Nutriheart - Genetica e nutrizione per la salute del cuore.

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nutriheart genetica e nutrizione per la salute del cuore


Progetto cofinanziato con il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale dl Programma Operativo Regionale del Friuli Venezia Giulia - Obiettivo “Competitività Regionale e occupazione” programmazione 2007/2013 “Investiamo sul nostro futuro”

Coordinamento scientifico: Bruno Stefanon Immagini fotografiche: Foto pagine interne di Gabriele Crozzoli e Marino Sterle; archivio CBM, Polo Tecnologico di Pordenone e di Friuli Innovazione Coordinamento ed editing: Studio Sandrinelli, CBM Progetto grafico e impaginazione: Colorstudio Grafica&Multimedia Stampa: Grafiche Manzanesi (UD)


nutriheart genetica e nutrizione per la salute del cuore

&life C O M P A N Y!

UNIVERSITĂ€ DEGLI STUDI DI TRIESTE


Nutriheart - Malattie cardiovascolari: dai fattori di rischio genetico e ambientale alla prevenzione mediante componenti nutrizionali innovativi Il progetto Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte nel mondo. Le European Cardiovascular Disease Statistics 2008 parlano di una media europea di circa 4,3 milioni di decessi all’anno (il 48,3% sul totale) con una percentuale più elevata di donne (57%) rispetto agli uomini (43%). I costi economici per affrontare questa emergenza sono altissimi e comprendono non solo la spesa che il sistema sanitario nazionale deve sostenere per le cure dei pazienti, ma anche la diminuzione della produttività lavorativa. Si stima che nel 2006 in Europa la gestione delle malattie cardiovascolari sia costata circa 192 miliardi di euro: 110 miliardi per sostenere i costi sanitari (57%), 40 miliardi per gestire la produttività lavorativa persa (21%) e 42 miliardi per le cure informali (22%). Questi dati mostrano come le malattie cardivascolari rappresentino le malattie con il costo, economico e umano, più alto nella nostra società. E la situazione non sembra essere migliore nei Paesi in via di sviluppo, dove queste malattie stanno rapidamente aumentando, soprattutto a causa dell’alimentazione scorretta e degli stili di vita errati. La dieta ipercalorica e lo stile di vita sedentario aumentano infatti l’incidenza di obesità, anche in età pediatrica, e favoriscono l’insorgenza di malattie come il diabete, l’ipertensione e le malattie coronariche. È fondamentale trovare soluzioni per arginare il problema e agire sulla prevenzione. La ricerca genetica e quella alimentare sono un concreto punto di partenza. Identificare, infatti, i fattori ereditari che predispongono all’insorgenza di malattie cardiovascolari, studiare principi alimentari per sviluppare percorsi nutrizionali personalizzati e conoscere le proprietà degli “alimenti funzionali” che possano aiutare a prevenire queste patologie è ciò che si prefigge Nutriheart, progetto di ricerca industriale partito nell’ottobre 2010 e cofinanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dall’Unione Europea per mezzo del Fondo di Sviluppo Regionale. È noto che stili di vita errati, come dieta ipercalorica e scarsa attività fisica, sono corresponsabili dell’insorgere di malattie cardiovascolari e uno degli obiettivi di Nutriheart è proprio quello di sviluppare nuovi alimenti funzionali, integratori e nutraceutici, utili per prevenire problemi cardiovascolari e migliorare la condizione di chi già ne soffre. In effetti è noto che alcuni nutrienti funzionali sono in grado di ridurre il rischio, potenziando la capacità antiossidante dell’organismo grazie alla diminuzione dell’attività dei radicali liberi, tra i principali meccanismi patogenetici di tali malattie. Anche la predisposizione genetica gioca un ruolo fondamentale: le malattie cardiovascolari mostrano, infatti una certa familiarità ma senza una precisa modalità di trasmissione ereditaria. Per questa ragione nel corso del progetto sono stati analizzati i dati provenienti dagli studi di popolazione per combinare le informazioni genetiche, cliniche e ambientali per identificare un’associazione di particolari varianti genetiche/mutazioni con l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Lo scopo principale di questa parte del progetto è di identificare il reale effetto che singoli geni, implicati nelle malattie cardiovascolari, hanno su un fenotipo specifico e sulla risposta terapeutica e/o preventiva.


Accanto alla ricerca in laboratorio tra gli obiettivi del progetto anche la comunicazione dei risultati scientifici per migliorare l’educazione alimentare dei cittadini. Nutriheart è caratterizzato, infine, da una stretta collaborazione territoriale tra la ricerca pubblica e l’applicazione industriale. Del gruppo di lavoro, infatti, fanno parte piccole e grandi imprese, ricercatori e rappresentati di parchi scientifici e tecnologici del Friuli Venezia Giulia. Il libro I capitoli di questo libro ripercorrono le diverse tappe del progetto e i settori specifici di cui si è occupato ogni partner. Nella prima parte vengono affrontati i temi più strettamente connessi alla salute e alle malattie cardiovascolari, con un focus sulla sindrome metabolica e l’obesità. A questi temi si collegano quelli dell’alimentazione e del ruolo che gli alimenti hanno nel proteggere il nostro organismo dall’insorgenza di patologie specifiche. Nella seconda parte invece di parla di nutrigenomica, approfondendo il ruolo dei nutraceutici nell’alimentazione umana e di quale sia il loro impatto sulla salute. I micronutrienti di origine vegetale possono avere un impatto nella prevenzione del rischio cardiovascolare e l’analisi di questo meccanismo è stato uno degli obiettivi dei partner del progetto Nutriheart. Nella terza parte del libro si è deciso invece di affrontare gli aspetti più tecnici del progetto, parlando di genomica, medicina personalizzata e di sviluppo di kit diagnostici. L’applicazione delle nuove tecnologie di analisi del DNA ha infatti permesso di valutare le varianti genetiche correlate al rischio cardiovascolare. Lo scopo finale di questo tipo di progetti è infatti di sviluppare un approccio di medicina personalizzata per la cura dei pazienti e per prevenire l’insorgenza di malattie specifiche. Nell’ultima parte si è invece voluto approfondire il ruolo dei parchi scientifici e tecnologici, che hanno una funzione importante per la promozione della ricerca e di realtà imprenditoriali innovative. http://www.progettonutriheart.it/ I partner Nutriheart è un esempio di trasferimento di conoscenza dalla ricerca pubblica al settore industriale che coniuga competenze biomediche e agroalimentari. Dieci i partner: Nutrigene Srl (coordinatore Consorzio per il CBM Scrl), Centro di Biomedicina Molecolare - CBM, Euroclone SpA, lllycaffè SpA, G&life Spa, Università degli Studi di Trieste, IRCCS Burlo Garofolo, Consorzio per l’Area scientifica e tecnologica di Trieste, Friuli Innovazione, Polo tecnologico di Pordenone.


Indice Sindrome metabolica

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Alimentazione e salute

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Nutraceutica: cos’è, prodotti, ecc

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Genomica del futuro

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Medicina personalizzata

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Dal laboratorio al paziente: sviluppo di kit diagnostici

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Nutriheart - un esempio di collaborazione regionale: attivitĂ e risultati

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profilo dei partner

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La tutela della salute rappresenta una delle sfide sociali politiche ed economiche SINDROME METABOLICA pi첫 difficili, a causa della complessa relazione tra incremento delle conoscenze...

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SINDROME METABOLICA

sindrome metabolica

A cura di Rocco Barazzoni, PIERANDREA VINCI E GIANLUCA GORTAN CAPPELLARI, UNITS

La tutela della salute rappresenta una delle sfide sociali politiche ed economiche più difficili, a causa della complessa relazione tra incremento delle conoscenze, modificazioni generali dello stile di vita, a seguito della crescente urbanizzazione e meccanizzazione, invecchiamento della popolazione e limiti delle risorse disponibili. Le malattie cardiometaboliche (obesità, diabete mellito, ipertensione) e le malattie cardiovascolari (quali infarto e ictus) sono le principali aree di criticità ad impatto negativo sul sistema socio-sanitario e sulla qualità della vita dei cittadini. L’approccio alla prevenzione e alla cura di queste patologie è complesso per la presenza di predisposizione individuale e di rischi fortemente mediati dall’ambiente, che favorisce l’assunzione di stili di vita obesogeni dal punto di vista di nutrizione e attività fisica. Il termine sindrome metabolica indica un insieme di alterazioni del metabolismo tendenti ad associarsi in un unico individuo aggravandone il rischio per malattie cardiovascolari. Tra le alterazioni coinvolte vi sono l’obesità, soprattutto a distribuzione addominale, le dislipidemie aterogene (aumento della trigliceridemia e riduzione del colesterolo HDL), l’ipertensione arteriosa, l’intolleranza glucidica e il diabete. La sindrome metabolica viene definita dalla presenza di variabili associazioni di almeno tre tra queste alterazioni come riportato nella tabella A.

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Le differenti definizioni della sindrome metabolica hanno determinato la rilevazione di valori di prevalenza variabili nella popolazione, fino al 40% (Ford E.S. et al. 2005). La prevalenza della sindrome metabolica, utilizzando i criteri dell’ATPIII, è stata stimata pari al 34,5% della popolazione adulta degli USA (Ford E.S. et al. 2005) . L’incremento della prevalenza aumenta con l’età e varia anche in base al gruppo etnico, scendendo fino al 6,7% in soggetti tra i 20 e 29 anni, e salendo al 43,5% in coloro che hanno 60-69 anni con un assestamento al 42% in soggetti più anziani. I valori totali sono simili negli uomini e nelle donne (24% vs 23,4%), ma vi sono rilevanti differenze legate al sesso nei gruppi etnici più a rischio: ad esempio donne afroamericane o di origine ispanica hanno prevalenza superiore al 50% rispetto al 31% degli uomini.

La sindrome metabolica presenta in generale dimensioni epidemiche a livello mondiale e anche studi italiani hanno indicato prevalenze del 23% sia degli uomini che delle donne (Vannuzzo D. et al. 2004). I dati sopra riassunti evidenziano in generale, al di là delle differenze tra i singoli studi, la rilevanza epidemiologica e socio-sanitaria del problema. Numerosi studi epidemiologici hanno infatti chiaramente dimostrato come la presenza di sindrome metabolica aumenti in modo significativo (oltre due volte) il rischio di eventi cardiovascolari soprattutto in termini di infarto miocardico e ictus cerebrale (Malik S et al. 2005). A ulteriore conferma della rilevanza clinica del cluster di fattori di rischio individuato dalla sindrome metabolica, altri studi hanno evidenziato un incremento del rischio cardiovascolare in misura


proporzionale al numero di criteri diagnostici alterati (McNeill AM et al. 2005). Alcuni tra gli studi disponibili hanno inoltre confermato che la presenza di sindrome metabolica e l’associazione dei diversi fattori di rischio che la definiscono determina un rischio cardiovascolare maggiore di quello calcolabile sulla base della somma dei singoli fattori (McNeill AM et al. 2005). Tale osservazione, tuttora oggetto di discussione, risulta di grande importanza nel suggerire un effettivo ruolo patogenetico della sindrome metabolica per se nella storia della patologia cardiovascolare (Kahn R et al. 2005). Le cause dell’associazione tra le patologie che compongono la sindrome metabolica rimangono in larga misura non definite. Tuttavia un ruolo centrale di obesità e insulinoresistenza nella genesi della sindrome viene ampiamente riconosciuto. La diffusione a livelli ormai epidemici globali dell’obesità e dell’insulinoresistenza a essa associata rende peraltro conto in larga misura della elevata prevalenza della stessa sindrome metabolica. Utilizzando il semplice indice di massa corporea [IMC: peso espresso in chilogrammi diviso quadrato dell’altezza in metri (kg/m2)] quale indicatore di stato nutrizionale, i dati disponibili riportano la presenza di sovrappeso (IMC>25) in circa i 2/3 della popolazione adulta, con prevalenza crescente anche nei bambini (Hedley et al. 2004). Nonostante l’IMC non renda conto della distribuzione del grasso corporeo, il rischio di patologie associate a obesità aumenta con l’aumentare dell’indice stesso, divenendo progressivamente maggiore per valori superiori

a 30 che definiscono la presenza di obesità propriamente detta. La presenza di obesità centrale, valutabile in modo immediato attraverso la misura surrogata della circonferenza addominale e riferita a condizioni in cui il grasso corporeo si accumula prevalentemente in regione addominale viscerale, si associa comunque in modo ancora più stretto a insulino-resistenza e agli altri parametri diagnostici per sindrome metabolica (Y Matsuzawa et al. 2004). L’insulinoresistenza costituisce a sua volta un fattore di rischio indipendente per cardiopatia ischemica; contribuisce direttamente all’esordio del diabete tipo 2 e alla sua progressione, e concorre alla comparsa delle numerose altre condizioni patologiche associate a rischio cardiovascolare. Oltre al ruolo svolto nella regolazione del metabolismo glucidico, l’insulina contribuisce infatti alla regolazione

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del metabolismo lipidico favorendo l’insorgenza di dislipidemie aterogene (Toh SA et al. 2008). Inoltre, l’insulina interferisce con la funzione piastrinica e con l’equilibrio tra fattori protrombotici e modulatori della fibrinolisi endogena, regola la proliferazione delle cellule muscolari lisce della parete vascolare e modula la funzione endoteliale (Federici M et al. 2004). La cautipidica favorisce la positivizzazione del bilancio energetico (Diabetes Prevention Program Research Group, 2002). Entrano inoltre in gioco fattori endocrini ed eventuali terapie farmacologiche. Occorre anche ricordare (Kotani K et al. 1994) che la percentuale di grasso corporeo aumenta con l’età sia negli uomini che nelle donne. Le donne hanno una più elevata percentuale di grasso corporeo rispetto agli uomini, ma il loro grasso viscerale è più basso

Tabella A - Definizioni della sindrome metabolica INS-RES

I. A.

TG

HDL

OBESITA’

WHO* Ins-Res

T2DM, IGT Ins-Res

>140-90 mmHg

>150 mg/dl

<35-39 mg/dl

BMI>30 WHR>0.9-0.85

ATP III 3 criteri su

Glicemia a digiuno >110 mg/dl

>130-85 mmHg

>150 mg/dl

<40-50 mg/dl

Circ Add>102-88 cm

IDF Circ Add

Glicemia a digiuno >110 mg/dl

>130-85 mmHg

>150 mg/dl

<40-50 mg/dl

Circ Add>102-88 cm

WHO: World Health Organization; ATP-III: Adult Treatment Panel III; IDF: International Diabetes Federation *: + microalbuminuria

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durante il periodo riproduttivo, aumentando rapidamente assieme a rischio cardiometabolico nel periodo post-menopausale. La complessità della sua patogenesi rende ragione della difficoltà di definire e trattare efficacemente l’obesità e le sue complicanze cardiometaboliche. Le principali linee guida stabiliscono che l’approccio alla sindrome metabolica ha come obiettivi principali la prevenzione, attraverso la riduzione delle cause modificabili (soprattutto alimentazione scorretta e inattività fisica), e la terapia dei fattori di rischio cardiovascolare associati alla sindrome quali sovrappeso, iperglicemia, ipertensione, dislipidemie. In particolare, è sufficiente una perdita del 5-6% del peso iniziale per ottenere benefici metabolici significativi. Tuttavia anche questo obiettivo, relativamente modesto, si è dimostrato complesso e costoso da raggiungere, anche per la necessità di ricorrere all’impiego di figure professionali ad alta specializzazione. Sono disponibili peraltro metodiche validate di counseling motivazionale breve che possono semplificare in modo sostanziale gli interventi di modificazione dello stile di vita (Rollnick P., Churchill Livingstone, 1999). Il colloquio motivazionale si colloca tra le tecniche maggiormente diffuse e utilizza modalità di interazione con il paziente innovative rispetto a quelle prettamente prescrittive e direttive, tipiche delle relazioni di cura tradizionali. La definizione da parte del curante dello stadio del cambiamento in cui si trova il paziente permette di modulare l’intervento in modo appropriato allo specifico livello di motivazione del momento, senza forzature

di salute e migliorare gli indicatori di sindrome metabolica a un follow-up mirato a 4 anni; 4. Raccolta e stoccaggio in una IL PROGETTO: biobanca di campioni ematici per successive valutazioni biochimiche atte a una ulteriore Lo studio MoMa (MOntereale Valcaratterizzazione della popocellina e MAniago) è nato al fine lazione e alla identificazione di di rispondere ad alcune domande marcatori clinici di rischio, quali fondamentali sull’impatto della sinstrumenti di monitoraggio, di drome metabolica nella Regione potenziale miglioramento del Friuli-Venezia Giulia, in relazione alla follow-up e di ampliamento delle presenza di alterati stili di vita in terconoscenze sulle patologie carmini di nutrizione e attività fisica. diometaboliche. I campioni della biobanca del progetto MoMa Obiettivi del progetto hanno permesso di sviluppare anche gli obiettivi del progetto Gli obiettivi principali dello studio Nutriheart, nell’identificazione sono stati i seguenti: dei fattori genetici di rischio del1. Definire lo stato di salute e la la sindrome metabolica. prevalenza di sovrappeso, di sindrome metabolica e delle patologie a essa associate RISULTATI: UNA POPOLAZIONE (obesità, diabete tipo 2, iperten- AD ALTO RISCHIO sione arteriosa), nella popolaElevata prevalenza di sovrappeso, zione locale, tramite raccolta di obesità e sindrome metabolica dati anamnestici e clinici, misurazioni antropometriche e inda- I dati mostrano elementi preoccupangini biochimiche di laboratorio; ti, anche se in linea con il progressivo 2. Identificare la presenza di diffondersi a livello nazionale e infattori predisponenti alla sin- ternazionale dell’obesità e delle sue drome sia legati a scorretti stili complicanze. La prevalenza di sovrapdi vita, attraverso questionari peso e obesità congiunti è risultata su abitudini alimentari, attività superiore al 50% dei soggetti valutati. fisica, alcol, fumo, sia di tipo Tra questi, il 35,6% è sovrappeso (IMC metabolico, tramite dosaggi di tra 25-30 Kg/m2), 47% maschi e 28% biomarcatori che intervengono, femmine, mentre il 23,4% è obeso. La ad esempio della regolazione sindrome metabolica è presente in dell’appetito; media nel 28% dei casi, pari, rispetti3. Valutare l’impatto sulla popo- vamente, al 31% nei maschi e al 25% lazione di un intervento con mo- nelle femmine. Le percentuali aumendalità innovative di interazione tano con l’età in entrambi i sessi. Nei tra i Medici di Medicina Generale soggetti giovani maschi, tra i 18-34 e i loro pazienti nell’incrementa- anni, si osserva già una prevalenza re la consapevolezza dei rischi precoce di sindrome del 2,4%. o imposizioni che possono attivare la resistenza dei soggetti e favorirne il drop-out.


Elevata prevalenza di stili di vita scorretti Nutrizione - Lo stile alimentare, valutato tramite questionari di frequenze di consumo dei cibi delle diverse tipologie, mostra alcune rilevanti differenze tra soggetti con sindrome e senza sindrome metabolica. In particolare il consumo quotidiano di verdura, a nota valenza protettiva, è più frequente nei soggetti senza sindrome, soprattutto nelle femmine (79% e 45% in donne rispettivamente senza e con sindrome metabolica). Con andamento opposto, si è osservato un più frequente introito giornaliero di formaggi, ricchi di acidi grassi saturi, sia nei maschi sia nelle femmine con presenza di sindrome. I consumi di bevande alcooliche, caratterizzati da apporti quantitativi valori medi contenuti, mostrano un introito settimanale più elevato nei maschi rispetto alle femmine e nei soggetti con sindrome rispetto a quelli senza sindrome, in entrambi i sessi. Attività fisica - I soggetti con stile di vita sedentario (meno di 30 minuti di movimento riferito per settimana) rappresentano il 67% dei casi di sindrome metabolica, contro il 52 % dei soggetti non affetti. Questi ultimi svolgono invece più frequentemente attività fisica per 2-3 volte alla settimana (36,1% dei casi) contro il 22,4% nei soggetti con sindrome metabolica. In ogni caso la popolazione presenta un elevato livello di sedentarietà, fattore di rischio ad alto impatto.

Impatto del progetto: aumento della consapevolezza dei rischi per la salute Risultati del counseling motivazionale: miglioramento del profilo di rischio cardiometabolico Il counseling motivazionale breve è una modalità di colloquio, centrata sul paziente, che ha l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sia dei rischi derivanti da stili di vita scorretti, sia anche dei vantaggi del passaggio a comportamenti più funzionali alla salute e al benessere, che in questo modo vengono accettati e favoriti. Nello studio MoMa l’approccio motivazionale in soggetti con sindrome metabolica attraverso un contatto su base individuale con un esperto, della durata di circa 30 minuti, ha prodotto a un follow-up di 4 mesi un significativo miglioramento del quadro metabolico lipidico e glucidico e un calo della pressione sistolica confermando l’efficacia degli interventi.

Risultati del follow-up a 4 anni: miglioramento del profilo di rischio cardiometabolico. Sono disponibili dati preliminari derivati dalla rivalutazione, in circa un quinto del campione totale, degli stessi indici antropometrici, clinici, biochimici e comportamentali. I dati mostrano come l’intervento nella sua globalità, abbia prodotto un effetto positivo su alcuni tra i principali componenti della sindrome metabolica. In particolare si è osservato un miglioramento del profilo glucidico e lipidico con una riduzione signifi-

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cativa dei livelli del colesterolo totale ed LDL e un significativo calo dei valori di pressione arteriosa. Come ulteriore elemento favorevole, gli indici antropometrici quali peso e circonferenza addominali sono risultati stabili al follow-up, nonostante l’invecchiamento del campione di popolazione. La campagna di screening nel suo insieme, focalizzata sui problemi cardiovascolari e sullo stile di vita, attraverso contatti ripetuti tra una parte numerosa di soggetti della comunità e diverse figure sanitarie locali, dall’infermiera al medico di medicina generale, sembra pertanto aver favorito nella popolazione una maggiore consapevolezza dei rischi metabolici in grado di favorire un miglioramento del quadro clinico.

CONCLUSIONI Lo studio ha fornito dati epidemiologici aggiornati e specifici per la regione FVG e ha mostrato la distribuzione delle componenti dello stile di vita che richiedono modificazioni e maggiore attenzione negli interventi di prevenzione e terapia. Un intervento di screening e di terapia della sindrome metabolica calato nella realtà locale, aumentando la consapevolezza del rischio di patologie croniche, è risultato efficace nel migliorare i parametri della sindrome nel lungo periodo, a un controllo a 4 anni. Efficacia analoga, a 4 mesi, ha avuto l’intervento di counseling motivazionale breve. Dai risultati appare fondamentale per queste popolazioni del Friuli Venezia Giulia proseguire il lavoro svolto e affrontare, e potenzialmente ampliare, i rimanenti obiettivi del progetto.

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L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, World Health Organization) stima che nel mondo, ogni anno, 2.8 milioni Alimentazione e salute di decessi siano attribuibili in modo più o meno diretto alla condizione di sovrappeso ed obesità.

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gli interventi: Obesità, sindrome metabolica e rischio cardiovascolare a cura di Units Alimentazione Personalizzata a cura di g&life la scienza della qualità a cura di illycaffè

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ALIMENTAZIONE E SALUTE Obesità, sindrome metabolica e rischio cardiovascolare A cura di Gianni Biolo e Sara Mazzucco, UNITS

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, World Health Organization) stima che nel mondo, ogni anno, 2.8 milioni di decessi siano attribuibili in modo più o meno diretto alla condizione di sovrappeso ed obesità. La WHO ha inoltre calcolato che la prevalenza dell’obesità a livello mondiale è raddoppiata negli ultimi anni, dal 1980 al 2008. Nel 2008 il 35% degli adulti con più di vent’anni è risultato in sovrappeso con una maggiore prevalenza nelle zone del mondo più ricche (in primo luogo l’America) e inferiore nelle zone sottosviluppate o in via di sviluppo, con minor incidenza nel Sud Est Asiatico. Inoltre la prevalenza di obesità risulta essere, a livello mondiale, maggiore nelle donne che negli uomini. La condizione di sovrappeso e obesità è associata di per sé a un aumentato rischio di malattie coronariche, infarto ischemico e diabete mellito di tipo 2 ma anche a un aumento del rischio di sviluppare tumori di svariata natura, quali, ad esempio, il cancro alla mammella, colon, prostata, endotelio. L’obesità inoltre porta allo sviluppo, come in un circolo vizioso, di numerose alterazioni metaboliche quali modificazione dei livelli dei lipidi plasmatici, con aumento dei livelli di trigliceridi e diminuzione dei livelli di colesterolo

HDL, aumento della pressione arteriosa e sviluppo di resistenza insulinica. Questi fattori (aumento dell’adiposità soprattutto addominale, aumento della pressione sanguigna, alterazione dei lipidi plasmatici e dei livelli glicemici) costituiscono i caratteri tipici della cosiddetta sindrome metabolica, che è, appunto, una combinazione di alterazioni metaboliche che porta ad un incremento del rischio cardio-vascolare, prevalentemente del rischio coronarico. È interessante sottolineare che è possibile fare diagnosi di sindrome metabolica in presenza di almeno 3 dei sopraelencati fattori e che il rischio cardiovascolare aumenta in modo proporzionale al numero di fattori di rischio presenti e con modalità sinergiche all’impatto dei singoli fattori. La sindrome metabolica colpisce circa il 25% della popolazione adulta anche nel Friuli Venezia Giulia, con percentuali crescenti nelle fasce di età anzia-

na. Il costante aumento dell’incidenza della sindrome metabolica è da attribuirsi al costante aumento dell’obesità nella popolazione adulta e si stima che nei prossimi anni il ruolo della sindrome metabolica nello sviluppo di malattia cardiovascolare sarà maggiore a quello attualmente rappresentato dal fumo di sigaretta. Le principali cause che portano allo sviluppo della sindrome metabolica sono da ricercare oltre che nella predisposizione genetica, soprattutto nell’adozione di uno stile di vita scorretto caratterizzato da un’errata alimentazione e scarsa attività fisica. È evidente che mentre nulla è possibile fare per contrastare la predisposizione genetica associata alla sindrome, è invece possibile, anche con relativa facilità, intervenire per migliorare i fattori modificabili inducenti lo sviluppo di sindrome metabolica, ovvero il livello di attività fisica e lo stato nutrizionale.


Il ruolo dell’attività fisica nel rischio cardiovascolare L’inattività fisica rappresenta un fattore chiave nello sviluppo di rischio metabolico e cardiovascolare. Oltre allo sviluppo di atrofia muscolare che può peggiorare lo stato di movimento e autonomia del soggetto, una riduzione dei normali livelli di attività fisica è, infatti, associata allo svilupparsi di numerose alterazioni cardiometaboliche che comprendono l’attivazione di uno stato infiammatorio cronico generalizzato e l’aumento dello stress ossidativo, lo sviluppo di insulino-resistenza, l’alterazione del metabolismo lipidico e lo sviluppo di resistenza anabolica. Queste alterazioni metaboliche, oltre ad avere effetti diretti e indiretti a livello cardiovascolare, sono tra loro correlate e determinano la formazione di un circolo vizioso. Una scarsa attività fisica infatti è riconosciuta come una delle cause principali di obesità e sindrome metabolica. La diminuzione del livello di attività fisica è di per sé associato all’attivazione di uno stato infiammatorio cronico generalizzato anche se di basso grado e all’aumento dello stress ossidativo, che si evidenziano sia a livello sistemico che muscolare, e che costituiscono meccanismi molecolari di base nell’aumento del rischio cardiovascolare. L’alterazione della sensibilità insulinica, primo segnale di rischio di sviluppo di diabete, si manifesta dopo pochissimi giorni di immobilizzazione, in meno di una settimana. Inoltre la riduzione del livello di attività

fisica è associato allo sviluppo di dislipidemia che si manifesta con una precoce diminuzione dei livelli di colesterolo HDL. Da sottolineare anche l’aumento indotto dalla riduzione drastica di attività delle concentrazioni plasmatiche di omocisteina, marcatore di rischio cardiovascolare. Risulta evidente che lo svolgimento e il mantenimento di un normale e costante programma di attività fisica sia di primaria importanza per evitare lo sviluppo delle alterazioni cardiometaboliche sopra riportate. Tuttavia, un adeguato programma di attività fisica può non essere sufficiente, soprattutto se non associato ad un adeguato stile alimentare. Inoltre esistono delle condizioni nelle quali non è possibile modificare opportunamente il livello di attività fisica, basti pensare a persone anziane con mobilità limitata o ridotta, pazienti con patologia cronica e/o ospedalizzati, pazienti ortopedici.

L’importanza della nutrizione nel contrastare le alterazioni cardiometaboliche indotte da inattività fisica Uno strumento molto importante di cui si dispone per limitare le alterazioni cardiometaboliche, siano esse associate o meno a una ridotta attività fisica, è la modulazione delle abitudini alimentari. In questo settore sono state condotte, e si stanno ancora attualmente svolgendo, numerose attività di ricerca. I punti principali che devono essere presi in considerazione sono due: il

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mantenimento del bilancio energetico e l’introito proteico che deve essere mantenuto intorno a 1g di proteine per kg di peso corporeo al giorno. Il bilancio energetico neutro si definisce quando l’introito energetico è pari al consumo energetico dell’organismo in una determinata condizione. Esso ad esempio è aumentato in corso di patologia acuta, in presenza di infiammazione sistemica mentre è diminuito in condizione di ridotta attività fisica, durante la quale la quantità di energia necessaria per la deambulazione e l’esercizio fisico deve essere ridotta. È interessante notare che lo sbilanciamento non solo in positivo (bilancio energetico positivo) ma anche in negativo (restrizione calorica) in soggetti con mobilità ridotta o assente acuisce la perdita di massa muscolare, stimolando lo sviluppo di atrofia muscolare mediante, nel caso del bilancio energetico positivo, un’ulteriore stimolazione dell’infiammazione e di stress ossidativo a livello sistemico e muscolare rispettivamente. Oltre all’aspetto quantitativo, numerose attività di ricerca sono state svolte al fine di identificare qualitativamente i nutrienti che potessero contribuire a contrastare o almeno diminuire le alterazioni metaboliche indotte da una ridotta motilità. Particolare interesse è stato posto sul ruolo delle proteine. L’assunzione ottimale di proteine assume un ruolo centrale nel soggetto in condizione di inattività fisica, e tale ruolo risulta essere ancora più prominente nel soggetto affetto da patologia

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sia acuta ma soprattutto cronica, RIDOTTA ATTIVITà come ad esempio nel caso del FISICA paziente affetto da malattia cardiovascolare. In condizione di ridotta attività fisica si osserva, come IPOEROMOCISTEINEMIA già detto, lo sviluppo di OBESITà atrofia muscolare con quindi perdita di tessuto muscolare. Tale effetto DISLIPIDEMIE MALATTIA è associato non solo alla diminuzione dello CARDIOVASCOLARE INSULINO RESISTENZA stimolo meccanico associato al movimento ma anche ad una serie IPERTENSIONE di altri fattori metabolici STRESS OSSIDATIVO che includono lo sviluppo di uno stato infiammatorio sistemico cronico, l’aumento di stress ossidativo e lo svilupINFIAMMAZIONE SISTEMICA po di resistenza anabolica. Il feDI BASSO GRADO nomeno della resistenza anabolica consiste nella diminuzione, a parità di introito proteico, della capacità degli aminoacidi di stimolare l’anabolismo, ovvero la sintesi proteica. Lo sviluppo di n e l l a resistenza anabolica a stimolo amino- s t i m o l a acidico è indotto dall’avanzare dell’età, zione dell’anabolidall’inattività fisica e dalla concomitan- smo proteico se comparate ad esempio te presenza di patologia in corso, con- con la caseina, altra proteina presente dizioni associate a un maggior rischio nel latte. Le proteine del siero del latte, cardiometabolico. La determinazione infatti, presentano un più alto contequindi dell’apporto proteico ottimale ri- nuto di leucina (aminoacido associato sulta importantissima per interrompere anche al metabolismo glucidico e alla il circolo vizioso che si viene a creare tra sensibilità insulinica), cisteina (aminodiminuzione di massa magra e alterazio- acido limitante la sintesi del principale ni cardiometaboliche nelle diverse clas- antiossidante del nostro organismo, cioè si considerate. Ulteriori studi hanno poi il glutatione) e glutammina (il cui ruolo evidenziato come anche la composizione nell’immunità è anche stato ampiamente quali-quantitativa delle proteine ingerite descritto in letteratura). Inoltre la “whey debba essere presa in considerazione. Le protein”, rispetto alla caseina, risulta esproteine del siero del latte (altresì note sere più rapidamente assorbita, inducencome “whey protein”) hanno una com- do un picco plasmatico aminoacidico più posizione aminoacidica e una cinetica precoce e marcato, tale da stimolare più metabolica tale da renderle più efficaci efficacemente l’anabolismo proteico.


Alimentazione Personalizzata

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A cura di Cristina Zadro e di Annalisa Pediroda, G&life

Da tempo ormai il concetto di una nutrizione standardizzata, che vada bene per tutti, sta lasciando piede alla consapevolezza che tanto più l’alimentazione è aderente alle esigenze nutrizionali della persona, tanto più essa sarà efficiente nel coadiuvare la persona al mantenimento del proprio stato di salute e a prevenire malattie. In questo panorama si inserisce la nutrigenetica, la scienza che, combinando genetica e nutrizione, studia le caratteristiche genetiche di un individuo che influenzano la diversa risposta ai nutrienti e contribuisce a definire le esigenze di micro (vitamine, sali minerali, ecc) e macro nutrienti (proteine, zuccheri, grassi, ecc) del soggetto. Le malattie cardiovascolari sono malattie complesse che derivano cioè sia da fattori genetici che da fattori ambientali (l’alimentazione, la sedentarietà, il fumo, l’alcol, lo stress...). Poiché la dieta, intesa come stile di vita, rappresenta uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare, una dieta personalizzata, che cerchi di ridurre tale rischio, può diventare uno strumento preventivo e terapeutico fondamentale. Una dieta personalizzata per ridurre il rischio cardiovascolare, data la complessità della patologia, richiede di considerare tutti i fattori di rischio: lo stato di salute della persona, il suo stile di vita e il suo “quadro” genetico. Quest’ultimo, in particolare considererà i geni che la scienza ha tutt’oggi identificato come predisponenti a un incremento del rischio cardiovascola-

re. Per alcuni di questi è stata inoltre documentata un’interazione con specifici nutrienti che sono in grado di modulare, aumentando o diminuendo, la predisposizione a condizioni patologiche quali diabete, obesità, ipertensione: l’analisi genetica può pertanto consentire l’identificazione di uno specifico nutriente, la cui presenza nella nostra dieta può ridurre il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari. Possono essere citati numerosi esempi di geni con un ruolo di interazione con la dieta documentato sulla base di studi di nutrigenetica. Uno degli esempi più noti è quello del gene MTHFR e di una sua variante che predispone all’innalzamento dei livelli ematici di omocisteina, parametro legato a un maggior rischio di malattie cardiovascolari. È stato però dimostrato che un’adeguata assunzione di acido folico, vitamina B6 e B12, consente di ridurre l’effetto di questa variante genetica e quindi il rischio cardiovascolare che da essa deriva. Un altro esempio di gene per il quale è stata documentata una diversa risposta alla dieta è FTO: è stata infatti identificata una sua variante genetica particolarmente frequente nei soggetti obesi e che sembra pertanto

influire negativamente sui processi metabolici predisponendo ad obesità. Questa variante contribuisce ad assumere comportamenti alimentari scorretti, in particolare riducendo il senso di sazietà e facendo propendere il soggetto a preferire alimenti densi, grassi e calorici. D’altro canto però questa variante genetica rappresenta anche un vantaggio per coloro che decidono di intraprendere uno stile di vita attivo: i soggetti che la possiedono, a parità di attività fisica svolta, dimagriscono infatti prima rispetto ai soggetti che non la possiedono. I geni che sono stati identificati per avere un’influenza sul metabolismo degli zuccheri, rappresentano un fattore di rischio per l’insorgenza del diabete di tipo 2. Ad esempio, soggetti che presentano una particolare variante del gene TCF7L2 sono predisposti a livelli di glicemia alti, ridotta sensibilità e resistenza all’insulina: una corretta gestione della glicemia con attenzione al consumo di zuccheri semplici, l’assunzione di cereali integrali e un’adeguata gestione del carico glicemico si sono dimostrati efficaci nel ridurre l’effetto derivante da questa variante genetica. Altresì, varianti di geni coinvolti nei

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processi di detossificazione dell’organismo e che quindi ci aiutano a combattere i radicali liberi, contribuiscono alla predisposizione genetica alle malattie cardiovascolari. Tra queste, possiamo citare le varianti genetiche delle glutatione perossidasi: la loro presenza predispone ad una maggiore necessità di nutrienti ad azione antiossidante. Anche i livelli ematici di selenio vengono regolati dalle diverse caratteristiche genetiche di un individuo rispetto all’altro. Considerando due individui, con varianti genetiche di geni codificanti per le selenoproteine diversi, questi, a parità di selenio assunto con la dieta, presenteranno livelli ematici di selenio diversi e, di conseguenza, questo influsso determinerà un diverso fabbisogno di selenio tra i due. Da questi brevi spunti si può comprendere che analizzare il nostro DNA può essere considerato un po’ come leggere il libretto di istruzioni del nostro metabolismo: ci permette cioè di comprendere la predisposizione che ha un individuo - diversa per tutti - a ingrassare, a bruciare gli zuccheri in un certo modo piuttosto che in un altro, a metabolizzare e depositare in una determinata maniera i grassi e complessivamente definisce la nostra tendenza a condizioni metaboliche patologiche. Ma non solo, perché ci fornisce indicazioni su quali nutrienti o composti possano essere utili a far funzionare meglio il nostro metabolismo. Sono molti i geni a tutt’oggi identificati per il loro contributo alla predisposizione al diabete, all’obesità, all’ipertensione, all’ipercolesterolemia e a tutte quelle condizioni che favoriscono lo sviluppo di una patologia cardiovascolare. Ciascun gene con-

tribuisce in minima parte a conferire un incremento del rischio, ma in un quadro diagnostico completo della persona rappresentano comunque un dato che è importante valutare nell’elaborazione di strategie preventive, diagnostiche, e terapeutiche, e tra queste l’alimentazione. Pertanto una dieta personalizzata non può tener conto unicamente dello stato di salute della persona ma deve considerare anche la sua genetica. In particolare, l’analisi del DNA, l’interpretazione dell’informazione genetica, una valutazione accurata di tutti i parametri dello stato di salute e delle abitudini alimentari permettono di creare un piano dietetico costruito su misura per sviluppare uno strumento di prevenzione cardiovascolare. Questa sinergia tra “quadro dello stato di salute”, definito dai parametri clinici, e “quadro genetico” consente quindi di delineare non solo lo stato contingente, patologico o di benessere, della persona ma anche le sue prospettive future. In questo contesto le strategie da adottare non dovranno tener conto solo dello stato attuale del soggetto, ma anche delle sue predisposizioni. Ad esempio, in un quadro di salute ottimale, alcuni parametri emato-chimici e/o alcuni marcatori genetici potrebbero essere indicativi per una predisposizione allo sviluppo di Diabete di tipo due e un’alimentazione povera in zuccheri semplici, con un carico glicemico basso può rappresentare quindi un’ottima strategia preventiva per questo soggetto. Allo stesso modo per una persona diabetica conoscere la propria predisposizione all’ipertensione può consentirle di ridurre il rischio di complicare il proprio quadro patologico, attraverso un’alimentazione

povera in sodio. È chiaro che l’impatto della variabilità genetica sul metabolismo dei nutrienti e sulla suscettibilità alle malattie è complesso ed è necessario definire l’influenza delle molteplici varianti genetiche sui diversi meccanismi metabolici e illustrare come questi effetti siano modulati dai fattori nutrizionali. Ad oggi queste relazioni non sono state del tutto chiarite: nuovi geni, nuove varianti genetiche e nuove correlazioni gene-rischio-nutriente vengono identificati e decritti continuamente nella letteratura scientifica. Nell’ottica di contribuire ad accrescere il know-how necessario ad elaborare un’alimentazione personalizzata al rischio cardiovascolare, il progetto Nutriheart si è proposto da un canto di studiare i parametri clinici che meglio definiscono il rischio cardiovascolare della persona, e dall’altro di indagare, catalogare e validare i geni che concorrono maggiormente alla predisposizione ad esso. Tutti questi dati (genetici e non) correttamente analizzati possono contribuire alla definizione: ●● del rischio individuale di sviluppare una malattia cardiovascolare; ●● dei nutrienti e delle molecole che possono concorrere a ridurre tale rischio. Il ruolo di g&life nel progetto Nutriheart è stato quello di sviluppare programmi nutrizionali personalizzati e miranti a prevenire l’insorgenza di malattie cardiovascolari nei soggetti a rischio. I contributi degli altri partner del progetto hanno consentito a g&life di acquisire le conoscenze indispensabili (dati antropometrici, clinici e biochimici e genetici) per il raggiungimento dei propri obiettivi progettuali. Data la complessità e la numerosità dei dati di cui tener conto è sta-


to necessario implementare strumenti informatici in grado di gestire un ampio numero di dati, di integrare fra loro le diverse variabili, di calcolare il rischio individuale alla malattia, di elaborare le necessità nutrizionali del soggetto. G&life ha definito quindi le modalità con le quali organizzare, analizzare ed interpretare questi dati per valutare il quadro di rischio personale. Sono stati formulati algoritmi e regole per calcolare i parametri quali e quantitativi del programma alimentare: quantità e tipo di vitamine, minerali, carico glicemico e percentuale di grassi, sono solo alcuni dei parametri della dieta che vengono computati in funzione del quadro di rischio personale. Per rendere i dati individuali accessibili e utilizzabili, g&life ha ideato una piattaforma informatica in grado di immagazzinare i dati, interpretarli, elaborarli e renderli fruibili dal nutrizionista che costruisce la dieta personalizzata coerente al fabbisogno nutrizionale del soggetto. Il naturale output del progetto sarà quindi la realizzazione di un servizio di nutrizione personalizzata che potrà essere proposto direttamente all’utente finale o a professionisti sanitari e del settore della nutrizione. Il servizio sarà strutturato come segue: ●● un test genetico con il quale analizzare un pool di geni legati al rischio cardiovascolare; ●● un questionario mirato a raccogliere parametri anamnestici, valori ematochimici e marcatori biochimici, abitudini e preferenze alimentari, allergie e intolleranza, dati relativi all’attività fisica e allo stile di vita. I dati emersi dall’analisi genetica e quelli inclusi nel questionario convoglieranno nella piattaforma informatica e verranno consultati dal genetista e dal

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nutrizionista che valuteranno il rischio individuale e la strategia nutrizionale più opportuna per la persona. Verrà quindi elaborato un piano nutrizionale specifico che potrà includere alimenti funzionalizzati e nutraceutici personalizzati. Il piano alimentare considererà inoltre eventuali allergie ed intolleranze: queste includeranno sia quelle segnalate dal soggetto nel questionario, sia un’eventuale intolleranza al lattosio evidenziata dall’analisi genetica. Per quel che concerne quest’ultima, nella nostra esperienza aziendale, abbiamo visto che la determinazione della predisposizione genetica a un deficit nella digestione del lattosio e le successive indicazioni per una dieta povera di tale zucchero, determinano un notevole beneficio in termini di miglioramento della qualità della vita: essendo questa intolleranza spesso sottodiagnosticata a causa di una sintomatologia confondibile con altre condizioni, la sua risoluzione riduce gonfiori, dolori addominali, ritenzione idrica e aumenta il grado di benessere della persona. L’analisi dello stile di vita della persona e la valutazione di alcune varianti genetiche legate ai processi che regolano la spesa energetica e l’attività muscolare, consentirà

inoltre di fornire indicazioni in merito al tipo di attività fisica più congeniale alla persona per perdere peso, mantenere il tono e l’efficienza muscolare. Si tratterà quindi di un servizio quanto più personalizzato mirato sia a ridurre il rischio cardiovascolare della persona sia a migliorare la sua qualità della vita. Per aumentare il grado di consapevolezza della persona in merito ai propri livelli di rischio e per fornire uno strumento educativo che renda il soggetto autonomo e consapevole delle proprie scelte alimentari, il servizio contemplerà che l’utente si rapporti poi con il professionista della nutrizione: questi, una volta delineati i fattori che determinano il livello di rischio del soggetto, illustrerà quali siano le sue necessità nutrizionali e da cosa siano dettate. Il nutrizionista si interfaccerà periodicamente con il soggetto per valutare i progressi (variazione dei parametri antropometrici, emato-chimici), rispondere ai suoi dubbi e offrire suggerimenti per seguire proficuamente il suo percorso dietetico. In linea con gli obiettivi del progetto Nutriheart questo servizio potrebbe contribuire a ridurre l’incidenza delle malattie cardiovascolari.

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il rischio delle malattie cardiovascolari può essere nutraceutica modulato dall’interazione dna-nutrizione.

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gli interventi:

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VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI ANTINFIAMMATORI AREA NUTRIGENOMICA. VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI DI ESTRATTI NUTRACEUTICI ANTINFIAMMATORI DI ESTRATTI NUTRACEUTICI A LIVELLO A LIVELLO MOLECOLARE SU MOLECOLARE SU MACROFAGI IN VITRO MACROFAGI IN VITRO A cura di Elena Pomari (Nutrigene), Luciano Navarini (Illycaffè), Silvia Colomban, (illycaffè) e Dott.ssa Pomari Elena, Bruno Stafanon (Nutrigene) Dott. Navarini Luciano, Dott.ssa Silvia Colomban, IL RISCHIO DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI PUÒ ESSERE MODULATO Prof. Stefanon Bruno DALL’INTERAZIONE DNA-NUTRIZIONE. LA RICERCA IN CAMPO NUTRIGENOMICO, ASSIEME A QUELLO NUTRIGENETICO, HA UN FORTE POTENZIALE NEL CONTRIBUIRE ALLO SVILUPPO MICRONUTRIENTI DI DI APPROCCI MOLECOLARI E TECNOLOGICI APPLICABILI IN PREVENZIONE, PROGNOSI, ORIGINE VEGETALE NELLA DIAGNOSI E TERAPIE DELLA PATOLOGIA. PREVENZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE Secondo la World Health Organiza- co e fibroso. Sebbene i meccanismi fra i quali il fattore di trascrizione Dott.ssa Tiziana Canal tion (WHO), le malattie cardiovasco- fisiopatologici dell’aterosclerosi non nucleare NFkB, che entra nel nucleo Asoltech (Trieste) lari (CVD) sono una delle principali siano ancora completamente chiariti, delle cellule e attiva, a sua volta, la cause di morte e dipendono in larga misura dai comportamenti alimentari e dagli stili di vita. Per poter essere efficaci, le strategie di prevenzione devono pertanto concentrarsi su fattori chiave come l’alimentazione, l’attività fisica e lo stress psicosociale. Tra le CVD, l’aterosclerosi è una malattia cronica che decorre asintomatica per molti decenni e nella sua progressione può determinare eventi acuti come l’infarto miocardico acuto, la morte improvvisa e l’ictus ischemico. L’aterosclerosi è una condizione patologica a carico delle pareti interne arteriose, caratterizzata dalla presenza di ateromi, placche costituite da materiale lipidico (colesterolo, fosfolipidi, trigliceridi), protei-

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è ormai largamente riconosciuto che l’infiammazione e lo stress ossidativo giochino un ruolo chiave in tutte le fasi dell’aterosclerosi, in quanto causano danni all’endotelio vasale. Tra i componenti che partecipano al processo aterosclerotico, i macrofagi giocano un ruolo chiave nell’inizio e nella progressione dei danni vasali. I macrofagi sono cellule coinvolte nella genesi e nell’amplificazione dell’infiammazione cronica e numerose ricerche hanno chiarito che queste cellule giocano un ruolo prioritario nella formazione delle placche di aterosclerosi. Alcune citochine pro-infiammatorie, quali TNFα e IL1, sono infatti rilasciate dai macrofagi e causano l’attivazione di altri geni,

trascrizione di geni che inibiscono l’apoptosi e promuovono la proliferazione cellulare e l’infiammazione. Nel corso degli ultimi decenni, i ricercatori hanno dimostrato che numerosi composti bioattivi presenti nelle piante presentano attività antiossidante, grazie alla loro azione scavenger o quencer nei confronti delle specie reattive dell’ossigeno (ROS) e dei radicali liberi in genere. Inoltre, alcuni composti svolgono anche un ruolo attivo nella regolazione della funzione cellulare, attraverso l’induzione o la soppressione dei processi di trascrizione di geni coinvolti nel processo infiammatorio. Il controllo dell’espressione dei geni target dei processi infiammatorio e ossidativo,


quali per es. TNFα e NFkB, può quindi rappresentare una strategia nutrizionale per la prevenzione dei processi patologici, come le CVD. I composti attivi presenti nei vegetali, definiti anche nutraceutici, operano quindi come modulatori in grado di agire sul DNA cellulare e modularne l’espressione oltre che i processi biochimici cellulari. Queste azioni sul DNA, comportano la possibilità di interferire sui sistemi biologici come l’infiammazione, attivando l’espressione di geni target con produzione di fattori molecolari in grado di gestire e condizionare il metabolismo cellulare, come, per esempio, quello dei macrofagi. La nutrigenomica è la scienza che studia gli aspetti della nutrizione molecolare, di come cioè i nutraceutici siano in grado di interferire sul DNA, attivando alcuni geni o al contrario regolandoli negativamente (up-odown-regulation). Questa recente branca dell’alimentazione si basa su tecnologie genomiche e consente lo sviluppo di strategie basate sull’apporto di fattori nutrizionali per diminuire, nel caso specifico, l’accumulo dei macrofagi nella placca, con la prospettiva di ridurre l’occorrenza di eventi cardiaci fatali. L’obiettivo del progetto quindi è di sviluppare degli integratori a base di composti nutraceutici ad attività antiossidante e antinfiammatoria per la prevenzione di patologie cardiovascolari, in particolare sui soggetti a rischio. Lo studio di nutrigenomica all’interno del progetto Nutriheart è stato condotto con l’obiettivo di: a) identificare e selezionare estratti nutraceutici con potenziale attività antinfiammatoria e antiossidante;

Relativamente a malattia coronarica e infarto miocardico nei soggetti sani, non sembra esserci controindicazione a un consumo moderato (fino a 3-4 tazzine al giorno) regolare e continuativo di caffè

LE METODICHE UTILIZZATE E I RISULTATI DELLO STUDIO Estratti nutraceutici Sono stati usati estratti standardizzati per principi attivi con potenziali e/o già conosciuti effetti modulatori sui processi di infiammazione e stress ossidativo di: Arctium lappa (Bardana), Camellia sinensis (Tè verde), Echinacea angustifolia (Echinacea), Eleutherococcus senticosus

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Il caffè a dosi moderate non aumenta il rischio di insorgenza di scompenso cardiaco, malattia valvolare e aritmie cardiache (fibrillazione atriale)

Il caffè in generale non sembra aumentare il rischio di ictus e, a dosi moderate, può addirittura essere protettivo nei consumatori abituali

b) eseguire saggi dose-risposta di vitalità su macrofagi coltivati e trattati con gli estratti nutraceutici in vitro; c) analizzare gli effetti degli estratti nutraceutici sulla modulazione di gene expression di target infiammatori quali TNFα, IL1β, COX2, NFKB1, NFKB2, NFE2L2 e PPARγ. L’analisi è stata condotta in vitro su macrofagi in condizione di stress ossidativo ottenuta mediante una pre-stimolazione con H2O2.

Testi nei fumetti tratti da “Caffè e Salute” a cura di A. Tavani – Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”, Aprile 2013, Coordinamento editoriale Weber Shandwick Italia

(Eleuterocco), Panax ginseng (Ginseng) e Vaccinium myrtillus (Mirtillo nero) e quattro estratti di caffè verde crudo e tostato, con e senza caffeina.

Modello cellulare e test in vitro Il modello di studio utilizzato è stato sviluppato per studiare in vitro la bioattività degli estratti nutraceutici contro i processi di stress ossidativo e infiammatorio che vengono innescati a livello aterosclerotico. In particolare, è stata usata la linea cellulare di macrofagi RAW 264.7 (ATCC, U.S.A.) come modello cellulare per il test dose-risposta di citotossicità degli estratti naturali e per successiva analisi della modulazione dell’espressione genica. È stata osservata una riduzione della vitalità dei macrofagi all’aumentare della concentrazione dell’estratto usato. In particolare, le dosi 1 e 10

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Estratto naturale

Fattori di trascrizione NFKB1

NFKB2

NFE2L2

Citochine PPARγ

IL1β

Enzimi TNFα

COX2

NOS2

AL CS EA ES PG VM V V+c T T+c Tabella 1. AL, Arctium lappa; CS, Camellia sinensis; EA, Echinacea angustifolia; ES, Eleutherococcus senticosus; PG, Panax ginseng; VM, Vaccinium myrtillus; V, caffè verde; V+c, caffè verde con caffeina; T, caffè verde tostato e T+c, caffè verde tostato con caffeina. L’intensità dell’effetto degli estratti sulla regolazione dell’espressione dei geni target analizzati è indicata in arancio (aumento dell’espressione) e in rosa (diminuzione dell’espressione).

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µg/ml risultano mantenere la vitalità al di sopra di 80%. Al contrario, le dosi 100 e 200 µg/ml hanno determinato un effetto citotossico. Per questo, la dose 10 µg/ml è stata scelta per gli esperimenti successivi. Inoltre, in condizione di stress ossidativo mimato dalla pre-stimolazione con H2O2 (200 µM) per 1 ora, sono stati aggiunti gli estratti alla concentrazione di 10 µg/ml per 24 ore. Come riportato nella tabella 1, tutti gli estratti modulano con effet-

to specifico (up- o down-regolando in contrasto all’effetto pre-stimolatorio dell’H2O2) l’espressione dei trascritti di interesse collegati a infiammazione e stress ossidativo. I dati ottenuti dall’analisi di gene expression sui macrofagi, suggeriscono effetti antinfiammatori degli estratti di Arctium lappa, Camellia sinensis, Panax ginseng e Vaccinium myrtillus. Questi effetti si osservano con la sotto-regolazione dell’espressione di target molecolari coinvolti

nel processo infiammatorio e la sovra-regolazione di NFE2L2 e PPARγ attivi nel contrastare tale processo. Al contrario, fra i risultati, va sottolineata anche l’attività immunostimolatoria di Echinacea angustifolia ed Eleutherococcus senticosus. Interessante notare come sia caffè verde che tostato, con e senza caffeina, abbiano determinato un effetto modulatorio dell’espressione genica simile e in particolare depressivo per geni pro-infiammatori.


MIRTILLO NERO L’estratto ottenuto dalle bacche del mirtillo nero (Vaccinium myrtillus), una pianta arbustiva della famiglia delle Ericaceae, comunissima nel sottobosco montano dell’emisfero settentrionale dove cresce tra i 900 ed i 1500-1800 metri, è stato uno dei composti nutraceutici di maggior interesse per la sua spiccata attività antiossidante. Il potere antiossidante di questo frutto nel combattere i radicali liberi e i danni che provocano all’organismo si deve in particolare agli antociani (o antocianine), pigmenti naturali che appartengono alla classe dei flavonoidi (anche chiamati bioflavonoidi) e che conferiscono ai mirtilli il loro colore blu-violaceo, oltre che al contenuto di vitamina C. Sulla base di alcune osservazioni sperimentali è stato ipotizzato che i mirtilli siano in grado di modulare processi ossidativi e infiammatori, oltre che di influenzare i lipidi plasmatici, l’obesità e la pressione arteriosa (Basu et al., J. Nutr. 2010 140: 1582-1587). Secondo questi risultati, la riduzione della pressione sistolica e diastolica e della perossidazione lipidica, particolarmente elevata nei soggetti con adiposità addominale, è alla base della cardioprotezione associata al consumo di mirtilli in donne con sindrome metabolica. Dati ottenuti in altri studi, hanno dimostrato l’attività benefica per il benessere microvascolare come pure il controllo dei livelli di glucosio nel sangue e le sue complicanze associate a infiammazione e stress ossidativo (McDougall et al., Biofactors 2008 34: 73–80; Chen et al., Nutr. Cancer 2008 60: 43-50). E’

stato dimostrato come gli antociani siano potenti antiossidanti contro i radicali liberi, oltre ad avere un effetto vasoprotettivo nella stimolazione di elementi strutturali dei tessuti perivascolari. In particolare, l’attività vasoprotettiva sarebbe determinata dalla ridotta permeabilità capillare e dall’incremento della resistenza dei capillari (Song et al., Phytother. Res. 2010 24: 520-524) attraverso vari meccanismi tra cui la stimolazione della sintesi di mucopolisaccaridi, l’inibizione di enzimi proteolitici coinvolti nella degradazione della matrice extracellulare dei vasi sanguigni e l’interazione con il metabolismo del collagene.

CAFFÈ VERDE Il genere Coffea appartiene alla famiglia delle Rubiacae, sottofamiglia Ixoroideae, classe Coffeae. Linneo ha decritto la prima specie di caffè (Coffea arabica) nel 1753. La produzione commerciale del caffè è basata su due specie botaniche Coffea arabica L. e Coffea canephora Pierre ex Froehn. Una terza specie, Coffea liberica Bull ex Hiern contribuisce meno dell’1% alla produzione mondiale. Tutte le specie del genere Coffea hanno origine nell’Africa tropicale. Tutti conosciamo ed apprezziamo le virtù del caffè tostato. Gli effetti indotti dalla tostatura non si limitano alla liberazione dai rispettivi precursori di centinaia di composti volatili che compongono il complesso aroma della “nera bevanda” ma anche alla generazione di molecole biologicamente attive riconosciute utili dal punto di vista salutistico (ad esempio niacina e ione N-metilpiridinio).

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Negli ultimi anni, tuttavia, è emerso un certo interesse verso il caffè verde (il prodotto non sottoposto a tostatura) e i suoi estratti. Diversi lavori scientifici hanno messo in luce alcune proprietà del caffè verde che lo rendono interessante, sebbene dal punto di vista organolettico tutt’altro che attraente. In particolare, alcuni articoli, hanno suggerito che il caffè verde o i suoi estratti potrebbero essere utili nel trattamento dell’obesità e del sovrappeso e ciò grazie alla concentrazione di acidi clorogenici che risulta superiore nel prodotto verde rispetto a quello tostato. Gli acidi clorogenici sono dei polifenoli antiossidanti che hanno mostrato effetti farmacologici come ad esempio l’inibizione dell’accumulo di grasso e la riduzione del peso in modelli animali e nell’uomo. Inoltre studi sugli estratti di caffè verde hanno fornito indicazioni secondo cui il loro consumo potrebbe influire positivamente sul metabolismo glucidico. L’unico studio epidemiologico ad oggi pubblicato sull’utilizzo degli estratti di caffè verde ha giudicato promettenti i risultati finora acquisiti sebbene tuttavia ancora molto pochi e di scarsa qualità metodologica (Onakpoya et al., Gastroenterol. Res. Pract. 2011 2011: 382852). Questa evidenza, unitamente alla mancanza di informazioni circa possibili controindicazioni, devono necessariamente raffreddare gli entusiasmi del pubblico verso l’utilizzo di prodotti ancora poco noti (Marcason, J. Acad. Nutr. Diet. 2013 113: 364). é peraltro importante, dato il ruolo che obesità e sovrappeso giocano come fattori di rischio per l’insorgenza delle malattie cardiovascolari, studiare questi nuovi prodot-

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ti e acquisire maggiori conoscenze sulla loro reale efficacia. A tal fine, a fianco di prodotti ben noti, gli estratti di caffè verde sono stati inclusi tra i campioni oggetto del presente studio.

CONSIDERAZIONI Grazie anche alla ricerca realizzata nel progetto Nutriheart, sono stati chiariti alcuni meccanismi molecolari con i quali i nutraceutici regolano l’espressione di geni chiave ad attività antinfiammatoria e antiossidante. Fra gli estratti più promettenti per bioattività, utilizzo e per disponibilità, il Vaccinium myrtillus e il caffè verde sono risultati i più promettenti per la formulazione di integratori nutraceutici per la prevenzione delle CVD. La verifica della loro bioattività in vivo richiede comunque appropriati studi clinici.

PRESENTAZIONE RISULTATI I risultati ottenuti col presente studio sono stati presentati a un congresso e sono stati descritti in un articolo scientifico in pubblicazione sul Journal of Inflammation Research: Bruno Stefanon, Monica Colitti, Misa Sandri, Elena Pomari. In vitro anti-inflammatory activity of plant extracts. 2013. XX Congresso Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) Bologna, 11-13 Giugno Elena Pomari, Bruno Stefanon and Monica Colitti. 2014. Effect of plant extracts on H2O2-induced inflammatory gene expression in macrophages. In press, J. Inflamm. Res.

Il caffè come estratto nutraceutico con potenziale attività antinfiammatoria e antiossidante

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MICRONUTRIENTI DI ORIGINE VEGETALE NELLA PREVENZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE OTTIMIZZAZIONE DELLA QUALITà E DELL’EFFICACIA

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A cura di Tiziana Canal, Asoltech

LA PREVENZIONE DELLE CVD PUÒ ESSERE ATTUATA, OLTRE CHE ADOTTANDO DIETA E STILI DI VITA CORRETTI, SUPPORTANDO L’ORGANISMO CON OPPORTUNI MICRONUTRIENTI; TRA QUESTI UN RUOLO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE è RIVESTITO DA BIOATTIVI DI ORIGINE VEGETALE. è DI FONDAMENTALE IMPORTANZA, AFFINCHÉ TALI BIOATTIVI RISULTINO REALMENTE EFFICACI, CHE LA LORO COMPOSIZIONE SIA NOTA E STANDARDIZZATA E CHE VENGANO RESI COMPLETAMENTE DISPONiBILI PER L’ORGANISMO.

PREVENZIONE: DIETA, MACROE MICRONUTRIENTI Oltre a fattori di predisposizione intrinseci (ad esempio genetici), numerosi altri aspetti relativi allo stile di vita, come fumo, dieta, scarsa attività fisica ed elevato consumo di alcolici, sono corresponsabili di tali patologie. In queste situazioni, i meccanismi antiossidanti, che normalmente svolgono un’azione protettiva nell’organismo, sono compromessi e i radicali liberi - principali responsabili dei danni cellulari e tissutali su cui si basano i meccanismi patogenetici delle malattie cardiovascolari - prosperano. L’approccio preventivo deve quindi inevitabilmente partire dalla modifica dello stile di vita, in primis della dieta. Con la dieta si introducono nell’organismo due grandi classi di nutrienti, entrambe fondamentali e

funzionali al buon e corretto funzionamento del sistema: i macronutrienti (i “mattoni”, proteine carboidrati e lipidi) e i micronutrienti (i “collanti”, vitamine, minerali ed in genere sostanze coadiuvanti lo stato di benessere generale). L’approccio corretto alla prevenzione deve quindi considerare non solo la modifica della dieta intesa come corretta introduzione di macronutrienti (approccio “classico”), ma anche l’integrazione di quest’ultima con sostanze che contribuiscano a prevenire l’insorgenza di sindromi più gravi, ad aiutare l’organismo a recuperare le funzionalità cellulari compromesse e a mantenere uno status ottimale una volta lo si sia raggiunto; ad esempio, supportare le funzioni antiossidanti di cellule e tessuti apportando micronutrienti funzionali in grado di potenziarle contribuisce a ridurre il rischio cardiovascolare.

MICRONUTRIENTI DI ORIGINE VEGETALE E FITOTERAPIA OGGI Tra questi micronutrienti, numerosi composti bioattivi presenti nelle specie vegetali presentano varie attività utili e interessanti, dall’antiossidante all’ipocolesterolemizzante, dall’antinfiammatoria alla stimolante il sistema immunitario. Inoltre, alcuni composti svolgono anche un ruolo attivo nella regolazione diretta delle funzioni cellulari, inducendo o sopprimendo processi di trascrizione di geni coinvolti nel processo infiammatorio. L’approccio che prevede di integrare la dieta con micronutrienti bioattivi di origine vegetale rappresenta in realtà l’evoluzione nutraceutica della fitoterapia classica: le piante non solo hanno costituito, nel corso dei millenni, la prima fonte di principi medicamentosi per l’uomo, ma

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/03 nutraceutica Il fitocomplesso attivo viene estratto e concentrato a partire dalla pianta o da parti di essa; può essere formulato in integratori realmente efficaci solo dopo esser stato rigorosamente standardizzato e, se necessario, reso biodisponibile con adeguate tecnologie.

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hanno fornito le basi per lo sviluppo scientifico della terapia farmacologica moderna. Con l’avvento della chimica e dei primi farmaci di sintesi la fitoterapia è stata accantonata, ma negli ultimi decenni dello scorso millennio ha cominciato a emergere un rinnovato interesse per le sostanze naturali, utilizzate sia come medicina integrativa da affiancare a quella ufficiale, sia come rimedio più blando, nella prevenzione o nella cura delle lievi patologie. Recentemente (Traditional medicine: a global perspective, 2010) l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che almeno l’80% della popolazione mondiale trova nelle piante

la principale, se non esclusiva, fonte terapeutica; il numero di articoli scientifici elencati in PubMed (database di pubblicazioni a carattere biomedico) aventi come parola chiave “fitoterapia” è passato in un paio di decenni da poche decine a quasi 30.000 nel 2013. La moderna fitoterapia si basa sul concetto di “attività terapeutica globale della pianta”: in pratica, nessun costituente della pianta può considerarsi “attivo” o “inerte”, poiché la pianta è un organismo unitario nel quale ogni costituente ha una propria ragione d’essere. Tutti i costituenti, sia quelli farmacologicamente attivi sia quelli non attivi ma che modificano spesso l’assorbimento dei primi, concorrono sinergicamente a determinare l’attività terapeutica complessiva. Non si parla quindi di singolo attivo ma l’estratto vegetale è un vero e proprio “fitocomplesso” (Principles and Practice of Phytotherapy: Modern Herbal Medicine – Churchill Livingstone Eds. - 2013). È quindi più che possibile che un estratto possieda caratteristiche farmacologiche e terapeutiche che differiscono da quelle dei singoli costituenti chimici: è il caso, ad esempio, del policosanolo, una miscela di sostanze (alcooli alifatici primari a lunga catena) estratta dalla cera della canna da zucchero che esercita una potente attività ipocolesterolemizzante. È stato verificato che i singoli alcooli che compongono il policosanolo esercitano un’attività ipocolesterolemizzante, ma nessuno degli alcooli somministrati singolarmente supera in potenza la miscela.

CARATTERIZZAZIONE E STANDARDIZZAZIONE DEGLI ESTRATTI VEGETALI Ciò che rappresenta un vantaggio per l’attività, rende però difficoltosa la caratterizzazione e la standardizzazione del fitocomplesso. La variabilità della composizione chimica dipende da molti fattori: diversi tempi e luoghi di raccolta della pianta, parte della pianta utilizzata, procedimenti di estrazione differenti – tutte variabili che portano inevitabilmente a composizioni differenti. La variabilità della composizione chimica e, conseguentemente, dell’attività biologica delle sostanze vegetali, ha spesso costituito il maggiore ostacolo per studi sistematici e applicazioni terapeutiche. In passato, l’interpretazione dei dati farmacologici, tossicologici o clinici su estratti vegetali è stata purtroppo spesso incerta: infatti, poiché spesso non venivano riportati i dati di caratterizzazione dell’estratto utilizzato (ad esempio, contenuto percentuale e tipo di principi attivi), i risultati potevano essere riferiti solo alla specifica preparazione indagata in quella singola sperimentazione, rendendo di fatto impossibile il confronto con dati ottenuti con altri studi (meta-analisi). Oggi l’utilizzo di estratti vegetali correttamente standardizzati ha reso possibile l’esecuzione di molti studi clinici controllati, che hanno potuto originare rassegne sistematiche sui prodotti di una stessa pianta (meta-analisi condotte ad esempio dalla Cochrane Collaboration o dalla Peninsula Medical School di Exeter & Plymouth in Inghilterra). Utilizzando questo approccio, l’efficacia di un certo numero di medicine vegetali risulta ragionevolmente provata.


La fitoterapia, quindi, può trovare una giusta collocazione negli approcci terapeutici solo se può disporre di ingredienti tecnicamente ineccepibili e il più possibile standardizzati, che permetteranno la costruzione di una regolamentazione che potrà ulteriormente garantire la sicurezza, l’efficacia e la qualità dei prodotti vegetali. Ad oggi, a livello europeo la situazione normativa riguardante i cosiddetti Botanicals (piante e derivati vegetali) è estremamente complessa, sia per quanto concerne le affermazioni nutrizionali e salutistiche disciplinate dal Regolamento 1924/06, meglio noto come Regolamento Claims, sia per quanto riguarda l’impiego dei Botanicals negli integratori alimentari. Manca ancora infatti una lista positiva armonizzata; nel frattempo paesi come Italia, Francia, Belgio ed altri hanno deciso di adottare comunque liste positive applicabili in attesa della definizione dei claims a livello comunitario. Il Ministero della Salute, con il Decreto 9 luglio 2012, ha disciplinato l’impiego di sostanze e preparati vegetali negli integratori alimentari, includendo nell’Allegato 1 le “Linee guida di riferimento per gli effetti fisiologici”. L’allegato elenca oltre 1000 piante comunemente utilizzate e riporta per ognuna nome botanico, parte utilizzabile (foglie, frutto, rizoma, ecc), eventuali note (ad esempio avvertenze) e gli effetti fisiologici che, secondo il modello definito al riguardo dal Consiglio d’Europa [Homeostasis, a model to distinguish between foods (including food supplements) and medicinal products – 07.02.2008], sono volti ad ottimizzare le funzioni dell’organismo nell’ambito dell’omeostasi. Nella Tabella a seguire alcuni esempi tratti dall’Allegato.

NOME LATINO

PARTE

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FUNZIONE FISIOLOGICA

Aesculus hyppocaCortex: regolarità del transito intestinale. Funzionalità del sistema digerente. Cortex, flos, stanus (IPPOCARegolarità del processo di sudorazione. Funzionalità del microcircolo. folium, gemma STANO) Folium: fluidità delle secrezioni bronchiali. Funzionalità articolare. Allium sativum (AGLIO)

Bulbus

Regolare funzionalità dell'apparato cardiovascolare. Metabolismo dei trigliceridi e del colesterolo. Regolarità della pressione arteriosa. Fluidità delle secrezioni bronchiali. Benessere di naso e gola. Funzione digestiva. Antiossidante.

Fructus, oleoresina: funzione digestiva. Regolare motilità gastrointestinale Capsicum spp (PE- Fructus, oleoreed eliminazione dei gas. Regolare funzionalità dell'apparato cardiovascolare. PERONCINO) sina Normale circolazione del sangue. Stimolo del metabolismo. Antiossidante. Coffea arabica (CAFFÈ)

Semen

Azione tonica e di sostegno metabolico. Antiossidante.

Ginkgo biloba (GINKGO)

Folium, gemma

Antiossidante. Memoria e funzioni cognitive. Normale circolazione del sangue. Funzionalità del microcircolo.

Olea aeuropea (OLIVO)

fructus, folium, gemma, sùrculi Metabolismo dei carboidrati e dei lipidi. Normale circolazione del sangue. (giovani getti), Regolarità della pressione arteriosa. Antiossidante. oleum ex fructibus

Panax ginseng (GINSENG)

Folium, radix

Solanum lycopersiFructus cum (POMODORO)

Tonico-adattogeno. Antiossidante. Tonico (stanchezza fisica, mentale). Metabolismo dei carboidrati. Fructus: antiossidante. Funzionalità della prostata.

Folium, fructus, Fructus: funzionalità del microcircolo (pesantezza delle gambe). Antiossidante. Vaccinium myrtillus sùrculi (giovani Benessere della vista. Regolarità del transito Intestinale. (MIRTILLO) getti) Folium: drenaggio dei liquidi corporei. Funzionalità delle vie urinarie. Vitis spp (UVA)

Folium, semen: funzionalità del microcircolo (pesantezza delle gambe). AnFolium, fructus, tiossidante. Regolare funzionalità dell'apparato cardiovascolare. gemma, semen, Oleum: integrità e funzionalità delle membrane cellulari. Trofismo e funzionalioleum tà della pelle. Contrasto dei disturbi del ciclo mestruale. Funzionalità articolare.

rhizoma, aetheroleum: funzione digestiva. Regolare motilità gastrointestinale Zingiber officinalis Rhizoma, aethe- ed eliminazione dei gas. Antinausea. Regolare funzionalità dell'apparato car(ZENZERO) roleum diovascolare. Normale circolazione del sangue. Funzionalità articolare. Contrasto di stati di tensione localizzati. Contrasto dei disturbi del ciclo mestruale

Avvertenza supplementare: se si stanno assumendo farmaci anticoagulanti o antiaggreganti piastrinici, consultare il medico prima di assumere il prodotto. Si sconsiglia l’uso del prodotto in gravidanza e durante l’allattamento.

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nutraceutica

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BIODISPONIBILITà DEI MICRONUTRIENTI E SUA OTTIMIZZAZIONE Una volta standardizzato l’estratto per garantirne la riproducibilità, spesso però si presenta un ulteriore problema: la scarsa o nulla biodisponibilità degli attivi. Infatti, la quantità di attivo somministrata che raggiunge la circolazione sistemica è spesso molto bassa, riducendo o azzerando l’efficacia dell’estratto. Succede così che un composto giudicato interessante per una determinata attività biologica in vitro potrebbe in vivo risultare inefficace. Le cause della scarsa o nulla biodisponibilità sono molteplici, intrinseche sia all’attivo sia all’organismo. La maggior parte delle sostanze di origine vegetale ha problemi di solubilità e quindi non riesce a sciogliersi in tempo utile nei liquidi fisiologici ed a esser assorbita; oppure è instabile e quindi si degrada troppo velocemente. Oppure, il bioattivo può presentarsi in una forma che non può essere assorbita come tale, ma deve essere idrolizzata dagli enzimi intestinali; è quindi indispensabile che arrivi nello specifico distretto intestinale e lì rimanga per il tempo necessario a esser trasformato. Ma per altri composti la medesima attività idrolitica della flora intestinale può risultare in una degradazione e quindi in una perdita di attività o in un ridotto assorbimento. Il problema può essere affrontato studiando un’appropriata formulazione per ciascuna tipologia di estratto vegetale; studiandone

cioè le caratteristiche chimicofisiche che ne rallentano o impediscono l’assorbimento, in modo da individuare la forma corretta che garantisca un adeguato rilascio del principio attivo nell’organismo. Esistono vari approcci per migliorare le caratteristiche chimicofisiche (solubilità, stabilità, ecc), che si basano su tecnologie che comportano, ad esempio, la riduzione dimensionale delle particelle (micronizzazione); l’amorfizzazione di sostanze cristalline; l’intima miscelazione dell’attivo con materiali idrofili che ne migliorino la disperdibilità in acqua. Tecniche più recenti prevedono, ad esempio, il miglioramento della solubilità attraverso la formazione di complessi tra l’attivo lipofilo e sostanze che sono idrofile all’esterno e lipofile nella cavità interna (ciclodestrine): in questi complessi, l’attivo poco solubile si disporrà all’interno della cavità lipofila mentre resterà visibile ai fluidi biologici, costituiti prevalentemente da acqua, solo l’esterno idrofilo della ciclodestrina. Altre tecnologie ancora prevedono la formazione di emulsioni, liposomi, fitosomi, nanoparticelle solide lipidiche o micelle fosfolipidiche. Il principio sui cui si fondano a tutte queste tecniche è quello della formazione di un complesso liquido, semisolido o solido in cui sostanze dotate di una parte lipofila e una idrofila si dispongono attorno all’attivo lipofilo orientandosi in modo da presentare la parte idrofila all’ambiente acquoso circostante. Una tecnica ancor più recente prevede la formazione di un materiale

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multicomposito, in cui l’associazione dell’attivo con vari materiali impartisce al composito finale proprietà superiori alla semplice sommatoria di quelle dei costituenti. Questi prodotti vengono realizzati sfruttando il maggior numero possibile delle cosiddette interazioni deboli, quelle cioè che stanno anche alla base delle funzioni altamente specifiche dei sistemi biologici, quali riconoscimento molecolare, trasporto, catalisi enzimatica. In questo tipo di processo non vengono utilizzati solventi, eliminando quindi alla radice il problema di contaminazioni e residui, e vengono mantenute basse le temperature di reazione, per minimizzare le degradazioni.

CONCLUSIONI Gli estratti di origine vegetale costituiscono una fonte quasi inesauribile di bioattivi e fra di essi molti esibiscono proprietà potenzialmente utili nella prevenzione delle CVD. La loro reale efficacia è però indissolubilmente legata ad un’elevata qualità del materiale di partenza ed alla sua biodisponibilità. Oggi rigorose caratterizzazioni degli estratti vegetali ne garantiscono la qualità e tecnologie innovative permettono di migliorarne le performances in vivo. Tali tecnologie hanno dimostrato di fornire soluzioni ottimali per una vasta gamma di problemi (scarsa solubilià, instabilità, bassa biodisponibilità, ...) e grazie ad esse l’innovazione viene resa fruibile, garantendo un’elevata qualità degli integratori proposti al pubblico.

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Negli ultimi dieci anni gli avanzamenti in campo tecnologico hanno cambiato radicalmente lo studio della genomica del futuro genomica e conseguentemente il loro impiego nelle applicazioni biomediche fino all’odierno settore della medicina personalizzata.

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genomica del futuro

genomica del futuro

A cura di Danilo Licastro (CBM) e Germana Meroni (CBM)

Negli ultimi dieci anni gli avanzamenti in campo tecnologico hanno cambiato radicalmente lo studio della genomica e conseguentemente il loro impiego nelle applicazioni biomediche fino all’odierno settore della medicina personalizzata.

La sequenza del DNA Negli ultimi dieci anni gli avanzamenti in campo tecnologico hanno cambiato radicalmente lo studio della genomica e conseguentemente il loro impiego nelle applicazioni biomediche fino all’odierno settore della medicina personalizzata. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, gli sviluppi in questione, non partono direttamente dalla biologia o dalla genetica ma da altri settori disciplinari, spesso erroneamente considerati lontani dal mondo della biologia, come la fisica, la chimica, la matematica e l’ingegneria dei materiali. È stato proprio grazie all’applicazione in campo biologico di fondamentali scoperte in questi campi se oggi la genetica e la genomica attraversano un periodo di completa rivoluzione. In particolar modo nel campo del sequenziamento del DNA il salto tecnologico ha permesso di accorciare enormemente i tempi di produzione delle informazioni necessarie all’analisi. Nei primi anni 2000 è stata dichiarata pronta la prima bozza del Progetto genoma umano (Human

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Genome Project - HGP), progetto svolto in maniera coordinata da molteplici centri di ricerca diffusi in tutto il mondo con lo scopo di identificare tutte le basi azotate che compongono il DNA dell’uomo, cioè la precisa successione di A, C, G, T nella stringa di 3 miliardi e poco più di basi che compongono il genoma umano. Il progetto, costato circa 3 miliardi di dollari, è iniziato ufficialmente nel 1990 da parte del U.S. Department of Energy (DOE) e dai National Insitutes of Health (NIH) degli Stati Uniti d’America con durata stimata di circa 15 anni ma conclusosi ufficialmente nel 2003 ovvero circa 2 anni prima del previsto. Una data molto importante, perché per la prima volta nella storia i ricercatori hanno avuto a disposizione la sequenza completa del genoma di un pool di individui. Il DNA utilizzato nel progetto, infatti, proveniva da molteplici individui diversi per sesso ed etnie. Negli anni 90 la chimica di sequenziamento normalmente utilizzata impiegava un metodo sviluppato da Frederick Sanger nel 1977 ovvero circa 20 anni prima, metodo che è stato poi perfezionato e

automatizzato nei successivi 25 anni. Oggi, a circa dieci anni di distanza dalla chiusura del progetto HGP, il tempo medio richiesto per sequenziare completamente un genoma di un singolo individuo è di circa 15 giorni al costo di circa 1500 euro ed è plausibile ipotizzare che sia il tempo che il costo si ridurranno ulteriormente nei prossimi 2-3 anni. Il tutto grazie a chimiche di sequenziamento sviluppate nella seconda metà degli anni 90 ovvero ancora una volta molti anni prima dello sviluppo delle applicazioni in campo biologico. Se credete quindi che il progetto genoma umano sia stato un’inutile perdita di denaro e che sia necesssario aspettare i nuovi progressi tecnologici prima di lanciarsi in progetti ambiziosi di questo tipo dovete considerare che nonostante il costo il risultato è stato così rilevante da portare a valutare un ritorno economico di circa 150 dollari ogni dollaro inizialmente speso (Barack Obama 2013 - State of the Union address) ovvero circa 450 miliardi di dollari. La storia del progetto genoma umano indica chiaramente che il trasfe-


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rimento di scoperte in campi non direttamente coinvolti può avere ricadute consistenti. Non sono state la sola chimica di sequenziamento e l’automatizzazione dei processi gli artefici di questo successo ma anche la gestione informatica dei dati e l’approccio statistico nell’analisi o più in generale, un approccio interdisciplinare e intersettoriale tanto più spinto quanto più difficile da realizzare. Esiste un tempo d’attesa quasi fisiologico, prima che le scoperte e gli avanzamenti tecnologici siano sufficientemente maturi per far breccia e dar vita ad applicazioni concrete. La tendenza sembra quella di una lenta ma costante diminuzione di questi tempi tecnici d’attesa, ma purtroppo l’altro lato della medaglia dimostra chiaramente che questi eventi ciclici portano a rendere le tecnologie utilizzate obsolete con la stessa velocità.

I polimorfismi genetici L’attuale riduzione dei tempi e dei costi della produzione dei dati ha aperto scenari fino a poco tempo fa impensabili spostando l’attenzione dal genoma dell’uomo come specie al genoma dell’uomo come individuo. È questo il contesto in cui parte, nel gennaio del 2008, il progetto 1000 Genomi (1000 Genomes Project) volto ad individuare le varianti (diversità) genetiche sequenziando completamente il DNA di almeno 1000 individui, presi singolarmente e non più come un unico mix, al fine di identificare quelle piccole variazioni che ci rendono unici ancorché tutti rappresentanti della medesima specie. Il progetto annunzia nell’ottobre del

2012 il sequenziamento dettagliato di 1092 individui e inizia a spostare l’attenzione verso l’identificazione di varianti genetiche rare, ossia presenti in bassa frequenza nelle popolazioni, e a popolare i database pubblici di 38 milioni di variazioni (polimorfismi) di singolo nucleotide (Single Nucleotide Polymorphism - SNP), alcuni dei quali identificati anche in precedenza con altri metodi, 1,4 milioni tra piccole delezioni e inserzioni e oltre 14 mila zone di variazioni in numeri di copie (Copy Number Variation - CNV). Capire cosa significhino realmente questi risultati non è semplice e per farlo si può pensare a una metafora. Immaginiamo di avere a disposizione diverse traduzioni nello stesso

linguaggio di una ricetta alquanto Gli strumenti in laboratorio complessa di cucina. Guardandole nel loro complesso possono sfuggirci le piccole differenze di trascrizione della ricetta ma confrontandole tra di loro si noteranno sicuramente delle differenze. Per esempio potremmo scorgere delle differenze di singole lettere o nelle indicazioni di singole quantità. In questo passaggio è indicata farina, faina, fatina o carina? Come si può facilmente intuire la nostra capacità di scorgere l’errore dipende dalla nostra conoscenza del vocabolo, dal tipo di errore in cui ci imbattiamo e a quanto frequentemente incontriamo il vocabolo o l’errore. Tutti gli esempi citati hanno dei corrispettivi nell’analisi di sequenze

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/04 genomica del futuro Strumenti di analisi nel laboratorio di genomica del CBM

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genomiche; siamo in grado di riconoscere il cambio da farina a fatina come un errore solo perché lo riteniamo non idoneo rispetto il contesto ma cosa succederebbe con il cambio da farina a carina? Trattandosi di un cambio plausibile possiamo confrontare le diverse traduzioni per verificare qual è il vocabolo più frequente e plausibilmente quello corretto. Allo stesso modo l’analisi di punti discreti ma variabili del genoma si basa sul tipo del cambio nucleotidico e di come questo, nel contesto della cornice di lettura, alteri l’informazione ad esempio causando l’interruzione o una variazione della sintesi proteica. Questa analisi richiede quindi una parallela conoscenza non solo

della sequenza ma anche della sua funzione, ad esempio codificare per una proteina o avere un ruolo di regolazione dell’espressione di un gene in un particolare tessuto, e così via. Questa è la nuova grande sfida: comprendere il significato di tutte quelle parole nella ricetta/genoma.

La genetica nelle malattie In alcuni casi, la variante, anche se apparentemente minima (una o poche basi azotate) può provocare un grosso danno cambiando o abolendo la funzione di una proteina. In questo caso la variante, mutazione, può causare una malattia genetica

che viene definita ‘monogenica’ poiché l’alterazione di un solo gene è responsabile della patogenesi della malattia. Esempi di questo tipo sono la fibrosi cistica, la distrofia muscolare di Duchenne, o una delle circa 6000 malattie genetiche. Alcune mutazioni possono insorgere non alla nascita e in un solo tessuto, sono definite “somatiche” e in alcuni casi possono dare origine a tumori. Ci sono invece patologie in cui la componente genetica da sola non è sufficiente a determinare la malattia ma sommandosi ad altre componenti ambientali (dieta, stili di vita, esposizione a sostanze inquinanti, ecc) contribuisce all’insorgenza dei sintomi patologici e viene spesso definita predisposizione. Queste malattie si definiscono appunto multifattoriali e sono in genere molto comuni come il diabete e le malattie cardiovascolari. La componente genetica in questi casi può essere dovuta a varianti, SNPs, che rendono la proteina meno efficiente o meno espressa ma nella maggior parte dei casi non si conosce la variante responsabile ma la presenza di SNPs ci indica la regione del genoma responsabile di quella predisposizione. In quest’ultimo caso gli SNPs ci servono come localizzatori, bandierine che delimitano zone di genoma in cui risiedono le componenti genetiche di malattie multifattoriali. Il Progetto genoma umano insieme a una serie di progetti multicentrici correlati, ad esempio il 1000 Genome Project, HapMap, e molti altri contributi provenienti da singoli laboratori in tutto il mondo, ha permesso in questi ultimi anni di conoscere moltissime delle possibili varianti nella


popolazione. La loro conoscenza ha consentito di sviluppare metodi e tecnologie per la loro identificazione nel DNA del singolo individuo soprattutto attraverso metodi ad alta processività (high-throughput) che utilizzano dei chip come quelli mostrati in figura che sono in grado di rilevare anche milioni di varianti contemporaneamente grazie a piccole sonde miniaturizzate e disposte in maniera ordinata sul vetrino. Questo consente di “genotipizzare” ogni singolo individuo cioè mappare nel suo DNA molti dei possibili SNPs senza dover necessariamente sequenziarne tutto il genoma accorciando i tempi del processo a meno di una settimana e riducendo i costi a poche centinaia di euro per campione. Attraverso metodi biostatistici e conoscendo le caratteristiche cliniche degli individui genotipizzati si può procedere all’associazione delle regioni genomiche definite dagli SNPs con il tratto patologico in esame come descritto nel capitolo relativo alla Medicina personalizzata.

Uno degli array utilizzati per l’analisi del genoma

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In basso: l’edificio in cui hanno sede i laboratori del CBM nel campus di AREA Science Park a Basovizza

la collaborazione con nutriheart Nell’ambito del progetto Nutrhiheart, il CBM in stretta collaborazione con l’IRCCS Burlo Garofolo ha “genotipizzato” con alta processività il DNA di più di 1500 individui. Questo significa che nel DNA di ogni individuo sono stati cercati gli SNP che caratterizzano la mappa genomica di ciascuno. Alcune di queste varianti possono modulare la capacità individuale di rispondere all’ambiente, alla dieta, allo stile di vita in generale e predisporre o proteggere dalle patologie cardiovascolari così comuni nelle popolazioni occidentali. Il metodo consiste nel confrontare il DNA estratto con tutte le varianti presenti su chip (array foto) sui quali vengono rilevati individualmente circa 1 milione di possibili varianti in tutto il genoma. L’alto numero di varianti genetiche identificate deve poi essere mes-

so in relazione a tratti patologici al fine di identificare un’associazione statisticamente significativa tra una variante (o più varianti contemporaneamente) e un tratto patologico nella popolazione di individui analizzati. Gli individui analizzati dal punto di vista genomico sono stati ben caratterizzati dal punto di vista clinico dall’IRCCS Burlo Garofolo ed è stato quindi possibile effettuare le analisi statistiche come descritto nel capitolo relativo alla Medicina Personalizzata. La prima fase è stata poi confermata studiando un numero ridotto di 200 SNP selezionati dalla prima fase del progetto, in individui provenienti da una diversa popolazione e caratterizzati da un punto di vista clinico (valutando i livelli di trigliceridi, colesterolo, pressione del sangue, ecc).

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Negli ultimi sessant’anni gli avanzamenti in campo medico hanno cambiato radicalmente medicina personalizzata l’epidemiologia delle patologie piÚ comuni e gli approcci delle cure dei pazienti.

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medicina personalizzata A cura di Nicola Pirastu e Paolo Gasparini, UNITS e IRCCS Burlo Garofolo

Negli ultimi sessant’anni gli avanzamenti in campo medico hanno cambiato radicalmente l’epidemiologia delle patologie più comuni e gli approcci delle cure dei pazienti.

Se infatti, prima dell’avvento degli antibiotici, le principali cause di morte potevano essere individuate nelle malattie infettive, oggi sono le malattie cardiovascolari a farla da padrone. Si è passati, quindi, da un problema sanitario legato a patologie a eziologia semplice, in cui cioè un unico fattore era responsabile delle loro insorgenze, a malattie in cui le cause sono molteplici e più fattori concorrono e interagiscono nel determinare la comparsa della patologia. Questo tipo di malattie sono definite complesse appunto perché derivano dall’interazione di numerosi fattori ambientali quali ad esempio l’acqua che beviamo o l’aria che respiriamo, con lo stile di vita che ciascuno di noi segue, come la dieta o il fumo e infine con il profilo genetico dell’individuo. Queste malattie sono ad oggi le più comuni ed esempi concreti possono considerarsi l’ipertensione, l’obesità e il diabete di tipo II. Una caratteristica importante di questo tipo di patologie è che ogni singolo elemento (ambiente, stile di vita e genetica) che concorre alla loro insorgenza rappresenta solo un fattore di rischio ma da solo non è sufficiente a produrre la malattia

stessa. Prendendo l’esempio del fumo di sigaretta: questo è senz’altro un forte fattore di rischio per l’insorgenza dell’ipertensione ma i fumatori sono solo predisposti a contrarre questa malattia e non tutti lo faranno. Pertanto si può affermare che ogni paziente fa storia a se e che esistono un numero elevatissimo di combinazioni di fattori che portano alla stessa patologia finale. Tuttavia questo presuppone che anche gli interventi terapeutici su questi pazienti debbano essere adattati al singolo individuo e non generalizzati secondo protocolli applicati all’intera popolazione. Questo nuovo approccio terapeutico che tramite la conoscenza del profilo genetico e non genetico del paziente decide quale sia l’intervento da effettuare si definisce “medicina personalizzata”. Possiamo dividere la medicina personalizzata in due grandi branche: la medicina preventiva, e la farmaco genomica. La farmaco genomica ha lo scopo di individuare la corretta modulazione della terapia farmacologica in base al genotipo del paziente. Per capire meglio di cosa si tratta supponiamo che una persona abbia una variante

genetica che diminuisce in maniera importante l’assorbimento di un determinato farmaco; evidentemente questo paziente avrà bisogno di dosaggi più elevati del farmaco perché questo sia efficace, oppure si dovrà considerare l’utilizzo di un farmaco diverso. Questo campo di studio è molto importante e sta portando a ottimi risultati anche in termini di applicabilità clinica. La medicina preventiva si occupa invece di identificare tramite l’analisi del profilo genetico le persone più a rischio di contrarre una determinata malattia. In questo caso l’idea di base è che individuando le persone più a rischio si possono attuare degli interventi sia di monitoraggio e screening preventivo, sia migliorando il proprio stile di vita in modo da prevenire l’insorgere della malattia. Supponiamo ad esempio di sapere che una certa combinazione di varianti genetiche predisponga all’obesità, si potrà consigliare le persone con tale profilo di avere una dieta più bilanciata e di fare maggiore attività fisica. Il problema principale di questo tipo di approccio è l’identificazione di quali varianti siano effettivamente correlate alla patologia di interesse.


Dobbiamo tenere presente che nonostante solo una piccola parte dei tre miliardi di basi che compongono il genoma umano sia variabile, questa parte rimane comunque cospicua. A oggi infatti sono note all’incirca cinquanta milioni di varianti comuni e di queste si conosce la funzione solo di una piccola parte. In più va considerato che solo una ridotta frazione sarà effettivamente associata alla patologia di interesse. Per cui l’identificazione delle varianti genetiche associate ad una determinata patologia ricorda molto la ricerca del famoso ago nel pagliaio e richiede molti anni di studio e ricerca. E, quello che è ancora più importante, è che per ottenere risultati significativi, è fondamentale avere a disposizione casistiche sufficientemente numerose e adaguate allo studio da eseguire. Al fine di arrivare a questo obbiettivo è stato quindi necessario coordinare decine di gruppi di ricerca in tutto il mondo al fine di riunire i dati di decine di migliaia di individui. È probabile che questo tipo di studi rappresentino il più grosso sforzo scientifico collaborativo di sempre visto che si è arrivati recentemente ad includere fino a novecentomila campioni in un unico studio (GIANT). Questo sforzo collettivo ha riportato quindi grandi risultati e oggi si conoscono più di 10 mila varianti genetiche associate a patologie complesse. Nonostante questi successi purtroppo l’applicazione di queste conoscenze nella pratica clinica quotidiana è ancora molto limitata. Infatti bisogna considerare che nelle malattie complesse ogni variante genetica presa singolarmente de-

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termina solamente una variazione minima nel rischio di contrarre la malattia. Ad esempio il gene FTO: il gene che è stato più associato all’obesità. Numerosi studi hanno evidenziato che le sue varianti determinano variazioni nell’indice di massa corporea degli individui, ma

tuttavia nonostante FTO sia il gene che fin’ora ha mostrato l’effetto più forte su questa patologia, in realtà persone con genotipi diversi mostrano differenze massime di circa un punto e mezzo di indice di massa corporea. È chiaro quindi che questa differenza è troppo piccola per poter

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/05 medicina personalizzata 44

da sola determinare se una persona sarà o meno obesa. Nonostante questo, recenti studi hanno cercato di mettere insieme tutte le conoscenze genetiche di una particolare patologia per creare un profilo di rischio che tenga conto di numerose varianti genetiche e combinarle con le abitudini di vita. Per esempio è stato recentemente dimostrato che la variante genetica del gene FTO ha un effetto del 40% più debole nelle persone che praticano attività sportiva. In quest’ottica quindi possiamo pensare che in futuro sarà consigliato fortemente alle persone portatrici delle versioni sfavorevoli del gene FTO aumentare la pratica sportiva al fine di mitigare gli effetti negativi di questo gene. Recentemente diversi studi prospettici hanno valutato la possibilità di creare dei profili complessi di rischio individuali che tengano conto sia delle varianti genetiche specifiche sia delle abitudini di vita. Il ruolo del gruppo di ricerca di genetica dell’IRCCS Burlo Garofolo all’interno del progetto Nutriheart è proprio quello di identificare le varianti genetiche che predispongono al rischio cardiovascolare e di utilizzare queste conoscenze per creare dei profili di rischio individuali. Pertanto abbiamo partecipato a numerosi studi internazionali volti all’identificazione delle varianti genetiche che determinano i livelli di vari tratti associati al rischio cardiovascolare quali il profilo lipidico ematico, i livelli di pressione e l’indice di massa corporea. I risultati di queste analisi hanno portato a un importante incremento nelle conoscenze riguardo alla genetica

dei tratti legati alla salute e sono stati pubblicati sulle riviste internazionali più importanti al mondo quali Nature, Nature Genetics e Plos Genetics. Un aspetto importante nel calcolo del rischio individuale è la verifica dell’impatto delle varianti identificate sulle singole popolazioni. Va tenuto conto che i campioni da noi forniti per questo tipo di studi rappresentano una piccola parte del totale e che le varianti genetiche dipendono fortemente nel loro effetto dall’ambiente in cui gli individui si trovano. Pertanto abbiamo verificato quali varianti genetiche avessero un impatto effettivo sulla popolazione Italiana e, più in particolare sugli abitanti del Friuli Venezia Giulia. Questo ci ha permesso di selezionare circa 200 varianti genetiche che hanno un effetto su vari tratti legati allo stato di salute, in particolare: l’indice di massa corporea, i livelli di trigliceridi, i livelli di colesterolo totale HDL e LDL e i livelli di pressione diastolica e sistolica. Sulla base di questi risultati è stato possibile definire un valore numerico per ognuna di queste varianti. Questo valore una volta applicato al profilo genetico dell’individuo permette di dare un punteggio di rischio e pertanto valutare quali pazienti più probabilmente andranno incontro a un evento cardiovascolare e quindi necessitino di particolari attenzioni quali controlli più frequenti o particolari consigli nutrizionali. I punteggi creati sembrerebbero essere efficaci nell’identificare le persone a rischio. In particolare abbiamo verificato se il rischio di essere affetti da ipertensione aumentasse all’aumentare del punteggio legato

alla pressione arteriosa diastolica. Effettivamente abbiamo osservato che le persone con punteggi più alti hanno una probabilità otto volte superiore rispetto alle persone con punteggio più basso di contrarre ipertensione. Questo risultato è particolarmente importante se si pensa che l’ipertensione è dovuta oltre che al profilo genetico, all’esposizione prolungata a comportamenti alimentari e ad abitudini di vita sbagliati quali il fumo. Alla luce di questi dati si potrà suggerire alle persone con punteggio di rischio più elevato di attuare uno stile di vita che permetta loro di evitare di contrarre questa patologia. I risultati ottenuti adesso devono essere confermati su una popolazione più ampia e meno specifica, ma rappresentano un primo importante passo avanti verso l’applicazione nella vita di tutti i giorni di migliaia di pazienti. Possiamo immaginare che in futuro ci verrà consegnata una penna USB contenente il nostro intero codice genetico e che il nostro medico curante ci consiglierà lo stile di vita più adeguato e i comportamenti da attuare per evitare di ammalarci. Ci troveremo di fronte a una rivoluzione nel campo medico in generale, infatti ci si concentrerà più sul mantenimento della salute che sulla cura della malattia. Questo permetterà di vivere più a lungo, ma soprattutto di raggiungere la vecchiaia con maggiore salute e quindi con una qualità della vita molto più elevata. Altro aspetto da non sottovalutare, questo nuovo approccio innovativo ci permetterà di risparmiare notevolmente sulla spesa sanitaria nazionale.


FARMACO GENETICA

02/ Farmaco specifico AA Genotipo AA Effetti avversi

Farmaco specifico AT Genotipo AT Non rispondenti

Pazienti che utilizzano un determinato farmaco

Genotipo TT Rispondenti

MEDICINA PERSONALIZZATA Terapia Malati

Controlli frequenzi Sani ad alto rischio

nessuna indicazione perticolare

Popolazione generale Sani a basso rischio

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I metodi utilizzati per la diagnosi di malattie nell’uomo sono in continua evoluzione e, negli ultimi anni, gli studi DAL LABORATORIO AL PAZIENTE hanno permesso non solo di individuare nuovi patogeni ma anche particolari mutazioni del genoma ...

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dal laboratorio al paziente: Sviluppo di piattaforme diagnostiche nei settori della biologia molecolare e immunologia A cura di ANDREA SACCANI E MARIA GIOVANNA PERROTTA, EUROCLONE

I metodi utilizzati per la diagnosi di malattie nell’uomo sono in continua evoluzione e, negli ultimi anni, gli studi hanno permesso non solo di individuare nuovi patogeni ma anche particolari mutazioni del genoma che possono predisporre l’individuo a specifiche e anche gravi patologie. In tal senso alcuni esempi riguardano la ricerca per la diagnosi sempre più precoce dei tumori o la ricerca sulle malattie neurodegenerative (morbo di Alzheimer in particolare), patologie sempre più diffuse. Il completo sequenziamento del genoma umano ha permesso di studiare nuove sequenze specifiche del DNA e correlarle a determinate patologie. In realtà non è sufficiente conoscere una sequenza, perché molte patologie infatti non sono causate da un unico fattore scatenante, ma sono riconducibili alla multifattorialità di singole cause che da sole non sarebbero in grado di spiegare la malattia. Inoltre ogni individuo è caratterizzato da una sua storia non solo genetica ma anche ambientale che ne determina la suscettibilità non solo allo sviluppo di una patologia ma anche agli effetti di una terapia. Pur essendoci un costante incremento nello sviluppo di test diagnostici, si è evidenziato, in molti casi, il limite di tali test. In particolare si è visto quanto sia difficile ma assolutamente necessario mettere a punto

test che permettano un’analisi multipla, per esempio di più mutazioni nello stesso campione biologico oppure di tutti i possibili fattori scatenanti una data patologia. La nuova frontiera della diagnostica risulta perciò avere test multiparametrici che sostituiscano, con una singola analisi, un numero, a volte molto elevato, di singoli test effettuati con differenti campioni dello stesso soggetto, suscettibili di variabilità ambientale e fisiologica e con metodiche approntate in tempi diversi (variabilità analitica). Il vantaggio dei test multiparametrici è duplice: da un lato consentono una più accurata diagnosi della malattia, dall’altro, attraverso la possibilità di avere risposte multiple in una singola analisi, garantiscono un notevole miglioramento nella gestione dei tempi e delle risorse. Quest’ultimo aspetto ha un forte impatto soprattutto in termini di minimizzazione dei costi di sanità pubblica perché consente indagini mirate più complete e predittive in un’unica soluzione analitica. L’altra frontiera della diagnostica è

la “teranostica”, termine coniato per definire la combinazione delle capacità diagnostiche e terapeutiche. La speranza alla base di queste ricerche è di stabilire uno strettissimo legame tra la diagnosi e la terapia in modo da ottenere protocolli terapeutici più specifici per i singoli pazienti, in grado di offrire con maggiore probabilità una prognosi migliore. La teranostica è un ramo emergente della diagnostica in vitro che offre non solo informazioni diagnostiche ma, in combinazione con bioterapie mirate, consente di predire o di valutare la risposta di un paziente tramite la misurazione di uno o più biomarcatori. Un esempio è l’uso di nanoparticelle che, non solo possono essere usate come agenti di contrasto nella risonanza magnetica nucleare per migliorare l’immagine e consentire così una migliore rivelazione del tumore, ma possono anche essere utilizzate, applicando un debole campo magnetico alternato di opportuna frequenza che crea una certa temperatura, per distruggere le cellule tumorali che sono molto più


sensibili al calore di quelle sane. Altra applicazione di queste particelle è quella di ancorarvi dei medicinali che possono essere rilasciati nel tempo: le particelle individuano la posizione delle cellule tumorali attaccandosi selettivamente ad esse tramite anticorpi, monitorano la variazione di temperatura agendo da termometri locali e rilasciano localmente il farmaco in grado di debellare il tumore. Questi nuovi approcci nello sviluppo di piattaforme diagnostiche sono tappe importanti del percorso che porterà a una medicina sempre più personalizzata, punto di arrivo per una più efficiente risposta non solo al singolo paziente ma soprattutto al sistema sanitario di una nazione. Per una medicina personalizzata il primo approccio è senz’altro quello di fare una “fotografia” del proprio profilo genetico. La citogenetica si occupa dello studio dei geni nei cromosomi delle cellule (o mappa cromosomica o cariotipo). Secondo la citogenetica classica, per studiare i cromosomi è necessario utilizzare tecniche che permettono di osservare le cellule nel momento della divisione cellulare, quando i cromosomi sono visibili. Lo sviluppo di tecniche sofisticate definite di citogenetica molecolare, indispensabile complemento della citogenetica tradizionale, permette invece di eseguire studi più approfonditi in quanto consente la localizzazione di una specifica sequenza di DNA con un maggiore potere di risoluzione: consente infatti di caratterizzare anomalie cromosomiche di numero e di struttura non definibili attraverso le tecniche di citogenetica classica e di identificare riarran-

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giamenti criptici, non visibili neppure dopo bandeggio ad alta risoluzione. La tecnica si basa sulla proprietà del DNA di denaturarsi in modo reversibile con l’apertura della doppia elica e prevede il legame tra un frammento di DNA specifico per la regione di interesse e la sequenza di DNA complementare del preparato: la regione cromosomica di interesse risulta così individuabile. Una delle applicazioni più recenti è in campo oncologico e negli ultimi anni sono state messe a punto sonde di DNA in grado di riconoscere specifiche anomalie. I test possono avere un elevato potere predittivo: ciò significa che vengono identificate anomalie cromosomiche tipiche del tumore prima che ci sia evidenza di malattia all’indagine citoscopica o positività di altri marcatori diagnostici quali le cellule tumorali maligne. C’è la possibilità di fornire informazioni sulla terapia più adeguata per un certo tipo di tumore in un determinato paziente: se per esempio pa-

zienti con un dato tumore risultano positivi a un test per l’amplificazione di un dato gene, si può direttamente associare una terapia con un particolare farmaco. In generale quindi si possono utilizzare farmaci diversi a seconda che nel tumore del paziente si riscontri o meno l’amplificazione di un certo gene. Pertanto la citogenetica molecolare non solo ha valore diagnostico/prognostico ma può risultare fondamentale nella scelta terapeutica basata sul profilo genomico del tumore. L’applicazione della citogenetica molecolare a studi di popolazione permette invece di identificare le possibili correlazioni tra profilo genetico e insorgenza o meno di tumori o di patologie come la sindrome metabolica, sempre più diffusa nella popolazione. Questa sindrome è il simbolo di quadro patologico multifattoriale ad alto rischio cardiovascolare. La sindrome metabolica è spesso correlata allo stile di vita della persona

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(peso eccessivo, vita sedentaria) o a situazioni patologiche preesistenti (obesità, diabete, ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, ecc). Colpisce un’elevata percentuale della popolazione a livello mondiale, principalmente di età avanzata. Gli studi svolti confermano che gli individui colpiti dalla sindrome metabolica, che non cambiano drasticamente il proprio stile di vita, hanno un elevato tasso di mortalità legato a problemi cardiovascolari. Per questo motivo si cerca di sensibilizzare la popolazione nell’adottare uno stile di vita sano fin dall’infanzia, visto che l’obesità (uno dei principali fattori di rischio) è sempre più frequente in bambini dell’età scolare. Attualmente la sindrome è stata definita anche “plurimetabolica” e comprende l’associazione di insulino-resistenza, iperinsulinemia, obesità centrale, intolleranza glucidica o diabete mellito di tipo 2, iperuricemia, dislipidemia e ipertensione arteriosa. Le differenti definizioni della sindrome hanno determinato la rilevazione di una serie di valori di prevalenza nella popolazione variabili: molti studi epidemiologici infatti hanno valutato i vari aspetti della sindrome metabolica prendendoli singolarmente, e solo alcuni di essi l’hanno considerata come un “cluster” di fattori di rischio e, in quanto tale, ne hanno stimato la prevalenza nella popolazione generale. Risulta quindi evidente l’importanza di sistemi che permettano la diagnosi contemporanea di tutti i fattori correlati, ma anche la possibilità di evidenziare in modo precoce eventuali predisposizioni genetiche per lo sviluppo di alcune delle patologie associate. La diagnosi quindi non deve essere

limitata solo a livello di DNA ma è indispensabile lo studio di più proteine contemporaneamente nello stesso soggetto per indicare in maniera più certa la presenza/assenza di patologie specifiche. È stato infatti più volte sottolineato da ricercatori del settore come a volte la presenza di una mutazione nel DNA non comporti necessariamente la produzione di proteine in grado di generare una malattia. Diventa quindi importante procedere anche allo sviluppo di nuovi sistemi diagnostici per la rilevazione di proteine. In questo caso la tecnica d’elezione è quella immunologica. Molti sistemi diagnostici sono basati sul principio della reazione immunochimica antigene-anticorpo che, a seconda dell’affinità della reazione stessa, risulta avere una certa specificità e sensibilità. Questo tipo di test si applica alla ricerca di patologie/ alterazioni in cui uno dei parametri di indagine ai fini diagnostici è una proteina o altra biomolecola (antigene, anticorpo, citochine, ormoni, ecc). Nei test immunochimici, la biomolecola oggetto dell’indagine è riconosciuta direttamente o indirettamente da un anticorpo specifico che a sua volta, essendo associato a un segnale indotto da una reazione enzimatica, è in grado di rivelarne la presenza nel campione biologico. Questa specifica tecnologia viene denominata ELISA (Enzyme Linked ImmunoSorbent Assay) e la generazione più evoluta di questo tipo di test si basa sull’utilizzo di anticorpi monoclonali, cioè anticorpi che interagiscono in modo estremamente specifico con l’antigene bersaglio senza dare reazioni crociate con altre molecole anche se molto simili.

Le tecniche ELISA sfruttano da una parte la capacità degli anticorpi (sia monoclonali che policlonali) di legare in maniera specifica e selettiva l’antigene verso cui sono diretti e dall’altra l’attività catalitica di un enzima specifico che serve per la rilevazione del legame antigene anticorpo utilizzando un opportuno substrato cromogeno. Dal punto di vista generale, vengono divise in due grossi gruppi a seconda del tipo di concentrazione degli anticorpi e degli antigeni (marcati e non) che vengono impiegati nel test: ●● Saggi di tipo AA (Activity Amplification), dove si lavora in largo eccesso rispetto alle componenti critiche del saggio (anticorpi ed antigeni marcati e non); ●● Saggi di tipo AM (Activity Modulation), dove le componenti critiche del saggio (anticorpi ed antigeni marcati e non) vengono precedentemente calibrate in maniera molto precisa. Gli ELISA sono molto diffusi poiché permettono un dosaggio contemporaneo di molti campioni in un periodo di tempo relativamente breve. Essi sono caratterizzati dalla presenza di una fase solida che permette, attraverso una fase di lavaggio, di separare gli immuno-complessi da tutto ciò che non si è legato in maniera specifica. L’ELISA viene quindi usato in diagnostica al fine di rilevare o di quantificare antigeni o anticorpi: a seconda dell’obbiettivo analitico, alla fase solida viene immobilizzato l’antigene o l’anticorpo e la determinazione dell’analita può essere semplicemente di tipo qualitativo o avere finalità quantitative in test di tipo competitivo o non competitivo.


Lo sviluppo dei sistemi diagnostici. I primi test multiparametrici, basati sull’ibridazione del DNA delle cellule da testare con più sonde di DNA, sono stati messi a punto utilizzando superfici speciali su cui far aderire le sequenze specifiche del DNA, ma tali superfici non hanno avuto grande diffusione a causa degli elevati costi. Lo studio di superfici o la modifica chimica delle stesse, al fine di ottenere substrati fisici a costo contenuto, è a tutt’oggi una delle principali aree di ricerca nel settore. Un’altra problematica evidenziata a carico di tali piattaforme per la diagnosi a livello molecolare riguarda il fatto che i sistemi tradizionali di rivelazione del segnale (per esempio immunoenzimatici), usati per individuare le specifiche sequenze ibridizzate, sono inadeguati e che devono essere sviluppati nuovi sistemi di marcatura, utilizzando composti chimici più efficienti e sensibili. Un altro limite di questi test è la possibilità di errori nel risultato finale legati a capacità e sensibilità dei singoli operatori, e il fatto che è necessario lavorare in ambienti confinati per evitare contaminazioni crociate e influenze ambientali che potrebbero inficiare la bontà dei risultati analitici (falsi positivi e/o falsi negativi). Gli approcci diagnostici per lo studio di proteine, in particolar modo di anticorpi e antigeni, sono piuttosto complessi. Alcune problematiche sono comuni allo studio del DNA con ulteriori e specifiche difficoltà: mentre il DNA è costruito da 4 basi identiche in ogni essere vivente che si ripetono a formare i geni ed

i cromosomi, le proteine si presentano con sequenza aminoacidica e struttura quaternaria generalmente differenti. Per questo motivo adsorbire (cioè legare molecole in modo non covalente a un supporto) su una superficie o marcare una proteina implica nuovi approcci di ricerca e diverse problematiche. Per quanto riguarda gli anticorpi: la tecnologia per la produzione di quelli monoclonali è nota e sul mercato sono molte le aziende in grado di fornire un servizio produttivo per questo specifico reagente. Talvolta però la molecola che si vuole rivelare nel saggio biologico non presenta attività antigenica e in questi casi la cavia non è in grado di produrre degli anticorpi verso questa sostanza. Questo problema viene superato dall’industria ricorrendo a uno studio molto delicato che consiste nel creare una molecola ibrida, fatta per una parte dalla molecola che si vuole rivelare nel saggio, e per l’altra parte da una molecola che stimola la risposta immunitaria nella cavia (molecola immunogenica). Lo studio di affinità tra l’anticorpo monoclonale e l’antigene contro il quale è diretto e la sua successiva calibrazione nei test analitici di utilizzo rappresentano la parte selettiva per lo sviluppo di test diagnostici anche in conseguenza della piattaforma su cui tali test vengono sviluppati. Per il dosaggio quantitativo di macromolecole biologiche, il sistema analitico è quello basato sul design a Sandwich, rientrante nei saggi di tipo AA (Activity Amplification). È un saggio definito anche ELISA di tipo diretto non competitivo, in quanto il suo scopo è quello di accertare

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la presenza dell’antigene nel campione analizzato utilizzando un anticorpo specifico adsorbito alla fase solida tramite legami elettrostatici ed interazioni idrofobiche. Il metodo diretto (chiamato anche Sandwich) prevede la copertura del fondo del pozzetto di una piastra microtiter (fase solida) con un anticorpo specifico per l’antigene che si vuole misurare. Durante la prima reazione gli anticorpi specifici vanno a catturare l’antigene contenuto nel campione e negli standard a concentrazione nota implementati nel test e indispensabili per la quantificazione dell’allergene presente nell’alimento. Dopo una prima fase di lavaggio, necessaria per eliminare tutto ciò che non si è legato in maniera specifica, l’avvenuto legame specifico tra gli anticorpi adsorbiti alla fase solida e gli allergeni (complesso anticorpo+antigene) è rilevato utilizzando altri anticorpi specifici antianalita coniugati con la perossidasi di rafano (HRP). Si viene a formare così un triplo strato a “sandwich” da cui prende il nome il test. Dopo una seconda fase di lavaggio, la rilevazione del legame avviene attraverso una reazione enzimatica utilizzando un opportuno substrato cromogeno idoneo per la perossidasi. Lo sviluppo del colore è indicativo della presenza dell’antigene che si voleva saggiare e l’intensità della colorazione, misurabile grazie allo spettrofotometro, è direttamente proporzionale alla concentrazione dell’analita presente negli standard e nel campione. Grazie all’implementazione della curva standard di riferimento caratterizzata da concentrazioni

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note di analita, è possibile risalire alla concentrazione incognita di allergene nell’alimento. A prescindere comunque dal design del saggio che viene impiegato, una parte molto importante dell’analisi risiede nell’utilizzo di una procedura di preparazione del campione che permette di analizzare l’analita nella sua matrice. È molto importante che la matrice non determini quelle interferenze che renderebbero l’analisi ELISA inutilizzabile. Una delle conseguenze più importanti è il rischio di campioni falsi negativi. Un’altra tipologia di test basati su tecniche immunologiche sono i test rapidi su striscia. Questi essenzialmente si basano sul riconoscimento specifico degli anticorpi nei confronti dell’antigene verso cui sono stati sensibilizzati. I test di tipo immunodiagnostico sono configurati secondo due principi: il one step lateral flow - LF - (immunocromatrografia) e il multiple step flowthrought (immunoconcentrazione). Il primo, lateral flow (LF), è definito semplicemente anche strip test e deriva, come naturale evoluzione tecnologica, dai test di agglutinazione con latex messi a punto da Singer e Plotz nel 1956 . I vantaggi di questo tipo di piattaforma tecnologica sono: ●● Semplicità d’uso; ●● Rapidità d’esecuzione; ●● Conservabilità in varie condizioni climatiche; ●● Relativamente bassi costi di produzione.

quelli da campo per il monitoraggio della presenza di vari contaminanti ambientali. Attualmente esistono numerosi test di questo tipo sul mercato della diagnostica umana ma anche di quella agro-alimentare; tra tutti ricordiamo per la sua immensa diffusione il test di umano gravidanza basato sul dosaggio dell’ hCG. In sintesi, qualsiasi ligando che può essere legato a un supporto solido adatto ad essere visibilmente monitorato (tipo particelle di oro colloidale o microsfere colorate di latex) può essere rilevato in un saggio LFIA in modo da determinarne la sua presenza in modo qualitativo o anche semi-quantitativo. Nei LF trovano applicazione essenzialmente due tipi di design; il tipo non-competitivo o diretto e quello competitivo. Il doppio anticorpo formato sandwich trova impiego nel monitoraggio della presenza di analiti caratterizzati dalla presenza di più determinanti antigenici, come nel caso dell’hCG dove il design è di tipo diretto. In questo caso non vengono utilizzate quantità di campione in eccesso in modo che una parte degli anticorpi coniugati venga catturata dalla seconda linea di immobilizzazione (control line). Il modello competitivo trova invece applicazione nel monitoraggio di piccole molecole, caratterizzate dalla presenza di un unico determinante antigenico che, per definizione, non possono essere legate contemporaneamente da due anticorpi. Date le sue caratteristiche, questo La test line in questo caso, è data tipo di test trova applicazione nel da una quantità di analita nota che campo dei test di auto-diagnosi e in compete con l’analita libero per gli

stessi siti dell’anticorpo marcato. In questo caso è critica la quantità di anticorpo coniugato rispetto alla quantità di antigene libero nel campione. Se il campione non è fortemente positivo gli anticorpi coniugati si legano alla test line dando un risultato ambiguo. Come rappresentato schematicamente precedentemente, ci sono una serie di reagenti e di materiali critici nella messa a punto del test: ●● Anticorpi specifici per la test line e la control line (nel caso del test competitivo serve anche l’analita coniugato) che devono essere validati in ELISA; ●● Anticorpi coniugati; ●● Sample pad; ●● Conjugate pad; ●● Membrane con o senza backing con o senza bloking; il processo di bloccaggio aiuta a prevenire il binding aspecifico da parte del coniugato ma aiuta anche a stabilizzare il flusso durante il test e a migliorare la stabilità delle line; ●● Absorbent pad; ●● Eventuale plastic housing. Accanto al reperimento dei reagenti specifici e ai materiali idonei c’è una fase di messa a punto delle seguenti procedure. ●● Preparazione del campione in relazione al sample pad; ●● Preparazione del sample pad; ●● Preparazione del conjugate pad in relazione al rilascio del coniugato stesso durante il test; ●● Preparazione del test line e della control line sulla membrana analitica; ●● Preparazione dell’absorbent pad. Di seguito vengono elencate le criti-


cità del processo di messa a punto: ●● Scelta e messa a punto del pretrattamento del sample pad; ●● Processo di coniugazione e suo relativo studio del rilascio dal conjugate pad; ●● Selezione della membrana analitica e messa a punto del bloking; ●● Dispensazione della test line e della control line; ●● Gestione e controllo del processo di essiccazione dei materiali.

membrana che trattiene il liquido. Il test è in grado di monitorare la presenza di anticorpi o di antigeni che vengono, a seconda dei casi, immobilizzati sulla membrana analitica sotto forma di spot o di line. In questo caso, il test avviene per successivi step e relativi lavaggi: ●● caricamento del campione; ●● lavaggio; ●● addizionamento del coniugato; ●● lavaggio; ●● addizionamento del substrato Scendendo più nel dettaglio tecnicromogeno. co del processo di produzione del LF, sono previste una serie di fasi Dal punto di vista dell’esecuzione del (dispensazioni ed essiccazioni) che test, l’analista si trova a dover esevengono elencate di seguito: guire una serie di passaggi e quindi ●● Pre-trattamento del sample pad lo svolgimento del saggio richiede e sua essiccazione; più lavoro da parte dell’operatore. ●● Preparazione delle conjugate Dal punto di vista dello sviluppo del particle; test e della sua successiva produ●● Pre-trattamento del conjugate zione, il multiple step flow-throught pad e sua essiccazione; è più semplice perché richiede la ●● Strip delle conjugate particle sul scelta e la preparazione di un’unica conjugate pad e sua essiccazio- membrana filtrante, prevede però la fornitura di una serie di soluzioni ne. ●● Strip sulla membrane analitica necessarie allo svolgimento del test. del capture antibodies (o dell’analita coniugato nel test compe- Conclusioni titivo) e del control antibodies e Nella messa a punto di un saggio sua essiccazione; ●● Blocking (se ecessario) della diagnostico multiparametrico l’atmembrana e sua essiccazione; tività della ricerca e sviluppo deve ●● Assemblaggio delle componenti essere focalizzata sulla modifica in card ed eventuale backing; di superfici e sulla realizzazione di ●● Cut card in strip; nuovi anticorpi in modo da realizza●● Eventuale assemblaggio delle re reagenti e kit che permettano di strip nel plastic housing. effettuare analisi diagnostiche multiparametriche mediante l’uso di anIl multiple step flow-throught invece ticorpi monoclonali su una piattaforsi basa sulla filtrazione del cam- ma di protein array. I singoli kit sono pione attraverso una membrana condizionati dalla qualità degli antiporosa verso un absorbent pad, il di- corpi utilizzati e, in particolar modo spositivo si completa con una sub- dalla loro affinità e avidità. Inoltre

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la capacità di legare il tracciante in maniera stabile rappresenta un aspetto critico della ricerca. Infine per realizzare un saggio diagnostico dapprima si lavora in soluzioni tampone, dove è presente solo l’analita da investigare, e successivamente si valuta il saggio in presenza della matrice. Spesso l’interferenza della matrice o la crossreattività dell’anticorpo verso molecole simili a quella investigata, possono essere superati unicamente ripartendo dall’identificazione dell’anticorpo, facendo tornare il processo di sviluppo nella fase di fattibilità analitica dove vengono testate materie prime differenti. Durante la realizzazione del saggio sarà fondamentale avere a disposizione dei campioni reali qualificati. In questo modo potremo verificare il saggio sapendo che risultato dobbiamo ottenere, al fine di confermare la sensibilità e la specificità imposte in fase di progettazione. Normalmente lo sviluppo di un saggio diagnostico richiede dai 12 ai 18 mesi e durante questo tempo vengono svolte anche tutte le prove per verificare per quanto tempo il saggio realizzato dà un risultato attendibile: quando passeremo il saggio in produzione dovremo saper dire alla produzione che scadenza dare ai test prodotti e se sono presenti reagenti critici. Tipicamente quando i tempi di vita sono troppo brevi, si ricorre a una conservazione a temperatura più bassa. Questa non può tuttavia essere considerata una regola generale poiché vi sono alcune soluzioni che sono stabili a temperatura ambiente e che si “rovinano” se vengono congelate!

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Due milioni di euro di budget, una durata di quasi quattro anni NUTRIHEART - ATTIVITĂ E RISULTATI e dieci partner coinvolti durata di quasi quattro anni e dieci partner coinvolt

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Due milioni di euro di budget, una

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nutriheart: attività e risultati Il ruolo dei Parchi Scientifici e Tecnologici nel progetto Nutriheart A cura di Tommaso Bernardini e Francesca Pozzar (Friuli Innovazione), Marcello Guaiana (AREA Science Park) e Marco Olivotto (Polo Tecnologico di Pordenone)

Il progetto Nutriheart è stato concepito e realizzato grazie all’azione sinergica tra l’eccellenza della ricerca pubblica della regione Friuli Venezia Giulia e le notevoli potenzialità provenienti dalla ricerca industriale e dallo sviluppo sperimentale svolto dalle imprese del territorio. Due milioni di euro di budget, una durata di quasi quattro anni e dieci partner coinvolti, tra piccole e medie imprese, una grande impresa, un ente di ricerca, un’università, un ospedale, tre Parchi Scientifici e Tecnologici. Nella cornice di un progetto così complesso e ambizioso – il cui proposito è stato quello di identificare i fattori genetici, molecolari e ambientali di rischio per le malattie cardiovascolari e di sviluppare nuovi prodotti e servizi, come cibi funzionali, diete personalizzate, integratori, nutraceutici e kit per la diagnosi precoce – i tre Parchi regionali coinvolti hanno apportato il loro contributo tanto nella fase di stesura del progetto che nel percorso di attuazione. In Italia i Parchi Scientifici e Tecnologici rappresentano, a parte poche eccezioni, delle realtà relativamente nuove rispetto ad altri Paesi europei. Questo ritardo è dovuto sia a una ridotta attenzione al tema della ricerca e dell’innovazione, sia alla tradizionale “distanza” esistente tra il mondo della ricerca e quello dell’impresa. Negli ultimi 20 anni la situazione è

notevolmente mutata e i Parchi sono diventati sempre di più una componente fondamentale nella filiera dell’innovazione. Essi ricoprono, infatti, diverse funzioni, contribuendo in particolare al trasferimento di conoscenze e competenze innovative, alla valorizzazione del potenziale di ricerca, al sostegno nella nascita e nello sviluppo di start up e spin off, alla promozione di realtà imprenditoriali innovative, alla collaborazione internazionale. In molti casi, inoltre, i Parchi rappresentano un importante esempio di efficace collaborazione pubblico-privata sia in termini di governance, che di rapporti instaurati sul territorio, elemento sempre più considerato, a livello europeo, come fondamentale per lo sviluppo economico e competitivo. L’importanza dei Parchi è testimoniata dai significativi risultati ottenuti negli ultimi anni in termini di crescita del numero di addetti occupati, di aumento del fatturato delle imprese insediate, di intensificazione delle collaborazioni con enti e istituzioni estere.

In questo contesto, anche la Regione Friuli Venezia Giulia, all’interno della Legge regionale 10 novembre 2005, n. 26 - Disciplina generale in materia di innovazione, ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, ha ritenuto opportuno sostenere le attività dei Parchi Scientifici e Tecnologici con un canale dedicato, l’Art. 21 - Promozione dell’attività degli enti e dei centri di ricerca e trasferimento tecnologico. Tale misura va a sostenere diverse tipologie di iniziative: progetti di rilevante impatto sistemico a livello regionale riguardanti l’innovazione, la ricerca, il trasferimento tecnologico e l’attività di sviluppo precompetitiva, in cui sia prevista la collaborazione con imprese, enti pubblici, associazioni di categoria e organismi di ricerca; la costituzione e lo sviluppo di laboratori misti di ricerca; programmi finalizzati alla promozione, al supporto e all’avvio di nuove imprese ad alto contenuto di conoscenza. Nel progetto Nutriheart i tre Parchi regionali coinvolti - AREA Science Park, Friuli Innovazione e il Polo tec-


nologico di Pordenone - hanno svolto appieno quel ruolo di coesione e facilitazione dei processi innovativi, così come previsto dallo stesso Bando per la realizzazione di progetti di ricerca industriale nel settore biomedicina molecolare del POR FESR 200713 della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, a valere sul quale il progetto è stato finanziato nel 2010. Il bando ha avuto un’impostazione innovativa, in quanto per la prima volta si richiedeva in modo sistemico la costituzione di partnership composite, dove trovassero un ruolo imprese di diverse dimensioni, sia grandi che piccole, enti di ricerca, università e Parchi Scientifici. Nutriheart si colloca infatti nella categoria delle iniziative di ricerca industriale, attività che prevede il passaggio di know-how teorico nei processi produttivi. La Regione Friuli Venezia Giulia, attraverso i bandi POR FESR 2007-2013 del 2010 ha creato le condizioni affinché questo processo coinvolgesse in modo strutturato tutti gli attori deputati, definendo in modo concreto e univoco il ruolo dei Parchi Scientifici che, a differenza delle università, non sono enti preposti in modo prioritario alla creazione di know-how ma al suo trasferimento nei processi produttivi e a favore del territorio. Questa nuova impostazione dei bandi è stata suggerita alla Regione dagli stessi Parchi affinché venga privilegiata e premiata la collaborazione tra il mondo accademico e quello imprenditoriale, nonché tra imprese di dimensioni diverse, permettendo anche a quelle piccole, che pur dispongono di competenze di alto livello, di inserirsi in filiere di innovazione importanti e dove i Parchi

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Scientifici svolgono un ruolo di coordinamento e di supporto in modo sinergico. Ulteriore valore aggiunto apportato dai Parchi è stata la puntuale attività di disseminazione e divulgazione sul territorio regionale e nazionale dei risultati scientifici del progetto Nutriheart, con l’obiettivo di migliorare l’educazione alimentare e di costruire solide basi per il disegno di nuove strategie terapeutiche.

Dall’alto verso il basso: il campus di AREA Science Park, il Polo tecnologico di Pordenone e quello di Friuli Innovazione

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I PARTNER DEL PROGETTO NUTRIHEART

Nutrigene srl

Centro di Biomedicina Molecolare

Nutrigene srl è il coordinatore del progetto Nutriheart. Nutrigene è uno spin-off accademico dell’Università di Udine che nasce da studi e ricerche nell’area della genomica funzionale e delle biotecnologie, con l’obiettivo di trasferire al sistema produttivo le nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico nell’ambito della nutrigenomica. Nutrigene applica il paradigma della Nutrigenomica che prevede l’integrazione dello studio della genetica con la nutrizione mediante la comprensione delle interazioni fra i nutrienti e i geni che controllano la risposta biologica degli organismi. L’obiettivo di Nutrigene è di applicare i risultati della ricerca scientifica alle esigenze alimentari e nutrizionali dell’uomo e degli animali da compagnia e da reddito, per migliorare la qualità della loro vita.

Il Centro di Biomedicina Molecolare - CBM - è una società consortile pubblico-privata, dedicata alla ricerca e alla formazione avanzata nell’ambito delle biotecnologie applicate alla medicina. Coordina il Distretto Tecnologico di Biomedicina Molecolare del Friuli Venezia Giulia, costituito nel 2004 tra- mite un Accordo di Programma sottoscritto e finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. Con sede a Trieste presso AREA Science Park, e con laboratori operativi nei principali poli scientifici della regione, CBM mette in rete enti scientifici, aziende, istituzioni di governo, agenzie di sviluppo e finanziarie, al fine di stimolare e accelerare quel processo che trasforma un’ “idea scientifica” in “prodotto” (farmaco, nuova terapia, nuovo sistema diagnostico), per lo sviluppo economico e sociale del territorio e a chiaro beneficio del cittadino e della società. La strategia vincente di CBM passa attraverso il collegamento sinergico di ricerca, formazione e trasferimento tecnologico, coinvolgendocon una serie di azioni e servizi imprenditori, ricercatori e studenti. Il CBM promuove attività di ricerca e sviluppo volte alla comprensione dei meccanismi molecolari alla base delle malattie, all’individuazione di tecniche di diagnosi precoce e allo sviluppo di terapie mirate e meno invasive. L’attività di CBM e del Distretto si incentra sul settore delle biotecnologie applicate alla medicina. I settori strategici sono genomica, farmacogenomica, bio-nanotecnologie, imaging molecolare e bioinformatica.

http://www.nutrigenefood.eu

http://www.cbm.fvg.it

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Euroclone spa

illycaffè spa

EuroClone SpA dagli anni ‘90 propone in Italia ed Europa prodotti, servizi e soluzioni innovative nel settore della ricerca e della diagnostica di laboratorio, sia in campo umano che veterinario ed agro-alimentare. I prodotti EuroClone possiedono tutti i requisiti di alta qualità necessari per essere utilizzati nella diagnostica in quanto la metodologia produttiva si basa sulla applicazione delle norme di buona fabbricazione (EU-GMP di classe A, B, C e D) e su prove e documenti derivati dalle ISO 9000 e sul marchio CE di prodotto. EuroClone per rispondere costantemente alle richieste di innovazione del mercato diagnostico investe risorse considerevoli ogni anno in Ricerca e Sviluppo, ottenendo finanziamenti soprattutto per la parte di standardizzazione e industrializzazione, in modo da assicurare che esecuzione e monitoraggio del progetto rispondano agli standard di qualità internazionali. Possiede alcuni siti dedicati alla R&D attualmente presenti nelle sedi di Siziano (Pavia), AREA Science Park (Basovizza –Trieste) e MBC (Molecular Biotechnology Center, Torino). Gli ambiti di interesse di EuroClone sono principalmente tre: Biotecnologie (biologia molecolare e cellulare, proteomica, genomica, biomedicina molecolare), Diagnostica Molecolare (umana, agro-alimentare e veterinaria nei settori specifici della citogenetica, oncologia, gastroenterologia, malattie cardiovascolari, controllo alimentare e veterinario, fitopatologia) e Strumentazione Medicale (chirurgia generale, ginecologia, neurochirurgia, laparoscopia, otorinolaringoiatria).

illycaffè è un’azienda specializzata nella produzione di caffè, con sede e stabilimento di produzione a Trieste, fondata nel 1933. L’azienda ha sempre puntato all’eccellenza, facendo della ricerca e dell’innovazione i suoi punti di forza e seguendo tutto l’iter del prodotto, dalla coltivazione alla preparazione nei bar. illycaffè produce un’unica miscela di caffè 100% Arabica, confezionata in barattoli pressurizzati con gas inerte per una miglior conservazione dell’aroma. Più della metà della produzione è destinata all’esportazione in più di 140 paesi tutto il mondo. illycaffè svolge attivamente ricerca scientifica nei suoi laboratori dedicati (due dei quali insediati in AREA Science Park – Trieste) all’approfondendo di temi legati a genetica, agronomia, botanica, fisica, matematica, chimica, biochimica, biologia, ingegneria, fisiologia e psicologia. Ha fondato l’Università del Caffè per promuovere e diffondere in Italia e nel mondo la cultura del caffè di qualità.

I PARTNER DEL PROGETTO NUTRIHEART

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http://www.illy.com

http://www.euroclonegroup.it

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I PARTNER DEL PROGETTO NUTRIHEART

g&life spa

Università degli Studi di Trieste

g&life è un’azienda all’avanguardia nel settore della nutrigenetica, la genetica applicata alla nutrizione, che opera all’interno dell’AREA Science Park di Trieste, il primo Parco Scientifico italiano e il principale polo dell’innovazione e della ricerca nel nostro paese. Costituita da un Team Multidisciplinare di Genetisti, Biologi, Nutrizionisti altamente qualificati, g&life investe ogni risorsa umana, scientifica e tecnologica per sviluppare un nuovo “modello di benessere individuale”. g&life nasce infatti con l’obiettivo di proporre strategie comportamentali e nutrizionali “calibrate” sulle caratteristiche specifiche di ogni individuo, profilo genetico, gusto, alimentazione e attitudini personali, per raggiungere e mantenere il benessere in modo corretto ed efficace. Nel 2009 g&life ha ottenuto un importante riconoscimento internazionale, essendo stata l’unica realtà italiana selezionata tra le 25 finaliste del “Global Entrepreneurship Competition” di Barcellona, prestigiosa competizione che premia i progetti più innovativi a livello mondiale.

Dipartimento Clinico di Scienze Mediche, Chirurgiche e della Salute, con l’Unità Clinica Operativa di Clinica Medica Generale e Terapia Medica

www.glifecompany.com

Il Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche e della Salute (DSMCS) è nato il 1.5.2011 dall’aggregazione di numerosi membri appartenenti al Dipartimento di Scienza della Riproduzione, Dipartimento di Scienze Mediche, Tecnologiche e Traslazionali, Dipartimento di Anestesia, Chirurgia anatomia patologica, dermatologia, epatologia e scienze molecolari (ACADEM) e Dipartimento di Biomedicina. A partire dal 1.11.2012 il DSMCS ha acquisito anche le funzioni della ex Facoltà di Medicina e Chirurgia. Il DSMCS svolge le funzioni relative alla ricerca scientifica e alle attività formative ed assistenziali in diversi ambiti medico-scientifici, promuovendo linee di ricerca fortemente collaboranti e interagenti nel settore della ricerca di base, sia in ambito clinico, sia negli aspetti di fisiopatologia e terapia con forte orientamento alla ricerca di tipo traslazionale. Allo stato attuale, al DSMCS afferiscono 16 Unità Clinico Operative. Il DSMCS articola le proprie attività su 3 Poli: Ospedale di Cattinara, Ospedale Maggiore (col polo didattico e la Sezione di Anatomia Umana Normale di Via Manzoni e dell’ITIS), IRCCS Burlo Garofolo. Al 1.1.2014 al DSMCS afferiscono complessivamente 13 professori ordinari, 33 professori associati e 49 ricercatori nonché 54 personale tecnico amministrativo. http://dsm.units.it

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IRCCS Burlo Garofolo

AREA Science Park

L’Ospedale Infantile “Burlo Garofolo” di Trieste è stato fondato nel1865 e alla fine degli anni Sessanta è stato riconosciuto quale Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS). Il Burlo Garofolo è un ospedale per la salute materno-infantile ed è un centro di riferimento pediatrico per tutta Italia. Ha contribuito alla diffusione della cultura “Mother Child Health”, promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e fondata essenzialmente sulla promozione e il sostegno della famiglia. L’Istituto effettua anche ricerca scientifica biomedica in diversi campi, legati alla salute materno-infantile. I settori in cui opera sono la neonatologia, le malattie geneticamente trasmesse e le malattie croniche e tumorali con esordio in età pediatrica, la chirurgia pediatrica generale e specialistica, l’anestesiologia pediatrica, le neuroscienze dell’età evolutiva, la ginecologia, l’epidemiologia dei fattori ambientali, infettivi e degli stili di vita rilevanti per la salute di madri, bambini, adolescenti. I ricercatori del Burlo Garofolo contribuiscono attivamente anche alla diffusione e alla comunicazione, collaborando all’organizzazione di eventi scientifici e di aggiornamento per operatori del settore materno-infantile sia in campo nazionale che internazionale.

AREA Science Park è un parco scientifico e tecnologico multisettoriale, in cui operano 86 tra aziende ed istituti pubblici e privati attivi nell’ambito della ricerca e dell’innovazione, con un fatturato complessivo di circa 180 milioni di euro. Il Parco è stato istituito nel 1978. Attualmente vi operano circa 2.300 persone. Campi di attività: Scienze della vita; Fisica, Materiali e Nanotecnologie; Informatica, Elettronica e Telecomunicazioni; Energia e Ambiente; Sevizi qualificati. Il Parco Scientifico e Tecnologico è gestito dal Consorzio per l’AREA di Ricerca (Ente nazionale di ricerca) che ha sviluppato competenze nell’ambito del trasferimento tecnologico, della gestione della formazione imprenditoriale e dello sviluppo di reti per la collaborazione fra scienza e industria a livello nazionale ed internazionale. Il Consorzio è anche responsabile del Coordinamento che comprende gli Enti di ricerca e le Università con sede in Friuli Venezia Giulia. Il Trasferimento Tecnologico alle imprese è il filone di attività che connota AREA, anche a livello internazionale, con una strategia di intervento volta a favorire innovazione e competitività nelle imprese, a creare start-up e a formare personale e competenze in grado di stabilire un legame tra mondo della ricerca e realtà produttive. In Friuli Venezia Giulia AREA da oltre dieci anni ha avviato un programma di sostegno all’introduzione di nuove tecnologie e competenze organizzative. In questo periodo sono stati realizzati circa 2.000 interventi di innovazione nelle PMI, con in termini di innovazioni di prodotto e di processo, di nuovi brevetti e nuove collaborazioni tecnologiche avviate. L’incubazione d’impresa e l’avvio di nuove start-up è un altro filone di primo piano. Nel tempo sono state una quarantina le nuove imprese nate nel parco scientifico, di cui circa 30 attualmente insediate. In particolare, è stato avviato il programma Innovation Factory, naturale prosecuzione delle numerose esperienze maturate da AREA Science Park nelle attività di assistenza alla creazione di imprese innovative.

http://www.burlo.trieste.it

I PARTNER DEL PROGETTO NUTRIHEART

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http://www.area.trieste.it

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I PARTNER DEL PROGETTO NUTRIHEART

Friuli Innovazione

Polo Tecnologico di Pordenone

Friuli Innovazione nasce nel 1999 su iniziativa dell’Università di Udine, dell’Associazione degli Industriali della Provincia di Udine, del Centro Ricerche Fiat, di Agemont, dell’Unione degli Industriali di Pordenone e della Fondazione CRUP, con l’obiettivo di favorire la collaborazione tra l’Università e il sistema economico friulano. Il compito di Friuli Innovazione è quello di favorire la collaborazione tra ricercatori e imprese e l’impiego industriale dei risultati scientifici e tecnologici prodotti dalla ricerca. Il parco assiste giovani imprenditori, imprese e ricercatori nello sviluppo di idee di business, innovative e ad alto contenuto tecnologico, attraverso la ricerca di partner e finanziamenti, l’avvio di nuove imprese, l’incubazione e l’insediamento al Parco Scientifico e Tecnologico Luigi Danieli di Udine. Oggi i servizi forniti sono orientati verso alcuni dei principali settori strategici per l’economia e il sistema della ricerca regionale (extended - ICT, Metallurgia e Tecnologia delle Superfici e dei Materiali Avanzati, Energia e Ambiente, Biotecnologie, Legno) ma guardano anche all’estero, sempre di più, attraverso la partecipazione a progetti europei e altre iniziative che favoriscono l’internazionalizzazione delle imprese e del talento friulano.

Il Polo Tecnologico di Pordenone ha come missione supportare lo sviluppo delle imprese del territorio nelle loro esigenze di innovazione e sta cercando di esprimere un ruolo forte nell’ambito delle attività di supporto alle imprese. Il Polo affianca le imprese che intendono fare dell’innovazione il motore del proprio business e si pone come punto di riferimento per il supporto all’adozione dell’innovazione, in particolare nelle Piccole e Medie Imprese. È in questo quadro che si colloca la collaborazione con gli altri Parchi Scientifici e Tecnologici regionali per condividere ed integrare risorse e competenze a vantaggio del sistema imprenditoriale. Il Polo Tecnologico di Pordenone ha una serie di servizi e strumenti a favore dei propri insediati e delle imprese del territorio, per: migliorare la competitività territoriale; facilitare le iniziative multidisciplinari e di aggregazione delle competenze; assistere le imprese nella ricerca di nuovi materiali e nella loro applicazione nei prodotti e nei processi aziendali; valorizzare le attività di ricerca e sviluppo; supportare le strategie, grazie alle informazioni brevettuali, documentali e a strumenti di business intelligence; assistere le imprese nella ricerca di finanziamenti e la partecipazione a progetti di ricerca regionali, nazionali ed europei.

http://www.friulinnovazione.it

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http://www.polo.pn.it


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Finito di stampare nel Giugno 2014

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Progetto cofinanziato con il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale dl Programma Operativo Regionale del Friuli Venezia Giulia - Obiettivo “Competitività Regionale e occupazione” programmazione 2007/2013 “Investiamo sul nostro futuro”

&life C O M P A N Y!

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE


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