ristretto, tra vecchi arnesi, intenta a ripassare le portate sontuose che ha in serbo per questa giornata. Sono nuovamente stupita dal suo ardore, da un progetto culinario che si articola in architetture complicate, nel quale ha investito preziose energie e non poco denaro. Fatico a concepire tutti quegli sforzi, sbircio su un mobile gli appunti per il menu e mi chiedo come sia possibile orchestrare un banchetto tanto ambizioso alla sua età, nelle sue condizioni. Echi di una cucina lontana, giallastra, in cui filtra ancora il chiarore del cielo, fanno da contraccolpo a sinistri rintocchi di un mondo che non ritornerà. Mi guardo intorno, ricordo epoche andate, visi ormai scomparsi, alcuni dei quali mi osservano seri da foto già sbiadite. Un tempo era normale condividere un pasto, un tempo era ordinario sedere intorno allo stesso tavolo e parlare in armonia. Il cibo comincia lento la sua processione e, solenni, le prime portate ci avvolgono con il profumo della memoria. Sono sapori a noi noti, forse esotici per qualcuno, ma raccontano storie di vita comune. Ne sento già la mancanza, dovrò farne tesoro, perché questi sono gli ultimi assaggi. Le parole fluiscono timide, ci si studia con qualche perplessità, interrogandosi su anni di silenzio e scambi occasionali. Dapprima si è ammaliati dall’esperienza dei sensi, pervasi dal piacere, intenti a riscoprire ricette passate, assorti nelle proprie percezioni. Rivivo la gioia innocente di quando ero bambina e i miei piatti preferiti offrivano riparo all’animo inquieto; li ripasso uno ad uno, ne sento ancora l’intima fragranza. Intenta a scomporre gli ingredienti di tutte quelle specialità, noto d’un tratto i volti dei commensali apparire più distesi e - come d’incanto - un’aura ci avvolge e il senso di ogni cosa assume nuova forma. Una delicata poesia aleggia tra lo sferragliare di posate e, nutriente, segna il ritmo del nostro vivere. Si scivola docili in un altro regno, si varca la soglia di un mondo diverso. Dal tremore delle sue mani incerte giungono doni illuminati e il pranzo diviene un momento di grazia e riconciliazione, in cui ogni singolo gesto si trasforma in offerta d’amore.
Testi: Francesca Trinca
Nonna Babette sa bene che è la sua ultima occasione, perché i giorni a venire sono come un soffio; ha speso ormai tutto ciò che le restava, e questo è il suo sacro congedo. Il suo volto sereno ci ringrazia per il bene ricevuto e compie il miracolo che segnerà il nostro domani. Colmi di gioia siamo interpreti di un nuovo linguaggio, accarezzati da un timido vento di speranza, mentre lei - già in disparte - si gode la scena e, sorridendo tra sé e sé, già riflette sul prossimo menu celeste.
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UN BOCCONE AMARO Eravamo tutti lì quel giorno. Tutti con la nostra parte da recitare. Un onore enorme lavorare con lui. Lui: voce ferma, idee chiare e personaggi perfettamente caratterizzati. LUI LADRO LUI
Cuoco... hai capito bene quello che devi fare? Il tuo ruolo è fondamentale, tu puoi tutto. Tu decidi, tu fai, tu non hai paura del ladro. E tu ladro? Tu devi suscitare davvero disgusto. Non sei il cattivo, sei l’essere ripugnante per eccellenza. E volevo dirti che... Sì? ... no, dopo. Moglie, tu sei diversa. Delicata, passionale, leggera. In te c’è tutta la grazia di questo film, ma anche temperamento e vendetta. Per quel che riguarda te, amante, beh... tu fai quello che ti pare. E adesso rilassatevi un attimo. Poi scendiamo nei particolari.
Stavamo sciogliendo le file, emozionati e anche spaventati. Tutta quella teatralità del regista e della scenografia conferiva al set un tono maestoso. LUI Ladro. LADRO Sì? LUI Posso parlarti un attimo, Ladro. LADRO Assolutamente. LUI So che non siamo andati nel dettaglio, ma... LADRO Conosco bene il copione. L’ho letto con attenzione. LUI Già è proprio di questo che volevo parlarti. Ho avuto dei ripensamenti sul finale. LADRO Ripensamenti? LUI Bah, inezie... LADRO In ogni caso non sarà un problema. Mi piace questo ruolo, l’ho accettato. Non sarà facile, insomma... è un vero bastardo “quello”. Accennai un sorriso che venne raccolto dal regista solo in parte. Solo con mezzo lato della bocca. LUI LADRO LUI LADRO LUI LADRO LUI
Già, ma... vedi... è un bastardo “quello”, senza dubbio, ma sentivo l’esigenza di un finale più... epico? Si può dire? Epico, signore? No, no. Non si può certo definire epico... esagerato? Forse sarebbe meglio “scioccante”. Beh... doversi mangiare l’amante della moglie è già abbastanza scioccante. No? Giusto, giustissimo. Ecco perché ho voluto te, per questa parte. Perché sei l’unico capace di reggere tale confronto. Bene. Per un attimo ho temuto ci fossero problemi. Problemi? Nooo-o.
Mentiva, si vedeva. Non riuscivo a capire cosa cercasse di dirmi. Insomma, avevo appena accettato un ruolo in cui alla fine del film il protagonista è costretto dalla moglie a mangiarsi il corpo “grigliato” dell’amante. LUI LADRO LUI LADRO LUI
Ecco vedi... rimane tutto uguale. Solo che vorrei che iniziassi a mangiarlo da... lì. Lì dove? Insomma, una mano, un piede... una parte vale l’altra. “Una rosa con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo?” O qualcosa del genere... Temo davvero di non capire... Quello che sto cercando di dirti è che la scena è molto drammatica. Hai appena ucciso l’amante di tua moglie...
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* Citazione tratta presa in prestito dal film “The meaning of life” dei Monty Python.
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Testi: Selvaggia Scocciata / Layout: Giorgio Rubbio
Coso cosa? Ohhh, il coso.
LADRO E fin qui... LUI Lei è fuori di sé... LADRO Giusto, niente da aggiungere... LUI E per punirti ti obbliga, puntandoti una pistola, a mangiarne il corpo. LADRO Come me l’ero immaginato. LUI Comprenderai che... non sarebbe una scena forte se ti costringesse a mangiare il filetto. Per dire. LADRO No, effettivamente no. LUI E non sarebbe nemmeno una scena forte se ti costringesse a mangiare il SOTTO filetto. LADRO No, temo di no. LUI Mentre sarebbe scioccante se lei ti guardasse mentre mangi il suo “coso”. LADRO “Coso” cosa? LUI Il suo... coso. LADRO Ohhh, il coso. LUI Già. LADRO Quel coso. LUI Sì. Per finta, si capisce Ahahahahahahahah! LADRO Ah - ah - ah... LUI Sconvolto? LADRO Solo per le prossime 13 settimane. LUI Devi ammettere che... LADRO A questo punto ammetto qualsiasi cosa... LUI Dai, è una roba che stravolge, disgusta, prende lo stomaco. Non credi sia meglio? LADRO Certo, meglio. O come ho sentito una volta in un film “Meglio un secchio, sto per vomitare”.*
La filodiffusione spara “chi paga” degli Onemic. Presagi funesti? Significati reconditi? Trovo subito la vodka, ma sui cetriolini mi fermo. Le etichette sono colorate e sgargianti, ma il contenuto è squallidamente omogeneo: piccoli, bianchicci e con l’odioso zucchero aggiunto per correggere l’acidità. Infilo la mano in fondo alle file di barattoli. A volte, un po’ nascosti, si possono trovare “avanzi” interessanti. E infatti trovo qualcosa di interessante: “Spreewaldrabe Gurgentopf”, “DDR” . Ma che roba è?
Luglio. Quaranta gradi. Caldo soffocante. Stasera si chiude la partita. Un brivido tiepido mi attraversa la schiena. Comunque vada mi prenderò una sbornia colossale! In caso di condanna festeggio con Blinis Demidoff e Deanston 12 anni. Ho speso una fortuna, ma ne potrebbe valere la pena! L’assoluzione, invece, merita vodka Keglevich e cetriolini acidi. Sbronza triste e mal di stomaco assicurato. Nel mio immenso ottimismo ho provveduto solo ad attrezzarmi per la prima ipotesi, ma ora sono al supermercato per colmare eventuali lacune. Non si sa mai.
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“Blinis” mi è passata la voglia e di mangiare cetriolini comunisti scaduti non se ne parla nemmeno! In fondo a stomaco vuoto si pensa meglio.
Sono incuriosito, lo prendo. C’è solo una confezione. Niente prezzo e niente scadenza. Boh? Deciso. Per deprimersi andrà benissimo! Vado alla cassa automatica. Passo i vari articoli, ma quando arrivo allo strano oggetto non vedo nemmeno il codice a barre. E adesso come faccio? Nessuno mi sta guardando. Lo porto via lo stesso. Rubare un barattolo di cetriolini della DDR è un gesto così idiota, che se mi beccano posso sempre invocare la semi infermità mentale! Tutto volge rapido. Esco, vado a casa e mi butto sull’ipad. Digito “Spreewaldrabe”: “marca di cetriolini sott’aceto diffusi nell’est europeo prima della caduta del muro di Berlino; vengono citati nel film Good Bye Lenin del 2003: regia di Wolfang Becker e colonna sonora di Yann Tiersen noto per Il Mondo di Amelie”. Ma come è possibile? Il film l’ho visto anch’io e ora ricordo anche i famosi cetriolini. Ma si trattava di un prodotto introvabile già negli anni novanta! Sarebbe come comprare un Malt Mill! Non sono cose che si trovano in un supermercato del Lingotto! Ho bisogno di riflettere. Ci bevo sopra. Mi manca il coraggio di aprire la Keglevich, passo direttamente al Deanstone. Sarebbe meglio mangiare anche qualcosa, ma di preparare il
La serata passa fra ipad e tv. Arriva la condanna, che io avevo già di fatto festeggiato con abbondanti dosi di scotch, mentre i cetriolini rimangono un mistero inspiegabile. Ho scoperto che dopo il successo del film sono stati riprodotti in copia, ma quello che ho in casa è un barattolo originale! Domani potrei tornare al supermercato per indagare. Ma se nessuno ne sapesse niente? Mi prenderanno per matto! Come faccio a dire con naturalezza che ho rubato una confezione di cetriolini ed ora vorrei avere maggiori informazioni. Forse ho bisogno ancora di schiarirmi le idee. Troppo whisky e troppa confusione.
Testi: Giacomo Sturniolo / Layout Macs Padrini
Esco di casa e attraverso la strada barcollando. Sento una botta violenta, credo mi abbiano investito. Sento un dolore intenso ad un ginocchio, ma rimango cosciente. Non è così grave. Si avvicinano due individui. Forse vengono a soccorrermi. Che strana macchina nera. Oddio! Non è possibile! È una Volga nera!
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Pagina pubblicitaria a cura della redazione. Il soggetto è di pura fantasia.
FILM DIFFICILE DA DIGERIRE? Da oggi c’è Amaro Antonello.
Amaro Antonello è il rimedio, completamente naturale, creato per digerire il polpettone francese, la zuppa inglese e persino i fegatelli russi. Grazie alla sua azione immediata Amaro Antonello aiuta a mandare giù qualsiasi tipo di pellicola, trilogia e retrospettiva. Provalo anche su spaghetti western e cinepanettoni, a casa o al cinema. È un presidio EasyFilm, ideale per affrontare con leggerezza ogni film festival. Può avere effetti collaterali. Non superare la dose consigliata in caso di sottotitoli. Non utilizzare due volte per lo stesso film.
“S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche” suggeriva ai suoi sudditi affamati una nota regnante al trono di Francia, o almeno così riportano i suoi motivati detrattori. Ecco, Delicatessen (J.P. Jeunet, M. Caro, 1991) mette in scena, in
medias res, un indefinito avamposto di una Francia forse post-atomica, forse no, in cui il pane decisamente scarseggia. E presumibilmente anche le brioches. Sappiamo che in molte rappresentazioni di società distopiche ormai sconvolte dalla sovversione delle regole convenzionalmente riconosciute, la tormentosa ricerca del cibo è assurta a missione primaria. In effetti, non a caso alcuni dei superstiti di Zombi trovano asilo in un centro commerciale con una certa soddisfazione in termini di derrate alimentari, tutto sommato più fortunati dei sopravvissuti di The Road in cui la sinistra “dispensa” ubicata nella casa-rifugio della banda di cannibali provoca un brivido polare lungo la schiena dello spettatore confortevolmente accoccolato in poltrona. Se il cibo scarseggia, insomma, occorre ingegnarsi. Magari infrangere qua e là qualche tabù atavico. E gli inquilini del condominio fatiscente e caliginoso di Delicatessen sembrano ormai ferrati in materia: il signor Potin che alleva rane e lumache per assicurarsi una gustosa pietanza o il povero Tapioca che costruisce richiami (non trappole) per topi. C’è poi chi non si rassegna alla desolazione della carestia come Aurore Interligator che si affida quotidianamente a tragicomiche macchine da suicidio con architetture disfunzionali, non così dissimili dai congegni fabbricati dalla Acme Corporation, di cui ricordiamo Wile E. Coyote tra i clienti premium. Dotato di un pragmatismo ruspante, il macellaio Calpet mantiene aperto il suo esercizio, la bottega Delicatessen, commerciando carne umana in cambio di
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Testi: Miriam Visalli
mais e lenticchie, con spregio per le banche del germoplasma, diremo ai giorni nostri. Da bravo artigiano della proteina, Clapet dai sordidi appetiti (ne sa qualcosa m.lle Plusse che, almeno, risparmia le sue granaglie), fa fronte alla carestia attirando la materia prima tramite inserzioni sul giornale locale in cerca di un factotum che abbia cura del condominio. E così scruta attentamente il nuovo candidato, il segaligno Louison, non tanto per accertarsi della sua prestanza fisica, quanto per soppesarlo. Lo salverà Julie Clapet, fortunosamente, dall’affilata mannaia paterna. Sì, perché l’insospettabile Julie è una spia dei Trogloditi, i dissidenti vegetariani che dimorano nel sottosuolo, la cui missione è impedire più o meno segretamente il proliferare delle pratiche di predazione infraspecifica. Che siano i mutanti abnormi di Futurama o i ribelli di Matrix, chi è intenzionalmente avulso dal sistema dominante, si sa, è spesso relegato in un altrove estraneo alla norma e, come da copione, i Trogloditi non fanno eccezione, per di più con un nome inequivocabile che di contro colloca il cannibalismo come ultima frontiera di un condiviso adeguamento al presente. E se cibarsi di carne umana è ormai la prescrizione, i vegetariani riottosi scelgono la dieta sacrificale del guerriero, un po’ come Beatrix Kiddo si nutriva di riso bollito durante l’addestramento con Pai Mei. Così è Delicatessen, che non ci parla della scaturigine misterica del cannibalismo funerario o guerresco, né di storie da Messico precolombiano. Non lascia spazio al rituale o alla sua evocazione, nessun erudito dottor Lecter sta per avere un vecchio amico per cena, e neppure soffriamo le dolorose incidenze psicologiche del tabù infranto di Improvvisamente l’estate scorsa. C’è piuttosto una scatola immaginifica del cinema come arte sincretica, dai titoli di testa che evocano un gioco punta e clicca al trattamento sonoro del Mickey Mousing. C’è una dimensione favolistica che ammanta
con una coltre seppiata gli oggetti attivatori di una certa fascinazione retrò e le maschere cialtrone e grottesche dei personaggi, scolpite col cesello di una satira pungente e pervasiva, l’unica via possibile per accettare che non c’è posto al mondo per il sognatore Louison, se non su un tetto, a suonare melodie malinconiche con strumenti da bricoleur. Insomma, senza la beffa e l’irrisione, senza il filtro zuccheroso di Instagram il concetto di barbarie è meno labile. Con Delicatessen invece accettiamo che il “prigioniero” Louison sia più utile come cibo che come produttore di cibo, che le lame affilate di Clapet non risparmino neppure la povera nonna Tapioca perché, come da tempo immemore è noto, gallina vecchia fa buon brodo. Ma senza liturgie ritualizzate o senza filtri di varia sorta a pensarci bene la fame, come il trapasso estremo, è un inesorabile livellatore. In una scena di A cena con il diavolo, magari celatamente inebriato dal genio della haute cuisine che fu Carême, il diavolo zoppo Talleyrand sentenzia:
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“I regimi passano. La cucina resta”. Davvero?
Testi: Giuseppe Distefano
Cause he gets up in the morning, and he goes to work at nine, and he comes back home at five-thirty... (A Well Respected Man - Ray Davies)
Vincenzo si alza tutte le mattine, si prepara un caffè, in cucina e prima di uscire controlla che in casa sia tutto in ordine, compresa la collana di aglio che fa bella mostra appesa sulla porta d’ingresso. Sembra l’inizio di una giornata normale, se non fosse per il fatto che Vincenzo-Vincent, lo scienziato Robert Morgan, apparentemente un Well Respected Man, da tre anni è l’ultimo uomo della terra, a causa della diffusione di un virus che ha trasformato gli esseri umani in zombie succhiasangue. È la trama de L’Ultimo Uomo sulla Terra, film italianissimo del 1964 di Ubaldo Ragonà, uno dei tre, quasi certamente il più significativo, tratto dal romanzo cult Io Sono Leggenda di Richard Matheson. Il film è completamente nelle mani di Vincent Price: recita attraverso monologhi interiori in una Roma completamente deserta, che esalta, da subito, il senso di solitudine del protagonista costretto ogni giorno a procurarsi da mangiare, e di notte a fortificare la casa per non farsi, a sua volta, mangiare. Questa è vita? Si chiede. Eppure lui continua, ogni giorno, imperterrito, in un equilibrio precario tra pulsioni di vita e di morte, anticipando i temi e le inquietudini che caratterizzano la cinematografia di genere gravitante attorno a Zombie-Land. Quando Vincenzo, in una delle prime scene, entra in un centro commerciale, ragionando e discettando su quale cibo debba prendere per il suo quotidiano approvvigionamento, non può certo immaginare di rappresentare, assieme al primitivo supermercato con annesso reparto alimentare, il capostipite di una serie di personaggi
che nei decenni a seguire connoteranno significativamente il filone riguardante i morti che camminano... Anche il luogo, il Supermercato, attraverso stilemi riguardanti il cibo, rappresenterà sempre più, una chiara parabola sul futuro della civiltà dei centri commerciali, che oltre a diventare uno dei leit-motiv del genere, rappresenta una chiara metafora della decomposizione della cosiddetta società dei consumi. I vampiri quasi dimenticati di Matheson-Ragonà, nel frattempo diventati zombies, rappresentarono le autentiche avanguardie di una mutazione genetica legata alla figura del mostro, che oltre al sangue, adesso comincia ad aver bisogno di mangiare carne umana. In questo senso sono dei mostri cinematografici e letterari diversi da tutti i precedenti. Sembrano deboli ma sono fortissimi, e seppur lentamente, avanzano continuamente, come un’orda famelica a cui niente resiste. In più, hanno un super potere, non da poco: non possono mai morire di fame! Vincenzo, e tutti i suoi epigoni, cinematografici e televisivi come quelli della Fox, con il tempo hanno imparato a scoprire sulla loro pelle il potere degli zombies, alimentando quella paura nei confronti del diverso che noi italiani ultimamente ben conosciamo. Potenza del cinematografo, che quando riesce ad interpretare il mondo (consciamente o con guizzi spontanei,
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geniali o istintivi, poco importa), come un mondo suscettibile al cambiamento, si pone sempre un passo d’avanti alla vita. L’attualità del film di Ragonà appare dunque sconcertante: basta guardare le immagini (peraltro filtratissime) che la TV ci mostra ogni giorno, per capire che tra i mostruosi esseri cinematografici e la massa brulicante che ci tende la mano per un pezzo di pane, ci siano tanti punti in comune, anche dal punto di vista estetico. La vera differenza, importantissima, sta nel fatto che la realtà, come sempre, supera, per efferatezza e crudezza, le storie cinematografiche. I diversi e i disperati della terra, a differenza dei mostri cinematografici, possono morire, e muoiono nella realtà, anche di fame. Non è cosa di poco conto, in un mondo in cui il cibo è visto e trattato più come cosa da mostrare e spettacolarizzare (come confermato dal successo di recenti trasmissioni televisive), invece che come elemento primario e basilare per la vita. Vincenzo tutto questo, con largo anticipo, mentre controllava la quotidiana commestibilità del suo approvvigionamento... lo sapeva.
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Tagliata alla Lecter
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1 . Prendete un essere umano. Dopo averlo affasci-
curante. Sedatela, eventualmente, solo se davvero necessario. Poi potrete lavorarla ancora e con altrettanta cura, provvedendo a mantenerla inerte, ma al tempo stesso vigile e ricettiva. Osservatela. E lasciatevi osservare. Parlatele. E fatela parlare. Quid pro quo. Prima che il composto così ottenuto possa perdere irrimediabilmente la sua lucidità e la sua naturale tenerezza, lasciatelo macerare il più a lungo possibile nel dubbio: contrariamente a quanto si possa pensare, cederà e si ammorbidirà sensibilmente. Potrete aggiungere empatia e compassione, ma senza esagerare. Fate poi riposare a vostro piacimento in un sonno confuso. Tic-tac, tic-tac, tic-tac, tic-tac.
nato, disorientato e illuso, privatelo poco alla volta di ogni possibile idea di umanità. Nel farlo, adoperatevi lentamente ma con assoluta fermezza. Dovrete togliere tutto. E dovrete farlo pazientemente, insistendo (in special modo sulle parti più tenere) con estrema calma. Prendetevi dunque tutto il tempo che occorre. Pulite finemente, utilizzando solo gli strumenti che ben conoscete. I più affilati, i più sorprendenti. Se le circostanze lo richiederanno, adoperatevi con la necessaria scaltrezza di modo che la preparazione non subisca la benché minima interruzione. Non lasciate perciò che le suggestioni altrui influenzino questa fase essenziale. Non permettete alla vostra esperienza, al vostro gusto e alle vostre scelte di subire qualsivoglia variazione. Ricordate sempre che si tratta di un procedimento già essenziale nella sua perfezione. E che, di conseguenza, a ciò che risulta essere semplice e perfetto è sempre consigliabile non aggiungere o togliere nulla.
.
3 Trascorso il tempo necessario, potrete finalmente disporre la carne secondo l’ordine stabilito. Procedete ad insaporirla con un’accurata riduzione di ansie e paure allo stato puro. Terrore anche, eventualmente. Ma solo se davvero necessario e senza mai esagerare (il terrore riesce a rendere tutto incredibilmente sciapo ed insensato, a volte). Riversate infine sull’intero composto il tiepido umetto che la macerazione prolungata avrà generato. Amalgamate con vigore. Fatelo con gesti ampi, più e più volte, fin quasi a sfiancarvi. Poi non vi resterà altro che aspettare. Riposatevi. Quando il vostro piatto sarà pronto, lo saprete certamente. Perché sarà lui stesso a rivelarvelo. A quel punto, senza indugiare oltre, servitelo tiepido ma ancora palpitante.
2 . Una volta ridotta ogni emozione residua a sem-
plice frattaglia, potrete disfarvene nel modo che preferite. Consiglierei tuttavia di conservare sempre tutto, comunque: scarti del genere, se generosamente disponibili, possono rivelarsi un contorno sorprendente. Dipende unicamente dalle circostanze. A questo punto, messo da parte il superfluo, lasciate in vita la carne pulsante il più a lungo possibile. Fatela riposare per qualche ora in una quiete rassi-
Il Dott. Hannibal Lecter è un medico psichiatra, criminologo, nonché assassino seriale con l’ossessione per l’antropofagia e una morbosa passione per la cucina italiana. Il personaggio di Hannibal Lecter, soprannominato “Hannibal The Cannibal” è stato creato dallo scrittore statunitense Thomas Harris ed è stato impersonato sul grande schermo da Sir. Anthony Hopkins nel film del 1991 “Il Silenzio degli Innocenti” (The Silence of the Lambs) diretto da Jonathan Demme. Per la sua breve ma assolutamente memorabile interpretazione, Sir. Anthony Hopkins ha ricevuto nel 1992 il premio Oscar come miglior attore protagonista.
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Testi: Filippo D’Arino / Layout: Mauro Melis
Da consumare preferibilmente in assoluto silenzio. In alternativa, diffondere le Variazioni Goldberg BWV 988 di Johann Sebastian Bach nella versione del 1981, eseguita da Glenn Gould.
Chissà se qualcuno si ricorda Berlinguer e il professore, romanzo di fantapolitica che tanto successo ebbe negli anni Settanta. Il romanzo uscì senza indicare il nome del suo autore, che risultava Anonimo.
Testi: Steve Della Casa
Si aprì subito la caccia all’autore, con le ipotesi più fantasiose, una caccia che continuò per molto tempo fino a quando, anni dopo, fu svelato che a firmare il best seller era stato Gianfranco Piazzesi, notista politico molto conosciuto che aveva utilizzato la materia sulla quale scriveva ogni giorno per realizzare un’opera di fantasia molto divertente. Tra gli elementi che venivano presi in considerazione per risolvere il mestiere c’era un passaggio fondamentale: l’autore definiva la bagna caoda un insopportabile miscuglio di acciughe e aglio, e questo elemento escludeva a priori il fatto che si potesse trattare di un piemontese visto che il condimento è un po’ un piatto tipico della zona. Questo per dire che la cucina piemontese è sempre oggetto di folli amori e di folli odi. E’ così anche nel cinema. Adesso che il food è diventato un passaggio importante dell’immagine piemontese, i riferimenti cinematografici a come si cucina qui da noi si sprecano: è avvenuto più o meno a partire da Tutte le donne della mia vita, il film della coppia Ricky Tognazzi - Simona Izzo che racconta le vicende e gli amori di un cuoco sopraffino tra Torino e le Langhe. Ma anche prima, nei passaggi più nascosti dei tanti film girati in Piemonte nella storia del cinema, possiamo trovare passaggi significativi. Avviene per esempio in I compagni, di Mario Monicelli, affresco sulla situazione operaia di inizio Novecento: i lavoratori portano da casa panini e mangiano polenta, mentre i signori si deliziano con la piccola pasticceria in un elegante caffè sotto i portici, dove il professore socialista Marcello Mastroianni, una volta ammesso, mette a tacere una fame atavica. Carlo Campanini e Fosco Giachetti, spersi nelle montagne valdostane in Luce nelle tenebre, scoprono che la pastasciutta è piuttosto difficile da fare bene in alta montagna a causa dell’acqua che bolle a una temperatura inferiore a 100 gradi (va detto poi che Campanini rovina il tutto mettendo lo zucchero al posto del caffè). Del Piemonte vengono esaltati più che i ristoranti le sale da the, come quella storica targata Baratti che appare nel 1940 in Addio, giovinezza! praticamente uguale a quella che vediamo oggi sotto i portici di Galleria Subalpina. I ristoranti, anche quelli storici, sono invece più raramente apparsi sullo schermo. Per vedere Il Cambio, forse il ristorante più famoso di Torino, bisogna attendere il 1998 e Così ridevano di Gianni Amelio: il locale della Torino bene diventa il sogno proibito dei due giovani fratelli meridionali sbarcati a Torino in cerca di fortuna. In compenso chi ama le piole, e cioè le trattorie con pochi semplici piatti e vino in abbondanza, ne può scorgere una perfettamente ricostruita in Fuga in Francia di Mario Soldati. Un gerarca fascista cerca rifugio oltre il confine e si ferma in una piola in Val di Susa, dove alcuni popolani chiedono “una minestra” e tracannano vino in abbondanza mentre il fuggiasco li guarda schifato. Altri tempi, è vero. E soprattutto altra dimensione di consumo del cibo e del vino: adesso è diventato un piacere, un simbolo, un modo di appartenenza, allora era soprattutto necessità.
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Testi: Antonio Verteramo / Layout: Dario Quatrini
Testi: Antonio Verteramo
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i dati del botteghino: Il film è stato campione d’incassi assoluto nella stagione 1971/72 con 3,9 miliardi di lire dell’epoca, che rivalutate ai giorni nostri sarebbero di 29,3 milioni di Euro attuali. E con quasi 15 milioni di spettatori “...Continuavano a chiamarlo Trinità” detiene ancora oggi il record assoluto nella storia del cinema italiano. Insomma, con Bud Spencer e Terence Hill le “grandi abbuffate” non mancano mai, anche perché, nonostante litighino sempre, sul cibo si trovano sempre d’accordo: in “Altrimenti ci arrabbiamo”, i due devono decidere chi si prenderà la Dune Buggy. Terence Hill rifiuta di giocarsela a braccio di ferro, mentre Bud Spencer non accetta di giocarsela a carte... “Ce la giochiamo a birra e salsicce?” Accordo trovato! Da stracult la cena di lusso ne “I due superpiedi quasi piatti” - sempre con la regia di E.B. Clucher - in cui due finte russe (“Ruspa Galina, ruspa!”) invitano i due poliziotti per farli ubriacare. Raffinato menu francese (Canard à l’Orange, Salade Riche, Riz à l’Oriental, Boeuf et petit pois e Langoust à la Mayonnaise) annaffiato con il whisky del distretto, che, come precisa, Terence Hill “...non è proprio una ciofeca”. La scena vanta più di 300.000 visualizzazioni su Youtube, a testimonianza di un affetto e un seguito ancora molto ampio di fan. A Masone, paesino arroccato sull’Appennino Ligure a pochi chilometri dal Piemonte, si sono addirittura inventati il “Bud&Terence Film Festival”, che prevede, oltre alla proiezione integrale dei film della coppia e all’esposizione di tutte le locandine originali, una cena a base, ovviamente, di birra, salsicce e fagioli.
o, non è il raffinato menu tratto da qualche sofisticato film francese, ma l’incredibile serie di portate che Trinità e Bambino, “degustano” nella miglior “mangiatoia di tutto lo stato” in “...Continuavano a chiamarlo Trinità”, il film che ha consacrato Bud Spencer e Terence Hill come la coppia più amata del cinema italiano. La rivoluzione di E.B. Clucher fu di inserire le scazzottate al posto delle sparatorie all’interno dei film western, ma la grande novità è stata anche quella di “far mangiare” cowboy e pistoleri, che nel western hollywodiano e anche nei nostrani “spaghetti western”, erano impegnati soprattutto a cavalcare e sparare. Le grandi fagiolate presenti nei due “Trinità” hanno addirittura portato a creare un sottogenere: non più spaghetti-western, bensì fagioliwestern. Tra ‘spaghetti’ e ‘fagioli’, è questa l’epica del western italiano... Ma torniamo ai nostri eroi, che quando non sono impegnati nelle loro classiche scazzottate, mangiano. In “...Continuavano a chiamarlo Trinità” è stato calcolato che sono più numerosi i momenti conviviali rispetto a quelli in cui ci si prende a pugni: dalla doppia fagiolata iniziale al pranzo in famiglia, in cui Trinità, Bambino, la Mamma e il Vecchio azzannano ferocemente un uccello non ben identificato perché “volava troppo in alto”; dal già citato pranzo al ristorante di lusso - scena che John Landis ricrea nei Blues Brothers dimostrando di conoscere e apprezzare un certo cinema italiano ancora prima di Tarantino - ai classici “fagioli lessi” in compagnia della famigliola di pionieri protestanti. E che scazzottate e abbuffate funzionino, lo dimostrano
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ATTENTI A QUEI DUE a cura di FIP - Film Investimenti Piemonte
Uno è fondatore de La Sarraz, casa di produzione giovane, dinamica, indipendente, l’altro è il regista di Masterchef, programma di culto per tutti gli appassionati di alta gastronomia. Insieme, Alessandro Borrelli e Umberto Spinazzola, stanno per portare a termine Quello che non ho, pellicola che affronta il tema del riuso alimentare in un mondo di sprechi. In attesa di vedere le prime immagini, li abbiamo incontrati per conoscere meglio la loro attività e i loro progetti.
è che, nonostante la maggior parte di cinema (documentari e finzione) sia prodotto anche grazie alla televisione, quest’ultima, sempre meno assiduamente programma cinema. In novembre distribuiremo il nostro ultimo film di quello che possiamo definire “cinema del reale”, s’intitola “Dal profondo”, una storia molto bella ambientata nella miniera di carbone in Sardegna. Sceneggiatore, Regista, Produttore... in quale di questi ambiti si sente più a suo agio?
“Ho deciso di occuparmi anche io di produzione, lavorando e investendo appunto molto su sviluppo e creatività”.
Il produttore Alessandro Borrelli
La Sarraz ha al suo attivo anche numerosi documentari. Come vede il suo futuro: più orientato al cinema di fiction, oppure, visto il successo di pellicole come Sacro Gra, ancora più attento al mondo del documentario? • Abbiamo iniziato nel 2004 proprio con la produzione di “documentari di creazione”. Facciamo o almeno abbiamo l’ambizione di fare “cinema”. Quindi provo un po’ di difficoltà a distinguere “documentario” con “finzione”: sono definizioni utili per chi deve occuparsi della programmazione di un palinsesto televisivo. Purtroppo, il grande paradosso di questi tempi
• Ho iniziato nel 1996 a occuparmi di scrittura e regia. Inizialmente ero interessato solo a questo aspetto del cinema. Poi, proprio durante la preparazione di una co-produzione che avrei dovuto dirigere, e che poi non si è mai fatta, per la prima volta, all’estero, mi sono avvicinato a un modo “diverso” di fare produzione. Mi aveva affascinato l’aspetto creativo, l’aspetto dello sviluppo che in Italia si cura davvero poco. Così ho deciso di occuparmi anch’io di produzione, lavorando e investendo appunto molto su sviluppo e creatività.
“Dal Profondo” - 2013
da un paio di anni vivo sempre di più qui a Torino, città di cui apprezzo la sensibilità per il cinema. Quando ho deciso di fondare la società di produzione, mi è parso naturale farlo a Torino anche perché, come avviene in tutti i grandi Paesi europei, credo molto nel “decentramento” della produzione.
Ultima domanda: come mai ha scelto di lavorare a Torino? E come si trova in questa città? • Vivo a Torino da quando ho tre anni, dunque è la mia città. Ho fatto per molti anni il pendolare tra Roma e Torino, ma
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“Sette opere di misericordia” - 2012
Il regista Umberto Spinazzola
“Non esiste una regola quando si filma il cibo. Non esiste una precedenza. La cosa fondamentale è seguire il racconto, mettersi al suo servizio”.
Umberto Spinazzola, la prima domanda non può che partire da Masterchef. Ci può raccontare la sua esperienza alla regia di uno dei più grandi successi tv della scorsa stagione? • Masterchef è un’esperienza unica, bellissima. Non solo per il format che è preciso come un orologio svizzero ma perché vivere a contatto con l’eccellenza gastronomica ti insegna tante cose sul cibo. Cracco, Barbieri e Bastianich, prima ancora di essere giudici e chef, sono persone che con la loro esperienza ti insegnano il rispetto e la sacralità del cibo e del mondo che lo circonda. La forza di Masterchef è che, pur essendo un programma televisivo, spesso ha la forza del racconto, della fiction. Eppure è tutto vero, tutto autentico. È il classico esempio del programma che
il pubblico ha saputo riconoscere e scegliere perché è genuino, va dritto alla meta senza fronzoli e senza tutti quegli orpelli di cui non riesce a liberarsi la TV generalista. Quando si parla di food, per un regista come lei, è più importante concentrarsi sul cibo o sulle persone che cucinano? • Non esiste una regola quando si filma il cibo. Non esiste una precedenza. La cosa fondamentale è seguire il racconto, mettersi al suo servizio. È il racconto che ti dice cosa e come filmare. È l’emozione del momento. L’importante è saper cogliere le precedenze. A volte il piatto, a volte la faccia. Questo numero di Freaks è dedicato a cinema e food. Sappiamo che in can-
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tiere per la Sarraz c’è un film dedicato agli sprechi alimentari. Ce ne può parlare? • Il film che abbiamo in preparazione con Alessandro (La Sarraz) e con il sostegno di FIP-Film Investimenti Piemonte, parla di sprechi del cibo, una denuncia garbata, in punta di piedi. Ma comunque una denuncia, perché quello che sta succedendo nel mondo del food è semplicemente allucinante. Una piccola storia che stiamo curando come un figlio e che finalmente sta per vedere la luce. Sono sicuro che tanta, troppa gente non sa cosa succede ogni giorno in una metropoli. Non conosce il viaggio del cibo. Non conosce le manipolazioni. Non conosce lo spreco.
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ricerca, originalità, gusto decorativo e scenografico, unite ad una preparazione artigianale e all’utilizzo esclusivo di materie prime di altissima qualità. “Ogni torta è un mondo a sé. Perché ogni festa, ogni occasione, ogni momento da celebrare è un momento unico, speciale. E va assaporato, condiviso e vissuto in modo altrettanto speciale.” Federica Civera - Delight & Design
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prospettive e più occasioni di ricerca ad un impegno professionale già ampiamente collaudato in ambito still life, food & beverage, industrial, people. Con l’aggiunta di servizi interni di art buying, food styling e post produzione. “Uno scatto fotografico è l’unico modo possibile per fermare il tempo. Per questo, in quanto momento irripetibile, merita grande esperienza, attenzione, gusto e stile. E più luce possibile, ovviamente.” Guido Siviero - Studio PiùLuce www.piuluce.com info@piuluce.com
Studio PiùLuce Lo studio nasce nel 2008 dalla ventennale esperienza del fotografo Guido Siviero; per dare più
Testi: Mario Fassio / Layout: Matteo Emme
Se è Thanskgiving si va di tacchino ripieno. Se è una domenica italiana, piove pasta al sugo come se fosse l’ultimo pasto del mondo. Dopo un funerale ogni congiunto porta meste e golose porzioni di consolation food. E se è una commedia francese, non si contano le bottiglie di vino e i calici sparsi per la casa... Non so se nella mia vita ho partecipato a più pranzi di famiglia oppure ho visto più film con una scena madre ambientata durante un pranzo di famiglia. È qualcosa che ritorna, che riconosco. Un gioco di specchi tra esperienza di vita e rappresentazione: in fondo, ciò che viviamo è ciò che mangiamo, ma anche ciò che vediamo mangiare da Alberto Sordi, Meg Ryan o Robert Downey jr. A volte mi pare di aver già vissuto in una delle tante villette della suburbia americana, dove i padri si arrabbiano e preparano il barbecue, le madri criticano e piangono in silenzio davanti al forno e i figli adulti tornano a casa per l’occasione con aerei in ritardo, segreti ingombranti, divorzi da metabolizzare e antidepressivi nascosti nel bagaglio a mano. Ma se dovessi girare la scena ideale sul tema, di cosa avrei bisogno? A cosa mi potrei ispirare? Forse mi bastereb-
be un grande tavolo, una serie di portate ben presentate, dialoghi brillanti e un’ampia scelta di primi piani, anche impietosi: bocche aperte, rucola tra i denti, mandibole in movimento... Poi mi concentrerei sugli attori, alla ricerca degli sguardi, delle parole e dei ritmi giusti, cercando di restituire un gustoso concentrato di vita vissuta. Mi immagino carrellate circolari sui commensali e lunghi piani sequenza con camera a mano tremolante, da alternare a scene più classiche e costruite. E i riferimenti? Tantissimi, naturalmente. Ma almeno tre che parlano italiano, per non tradire radici e memoria gastronomica. Il primo che mi viene in mente è La Famiglia di Ettore Scola (1987), un film tutto racchiuso in un appartamento borghese del quartiere Prati di Roma, scrigno delle storie minime di tre generazioni. Uno dei momenti più riusciti è, appunto, una scena di schermaglie e imbarazzi a tavola tra congiunti, in cui spicca un quartetto impeccabile: il severo capofamiglia Vittorio Gassman, la devota moglie Stefania Sandrelli, l’affascinante cognata Fanny Ardant di cui Gassman è da sempre innamorato e il nuovo compagno di lei, l’architetto francese Philippe Noiret.
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La seconda ispirazione è un classicone dell’autobiografia e dei ricordi d’infanzia: Amarcord di Federico Fellini (1973). La scena del pranzo con il padre che sgrida il figlio perché ha fatto pipì dalla galleria del cinema è da manuale. Come riuscire a rievocare in modo più preciso e divertente il Fascismo e la provincia romagnola? Come non provare empatia per la famiglia del film e per le sue tragicomiche figurine (babbo autoritario, nonno svanito, zio scapolo, cameriera muta, mamma casalinga sull’orlo della crisi di nervi, infanzia vitale e impertinente)? Ma famiglia a tavola significa anche commensali in guerra, intrighi tra forchette e tovaglioli, Parenti serpenti. Nell’omonima commedia nera di Mario Monicelli (1992) non mancano i momenti conviviali - per forza, siamo nella settimana di Natale - e durante una cena vanno in scena vezzi e miserie dell’eterno familismo italico: aspirazioni piccolo-borghesi, modelli televisivi, cultura da Settimana Enigmistica, ripicche, pregiudizi, fazioni politiche, gossip, scampoli di machismo. È un “volemose bene” avvelenato, forse il contrappasso a tutta la bontà che appare sullo schermo sotto forma di appetitose e abbondanti portate della nostra tradizione culinaria.
Testi: Pierpaolo Bottino
M E N U D’ A M O R E
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Mettiamo subito le cose in chiaro: qui l’amore mieloso non c’entra o, se c’è, è spalmato in faccia con una spatola da chef.
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Hostari
I Soliti Ignoti
Ci sono invece bollenti spiriti, insinuanti provocazioni, sentimenti profondi e irrequietudini di contorno alla preparazione, prima, durante o dopo aver mangiato un buon piatto di cibo. Il menu è quello di una manciata di film, commoventi, fondamentali, irrequieti, divertenti, dal sapore agrodolce. In ordine di portata, Pomodori Verdi Fritti, Hostaria, I Soliti Ignoti, C’Eravamo Tanto Amati, Il Pranzo di Ferragosto, Bianca e, per non dimenticare il mondo dei cocktail, Il Grande Lebowsky.
mo C’ Erava mati Tanto A
o di Il Pranz o st Ferrago
Bianca
e Il Grand ky Lebows
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DIFFICOLTÀ
PORZIONI “Assaggia questo, che ne dici può andare?” Chiede Igie con un pomodoro verde fritto bollente in mano! Ruth mastica a denti stretti e sentenzia con una risata: “fa schifo!” Igie controbatte: “ah, bene, non essere timida dimmi pure quello che pensi”. “Lo farò” da qui in poi una gioia dirompente scatena acqua, more, farina, pomodori tra le due amiche e, non per ultima, una deliziosa crema di cioccolato sulla faccia del malcapitato Grady, che chiedendo cosa stia succedendo in cucina, si sente rispondere: “Igie mi sta insegnando a cucinare! Pomodori Verdi Fritti”.
Il sogno diventa realtà, il cibo prende vita dalla pellicola all’Hostaria, e appena immagino un primo succulento, ecco arrivare il cuoco Tognazzi con un tonante: “ma va da via il cul” inseguito dal cameriere Gassman armato di “sarsicce”. Inizia lo scontro tra i due amanti, il campo di battaglia è attraversato da un’aria densa di farina, mentre volano tra i due un polipo, verdure, uova, una tovaglietta di trippa per asciugare in viso, il vino rosso. “Il battuto come lo faceva mamma”, esclamano dalla sala! è invece il martellare del matterello sulla scarpa del povero cameriere, che prontamente finisce dentro il pentolone. Tutto bolle, frigge, scoppietta, gorgoglia, la lotta sembra non aver fine, mentre sull’orlo di una crisi di nervi, ecco pronto lo Zuppone alla Porcara. Un minestrone assai sofisticato e delicato. “C’è anche l’uva, neh”. Di colpo spunta il saccente Mastroianni, mentre borbotta contro la banda de I Soliti Ignoti per il colpo fallito: “Abbiamo fatto la fine del cuoco della Rosetta. Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi, voi al massimo potete andare a lavorare”. Poco dopo il goffo Capannelle trova il vero tesoro: una pentola di pasta e ceci, fredda, ma buona buona, tanto da mettere d’accordo tutti. “L’ha fatta Nicoletta”, esclama un compiaciuto Gassman, mentre Ferribotte incalza con uno dei suoi detti popolari: “Femmina piccante prendila come amante, femmina cuciniera prendila come mugliera!” Così si prepara la tavola, si preparano piatti e posate. Questa pasta e ceci è così buona, che una riscaldata fa fare il botto! Un altro primo piatto indimenticabile.
Tutti tornano a casa, alla loro vita ma non prima di aver assaggiato “una mezza di picchiapò” dal Re della Mezza Porzione. “Picchiapò, picchiapò... Qu’est ce que c’est ça?” Uno spezzatino di manzo con pomodoro e cipolle. Gianni, Antonio e Nicola si rincontrano, dopo 25 anni, in questa trattoria, in un atto d’amore sincero verso il cinema italiano. In questo secondo piatto della tradizione romana c’è una generazione che ha fallito, non ha realizzato un futuro migliore che è già passato, ma nulla è stato cambiato, anzi. Rimane il ricordo in C’Eravamo Tanto Amati.
Gianni di amore ne avrebbe bisogno, invece di affogare la sua vita in un monotono andirivieni tra casa e osteria, osservando quel bicchiere di vino sempre vuoto e continuando a dare retta alle bizze di donna Valeria, una mamma capricciosa ed un tantino impegnativa. I soldi non bastano mai e così, un po’ per scaltrezza e un po’ per necessità, si troverà ad accudire (dietro compenso) anche due stralunate nonnine abbandonate dalle famiglie nel giorno di festa. Sembra l’inizio della fine, ma Il Pranzo di Ferragosto suggerirà a Gianni e il Vichingo, la preparazione di un cefalo al forno con patate, pescato nel generosoTevere. Lo sguardo di Gianni è eloquente. Un commovente piano sequenza, svela una inaspettata prospettiva, la nuova famiglia che questo pasto gli ha donato!
La sua glassa morbida e lucente protegge un corpo di cioccolato fondente ed un aspro cuore di composta di albicocche, un’esplosione di gusto per i più golosi, che si concede in tutto il suo splendore e con poca delicatezza. Buonissima. Avrei risposto sicuramente così, fossi stato in Mario al caustico Nanni Moretti in Bianca, per chi, come me, smania di fronte ad un pezzo di Sacher Torte. “Giusto? No?“ “Va be’ continuiamo così, facciamoci del male!”.
La chiusura di questo menu è un brindisi al cinema e all’amore, in vestaglia e sandali, da slacker, fregandomene della vita, dei nichilisti, della crisi, del denaro, del lavoro... Dunque Drugo, ecco il tuo bicchiere Old Fashioned, una manciata di ghiaccio, Vodka e Kalhùa in parti uguali, chiudendo con un top di crema al latte e le immancabili mezze cannucce per mescolare il tutto ed affogare i propri deliri. Cheers, Grande Lebowsky.
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Le Festin (Camille) from “Ratatouille� 36