PAUL AUSTER Trilogia di New York CittĂ di vetro - Fantasmi - La stanza chiusa Traduzione di Massimo Bocchiola Einaudi
Titoli originali The New York Trilogy: City of Glass, Ghosts, The Locked Room © 1985 Paul Auster (City of Glass) e 1986 (Ghosts e The Locked Room) This book was first published in English by Sun & Moon Press, Los Angeles. © 1996 e 1998 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Prima edizione «Supercoralli» 1996 www.einaudi.it ISBN 978-88-06-17388-3
Dello stesso autore nel catalogo Einaudi Smoke & Blue in the Face Mr Vertigo Moon Palace Sbarcare il lunario L’invenzione della solitudine Esperimento di verità Ho pensato che mio padre fosse Dio L’arte della fame Nel paese delle ultime cose Il libro delle illusioni Timbuctú Leviatano Lulu on the bridge
Trilogia di New York
CittĂ di vetro
1. Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all’apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso. Ma questo fu molto tempo dopo. All’inizio, non c’erano che il fatto e le sue conseguenze. La questione non è se si sarebbero potuti sviluppare altrimenti o se invece tutto fosse già stabilito a partire dalla prima parola detta dallo sconosciuto. La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo. In quanto a Quinn, non serve dilungarsi su di lui. Chi fosse, da dove venisse e cosa facesse non ha molta importanza. Sappiamo, per esempio, che aveva trentacinque anni. Sappiamo che un tempo era stato sposato, che era stato padre, e che ora la moglie e il figlio erano morti. Sappiamo anche che scriveva dei libri. Per essere esatti, scriveva romanzi gialli. Questi romanzi li firmava con il nome di William Wilson e li produceva al ritmo di circa uno all’anno; il che gli garantiva abbastanza denaro per vivere modestamente in un piccolo appartamento di New York. Dato che a un romanzo non dedicava mai più di cinque o sei mesi, per il resto dell’anno era libero di fare quello che voleva. Leggeva molti libri, visitava le gallerie d’arte e i musei, andava al cinema. In estate guardava il baseball alla televisione; d’inverno andava all’opera: ma la cosa che in assoluto preferiva era camminare. Quasi ogni giorno, che facesse bello o brutto, caldo o freddo, lasciava l’appartamento e girava per la città – mai con un’autentica meta, andando semplicemente dove lo portavano le gambe. New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più
di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore. Il mondo era fuori di lui, gli stava intorno e davanti, e la velocità del suo continuo cambiamento gli rendeva impossibile soffermarsi troppo su qualunque cosa. Il movimento era intrinseco all’atto di porre un piede davanti all’altro concedendosi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più. In passato Quinn era stato più ambizioso. Nella prima giovinezza aveva pubblicato alcuni libri di poesie e scritto drammi e saggi critici, nonché lavorato a una quantità di ponderose traduzioni. Poi, di colpo, aveva piantato tutto. Una parte di lui era morta, spiegava agli amici, e non voleva che tornasse a tormentarlo. Era stato allora che aveva scelto il nome di William Wilson. Quinn non era più la parte di sé capace di scrivere libri, e anche se sotto molti aspetti continuava a esistere, Quinn esisteva solo per se stesso. Aveva continuato a scrivere perché sentiva che non avrebbe potuto fare altro. I romanzi gialli gli erano parsi una soluzione ragionevole. Non faceva troppa fatica a inventare i complicati intrecci richiesti dal genere, e poi scriveva bene, spesso suo malgrado: sembrava non costargli alcuno sforzo. Non considerandosi l’autore di quello che scriveva non se ne sentiva responsabile, e perciò non doveva difenderlo di fronte a se stesso. Dopo tutto William Wilson era un’invenzione e pur essendo nato da Quinn ora aveva una vita indipendente. Quinn lo trattava con deferenza, a volte persino con ammirazione, ma non arrivò mai a credere che lui e William Wilson fossero lo stesso uomo. Per tale ragione non gettò mai la maschera dello pseudonimo. Aveva un agente, ma non si erano mai visti. Intrattenevano solo rapporti epistolari, e a questo scopo Quinn aveva affittato una cassetta all’ufficio postale. Nessun contatto diretto neanche con l’editore, che gli pagava anticipi, forfait e diritti attraverso l’agente. Nessun libro di William Wilson conteneva mai foto o note biografiche dell’autore. William Wilson non compariva negli annuari degli scrittori, non rilasciava interviste, ed era la segretaria del suo agente a rispondere a tutte le lettere che riceveva. Quinn era sicuro che nessuno conoscesse il suo segreto. In principio, saputo che aveva smesso di scrivere, gli amici gli avevano chiesto come sarebbe vissuto.
Aveva risposto a tutti la stessa cosa: che aveva ereditato dalla moglie un fondo fiduciario. Ma in realtà la moglie non aveva mai avuto un soldo. E in realtà lui ormai non aveva più amici. Erano passati più di cinque anni. Non pensava più troppo spesso al figlio, e solo ultimamente aveva staccato dalla parete la foto della moglie. Di tanto in tanto all’improvviso riprovava la sensazione di tenere fra le braccia un bambino di tre anni, ma non era esattamente un pensiero, e nemmeno un ricordo. Era una sensazione fisica, l’impronta lasciata sul suo corpo dal passato, qualcosa che non poteva controllare. Adesso quei momenti capitavano più raramente, sembrava che per lui le cose in buona parte avessero cominciato a cambiare. Non desiderava più essere morto. Del resto, non si poteva dire che fosse contento di vivere. Ma almeno non se ne rammaricava. Era vivo, e la caparbietà di questo dato piano piano prendeva ad affascinarlo… come se fosse riuscito a sopravviversi, e in qualche modo vivesse una vita postuma. Non dormiva più con la luce accesa, e da molti mesi aveva smesso di ricordare i suoi sogni. Era notte. Sdraiato sul letto, Quinn fumava una sigaretta e ascoltava la pioggia battere alla finestra. Si domandava quando sarebbe cessata, e se il mattino dopo avrebbe avuto voglia di una camminata lunga o breve. Una copia del Milione di Marco Polo era rovesciata con le pagine aperte sul cuscino accanto a lui. Erano due settimane che poltriva, da quando aveva finito l’ultimo romanzo di William Wilson. Il narratore, il poliziotto privato Max Work, aveva risolto un’elaborata sequela di delitti, scampando a un subisso di pestaggi e fughe per il rotto della cuffia, e in un certo senso Quinn si sentiva stremato dalle sue imprese. Con gli anni, Work era diventato assai intimo di Quinn. Mentre William Wilson era rimasto una figura astratta, Work aveva preso lentamente vita. Nella triade di io che Quinn era diventato, Wilson fungeva da ventriloquo, Quinn stesso era il pupazzo, e Work la voce animata che garantiva uno scopo all’impresa. Pur essendo un’illusione, Wilson giustificava l’esistenza degli altri due. Sebbene immaginario, Wilson era il ponte che consentiva a Quinn il transito da se stesso in Work. E a poco a poco, Work era diventato una presenza nella vita di Quinn, il suo fratello interiore, il compagno di solitudine. Quinn prese il Marco Polo e ricominciò a leggere la prima pagina. «E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide.
Ma ancora v’à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e ll’altre per udita, acciò che il nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna». Proprio mentre Quinn cominciava a meditare sul significato di queste frasi, rivolgendone nella mente i chiari impegni, squillò il telefono. Molto tempo dopo, quando fu in grado di ricostruire gli avvenimenti di quella notte, si sarebbe ricordato di aver guardato l’orologio vedendo che erano le dodici passate e chiedendosi come mai qualcuno lo chiamava a quell’ora. Con ogni probabilità, pensò, sarà una brutta notizia. Scese dal letto, camminò nudo fino all’apparecchio e alzò il ricevitore mentre squillava per la seconda volta. – Sì? All’altro capo ci fu una lunga pausa, e per un momento Quinn pensò che avessero riattaccato. Poi, come da una grande lontananza, giunse il suono di una voce diversa da tutte quelle che aveva sentito fino allora. Era insieme meccanica e colma di emozione, poco più che un sussurro ma perfettamente udibile, eppure di una tonalità impossibile da attribuire con certezza a un uomo o a una donna. – Pronto? – disse la voce. – Chi parla? – domandò Quinn. – Pronto? – ripeté la voce. – Io la sento, – disse Quinn. – Chi è? – Parlo con Paul Auster? – chiese la voce. – Vorrei parlare con il signor Paul Auster. – Qui non c’è nessuno che si chiami così. – Paul Auster. Dell’Agenzia Investigativa Auster. – Spiacente, – disse Quinn. – Le avranno dato un numero sbagliato. – È cosa della massima urgenza, – disse la voce. – Non posso farci niente, – disse Quinn. – Qui non c’è nessun Paul Auster. – Lei non capisce, – disse la voce. – Non c’è quasi più tempo. – Allora le suggerisco di telefonare altrove. Questa non è un’agenzia investigativa. Quinn riattaccò. Rimase lì sul pavimento freddo guardandosi i piedi, le ginocchia, il pene floscio. Per un fugace istante si pentì di essere stato così
brusco con la persona al telefono. Magari sarebbe stato interessante, pensò, giocare un po’ con lui. Forse avrebbe scoperto qualcosa sul caso… e chissà mai che non potesse anche rendersi utile. «Devo imparare a riflettere più rapidamente», disse fra sé. Come la maggior parte della gente, Quinn non sapeva quasi nulla del mondo del crimine. Non aveva mai assassinato nessuno, mai rubato niente, e non conosceva nessuno che lo avesse fatto. Non era mai stato in una stazione di polizia, non aveva mai conosciuto un investigatore privato, né parlato a un delinquente. Tutto quello che conosceva sull’argomento lo aveva imparato dai libri, dai film e dai giornali. Questa peraltro non gli sembrava una menomazione. Nelle storie che scriveva, a importargli non era il rapporto con il mondo, ma il rapporto con le altre storie. Ancor prima di diventare William Wilson, Quinn era stato un affezionato lettore di romanzi gialli. Sapeva che per lo più erano scritti male, e nella grande maggioranza dei casi non avrebbero superato nemmeno l’esame più generico; eppure era la forma che lo attraeva, e rifiutava di leggere solo quei rari gialli di bruttezza indicibile. Mentre per gli altri generi letterari possedeva un gusto rigoroso, esigente fino all’incontentabilità, verso quei libri quasi non faceva differenze. Quando era dell’umore giusto, ne leggeva senza difficoltà anche dieci o dodici di seguito. Una specie di fame s’impossessava di lui, la bramosia di un cibo speciale, e non si interrompeva prima di averne mangiato a sazietà. A piacergli, dei gialli, era il loro senso di pienezza ed economia. In un buon giallo nulla viene sprecato, non una frase, non una parola che non siano significative. E anche se non lo sono, hanno il potenziale per esserlo, il che è lo stesso. Il mondo del libro prende vita nel fermentare delle possibilità, dei segreti e delle contraddizioni. Poiché tutte le cose viste o dette, anche le più futili e banali, possono ricondurre allo scioglimento della vicenda, non si deve trascurare nulla. Tutto diviene essenza: il centro del libro si sposta a ogni avvenimento che lo proietta in avanti. Quindi il centro è dovunque, e non si può tracciare una circonferenza finché la lettura non è terminata. L’investigatore è una persona che guarda, che ascolta e che si muove attraverso la palude degli oggetti e degli avvenimenti a caccia del pensiero, dell’idea che farà concordare ogni dettaglio e gli darà un senso. In realtà, scrittore e investigatore sono intercambiabili. Il lettore vede il mondo con gli occhi dell’investigatore, sperimentando il proliferare dei particolari come se fosse la prima volta. Si è ridestato alle cose che lo circondano quasi che gli
potessero parlare; quasi che, in virtù dell’attenzione che ora riserva loro, assumessero un significato altro dal mero dato della loro esistenza. Private eye. Occhio privato. Per Quinn il termine racchiudeva un triplice significato. Eye non suonava semplicemente come «ai», la «i» iniziale di «investigatore»; era la «I» maiuscola, il pronome «io», e l’io, il minuscolo germoglio sepolto nel corpo dell’essere vivente. Nel contempo, era l’occhio fisico dello scrittore, l’occhio dell’uomo che guarda fuori da sé nel mondo, pretendendo che il mondo gli si sveli. Erano cinque anni che Quinn viveva nella morsa di questo bisticcio. Ovviamente, da tempo non pensava più a se stesso come a qualcosa di reale. Se ora viveva nel mondo, era solo per procura, tramite la persona di Max Work. Il suo investigatore doveva necessariamente essere reale. Lo richiedeva la natura dei libri. Se Quinn si era concesso di svanire, ritirandosi entro i confini di una vita strana ed ermetica, Work continuava a vivere nel mondo degli altri, e più Quinn sembrava dileguarsi, più persistente diventava la presenza nel mondo di Work. Mentre Quinn tendeva a sentirsi fuori posto nella sua stessa pelle, Work era aggressivo, linguacciuto, a proprio agio in qualunque contesto. Proprio le cose che creavano problemi a Quinn, Work le dava per scontate, incedendo nel guazzabuglio delle avventure con una disinvoltura e un’indifferenza che non mancavano mai di impressionare il suo creatore. Non che Quinn desiderasse propriamente essere Work, e neppure assomigliargli; ma lo rassicurava fingersi Work mentre scriveva, sapere che aveva i numeri per diventare Work se lo avesse voluto, anche solo con la mente. Quella notte, mentre infine si assopiva, Quinn cercò di immaginare cosa avrebbe detto Work allo sconosciuto al telefono. Nel sogno, che poi dimenticò, si trovava da solo in una stanza e sparava con la pistola contro una nuda parete bianca. La notte successiva, Quinn fu colto di sorpresa. In sostanza, era seduto sul water nell’atto di espellere uno stronzo quando squillò il telefono. Era un po’ più tardi della notte precedente, forse l’una meno dieci. Quinn era appena arrivato al capitolo che racconta il viaggio di Marco Polo da Pechino ad Amoy, e teneva il libro aperto sul grembo mentre evadeva la necessità nel piccolo bagno. Il suono dell’apparecchio arrivò come una chiara irritazione. Affrettarsi a rispondere significava alzarsi senza essersi pulito, e gli ripugnava attraversare l’appartamento in quello stato. D’altra parte, se avesse
terminato quello che stava facendo a velocità normale, non sarebbe arrivato al telefono in tempo. Malgrado ciò, Quinn si sentiva riluttante a muoversi. Non amava particolarmente il telefono, e aveva valutato più volte l’ipotesi di disfarsene. Ciò che più di tutto detestava era il suo dispotismo. Non aveva soltanto il potere di interromperlo controvoglia, ma inevitabilmente lo costringeva ad arrendersi. Questa volta decise di resistergli. Al terzo squillo, gli si erano svuotate le viscere. Al quarto, si era ripulito. Al quinto, si era tirato su i pantaloni, era uscito dal bagno e attraversava l’appartamento senza fretta. Alzò il ricevitore al sesto squillo, ma dall’altra parte non c’era più nessuno. Avevano riattaccato. La notte successiva, era pronto. Abbandonato sul letto, preso a esaminare attentamente le pagine di «The Sporting News», aspettò la terza telefonata dello sconosciuto. Di tanto in tanto, quando il nervosismo prendeva il sopravvento, si alzava e passeggiava per la casa. Mise un disco, l’opera di Haydn Il Mondo della Luna, e l’ascoltò dal principio alla fine. Aspettò e aspettò. Poi, alle due e mezza, rinunciò e andò a dormire. Aspettò anche la notte successiva e quella dopo. Proprio quando stava per abbandonare il progetto, constatando che era partito da premesse errate, il telefono squillò ancora. Era il 19 maggio. Avrebbe ricordato questa data perché era l’anniversario di nozze dei suoi genitori; o meglio, lo sarebbe stato, se i suoi fossero stati ancora vivi; e una volta la madre gli aveva detto di averlo concepito la prima notte di nozze. Il fatto lo aveva sempre affascinato, la prerogativa di determinare con precisione il primo momento della propria esistenza, e nel corso degli anni aveva festeggiato privatamente il compleanno proprio quel giorno. Stavolta capitò un po’ più presto delle due notti precedenti, non erano nemmeno le undici, e nel prendere il telefono era convinto fosse qualcun altro. – Pronto, – disse. Di nuovo, all’altro capo ci fu silenzio. Quinn capì subito che doveva essere lo sconosciuto. – Pronto? – ripeté. – Posso esserle utile? – Sì, – rispose infine la voce. Lo stesso sussurro meccanico, lo stesso tono di disperazione. – Sì. È indispensabile adesso. Senza indugio. – Cosa è indispensabile? – Parlare. Adesso, subito. Parlare immediatamente. Sì. – E con chi desidera parlare?
– Sempre con la stessa persona. Auster. L’uomo che si presenta come Paul Auster. Questa volta Quinn non esitò. Sapeva cosa stava per fare, e ora che il momento era arrivato, lo fece. – Sono io, – rispose. – Sono Auster. – Finalmente. Finalmente l’ho trovata. – Colse tutto il sollievo nella voce, la palpabile calma che di colpo sembrava irrorarla. – Davvero, – disse Quinn. – Finalmente –. Fece una breve pausa per permettere alle parole di depositarsi, in lui come nell’altro. – Cosa posso fare per lei? – Ho bisogno di aiuto, – rispose la voce. – C’è molto pericolo. Dicono che lei sia il più bravo in questo genere di cose. – Dipende da che genere intende. – Intendo la morte. Intendo la morte e l’omicidio. – Questa non è esattamente la mia attività, – osservò Quinn. – Non vado in giro a uccidere la gente. – No, – disse la voce un po’ stizzita. – Io intendo il contrario. – Qualcuno vuole ucciderla? – Sì, uccidermi. È esatto. Sto per venire assassinato. – E desidera che io la protegga? – Esatto, che mi protegga. E che trovi l’uomo che sta per uccidermi. – Non sa di chi si tratta? – Lo so, sì. Naturalmente lo so. Ma non so dove si trova. – Me ne può parlare? – Non ora. Non per telefono. C’è molto pericolo. Deve venire qui. – Se venissi domani? – Ottimo. Domani. Presto. In mattinata. – Per le dieci? – Ottimo. Alle dieci La voce fornì un indirizzo sulla Sessantanovesima est. – Non se lo scordi, signor Auster. Deve venire. – Stia tranquillo, – disse Quinn. – Ci sarò.
2. Il mattino seguente Quinn si alzò presto come non aveva fatto da settimane. Mentre beveva il caffè, imburrava il pane tostato e sbirciava sul giornale i risultati del baseball (i Mets avevano perso un’altra volta, due a uno, per un errore al nono inning), non pensò minimamente che stava per presentarsi al suo appuntamento. Persino quell’espressione, il suo appuntamento, gli suonava strana. Quell’appuntamento non era suo, ma di Paul Auster. E non aveva idea di chi fosse quell’individuo. Comunque col passare dei minuti si ritrovò a inscenare una buona imitazione di un uomo che sta per uscire. Sbrogliò la tavola dai piatti della colazione, gettò il giornale sul letto, andò in bagno, si fece la doccia e la barba, andò in camera da letto avvolto in due asciugamani, aprì l’armadio e scelse gli abiti per l’occasione. Scoprì di aver voglia di indossare giacca e cravatta. Quinn non si era più messo la cravatta dai funerali della moglie e del figlio, e non ricordava neanche di possederne una. E invece eccola lì, appesa tra gli avanzi del suo guardaroba. Scartò la camicia bianca perché troppo formale, scegliendone invece una a scacchi rossi e grigi ben intonata con la cravatta. Le indossò in una specie di trance. Solo quando aveva già la mano sul pomolo della porta ebbe il sentore di quello che stava facendo. «Pare che io stia per uscire, – disse fra sé. – Ma se esco, dove sto andando esattamente?» Un’ora dopo, mentre scendeva dal numero 4 all’incrocio fra la Quinta Avenue e la Settantesima strada, non aveva ancora risposto alla domanda. Da un lato aveva il parco, verde nel sole mattutino, con ombre nitide e fuggenti; dall’altro c’era la Frick Collection, bianca e severa, e come abbandonata ai morti. Per un momento pensò al Soldato e fanciulla che sorridono di Vermeer, cercando di rammentare l’espressione del viso della fanciulla, la posizione esatta delle mani intorno alla tazza, la schiena rossa dell’uomo senza volto. Nella mente gli balenò la cartina azzurra appesa al muro e il sole che entrava dalla finestra, così simile alla luce che lo circondava in quel momento. Stava camminando. Attraversava la strada e si dirigeva a est. A Madison Avenue girò a destra e
andò verso sud per un isolato, poi svoltò a sinistra e vide dove si trovava. «Pare che io sia arrivato,» disse fra sé. Si soffermò davanti all’edificio. A un tratto, sembrava che non contasse più nulla. Si sentiva mirabilmente calmo, come se tutto gli fosse già successo. Mentre apriva la porta che l’avrebbe introdotto nel vestibolo, si rivolse un’ultima frase di avvertimento. «Se tutto questo sta accadendo veramente, – disse, – allora è meglio che tenga gli occhi aperti». Fu una donna ad aprire la porta dell’appartamento. Chissà perché, Quinn non se l’aspettava, e restò disorientato. Le cose capitavano già troppo in fretta. Prima di aver la possibilità di assimilare la presenza della donna, di descriverla a se stesso e crearsene delle impressioni, lei gli stava parlando, costringendolo a rispondere. Perciò fin da quei primi istanti Quinn aveva perso terreno, incominciava a restare indietro. Più tardi, quando ebbe il tempo di riflettere su quegli avvenimenti, sarebbe riuscito a ricostruire logicamente il suo incontro con la donna. Ma questo era un lavoro di memoria, e lui sapeva che i ricordi tendono a sovvertire le cose. Di conseguenza, non fu mai certo di quanto era accaduto. La donna poteva avere trenta, o forse trentacinque anni: statura media a dir tanto; fianchi appena ampi, o voluttuosi a seconda dei punti di vista; capelli scuri, occhi scuri e uno sguardo, in quegli occhi, a un tempo riservato e vagamente seduttivo. Portava un vestito nero e un rossetto di un rosso molto vivo. – Il signor Auster? – Un sorriso esitante; un chinarsi interrogativo del capo. – Sì, – rispose Quinn. – Paul Auster. – Sono Virginia Stillman, – cominciò la donna. – La moglie di Peter. È dalle otto che l’aspetta. – L’appuntamento era per le dieci, – disse Quinn guardando l’orologio. Erano le dieci in punto. – Ma lui smaniava, – spiegò la donna. – Non l’ho mai visto così. Non riusciva ad aspettare. Aprì la porta a Quinn. Mentre varcava la soglia ed entrava nell’appartamento, lui sentì che si stava svuotando, come se il suo cervello si fosse bloccato all’improvviso. Aveva stabilito di fissare i dettagli di ciò che vedeva, ma in quel momento il compito si rivelava al di fuori dalla sua portata. L’appartamento gl’incombeva attorno come una specie d’immagine
indistinta. Comprese che era grande, forse cinque o sei stanze, e che era ammobiliato lussuosamente, con numerosi oggetti d’arte, portacenere d’argento e dipinti dalle elaborate cornici sui muri. Ma nient’altro. Nulla più che un’impressione generale… sebbene fosse lì, a guardare quelle cose con i suoi occhi. Si ritrovò seduto da solo su un divano nel soggiorno. Ricordò adesso che la signora Stillman gli aveva detto di aspettare lì mentre lei andava a cercare il marito. Al massimo uno o due minuti prima. Ma da come la luce filtrava dalle finestre, sembrava quasi mezzogiorno. Tuttavia non pensò di controllare l’orologio. L’aroma del profumo di Virginia Stillman gli indugiava intorno, e lui iniziò a immaginare come sarebbe stata senza vestiti indosso. Poi pensò a quello che avrebbe pensato Max Work se fosse stato lì. Decise di accendersi una sigaretta. Esalò il fumo nella stanza. Gli piaceva osservarlo mentre a refoli lasciava le sue labbra e si disperdeva, assumendo una conformazione nuova quando entrava in una zona di luce. Udì il rumore di qualcuno che entrava nella stanza alle sue spalle. Quinn si alzò dal divano e si voltò, aspettandosi di vedere la signora Stillman. Invece c’era un giovane interamente vestito di bianco, con i capelli biondo– candidi di un bimbo. Misteriosamente, in quel primo momento, a Quinn ritornò in mente il figlio morto. Poi il pensiero si dissolse improvviso com’era venuto. Peter Stillman attraversò la stanza e sedette su una poltroncina rossa davanti a Quinn. Nel raggiungere il proprio posto non pronunciò una parola, né mostrò di accorgersi della presenza dell’altro. Sembrava che l’atto di trasferirsi da un punto all’altro della stanza assorbisse tutta la sua attenzione, come se non pensare a quello che stava facendo potesse condannarlo all’immobilità. Quinn non aveva mai visto nessuno muoversi così, e capì subito che quella era la stessa persona con cui aveva parlato al telefono. Il corpo si comportava esattamente come aveva fatto la voce: in modo meccanico, intermittente, alternando mosse rapide e brevi, rigido ma espressivo, quasi che il funzionamento fosse fuori controllo, non del tutto corrispondente alla volontà che lo azionava. Sembrò a Quinn che il corpo di Stillman non fosse stato usato per molto tempo, cosicché il moto era diventato un atto consapevole, e ciascun movimento frammentato nei micromovimenti di cui era composto, col risultato che fluidità e spontaneità si erano perse. Era come vedere un burattino che tenta di camminare senza fili.
Tutto in Peter Stillman era bianco. Camicia bianca, aperta sul collo; pantaloni bianchi, scarpe bianche, calze bianche. Assommati al pallore della pelle e al biondo quasi albino dei capelli, suggerivano un effetto di trasparenza, come se si vedessero le vene azzurre sotto la pelle del viso. Quell’azzurro era quasi identico al colore degli occhi: un celeste latteo, che sembrava dissolversi in una mistura di cielo e nuvole. Quinn non poteva immaginare di rivolgere la parola a quell’uomo. Era come se la presenza di Stillman intimasse il silenzio. Stillman si accomodò lentamente sulla poltroncina, e infine rivolse l’attenzione a Quinn. Quando i loro occhi si incontrarono, Quinn sentì all’improvviso che l’altro era diventato invisibile. Lo vedeva seduto davanti a lui, ma nello stesso tempo aveva l’impressione che non ci fosse. Ipotizzò che Stillman fosse cieco. Ma no, questo non pareva possibile. L’uomo lo guardava, studiandolo per di più, e sebbene il volto non fosse alterato dal lampo del riconoscimento, mostrava qualcosa di più che uno sguardo spento. Quinn non sapeva cosa fare. Restò inerte al suo posto, ricambiando lo sguardo di Stillman. Trascorse molto tempo. – Niente domande, prego, – disse infine il giovane. – Sì. No. Grazie –. Si interruppe un momento. – Io sono Peter Stillman. Lo dichiaro di mia spontanea volontà. Sì. Non è il mio vero nome. No. Ovvio che la mia mente non è perfettamente a posto. Ma non si può far nulla. No. Nulla. Non più. Lei sta lì seduto e pensa: chi è questa persona che parla con me? Cosa sono queste parole che le escono di bocca? Glielo dirò. O viceversa non glielo dirò. Sì e no. La mia mente non è perfettamente a posto. Lo dichiaro di mia spontanea volontà. Ma ci proverò. Sì e no. Proverò a dirglielo, anche se la mia mente mi mette i bastoni fra le ruote. Grazie. Mi chiamo Peter Stillman. Forse avrà sentito parlare di me, ma è più probabile il contrario. Fa niente. Non è il mio vero nome. Il mio vero nome non me lo ricordo. Chiedo scusa. Non che faccia differenza. Vale a dire, non più. Questo è ciò che si chiama parlare. Credo che il termine sia questo. Quando le parole fuoriescono, volano nell’aria, vivono per un momento e muoiono. Curioso, vero? In quanto a me, non ho alcuna opinione. No e un’altra volta no. Purtuttavia, vi sono parole di cui lei abbisognerà. Ce ne sono tante. Molti milioni, credo. Forse solo tre o quattro. Mi scusi. Ma oggi
mi sento bene. Molto meglio del solito. Se posso provvederle le parole di cui abbisogna, sarà una grande vittoria. Grazie. Un milione di volte grazie. Molto tempo fa c’erano madre e padre. Di ciò non ricordo nulla. Dicono: la madre è morta. Chi essi siano non lo so dire. Mi perdoni. Ma è quello che essi dicono. Perciò nessuna madre. Ah ah. Tale è la mia risata, adesso, lo sbotto ventrale del mio mumbo jumbo. Ah ah ah. Il grande padre dice: non fa differenza. Per me. Vale a dire, per lui. Il grande padre dai grandi muscoli e del bum, bum, bum. Niente domande adesso, per favore. Dico quello che dicono perché non so niente. Sono solo il povero Peter Stillman, il ragazzo che non sa ricordare. Buueee. Volente o nolente. Il semplicione. Mi perdoni. Dicono, dicono. Ma cosa dice il povero piccolo Peter? Niente, niente. Non più. C’è stato questo. Buio. Molto buio. Buio come il molto buio. Dicono: quella era la stanza. Quasi che io ne potessi parlare. Del buio, voglio dire. La ringrazio. Buio, buio. Per nove anni, dicono. Neppure una finestra. Povero Peter Stillman. E poi il bum, bum, bum. Pile di cacca. Laghi di pipì. I mancamenti. Mi perdoni. Amorfo e nudo. Mi perdoni. Non più. Allora, c’è il buio. Glielo dico io. C’era del cibo al buio, sì, cibo papposo nella camera buia silenziosa. Lo mangiava con le mani. Mi perdoni. Voglio dire Peter. E se Peter sono io, tanto meglio. Vale a dire, tanto peggio. Mi perdoni. Sono Peter Stillman. Non è il mio vero nome. La ringrazio. Povero Peter Stillman. Non era che un bambino. Quattro parole di suo. E poi non più parole, poi nessuna, e poi no, no, no. Non più. Mi scusi, signor Auster. Vedo che la sto rattristando. Niente domande, prego. Mi chiamo Peter Stillman. Non è il mio vero nome. Il mio nome vero è signor Triste. Come si chiama lei, signor Auster? Forse il vero signor Triste è lei, e io non sono nessuno. Buueee. Mi perdoni. Tale è il mio gemere e lacrimare. Buueee, sob sob. Cosa faceva Peter nella stanza? Nessuno lo può dire. Qualcuno dice niente. In quanto a me, penso che Peter non poteva pensare. E ammiccare? E trincare? E puzzare? Ah ah ah. Mi perdoni. Sono talmente buffo, a volte. Clic succhiello scricchiabriciola ciac ciac. Cloc cloc scataschioccia. Torpido tonfo, smosciamolto, biasciamanna. Ie, ie, ie. Mi perdoni. Sono l’unico a capire queste parole.
Dopo e dopo e dopo. Così dicono loro. È durato troppo perché Peter restasse sano di zucca. Mai più. No, no, no. Dicono che qualcuno mi ha trovato. Non ricordo. No, non ricordo che cosa è successo quando hanno aperto la porta ed è entrata la luce. No, no, no. Non posso dire niente di questo. Non più. Per molto tempo ho portato gli occhiali neri. Avevo dodici anni. O così dicono loro. Vivevo in un ospedale. A poco a poco, mi hanno insegnato a essere Peter Stillman. Hanno detto: sei Peter Stillman. Grazie, ho risposto. Ie, ie, ie. Grazie e poi ancora grazie, ho risposto. Peter era un bebè. Dovettero insegnargli tutto quanto. A camminare. A mangiare. A come fare la cacca e la pipì nel vaso. Questo non era male. Anche quando li mordevo, non facevano il bum, bum, bum. Dopo, ho imparato anche a non strapparmi i vestiti. Peter era un bravo ragazzo. Ma era difficile insegnargli le parole. La sua bocca non funzionava bene. E naturalmente non c’era del tutto con la testa. Diceva, ba ba ba. E da da da. E ua ua ua. Mi perdoni. Ci vollero altri anni e anni. Adesso dicono a Peter: ora puoi andare, non possiamo più fare niente per te. Peter Stillman, sei un essere umano, hanno detto. È bello credere a quello che dicono i dottori. Grazie. Grazie infinite. Mi chiamo Peter Stillman. Non è il mio vero nome. Il mio vero nome è Peter Coniglio. D’inverno sono mister White, in estate mister Green. Ne pensi quel che le aggrada. Lo dichiaro di mia spontanea volontà. Clic succhiello scricchiabriciola ciac ciac. È bellissimo, non crede? Creo parole come queste in continuazione. Non posso farne a meno. Mi escono di bocca da sole. Non sono traducibili. Lei domandi, e domandi. Non serve a niente. Ma io glielo dirò. Desidero che non si rattristi, signor Auster. Ha una faccia così gentile. Mi ricorda un qualcunché o un lamento. Non so quale. E i suoi occhi mi guardano. Sì, sì. Li vedo. Molto bene. La ringrazio. Ecco perché glielo dirò. Niente domande, prego. Lei si sta interrogando su tutto il resto. Vale a dire, sul padre. Il terribile padre che ha fatto tutte quelle cose al povero Peter. Beninteso. Lo condussero in un luogo buio. Lo chiusero a chiave e ve lo abbandonarono. Ah ah ah. Mi perdoni. Sono talmente buffo, a volte. Tredici anni, hanno detto. Che forse è molto tempo. Ma io non ne so niente del tempo. Sono nuovo ogni giorno. Nasco quando mi alzo la mattina,
durante il giorno invecchio e muoio alla notte quando vado a dormire. Non è mia la colpa. Oggi sto così bene. Sto molto meglio di come mi sia mai sentito prima. Il padre si assentò per tredici anni. Anche lui si chiamava Peter Stillman. Curioso, vero? Che due persone possano avere lo stesso nome. Non so se quello sia il suo vero nome. Ma non credo che lui sia me. Tutti e due siamo Peter Stillman. Ma Peter Stillman non è il mio vero nome. Perciò forse io non sono Peter Stillman, dopotutto. Tredici anni, dico. O loro dicono. Non fa differenza. Non so niente del tempo. Ma questo è quanto mi dicono loro. Domani è la scadenza dei tredici anni. Ciò è male. Anche se dicono che non lo è, è male. Io non dovrei ricordare. Ma di tanto in tanto mi ricordo, malgrado quello che dico. Lui verrà. Vale a dire, il padre verrà. E cercherà di uccidermi. Molte grazie. Ma questo non lo voglio. No, no. Non più. Adesso Peter è vivo. Sì. Non tutto in testa gli frulla per bene, ma rimane vivo. E questo è importante, non le pare? Può scommetterci il suo ultimo dollaro. Ah ah ah. Ora sono principalmente un poeta. Ogni giorno mi siedo nella mia stanza e scrivo una poesia nuova. Tutte le parole le invento da me, come facevo quando vivevo al buio. Comincio a ricordare le cose in quel modo, a fingere di essere tornato nel buio. Sono l’unico a sapere il significato delle parole. Non si possono tradurre. Queste poesie mi renderanno famoso. Batti il chiodo sulla testa. Ie, ie, ie. Splendide poesie. Talmente splendide che faranno piangere tutto il mondo. Un giorno forse farò cose diverse. Quando avrò finito di essere un poeta. Vede, prima o poi esaurirò le parole. Ognuno ne possiede in quantità limitata. E cosa farò dopo? Penso che dopo vorrei fare il pompiere. E dopo ancora il medico. Non fa differenza. L’ultima cosa che voglio essere è il funambolo equilibrista. Quando sarò molto vecchio, e finalmente avrò imparato a camminare come tutti gli altri. Allora danzerò sul filo, e la gente resterà sbalordita. Anche i bebé. Questo è ciò che vorrei. Danzare sul filo fino alla morte. Ma non importa. Non fa differenza. Per me. Come può vedere, sono un uomo abbiente. Non ho preoccupazioni. No, no. Non quanto a questo. Può scommetterci il suo ultimo dollaro. Il padre era ricco, e tutto il suo denaro
andò al piccolo Peter dopo che lo rinchiusero al buio. Ah ah ah. Mi perdoni se rido. Sono talmente buffo, a volte. Io sono l’ultimo degli Stillman. Una famiglia molto in vista, o almeno così dicono. Della vecchia Boston, casomai ne avesse sentito parlare. Sono l’ultimo. Non ce ne sono altri. Sono l’epilogo di tutti, l’ultimo uomo. Meglio così, credo. Non è un peccato che tutto debba terminare adesso. È bene per ognuno essere morto. Il padre forse non era così cattivo. Lo dico adesso, almeno. Aveva un gran testone. Grande come un testone grande, come dire che dentro c’era troppo spazio. Tanti pensieri in quel suo gran testone. Ma povero Peter, non le pare? E in angustie terribili davvero. Peter che non vedeva e non parlava, non poteva né pensare né fare. Peter che non poteva. No. Niente. Di tutto ciò non so niente. Né capisco. È mia moglie che mi dice queste cose. Dice che è importante che io sappia, anche se non capisco. Ma non capisco nemmeno questo. Per conoscere, si deve comprendere. Non è così? Io invece non so niente. Forse sono Peter Stillman, e forse no. Il mio vero nome è Peter Nessuno. La ringrazio. E lei, cosa ne pensa? Dunque le stavo dicendo del padre. È una bella storia, anche se non la comprendo. Gliela racconto perché so le parole. E questo è già importante, non le pare? Dico, sapere le parole. A volte sono così fiero di me! Mi perdoni. Questo lo dice mia moglie. Dice che il padre parlava di Dio. Questa parola è strana per me. In inglese, capovolgendo God, ottieni dog. E un cane non ha molto a che vedere con Dio, vero? Bau bau. Grrr, grrr. Sono queste le parole del cane. A me sembrano bellissime. Così armoniose e vere. Come le parole che io invento. Comunque. Stavo dicendo. Il padre parlava di Dio. Voleva sapere se Dio aveva un idioma. Non mi chieda cosa significa. Glielo racconto solo perché so le parole. Il padre pensava che un bambino l’avrebbe parlato se non vedeva persone. Ma di quale bambino si trattava? Ah. Ora comincia a capire. Non ha dovuto comprarlo. Naturalmente, Peter qualche parola umana la sapeva. Era stato inevitabile. Ma il padre pensò che forse Peter le avrebbe dimenticate. Dopo un po’. Ecco perché ci fu tutto quel bum, bum, bum. Ogni volta che Peter diceva una parola, il padre lo bumbumbava. Alla fine Peter ha imparato a non dire niente. Ie ie ie. La ringrazio. Peter teneva le parole dentro di sé. Tutti quei giorni e mesi e anni. Laggiù al buio, il piccolo Peter tutto solo, e le parole in testa facevano rumore e gli
tenevano compagnia. Ecco perché la sua bocca non funziona bene. Povero Peter. Buueee. Tali sono le sue lacrime. Il bambino che non può mai crescere. Adesso Peter può parlare come le persone. Ma nella testa ha ancora le altre parole. Sono l’idioma di Dio, e nessun altro le può pronunciare. Non sono traducibili. Ecco perché Peter vive così vicino a Dio. Ecco perché è un famoso poeta. Tutto adesso per me è così nuovo. Posso fare quel che mi pare e piace. Ogni momento, ogni luogo. Ho persino una moglie. Lo vede. L’ho citata in precedenza. Forse l’ha anche conosciuta. È bellissima, vero? Si chiama Virginia. Non è il suo vero nome. Ma non fa differenza. Per me. Ogni volta che glielo chiedo, mia moglie mi procura una ragazza. Sono puttane. Infilo il mio lombrico dentro di loro e mugolano. Tante ce ne sono state. Ah ah. Vengono qua e io le scopo. È piacevole scopare. Virginia dà loro dei soldi e siamo tutti contenti. Può scommetterci il suo ultimo dollaro. Ah ah. Povera Virginia. A lei scopare non piace. Vale a dire, con me. Forse scopa con un altro. Chi può dirlo? Di questo non so nulla. Non fa differenza. Ma forse, se sarà carino con lei, Virginia le permetterà di scoparla. Io ne sarei felice. Per lei. La ringrazio. Insomma. C’è un mucchio di cose. Sto cercando di raccontargliele. So che non ho la testa bene a posto. Ed è vero, sì, e lo dichiaro di mia spontanea volontà, che qualche volta incomincio a urlare, e urlare. Senza ragioni valide. Come se ci dovesse essere una ragione. Ma senza nessuna che io riesca a vedere. Né io né altri. No. Poi ci sono le volte in cui non dico niente. Per giorni e giorni di seguito. Niente, niente, niente. Dimentico come si fa a farmi uscire le parole di bocca. In questi casi mi è difficile muovermi. Ié ié. E persino vedere. È allora che divento mister Triste. Eppure mi piace stare al buio. Almeno a volte. Credo mi faccia bene. Al buio parlo l’idioma di Dio e nessuno può ascoltarmi. Non si arrabbi, la prego. Non posso farci nulla. Ma la cosa più bella è l’aria. Sì. E a poco a poco, ho imparato a vivere dentro di essa. L’aria e la luce, sì, anche quella, la luce che risplende su tutte le cose e le rende visibili ai miei occhi. C’è l’aria e c’è la luce, e questa è la più bella. Mi perdoni. L’aria e la luce. Sì. Quando è bel tempo, mi piace star seduto vicino alla finestra aperta. A volte guardo fuori e osservo le cose sottostanti. La strada e tutte le persone, i cani e le automobili, i mattoni del
palazzo di fronte. E poi ci sono le volte in cui semplicemente chiudo gli occhi e rimango seduto, con la brezza che mi soffia sul viso, e la luce nell’aria, tutto intorno a me e appena oltre i miei occhi, e tutto il mondo è rosso, di un bellissimo rosso nei miei occhi, con il sole che splende su di me e sui miei occhi. È vero che esco raramente. È difficile per me, e non merito sempre la fiducia. Qualche volta urlo. Non si arrabbi con me, la prego. Non posso farci niente. Virginia dice che dovrei imparare come ci si comporta in pubblico. Ma qualche volta non posso farci niente, le urla mi scappano e basta. Ma adoro andare al parco. Ci sono gli alberi, e l’aria e la luce. C’è del buono in tutto ciò, non è vero? Sì. A poco a poco, dentro di me sto meglio. Me ne accorgo. Lo dice anche il dottor Wyshnegradsky. So di essere ancora un pupazzetto. Non ci si può far nulla. No, no. Non più. Ma qualche volta penso che almeno potrei crescere e diventare reale. Per ora, sono ancora Peter Stillman. Non è il mio vero nome. Non saprei dire chi sarò domani. Tutti i giorni sono nuovi, e ogni giorno rinasco. Vedo la speranza dappertutto, anche nel buio, e forse alla mia morte diventerò Dio. Ci sono molte altre parole da pronunciare. Ma non penso che le dirò. No. Non oggi. Adesso la mia bocca è stanca, e credo sia venuto per me il tempo di andarmene. Naturalmente, non so nulla del tempo. Ma non fa differenza. Per me. Grazie infinite. So che mi salverà la vita, signor Auster. Conto su di lei. Capisce, la nostra vita è limitata. Tutto il resto si trova nella stanza, con il buio, con l’idioma di Dio, con le urla. Qui io appartengo all’aria, un cosa bellissima per farvi risplendere la luce. Forse lo ricorderà. Mi chiamo Peter Stillman. Non è il mio vero nome. Grazie infinite.
3. Il discorso era finito. Quanto fosse durato, Quinn non sapeva dirlo. Perché soltanto adesso, quando le parole si interruppero, si accorse che intorno a loro era buio. Apparentemente era trascorsa un’intera giornata. Durante il monologo di Stillman, a un certo punto, nella stanza il sole era tramontato, ma Quinn non se n’era reso conto. Ora avvertiva l’oscurità e il silenzio, se li sentiva ronzare in testa. Passarono alcuni minuti. Quinn pensò che forse toccava a lui dire qualcosa, ma non ne era sicuro. Sentiva Peter Stillman respirare affannosamente all’altro capo della stanza. Salvo questo, non c’erano altri rumori. Quinn non riusciva a decidere il da farsi. Esaminò varie possibilità, ma poi le scartò una per una. Restò seduto al proprio posto in attesa del prossimo evento. Finalmente il silenzio fu rotto da un fruscio di gambe in calze femminili che attraversavano la stanza. Ci fu lo scatto metallico di un interruttore e all’improvviso la stanza si illuminò. Gli occhi di Quinn si volsero automaticamente verso la luce e là, in piedi accanto a una lampada da tavolo a sinistra della poltroncina di Peter, vide Virginia Stillman. Il giovane aveva lo sguardo fisso davanti a sé, come dormisse a occhi aperti. La signora Stillman si chinò, mise un braccio intorno alle spalle di Peter e gli parlò dolcemente in un orecchio. – Peter, è ora, – disse. – La signora Saavedra ti aspetta. Peter alzò lo sguardo e sorrise. – Trabocco di speranza, – dichiarò. Virginia Stillman baciò teneramente il marito sulla guancia. Poi disse: – Saluta il signor Auster. Peter si alzò. O meglio, incominciò la triste, lenta avventura di pilotare il proprio corpo al di fuori della poltroncina e raddrizzarlo sui piedi. Ciascuno stadio era interpunto da ricadute, flessioni, scatti all’indietro, accompagnati da spasmi repentini di immobilità, grugniti, parole di cui Quinn non decifrava il significato. Alla fine Peter fu in piedi. Indugiò davanti alla poltroncina con un’espressione trionfante e guardò negli occhi Quinn. Poi sorrise, un sorriso
largo e senza ombra di timidezza. – Arrivederci, – disse. – Arrivederci, Peter, – disse Quinn. Peter fece uno spastico cenno con la mano; poi si voltò lentamente incamminandosi attraverso la stanza. A passo vacillante, sbandando prima a destra e poi a sinistra, le gambe alternativamente flesse e bloccate. In fondo alla stanza, in piedi su una soglia illuminata, c’era una donna né giovane né vecchia in divisa da infermiera. Quinn concluse che fosse la signora Saavedra. Seguì con gli occhi Peter Stillman finché il giovane scomparve oltre la porta. Virginia Stillman si sedette davanti a Quinn sulla stessa poltroncina prima occupata dal marito. – Avrei potuto risparmiarle tutto questo, – disse la donna, – ma ho pensato che sarebbe stato meglio che lei vedesse con i suoi occhi. – Capisco, – disse Quinn. – No, non credo che capisca, – disse la donna con voce amara. – Non credo che nessuno possa capire. Quinn fece un sorriso riflessivo, poi decise che doveva buttarsi. – Probabilmente, – disse, – che io capisca o no non è essenziale. Lei mi ha assunto per svolgere un lavoro, e prima inizio meglio è. Da quello che mi sembra, il caso è urgente. Non ho la pretesa di capire quanto Peter o lei possiate avere sofferto. L’importante è che intendo aiutarvi. Penso che lei dovrebbe prendere il mio intento per quello che vale. Adesso si stava scaldando. Qualcosa gli diceva che aveva centrato il tono giusto, e in lui si diffuse un improvviso senso di piacere, come se fosse appena riuscito a varcare un confine all’interno di se stesso. – Ha ragione, – disse Virginia Stillman. – Ha ragione, naturalmente. La donna fece una pausa, respirò profondamente, poi fece un’altra pausa, come se mentalmente stesse riesaminando le cose che stava per dire. Quinn notò che stringeva forte le mani sui braccioli della poltroncina. – Mi rendo conto, – proseguì la donna, – che quasi tutto quel che dice Peter è molto sconcertante… soprattutto la prima volta che lo si sente parlare. Ho ascoltato quello che le raccontava dalla camera accanto. Lei non deve presumere che Peter dica sempre la verità. D’altra parte, sarebbe sbagliato dire che menta. – Intende dire che dovrei credere ad alcune delle cose che dice e non ad
altre. – Precisamente. – Le sue consuetudini sessuali, o la loro assenza, non mi riguardano, signora Stillman, – disse Quinn. – Anche se quanto ha detto Peter fosse vero, non cambierebbe nulla. Nel nostro lavoro tendiamo a imbatterci in situazioni di ogni genere, e se non impari a sospendere il giudizio non combinerai mai niente. Sono abituato a sentire i segreti della gente, e anche a tenere la bocca chiusa. Se un fatto non ha diretta attinenza con il caso, non mi è di nessuna utilità. La signora Stillman arrossì. – Volevo solo che sapesse che quello che ha detto Peter non è vero. Quinn fece spallucce, tirò fuori una sigaretta e l’accese. – Che sia vero o no, – disse, – non ha importanza. A interessarmi sono le altre cose che ha detto Peter. Presumo siano vere e, se lo sono, vorrei sentire cosa ha da dire lei in proposito. – Sì, sono vere –. Virginia Stillman abbandonò la presa sulla sedia ponendosi la mano destra sotto il mento. Pensierosa. Come alla ricerca di un atteggiamento di incrollabile sincerità. – Peter ha un modo puerile di esprimerlo. Ma quello che ha detto è vero. – Mi dica qualcosa del padre. Qualsiasi informazione è rilevante. – Il padre di Peter è uno Stillman di Boston. Sono certa che avrà sentito parlare della famiglia. Annovera fin dal diciannovesimo secolo alcuni governatori, diversi vescovi, ambasciatori, un rettore di Harvard. Nel contempo, la famiglia ha accumulato un’ingente ricchezza con l’industria tessile, le spedizioni e Dio sa cos’altro. I dettagli non contano. Basta che abbia un’idea delle premesse. Come tutti i membri della famiglia, il padre di Peter andò a Harvard. Studiò filosofia e religione, mostrandosi a giudizio di tutti assai dotato. Scrisse la tesi sulle interpretazioni teologiche sei e settecentesche del Nuovo Mondo, e in seguito ebbe un incarico presso il dipartimento di Storia delle religioni della Columbia. Non molto tempo dopo, sposò la madre di Peter. Di lei non so molto. Dalle foto che ho visto, doveva essere molto graziosa. Ma delicata… un po’ come Peter, con quegli occhi celesti chiari chiari e la pelle candida. Quando, pochi anni dopo, nacque Peter, la famiglia abitava in un grande appartamento su Riverside Drive. La carriera accademica di Stillman era in pieno rigoglio. Riscrisse la sua dissertazione trasformandola in un
libro, che ebbe molto successo, e a trentaquattro o trentacinque anni ottenne l’ordinariato. Poi la madre di Peter morì. Della sua morte non è chiaro nulla. Stillman affermò che fosse mancata nel sonno, ma tutti gli indizi indicavano il suicidio. Qualcosa come una dose eccessiva di pillole… ma ovviamente non si poté provare nulla. Girò anche voce che l’avesse uccisa lui. Ma queste erano solo maldicenze, e non emerse mai niente in tal senso. L’intera vicenda fu ammantata del massimo riserbo. Allora Peter aveva solo due anni, ed era un bimbo perfettamente normale. Dopo la scomparsa della madre, Stillman sembrò occuparsene ben poco. Assunse una governante che più o meno per i sei mesi successivi si prese totalmente cura di Peter. Non ne ricordo il nome – la signorina Barber, se non sbaglio – ma testimoniò al processo. Pare che Stillman da un giorno all’altro tornò a casa e le disse che d’ora in poi si sarebbe occupato personalmente dell’educazione di Peter. Inviò alla Columbia le proprie dimissioni, spiegando che lasciava l’università per dedicarsi a tempo pieno al figlio. Naturalmente il denaro non era un problema, e nessuno poteva impedirgli quella scelta. Da questo momento, praticamente sparì dalla circolazione. Continuò a vivere nello stesso appartamento, ma senza uscire quasi mai. Nessuno sa cosa sia effettivamente accaduto. Credo, probabilmente, che incominciò a credere in qualche strampalata idea religiosa che aveva studiato. Diventò squilibrato, completamente folle. Non c’è altro modo di descriverlo. Rinchiuse Peter nell’appartamento, oscurò le finestre e ve lo tenne per nove anni. Cerchi di immaginarlo, signor Auster. Nove anni. Tutta un’infanzia passata nelle tenebre, isolato dal mondo, senza contatti umani a eccezione di qualche occasionale pestaggio. Io convivo con i risultati di quell’esperimento, e posso assicurarle che il danno fu mostruoso. Quello che ha visto oggi è il meglio che Peter possa offrire. Ci sono voluti tredici anni per arrivare a questo punto, e che io sia dannata se permetterò che qualcun altro gli faccia del male –. La signora Stillman s’interruppe per riprendere fiato. Quinn sentiva che era sull’orlo di una scenata, e una parola in più avrebbe potuto farle passare il segno. Doveva parlare adesso, o avrebbe perduto il filo della conversazione. – E alla fine come hanno scoperto Peter? – domandò. Nella donna una parte della tensione si allentò. Espirò udibilmente e guardò negli occhi Quinn. – C’è stato un incendio, – rispose.
– Accidentale o doloso? – Nessuno lo sa. – Ma lei, cosa ne pensa? – Penso che Stillman fosse nel suo studio. Vi conservava i resoconti dei suoi esperimenti, e penso che alla fine abbia compreso che la sua opera era fallita. Non sto dicendo che si rimproverasse nulla di ciò che aveva fatto. Ma anche secondo il suo punto di vista, capì di aver fallito. Penso che quella notte abbia raggiunto un certo grado irreversibile di disgusto di sé e abbia deciso di bruciare le proprie carte. Ma il controllo del fuoco gli sfuggì e gran parte dell’appartamento andò in fiamme. Per fortuna, la camera di Peter era all’estremità opposta di un lungo corridoio e i pompieri fecero in tempo a salvarlo. – E dopo? – Ci vollero parecchi mesi per spiegare tutta la storia. Le carte di Stillman erano state distrutte, di conseguenza mancavano prove concrete. D’altra parte c’erano lo stato di Peter, la stanza dove era rimasto chiuso, quelle orribili assi inchiodate alle finestre, e da ultimo la polizia arrivò a una ricostruzione. Stillman fu processato. – E come andò il processo? – Stillman fu giudicato malato di mente e segregato. – E Peter? – Anche lui fu mandato in una clinica. Vi è rimasto fino ad appena due anni fa. – È là che lei lo ha conosciuto? – Esatto. All’ospedale. – Come? – Ero la sua logopedista. Ho lavorato con Peter tutti i giorni per cinque anni. – Non è per impicciarmi. Ma come siete giunti esattamente al matrimonio? – È complicato. – Le dispiacerebbe spiegarmelo? – Niente affatto. Ma non penso che capirebbe. – C’è una sola maniera per scoprirlo. – Be’, semplificando. Era il modo migliore per far uscire Peter dalla clinica dandogli la possibilità di vivere una vita più normale.
– Non poteva farsi nominare sua tutrice legale? – Le procedure erano molto complesse. E poi Peter non era più minorenne. – Non è stato un enorme sacrificio da parte sua? – Niente affatto. Ero già stata sposata una volta… fu un disastro. Non è più un obiettivo che inseguo per me stessa. Almeno con Peter la mia vita ha uno scopo. – È vero che Stillman sta per essere rilasciato? – Domani. Arriverà in serata alla Grand Central. – E lei pensa che potrebbe riprendere di mira Peter. È solo un sospetto, o ne ha qualche prova? – Un po’ entrambe le cose. Due anni fa, stavano per lasciar uscire Stillman, ma lui scrisse a Peter una lettera che mostrai alle autorità. Decisero che in conclusione non era pronto per venire rilasciato. – Che razza di lettera era? – La lettera di un pazzo. Chiamava Peter ragazzo diabolico e diceva che sarebbe arrivato il giorno della resa dei conti. – Ha ancora quella lettera? – No. L’ho data alla polizia due anni fa. – Una copia? – Spiacente. Pensa che sia importante? – Può darsi. – Posso cercare di procurargliela, se lo desidera. – Mi sembra di capire che dopo quella lettera non ce ne siano più state altre. – Nessun’altra. E ora giudicano Stillman pronto per essere rilasciato. È la diagnosi ufficiale, in ogni modo, e non possiamo far niente per fermarli. Credo comunque che Stillman possa avere imparato la lezione. Ha capito che con le lettere e le minacce sarebbe rimasto sotto chiave. – Perciò è ancora preoccupata. – Esattamente. – E cosa vorrebbe che facessi? – Voglio che lo sorvegli con la massima cura. Voglio che scopra che intenzioni ha. Voglio che lo tenga lontano da Peter. – In altri termini, una specie di pedinamento imbellettato. – Immagino di sì.
– Credo si renda conto che non posso impedire a Stillman di avvicinarsi a questa casa. Posso solo avvisarla nel caso. E impegnarmi a essere presente. – Capisco. Purché sia garantita una protezione… – Bene. Con che frequenza desidera che mi metta in contatto con lei? – Vorrei che mi facesse rapporto tutti i giorni. Diciamo una telefonata la sera, intorno alle dieci o alle undici. – Nessun problema. – Non ha altro da dirmi? – Solo qualche domanda. Per esempio, sarei curioso di sapere come ha scoperto che Stillman arriverà alla Grand Central domani sera. – Ho mosso le mie leve, signor Auster. La posta è troppo grande per affidarsi al caso. E se Stillman non verrà seguito dal momento dell’arrivo, potrà facilmente dileguarsi senza lasciare traccia. Non voglio che questo succeda. – Su che treno sarà? – Sul sei–quattro–uno, che arriva da Poughkeepsie. – Presumo che abbia una foto di Stillman. – Naturalmente, sì. – C’è anche la questione di Peter. Innanzitutto vorrei sapere perché lo ha messo al corrente. Non sarebbe stato meglio tacere la novità? – Era mia intenzione, infatti. Ma quando ho appreso del rilascio di suo padre, Peter casualmente ascoltava all’altro apparecchio. Non ci potevo far nulla. Peter sa essere molto testardo, e col tempo ho imparato che è meglio non mentirgli. – Un’ultima domanda. Chi vi ha suggerito di rivolgervi a me? – Il marito della signora Saavedra, Michael. È un ex poliziotto, e ha fatto alcune ricerche, scoprendo che in città lei è il migliore per questo tipo di cose. – Lusingato. – Da quello che finora ho visto di lei, signor Auster, sono sicura di avere scelto l’uomo giusto. Quinn lo interpretò come un velato cenno ad alzarsi. Fu un sollievo poter finalmente allungare le gambe. Le cose erano andate bene, assai meglio di quanto si aspettasse, ma adesso aveva mal di testa, e il corpo indolenzito per uno sfinimento che non aveva provato da anni. Era sicuro che protraendo la finzione avrebbe finito per tradirsi. – La mia tariffa è di cento dollari al giorno più le spese, – disse. – Se
potesse darmi un anticipo, sarebbe la prova che sto lavorando per lei… il che istituirebbe un rapporto privilegiato investigatore–cliente. Vale a dire che tutto quanto intercorre fra di noi sarebbe coperto dalla più stretta confidenzialità. Virginia Stillman sorrise, come a una battuta pronunciata fra sé. O forse solo in reazione al possibile doppio senso di quell’ultima frase. Come riguardo a tante cose che gli capitarono nei giorni e nelle settimane successive, Quinn non ne era per niente sicuro. – Quanto desidera? – chiese la donna. – Non importa. Faccia lei. – Cinquecento? – Sarebbero più che sufficienti. – Bene. Vado a prendere il libretto degli assegni –. Virginia Stillman si alzò e sorrise di nuovo a Quinn. – Le prendo anche la foto del padre di Peter. Credo di sapere dove trovarne una. Quinn ringraziò e disse che l’avrebbe aspettata. La guardò mentre usciva dalla stanza, scoprendosi a immaginare un’altra volta come sarebbe stata senza vestiti. Lo stava in qualche modo seducendo, si chiese, o era solo la sua mente che al solito tentava di mettergli i bastoni fra le ruote? Decise di differire le meditazioni e tornare sull’argomento più tardi. Virginia Stillman rientrò nella stanza e disse: – Ecco l’assegno. Spero di averlo compilato correttamente. Sì, sì, pensò Quinn mentre lo esaminava, tutto è a puntino. Era compiaciuto della propria scaltrezza. Ovviamente l’assegno era intestato a Paul Auster, perciò Quinn non sarebbe stato perseguibile per avere impersonato un poliziotto privato senza avere la licenza. Lo rassicurò il pensiero di essersi in definitiva coperto le spalle. Il fatto che non avrebbe mai potuto riscuotere l’assegno non lo turbava. Sapeva già da allora che in quella storia non faceva niente per denaro. Si infilò il pezzo di carta nella tasca interna della giacca. – Mi spiace che non abbiamo foto più recenti, – stava dicendo Virginia Stillman. – Questa risale a più di vent’anni fa. Ma temo sia il massimo che posso fare. Quinn guardò la foto del volto di Stillman sperando in un’epifania improvvisa, un improvviso slancio di conoscenza sotterranea che l’aiutasse a comprendere l’uomo. Ma l’immagine non gli disse nulla. Niente più
dell’immagine di un uomo. La studiò ancora per un momento e concluse che avrebbe potuto essere chiunque. – La osserverò più attentamente quando arrivo a casa, – disse, riponendola nella stessa tasca che aveva inghiottito l’assegno. – Tenuto conto del tempo che è passato, sono certo che domani alla stazione lo saprò riconoscere. – Me lo auguro, – disse Virginia Stillman. – È terribilmente importante, e conto su di lei. – Non si preoccupi, – disse Stillman. – Non ho mai deluso nessuno. Lo accompagnò alla porta. Vi rimasero in silenzio per qualche secondo, incerti se ci fosse dell’altro da aggiungere o se fosse venuto il momento di salutarsi. In quel breve intervallo, a un tratto, Virginia Stillman gettò le braccia al collo di Quinn, ne cercò le labbra e lo baciò appassionatamente, affondandogli la lingua in bocca. Quinn fu preso così alla sprovvista che non ne trasse quasi alcun piacere. Quando lui infine riprese a respirare, la signora Stillman lo tenne a distanza di braccio e disse: – L’ho fatto per dimostrarle che Peter non le diceva la verità. È molto importante che lei mi creda. – Le credo, – disse Quinn. – E anche se non le credessi, non conterebbe poi molto. – Volevo solo che sapesse di cosa sono capace. – Penso di essermene fatto un’idea. Gli prese la mano destra fra le sue e la baciò. – Grazie, signor Auster. Credo che lei sia proprio la persona giusta. Lui promise che avrebbe telefonato la sera dopo, poi si ritrovò a uscire dalla porta, a prendere l’ascensore in discesa e a lasciare l’edificio. Quando fu in strada era mezzanotte passata.
4. Quinn aveva già sentito parlare di casi simili a quello di Peter Stillman. Nei giorni della sua vita precedente, poco dopo la nascita del figlio, aveva recensito un libro che parlava del ragazzo selvaggio di Aveyron, e perciò si era documentato sull’argomento. A quanto ricordava, i primi resoconti di esperimenti del genere compaiono nelle opere di Erodoto: nel VII secolo a. C. il faraone egiziano Psammetico isolò due neonati ordinando allo schiavo cui erano affidati di non pronunciare mai una parola in loro presenza. Secondo Erodoto, cronista di famigerata inaffidabilità, i bimbi appresero a parlare: la loro prima parola fu «pane» in lingua frigia. Nel Medioevo l’imperatore Germanico Federico II ripeté l’esperimento con metodi analoghi nella speranza di scoprire il vero «idioma naturale» dell’uomo: ma i bambini morirono prima di avere detto una sola parola. Infine, nella prima metà del Cinquecento, il re di Scozia Giacomo IV asserì – senz’altro mendacemente – che dei bimbi scozzesi isolati in ugual modo avessero finito per parlare «in ottimo ebraico». Tuttavia non furono solo gli eccentrici e i filosofi a interessarsi dell’argomento. Anche un pensatore equilibrato e scettico come Montaigne esaminò attentamente la questione, e nel suo saggio più importante, l’Apologia di Raymond Sebond, scrisse: «Io credo che un fanciullo che sia stato allevato in completa solitudine, lontano da qualsiasi rapporto umano (e sarebbe un esperimento difficile a effettuarsi) avrebbe qualche sorta di linguaggio per esprimere le proprie idee. E non è credibile che la Natura abbia negato a noi quella risorsa che ha elargito a tanti altri animali… Ma è ancora da sapere quale lingua quel bimbo parlerebbe; e ciò che per congettura se ne è detto non appare probabile». A parte gli esperimenti, ci sono stati i casi di isolamento accidentale – bambini smarriti nei boschi o allevati dai lupi, naufraghi su un’isola deserta – oltre a quelli di genitori crudeli e sadici che segregavano i loro figli, li incatenavano al letto, li picchiavano dentro gli armadi, li torturavano senza altro motivo che la coazione della loro follia: e Quinn aveva compulsato la
vasta letteratura dedicata a queste vicende. C’era stato il marinaio scozzese Alexander Selkirk (da alcuni ritenuto il modello di Robinson Crusoe) che visse quattro anni in solitudine su un’isola al largo della costa cilena e, secondo il capitano della nave che lo soccorse nel 1708, «per mancanza di pratica aveva scordato la sua lingua a tal punto che a stento riuscivamo a comprenderlo». Meno di vent'anni più tardi Peter di Hannover, un fanciullo selvaggio di circa quattordici anni, scoperto muto e ignudo in una foresta presso la cittadina tedesca di Hamelin, fu condotto alla corte d’Inghilterra sotto la speciale protezione di Giorgio I. Sia Swift sia Defoe ebbero la possibilità di avvicinarlo, e l’esperienza sfociò nell’opuscolo di Defoe Mere Nature Delineated (1726). Peter però non imparò mai a parlare, e alcuni mesi dopo fu mandato in campagna dove visse fino a settant’anni senza mostrare interesse né per il sesso, né per il denaro né per altri aspetti del mondo. Poi ci fu il caso di Victor, il fanciullo selvaggio di Aveyron scoperto nel 1800. Grazie alle cure pazienti e scrupolose del dr. Itard, Victor imparò alcuni rudimenti del linguaggio, ma mai oltre un livello infantile. Ancor più famoso di Victor fu Kaspar Hauser, che apparve a Norimberga un pomeriggio del 1828 con indosso un bizzarro costume, praticamente incapace di proferire alcun suono comprensibile. Sapeva scrivere il proprio nome, ma per il resto si comportava come un infante. Adottato dalla città e affidato alle cure di un insegnante locale, passava le giornate seduto sul pavimento a baloccarsi con i cavallini giocattolo, mangiando solo pane e acqua. Tuttavia Kaspar fece dei progressi. Diventò un ottimo cavallerizzo, diventò maniaco della pulizia, gli nacque una passione per i colori bianco e rosso, e a detta di tutti dimostrò una memoria eccezionale, specialmente per i nomi e per i volti. Tuttavia, preferiva rimanere in casa, fuggiva la luce troppo intensa e, come Peter di Hannover, non manifestò mai interesse per il sesso o per il denaro. A mano a mano che in lui riaffiorava il ricordo del passato, ricordò di avere trascorso molti anni sul pavimento di una stanza oscurata, nutrito da un uomo che non gli parlava mai né gli mostrava il volto. Non molto tempo dopo queste rivelazioni, Kaspar fu ucciso a coltellate da uno sconosciuto in un parco pubblico. Per la prima volta dopo anni Quinn permetteva a se stesso di pensare a queste vicende. Lo faceva soffrire troppo pensare ai bambini, specie a quelli che avevano sofferto, erano stati maltrattati o erano morti prima di essere cresciuti. Se Stillman era l’uomo con il coltello, tornato a vendicarsi del
ragazzo cui aveva rovinato la vita, Quinn voleva essere presente per fermarlo. Sapeva che non avrebbe potuto far rivivere il figlio, ma almeno ne avrebbe salvato un altro dalla morte. All’improvviso gliene veniva offerta l’opportunità e adesso, in strada, l’idea di quello che gli si prospettava si ingigantì come un incubo atroce. Pensò alla piccola bara che racchiudeva il corpo del figlio, a come l’aveva vista calare sotto terra il giorno del funerale. Quello era l’isolamento, disse fra sé. Quello era il silenzio. Forse non era un vantaggio che anche suo figlio si fosse chiamato Peter.
5. All’angolo della Settantaduesima con Madison Avenue, alzò la mano per chiamare un taxi. Mentre la vettura procedeva attraverso il parco verso il West Side, Quinn guardava fuori dal finestrino chiedendosi se quelli erano gli stessi alberi che vedeva Peter Stillman quando usciva all’aria e alla luce. Si chiedeva se Peter vedeva le stesse cose che vedeva lui, o se invece il mondo gli appariva diverso. E se un albero non è un albero, si chiedeva cosa fosse veramente. Quando il taxi lo lasciò sotto casa, Quinn si accorse di essere affamato. Non mangiava dalla prima colazione, al mattino presto. Strano, pensò, com’era passato in fretta il tempo nell’appartamento di Stillman. Se i suoi calcoli erano esatti, ci era rimasto più di quattordici ore. Mentre dentro di sé gli sembrava che al massimo ne fossero trascorse tre o quattro. Scrollò le spalle a questa discrepanza considerando fra sé: «Devo imparare a guardare più spesso l’orologio». Ritornò sui propri passi lungo la Centosettesima, girando a sinistra su Broadway e allontanandosi dal centro, alla ricerca di un luogo dove mangiare. Quella notte non gli andava l’idea di un bar – dover consumare al buio, schiacciato fra le chiacchiere degli ubriachi – che pure normalmente avrebbe gradito. Attraversando la Centododicesima, vide che la Heights Luncheonette era aperta e decise di entrarvi. Malgrado la potente illuminazione era un posto squallido, con uno scaffale coperto di giornali pornografici su una parete, una zona di articoli di cancelleria, una zona per i quotidiani, alcuni tavoli per i clienti e un lungo bancone di formica con gli sgabelli girevoli. Dietro il banco, un portoricano alto con il cappello da cuoco di cartone bianco. Il suo lavoro era cucinare i piatti, che consistevano essenzialmente di hamburger venati di cartilagine, insulsi panini con pomodori smorti e lattughe avvizzite, frappé, budini e paste. Alla sua destra, nascosto dal registratore di cassa, c’era il proprietario, un uomo basso e stempiato con i capelli ricci e il numero del lager tatuato sull’avambraccio,
che spadroneggiava nel suo feudo di sigarette, pipe e sigari. Sedeva impassibile, leggendo l’edizione notturna del «Daily News». A quell’ora il posto era quasi deserto. Al tavolino in fondo al locale erano seduti due vecchi dai vestiti logori, uno molto grasso e l’altro magrissimo, concentrati a studiare il bollettino delle corse dei cavalli. Più avanti, di fronte alla parete dei porno, c’era un giovane studente con un giornale aperto in mano, che guardava la foto di una donna nuda. Quinn sedette al banco e ordinò un hamburger e un caffè. Il portoricano entrò in azione e simultaneamente attaccò discorso parlando sopra la propria spalla. – L’ha vista la partita stasera? – Me la sono persa. Buone notizie? – Lei cosa pensa? Erano anni che fra Quinn e quell’uomo per lui anonimo si ripeteva la stessa conversazione. Un giorno era entrato nella tavola calda e avevano parlato di baseball; e da allora, ogni volta che arrivava, ricominciavano a parlarne. Durante l’inverno i temi erano il mercato dei giocatori, i pronostici, i ricordi. Durante la stagione, sempre l’ultima partita. Erano entrambi tifosi dei Mets, e la disperazione di quell’amore aveva creato fra loro un legame. Il portoricano scosse la testa. – Nei primi due tutto okay, Kingman ha sparato delle bombe, – disse, – bum, bum. Missili terra–aria… da bucare la luna. Per una volta in vita sua Jones ha lanciato bene, e sembrava che le cose si mettevano discrete. Stiamo due a uno, seconda fase del nono. Pittsburgh ha uomini in seconda e terza, e uno out, per cui i Mets chiamano dal recinto Alien. Lui regala la base per caricarli. I Mets presidiano le basi per una doppia eliminazione se arriva oltre la metà campo. Va a battere Pena e ti fa una cacatina di battuta rimbalzante verso la prima, ma non vuoi che Kingman si fa passare la cacatina fra le gambe… Due a casa ed è finita, ciao New York. – Dave Kingman è un coglione, – commentò Quinn addentando l’hamburger. – Ma occhio a Foster, però, – disse il portoricano. – Foster è spremuto. Un ex. Un pirla con la faccia da duro –. Quinn masticò accuratamente il cibo, sondando con la lingua l’eventuale presenza di frammenti ossei. – Dovrebbero rispedirlo per espresso a Cincinnati. – Vero, – disse il portoricano. – Però questa stagione non sono male. Meglio dell’anno scorso, in ogni modo.
– Non lo so, – disse Quinn addentando un altro morso. – Sulla carta sembrano buoni, ma in fondo chi hanno? Stearns è sempre rotto. In seconda e interbase c’è gente da campionati regionali, e Brook ha dei cali di tensione. Mookie ci prende, ma è grezzo e a destra non sanno nemmeno chi mettere. Rimane Rusty, naturalmente, ma ormai è troppo grasso per correre. E quanto ai lanci, lasci perdere. Domani io e lei potremmo andare allo Shea e farci ingaggiare come primi lanciateri. – Quasi quasi la nomino allenatore, – disse il portoricano. – Potrebbe spiegare a tutti quegli stronzi come si sta in campo. – Può scommetterci la camicia, – disse Quinn. Finito di mangiare, Quinn andò agli scaffali degli articoli di cancelleria. Era giunta una partita di nuovi bloc–notes che formavano una catasta variopinta, un magnifico spiegamento di azzurri e di verdi, di rossi e di gialli. Ne prese uno e vide che le pagine erano a righe sottili come piaceva a lui. Quinn scriveva sempre tutto a penna, battendo a macchina solo l’ultima stesura, ed era sempre in cerca di buoni taccuini a spirale. Adesso che si era imbarcato nel caso Stillman, gliene sarebbe occorso uno nuovo. Era utile disporre di un luogo specifico dove annotare i pensieri, le osservazioni e le domande. In questo modo forse avrebbe mantenuto il controllo sugli eventi. Esaminò la catasta tentando di scegliere. Per motivi che non riuscì mai a chiarire, sentì improvvisamente un’attrazione irresistibile per un particolare taccuino rosso in fondo al mucchio. Lo tirò fuori e lo esaminò, facendo scorrere cautamente le pagine con il pollice. Non capiva perché lo trovasse così affascinante. Era un comune bloc-notes di cento pagine, ventuno-perventicinque. Ma qualcosa in quel taccuino sembrava fare appello a lui, quasi che il suo unico destino nel mondo fosse quello di contenere le parole uscite dalla penna di Quinn. Quasi imbarazzato per l’intensità delle proprie sensazioni, Quinn mise il taccuino sottobraccio, andò alla cassa e lo acquistò. Un quarto d’ora dopo, tornato a casa, Quinn prese dalla tasca della giacca la foto di Stillman e l’assegno, posandoli con cura sulla scrivania. Liberò il piano dai rimasugli – fiammiferi bruciati, mozziconi di sigaretta, cenere, cartucce d’inchiostro usate, qualche moneta, matrici di biglietti, scarabocchi, un fazzoletto sporco – e mise al centro il taccuino rosso. Poi abbassò le tendine alle finestre, si spogliò completamente e sedette alla scrivania. Non l’aveva mai fatto prima, ma in quel momento, chissà perché, gli sembrava giusto essere nudo. Restò seduto venti o trenta secondi cercando di non
muoversi, di non far niente salvo respirare. Poi aprì il taccuino rosso. Prese la penna e scrisse le proprie iniziali, D. Q. (cioè Daniel Quinn) in prima pagina. Era da più di cinque anni che non firmava un taccuino con il suo vero nome. Si fermò un attimo a meditare questo fatto, ma poi lo giudicò marginale e lo accantonò. Voltò la pagina. Per qualche istante ne osservò la vuotezza, domandandosi se non era un maledetto idiota. Poi premette la penna sulla prima riga in alto e scrisse la prima nota sul taccuino rosso. La faccia di Stillman. Ovvero: la faccia di Stillman com’era vent’anni fa. Impossibile sapere se domani la faccia somiglierà a questa. È sicuro, del resto, che non sia la faccia di un pazzo. O questa non è un’affermazione legittima? Perlomeno ai miei occhi, sembra cordiale, se non decisamente gradevole. Persino un’ombra di tenerezza intorno alla bocca. Con tutta probabilità occhi azzurri, tendenti al color acqua. Capelli radi già allora, quindi adesso caduti, forse, e quelli che restano grigi o addirittura bianchi. Denota una strana familiarità: il tipo meditativo, senza dubbio nervoso, uno che potrebbe balbettare, lottare con se stesso per arginare il fiume di parole che gli scorre di bocca. Il piccolo Peter. È necessario che me lo immagini, o posso assumerlo come un atto di fede? L’oscurità. Pensare a me stesso in quella stanza, che urlo. Sono restio. E non penso neppure di volerlo capire. A che scopo? Questa non è una storia, dopo tutto. È un fatto, qualcosa che succede nel mondo, e io dovrei svolgere un incarico, un piccolo lavoro, e ho accettato. Se tutto va bene, dovrebbe essere anche relativamente semplice. Non sono stato assunto per capire – soltanto per agire. È un fatto nuovo. Da tenere a mente, a tutti i costi. E d’altra parte, cosa dice Dupin in Poe? «Un’identificazione dell’intelletto del ragionatore con quello dell’antagonista». Ma qui riguarderebbe Stillman senior. Il che probabilmente è ancora peggio. Quanto a Virginia. Sono in un rebus. Non solo il bacio, che si potrebbe spiegare con infinite ragioni; né quello che Peter ha detto di lei, che è irrilevante. Il suo matrimonio? Può darsi. La sua completa illogicità. L’avrà fatto per i soldi? Oppure in qualche modo agisce in combutta con Stillman? Questo cambierebbe tutto. Ma nel contempo non ha senso. Perché, a quale scopo mi avrebbe assunto? Per garantirsi un testimone delle sue intenzioni apparentemente oneste? Può darsi. Ma sembra troppo tortuoso. Eppure: perché sento di non potermi fidare di lei?
Ancora la faccia di Stillman. Il pensiero, in questi ultimi minuti, che l’ho già vista. Forse anni fa nel quartiere… prima che lo arrestassero. Ricordare cosa si prova a indossare i vestiti degli altri. Cominciare da qui, credo. Presupponendo che debba farlo. Indietro fino ai vecchi tempi, diciotto, venti anni fa, quando non avevo quattrini e gli amici mi davano i vestiti da mettermi. Il vecchio cappotto di J. al college, per esempio. E quella strana sensazione di infilarmi sotto la sua pelle. Probabilmente questo è un inizio. E poi, più importante di tutto: ricordare chi sono. Ricordare chi dovrei essere. Non credo che questo sia un gioco. D’altra parte, non c’è niente di chiaro. Per esempio: tu chi sei? E se pensi di saperlo, perché continui a mentire? Non ho risposta. Non posso dire altro che questo: ascoltami. Mi chiamo Paul Auster. Non è il mio vero nome.
6. Quinn trascorse il mattino successivo alla biblioteca della Columbia con il libro di Stillman. Arrivò presto, fu il primo all’apertura, e il silenzio dei saloni di marmo lo rassicurò, come se gli fosse stato accordato l’accesso a una cripta di oblio. Dopo avere mostrato la tessera di ex studente all’addetto insonnolito dietro la scrivania, prese il libro, tornò al terzo piano e si accomodò su una poltroncina di pelle verde in una delle sale per fumatori. La luminosa mattina di maggio ammiccava da fuori come una tentazione, un richiamo a vagare senza meta nell’aria, ma Quinn lo respinse. Girò la sedia, mettendosi di spalle alla finestra, e aprì il volume. Il Giardino e la Torre. Antiche visioni del Nuovo Mondo era diviso in due parti, grosso modo della medesima lunghezza: «Il mito del Paradiso» e «Il mito di Babele». La prima si concentrava sulle scoperte e sugli esploratori, iniziando da Colombo e proseguendo con Raleigh. La tesi di Stillman era che i primi uomini che approdarono in America credettero di avere trovato per caso il paradiso terrestre, un secondo Giardino dell’Eden. Nel resoconto del suo terzo viaggio, per esempio, Colombo scriveva: «Poiché io credo che laggiù si trovi il Paradiso terrestre ove nessuno può entrare senza il permesso di Dio». Quanto ai popoli di quella terra, già nel 1505 Peter Martyr avrebbe scritto: «Sembrano dimorare in quel mondo dorato di cui tanto discorrono gli antichi, ove gli uomini vivevano nella semplicità e nell’innocenza, senz’obbligo di legge, senza liti, magistrati o libelli, contenti solo di compiacere alla natura». Oppure, come avrebbe scritto più di un secolo dopo l’onnipresente Montaigne: «A mio giudizio, ciò che vediamo realizzato in codeste nazioni non solo supera ogni figurazione dell’Età dell’Oro che i poeti abbiano composto, come tutte le loro invenzioni tese a rappresentare la condizione allor felice del genere umano, ma il concetto e il desiderio della filosofia medesima». Fin dal principio, secondo Stillman, la scoperta del Nuovo Mondo fu l’impulso che stimolò il pensiero utopico, la scintilla che nutrì la speranza nella perfettibilità della vita umana: dal libro di Tommaso Moro (1516) alla profezia di poco successiva di Geronimo de Mendieta
secondo cui l’America sarebbe divenuta lo stato teocratico ideale, un’autentica Città di Dio. Ci fu d’altronde un punto di vista opposto. Se per alcuni gli indiani vivevano in uno stato di innocenza edenica, altri li reputavano bestie feroci, demoni in forma umana. La scoperta del cannibalismo nei Caraibi non contribuì a mitigare questa condanna. Gli spagnoli se ne servirono per giustificare lo spietato sfruttamento dei nativi a scopi mercantili. Perché se non si reputa umano l’uomo che si ha di fronte, la coscienza ha poche remore verso di lui. Fu solo nel 1537, con la bulla papale di Paolo III, che gli indiani furono dichiarati veri uomini, in possesso di un’anima. Tuttavia la diatriba proseguì per vari secoli, culminando da una parte nella teoria del «buon selvaggio» di Locke e Rousseau – che pose i fondamenti teorici della democrazia in un’America indipendente – e dall’altra nella campagna per lo sterminio degli indiani, nella convinzione dura a morire che l’unico indiano buono è quello morto. La seconda parte del libro cominciava con un nuovo esame della caduta. Basandosi sostanzialmente su Milton e sulla sua narrazione nel Paradiso Perduto – emblema della posizione puritana ortodossa – Stillman sosteneva che solo dopo la caduta si attuò la vita umana come la conosciamo. Giacché, se nel Giardino non esisteva il male, non c’era nemmeno il bene. Come scrisse lo stesso Milton nell’Areopagitica, «Fu dalla scorza di una mela assaporata che il bene e il male balzarono nel mondo, come due gemelli usciti (cleaving) insieme». La glossa di Stillman a questa frase era eccessivamente esaustiva. Sempre attento alla possibilità di bisticci e giochi di parole, mostrava come il termine «assaporare» richiamasse in realtà la parola latina sapere, che significa sia «avere sapore» sia «conoscere», quindi contiene un’allusione subliminale all’albero del Bene e del Male, origine della mela il cui sapore trasmise al mondo la conoscenza, cioè appunto il bene e il male. Stillman si soffermava anche sul paradosso del verbo to cleave, che significa sia «unire insieme» sia «separare», racchiudendo così due significati uguali e opposti, il che a sua volta racchiude un’idea del linguaggio che Stillman ravvisava in tutta l’opera di Milton. Per esempio, nel Paradiso Perduto, ogni parola chiave ha due significati: uno antecedente, e l’altro successivo alla caduta. Per dimostrarlo, Stillman evidenziava alcune di queste parole – sinistro, serpentino, delizioso – mostrando come il loro uso edenico fosse privo di connotazioni morali, mentre dopo la caduta assumevano valori
sfumati, ambigui, irrorati della consapevolezza del male. Nel paradiso terrestre il solo compito di Adamo era stato inventare il linguaggio, dare il proprio nome a ogni oggetto e creatura. In tale condizione d’innocenza, la lingua era penetrata direttamente nel vivo del mondo. Le parole non si erano semplicemente applicate alle cose che vedeva: ne avevano svelato le essenze, le avevano letteralmente vivificate. La cosa e il nome erano intercambiabili. Dopo la caduta, questo non valeva più. I nomi cominciarono a staccarsi dalle cose; le parole degenerarono in un ammasso di segni arbitrari; il linguaggio era disgiunto da Dio. Dunque la storia del Giardino non ricorda soltanto la caduta dell’uomo, ma quella del linguaggio. In un passo successivo del libro della Genesi, c’è un’altra storia sul linguaggio. Secondo Stillman, l’episodio della Torre di Babele è una puntuale riesposizione di ciò che era avvenuto nel Giardino: solo, ampliata, rappresentata nel suo valore complessivo per tutto il genere umano. Il racconto assume un significato speciale se se ne considera la collocazione nel libro: undicesimo capitolo della Genesi, versetti da uno a nove. È l’ultimissimo fatto preistorico della Bibbia. In seguito, l’Antico Testamento diventa esclusivamente una cronaca del popolo di Israele. In altre parole, la Torre di Babele si profila come un’estrema immagine prima che il mondo inizi veramente. Il commento di Stillman si dilungava per molte pagine. Cominciava con un esame storico delle varie tradizioni ermeneutiche del racconto, elaborato a partire dai tanti fraintendimenti nati su di esso, e terminava con un prolisso catalogo di leggende tratte dalla Haggadah (un compendio di interpretazioni rabbiniche svincolate dagli elementi giuridici). Generalmente, scriveva Stillman, si concordava che la Torre fosse stata eretta nell’anno 1996 dopo la creazione, 340 anni scarsi dopo il Diluvio, «perché il genere umano non si disperdesse su tutta la terra». Il castigo divino giunse come reazione a quel desiderio che contraddiceva un ordine già riportato nella Genesi: «Crescete e moltiplicatevi, popolate la terra e regnate su di essa». Perciò distruggendo la Torre Dio condannava l’uomo a obbedire al suo ordine. Un’altra lettura, invece, vedeva la Torre come una sfida contro Dio. Nimrod, primo potente di tutta la terra, fu indicato come architetto della Torre: Babele doveva essere il tempio che avrebbe simboleggiato l’universalità del suo potere. Questa è l’interpretazione prometeica della storia, imperniata sulle frasi «la cui cima tocchi il cielo» e «facciamoci un
nome». La costruzione della Torre diventò l’ossessiva, travolgente passione del genere umano, più importante della vita stessa. I mattoni divennero più preziosi delle persone. Le gestanti non si interrompevano nemmeno dopo aver partorito i figli: avvolgevano i neonati nei grembiuli e continuavano il lavoro. Pare che nella costruzione fossero coinvolti tre gruppi diversi: coloro che volevano vivere nel cielo, coloro che volevano muovere guerra a Dio, e coloro che volevano adorare gli idoli. Nel contempo, erano solidali nei loro sforzi – «Tutta la terra aveva un solo popolo e le stesse parole» – e il latente potere del genere umano unito recava oltraggio a Dio. «E il Signore disse, Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera: e ora nulla di quanto progetteranno di fare sarà loro impossibile». Questo discorso è un’eco consapevole delle parole pronunciate da Dio mentre cacciava Adamo ed Eva dal Giardino: «Ecco, l’uomo è divenuto uno di noi, con la conoscenza del bene e del male; e ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre! Perciò il Signore Iddio lo scacciò dal giardino di Eden…» Secondo un’altra lettura ancora, la storia era interpretata semplicemente come un modo per spiegare le differenze fra i popoli e le lingue. Perché se tutti gli uomini discendevano da Noè e dai suoi figli, com’era possibile giustificare le grandi differenze fra culture? Un’altra, analoga interpretazione asseriva che la storia fosse una spiegazione per l’esistenza del paganesimo e dell’idolatria: poiché fino a quel punto tutta l’umanità viene rappresentata come monoteista. Quanto alla Torre in sé, secondo la leggenda un terzo dell’edificio sprofondò sotto terra, un terzo fu distrutto dal fuoco, e un terzo venne lasciato in piedi. Dio l’assalì in due modi differenti per convincere l’uomo che la distruzione era un castigo divino, e non l’effetto del caso. Eppure la parte restante era così alta che dalla sua sommità una palma sembrava piccola come una cavalletta. Si diceva anche che una persona potesse camminare tre giorni senza uscire dall’ombra della torre. Infine – e Stillman indugiava lungamente su questa tradizione – si credeva che chiunque guardasse le rovine della Torre avrebbe dimenticato tutto ciò che conosceva. Quale attinenza avesse tutto ciò con il Nuovo Mondo, Quinn non sapeva dirlo. Poi però cominciava un nuovo capitolo in cui di punto in bianco Stillman passava a occuparsi della vita di Henry Dark, un religioso di Boston nato a Londra nel 1649 (il giorno dell’esecuzione di Carlo I), emigrato in
America nel 1675 e morto in un incendio a Cambridge, Massachusetts, nel 1691. Secondo Stillman, da giovane Henry Dark era stato il segretario particolare di John Milton: dal 1669 fino alla morte del poeta, cinque anni dopo. Questa per Quinn era una novità, dato che gli sembrava di ricordare che Milton, diventato cieco, avesse dettato le composizioni a una delle figlie. Apprese che Dark era un fervente puritano, studente di teologia e devoto ammiratore dell’opera di Milton. Avendo conosciuto il suo eroe una sera, a una piccola riunione, fu invitato da lui a fargli visita la settimana dopo. A quel primo incontro ne seguirono altri, finché Milton cominciò ad affidare a Dark vari piccoli incarichi: scrivere sotto dettatura, accompagnarlo per le strade di Londra, leggergli brani dalle opere dei classici. In una lettera inviata alla sorella a Boston nel 1672, Dark accennava alle lunghe discussioni con Milton sui punti più sottili dell’esegesi biblica. Poi Milton morì e Dark fu inconsolabile. Sei mesi più tardi, poiché l’Inghilterra gli appariva un deserto, una terra che non aveva nulla da offrirgli, decise di emigrare in America. Nell’estate del 1675 giunse a Boston. Poco si seppe dei primi anni da lui trascorsi nel Nuovo Mondo. Stillman ipotizzava che avesse viaggiato verso ovest, arrivando a perlustrare territori inesplorati, ma non ne poteva produrre alcuna prova certa. D’altro lato, talune allusioni negli scritti di Dark indicavano una diretta conoscenza dei costumi degli indiani, portando Stillman a teorizzare che Dark fosse vissuto per un certo periodo in una tribù. Sia come sia, non troviamo notizie pubbliche di Dark fino al 1682, quando il suo nome fu riportato nel registro matrimoniale di Boston avendo egli preso in moglie una certa Lucy Fitts. Due anni dopo, era menzionato come capo di una piccola congregazione puritana nelle vicinanze della città. La coppia generò alcuni figli, che morirono tutti da piccoli. Uno solo – John, nato nel 1686 – sopravvisse: ma a quanto sappiamo nel 1691 il bambino cadde accidentalmente da una finestra al primo piano e restò ucciso. Solo un mese più tardi l’intera casa andò in fiamme e perirono sia Dark sia la moglie. Henry Dark sarebbe stato inghiottito dal buio di quegli anni iniziali dell’America se non fosse stato per un particolare: la pubblicazione nel 1690 di un libretto intitolato La Nuova Babele. Secondo Stillman, questo trattatello di sessantaquattro pagine era la più visionaria descrizione del nuovo continente che fosse stata scritta fino allora. Se Dark non fosse scomparso
poco dopo la sua uscita, sicuramente il libro avrebbe avuto molta più risonanza. Poiché si scoprì che la maggior parte delle copie erano andate distrutte nell’incendio che aveva ucciso Dark. Lo stesso Stillman era riuscito a scoprirne una soltanto… e casualmente, nel solaio della casa di famiglia a Cambridge. Dopo anni di zelanti ricerche aveva concluso che quella era l’unica copia ancora esistente. La Nuova Babele, scritta in una nitida prosa miltoniana, illustrava le ragioni per cui si sarebbe potuto costruire il paradiso in America. A differenza di altri che avevano scritto sull’argomento, Dark non presupponeva che il paradiso fosse un luogo da scoprire. Non esistevano mappe che potessero condurvi l’uomo, né strumenti di navigazione capaci di guidarlo alle sue rive. La sua esistenza invece era immanente nell’uomo stesso: l’idea di un aldilà che forse un giorno egli avrebbe creato nel qui–e– ora. Perché l’utopia non si trova in nessun luogo… nemmeno, spiegava Dark, nella sua stessa «verbalità». E se l’uomo aveva una possibilità di materializzare quel luogo sognato, era solo edificandolo con le proprie mani. Dark basava le proprie conclusioni su una lettura della storia di Babele come testo profetico. Basandosi massimamente sull’interpretazione della caduta data da Milton, seguiva il maestro nell’attribuire un’importanza esorbitante al ruolo del linguaggio. Ma portava le idee del poeta un passo più avanti. Se la caduta dell’uomo implicava anche una caduta del linguaggio, non era logico presumere che si sarebbe potuta ribaltare la caduta stessa, e capovolgerne gli effetti, se si ribaltava la caduta del linguaggio, impegnandosi a ricreare quello parlato nell’Eden? Se l’uomo fosse riuscito ad apprendere la lingua originale dell’innocenza, non ne conseguiva che in quel modo, dentro di sé, si sarebbe riappropriato di tutta una condizione d’innocenza? Bastava guardare all’esempio di Cristo, considerava Dark, per capire che ciò era realizzabile. Perché Cristo non era forse un uomo, una creatura in carne e ossa? E non parlava forse quel linguaggio edenico? Nel Paradiso Riconquistato di Milton, Satana parla con «illusorio doppio senso», mentre in Cristo «le azioni s’accordano alle sue parole, le parole | Al suo gran cuore danno debito sbocco, e il cuore | Contiene di bontà, saggezza e giustizia la perfetta forma». E forse che Dio non ha «ora inviato il suo Oracolo vivente | Nel mondo a insegnarci il suo ultimo volere, | E quindi lo Spirito di Verità che alberghi | Nei cuori pii, Oracolo interiore | Per tutta la Verità che mi occorre conoscere»? E forse che la caduta, grazie a Cristo, non ha avuto
conseguenze felici, non è stata una felix culpa come insegna la dottrina? Conseguentemente, affermava Dark, sarebbe stato possibile all’uomo parlare la lingua originale dell’innocenza riacquistando, integra e intatta, la verità dentro noi stessi. Passando poi al racconto babelico, Dark elaborava il progetto e annunciava la propria visione delle cose a venire. Citando il secondo versetto di Genesi, II – «Emigrando dall’oriente gli uomini trovarono una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono» – sosteneva che il brano dimostrasse lo spostamento verso ovest della vita e della civiltà dell’uomo. Perché la città di Babele – o Babilonia – si trovava in Mesopotamia, molto più a levante della terra degli ebrei. Se Babele era a occidente di qualcosa, quello doveva essere l’Eden, luogo d’origine del genere umano. Il dovere degli uomini di disseminarsi sulla terra – in obbedienza al comando divino «siate fecondi… siate numerosi sulla terra» – si attuava incontestabilmente lungo un percorso occidentale. E quale terra, si domandava Dark, in tutta la cristianità è più occidentale dell’America? Perciò l’emigrazione dei coloni inglesi verso il Nuovo Mondo si poteva interpretare come obbedienza all’antico comandamento. L’America era l’ultimo passo del cammino. Quando il continente fosse stato popolato, sarebbe scoccata l’ora di un mutamento nelle sorti del genere umano. L’interdizione a costruire Babele – affinché gli uomini fossero numerosi sulla terra – sarebbe venuta meno. In quel momento sarebbe stato nuovamente possibile a tutta la terra parlare una sola lingua e un solo idioma. E se accadeva questo, il paradiso non era lontano. Proprio come Babele era stata costruita 340 anni dopo il Diluvio, così, profetizzava Dark, il comandamento si sarebbe compiuto esattamente 340 anni dopo l’arrivo a Plymouth della Mayflower. Perché di certo il destino dell’uomo era nelle mani dei puritani, nuovo popolo eletto da Dio. Diversamente dagli ebrei, che avevano abbandonato Dio rifiutando di riconoscerne il figlio, questi inglesi trapiantati avrebbero scritto il capitolo finale della storia prima che cielo e terra infine si congiungessero. Come Noè sull’arca, avevano attraversato l’immenso diluvio dell’oceano per espletare la loro santa missione. Trecentoquaranta anni, secondo i calcoli di Dark, significavano che la prima parte del lavoro dei coloni sarebbe stata ultimata nel 1960. A quel punto sarebbero state pronte le fondamenta dell’opera vera e propria che doveva seguire: l’edificazione della nuova Babele. Già si manifestavano
segnali incoraggianti nella città di Boston, scriveva Dark, perché qui, a differenza di ogni altra città del mondo, il principale materiale di costruzione era il mattone: con il quale, si arguisce dal terzo versetto di Genesi, 11, era stata costruita anche Babele. Nell’anno 1960, asseriva con sicurezza, sarebbe cominciata a sorgere la nuova Babilonia, che già nella forma avrebbe anelato ai cieli, come simbolo di resurrezione dello spirito umano. La storia sarebbe stata scritta al contrario. Ciò che era caduto sarebbe stato rialzato; ciò che era stato spezzato sarebbe tornato integro. Una volta completata, la Torre sarebbe stata abbastanza grande da contenere ogni abitante del Nuovo Mondo. Ci sarebbe stata una stanza per tutti, e chi vi entrava avrebbe dimenticato tutto quello che sapeva. Dopo quaranta giorni e quaranta notti ne sarebbe uscito un altro uomo, che parlava l’idioma di Dio, pronto a vivere nel secondo, eterno paradiso. Così terminava il sunto di Stillman del libretto di Henry Dark, datato 26 dicembre 1690, settantesimo anniversario dello sbarco della Mayflower. Quinn chiuse il volume con un leggero sospiro. La sala di lettura era deserta. Si chinò in avanti, si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi. «Novecentosessanta», disse ad alta voce. Tentò di evocare un’immagine di Henry Dark, ma senza risultato. Nella mente vedeva solo fuoco, una vampata di libri in fiamme. Poi, perdendo le tracce dei propri pensieri e del punto in cui lo avevano condotto, di colpo ricordò che il 1960 era l’anno in cui Stillman aveva recluso suo figlio. Aprì il taccuino rosso appoggiandoselo in grembo. Ma proprio mentre stava per cominciare a scrivere, decise che ne aveva avuto abbastanza. Chiuse il taccuino rosso, si alzò dalla sedia e restituì il libro di Stillman al banco dei prestiti. Accendendosi una sigaretta in fondo alle scale, uscì dalla biblioteca e s’incamminò nel pomeriggio di primavera.
7. Si diresse verso la Grand Central Station con molto anticipo. L’arrivo del treno di Stillman non era previsto fino alle sei e quarantuno, ma Quinn voleva avere il tempo di studiare la topografia del luogo per assicurarsi che Stillman non potesse sfuggirgli. Quando emerse dalla metropolitana ed entrò nel grande ingresso, vide sull’orologio a muro che erano appena passate le quattro. La stazione aveva già cominciato a riempirsi della folla delle ore di punta. Aprendosi la strada nella calca, Quinn fece un giro dei binari numerati alla ricerca di scale nascoste, uscite non segnalate, recessi bui. Concluse che un uomo determinato a sparire avrebbe potuto farlo abbastanza facilmente. Doveva sperare che Stillman non fosse stato avvertito della sua presenza. In caso affermativo, e qualora lo stesso Stillman fosse riuscito a eludere la sua sorveglianza, la responsabile sarebbe stata sicuramente Virginia Stillman. Non c’erano altre possibilità. Lo consolava la certezza di avere un piano alternativo se le cose fossero andate storte. Se Stillman non arrivava, Quinn sarebbe andato dritto alla Sessantanovesima per riferire quello che sapeva a Virginia Stillman. Mentre girava per la stazione ripensò all’uomo che doveva impersonare. Aveva cominciato a rendersi conto che l’effetto di essere Paul Auster non era del tutto spiacevole. Pur mantenendo lo stesso corpo, la stessa mente, gli stessi pensieri, provava la sensazione di essere stato rapito a se stesso, come se non fosse più obbligato a portare il peso della propria coscienza. Grazie a un semplice trucco intellettuale, a un elementare contorsionismo onomastico, si sentiva incomparabilmente più leggero e più libero. Nel contempo, sapeva che era tutta un’illusione. Ma questo era anche rassicurante. Non aveva veramente perduto se stesso: simulava soltanto, con la facoltà di tornare Quinn appena lo avesse voluto. Il fatto che ora ci fosse uno scopo, a essere Paul Auster – uno scopo che per lui diventava sempre più importante – valeva da giustificazione morale per la finzione, assolvendolo dal dovere di difendere la menzogna. Perché vedersi Paul Auster, nella sua mente, era diventato sinonimo di un rapporto di armonia con il mondo.
Perciò girava per la stazione come se fosse nel corpo di Paul Auster, aspettando l’arrivo di Stillman. Alzò gli occhi al soffitto a volta dell’ingresso, osservando l’affresco delle costellazioni. C’erano delle lampadine che rappresentavano le stelle, e i contorni dipinti delle figure celesti. Quinn non era mai riuscito a capire il rapporto fra le costellazioni e i loro nomi. Da ragazzino aveva passato molte ore sotto il cielo notturno nel tentativo di far coincidere i grappoli di lumini a capocchia di spillo con le sagome di orse, tori, sagittari e acquari. Ma inutilmente: e si era sentito stupido, come se al centro del suo cervello ci fosse una zona cieca. Chissà se Auster da ragazzo era approdato a migliori risultati. All’altra estremità della stazione, occupando gran parte del muro est, c’era la foto della pubblicità Kodak con i colori vivaci e irreali. Quel mese, la fotografia ritraeva una strada in qualche villaggio di pescatori del New England, forse Nantucket. Il selciato splendeva di una stupenda luce primaverile, ai davanzali delle finestre c’erano vasi di fiori colorati e molto più in basso, all’imbocco della strada, si stendeva l’oceano con le onde bianche e l’acqua azzurra smagliante. Quinn si ricordò di avere visitato Nantucket con la moglie tanto tempo fa, al primo mese di gravidanza, quando loro figlio non era che un minuscolo fagiolo nel suo grembo. Trovò straziante ricordarlo adesso, e cercò di cancellare le immagini che gli si formavano nella mente. «Guardala con gli occhi di Auster,– disse fra sé, – e non pensare ad altro». Concentrò nuovamente l’attenzione sulla foto per scoprire con sollievo che i suoi pensieri deviavano verso le balene e le spedizioni partite da Nantucket nel secolo scorso, fino a Melville e alle pagine iniziali di Moby Dick. E da qui a ciò che aveva letto riguardo agli ultimi anni di Melville: un vecchio taciturno che lavorava alla dogana di New York, senza estimatori, dimenticato da tutti. Poi, all’improvviso, con estrema chiarezza e precisione, vide davanti a sé la finestra di Bartleby e la spoglia parete di mattoni. Qualcuno lo toccò sulla spalla, e quando Quinn ruotò per difendersi dall’aggressione vide un uomo piccolo e silenzioso che gli porgeva una penna rossa e verde. Attaccata alla penna c’era una bandierina di carta con scritto su un lato: «Questo articolo di buona qualità è offerto da un sordomuto. Pagate il prezzo che vi sentite. Grazie per l’aiuto». Sull’altro lato c’era una tabella dell’alfabeto manuale – IMPARA A PARLARE CON I TUOI AMICI – che mostrava le posizioni delle mani per ciascuna delle ventisei lettere dell’alfabeto. Quinn si
frugò in tasca e dette all’uomo un dollaro. Il sordomuto annuì una volta, molto brevemente, e si allontanò lasciando Quinn con la penna in mano. Adesso erano passate le cinque. Quinn decise che sarebbe stato meno vulnerabile in un’altra posizione e si trasferì nella sala d’aspetto. In genere era un luogo deprimente, pieno di polvere e di gente che non sapeva dove andare, ma in piena ora di punta la occupava una folla di uomini e donne con valigette, libri e giornali. Quinn faticò a trovare da sedersi. Dopo una ricerca di due o tre minuti, approdò a un posto libero su una delle panchine, incuneandosi tra un uomo vestito di blu e una ragazza paffuta. L’uomo stava leggendo il supplemento sportivo del «Times», e Quinn sbirciò la cronaca della sconfitta dei Mets della sera prima. Era arrivato al terzo o al quarto paragrafo quando l’uomo si voltò lentamente verso di lui, gli rivolse uno sguardo malevolo e gli allontanò bruscamente il giornale dagli occhi. Poi accadde una cosa strana. Quinn trasferì l’attenzione sulla ragazza alla propria destra per vedere se da quella parte trovava materiale da lettura. Doveva avere circa vent’anni. Sulla guancia sinistra aveva molti foruncoli dissimulati da un roseo impiastro di fondotinta, e in bocca faceva scricchiolare una pallina di chewing-gum. In effetti stava leggendo un libro, un tascabile dalla copertina vistosa, e Quinn si chinò impercettibilmente verso destra per leggerne almeno il titolo. Contro ogni sua aspettativa, era un libro che aveva scritto lui stesso: Pressione suicida di William Wilson, il primo dei romanzi di Max Work. Quinn aveva immaginato spesso quella situazione: l’improvviso, inatteso piacere di imbattersi in un suo lettore. Aveva immaginato addirittura la conversazione che ne sarebbe seguita: lui prima soavemente schivo, mentre il lettore elogiava il libro; poi, ma con estrema riluttanza e modestia, disposto a scrivere il suo autografo sul frontespizio, «se proprio insiste». Ma adesso che la scena si svolgeva, si sentì deluso, quasi stizzito. La ragazza seduta accanto a lui non gli piaceva, e lo indispettiva quello sfogliare distrattamente le pagine che gli erano costate tanta fatica. Ebbe l’impulso di strapparle il libro dalle mani e uscire dalla stazione di corsa. Tornò a guardarla in faccia, cercando di sentire le parole pronunciate con la mente, osservandone gli occhi che andavano avanti e indietro sulla pagina. Doveva essersi scoperto troppo, perché un attimo dopo la ragazza si voltò verso di lui con un’espressione irritata e disse: – Le serve qualcosa, per caso? Quinn abbozzò un sorriso. – Niente, niente, – rispose.
– Mi domandavo solo se il libro le piaceva. La ragazza fece spallucce. – Ho letto di meglio e ho letto di peggio. Quinn avrebbe voluto chiudere subito la conversazione, ma qualcosa glielo impedì. Prima di potersi alzare e andarsene, le parole gli erano già uscite di bocca. – Lo trova appassionante? La ragazza alzò di nuovo le spalle facendo schioccare rumorosamente la gomma. – Boh, sì. C’è la parte dove il detective si perde che fa abbastanza paura. – È bravo, come detective? – Per bravo, è anche bravo. Ma parla troppo. – Preferirebbe più azione? – Credo di sì. – Se non le piace, perché continua a leggerlo? – Boh, non so –. La ragazza fece spallucce per la terza volta. – Perché fa passare il tempo. Comunque, non è una roba fondamentale. È solo un libro. Stava per rivelarle chi era, ma capì che non sarebbe cambiato nulla. La ragazza era irrecuperabile. Erano cinque anni che teneva segreta l’identità di William Wilson, e non l’avrebbe rivelata ora, tanto meno a una mentecatta sconosciuta. Tuttavia era spiacevole, e lottò disperatamente per soffocare il suo orgoglio. Invece di sferrare un pugno in faccia alla ragazza, si alzò di scatto e si allontanò. Alle sei e mezza si appostò davanti all’uscita del binario ventiquattro. Il treno era puntuale, e dalla sua posizione al centro del passaggio Quinn giudicò di avere buone probabilità di vedere Stillman. Prese la foto che aveva in tasca e la esaminò di nuovo, soffermandosi soprattutto sugli occhi. Ricordava di avere letto da qualche parte che gli occhi sono l’unico lineamento che non cambia mai. Dall’infanzia alla vecchiaia rimangono gli stessi, e in teoria un osservatore attento e concentrato potrebbe guardare gli occhi di un bambino in una foto e riconoscere la stessa persona da vecchia. Quinn aveva i suoi dubbi, ma quell’immagine era tutto ciò di cui disponeva, l’unico collegamento con il presente. Tuttavia la faccia di Stillman continuava a non dirgli nulla. Il treno entrò nella stazione, e Quinn se ne sentì il rumore in tutto il corpo: un frastuono intenso e incoerente che sembrò sovrapporsi al battito del cuore, pompando il sangue in zampilli rochi. Poi la testa gli si riempì della voce di Peter Stillman, mentre una raffica di parole senza senso grandinava
contro le pareti del suo cranio. Si ingiunse di restare calmo. Ma non servì a molto. Malgrado ciò che si era aspettato da se stesso in quel momento, era carico di tensione. Il treno era affollato, e quando i passeggeri cominciarono a sciamare in direzione della scala, subito si formò una ressa. Quinn si batté nervosamente la coscia destra con il taccuino rosso, si alzò in punta di piedi e scrutò nella calca. In breve ne fu inghiottito. C’erano uomini e donne, bambini e anziani, adolescenti e neonati, ricchi e poveri, bianche e neri, bianchi e nere, orientali e arabi, uomini vestiti di marrone e grigio e blu e verde, donne in rosso e in bianco e in giallo e in rosa, bambini con le scarpe da tennis, o di pelle, o con gli stivaletti da cowboy; gente grassa e gente smilza, alti e bassi, e ciascuno diverso da tutti gli altri, ciascuno irriducibilmente se stesso. Quinn li osservò uno per uno, ancorato alla sua postazione, come se tutto il suo essere fosse stato relegato negli occhi. Ogni volta che vedeva avvicinarsi un vecchio, chiamava a raccolta le forze nel caso fosse Stillman. Arrivavano e passavano troppo veloci perché potesse indulgere alla delusione, ma in ogni volto di vecchio gli sembrava di scorgere un preannuncio di come sarebbe stato il vero Stillman, e le sue attese si modificavano rapidamente a ogni faccia nuova, come se quell’accumulare anziani preludesse all’arrivo imminente del suo uomo. Per un istante, Quinn pensò: «Dunque è questo il lavoro dell’investigatore». Poi non pensò a nient’altro. Guardava. Immobile nella folla in movimento, restava lì e guardava. Quando era già passata circa la metà dei passeggeri, Quinn scorse Stillman per la prima volta. La somiglianza con la foto sembrava inequivocabile. No, non aveva perso i capelli come aveva ipotizzato Quinn. Li aveva bianchi e spettinati, a ciuffi appiccicati qua e là. Era alto e magro, senza dubbio oltre i sessanta, e piuttosto curvo. A dispetto della stagione indossava un lungo cappotto marrone ormai liso, e camminava strascicando leggermente i piedi. L’espressione del volto sembrava placida, a metà fra il pensoso e il trasognato. Non guardava le cose intorno a lui, non sembravano interessargli. Aveva un unico bagaglio, una valigia di pelle un tempo molto lussuosa, ma ora malconcia, avvolta da una cinghia. Nel salire la scala si fermò un paio di volte per prendere fiato. Sembrava muoversi a fatica, un po’ sballottato dalla folla, incerto se tenere il ritmo o lasciare che gli altri lo superassero. Quinn arretrò di alcuni passi, collocandosi in modo da potere scattare
velocemente a destra o a sinistra, secondo quello che sarebbe successo. Nello stesso tempo, voleva essere abbastanza lontano perché Stillman non si accorgesse di essere seguito. Quando raggiunse l’uscita della stazione, Stillman posò di nuovo la borsa e si fermò. In quel momento Quinn osò sbirciare alla destra del suo uomo, controllando il resto della folla per essere doppiamente sicuro di non essersi sbagliato. Quello che accadde dopo sfidava ogni spiegazione. Subito dietro Stillman, materializzandosi a pochi centimetri dalla sua spalla sinistra, un altro uomo si fermò, estrasse dalla tasca un accendino e si accese una sigaretta. Il suo volto era la copia esatta di quello di Stillman. Per un istante Quinn pensò a un’illusione, a una specie di alone emesso dalle onde elettromagnetiche nel corpo di Stillman. Ma no: il nuovo Stillman si muoveva, respirava, sbatteva le palpebre: le sue azioni erano chiaramente indipendenti da quelle del primo Stillman. Il secondo era il ritratto della prosperità. Indossava un costoso abito blu; aveva le scarpe lucide; i capelli bianchi pettinati; e nei suoi occhi c’era il lampo scaltrito dell’uomo di mondo. Portava anche lui un unico bagaglio: un’elegante valigia nera, più o meno dello stesso formato di quella dell’altro Stillman. Quinn restò immobile. Adesso qualunque cosa avesse fatto sarebbe stato un errore. Ogni scelta – e una scelta la doveva compiere – sarebbe stata arbitraria, un affidarsi al caso. L’incertezza lo avrebbe tormentato sino alla fine. In quel momento i due Stillman si rimisero in cammino. Il primo svoltò a destra, il secondo a sinistra. Quinn avrebbe voluto avere il corpo di un’ameba per potersi scindere e correre simultaneamente nelle due direzioni. «Fai qualcosa,– disse fra sé, – fai qualcosa adesso, idiota». Senza motivo si diresse a sinistra, all’inseguimento del secondo Stillman. Dopo nove o dieci passi si fermò. Qualcosa gli diceva che in vita sua avrebbe rimpianto quello che stava facendo. Agiva per ripicca, spinto dall’impulso di castigare il secondo Stillman perché lo aveva disorientato. Si girò e vide il primo Stillman che strascicava i piedi nella direzione opposta. Il suo uomo era sicuramente lui. Quella creatura male in arnese, così prostrata ed emarginata da tutto quello che la circondava… se Stillman era pazzo, doveva essere quello. Quinn inspirò a fondo, espirò con il petto tremante e inspirò di nuovo. Non c’era modo di saperlo: né questo, né nient’altro. Si mise alle calcagna del primo Stillman, rallentando il passo per adeguarlo a quello del vecchio, e lo seguì fino al sottopassaggio.
Adesso erano quasi le sette, e la folla cominciava a diradarsi. Benché sembrasse avvolto in una nebbia, Stillman sapeva dove stava andando. Si diresse dritto verso la scala del sottopasso, pagò il biglietto al botteghino e aspettò tranquillamente sul binario la navetta per Times Square. Quinn cominciò ad avere meno paura di essere notato. Non aveva mai visto un uomo così sprofondato nei suoi pensieri. Dubitava che Stillman l’avrebbe visto anche se gli si fosse parato davanti. Viaggiarono sulla navetta fino al West Side, poi percorsero gli umidi corridoi della stazione della Quarantaduesima e scendendo un’altra scala passarono alla metropolitana. Sette o otto minuti dopo salirono sulla linea che risaliva tutta Broadway, procedettero sbandando per due lunghe fermate, e scesero alla Novantaseiesima. Avviandosi lentamente per l’ultima scala, con varie soste in cui Stillman posava il bagaglio e riprendeva fiato, emersero sull’angolo entrando nell’azzurro cupo della sera. Stillman non esitò. Senza fermarsi a controllare l’orientamento, si incamminò per Broadway lungo il lato est. Per alcuni minuti Quinn fu irrazionalmente convinto che Stillman si stesse dirigendo verso casa sua sulla Centosettesima; ma prima che potesse cadere in un vero e proprio panico, Stillman si fermò all’angolo della Novantanovesima, attese che il semaforo passasse da rosso a verde e attraversò Broadway. A metà dell’isolato sorgeva un vecchio alberghetto sordido per clienti in bolletta, l’Hotel Harmony. Quinn era passato tante volte da quelle parti, e conosceva bene i vagabondi e i beoni che lo bazzicavano. Si stupì nel vedere che Stillman apriva la porta ed entrava nell’atrio. Chissà perché, aveva pensato che il vecchio si sarebbe permesso un alloggio più confortevole. Ma quando Quinn, dietro la porta di vetro, vide il professore dirigersi al banco, scrivere nel registro degli ospiti quello che senz’altro doveva essere il suo nome, e venire inghiottito dall’ascensore, capì che era lì che voleva abitare. Per le due ore successive Quinn aspettò fuori, camminando su e giù per l’isolato pensando che magari Stillman sarebbe uscito a cena in uno dei ristoranti della zona. Ma il vecchio non si fece vedere, e alla fine Quinn decise che doveva andare a dormire. Chiamò Virginia Stillman da una cabina sull’angolo, le fece un rapporto dettagliato di quanto era successo, e s’incamminò verso la Centosettesima strada.
8. La mattina seguente, e poi per molte altre mattine, Quinn si appostò su una panchina al centro dello spartitraffico all’incrocio fra Broadway e la Novantanovesima strada. Arrivava di buon’ora, mai dopo le sette, e si sedeva con un caffè preso al bar, un panino imburrato e un giornale aperto sulle ginocchia, a sorvegliare la porta di vetro dell’albergo. Prima delle otto Stillman usciva, sempre con il suo cappotto marrone, portando con sé una grossa sacca da viaggio, di quelle che si usavano una volta. La procedura restò invariata per due settimane. Il vecchio vagava per le vie della zona avanzando lentamente, talvolta a tappe infinitesimali, interrompendosi, riprendendo il cammino, fermandosi di nuovo come se ogni passo andasse soppesato e misurato prima di prendere il suo posto nella somma totale dei passi compiuti. Per Quinn era difficile muoversi in questo modo. Solitamente andava di buon passo, e tutto quel ripartire e fermarsi e strascicare cominciò ad angosciarlo, come se il ritmo del suo corpo ne venisse alterato. Era la lepre che insegue la tartaruga, e doveva continuamente ricordarsi di restare indietro. Cosa facesse Stillman in quelle passeggiate, per Quinn continuava a essere un mistero. Naturalmente, vedeva con i suoi occhi quello che succedeva, annotando coscienziosamente tutto nel taccuino. Ma il significato continuava a sfuggirgli. Stillman non sembrava mai dirigersi in nessun luogo particolare, né sapere dove si trovava. Eppure, come per un disegno preordinato, si manteneva entro un’area rigorosamente circoscritta, delimitata a nord dalla Centodecima, a sud dalla Settantaduesima, a ovest dal Riverside Park e a est dalla Amsterdam Avenue. Per quanto i suoi itinerari potessero apparire fortuiti – e ogni giorno il percorso era diverso – Stillman non oltrepassava mai questi confini. Quinn era perplesso da tanta precisione, perché per il resto Stillman sembrava vagare senza meta. Mentre camminava, Stillman non alzava mai lo sguardo. Gli occhi erano costantemente fissi a terra, come se stesse cercando qualcosa. Effettivamente, ogni tanto si chinava, raccoglieva dal suolo un oggetto e lo esaminava da
vicino, voltandolo e rivoltandolo nella mano. A Quinn ricordava un archeologo che ispeziona dei cocci in un sito preistorico. Occasionalmente, dopo avere scrutato un oggetto in questo modo, Stillman lo gettava di nuovo sul marciapiede. Ma il più delle volte apriva la sacca e vi posava delicatamente l’oggetto; poi si frugava in una tasca del cappotto e ne traeva un taccuino rosso – simile a quello di Quinn, ma più piccolo – su cui scriveva con grande concentrazione per un minuto o due. Completata l’operazione, si rimetteva in tasca il taccuino, raccoglieva la sacca e continuava per la sua strada. Per quanto ne poteva dire Quinn, gli oggetti raccolti da Stillman erano privi di valore. Sembravano soltanto cose rotte, abbandonate, pezzi di ciarpame. Un giorno dopo l’altro, Quinn registrò un ombrello rientrabile senza stoffa, la testa di una bambola di gomma, un guanto nero, la ghiera di una lampadina frantumata, vari pezzi di carta stampata (riviste fradice, quotidiani stracciati), una foto strappata, parti anonime di congegni e altri frammenti dispari di relitti che non riuscì a identificare. Il fatto che Stillman prendesse sul serio quella raccolta incuriosiva Quinn, ma lui non poteva fare altro che osservare e annotare sul taccuino quello che vedeva, soffermandosi banalmente alla superficie delle cose. Nel contempo era soddisfatto di sapere che anche Stillman aveva un taccuino rosso, come se questo rappresentasse un legame segreto fra loro. Quinn sospettava che il taccuino rosso di Stillman contenesse delle risposte alle domande che erano andate accumulandosi nella sua mente, e cominciò ad architettare vari stratagemmi per rubarglielo. Ma non era ancora il momento di compiere un simile passo. A parte la raccolta degli oggetti dalla strada, Stillman sembrava non fare niente. Ogni tanto si fermava a pranzare da qualche parte. Occasionalmente si scontrava con qualcuno e farfugliava delle scuse. Una volta mentre attraversava la strada fu quasi investito da un’auto. Stillman non parlava con nessuno, non entrava nelle botteghe, non sorrideva. Non sembrava né allegro né triste. In due occasioni in cui la raccolta era stata particolarmente abbondante, a metà giornata era tornato in albergo per uscirne di nuovo pochi minuti dopo con una borsa vuota. La maggior parte dei giorni passava almeno qualche ora nel Riverside Park, passeggiando metodicamente lungo i vialetti in macadam o battendo i cespugli con un bastone. La sua ricerca degli oggetti non si fermava di fronte al verde. Nella sacca c’era posto anche per pietre, foglie e ramoscelli. Una volta, osservò Quinn, si chinò addirittura a
raccogliere un escremento secco di cane: lo annusò accuratamente e se lo tenne. Il parco era anche il luogo dove Stillman si riposava. Nel pomeriggio, spesso subito dopo pranzo, si sedeva su una panchina e fissava l’altra sponda dello Hudson. Una volta, in una giornata particolarmente mite, Quinn lo vide dormire adagiato sull’erba. Quando scendeva il buio, Stillman cenava all’Apollo Coffee Shop, all’angolo tra la Novantasettesima e Broadway; poi tornava in albergo per la notte. Non tentò nemmeno una volta di prendere contatto con il figlio: lo confermò anche Virginia Stillman, che Quinn chiamava ogni sera quando rincasava. L’essenziale era conservare la tensione. A poco a poco, Quinn aveva cominciato a sentirsi allontanare dalle intenzioni originarie, e ora si chiedeva se non si fosse imbarcato in un progetto senza senso. Naturalmente c’era l’eventualità che Stillman stesse solo aspettando il momento propizio, che volesse far cadere il mondo nel letargo prima di colpire. Ma ciò presupponeva una consapevolezza delle proprie azioni che a Quinn non sembrava probabile. Fino allora aveva svolto con efficienza il proprio lavoro, tenendosi a una discreta distanza dall’uomo, confondendosi con il traffico della strada senza richiamare l’attenzione né prendere misure eccessive per restare nascosto. D’altra parte, era possibile che Stillman sapesse fin dal principio – o addirittura in anticipo – di essere sorvegliato e perciò non si fosse preoccupato di scoprire chi fosse in particolare a pedinarlo. Cosa importava, se aveva la sicurezza di essere seguito? Un pedinatore scoperto si poteva sempre sostituire con un altro. Questa visione della situazione rincuorava Quinn, che decise di adottarla anche se non aveva motivi per crederci. O Stillman sapeva cosa stava facendo, o non lo sapeva. E se non lo sapeva, allora Quinn non compiva alcun progresso, stava sprecando tempo. Molto meglio confidare che ogni suo passo fosse effettivamente diretto a una meta. Se questa interpretazione postulava da parte di Stillman una consapevolezza, allora Quinn avrebbe assunto quella consapevolezza come un atto di fede, almeno momentaneamente. Restava il problema di come occupare la mente mentre pedinava il vecchio. Quinn era abituato agli andirivieni. Le sue escursioni metropolitane gli avevano insegnato a comprendere il collegamento fra interno ed esterno. Usando il movimento senza meta come tecnica di ribaltamento, nei suoi giorni migliori riusciva a spingere dentro il fuori spodestando così i domini
dell’interiorità. Inondandosi di esterno, sprofondando il sé fuori da se stesso, era stato capace di esercitare una parvenza di controllo sulle sue crisi di disperazione. Insomma, il vagabondaggio era una forma di oblio. Ma seguire Stillman non era un vagabondaggio. Stillman poteva vagabondare, barcollare da un punto all’altro come un cieco, ma questo privilegio a Quinn era negato. Perché adesso era costretto a concentrarsi su quello che faceva, sebbene ciò fosse prossimo al nulla. Più volte i suoi pensieri cominciarono ad andare alla deriva, subito seguiti dai passi. C’era il pericolo continuo di accelerare l’andatura, andando a scontrarsi con la schiena di Stillman. Per cautelarsi contro questo rischio approntò diverse tecniche di rallentamento. La prima consisteva nel dirsi che non era più Daniel Quinn. Adesso era Paul Auster, e a ogni passo cercava di adattarsi meglio ai vincoli di quella trasformazione. Auster per lui era soltanto un nome, un involucro privo di contenuto. Essere Auster voleva dire essere un uomo senza interno, un uomo senza pensieri. E se non aveva pensieri a disposizione, se la sua vita interiore era inaccessibile, allora non c’erano luoghi dove avrebbe potuto ritirarsi. Impersonando Auster, non poteva evocare ricordi né paure, né sogni di felicità, poiché queste cose a lui erano ignote. Doveva rimanere soltanto alla superficie di se stesso, guardando fuori per trovare un sostegno. Tenere gli occhi fissi su Stillman, quindi, non era semplicemente una distrazione dal corso dei propri pensieri: era l’unico pensiero che potesse concedersi. Per un giorno o due la tattica ebbe un modesto successo, ma alla fine anche Auster cominciò a vacillare per la monotonia. Quinn comprese che gli serviva qualcosa di più per tenersi occupato, qualche piccola incombenza che lo accompagnasse mentre svolgeva il proprio lavoro. Alla fine a salvarlo fu il taccuino rosso. Invece di stendere semplicemente qualche osservazione casuale come aveva fatto i primi giorni, decise di registrare ogni minimo dettaglio su Stillman che gli riuscisse di cogliere. Servendosi della penna comprata dal sordomuto, si accinse scrupolosamente all’incarico che aveva assunto. Non solo prendeva nota dei gesti di Stillman, descriveva uno per uno gli oggetti che il vecchio sceglieva o scartava per la sacca, e registrava attentamente l’ora di ogni avvenimento: tracciò anche con zelo l’esatto itinerario delle digressioni di Stillman, annotando ogni strada da lui seguita, con tutte le curve e tutte le soste effettuate. Oltre a tenere occupato Quinn, il taccuino serviva anche a rallentarne il passo. Ora non c’era più pericolo di sorpassare Stillman. Il problema era piuttosto non lasciarsi distanziare, essere
sicuro che non sparisse. Perché camminare e scrivere non erano attività agevolmente compatibili. Se negli ultimi cinque anni Quinn aveva passato i giorni facendo l’una o l’altra, adesso tentava di svolgerle simultaneamente. All’inizio commise un sacco di errori. Era difficile soprattutto scrivere senza tenere gli occhi sulla pagina, e spesso scopriva di avere sovrapposto due o tre righe, stendendo un caotico, illeggibile palinsesto. D’altronde guardare la pagina significava fermarsi, il che avrebbe aumentato le possibilità di perdere Stillman. Dopo un po’ stabilì che si trattava essenzialmente di un problema di posizione. Fece un esperimento con il taccuino davanti a sé a un angolo di quarantacinque gradi, ma concluse che il polso sinistro si stancava presto. Quindi provò a tenere il taccuino direttamente davanti al viso, sbirciando sopra di esso come un Kilroy redivivo, ma il sistema si rivelò poco pratico. In seguito tentò di appoggiare il taccuino sul braccio destro alcuni centimetri sopra il gomito, reggendone il dorso con il palmo della sinistra. Ma così la mano che scriveva restava anchilosata, ed era impossibile scrivere sulla metà in basso della pagina. Finalmente, decise di reggere il taccuino con l’anca sinistra, più o meno come il pittore tiene la tavolozza. Fu un progresso. Il trasporto non gli provocava più sforzo, e la destra poteva tenere la penna senza essere gravata da altre mansioni. Pur avendo a sua volta dei punti deboli, alla lunga questo metodo gli sembrò il più comodo. Perché adesso Quinn era in grado di suddividere quasi equamente la propria attenzione fra Stillman e la scrittura, ora alzando gli occhi verso l’uno, ora abbassandoli sull’altra, vedendo la cosa e scrivendone con un unico movimento fluido. Con la penna del sordomuto in una mano e il taccuino rosso sull’anca sinistra, Quinn continuò a seguire Stillman per altri nove giorni. Le sue conversazioni notturne con Virginia Stillman erano stringate. Sebbene il ricordo del bacio fosse ancora pungente nella memoria di Quinn, non c’erano stati altri sviluppi romantici. Dapprima, Quinn si era aspettato che succedesse qualcosa. Dopo un avvio così promettente, era sicuro che alla fine si sarebbe ritrovato la signora Stillman fra le braccia. Ma la sua committente si era in breve eclissata dietro la maschera del lavoro, senza alludere nemmeno una volta a quel singolo momento di passione. Forse Quinn si era lasciato trascinare dalla speranza, confondendo momentaneamente se stesso con Max Work, un uomo che non mancava mai di approfittare di quelle situazioni. O forse cominciava semplicemente a pesargli la solitudine. Da tanto
tempo non sentiva vicino il calore di un corpo. Perché a dire il vero aveva cominciato a desiderare spasmodicamente Virginia Stillman dal momento in cui l’aveva vista, molto prima del bacio. E l’attuale mancanza di incoraggiamento da parte di lei non gli impediva di continuare a immaginarsela nuda. Scene di lussuria si susseguivano ogni notte nella mente di Quinn, e anche se le possibilità che si realizzassero gli apparivano remote, continuavano a rappresentare un piacevole diversivo. Molto tempo dopo, quando era troppo tardi ormai da un pezzo, capì di avere nutrito nel profondo la cavalleresca speranza di risolvere il caso così brillantemente, e salvare dal pericolo Peter Stillman in modo così veloce e indiscutibile, da restare l’oggetto dei desideri della signora Stillman finché avrebbe voluto. Naturalmente questo fu un errore. Ma visti i tanti errori che Quinn commise dal principio alla fine, non fu peggio degli altri. Era il tredicesimo giorno dall’inizio del caso. Quella sera Quinn tornò a casa giù di corda. Era scoraggiato, pronto ad abbandonare la nave. Malgrado tutti i solitari che aveva giocato, malgrado le storie che si era inventato per andare avanti, il caso continuava a sembrare inconsistente. Stillman era un vecchio svitato che aveva dimenticato il figlio. Avrebbe potuto seguirlo per l’eternità senza che succedesse nulla. Quinn prese il telefono e chiamò casa Stillman. – Sarei quasi dell’idea di mollare, – disse a Virginia Stillman. – Da quello che ho visto, Peter non corre nessun rischio. – È proprio quello che vuol farci credere, – ribatté la donna. – Non ha idea di quanto è astuto. E paziente. – Lui sarà anche paziente, ma io no. Penso che lei stia sprecando i suoi soldi. E io il mio tempo. – È sicuro che lui non l’abbia vista? Questo cambierebbe tutto. – Non ci scommetterei la pelle… ma sì, sono sicuro. – E allora cosa conclude? – Concludo che non avete niente da temere. Almeno per adesso. Se in seguito succederà qualcosa, mi contatti. Arriverò di corsa al primo accenno di pericolo. Dopo una pausa, Virginia Stillman osservò: – Forse ha ragione. – Una nuova pausa. – Ma proprio per tranquillizzarmi un pochino, mi domando se non potremmo giungere a un compromesso. – Dipende da quello che ha in mente.
– Solo questo: vada avanti ancora qualche giorno. Per avere la certezza assoluta. – A una condizione, – disse Quinn. – Dovrà lasciarmi fare a modo mio. Niente più vincoli. Devo essere libero di parlargli, di fargli domande, di arrivare in fondo alla faccenda una volta per tutte. – Non le sembra rischioso? – Non si preoccupi. Non intendo scoprire il nostro gioco. Farò in modo che non capisca né chi sono né cosa sto facendo. – E come pensa di riuscirci? – Questo è un problema mio. Diciamo che ho i miei conigli nel cilindro. Lei deve solo fidarsi. – D’accordo, faremo come dice. Non credo che possa far danno. – Bene. Ci lavoro ancora qualche giorno, poi vedremo a che punto siamo arrivati. – Signor Auster? – Sì? – Le sono tanto riconoscente. Nelle ultime due settimane Peter è stato benissimo, e so che è grazie a lei. Parla di lei in continuazione. È come… per lui… non so… è come un eroe. – E la signora Stillman come si sente? – Proprio allo stesso modo. – È bello sentirglielo dire. Forse un giorno mi permetterà di esserle grato a mia volta. – Tutto è possibile, signor Auster. Non se lo scordi. – Certo che no. Sarei un pazzo se lo scordassi. Quinn si preparò una cena leggera, uova e pane tostato, bevve una bottiglia di birra e si mise alla scrivania con il taccuino rosso. Erano molti giorni che vi scriveva, riempiendo una pagina dopo l’altra con la sua calligrafia compressa e irregolare, ma non aveva ancora avuto il coraggio di leggere quello che aveva scritto. Ora che finalmente si profilava la conclusione, pensò di poter arrischiare un’occhiata. Molto era difficile da capire, specie nelle parti iniziali. E quando riusciva a decifrare le parole, scopriva che non ne era valsa la pena. «Raccoglie matita a metà isolato. Esamina, esita, mette in sacca… Compra sandwich in gastronomia… Siede su panchina in parco e sfoglia taccuino rosso». Queste annotazioni gli suonavano perfettamente inutili.
Era tutta una questione di metodo. Se l’obiettivo era capire Stillman, arrivare a conoscerlo abbastanza bene da anticipare la sua prossima mossa, Quinn aveva fallito. Era partito da una base limitata di fatti: la formazione di Stillman e la sua professione, la reclusione del figlio, l’arresto e il ricovero in clinica, un libro di bizzarra erudizione redatto quando in teoria era ancora sano di mente, e soprattutto la certezza di Virginia Stillman che ora avrebbe tentato di far del male al figlio. Ma le vicende del passato sembravano prive di attinenza con quelle del presente. Quinn era profondamente deluso. Aveva sempre immaginato che la chiave di un buon lavoro investigativo fosse l’osservazione ravvicinata dei particolari. Più accurato il rilevamento, più positivi i risultati. La premessa era che il comportamento umano si possa comprendere, che dietro l’infinita facciata di gesti, tic e silenzi ci siano una coerenza, un ordine, un movente. Ma dopo avere lottato per afferrare tutti questi effetti di superficie, Quinn non si sentiva più vicino a Stillman di quando gli si era messo alle calcagna. Aveva vissuto la vita di Stillman, camminando al suo passo, vedendo quello che lui vedeva, e la sola cosa che sentiva adesso di quell’uomo era la sua impenetrabilità. Invece di diminuire la distanza che correva tra lui e Stillman, aveva visto l’altro scivolargli via anche se gli restava sotto gli occhi. Senza un motivo cosciente, Quinn aprì una pagina bianca del taccuino e tracciò una piccola mappa della zona in cui Stillman effettuava i suoi andirivieni. Poi, rileggendo attentamente le annotazioni, cominciò a tracciare con la penna gli spostamenti compiuti da Stillman nel corso di un solo giorno: il primo giorno in cui aveva tenuto un registro completo dei movimenti del vecchio. Il risultato fu il seguente:
Quinn fu colpito da come Stillman aveva sempre rasentato i confini del territorio senza avventurarsi verso il centro. Il grafico assomigliava vagamente alla carta di qualche immaginario stato del Midwest. A parte gli undici isolati di Broadway risaliti alla partenza e la serie di spire e ghirigori che rappresentavano i viavai di Stillman a Riverside Park, il disegno ricordava un rettangolo. D’altronde, data la struttura a quadranti delle vie di New York, avrebbe potuto essere anche uno zero o la lettera O. Quinn passò al giorno seguente e decise di vedere cosa ne veniva fuori. I risultati furono completamente diversi.
Questo disegno gli fece pensare a un uccello, forse un uccello da preda, con le ali spiegate, sospeso in volo.
Un momento dopo, questa interpretazione gli sembrò fantastica. L’uccello svanì, e al suo posto non restarono che due forme astratte collegate dal minuscolo ponticello gettato da Stillman nell’atto di attraversare l’Ottantatreesima strada verso ovest. Quinn si interruppe un attimo a riflettere su quello che stava facendo. Scarabocchiava linee senza senso? Stava sprecando scioccamente la serata, o era alla ricerca di qualcosa? Comprese che entrambe le risposte erano inaccettabili. Se intendeva solo ammazzare il tempo, perché aveva scelto un modo così faticoso? Era così disorientato da non avere più il coraggio di pensare? Del resto, se non era soltanto per distrarsi, quali intenzioni lo animavano? Pensò che stava cercando un segno. Setacciava il caos dei movimenti di Stillman a caccia di un barlume di coerenza. Questo implicava una cosa soltanto: il suo rifiuto di credere all’arbitrarietà delle azioni di Stillman. Esigeva che avessero un senso, per oscuro che fosse. Il che appariva di per sé inaccettabile. Significava che Quinn si permetteva di negare i fatti e questa, come lui ben sapeva, è la peggior cosa che un detective possa fare. Tuttavia, decise di proseguire. Non era tardi, neppure le undici, e quell’occupazione non poteva fargli male. Il grafico della terza mappa non aveva nessuna somiglianza con gli altri due.
All’apparenza non c’era più alcun dubbio su quello che stava succedendo. Tralasciando gli sgorbi del percorso nel parco, Quinn era sicuro di trovarsi davanti alla lettera «E». Ammettendo che il primo grafico avesse rappresentato in effetti la lettera «O», era legittimo dedurre che le ali d’uccello del secondo formassero la lettera «W». Naturalmente le lettere O-W-E insieme formavano la parola owe, cioè il verbo «dovere», ma Quinn non era intenzionato a trarre nessuna conclusione. Era partito con i suoi rilievi solo il quinto giorno delle
peregrinazioni di Stillman, e l’identità delle prime quattro lettere restava un rebus. Si rammaricò di non avere cominciato prima, sapendo che ormai il mistero di quei quattro giorni era irrevocabile. Ma forse sarebbe riuscito a ricostruire il passato proiettandosi in avanti. Forse giungendo alla fine avrebbe intuito il principio. Il grafico del giorno seguente accennava a una forma somigliante alla lettera «R». Come per le altre, era arruffata da diverse irregolarità, approssimazioni e svolazzi arabescati nel parco. Nell’aggrapparsi ancora a un residuo di obiettività, Quinn cercò di guardarla come se non si fosse aspettato una lettera dell’alfabeto. Doveva ammettere che niente era sicuro: avrebbe potuto benissimo essere priva di significato. Forse stava cercando figure nelle nuvole, come faceva da bambino. Però la coincidenza era troppo marcata. Se ci fosse stata una sola mappa simile a una lettera, magari anche due, avrebbe potuto liquidare tutto come un capriccio del caso. Ma quattro consecutive erano troppe. Il giorno dopo gli fornì una «O» sbilenca, una ciambella schiacciata da un lato, con tre o quattro linee frastagliate che si proiettavano sull’altro. Poi fu la volta di una nitida «F», affiancata dai consueti ghirigori rococò. Seguì una «B» che assomigliava a due casse in bilico l’una sopra l’altra, con trucioli da imballaggio straripanti dai bordi. Quindi una «A» barcollante che ricordava una scala a pioli coi gradini che salivano a destra e a sinistra. E per concludere c’era una seconda «B»: precariamente inclinata su un unico punto di equilibrio, come una piramide capovolta. Quinn copiò poi le lettere in ordine: OWEROFBAB. Dopo averci giocato per un quarto d’ora, ricombinandole, separandole, riformando la sequenza, tornò all’ordine originario e le scrisse per esteso in questo modo: OWER OF BAB. La soluzione sembrava così bizzarra che per poco non gli saltarono i nervi. Con tutte le dovute cautele, visto che aveva perso i primi quattro giorni e che Stillman non aveva ancora terminato, la risposta appariva ineluttabile: THE TOWER OF BABEL, la Torre di Babele. Per un momento la mente di Quinn corse alle pagine finali del Gordon Pym di Poe, con la scoperta degli strani geroglifici sulla parete interna dell’abisso: lettere incise nella terra stessa, come nel tentativo di proferire qualcosa di non più comprensibile. Ma ripensandoci l’esempio non gli sembrò appropriato. Perché Stillman non aveva lasciato messaggi in nessun luogo. Vero, aveva creato le lettere con il moto dei suoi passi, ma non erano
state effettivamente scritte. Era come disegnare nell’aria con un dito. L’immagine svanisce nell’atto di comporla. Non c’è alcun risultato, alcuna traccia a indicare quello che hai fatto. E tuttavia i disegni esistevano: non nelle strade dove erano stati tracciati, ma nel taccuino rosso di Quinn. Si domandò se Stillman ogni sera si fosse seduto in camera a progettare l’itinerario dell’indomani o se avesse improvvisato cammin facendo. Era impossibile saperlo. Si chiese anche che scopo avesse nella mente di Stillman quella scrittura. Non era che una specie di promemoria a uso interno, o aveva il senso di un messaggio agli altri? Quanto meno, concluse Quinn, significava che Stillman non si era dimenticato di Henry Dark. Quinn non voleva abbandonarsi al panico. Nello sforzo di dominarsi, tentò di immaginare le cose sotto la peggior luce possibile. Se vedeva il peggio, forse sarebbe stato meno brutto di quello che pensava. Effettuò la seguente analisi. Primo: Stillman stava effettivamente architettando qualcosa contro Peter. Risposta: questa era stata la premessa in tutti i casi. Secondo: Stillman sapeva che sarebbe stato seguito, sapeva che i suoi movimenti sarebbero stati registrati, sapeva che il suo messaggio sarebbe stato decifrato. Risposta: ciò non modificava il fatto essenziale, cioè che occorreva proteggere Peter. Terzo: Stillman era molto più pericoloso di quanto avesse immaginato. Risposta: questo non voleva dire che avrebbe attuato i propri piani. La riflessione gli fu di aiuto. Ma le lettere continuavano ad atterrirlo. L’insieme del quadro era talmente subdolo, talmente demoniaco nella sua allusività, che non voleva accettarlo. Poi arrivarono i dubbi, come a comando, riempiendogli la testa di cantilene beffarde. Si era immaginato tutto. Le aveva viste solo perché aveva voluto vederle. Le lettere non erano affatto lettere. E anche ammesso che i grafici formassero delle lettere, era soltanto una combinazione. Stillman non c’entrava. Non era che una casualità, un tiro che lui aveva giocato a se stesso. Decise di andare a letto, dormì a intermittenza, si svegliò, scrisse mezz’ora nel taccuino rosso, tornò a letto. Il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu che probabilmente gli restavano due giorni, dato che Stillman non aveva ancora completato il messaggio. Restavano le due lettere finali… la «E» e la «L». La mente di Quinn si fece vaga. Giunse in una regione di frontiera, un luogo di cose senza parole e parole senza cose. Poi,
offrendo un’ultima resistenza al torpore, si disse che El in antico ebraico era il nome di Dio. Nel sogno, che piÚ tardi dimenticò, era nella discarica cittadina della sua infanzia e passava attraverso una montagna di rifiuti.
9. Il primo incontro con Stillman si svolse a Riverside Park. Era metà pomeriggio di un sabato di biciclette, di cani a passeggio col padrone e di bambini. Stillman sedeva solo su una panchina, a fissare nel vuoto con il piccolo taccuino rosso sulle ginocchia. Dappertutto era luce, una luce infinita che sembrava irradiarsi da ogni cosa su cui l’occhio si posava; e in alto, tra i rami degli alberi, soffiava sempre una brezza che scuoteva le foglie con un sibilo appassionato, un respiro che saliva e scendeva, costante come l’onda sulla spiaggia. Quinn aveva pianificato le proprie mosse con cura. Fingendo di non accorgersi di Stillman, si sedette al suo fianco incrociando le braccia e cominciando a guardare nella stessa direzione del vecchio. Nessuno dei due aprì bocca. In seguito Quinn stimò che questa fase fosse durata quindici o venti minuti. Poi, senza preavviso, si voltò verso il vecchio e fermò gli occhi su di lui, fissando ostinatamente il suo profilo rugoso. Quinn concentrò tutta la sua forza nello sguardo, come se avesse potuto aprire un foro rovente nel cranio di Stillman. La seconda fase durò cinque minuti. Alla fine Stillman si girò. Con una voce tenorile sorprendentemente armoniosa, disse: – Desolato, ma non mi sarà possibile parlare con lei. – Io non ho detto niente, – rispose Quinn. – È vero, – disse Stillman. – Ma deve rendersi conto che non ho l’abitudine di parlare con gli sconosciuti. – Le ripeto, – disse Quinn, – che non ho detto niente. – Sì, l’ho sentita la prima volta. Ma non le interessa sapere il perché? – Temo di no. – Ben detto. Vedo che è un uomo di buonsenso. Quinn fece spallucce, rifiutandosi di rispondere. Ora sembrava la statua dell’indifferenza. Stillman reagì con un radioso sorriso, si chinò verso Quinn e disse in tono da cospiratore: – Mi sa che andremo d’accordo. – Questo è ancora da vedere, – rispose Quinn dopo una lunga pausa.
Stillman rise con un breve, tonante «ah», poi continuò. – Non è che non mi piacciano gli estranei in sé. È solo che preferisco non parlare a nessuno che non si sia presentato. Per cominciare, devo avere un nome. – Ma quando un uomo le ha detto come si chiama, non è più uno sconosciuto. – Precisamente. Ecco perché non parlo mai con gli sconosciuti. Quinn era preparato e sapeva come destreggiarsi. Non si sarebbe fatto intrappolare. Dato che tecnicamente lui era Paul Auster, quello era il nome che doveva proteggere. Qualunque altra cosa, anche la verità, sarebbe stata un’invenzione, una maschera dietro cui nascondersi e restare al sicuro. – In questo caso, – disse, – il mio nome è Quinn. Per servirla. – Ah, – disse Stillman, annuendo pensosamente. – Quinn. – Sì, Quinn. Q-u-i-n-n. – Capisco. Sì, sì, capisco. Quinn. Mmmmm… Sì. Molto interessante. Quinn. Parola assai sonora. Fa rima con twin [gemello], non è vero? – Esatto. Twin. – E anche con sin [peccato], se non erro. – Non sbaglia, infatti. – E poi con in… una n sola… o inn [locanda]. È giusto? – Giusto. – Mmmm… Molto interessante. Vedo un sacco di possibilità per questa parola, questo Quinn, questa… quintessenza… di quiddità. Quick [svelto], per esempio. E quill [penna d’oca]. E quack [ciarlatano]. E quirk [ghiribizzo]. Mmmm… Fa rima con grin [ghigno]. Per non parlare di kin [stirpe]. Mmmm. Molto interessante. E win [vittoria], E fin [pinna]. E din [baccano], E gin. E pin [spillo], E tin [latta], E bin [pattumiera]. Fa rima persino con djin [genio della lampada], Mmmm. E se è pronunciato bene, con been [essere stato]. Sì, davvero interessante. Signor Quinn, il suo nome mi piace immensamente. S’invola subito in tante direzioni. – Sì, l’ho notato spesso anch’io. – La gente per lo più non si sofferma su queste cose. Pensano che le parole siano macigni, grandi oggetti inanimati e inerti, come monadi immutabili. – Le pietre possono cambiare. Possono essere dilavate dall’acqua e dal vento. Si erodono. Si possono schiacciare. Tramutare in frantumi, ghiaia o
polvere. – Precisamente. Ho capito all’istante che lei è una persona di buonsenso, signor Quinn. Se solo sapesse in quanti mi hanno frainteso. E il mio lavoro ne ha sofferto. Ne ha sofferto terribilmente. – Il suo lavoro? – Sì, il mio lavoro. I miei progetti, le mie ricerche, i miei esperimenti. – Ah. – Sì. Ma malgrado tutti i rovesci, non mi sono mai lasciato scoraggiare. Attualmente, per esempio, sono impegnato in una delle intraprese più importanti che abbia mai tentato. Se tutto va bene, credo che possederò la chiave per una serie di fondamentali scoperte. – La chiave? – Esatto, la chiave. Uno strumento che apre le porte chiuse. –Ah. – Ovviamente, per ora sto solo accumulando dati: raccogliendo le prove, per dir così. In seguito dovrò coordinare le mie scoperte. È un lavoro altamente impegnativo. Lei non può credere quanto è duro… soprattutto per un uomo della mia età. – Immagino. – Proprio così. C’è tanto da fare, e così poco tempo a disposizione. Ogni mattina mi alzo all’alba. Devo uscire che piova o tiri vento, star sempre in moto, sempre a piedi, spostandomi da un luogo all’altro. Mi sfianca, può star certo. – Ma ne vale la pena. – Qualunque cosa per lo scopo della verità. Nessun sacrificio è troppo grande. – Davvero. – Vede… nessuno ha compreso quello che io ho compreso. Io sono il primo, sono l’unico. Ciò mi impone un pesante fardello di responsabilità. – Ha il mondo sulle spalle. – Esatto, per dir così. Il mondo, o quello che ne rimane. – Non pensavo che la situazione fosse così brutta. – Ma lo è. Forse è anche peggio. –Ah. – Veda, signor Quinn… il mondo è in frammenti. E il mio lavoro è ricomporli insieme.
– Be’, è un bell’impegno. – Me ne rendo conto. Ma io cerco unicamente il principio. Questo è senz’altro alla portata di un uomo solo. Se riesco a porre le fondamenta, altre mani sapranno compiere la riedificazione vera e propria. L’importante è la premessa, il primo gradino teorico. E purtroppo, non c’è nessun altro che lo possa ascendere. – Ha fatto molti progressi? – Passi enormi. In realtà, ora mi sento sul punto di aprire una breccia decisiva. – Mi conforta saperlo. – Sì, è un pensiero rassicurante. E tutto grazie al mio intelletto, grazie all’abbagliante lucidità della mia mente. – Senza dubbio. – Capisce, io ho compreso la necessità di pormi un limite. Lavorando su un terreno abbastanza piccolo da rendere ogni risultato conclusivo. – La premessa della premessa, per dir così. – Bravo, giustissimo. Il principio del principio, il modus operandi. Veda, signore, il mondo è in schegge. Non abbiamo perduto solo il senso della nostra finalità; abbiamo perduto l’idioma mercé il quale parlarne. Questi sono senz’altro argomenti spirituali, ma hanno i loro paralleli nel mondo materiale. Il mio colpo di genio è stato confinarmi alle cose fisiche, a ciò che è immediato e tangibile. Le mie ragioni sono elevate, ma attualmente il mio lavoro si svolge nell’ambito della quotidianità. Ecco perché vengo così sovente frainteso. Ma tant’è. Ho imparato a non curarmene. – Ammirevole risposta. – L’unica. L’unica risposta degna di un uomo della mia statura. Veda, io mi sto prodigando a inventare una nuova lingua. Con un lavoro come questo di fronte, non posso lasciarmi sommuovere dalla stupidità altrui. E in ogni caso, tutto fa parte della malattia che sto cercando di curare. – Una nuova lingua? – Sì. Una lingua che finalmente dica quello che dobbiamo dire. Perché le nostre parole non corrispondono più al mondo. Quando le cose erano intere, credevamo che le nostre parole le sapessero esprimere. Poi a mano a mano quelle cose si sono spezzate, sono andate in schegge franando nel caos. Ma le nostre parole sono rimaste le medesime. Non si sono adattate alla nuova realtà. Pertanto, ogni volta che tentiamo di parlare di ciò che vediamo,
parliamo falsamente, distorcendo l’oggetto che vorremmo rappresentare. Tutto si fa disordine. Ma le parole, come anche lei comprende, hanno la capacità di cambiare. Il problema è come dimostrarlo. Ecco perché io ora lavoro con i più semplici mezzi possibili… talmente semplici che anche un bambino può capire quel che dico. Consideri una parola che corrisponde a una cosa: «ombrello», per esempio. Quando pronuncio la parola «ombrello», lei nella sua mente vede l’oggetto. Vede una sorta di bastone con alla sommità dei raggi pieghevoli di metallo facenti da telaio a un tessuto impermeabile che, una volta aperto, proteggerà la sua persona dalla pioggia. Quest’ultimo dettaglio è importante: un ombrello non è solo una cosa, ma è una cosa che svolge una funzione… in altri termini, esprime la volontà dell’uomo. Se ci riflette un poco, ogni oggetto è analogo all’ombrello in quanto svolge una funzione. Una matita serve per scrivere, una scarpa per essere calzata, un’auto per esser guidata. Ora, la mia domanda è questa. Cosa succede quando una cosa non svolge più la propria funzione? È sempre quella cosa, oppure diventa qualcos’altro? Se lei lacera la tela dell’ombrello, quest’ultimo è ancora un ombrello? Spiega i raggi, se li pone sopra la testa, esce sotto la pioggia e si bagna. È possibile persistere a chiamare questo oggetto ombrello? Generalmente, la gente fa così. Tutt’al più, arriveranno a dire che è un ombrello rotto. Per me, questo è un grave errore, fonte di tutti i nostri disagi. Giacché non può più svolgere la propria funzione, l’ombrello ha smesso di essere ombrello. Può assomigliargli, può pure essere un ex ombrello, ma ora si è trasformato in un’altra cosa. Tuttavia la parola è rimasta la stessa: perciò non rappresenta più la cosa. È imprecisa; è falsa; cela l’oggetto che dovrebbe svelare. E se noi non possiamo neppure nominare un oggetto comune, quotidiano, che teniamo nelle mani, come potremo sperare di discorrere delle cose che veramente ci riguardano? A meno che non cominciamo ad assimilare il concetto di cambiamento nelle parole d’uso, continueremo a essere perduti. – E il suo lavoro? – Il mio lavoro è molto semplice. Sono venuto a New York perché è il più miserabile, il più abietto di tutti i luoghi. Lo sfacelo è dovunque, la disarmonia è universale. Le basta aprire gli occhi per accorgersene. Persone infrante, cose infrante, pensieri infranti. La città intera è un ammasso di rifiuti. Il che si adatta mirabilmente al mio proposito. Trovo che le strade siano
una fonte infinita di materiale, un inesauribile emporio di cose frantumate. Ogni giorno esco con la mia sacca e raccolgo oggetti che sembrano degni d’attenzione. I miei campioni ammontano ormai a centinaia… oggetti scheggiati o fracassati, ammaccati o sfasciati, polverizzati o putridi. – E che ci fa con queste cose? – Assegno loro dei nomi. – Dei nomi? – Invento nuove parole che corrispondano alle cose. – Ah. Ora ho capito. Ma come fa a decidere? Come sa di aver scelto la parola giusta? – Non sbaglio mai. È una modalità del mio genio. – Non può farmi un esempio? – Di una delle mie parole? – Sì. – Spiacente, ma non è possibile. Capisce, è il mio segreto. Quando avrò pubblicato il mio libro, lei e il resto del mondo saprete. Ma per ora lo devo tenere per me. – Informazione riservata. – Esatto. Top secret. – Chiedo scusa. – Non sia troppo contrariato. Si avvicina il momento in cui avrò messo ordine tra le mie scoperte. Poi cominceranno ad accadere grandi cose. Sarà l’avvenimento più importante nella storia dell’uomo. Il secondo incontro si svolse poco dopo le nove del mattino successivo. Era domenica, e Stillman era uscito dall’albergo un’ora più tardi del solito. Camminò per due isolati fino al luogo dove abitualmente faceva colazione, il Mayflower Café, e andò a sedersi in un séparé d’angolo sul fondo. Quinn, che si era fatto più audace, seguì il vecchio nel locale sedendosi nello stesso séparé, proprio di fronte a lui. Per un paio di minuti Stillman sembrò non accorgersi della sua presenza. Poi, alzando gli occhi dal menù, studiò il viso di Quinn come in astratto. Apparentemente non l’aveva riconosciuto dal giorno prima. – Io la conosco? – domandò. – Non credo, – rispose Quinn. – Mi chiamo Henry Dark. – Ah, – annuì Stillman. – Un uomo che comincia dall’essenziale. Lo apprezzo.
– Non sono uno da andar per rovi, – dichiarò Quinn. – Rovi? E quali rovi? – Quelli in fiamme, naturalmente. – Eh, già. Il roveto in fiamme. Naturalmente –. Stillman guardò il viso di Quinn. Con un po’ più di attenzione, adesso, ma forse anche con una certa confusione. – Spiacente, – proseguì, – ma non rammento il suo nome. Mi ricordo che me lo aveva detto non molto tempo fa, ma adesso è come evaporato. – Henry Dark, – disse Quinn. – Appunto. Sì, adesso mi ritorna. Henry Dark. Per un lungo momento Stillman tacque, poi scosse la testa. – Purtroppo questo non è possibile, signore. – E perché? – Perché non c’è nessun Henry Dark. – Be’, forse io sono un altro Henry Dark. Rispetto a quello che non esiste. – Mmmm. Sì, capisco cosa intende. È vero che a volte due persone hanno lo stesso nome. È possibilissimo che il suo sia Henry Dark. Ma lei non è quell’Henry Dark. – È un suo amico? Stillman rise come se avesse apprezzato la battuta. – Non esattamente, – disse. – Vede, Henry Dark non è mai esistito realmente. L’ho creato io. È un’invenzione. – Ma no, – disse Quinn con finta incredulità. – Sì. È un personaggio di un libro che ho scritto tempo fa. È immaginario. – Lo trovo difficile da credere. – Anche tutti gli altri. Li ho beffati tutti. – Straordinario. E perché diamine lo ha fatto? – Veda, avevo bisogno di lui. All’epoca nutrivo delle idee troppo pericolose e controverse. Così ho finto che fossero di un altro. Fu un espediente per proteggermi. – E come mai ha deciso di chiamarlo Henry Dark? – È un bel nome, non le pare? A me piace molto. Pieno di mistero, e nello stesso tempo molto appropriato. Si adattava al mio scopo. E inoltre ha un significato segreto. – L’allusione alle tenebre? – No, no. Niente di così banale. Erano le iniziali, H. D. Molto importanti.
– Perché? – Non prova a indovinarlo? – Direi di no. – Oh, ci provi. Faccia tre tentativi. Se non indovina, glielo dirò io. Quinn s’interruppe un momento, cercando di concentrarsi al massimo. – H. D., – disse. – Stanno per Henry David? Come Henry David Thoreau. – Acqua. – E se fossero solo H. D., puro e semplice? Cioè la poetessa Hilda Doolittle. – Sempre più fuori strada. – D’accordo, ancora un tentativo. H. D. H… e D… un attimo… e se… un attimo… ah… sì, ci siamo. H è il filosofo che piange, Heraclito; e D è il filosofo che ride, Democrito. Heraclito e Democrito… i due poli della dialettica. – Risposta molto intelligente. – Ho indovinato? – Naturalmente no. Ma la risposta resta intelligente. – Non può dire che non mi sia sforzato. – No, davvero. Quindi la premierò con la risposta esatta. Perché si è sforzato. È pronto? – Pronto. – Le iniziali H. D. del nome Henry Dark alludono esattamente a Humpty Dumpty. – A chi? – A Humpty Dumpty. Mi ha capito benissimo. L’uovo. – L’uovo parlante seduto sul muro? – Precisamente. – Non capisco. – Humpty Dumpty: la più pura incarnazione della condizione umana. Ascolti attentamente, signore. Che cos’è un uovo? È ciò che non è ancora nato. Un paradosso, non le sembra? Perché… come può Humpty Dumpty essere vivo se non è nato? Eppure è vivo… fuori da ogni dubbio. Lo sappiamo perché parla. Anzi, è un filosofo del linguaggio. «Quando uso una parola, disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnoso, significa esattamente quello che ho scelto che significhi… né più né meno. Il
problema, disse Alice, è se voi potete dare alle parole così tanti significati. Il problema, ribatté Humpty Dumpty, è chi ha da essere il padrone… tutto qua». – Lewis Carroll. – Attraverso lo specchio, capitolo sesto. – Interessante. – È più che interessante, signore. È fondamentale. Ascolti attentamente, e forse imparerà qualcosa. Nel discorsetto che fa ad Alice, Humpty Dumpty delinea il futuro delle speranze umane, indicando la traccia per la nostra salvezza: diventare i padroni delle parole che pronunciamo, far sì che il linguaggio corrisponda alle nostre necessità. Humpty Dumpty era un profeta, un uomo che proferiva verità cui il mondo non era preparato. – Un uomo? – Mi perdoni. È stato un lapsus. Intendo dire, un uovo. Ma il lapsus è istruttivo e mi aiuta a esprimere il concetto. Perché tutti gli uomini, in un certo senso, sono uova. Noi esistiamo, ma non abbiamo ancora assunto la forma che incarna il nostro destino. Siamo puro potenziale, un esempio del non–pervenuto–ancora. Poiché l’uomo è una creatura caduta… lo sappiamo dalla Genesi. Anche Humpty Dumpty è una creatura caduta. Cade dal muro, e nessuno potrà più rimetterlo assieme: né il re, né i suoi cavalli, né i suoi fidi. Ma questo è lo scopo per cui noi tutti ora dobbiamo batterci. È il nostro dovere di esseri umani: ricomporre l’uovo. Perché, signore, ciascuno di noi è Humpty Dumpty. E aiutare lui è aiutare noi stessi. – Un ragionamento convincente. – È impossibile trovarvi un punto debole. – L’uovo non ha crepe. – Esattamente. – E nello stesso tempo, spiega l’origine di Henry Dark. – Sì. Ma c’è ancora di più. Un altro uovo, in effetti. – Ce n’è più d’uno? – O santo cielo, sì. Ce ne sono milioni. Ma quello che ho in testa io, è particolarmente famoso. Probabilmente è l’uovo più celebrato di tutti. – Comincio a perdere il filo. – Sto parlando dell’uovo di Colombo. – Ah, già. Per forza. – Conosce la storia? – Tutti la conoscono.
– Affascinante, non trova? Posto di fronte al problema di tenere in piedi un uovo, Colombo non fece altro che picchiettarlo sulla base, incrinando il guscio quanto bastava per creare quel minimo appiattimento che reggesse l’uovo quando lui avrebbe tolto la mano. – E funzionò. – Certo che funzionò. Colombo era un genio. Cercava il paradiso terrestre e scopri il Nuovo Mondo. Non è ancora troppo tardi per trasformarlo in paradiso. – Senz’altro. – Ammetto che le cose fin qui non sono andate troppo bene. Ma c’è ancora speranza. Gli americani non hanno mai perso il desiderio di scoprire nuovi mondi. Si ricorda che cosa è successo nel 1969? – Ricordo tante cose. Lei a quale allude? – Degli uomini camminarono sulla luna. Ci pensi, signore. Degli uomini camminarono sulla luna! – Sì, mi ricordo. Secondo il Presidente, fu il più grande avvenimento dal giorno della creazione. – Aveva ragione. L’unica cosa intelligente che quell’individuo abbia mai detto. E quale aspetto crede che abbia la luna? – Non ne ho idea. – Su, su… ci pensi ancora. – Oh, sì. Ora capisco cosa vuole dire. – Sicuro, la somiglianza è imperfetta. Ma è vero che in determinate fasi, e specialmente se la notte è limpida, la luna appare molto simile a un uovo. – Sì. Gli somiglia moltissimo. In quel momento comparve una cameriera che posò la colazione di Stillman sul tavolo davanti a lui. Il vecchio adocchiò il cibo con piacere. Sollevando garbatamente con la destra un coltello, ruppe il guscio dell’uovo alla coque e disse: – Come può vedere, signore, io non lascio nulla di intentato. Il terzo incontro si svolse più tardi in quello stesso giorno. Il tardo pomeriggio era ben inoltrato: la luce si stendeva come un velo sopra mattoni e foglie, le ombre si allungavano. Di nuovo, Stillman si ritirò in Riverside Park, questa volta ai suoi margini, per sostare alla fine su un rialzo roccioso all’altezza dell’Ottantaquattresima, noto come Monte Tom. In quello stesso punto, nelle estati del 1843 e del 1844, Edgar Allan Poe aveva trascorso
molte lunghe ore a fissare lo Hudson. Quinn lo sapeva perché questo genere di nozioni erano divenute parte del suo lavoro. A dire il vero, spesso si era seduto in quel punto anche lui. Adesso sentiva un po’ di apprensione al pensiero di quello che doveva fare. Girò due o tre volte intorno alla roccia, peraltro senza risvegliare l’attenzione di Stillman. Poi si sedette vicino al vecchio e lo salutò. Incredibilmente Stillman non lo riconobbe. Era la terza volta che Quinn si presentava, e ogni volta era come se fosse stato una persona diversa. Non riuscì a decidere se questo era un segnale positivo o negativo. Se Stillman simulava, era il più grande attore del mondo. Perché ogni volta Quinn era apparso di sorpresa. Eppure Stillman non aveva battuto ciglio. D’altro canto, se veramente Stillman non lo riconosceva, questo che voleva dire? Era mai possibile che un individuo fosse così inaccessibile alle cose che vedeva? Il vecchio gli domandò chi era. – Il mio nome è Peter Stillman, – disse Quinn. – Quello è il mio nome, – ribatté Stillman. – Peter Stillman sono io. – Io sono l’altro Peter Stillman, – disse Quinn. – Oh. Vuole dire mio figlio. Sì, questo è possibile. Gli assomiglia proprio. Naturalmente Peter è biondo e lei scuro. Non scuro nel senso di Dark, scuro di capelli. Ma le persone cambiano, eccome! Adesso siamo una cosa, passa un minuto e siamo un’altra. – Precisamente. – Ho pensato tante volte a te, Peter. Tante volte mi dicevo: «Chissà Peter come starà». – Adesso molto meglio, grazie. – Sono contento di sentirtelo dire. Una volta qualcuno mi ha detto che eri morto. Questo mi ha rattristato molto. – No, mi sono completamente ripreso. – Si vede. Sei fresco come una rosa. E poi, parli così bene. – Ora ho a disposizione tutte le parole. Anche quelle che creano difficoltà alla maggior parte della gente. Le so pronunciare tutte. – Sono fiero di te, Peter. – È tutto merito tuo. – I figli sono una gran benedizione. L’ho sempre detto. Una benedizione incomparabile. – Sicuramente.
– In quanto a me, ho le mie giornate sì e le mie giornate no. Quando arrivano quelle no, penso alle giornate sì che ho già vissuto. La memoria è una gran benedizione, Peter. È la cosa più bella dopo la morte. – Senza dubbio. – Naturalmente noi dobbiamo vivere anche nel presente. Per esempio, attualmente mi trovo a New York. Domani potrei essere altrove. Vedi, io viaggio molto. Oggi qui, domani là. Fa parte del mio lavoro. – Dev’essere stimolante. – Sì, sono molto stimolato. La mia mente non si ferma mai. – Mi fa piacere. – Gli anni pesano molto, è vero. Ma abbiamo tanti motivi di gratitudine. Il tempo invecchia, ma ci regala il giorno e la notte. E quando moriamo, c’è sempre qualcuno che prende il nostro posto. – Tutti invecchiamo. – Quando sarai vecchio, forse avrai un figlio che ti consolerà. – Mi piacerebbe. – In tal caso saresti fortunato come sono stato io. Ricordati, Peter: i figli sono una gran benedizione. – Non lo dimenticherò. – E ricordati anche che non si devono mettere tutte le uova in un solo paniere. D’altra parte, non devi neanche contare i pulcini prima della schiusa. – No. Cercherò di prendere le cose come vengono. – Infine, non dire mai una cosa che in cuor tuo sai non essere vera. – Non lo farò. – Mentire è brutto. Ti fa pentire di essere nato. E non essere nati è una maledizione. Sei condannato a vivere fuori dal tempo. E quando vivi fuori dal tempo, non esistono il giorno e la notte. Non hai nemmeno la possibilità di morire. – Capisco. – Una bugia non si cancella mai. Nemmeno con la verità. Io sono un padre, e queste cose le so. Rammenta cosa è successo al padre di questa nazione. Abbatté il ciliegio, e poi disse a suo padre: «Io non posso dire una bugia». Dopodiché gettò la moneta al di là del fiume. Questi due aneddoti sono eventi decisivi nella storia americana. George Washington abbatté l’albero e gettò via il denaro. Lo capisci? Ci stava illustrando una verità fondamentale. Vale a dire, che il denaro non cresce sugli alberi. È
questo che ha fatto grande il nostro paese, Peter. Adesso il ritratto di George Washington è su tutte le banconote da un dollaro. C’è una lezione importante da imparare per ognuno di noi. – Sono d’accordo con te. – Ovviamente è deplorevole che l’albero sia stato abbattuto. Quello era l’Albero della Vita, e ci avrebbe reso immuni dalla morte. Ora invece la morte l’accogliamo a braccia aperte, soprattutto da vecchi. Ma il padre della nostra nazione conosceva il proprio dovere. Non poteva agire altrimenti. Tale è il significato della frase «La vita è un cesto di ciliegie». Se l’albero fosse rimasto in piedi, avremmo avuto vita eterna. – Sì, capisco cosa vuoi dire. – Ho in testa tante idee… La mia mente non si ferma mai. Sei sempre stato un bambino intelligente, Peter, e mi rallegra che tu capisca. – Riesco a seguirti perfettamente. – Un padre deve sempre insegnare al figlio le lezioni che ha imparato. In tal modo la conoscenza si trasmette di generazione in generazione e diventiamo più saggi. – Non scorderò quello che mi hai detto. – Adesso potrei morire felice, Peter. – Sono contento. – Ma tu non devi dimenticare niente. – No, padre. Te lo prometto. L’indomani mattina alla solita ora Quinn era davanti all’albergo. Alla fine il tempo era cambiato. Dopo due settimane di cieli luminosi cadeva su New York una pioggia sottile, e per le strade si sentiva il rumore dei pneumatici bagnati in movimento. Quinn rimase seduto sulla panchina per un’ora, proteggendosi con un ombrello nero, pensando che Stillman sarebbe apparso da un momento all’altro. Si destreggiò a mangiare il suo panino con il caffè, lesse la cronaca della sconfitta domenicale dei Mets, e del vecchio neppure l’ombra. Pazienza, disse fra sé, cominciando ad accapigliarsi con il resto del giornale. Trascorsero quaranta minuti. Arrivò all’inserto di economia, ma mentre iniziava a leggere l’analisi di una fusione societaria la pioggia rinforzò all’improvviso. Si alzò malvolentieri dalla panca, trasferendosi sotto un portone sull’altro lato della via. Qui restò in piedi per un’ora e mezza con le scarpe fradice. «Forse Stillman è malato?», si domandò. Cercò di immaginarselo steso sul letto in un bagno di sudore febbrile. Forse il vecchio
era morto durante la notte e il suo corpo non era ancora stato scoperto. Cose che capitano, disse fra sé. Oggi doveva essere il giorno decisivo, e per l’occasione Quinn aveva elaborato un piano complesso e meticoloso. Ora tutti i suoi calcoli andavano in fumo. Il pensiero di non aver previsto questa eventualità gli fece male. Nel frattempo, indugiava. Rimase fermo sotto l’ombrello, a guardare la pioggia che se ne staccava ricadendo in minuscole goccioline. Alle undici cominciò a prendere una decisione. Mezz’ora dopo attraversò la strada, costeggiò l’isolato per una quarantina di passi ed entrò nell’hotel di Stillman. Il luogo puzzava di mozziconi e di insetticida. Alcuni clienti, bloccati in albergo dalla pioggia, oziavano nell’ingresso, stravaccati su seggiole di plastica arancione. Sembrava un luogo opaco, un inferno di pensieri rancidi. Un nero grande e grosso era seduto alla reception con le maniche arrotolate. Un gomito sul banco, la testa puntellata sulla mano. Con l’altra mano sfogliava un quotidiano popolare, quasi senza fermarsi a leggere le parole. Aveva un’aria così annoiata che sembrava stesse lì da tutta la vita. – Vorrei lasciare un messaggio per un vostro ospite, – disse Quinn. L’uomo alzò gli occhi su di lui lentamente, come se desiderasse vederlo sparire. – Vorrei lasciare un messaggio per un vostro ospite, – ripeté Quinn. – Qui non abbiamo ospiti, – disse l’uomo. – Li chiamiamo residenti. – Per uno dei vostri residenti, allora. Vorrei lasciare un messaggio. – E per chi sarebbe? – Stillman. Peter Stillman. L’uomo finse di riflettere per un momento, poi scosse la testa. – No. Non ricordo nessuno che si chiama così. – Non ce l’avete un registro? – Esatto, abbiamo un libro. Ma sta in cassaforte. – In cassaforte? Ma cosa sta dicendo? – Dico del libro. Al capo gli piace tenerlo chiuso in cassaforte. – E lei la combinazione non la conosce, vero? – Purtroppo. La sa solo il capo. Quinn sospirò, si frugò in tasca ed estrasse un biglietto da cinque dollari. Lo distese sul banco tenendovi sopra la mano. – Non ce l’ha proprio una copia del libro, eh? – chiese. – Forse, – rispose l’uomo. – Devo dare un’occhiata nel mio ufficio.
L’uomo sollevò il giornale aperto sul banco. Sotto c’era il registro. – Che fortuna, – commentò Quinn togliendo la mano dal denaro. – Già, mi sa che oggi è la mia giornata, – replicò l’uomo, facendo scivolare la banconota lungo il ripiano per ghermirla sull’orlo e infilarsela in tasca. – Com’è che ha detto che si chiamava il suo amico? – Stillman. Un uomo anziano coi capelli bianchi. – Quel signore con il soprabito? – Esatto. – Quello che chiamiamo il Professore. – Proprio lui. Ce l’ha il numero della stanza? È arrivato da un paio di settimane. L’impiegato aprì il registro, lo sfogliò e fece scorrere il dito lungo la colonna di nomi e numeri. – Stillman, – disse alla fine. – Camera 303. Non sta più qui. – Come? – Se n’è andato. – Come? – Senti, io ti dico soltanto quello che c’è scritto qua. Stillman è andato via ieri sera. Non c’è più. – Questa è la cosa più assurda che ho mai sentito. – Sarà un po’ quello che vuoi tu. Ma è scritto tutto qua, nero su bianco. – Ha lasciato un recapito? – Stai scherzando? – A che ora è andato via? – Lo deve chiedere a Louie, il portiere di notte. Monta alle otto. – Posso vedere la camera? – Mi spiace. L’ho data via stamattina. C’è su un tizio che dorme. – Che aspetto aveva? – Ne fai delle domande, per un cinquone. – Lasci perdere, – disse Quinn con un gesto di sconforto. – Non importa. Tornò al suo appartamento sotto un diluvio, bagnandosi fino al midollo nonostante l’ombrello. Alla faccia della funzione degli oggetti, disse fra sé. Alla faccia del significato delle parole. Disgustato, gettò l’ombrello sul pavimento del soggiorno. Poi si tolse la giacca e la lanciò contro il muro. L’acqua schizzò in tutte le direzioni.
Chiamò Virginia Stillman, troppo a disagio per pensare di fare qualcos’altro. Nel momento in cui la donna gli rispose, per poco non riagganciò. – L’ho perso, – disse. – Ne è sicuro? – È andato via dall’albergo ieri sera. Non so dove si trovi. – Ho paura, Paul. – Si è fatto sentire? – Non lo so. Penso di sì, ma non ne sono sicura. – Cosa intende? – Stamattina Peter ha risposto al telefono mentre facevo il bagno. Non ha voluto dirmi chi era. È andato in camera sua, ha chiuso le imposte e si rifiuta di parlare. – Be’, non è la prima volta che si comporta così. – Sì. Per questo non ne sono sicura. Ma è la prima volta che succede da molto tempo. – Brutta storia. – Per questo ho paura. – Non si preoccupi. Ho qualche idea, e mi metterò subito al lavoro. – Dove posso raggiungerla? – La chiamerò ogni due ore dovunque mi trovi. – Me lo promette? – Sì, prometto. – Ho una tale paura, che non so quello che faccio. – È tutta colpa mia. Ho commesso uno stupido errore, sono mortificato. – No, la colpa non è sua. Nessuno può sorvegliare una persona ventiquattro ore al giorno. È impossibile. Dovrebbe stare sotto la sua pelle. – È questo il guaio. Credevo di essermici infilato. – Ma non è troppo tardi, vero? – No. C’è ancora un sacco di tempo. Non si preoccupi, la prego. – Farò del mio meglio. – Bene. Mi farò vivo. – Ogni due ore? – Ogni due ore. Aveva condotto la conversazione con abilità. Malgrado tutto, era riuscito a tenere calma Virginia Stillman. Era difficile da credere, ma sembrava
proprio che si fidasse ancora di lui. Non che questo gli servisse a qualcosa. PerchĂŠ il fatto era che lui le aveva mentito. Non aveva qualche idea. Non ne aveva nemmeno una.
10. Stillman dunque era andato. Il vecchio si era confuso con la città. Era una macchiolina, un segno d’interpunzione, un mattone in un muro infinito di mattoni. Quinn poteva camminare per le strade tutti i giorni per il resto della sua vita senza trovarlo. Tutto si era ridotto al caso, a un incubo di cifre e probabilità. Indizi non ce n’erano, né piste, né mosse da effettuare. Quinn risalì mentalmente all’inizio del caso. Il suo incarico era proteggere Peter, non pedinare Stillman. Quello era stato semplicemente un metodo, una via per cercare di anticipare ciò che sarebbe accaduto. La teoria era che, sorvegliando Stillman, avrebbe compreso le sue intenzioni nei confronti di Peter. Aveva seguito il vecchio per due settimane. E cosa poteva concludere? Non molto. Il comportamento di Stillman era stato troppo enigmatico per dargli indicazioni. Naturalmente si potevano ancora prendere alcune misure estreme. Poteva consigliare a Virginia Stillman di farsi assegnare un numero telefonico fuori dall’elenco. Questo, almeno provvisoriamente, avrebbe eliminato le chiamate moleste. Se non funzionava, lei e Peter avrebbero potuto trasferirsi. Lasciare il quartiere, o addirittura la città. Alla peggio, potevano assumere nuove identità, vivere sotto nomi diversi. Quest’ultimo pensiero gli ricordò un particolare significativo. Si accorse che fino allora non aveva mai esaminato seriamente le circostanze della sua assunzione. Era successo tutto troppo in fretta, e aveva dato per scontato di saper reggere la parte di Paul Auster. Così, una volta trasmigrato nel nuovo nome, aveva smesso di pensare al vero Auster. Ma se quell’uomo era un detective abile come pensavano gli Stillman, forse avrebbe potuto aiutarlo a risolvere il caso. Quinn avrebbe vuotato il sacco, Auster lo avrebbe perdonato, e insieme si sarebbero impegnati per salvare Peter Stillman. Sfogliò le pagine gialle alla ricerca dell’Agenzia Investigativa Auster. Non era riportata. Invece nella guida generale trovò il nome. C’era un Paul Auster a Manhattan, abitava in Riverside Drive, non lontano dalla casa di Quinn. Nessun riferimento a un’agenzia investigativa, ma questo in sé non
significava nulla. Forse Auster aveva così tanto lavoro che non gli serviva farsi pubblicità. Quinn alzò la cornetta, e stava per comporre il numero quando gli venne un’idea migliore. Era una conversazione troppo importante per affidarla al telefono. Non voleva correre il rischio di essere liquidato in due parole. Se Auster non aveva l’ufficio, voleva dire che lavorava in casa. Quinn ci sarebbe andato e gli avrebbe parlato a quattr’occhi. Aveva cessato di piovere e anche se il cielo rimaneva grigio, a ovest, verso l’orizzonte, Quinn vedeva filtrare dalle nuvole un esile raggio di luce. Camminando su Riverside Drive, si rese conto che non stava più seguendo Stillman. Gli sembrò di avere perduto una metà di se stesso. Per due settimane un filo invisibile lo aveva legato al vecchio. Qualunque cosa Stillman facesse, lo faceva anche lui. Il suo corpo non era abituato a quella nuova libertà, e per i primi isolati continuò a camminare con il solito passo strascicato. L’incantesimo era infranto, e il suo corpo non lo sapeva ancora. La casa di Auster sorgeva al centro del lungo isolato che correva fra la Centosedicesima e la Centodiciannovesima strada, appena a sud della Riverside Church e della Tomba di Grant. Era un palazzo ben tenuto, con ottoni lucidi e vetrate pulite: dava un’impressione di sobrietà borghese che lì per lì Quinn apprezzò. L’appartamento di Auster era all’undicesimo piano, e Quinn suonò il campanello aspettandosi di sentire una voce al citofono. Invece gli rispose direttamente il ronzio dell’apriporta. Quinn spinse l’uscio, attraversò l’ingresso e sali in ascensore fino all’undicesimo. Ad aprirgli la porta dell’appartamento venne un uomo. Era un tipo alto e bruno sui trentacinque anni, coi vestiti trasandati e una barba di due giorni. Nella mano destra, fra il pollice e le prime due dita, stringeva una stilografica senza cappuccio ancora alzata come se stesse scrivendo. L’uomo sembrò sorpreso di trovarsi davanti uno sconosciuto. – Sì? – chiese con perplessità. Quinn parlò con tutta la cortesia di cui era capace. – Forse stava aspettando qualcun altro? – Mia moglie, a dire il vero. Per questo ho aperto senza domandare chi era. – Mi spiace disturbarla, – si scusò Quinn. – Ma stavo cercando Paul Auster. – Sono io, Paul Auster, – disse l’uomo. – Volevo sapere se posso parlare con lei. È piuttosto importante.
– Prima dovrebbe dirmi chi è. – Non lo so bene neanch’io Quinn guardò Auster gravemente. – Temo sia complicato. Molto complicato. – Ma ce l’ha un nome? – Oh, scusi. Certo che ce l’ho. Quinn. – Quinn e basta? – Daniel Quinn. Sembrò che il nome suonasse familiare a Auster, che restò un attimo soprappensiero, come se si frugasse nella memoria. – Quinn, – mormorò fra sé. – Questo nome l’ho sentito da qualche parte –. Tacque nuovamente, concentrandosi alla ricerca della risposta. – Lei non è un poeta, vero? – Lo ero, – rispose Quinn. – Ma è tanto tempo che non scrivo più poesie. – Qualche anno fa ha pubblicato un libro, no? Credo che il titolo fosse Impresa incompiuta. Un libretto con la copertina azzurra. – Esatto. Ero io. – Mi era piaciuto molto. Ho sperato molto di vedere pubblicati altri suoi lavori. Mi sono anche domandato che fine aveva fatto. – Sono ancora qui. In un certo senso. Auster aprì completamente la porta e fece cenno a Quinn di entrare nell’appartamento. L’interno era piuttosto piacevole: aveva una strana forma, con alcuni lunghi corridoi, libri accatastati ovunque, alle pareti quadri di pittori a Quinn ignoti, e giocattoli disseminati sul pavimento: un camion rosso, un orso bruno, un mostro spaziale verde. Auster lo accompagnò nel soggiorno, lo fece accomodare su una sedia dalla tappezzeria sdrucita e andò in cucina a prendere della birra. Tornò con due bottiglie, le posò su una cassa da imballaggio di legno che faceva da tavolino, e si sedette sul divano davanti a Quinn. – Voleva parlare di faccende letterarie? – cominciò Auster. – No, – disse Quinn. – Lo avrei preferito. Ma la letteratura non c’entra. – E di che cosa, allora? Quinn indugiò, girò lo sguardo per la stanza senza vedere nulla, e cercò di cominciare. – Temo di avere commesso un errore madornale. Ero venuto a cercare Paul Auster, il poliziotto privato. – Il che cosa? – Auster rise e di colpo, in quella risata, tutto esplose e andò a pezzi. Quinn capì di avere detto una cosa assurda. Se avesse domandato del Capo Toro Seduto, l’effetto non sarebbe stato diverso.
– Il poliziotto privato, – ripeté a bassa voce. – Temo si sia rivolto al Paul Auster sbagliato. – Ma lei è l’unico sulla guida. – Può darsi, – disse Auster. – Ma non sono un detective. – E allora chi è? Che lavoro fa? – Lo scrittore. – Lo scrittore? – Quinn pronunciò la parola come se fosse stato un lamento. – Mi dispiace, – disse Auster. – Ma si dà il caso che sia proprio così. – Se è come dice, non c’è più speranza. È stato tutto solo un brutto sogno. – Non ho idea di che cosa stia dicendo. Quinn glielo spiegò. Cominciò dal principio e raccontò tutta la storia passo dopo passo. Era da quel mattino, dalla scomparsa di Stillman, che l’ansia gli montava dentro: e adesso traboccò in un torrente di parole. Raccontò delle chiamate telefoniche per Paul Auster, di come senza un perché aveva accettato di occuparsi del caso, del suo incontro con Peter Stillman, della conversazione con Virginia Stillman, della lettura del libro di Stillman, del suo pedinamento a partire dalla Grand Central Station, dei quotidiani vagabondaggi di Stillman, della sacca da viaggio e degli oggetti rotti, delle mappe inquietanti che formavano lettere dell’alfabeto, dei suoi colloqui con Stillman, della scomparsa del vecchio dall’albergo. Quando ebbe terminato, domandò: – Lei crede che sia pazzo? – No, – disse Auster che aveva ascoltato attentamente il monologo di Quinn. – Se fossi stato al suo posto, probabilmente avrei fatto lo stesso. Quinn fu profondamente consolato da queste parole, come se finalmente si fosse tolto una parte del peso dalle spalle. Sentì l’impulso di abbracciare Auster e dichiarargli la sua amicizia per tutta la vita. – Vede, – disse Quinn, – non sto inventando. Ho anche una prova –. Tirò fuori il portafoglio e sfilò l’assegno da cinquecento dollari che Virginia Stillman aveva firmato due settimane prima. Lo porse a Auster. – Vede, – disse. – È proprio intestato a lei. Auster esaminò con cura l’assegno e annuì. – Sì, sembra un assegno normalissimo. – Bene, è suo, – disse Quinn. – Voglio che lo prenda. – Non posso assolutamente accettarlo. – A me non serve –. Quinn diede un’occhiata alla casa e fece un gesto
vago. – Si compri degli altri libri. O dei giochi per suo figlio. – Questo denaro se lo è guadagnato. E merita di tenerselo Auster rifletté un attimo. – Ma c’è una cosa che posso fare per lei. Dato che l’assegno è a nome mio, lo incasserò a suo favore. Domattina lo porto in banca, lo deposito sul mio conto corrente e quando verrà pagato le consegnerò la somma. Quinn non disse niente. – Va bene, allora? – chiese Auster. – Restiamo d’accordo così? – Va bene, – rispose infine Quinn. – Vedremo che succede. Auster posò l’assegno sul tavolino come per confermare l’accordo. Poi tornò ad appoggiarsi sul divano e guardò Quinn negli occhi. – Ma c’è una questione molto più importante dell’assegno, – disse. – Il fatto che in questa faccenda sia entrato il mio nome. Davvero non capisco. – Vorrei sapere se di recente ha avuto problemi con il telefono. A volte le linee si sovrappongono. Una persona cerca di chiamare un numero, e anche se lo compone correttamente parla con qualcun altro. – Sì, in passato mi è accaduto. Ma anche ammesso che il mio telefono fosse rotto, questo non spiega il vero problema. Ci dice perché la chiamata è arrivata a lei, ma non perché in prima battuta cercassero me. – Per caso lei conosce le persone coinvolte? – Mai sentito parlare degli Stillman. – Forse qualcuno ha voluto farle uno scherzo pesante. – Non frequento gente del genere. – Non si può mai sapere. – Ma il fatto è che non si tratta di uno scherzo. È un caso reale, con persone reali. – Sì, – disse Quinn dopo una lunga pausa. – Lo so. Avevano esaurito gli argomenti di cui potevano parlare. Al di là di quel punto c’era il nulla: i pensieri scoordinati di uomini che non sapevano nulla. Quinn capì che era meglio andar via. Era rimasto per quasi un’ora, e si avvicinava il momento di chiamare Virginia Stillman. Tuttavia, era riluttante a muoversi. La sedia era comoda, e la birra gli aveva dato leggermente alla testa. Questo Auster era la prima persona intelligente con cui avesse parlato da molto tempo. Aveva letto il suo vecchio libro di poesie, lo aveva ammirato, aveva aspettato che ne uscisse un secondo. Malgrado tutto, per Quinn era impossibile non esserne contento. Per un po’ rimasero seduti senza dire niente. Alla fine, Auster dette una
scrollatina di spalle che sembrò sancire come fossero giunti a un punto morto. Si alzò in piedi e disse: – Stavo per farmi da mangiare. Cucino volentieri anche per due. Quinn esitò. Era come se Auster gli avesse letto nel pensiero, indovinando la cosa che desiderava maggiormente: mangiare, avere una scusa per restare ancora un po’. – Dovrei proprio andare, – rispose. – Ma sì, grazie. Un po’ di cibo non mi farà male. – Che gliene pare di una omelette al prosciutto? – Benissimo. Auster si ritirò in cucina a preparare. Quinn avrebbe voluto offrirsi di aiutarlo, ma non riuscì a muoversi. Il suo corpo era come di pietra. In mancanza di altre idee, chiuse gli occhi. In passato, a volte aveva trovato conforto nel fare sparire il mondo. Ora invece Quinn non trovò all’interno del proprio cervello niente di interessante. Sembrava che lì dentro le cose si fossero bloccate sbriciolandosi. Poi, dall’oscurità, cominciò a sentire una voce, una voce cantilenante, da idiota, che salmodiava all’infinito la stessa frase: «Non si può fare la frittata senza rompere le uova». Aprì gli occhi per fare smettere quelle parole. C’erano pane e burro, altra birra, forchette e coltelli, sale e pepe, tovaglioli e le omelettes, due per la precisione, che stillavano condimento sui piatti bianchi. Quinn mangiò con rude voracità, spazzando il piatto in quella che parve una questione di secondi. Poi compì un grande sforzo per restare calmo. Dietro i suoi occhi si assembrarono misteriosamente le lacrime, e quando parlava la sua voce sembrava tremare; ma in qualche modo gli riuscì di dominarsi. Per non mostrarsi un egomaniaco ingrato, cominciò a interrogare Auster sulla sua attività letteraria. Auster fu abbastanza reticente, ma alla fine ammise che stava scrivendo un libro di saggi. Attualmente era impegnato sul Don Chisciotte. – Uno dei miei libri preferiti, – disse Quinn. – Sì, anche dei miei. È ineguagliabile. Quinn gli chiese del saggio. – Immagino si possa definire speculativo, dato che non mi prefiggo di dimostrare nulla. In realtà, tutto è scritto sul filo dell’ironia. Credo che rappresenti una lettura fantasiosa. – E il nocciolo qual è? – Essenzialmente la paternità del libro. Chi lo ha scritto, e come è stato
scritto. – Perché, c’è una disputa? – Naturalmente no. Mi riferisco al libro nel libro che scrisse Cervantes, a quello che immaginò di scrivere. –Ah. – È molto semplice. Non so se ricorda che Cervantes si dà un gran daffare per convincere il lettore che l’autore non è lui. Il libro, afferma, era stato scritto in arabo da Cid Hamete Benengeli. Cervantes descrive la propria fortuita scoperta del manoscritto, un giorno nel mercato di Toledo. Dice di avere assunto chi glielo traducesse in spagnolo, e pertanto si presenta come nulla più che il revisore della traduzione. In effetti, non garantisce nemmeno sull’accuratezza della traduzione stessa. – Tuttavia – disse Quinn, – prosegue dichiarando che quella di Cid Hamete Benengeli è l’unica versione autentica della storia di Don Chisciotte. Tutte le altre sono fasulle, scritte da impostori. Tiene moltissimo a sottolineare che tutto quanto compare nel libro è realmente accaduto. – Esatto. Poiché il libro, dopo tutto, è un attacco contro i pericoli della finzione. Avendo questo scopo non poteva presentare un’opera di fantasia, giusto? Doveva asserire che fosse reale. – Eppure io ho sempre sospettato che Cervantes fosse un divoratore di quei vecchi romanzi cavallereschi. Non puoi odiare così violentemente qualcosa se una parte di te non la ama. In un certo senso Don Chisciotte era solo un suo alias. – Sono d’accordo con lei. Quale miglior ritratto di scrittore che rappresentare un individuo stregato dai libri? – Precisamente. – In ogni caso, se il libro si presenta come non fantastico ne consegue che la storia deve essere stata scritta da un testimone oculare degli eventi che vi si svolgono. Ma Cid Hamete, l’autore riconosciuto, non vi compare mai. Neanche una volta sostiene di essere presente a quanto accade. Perciò la mia domanda è la seguente: chi è Cid Hamete Benengeli? – Sì, capisco dove sta arrivando. – La teoria che propongo nel saggio è che in effetti sia una combinazione di tre figure differenti. Il testimone, ovviamente, è Sancho Panza. Non ci sono altri candidati… visto che è l’unico ad accompagnare Don Chisciotte in tutte le sue avventure. Ma Sancho non sa né leggere né scrivere. Dunque non
può essere l’autore. D’altro lato, sappiamo che Sancho ha un gran talento linguistico. A dispetto dei suoi assurdi strafalcioni, può irretire con la sua parlantina ogni altro personaggio del libro. A me sembra perfettamente plausibile che abbia dettato la storia a qualcun altro… esattamente al barbiere e al prete, buoni amici di Don Chisciotte. Questi stesero il racconto in una corretta forma letteraria, in spagnolo, per poi consegnare il manoscritto a Sanson Carrasco, baccelliere di Salamanca, che procedette alla sua traduzione in arabo. Cervantes trovò la traduzione e la riversò nuovamente in spagnolo, per pubblicare infine il libro Le avventure di Don Chisciotte. – Ma perché Sancho e gli altri si sobbarcarono tutte queste fatiche? – Per curare la follia di Don Chisciotte. Loro vogliono salvare l’amico. Rammenti che all’inizio bruciano i suoi libri cavallereschi, ma senza risultato. Il Cavaliere dalla Triste Figura non rinuncia alla propria ossessione. Poi, a un certo momento, vanno tutti alla sua ricerca sotto mentite spoglie – come la donna tribolata, il Cavaliere degli Specchi, il Cavaliere della Bianca Luna – per convincerlo a tornare a casa. Alla fine ci riescono veramente. Il libro era solo uno dei loro espedienti. Avevano l’idea di porre davanti alla follia di Don Chisciotte uno specchio, la cronaca di tutte le sue assurde e ridicole illusioni, cosicché quando infine lui avesse letto il libro potesse rendersi conto dei propri errori. – Mi piace. – Sì. Ma c’è ancora un risvolto. Secondo me, Don Chisciotte non era veramente pazzo. Fingeva solo di esserlo. In realtà, orchestrò personalmente tutta la vicenda. Ricordi: per tutto il libro Don Chisciotte si preoccupa del problema dei posteri. Si domanda di continuo se il cronista saprà registrare adeguatamente le sue prodezze. Questo da parte sua presuppone consapevolezza: sa in anticipo che tale cronista esiste. E chi può essere se non Sancho Panza, il fedele scudiero che Don Chisciotte ha scelto proprio a tale scopo? Analogamente, ha scelto gli altri tre che interpretino i ruoli a loro destinati. Fu Don Chisciotte ad architettare il quartetto Benengeli. E non solo scelse gli autori: probabilmente fu lui stesso a ritradurre in spagnolo il manoscritto arabo. Non dobbiamo crederlo incapace di tanto. Per un uomo così provetto nell’arte del travestimento, scurirsi la pelle e indossare le vesti di un arabo non poteva essere troppo difficile. Mi piace immaginarmi la scena nel mercato di Toledo. Cervantes che assume Don Chisciotte per
decifrare la storia di Don Chisciotte medesimo. C’è una grande bellezza in questo. – Ma non ha ancora spiegato perché un uomo come Don Chisciotte volesse sconvolgere la sua vita tranquilla per infilarsi in un tale ginepraio. – Questa è la parte più interessante. A mio parere, Don Chisciotte stava compiendo un esperimento. Voleva saggiare la dabbenaggine dei suoi simili. Sarà mai possibile, si chiedeva, pararsi di fronte al mondo e snocciolare menzogne e assurdità come se niente fosse? Dichiarare che i mulini a vento sono cavalieri, che un bacile da barbiere è un elmo, che le marionette sono persone in carne e ossa? Sarà mai possibile persuadere gli altri a darti ragione anche quando non ti credono? In altre parole, fino a che punto la gente avrebbe tollerato lo sproposito se lo sproposito la divertiva? La risposta è ovvia, no? All’infinito. Tant’è che il libro lo leggiamo ancora oggi. Con sommo divertimento, per di più. E alla fine è proprio questo che tutti chiediamo a un libro… che ci diverta. Auster si appoggiò allo schienale, sorrise con un certo gusto ironico e si accese una sigaretta. Il suo compiacimento era evidente, ma Quinn non ne capiva bene la natura. Sembrava una specie di riso atono, una barzelletta che si interrompeva prima della battuta conclusiva, un’ilarità diffusa, senza oggetto preciso. Quinn stava per replicare qualcosa alla teoria di Auster, ma non ne ebbe la possibilità. Aveva appena aperto bocca che fu interrotto da uno sbattere di chiavi nell’ingresso, seguito dalla porta che si apriva e si chiudeva di colpo, e da un misto di voci. A questi suoni, Auster si rischiarò in volto. Si alzò dal divano, domandò permesso e si diresse velocemente alla porta. Quinn sentì delle risate. Prima una donna, poi un bambino: alto e ancora più alto, una grandine di suoni in staccato, accompagnata dal basso continuo dello sghignazzare di Auster. Il bambino parlò: «Papà, guarda cos’ho trovato!» Poi la donna spiegò che l’aveva trovato per terra, sulla strada, e perché no?, le era sembrato che non ci fosse niente di male. Un attimo dopo sentì il bambino correre in corridoio, proprio nella sua direzione. Attraversò il soggiorno come un lampo, si avvide della presenza di Quinn e si bloccò di colpo. Era un maschietto biondo di cinque o sei anni. – Buongiorno, – disse Quinn. Il bambino si chiuse immediatamente sulla difensiva e riuscì solo a proferire un timido ciao. Nella mano destra aveva un oggetto che Quinn non
riuscì a identificare. Domandò cosa fosse. – È uno yo-yo, – rispose il bambino, aprendo la mano per farglielo vedere. – L’ho trovato per la strada. – Funziona? Il bambino scrollò le spalle con una mimica esagerata. – Non so. Siri non ce la fa. E io non so come si fa. Quinn gli chiese se lo lasciava provare, e il bambino si fece avanti e glielo porse. Mentre esaminava lo yo-yo, lo sentiva respirargli vicino, seguire ogni sua mossa. Lo yo-yo era di plastica, simile a quelli con cui aveva giocato tanti anni prima, e tuttavia più elaborato, un manufatto dell’era spaziale. Quinn si annodò al dito medio il cappio all’estremità della cordicella, si alzò e fece un tentativo. Lo yo-yo scese emettendo un sibilo flautato, mentre al suo interno sprizzavano scintille. Il bambino rimase a bocca aperta, ma poi lo yo-yo si fermò dondolando in fondo allo spago. – Una volta, – mormorò Quinn, – un grande filosofo ha detto che la salita e la discesa sono la stessa, identica cosa. – Ma tu non ce l’hai fatta a farlo salire, – disse il bambino. – È solo andato giù. – Bisogna provare ancora. Quinn stava riavvolgendo il rocchetto per effettuare un nuovo tentativo quando entrarono nella stanza Auster e sua moglie. Alzò gli occhi e vide la donna per la prima volta. Gli bastò un attimo per sentirsi con l’acqua alla gola. Era alta e bionda, coi capelli sottili, radiosa di una bellezza così straripante di felicità e di energia da rendere invisibile tutto quello che le stava intorno. Per Quinn era troppo. Si sentì come se Auster lo stesse deridendo spiattellandogli davanti tutte le cose che lui aveva perso, e reagì con l’invidia e la rabbia, e con una lancinante autocommiserazione. Sì, anche a lui sarebbe piaciuto avere una moglie e un figlio come quelli, e starsene seduto tutto il giorno a sproloquiare di vecchi libri, circondato da yo-yo, omelettes al prosciutto e penne stilografiche. Pregò che il tormento finisse presto. Auster vide lo yo-yo nella sua mano e commentò: – Vedo che avete già fatto conoscenza. Daniel, – disse al bambino, – ti presento Daniel. Poi, rivolgendosi a Quinn con lo stesso sorriso ironico: – Daniel, le presento Daniel. Il bambino scoppiò a ridere e disse: – Siamo tutti Daniel!
– Esatto, – disse Quinn. – Io sono te, e tu sei me. – E giro giro tondo, – gridò il bambino, allargando improvvisamente le braccia e mulinando per la stanza come un giroscopio. – E questa, – disse Auster accennando alla donna, – è mia moglie Siri. La moglie fece un altro sorriso dei suoi, disse che era felice di conoscere Quinn come se lo fosse per davvero, e poi gli tese la mano. Lui la strinse, avvertendo la misteriosa esilità delle sue ossa, e le domandò se il suo nome era norvegese. – È uno dei pochi a saperlo, – rispose lei. – Viene dalla Norvegia? – Indirettamente, – rispose la donna. – Via Northfield, Minnesota –. Poi fece la sua risata, e Quinn sentì sgretolarsi un altro pezzo di se stesso. – So che ha i minuti contati, – disse Auster, – ma se le resta ancora un po’ di tempo, perché non si ferma a cena con noi? – Ah, – disse Quinn cercando di controllarsi. – È molto gentile. Ma devo proprio andare. Anzi, sono in ritardo. Compì un ultimo sforzo, sorridendo alla moglie di Auster e facendo ciao ciao al bambino. – Arrivederci, Daniel, – concluse avviandosi verso la porta. Il bambino lo guardò dal fondo della stanza e ridendo di nuovo gli disse: – Ciao me! Auster lo accompagnò alla porta. Disse: – La chiamerò appena pagano l’assegno. È sull’elenco? – Sì, – disse Quinn. – Sono l’unico. – Di qualunque cosa avesse bisogno, – disse Auster, – mi chiami senza problemi. Sarò lieto di aiutarla. Auster fece per stringergli la mano e Quinn si accorse di avere ancora nella sua lo yo-yo. Lo mise nella destra di Auster, gli dette una leggera pacca sulla spalla e uscì.
11. Adesso Quinn non era in nessun luogo. Non aveva niente, non sapeva niente. Non soltanto era stato rimandato alla partenza; ora si trovava prima della partenza, in un punto così antecedente alla partenza da essere peggio di qualunque arrivo immaginabile. Il suo orologio faceva quasi le sei. Tornò a casa per la stessa strada dell’andata, allungando il passo di isolato in isolato. Prima di raggiungere la sua via, aveva incominciato a correre. È il due di giugno, disse fra sé. Cerca di ricordarlo. Questa è New York, e domani sarà il tre di giugno. Se tutto va bene, l’indomani sarà il quattro giugno. Ma niente è sicuro. L’ora in cui avrebbe dovuto telefonare a Virginia Stillman era passata da un pezzo, ed era incerto se chiamare o no. Poteva ignorarla? Poteva abbandonare tutto adesso, come se niente fosse? Sì, disse fra sé, era possibile. Avrebbe potuto dimenticare il caso, tornare al suo tran tran, scrivere un altro libro. Se ne aveva voglia poteva fare un viaggio, magari lasciare il paese per un po’. Andarsene a Parigi, per esempio. Sì, quella era un’idea. Ma qualunque luogo sarebbe andato bene, proprio qualunque luogo. Si sedette in soggiorno e guardò le pareti. Si ricordò che un tempo erano state bianche, ma adesso apparivano di una strana sfumatura di giallo. Forse un giorno si sarebbero fatte ancora più tetre, passando al grigio o persino al marrone, come pezzi di frutta che marcisce. Una parete bianca diventa una parete grigia, disse fra sé. La vernice si consuma, la città si tinge della propria fuliggine, l’intonaco si sbriciola. Mutamenti, seguiti da altri mutamenti. Fumò una sigaretta, poi un’altra e un’altra ancora. Si guardò le mani, vide che erano sporche e si alzò per lavarle. In bagno, mentre l’acqua scorreva nel lavandino, decise che doveva anche radersi. Si insaponò la faccia, prese una lametta nuova e cominciò a sbarbarsi. Per qualche motivo provava fastidio nel guardare lo specchio, e si sforzò di evitare la propria immagine. Stai invecchiando, disse fra sé, stai diventando un vecchio rincoglionito. Poi andò in cucina, trangugiò una ciotola di cornflakes e fumò un’altra sigaretta.
A questo punto erano le sette. Ancora una volta si chiese se doveva chiamare Virginia Stillman. Mentre rifletteva, si rese conto di non avere più opinioni. Vedeva le ragioni per fare la telefonata e nel contempo quelle per non farla. Alla fine fu l’etichetta a decidere. Non sarebbe stato educato sparire senza prima averglielo detto. Dopo, invece, sarebbe diventato pienamente accettabile. Finché spieghi alla gente quello che intendi fare, ragionò, va sempre bene. Poi sei libero di agire come vuoi. Tuttavia il numero era occupato. Richiamò dopo cinque minuti. Ancora occupato. Per l’ora successiva Quinn alternò attese e tentativi, sempre con lo stesso risultato. Alla fine chiamò il centralino e chiese se il telefono era guasto. L’operatrice gli disse che gli sarebbero stati addebitati trenta cent. Poi la linea gracchiò e si sentì il rumore del numero che veniva ricomposto, seguito da altre voci. Quinn cercò di immaginare l’aspetto delle centraliniste. Poi parlò nuovamente la prima donna: il numero era occupato. Quinn non sapeva cosa pensare. Le possibilità erano talmente tante che non riusciva nemmeno a inventariarle. Stillman? Il telefono staccato? O proprio un altro numero? Accese il televisore e guardò i primi due inning della partita dei Mets. Poi tentò un’altra volta. Come prima. Sullo scorcio del terzo il St. Louis segnò con una gratuita, una rubata, un interno eliminato e una volata al sacrificio. I Mets pareggiarono nel loro tempo d’attacco con una doppia di Wilson e una singola di Youngblood. Quinn si rese conto che non gliene importava nulla. Mandarono in onda lo spot di una birra e lui tolse il volume. Tentò per l’ennesima volta di mettersi in contatto con Virginia Stillman, sempre senza risultato. Alla fine del quarto il St. Louis segnò cinque punti e Quinn spense anche il video. Prese il taccuino rosso, si sedette alla scrivania e scrisse senza interruzione per due ore. Senza preoccuparsi di rileggere quello che scriveva. Poi chiamò Virginia Stillman e risentì il segnale di occupato. Sbatté giù la cornetta con tale violenza che la plastica si incrinò. Quando riprovò a chiamare, era sparito il segnale della linea. Si alzò, passò in cucina e mangiò un’altra ciotola di cornflakes. Poi andò a letto. In un sogno che dimenticò subito passeggiava per Broadway tenendo per mano il figlio di Auster. Quinn trascorse l’indomani camminando. Partì presto, appena dopo le otto, e non si fermò a riflettere su quello che faceva. In effetti quel giorno vide molte cose che non aveva mai notato.
Ogni venti minuti entrava in una cabina telefonica e chiamava Virginia Stillman. Non ci furono novità rispetto alla sera precedente. Ormai Quinn si aspettava di trovare occupato. La cosa non gli dava più fastidio. Quel segnale era diventato il contrappunto dei suoi passi, un metronomo dal battito costante fra gli sparsi rumori della città. Lo tranquillizzava il pensiero che ogni volta che avesse fatto il numero sarebbe incappato in quel suono mai disposto a recedere dal suo diniego, che negava la parola e la possibilità della parola, tenace come il battito del cuore. Ora Virginia e Peter Stillman erano isolati da lui. Ma poteva zittire la coscienza ripetendosi che continuava a occuparsi del caso. Quale che fosse la tenebra in cui lo stavano attirando, lui non li aveva ancora abbandonati. Discese Broadway fino alla Settantaduesima strada, svoltò a est verso Central Park West e proseguì fino alla Cinquantanovesima e alla statua di Colombo. Poi svoltò nuovamente verso est, costeggiando Central Park fino a Madison Avenue, e tagliò a destra dirigendosi alla Grand Central Station. Dopo avere girato a casaccio per alcuni isolati proseguì per un miglio verso sud, giunse all’incrocio tra Broadway e la Quinta Avenue all’altezza della ventitreesima, si fermò a guardare il Flatiron Building, quindi cambiò rotta, svoltando in direzione ovest finché raggiunse la Settima Avenue, dove virò a sinistra e procedette ancora verso il centro. A Sheridan Square svoltò ancora a est, proseguendo su Waverly Place e attraversando la Sesta Avenue per avviarsi verso Washington Square. Passò sotto l’arco e si diresse a sud tra la folla, fermandosi momentaneamente a osservare un acrobata che si esibiva su una fune di equilibrio tesa fra un palo della luce e il tronco di un albero. Poi uscì dal piccolo parco all’angolo orientale verso il centro, attraversò la zona residenziale universitaria con le sue isole di verde e girò a destra all’altezza di Houston Street. A West Broadway svoltò di nuovo, questa volta a sinistra, procedendo fino a Canal. Piegando leggermente a destra, attraversò un fazzoletto di parco e mutò direzione verso Varick Street; oltrepassò il numero 6, dove era vissuto un tempo, e riprese la rotta meridionale, tornando in West Broadway dove incrociava Varick. West Broadway lo portò fino alla base del World Trade Center, e quindi nell’ingresso di una delle torri, dove effettuò la sua tredicesima chiamata giornaliera a Virginia Stillman. Poi Quinn decise di mangiare qualcosa, entrò in uno dei fast food al pianterreno e consumò senza fretta un panino mentre prendeva appunti sul taccuino rosso. Poi proseguì nuovamente verso est, vagando per le vie anguste del quartiere finanziario per
puntare ancora a sud, verso Bowling Green, dove vide l’acqua e in alto i gabbiani che compivano voli sghimbesci nella luce meridiana; per un momento valutò l’ipotesi di prendere il traghetto per Staten Island, ma ripensandoci si incamminò verso nord. A Fulton Street piegò a destra seguendo la direzione nordest di East Broadway, che conduceva attraverso i miasmi del Lower East Side e poi a Chinatown. Da lì incontrò Bowery, che lo portò fino alla Quattordicesima. Quindi curvò a sinistra, tagliò Union Square e continuò lungo Park Avenue South. Alla Ventitreesima sterzò verso nord. Pochi isolati dopo guizzò ancora a destra, proseguì per un isolato verso est e risalì un poco la Terza Avenue. All’altezza della Trentaduesima svoltò a destra, risalì la Seconda Avenue, girò a sinistra, proseguì verso la periferia per altri tre isolati, girò un’ultima volta a destra, e a quel punto incontrò la Prima Avenue. Quindi percorse i rimanenti sette isolati fino al palazzo delle Nazioni Unite e decise di fare una piccola sosta. Sedette su una panchina di pietra nello spiazzo e respirò a fondo, abbandonandosi con gli occhi chiusi all’aria e al vento. Poi aprì il taccuino rosso, si sfilò di tasca la penna del sordomuto e cominciò una pagina nuova. Per la prima volta da quando aveva comprato il taccuino rosso, ciò che scrisse quel giorno non aveva niente a che fare con il caso Stillman. Viceversa, si concentrò sulle cose che aveva visto mentre camminava. Non si fermò a riflettere su quello che stava facendo, né ad analizzare le possibili implicanze del suo atto inconsueto. Era ansioso di registrare alcuni fatti, e volle metterli nero su bianco prima di dimenticarli. Oggi, come mai prima: i barboni, gli spiantati, le vagabonde coi sacchetti della spesa, i miserabili e gli ubriaconi. Variano dal semplice indigente al relitto umano. Dovunque ti giri, te li trovi davanti, nei quartieri alti come nei bassifondi. Alcuni mendicano con una parvenza di orgoglio. Dammi questi soldi, sembra che ti dicano, e presto sarò di nuovo tra voi altri, correrò ogni giorno avanti e indietro come tutti quelli che lavorano. Altri hanno lasciato ogni speranza di abbandonare l’accattonaggio. Giacciono scomposti sul marciapiede con il cappello, o il bicchiere, o la scatola, senza nemmeno alzare gli occhi sul passante, troppo sfatti anche per ringraziare chi gli butta vicino una moneta. Altri ancora tentano di lavorare per il denaro che ricevono: i venditori di matite ciechi, gli alcolizzati che ti lavano il parabrezza dell’auto. Alcuni raccontano storie, solitamente tragici riassunti
delle loro vite, come per dare ai benefattori qualcosa in cambio della loro gentilezza… anche solo in forma di parole. Altri hanno un autentico talento. Per esempio, oggi, il vecchio nero che ballava il tip tap facendo i giochi di destrezza con le sigarette… ancora dignitoso, senza dubbio un ex artista del vaudeville, in completo viola con la camicia verde e il cravattino rosso, la bocca irrigidita in un vago ricordo di sorriso teatrale. Ci sono anche i pittori coi gessetti e i musicisti: sassofonisti, chitarristi elettrici, violinisti. Occasionalmente si può anche incontrare un genio, come mi è capitato oggi: Un clarinettista di età indefinibile, con in testa un cappello che gli nascondeva il volto, seduto a gambe incrociate sul marciapiede come un incantatore di serpenti. Davanti a lui c’erano due scimmiette meccaniche, una con un tamburello e l’altra con un tamburo. Mentre la prima scuoteva e la seconda batteva, scandendo un bizzarro e infallibile ritmo sincopato, l’uomo improvvisava minime, infinite variazioni sullo strumento, con il corpo rigido che oscillava avanti e indietro mimando energicamente il ritmo delle scimmiette. Eseguiva con naturalezza e allegria dei motivi in minore animati e sinuosi, come per la gioia di essere insieme alle sue amiche caricate a molla, chiuso nell’universo che si era creato, senza mai alzare gli occhi. Continuava ininterrottamente, e alla fine la musica era sempre la stessa, ma più rimanevo ad ascoltarlo e più trovavo difficile andar via. Trovarsi dentro quella musica, essere attirato all’interno del cerchio delle sue ripetizioni: forse un luogo in cui finalmente è possibile sparire. Ma accattoni e artisti di strada non rappresentano che una piccola parte della popolazione girovaga. Sono l’aristocrazia, l’élite dei falliti. Molto più numerosi sono quelli senza niente da fare né un posto dove andare. Molti sono ubriaconi… ma questo termine non rende giustizia alla devastazione da loro incarnata. Carcasse di disperazione avvolte di stracci, le facce contuse e sanguinanti, arrancano per via come in catene. Assopiti nei portoni, follemente barcollanti nel traffico, stramazzanti sui marciapiedi, nel momento in cui li cerchi sembrano essere dappertutto. Alcuni moriranno di fame, altri di caldo o freddo, altri ancora verranno picchiati o bruciati o torturati. Per ogni anima persa in questo particolare inferno, ce ne sono altre prigioniere della pazzia, incapaci di uscire nel mondo che si allarga sul limitare del corpo. Benché sembrino esserci, non puoi calcolarli come presenti. Per esempio, l’uomo che va in giro con una serie di bacchette da
batterista, percuotendo il selciato in un ritmo indifferente e senza senso, camminando e battendo battendo sul cemento. Forse pensa di compiere un lavoro importante. Forse, se non facesse quello che fa, la città crollerebbe. Forse la luna uscirebbe ruotando dall’orbita e verrebbe a schiantarsi sulla terra. Ci sono quelli che parlano da soli, che mormorano, gridano, imprecano, gemono, che si raccontano storie come parlassero ad altri. L’uomo che ho visto oggi, seduto come un mucchio di rifiuti davanti alla Grand Central Station mentre la folla lo lambiva di corsa, e lui ripeteva forte, con la voce rotta dal panico: «Terzo Marines… Mangiare api… Le api mi strisciavano fuori dalla bocca». Oppure la donna che urla a un compagno invisibile: «E se non voglio, eh…? E se proprio non voglio e vaffanculo?» Ci sono le donne con i sacchetti della spesa e gli uomini con le scatole di cartone, che trascinano i loro averi da un posto all’altro, sempre in movimento come se il punto in cui si trovano avesse importanza. C’è l’uomo fasciato nella bandiera americana. C’è la donna con una maschera di Halloween sul viso. C’è l’uomo infagottato in un cappotto cencioso, con le scarpe avvolte negli stracci, che porta una camicia bianca stirata a puntino su un appendiabiti ancora confezionato nel cellophane della lavanderia a secco. C’è la donna con i vestiti coperti da capo a piedi di distintivi della campagna presidenziale. C’è l’uomo che cammina con la faccia tra le mani, piangendo istericamente e ripetendo all’infinito: – No, no, no. È morto. Non è morto. No, no, no. È morto. Non è morto. Baudelaire: Il me semble que je serais toujours bien là où je ne suis pas. In altre parole: Mi pare che sarò sempre felice dove non sono. Ovvero, semplificando: Ovunque non mi trovo, là è il luogo dove sono me stesso. O se vogliamo prendere il toro per le corna: Dovunque fuori dal mondo. Era quasi sera. Quinn chiuse il taccuino rosso e si mise in tasca la penna. Voleva riflettere meglio su quanto aveva scritto, ma capì di non riuscirci. Intorno a lui l’aria era leggera, quasi dolce, come se non appartenesse più alla città. Si alzò dalla panchina, si sgranchì braccia e gambe e si diresse verso una cabina telefonica dove chiamò nuovamente Virginia Stillman. Quindi andò a cena. Al ristorante si rese conto di avere preso una decisione. Senza che lo sapesse, la risposta era già dentro di lui, formulata alla perfezione nella sua mente. Il segnale di occupato, ora capiva, non era stato accidentale. Era stato un segno, per comunicargli che non poteva ancora sciogliere il vincolo con il
caso, nemmeno se lo avesse voluto. Aveva tentato di contattare Virginia Stillman per dirle che tutto era finito, ma i fati non lo avevano permesso. Quinn si soffermò su questo punto. Era proprio «fato» la parola che voleva usare? Sembrava una scelta molto ampollosa e antiquata. Eppure, scandagliando più a fondo, scoprì che era esattamente quello che intendeva dire. O se non era esatto, si approssimava meglio di qualunque altro termine che gli venisse in mente. Fato nel senso di ciò che era, o accadeva. Qualcosa di simile al soggetto delle forme impersonali, come «piove» o «è notte». A cosa si riferisse quella terza persona, Quinn non lo aveva saputo mai. Forse a una condizione generalizzata delle cose in sé; al campo dove si svolgevano gli avvenimenti del mondo. Non arrivava a essere più preciso di così. Ma forse in realtà non era alla ricerca di niente di preciso. Dunque era fato. Comunque ne pensasse, per quanto desiderasse una cosa diversa, non ci poteva fare nulla. Aveva detto sì a una proposta, e adesso era impossibilitato a cancellare quel sì. Questo significava una cosa sola: doveva andare fino in fondo. Non potevano darsi due risposte. Era l’una oppure l’altra. E così stavano i fatti, che gli piacesse o no. La vicenda di Auster era chiaramente un errore. Forse un tempo a New York lavorava un poliziotto privato con quel nome. Il marito della governante di Peter era un poliziotto in pensione… Perciò non era più giovane. Ai suoi tempi c’era stato senz’altro un Auster con una buona reputazione, e naturalmente quando gli avevano chiesto un suggerimento aveva pensato a lui. Aveva consultato la guida telefonica e, trovando soltanto una persona con quel nome, aveva dedotto che fosse l’uomo giusto. Poi aveva dato il numero agli Stillman. A questo punto, era stato commesso un secondo errore. Per una sovrapposizione di linee telefoniche, il numero si era incrociato con quello di Quinn. Fatti del genere capitavano ogni giorno. Così aveva ricevuto la chiamata… che in ogni caso era destinata all’uomo sbagliato. I conti tornavano perfettamente. Rimaneva un problema. Se non riusciva a contattare Virginia Stillman – se, come pensava, non aveva intenzione di contattarla – come avrebbe dovuto regolarsi? Il suo dovere era proteggere Peter, garantire che non gli fosse fatto alcun male. Cosa importava quello che Virginia Stillman credeva che lui stesse facendo, finché eseguiva l’incarico? In teoria, l’investigatore deve tenersi in stretto contatto con il cliente. Era sempre stato uno dei principi di Max Work. Ma era poi necessario? Cosa importava, visto che Quinn
comunque faceva il suo lavoro? Se fossero sorti dei malintesi, sicuramente si sarebbero chiariti alla conclusione del caso. Dunque poteva procedere a suo piacimento. Non era più obbligato a telefonare a Virginia Stillman. Poteva dire addio al misterioso segnale di occupato. D’ora in avanti, niente lo avrebbe fermato. Sarebbe stato impossibile a Stillman avvicinare Peter di nascosto da Quinn. Quinn pagò il conto, si infilò in bocca uno stuzzicadenti al mentolo e si rimise in cammino. La sua meta non era lontana. Lungo la strada, si fermò allo sportello ventiquattr’ore della Citibank e controllò le sue disponibilità con il servizio automatico. Sul conto c’erano trecentoquarantanove dollari. Ne ritirò trecento, intascò le banconote e proseguì verso la periferia. Alla Cinquantasettesima girò a sinistra e prese la direzione di Park Avenue. Qui girò a destra e continuò a nord fino alla Sessantanovesima, dove svoltò verso l’isolato degli Stillman. L’edificio era uguale al primo giorno. Alzò lo sguardo per vedere se c’erano luci accese nell’appartamento, ma non ricordava la posizione delle loro finestre. La via era immersa nel silenzio. Non passavano né auto né pedoni. Quinn attraversò la strada, trovò il posto adatto in un vicolo e si sistemò per la notte.
12. Trascorse molto tempo. È impossibile dire esattamente quanto. Certo delle settimane, ma forse anche dei mesi. Il resoconto di questo periodo è meno fitto di quanto l’autore avrebbe gradito. Ma le informazioni scarseggiano, e perciò egli ha preferito tacere ciò che non poteva trovare piena conferma. Dato che questa storia è tutta basata sui fatti, l’autore sente che è suo dovere non varcare i confini del dimostrabile, resistendo strenuamente alle insidie dell’invenzione. Anche il taccuino rosso, che fin qui ha fornito un resoconto dettagliato delle esperienze di Quinn, è sospetto. Non possiamo affermare con certezza cosa sia accaduto a Quinn in tale periodo, poiché fu proprio allora che cominciò a smarrirsi. In prevalenza rimase nel vicolo. Una volta presa l’abitudine, non era poi così disagevole, e aveva il vantaggio di essere ben defilato. Da lì Quinn poteva osservare tutti gli andirivieni dal palazzo degli Stillman. Nessuno entrava o usciva senza che lui lo vedesse. Dapprima si stupì di non scorgere mai né Virginia né Peter. Ma c’era un continuo viavai di fattorini, e alla fine capì che non avevano bisogno di lasciare l’edificio. Potevano farsi recapitare tutto. Allora Quinn comprese che anche loro se ne stavano rintanati nell’appartamento ad aspettare che il caso avesse termine. A mano a mano Quinn si adattò alla nuova vita. C’era una quantità di problemi da affrontare, ma fu capace di risolverli uno per uno. In primo luogo, c’era la questione del cibo. Dovendo garantire la massima vigilanza, era restio ad abbandonare il posto anche per poco tempo. Lo tormentava il pensiero che in sua assenza potesse succedere qualcosa, e si sforzò di ridurre i rischi al minimo. Da qualche parte aveva letto che fra le tre e mezza e le quattro e mezza del mattino ci sono più persone a letto addormentate che a qualsiasi altra ora. In termini statistici, le probabilità che non accadesse nulla in quel periodo di tempo erano le più elevate, perciò Quinn lo scelse per fare la spesa. Appena a nord, sulla Lexington Avenue, c’era un negozio di alimentari notturno, e ogni mattina alle tre e mezza Quinn vi si recava di buon passo (per mantenersi in forma, e in più per risparmiare tempo) e
comprava tutto l’occorrente per le ventiquattro ore seguenti. A dire il vero, non era poi molto… e in realtà col passare del tempo gli occorreva sempre meno. Perché Quinn comprese che effettivamente mangiare non risolveva il problema del cibo. Un pasto era soltanto una fragile difesa dall’ineluttabilità del pasto successivo. Il cibo in sé non avrebbe mai risposto all’istanza di cibo; poteva solo rimandare il momento in cui si sarebbe presentata in modo pressante. Dunque il maggior pericolo era mangiare troppo. Se ingeriva più di quanto avrebbe dovuto, aumentava l’appetito per il pasto seguente, e per soddisfarlo era necessario più cibo. Esercitando su di sé un controllo rigoroso e costante, piano piano Quinn imparò a ribaltare il processo. La sua ambizione era mangiare il meno possibile, bloccando così la fame. Nel migliore dei mondi possibili forse sarebbe riuscito ad avvicinarsi allo zero assoluto, ma nelle attuali circostanze non nutriva esagerate ambizioni. Pertanto continuò a vagheggiare il digiuno completo come un ideale, uno stato di perfezione cui poteva aspirare senza mai raggiungerlo. Non intendeva morire di fame – e se lo ripeteva ogni giorno – ma soltanto mantenersi libero di pensare alle cose che davvero gli importavano. Per il momento, questo voleva dire che il caso rimaneva in cima ai suoi pensieri. Per fortuna, ciò coincideva con l’altra sua ambizione principale: far durare il più possibile i trecento dollari. Va da sé che in quel periodo Quinn perse molto peso. Il secondo problema era dormire. Non poteva vegliare tutto il tempo, ma in realtà la condizione richiesta sarebbe stata proprio quella. Anche qui fu costretto a fare alcune concessioni. Come per il mangiare, Quinn sapeva di poter sopravvivere con meno di quello a cui era abituato. Invece di dormire come al solito dalle sei alle otto ore, stabili di limitarsi a tre o quattro. Assuefarsi fu difficile, ma fu molto più problematico imparare a suddividere il tempo per mantenere il massimo della vigilanza. Evidentemente non poteva dormire per tre o quattro ore consecutive. Sarebbe stato troppo rischioso. In teoria, la più efficace utilizzazione del tempo l’avrebbe ottenuta dormendo trenta secondi ogni cinque o sei minuti. Così in pratica venivano annullate le possibilità di lasciarsi sfuggire qualcosa. Ma capì che era fisicamente impossibile. D’altro lato, assumendo proprio tale impossibilità come modello astratto, cercò di esercitarsi a fare una serie di dormite minime, alternando a volontà il sonno e la veglia. Fu una lunga pratica, che richiedeva disciplina e concentrazione perché più durava l’esperimento, più Quinn si sentiva sfinito. All’inizio provò con sequenze di quarantacinque minuti, riducendole poi
gradualmente a mezz’ora. Verso la fine, era pervenuto con buona percentuale di successo alla dormita di un quarto d’ora. Poteva avvalersi della collaborazione di una chiesa vicina, le cui campane suonavano ogni quindici minuti: un rintocco per il quarto, due per la mezz’ora, tre per i tre quarti e quattro per l’ora, seguiti da un numero di rintocchi corrispondenti all’ora specifica. Quinn viveva al ritmo di quell’orologio, tanto che alla fine faticava a distinguerlo dal battito del proprio polso. La routine iniziava a mezzanotte: chiudeva gli occhi, e prima del dodicesimo rintocco si addormentava. Dopo un quarto d’ora si svegliava, per riaddormentarsi al doppio rintocco della mezza e risvegliarsi al battere dei tre quarti. Alle tre e mezza andava a prendersi da mangiare, tornava entro le quattro e si addormentava di nuovo. In quel periodo non sognava molto. Quando gli succedeva, erano sogni strani, istantanee di realtà immediate… le sue mani, i suoi piedi, il muro di mattoni lì vicino. Non passava momento senza che si sentisse stanco morto. Il suo terzo problema era rimediare un ricovero, ma questo lo risolse più facilmente. Il tempo per fortuna si mantenne, e il passaggio dalla tarda primavera all’estate portò poca pioggia. Uno scroscio ogni tanto, e una volta o due un acquazzone con tuoni e lampi, ma nel complesso andò abbastanza bene, e Quinn non finiva di ringraziare la buona sorte. In fondo al vicolo c’era un grosso bidone di metallo per le immondizie, e se la notte pioveva Quinn vi si infilava trovando riparo. Dentro c’era una puzza insopportabile, che poi gli avrebbe impregnato i vestiti per giorni, ma era sempre meglio che bagnarsi, perché non voleva correre il rischio di prendere freddo o ammalarsi. Per fortuna, il coperchio era deformato e non calzava perfettamente sul bidone. In un angolo c’era un varco di quindici o venti centimetri, che formava una specie di presa d’aria attraverso la quale Quinn poteva respirare, protendendo il naso nella notte. Scoprì che inginocchiandosi sopra l’immondizia con il corpo appoggiato a una parete del bidone non stava nemmeno troppo scomodo. Nelle notti serene dormiva ai piedi del bidone, sistemando la testa in modo tale da aprire gli occhi direttamente sull’ingresso del palazzo degli Stillman. Per svuotare la vescica, generalmente si eclissava in un angolo in fondo al vicolo, dietro il bidone, girando le spalle alla strada. Gli intestini erano un altro discorso, e in questo caso preferiva evitare sguardi indiscreti entrando nel bidone. Accanto a esso c’erano anche numerose pattumiere di plastica, e in una di queste Quinn di solito trovava un giornale abbastanza
pulito per servire allo scopo, anche se una volta, in condizioni di emergenza, fu costretto a usare una pagina del taccuino rosso. Quanto a lavarsi e radersi, furono due delle cose di cui Quinn imparò a fare a meno. Come riuscì a restare nascosto in quel periodo è un mistero. Ma pare che nessuno l’abbia scoperto, né abbia richiamato l’attenzione delle autorità. Senza dubbio imparò rapidamente gli orari dei netturbini procurando al loro arrivo di non trovarsi nel vicolo. Lo stesso con il custode del palazzo, che ogni sera depositava la spazzatura nel bidone e nelle pattumiere. Per strano che possa sembrare, nessuno notò mai Quinn. Era come se si fosse fuso con i muri della città. I problemi del governo domestico e della vita materiale occupavano una parte di ogni giornata. Tuttavia, Quinn era padrone di gran parte del suo tempo. Dato che non voleva che nessuno lo vedesse, doveva evitare gli altri il più sistematicamente possibile. Non poteva guardarli, non poteva parlargli, non poteva pensare a loro. Quinn si era sempre considerato amante della solitudine. Negli ultimi cinque anni, effettivamente, l’aveva cercata con determinazione. Ma solo adesso, a mano a mano che proseguiva la sua vita nel vicolo, cominciò a capire la vera natura della solitudine. Non aveva altri paracadute che se stesso, e di tutte le cose che scoprì stando nel vicolo, la sola di cui non dubitava era proprio che stava cadendo. Questo però non lo capiva: visto che stava cadendo, come poteva contemporaneamente reggersi? Era possibile trovarsi allo stesso tempo in cima e sul fondo? Sembrava assurdo. Passava molte ore a guardare il cielo. Dalla sua postazione in fondo al vicolo, incuneato tra bidone e muro, non c’era molto altro da vedere, e col passare dei giorni incominciò ad apprezzare il mondo sopra di lui. Innanzitutto vide che il cielo è sempre in movimento. Anche nelle giornate senza nubi, quando l’azzurro sembra dappertutto, c’erano lievi, costanti mutamenti, perturbazioni graduali della volta che si assottigliava o si ispessiva, il biancheggiare improvviso di aeroplani, uccelli e cartacce volanti. Le nuvole complicavano il quadro e Quinn trascorse molti pomeriggi a studiarle, cercando di fissarne i comportamenti, di riuscire a prevederne le sorti. Prese confidenza con il cirro, il cumulo, lo strato, il nembo e tutte le loro combinazioni, aspettando l’apparire di ciascun tipo di nube e osservando le variazioni del cielo sotto il loro influsso. Inoltre le nuvole introducevano l’aspetto del colore, e c’era da considerarne un ampio spettro che andava dal bianco al nero con un’infinità di grigi intermedi. Tutti da investigare, da
misurare, da decodificare. Inoltre c’erano le tinte pastello formate dalla combinazione del sole e delle nuvole in certi momenti della giornata. La gamma di varianti era estesissima, e il prodotto dipendeva dalle temperature dei diversi livelli atmosferici, dai tipi di nuvole presenti in cielo e dal punto dove il sole si trovava in quel particolare momento. Da tutto questo scaturivano i rossi e i rosa che Quinn amava tanto, i violetti e i vermigli, gli arancioni e i lavanda, gli ori e i leggeri diospiri. Niente durava a lungo. I colori si dissolvevano presto, mescolandosi agli altri e allontanandosi o smorendo al calare della notte. Quasi sempre era il vento che accelerava i fatti. Dal suo posto nel vicolo Quinn non lo sentiva quasi mai, ma osservandone gli effetti sulle nuvole poteva valutarne l’intensità, e la natura dell’aria che portava. Tutte le condizioni atmosferiche gli passavano sopra la testa una a una, dal sole al temporale, dal fosco allo splendente. C’erano da contemplare le albe e i crepuscoli, le trasformazioni del mezzodì, la prima sera, la notte. Il cielo non si fermava neanche quando era nero. Le nuvole erravano nel buio, la luna assumeva sempre una forma diversa, il vento non smetteva di soffiare. Qualche volta una stella si affacciava nell’angolo di cielo di Quinn, che sollevando gli occhi si chiedeva se c’era ancora o era bruciata tanto tempo fa. Così passavano i giorni. Di Stillman nemmeno l’ombra. A un certo punto Quinn finì il denaro. Era da tempo che si preparava a questo momento, e verso la fine si lesinava i fondi con oculatezza maniacale. Non spendeva moneta senza avere prima valutato la necessità di ciò che riteneva essergli utile e ponderato tutte le conseguenze, i pro e i contro. Ma nemmeno le più ascetiche economie potevano interrompere la marcia dell’inevitabile. A un certo punto, verso metà agosto, Quinn scoprì che non ce la faceva piú L’autore ha fissato la data attraverso scrupolose ricerche. È comunque possibile che il momento si collochi già alla fine di luglio, o viceversa ai primi di settembre, poiché tutte le indagini di questo genere ammettono un margine di errore. Ma per quanto ne sappia, considerati attentamente gli indizi e vagliata ogni apparente contraddizione, l’autore colloca i seguenti fatti in agosto, tra il dodici e il quindici del mese. A Quinn ormai non restava quasi niente: pochi spiccioli, per un totale di meno di un dollaro. Ma era sicuro che durante la sua assenza fosse arrivato il denaro. Bisognava soltanto prelevare l’assegno dalla sua cassetta all’ufficio postale, portarlo in banca e incassarlo. Se tutto andava bene, in un paio d’ore
sarebbe stato di ritorno alla Sessantanovesima Est. Non sapremo mai quanto soffrì per dovere lasciare il suo posto. Non aveva abbastanza soldi per l’autobus. Quindi, per la prima volta dopo molte settimane, cominciò a camminare. Gli fece uno strano effetto ritrovarsi sui propri piedi, muoversi da un posto all’altro con passo sicuro, dondolare le braccia avanti e indietro, sentire il selciato sotto le scarpe. Eppure eccolo lì sulla Sessantanovesima, diretto a ovest, eccolo girare a destra sulla Madison Avenue e prendere verso nord. Aveva le gambe deboli, e si sentiva la testa piena d’aria. Ogni tanto doveva fermarsi per riprendere fiato e una volta, sul punto di cadere, fu costretto a reggersi a un lampione. Scoprì che andava meglio se sollevava i piedi il meno possibile, arrancando a passi lenti e strascicati. In questo modo riusciva a conservare le forze per gli angoli, dove bisognava badare a tenersi in equilibrio prima e dopo ogni passo su e giù dal marciapiede. Sull’Ottantaquattresima strada sostò momentaneamente davanti a un negozio. C’era uno specchio sulla facciata, e per la prima volta da quando aveva iniziato la sorveglianza Quinn si vide. Non che avesse temuto di affrontare la propria immagine. Semplicemente, non gli era successo. Era stato troppo preso dal lavoro per pensare a se stesso, e la questione del suo aspetto non sussisteva più. Ora, guardandosi nello specchio del negozio, non restò né sconvolto né deluso. Non provò alcuna emozione, per il semplice motivo che non si riconobbe nella persona che vide. Pensò di avere al fianco uno sconosciuto, e lì per lì si volse bruscamente a vedere chi era. Ma vicino a lui non c’era nessuno. Allora si voltò di nuovo a guardare lo specchio con più attenzione. Studiò a uno a uno i lineamenti del viso che aveva davanti, e piano piano cominciò a notare che l’individuo assomigliava un po’ all’uomo che aveva sempre creduto se stesso. Sì, pareva molto probabile che si trattasse di Quinn. Ma neanche a questo punto si turbò. La trasformazione del suo aspetto era stata così radicale che alla fin fine ne restò affascinato. Si era trasformato in un barbone. I suoi vestiti erano stinti, sdruciti, luridi. Aveva il viso coperto da una folta barba nera con qualche pelo grigio. I capelli erano lunghi e scarmigliati, appiccicati in ciocche dietro le orecchie, e in riccioli unti che gli ricadevano quasi fino alle spalle. Più che altro il suo aspetto gli ricordava Robinson Crusoe, e si stupì di essere cambiato così in fretta. La storia era durata pochi mesi, e in quel lasso di tempo era diventato un altro. Cercò di ricordarsi come era prima, ma lo trovò difficile. Guardò quel nuovo
Quinn e alzò le spalle. Non importava poi molto. Un tempo era stato una cosa, e adesso era un’altra. Non era né migliore né peggiore. Era diverso, ecco tutto. Continuò ad allontanarsi dal centro per qualche isolato, poi svoltò a sinistra, attraversò la Quinta Avenue e costeggiò il muro di Central Park. Alla Novantaseiesima entrò nel parco, godendo di trovarsi fra l’erba e gli alberi. L’estate avanzata aveva fatto ingiallire gran parte della vegetazione, e qua e là affioravano chiazze di terra bruna e polverosa. Ma sopra, gli alberi erano ancora carichi di foglie, e a Quinn l’onnipresente balenare di ombre e luci sembrò miracoloso e bellissimo. Era tarda mattina, e al calare del caldo pomeridiano mancavano ancora alcune ore. A metà del parco Quinn fu vinto dalla stanchezza. Lì non c’erano strade, non c’erano isolati a segnare le tappe del suo itinerario, e all’improvviso fu come se avesse camminato per ore. Gli sembrò che per attraversare il parco avrebbe avuto ancora bisogno di un giorno o due di marcia sostenuta. Proseguì per qualche minuto, ma alla fine le gambe cedettero. Poco lontano c’era una grande quercia, e Quinn vi si diresse barcollando come l’ubriaco che annaspa verso il letto dopo una notte di bagordi. Adoperando il taccuino rosso come cuscino, si adagiò su un dosso erboso appena a nord dell’albero e cadde addormentato. Era la prima volta da mesi che dormiva senza interruzione, e non si svegliò fino al mattino dopo. Il suo orologio faceva le nove e mezza, e Quinn si sentì un miserabile al pensiero del tempo perduto. Si alzò e si incamminò di buon passo verso ovest, piacevolmente stupito di avere ripreso le forze, e nel contempo maledicendosi per le ore sprecate. Era inconsolabile. Qualunque cosa avesse fatto ora, sentiva che sarebbe stato tardi. Poteva correre per cento anni, e sarebbe arrivato nell’attimo in cui le porte si chiudevano. Uscì dal parco all’altezza della Novantaseiesima e proseguì verso ovest. All’angolo con la Columbus vide una cabina telefonica, e subito si ricordò di Auster e dell’assegno da cinquecento dollari. Forse incassando quel denaro avrebbe risparmiato un po’ di tempo. Poteva andare direttamente da Auster e intascare la somma evitando tutta la strada fino all’ufficio postale e alla banca. Ma Auster avrebbe avuto i contanti a portata di mano? In caso contrario, potevano mettersi d’accordo e incontrarsi alla banca di Auster. Quinn entrò nella cabina, si frugò in tasca e tirò fuori tutto quello che gli restava: due monete da dieci cent, un quarto di dollaro e otto monete da un
cent. Chiamò il servizio abbonati per richiedere il numero, l’apparecchio gli rese la moneta da dieci, lui la infilò di nuovo e fece il numero avuto. Auster rispose al terzo squillo. – Sono Quinn, – disse Quinn. Sentì un gemito sulla linea. – Dove accidente era andato a cacciarsi? – La voce di Auster tradiva la rabbia. – L’ho chiamata un sacco di volte. – Ero occupato. Ho lavorato al caso. – Al caso? – Al caso. Il caso Stillman. Si ricorda? – Certo che mi ricordo. – È per questo che le ho telefonato. Devo venire subito a ritirare i soldi. I cinquecento dollari. – Quali soldi? – L’assegno, si ricorda? L’assegno che le ho dato. Quello intestato a Paul Auster. – Certo che mi ricordo. Ma soldi non ce ne sono. È per questo che ho cercato di chiamarla. – Lei non aveva il diritto di spenderli, – urlò Quinn, improvvisamente stravolto. – Quei soldi erano miei. – Non li ho spesi. L’assegno è stato respinto. – Non ci credo. – Venga qui, e se vuole le mostro la lettera della banca. Sta proprio sul mio tavolo. L’assegno era scoperto. – Assurdo. – Forse, ma è vero. Comunque non importa più, le pare? – Eccome, se importa. I soldi mi servono per proseguire nel caso. – Ma non c’è nessun caso. È tutto finito. – Di cosa sta parlando? – Della stessa cosa di cui parla lei. Il caso Stillman. – Sì, ma che cosa intende con «finito»? Io ci sto lavorando ancora. – Non è possibile. – La pianti di fare il misterioso, porco cane. Non capisco un’acca di quello che dice. – Non posso credere che non lo sappia. Dove diavolo è stato? Non li legge i giornali? – Quali giornali? E parli chiaro, cribbio. Io non ho tempo di leggere i
giornali. All’altro capo della linea ci fu un silenzio, e per un attimo Quinn pensò che il colloquio fosse terminato, pensò di essersi, chissà come, addormentato di colpo e risvegliato col telefono in mano. – Stillman si è buttato dal Ponte di Brooklyn, – disse Auster. — Si è suicidato due mesi e mezzo fa. – È falso. – Era su tutti i giornali. Controlli, se vuole. Quinn non disse nulla. – Era proprio il suo Stillman, – continuò Auster. – Quello che aveva insegnato alla Columbia. Dicono sia morto a mezz’aria, prima ancora di toccare l’acqua. – E Peter? Cosa ne è stato? – Non ne ho idea. – Ma c’è qualcuno che lo sa? – Impossibile dirlo. Lo dovrà scoprire lei. – Sì, credo di sì, – disse Quinn. Poi, senza neanche dire arrivederci, riagganciò. Prese l’altra moneta da dieci e la usò per chiamare Virginia Stillman. Ricordava ancora il numero a memoria. Una voce meccanica gli ripeté il numero annunciando che era stato disattivato. Quindi la voce ribadì il messaggio e la linea cadde. Quinn non riusciva a interpretare le proprie sensazioni. In quei primi momenti era come se non ne provasse, come se tutta la vicenda non avesse alcun peso. Decise di rifletterci più tardi. Ne avrebbe avuto del tempo, pensò. Per ora, la sola cosa che sembrava importante era andare a casa. Sarebbe tornato nel suo appartamento, si sarebbe spogliato e avrebbe fatto un bagno bollente. Poi avrebbe sfogliato qualche rivista, avrebbe ascoltato qualche disco e pulito un po’ la casa. Dopo, forse, avrebbe cominciato a ripensarci. Camminò fino alla Centosettesima strada. Aveva ancora in tasca le chiavi di casa, e mentre apriva la porta d’ingresso e saliva le tre rampe di scale fino al suo appartamento, era quasi felice. Ma appena vi mise piede, il suo conforto svanì. Tutto era cambiato. Sembrava veramente un altro luogo, e a Quinn venne il dubbio di avere sbagliato appartamento. Tornò sul pianerottolo e controllò il numero sulla porta. No, non si era sbagliato. Era il suo appartamento: la
chiave che aveva aperto la porta era la sua. Tornò dentro e riepilogò la situazione. La disposizione dei mobili era cambiata. Dove un tempo c’era un tavolo ora c’era una sedia. Dove un tempo c’era un divano adesso c’era un tavolo. C’erano nuovi quadri alle pareti, un nuovo tappeto sul pavimento. E la sua scrivania? La cercò inutilmente. Esaminò con più attenzione i mobili e vide che non erano i suoi. Quelli che c’erano l’ultima volta che era stato nell’appartamento li avevano portati via. La scrivania era sparita, spariti i libri, spariti i disegni di suo figlio morto. Passò dal soggiorno nella stanza da letto. Il letto non c’era più, il cassettone non c’era più. Aprì il primo cassetto del comò che ne aveva preso il posto. Era pieno di biancheria femminile attorcigliata disordinatamente: mutandine, reggiseni, sottovesti. Il secondo cassetto conteneva dei maglioni da donna. Quinn non procedette oltre. Su un tavolo vicino al letto c’era la foto incorniciata di un giovanotto biondo dalla faccia bovina. Un’altra foto ritraeva lo stesso giovanotto sorridente, in piedi tra la neve, che abbracciava una ragazza scialba. Sorrideva anche lei. Dietro di loro una pista, un uomo con gli sci in spalla e un cielo blu invernale. Quinn tornò in soggiorno e si sedette su una sedia. Vide in un portacenere una sigaretta mezzo fumata, con macchie di rossetto. L’accese e la terminò. Poi andò in cucina, aprì il frigorifero e trovò succo d’arancia e una pagnotta. Bevve il succo, mangiò tre fette di pane e tornò nel soggiorno sedendosi di nuovo sulla sedia. Dopo un quarto d’ora sentì dei passi salire le scale, e nell’appartamento entrò la ragazza della foto. Indossava un camice bianco da infermiera e portava una borsa della spesa marrone. Quando vide Quinn, lasciò cadere la borsa e lanciò un urlo. O forse prima urlò e poi le cadde la borsa. Quinn non ne fu mai sicuro. La borsa si squarciò urtando contro il pavimento, e il latte disegnò un gorgogliante rivolo bianco verso l’orlo del tappeto. Quinn si alzò, sollevò la mano in un gesto rassicurante e le disse di non aver paura. Non le avrebbe fatto alcun male. Voleva solo sapere perché abitava nel suo appartamento. Tirò fuori di tasca la chiave e gliela mostrò tenendola bene in alto, come a provare che era ben intenzionato. Gli ci volle parecchio per convincerla, ma finalmente la ragazza si calmò. Questo non voleva dire che si fidasse di lui o che avesse meno paura. Si fermò a un passo dalla porta aperta, pronta a fuggire al minimo accenno di pericolo. Quinn rimase a distanza, non volendo peggiorare la situazione. La sua bocca non smetteva di parlare, spiegando ripetutamente che la donna
abitava in casa sua. Era evidente che lei non credeva una sola parola, ma lo ascoltava per assecondarlo, certo nella speranza che alla fine avrebbe desistito e sarebbe andato via. – Abito qui da un mese, – disse infine. – Questo è il mio appartamento. L’ho preso in affitto per un anno. – Ma perché avrei la chiave? – chiese Quinn per la settima o ottava volta. – Non le basta per convincersi? – Potrebbe averla avuta in mille modi. – Non le hanno detto che c’era qualcuno che abitava qui quando lei ha firmato il contratto? – Hanno detto che c’era uno scrittore. Ma è scomparso, non pagava l’affitto da mesi. – Sono io! – gridò Quinn. – Lo scrittore sono io! La ragazza lo squadrò gelida, poi rise. – Uno scrittore? Questa è la roba più assurda che ho mai sentito. Ma si guardi. Non ho mai visto uno più malmesso in vita mia. – Ultimamente ho avuto delle difficoltà, – mormorò Quinn a mo’ di spiegazione. – Ma è solo un momento passeggero. – Comunque il proprietario mi ha detto che era contento di levarselo di torno. Non gli piacciono gli inquilini senza impiego fisso. Usano troppo il riscaldamento e consumano gli accessori. – Sa che ne è stato delle mie cose? – Quali cose? – I miei libri. I miei mobili. Le carte. – Non ne ho idea. Avranno venduto quello che potevano, e il resto lo avranno buttato via. Hanno sgomberato tutto prima del mio trasloco. Quinn sospirò profondamente. Era giunto alla fine di se stesso. Adesso lo sentiva, era come se in lui si fosse manifestata una grande verità. Non restava più niente. – Lo capisce cosa significa? – Sinceramente, non me ne importa, – rispose la ragazza. – Sono affari suoi, mica miei. Io voglio solo che esca di qua. Subito. Questa è casa mia, e voglio che se ne vada. Se no, chiamo la polizia e la faccio arrestare. Ormai non contava più. Avrebbe potuto restare a discutere con la ragazza per tutta la giornata senza per questo riavere l’appartamento. La casa era
perduta, lui era perduto, era perduto tutto. Farfugliò qualche parola incomprensibile, si scusò di averle fatto perdere tempo e le passò vicino per uscire.
13. Non importandogli più nulla di quello che accadeva, Quinn non si sorprese quando l’ingresso sulla Sessantanovesima strada si aprì senza chiave. Né si sorprese, giunto al nono piano e percorso il corridoio che portava all’appartamento degli Stillman, che anche quella porta si aprisse. Ma si stupì ancora meno di trovare l’appartamento vuoto. Il luogo era stato evacuato totalmente, e ora le stanze non contenevano nulla. Ognuna era identica a tutte la altre: un pavimento di legno e quattro pareti bianche. Quinn non ne fu particolarmente impressionato. Era sfinito, e la sola cosa che aveva in mente era chiudere gli occhi. Entrò in una delle stanze sul retro dell’appartamento, un piccolo vano che non misurava più di tre metri per due. Aveva una sola finestra con inferriata, aperta sul pozzo di aerazione, e sembrava la stanza più buia della casa. C’era anche una seconda porta, che dava su uno sgabuzzino cieco con lavandino e water. Quinn posò sul pavimento il taccuino rosso, tirò fuori di tasca la penna del sordomuto e la lasciò cadere sul taccuino rosso. Poi si sfilò l’orologio e se lo mise in tasca. Fatto questo si spogliò completamente, aprì la finestra e gettò gli indumenti uno per uno nel pozzo di aerazione: prima la scarpa destra, poi la sinistra; un calzino, poi l’altro; la camicia, la giacca, le mutande, i pantaloni. Non si sporse a guardarli cadere, non controllò dove atterravano. Infine chiuse la finestra, si sdraiò nel centro della stanza e si addormentò. Quando si svegliò la stanza era buia. Quinn non sapeva quanto tempo era passato: se era la notte di quel giorno stesso o quella dell’indomani. Pensò che forse non era affatto notte. Forse era buio solo nella stanza, e fuori, oltre la finestra, splendeva il sole. Per pochi istanti valutò la possibilità di alzarsi e andare a vedere alla finestra, ma poi decise che non gliene importava. Se non era ancora notte, pensò, sarebbe arrivata più tardi. Questo era certo, e la risposta era uguale, che lui guardasse fuori oppure no. Del resto, se qui a New York fosse effettivamente stata notte, voleva dire che da qualche altra parte splendeva il sole. Per esempio, in Cina era senz’altro metà pomeriggio, e i coltivatori di riso si asciugavano il sudore sulla fronte. Notte e giorno non
erano che termini relativi: non corrispondevano a condizioni assolute. In qualsiasi momento, era sempre tutte e due le cose. L’unica ragione per cui non lo sapevamo era che non potevamo trovarci contemporaneamente in due luoghi. Quinn valutò anche l’ipotesi di alzarsi e andare in un’altra stanza, ma poi si rese conto di essere piuttosto appagato lì dov’era. Nel punto che si era scelto stava comodo, e scoprì che gli piaceva rimanere supino con gli occhi aperti a guardare il soffitto… o quello che sarebbe stato il soffitto se fosse riuscito a vederlo. Sentiva nostalgia di una cosa soltanto, ed era il cielo. Capì che gli mancava quella cosa lassù, dopo tanti giorni e tante notti passate all’aperto. Ma adesso era al chiuso, e in qualunque camera avesse scelto di accamparsi, il cielo sarebbe rimasto nascosto, inaccessibile anche all’estremo slancio dei suoi occhi. Pensò che sarebbe rimasto lì finché resisteva. Per dissetarsi c’era l’acqua del lavandino, e così avrebbe guadagnato un po’ di tempo. In seguito gli sarebbe venuta fame e avrebbe dovuto mangiare. Ma ormai aveva lavorato così a lungo per ridurre al minimo le proprie necessità, che sapeva che il momento sarebbe arrivato solo fra qualche giorno. Non c’era ragione di agitarsi, pensò, non doveva lasciarsi impensierire da dettagli senza importanza. Cercò di pensare alla vita che aveva vissuto prima dell’inizio della storia. Non fu affatto facile, perché ormai gli appariva lontanissima. Ricordò i libri scritti con il nome di William Wilson. Strano, pensò, che lo avesse fatto, e ora si domandò perché. In cuor suo, sapeva che Max Work era morto. Morto mentre era proiettato verso un nuovo caso: e Quinn non riusciva a dispiacersene. Tutto sembrava irrilevante, ora. Ripensò alla sua scrivania e alle migliaia di parole che aveva scritto là seduto. Ripensò all’uomo che era stato il suo agente e si rese conto di non ricordarne il nome. Quante cose stavano scomparendo, era difficile conservarne traccia. Quinn cercò di ripetersi la formazione dei Mets ruolo per ruolo, ma la sua mente si faceva vaga. Ricordava che al centro giocava Mookie Wilson, una giovane promessa il cui vero nome era William Wilson. Senz’altro in questo c’era qualcosa di significativo. Quinn esplorò l’idea per qualche istante ma poi l’abbandonò. I due William Wilson si cancellavano a vicenda, e questo era tutto. Mentalmente Quinn disse loro addio.
I. Mets sarebbero arrivati ancora ultimi, e nessuno avrebbe pianto. Quando si svegliò di nuovo, il sole splendeva nella stanza. Sul pavimento vicino a lui c’era un vassoio pieno di cibo, roast beef a giudicare dall’aroma che saliva dai piatti. Quinn constatò il fatto senza rimostranze. Non era né stupito né turbato. Sì, disse fra sé, non c’è niente di strano se hanno lasciato questo cibo per me. Non era curioso di sapere come o perché fosse accaduto. Non pensò neppure di lasciare la stanza e ispezionare il resto dell’appartamento in cerca di una spiegazione. Invece osservò meglio il cibo sul vassoio, e vide che oltre a due abbondanti fette di roast–beef c’erano sette patatine arrosto, un piatto di asparagi, un panino fresco, dell’insalata, una caraffa di vino rosso, e per dessert qualche spicchio di formaggio e una pera. C’era anche un tovagliolo di lino bianco, e le posate erano di prima qualità. Quinn mangiò il cibo, o almeno ne mangiò metà, perché di più non poteva. Dopo mangiato, cominciò a scrivere sul taccuino rosso. Proseguì fino a quando nella stanza tornò il buio. In mezzo al soffitto c’era una piccola lampada, con il relativo interruttore di fianco alla porta, ma Quinn rifiutò l’idea di accenderla. Poco dopo si riaddormentò. Al suo risveglio, nella stanza splendeva il sole e sul pavimento c’era un altro vassoio di cibo. Ne mangiò finché fu sazio e si rimise a scrivere sul taccuino rosso. In questo periodo, la maggior parte delle sue annotazioni riguardavano aspetti marginali del caso Stillman. Per esempio, Quinn si chiedeva perché non si era preoccupato di leggere le cronache dell’arresto di Stillman nel 1969. Discuteva l’ipotesi di un eventuale collegamento fra l’accaduto e lo sbarco sulla luna svoltosi in quello stesso anno. Si domandava perché avesse creduto alla morte di Stillman accontentandosi della parola di Auster. Si sforzò di riflettere sul tema delle uova, e scrisse frasi del tipo «la prima gallina che canta ha fatto l’uovo», «rompere le uova nel paniere», «pieno come un uovo», «rotondo come un uovo». Si chiedeva cosa sarebbe successo se avesse seguito il secondo Stillman invece del primo. Si chiedeva perché san Cristoforo, patrono dei viaggiatori, fosse stato decanonizzato dal Papa nel 1969, proprio l’anno del viaggio sulla luna. Meditava sul perché a Don Chisciotte non era bastato scrivere libri simili a quelli che prediligeva, invece di rivivere le avventure in essi descritte. Si chiedeva perché le sue iniziali erano le stesse di Don Quijote… Ipotizzava che la ragazza che si era trasferita nel suo appartamento fosse la stessa incontrata alla Grand Central Station
mentre leggeva il suo libro. Si chiedeva se dopo il mancato appuntamento telefonico Virginia Stillman avesse assunto un altro detective. Si domandava perché avesse creduto che l’assegno era stato respinto accontentandosi della parola di Auster. Pensava a Peter Stillman, chiedendosi se avesse mai dormito nella stanza dove adesso c’era lui. Si chiedeva se il caso era veramente chiuso o se in qualche modo non ci stava ancora lavorando. Si chiedeva che forma avrebbe avuto la mappa di tutti i passi che aveva mosso nella sua vita, e quale parola avrebbe composto. Quando era buio Quinn dormiva, e quando c’era luce mangiava e scriveva sul taccuino rosso. Non era mai sicuro del tempo trascorso durante gli intervalli, perché non si curava di contare giorni e ore. Tuttavia gli sembrava che a poco a poco l’oscurità avesse cominciato a prevalere sulla luce: che mentre inizialmente il sole predominava, la luce fosse via via diventata più fioca e più fuggente. Dapprima lo attribuì al cambio di stagione. Era sicuramente già passato l’equinozio, e forse si avvicinava il solstizio. Ma anche dopo l’arrivo dell’inverno con la teorica inversione del meccanismo, Quinn osservò che le fasi di oscurità continuavano a guadagnare terreno sulla luce. Gli sembrava di avere a disposizione sempre meno tempo per mangiare e scrivere nel taccuino rosso. Alla fine, gli parve che quei periodi si fossero ridotti a pochi minuti. Per esempio, una volta terminò il cibo e verificò che aveva tempo per scrivere tre frasi nel taccuino rosso. Nel successivo periodo di luce, riuscì a scriverne solo due. Cominciò a saltare i pasti per dedicarsi al taccuino rosso, mangiando solo quando si sentiva allo stremo. Ma il tempo continuava a diminuire, e in breve fu in grado di mangiare solo un boccone o due prima del ritorno delle tenebre. Non gli venne in mente di accendere la lampada, perché da tempo ne aveva scordato l’esistenza. Questo periodo di crescente oscurità coincise con il ridursi delle pagine del taccuino rosso. Piano piano, Quinn lo stava esaurendo. A un certo punto capì che più scriveva, e più presto sarebbe scoccata l’ora in cui non avrebbe potuto più scrivere nulla. Incominciò a pesare le parole con estrema cura, combattendo per esprimersi con la massima economia e chiarezza. Si rammaricò di avere sprecato tante pagine all’inizio del taccuino rosso: addirittura, si pentì di averlo usato per raccontare il caso Stillman. Perché ormai quel caso era lontano, e Quinn non ci pensava più. Era stato come un ponte verso un altro luogo della sua vita, e adesso che lo aveva attraversato, non significava più niente. Quinn non era più interessato a se stesso. Scriveva
delle stelle, della terra, delle sue speranze per l’umanità. Sentiva che le sue parole venivano separate da lui, che ormai appartenevano al mondo in senso lato, reali e determinate come un sasso, o un lago, o un fiore. Non avevano più niente a che fare con la sua persona. Ricordava il momento della nascita, la delicatezza con cui lo avevano fatto uscire dal ventre di sua madre. Ricordava le infinite gentilezze del mondo e tutte le persone che aveva amato. Niente importava ora, a parte la bellezza di tutto questo. Voleva continuare a raccontarla, e la coscienza che ciò non era possibile lo faceva soffrire. Eppure, si sforzò di affrontare con coraggio la fine del taccuino rosso. Si chiedeva se sarebbe stato capace di scrivere senza penna, o se invece avrebbe imparato a parlare riempiendo il buio con la voce, pronunciando le parole nell’aria, nei muri, nella città, anche se la luce non fosse tornata mai più. L’ultima frase sul taccuino rosso dice: «Cosa succederà quando non ci saranno più pagine nel taccuino rosso?» A questo punto la trama si fa oscura. Le informazioni sono esaurite, e gli avvenimenti che seguono l’ultima frase non si conosceranno mai. Sarebbe insulso anche formulare delle semplici ipotesi. Tornai a casa dal mio viaggio in Africa in febbraio, poche ore prima che New York fosse raggiunta da una bufera di neve. Quella sera chiamai il mio amico Auster, che insistette perché andassi da lui al più presto. Aveva una voce così concitata che pur essendo sfinito non potei rifiutarmi. Nel suo appartamento Auster mi spiegò il poco che sapeva su Quinn, per poi descrivermi lo strano caso in cui era stato fortuitamente coinvolto. Disse che ormai era diventata un’ossessione, e voleva un consiglio sul da farsi. Dopo averlo ascoltato fino in fondo, cominciai a indispettirmi per l’indifferenza con cui aveva trattato Quinn. Lo rimproverai di non essersi dato da fare, di non avere mosso un dito per aiutare un uomo così chiaramente in difficoltà. Auster sembrò ferito dalle mie parole. Disse che in effetti era proprio per questo che mi aveva chiamato. Si sentiva colpevole e aveva bisogno di sfogarsi. Disse che si fidava solo di me. Negli ultimi mesi aveva fatto di tutto per rintracciare Quinn, senza successo. Quinn non abitava più nel suo appartamento, e tutti i tentativi di agganciare Virginia Stillman erano falliti. Fu allora che gli proposi di dare
un’occhiata alla casa degli Stillman. Non so come, ma intuivo che Quinn era andato a finire proprio lì. Indossammo i cappotti, uscimmo e prendemmo un taxi fino alla Sessantanovesima Est. Nevicava da un’ora, e le strade erano già pericolose. Non fu difficile entrare nel palazzo: ci infilammo nel portone insieme a un inquilino che rincasava. Salimmo le scale e trovammo la porta di quello che un tempo era stato l’appartamento degli Stillman. Era aperta. Ci inoltrammo cautamente all’interno e scoprimmo una serie di stanze vuote e spoglie. Sul pavimento di una stanzetta sul retro, linda e asettica come tutte le altre, c’era il taccuino rosso. Auster lo prese, lo sfogliò rapidamente e dichiarò che era quello di Quinn. Poi me lo diede dicendo che dovevo tenerlo io. Quella storia lo aveva inquietato a tal punto che aveva paura di portarlo a casa. Dissi che lo avrei conservato finché sarebbe stato pronto a leggerlo, ma scosse la testa e mi rispose che non voleva vederlo mai più. Poi uscimmo, incamminandoci sotto la nevicata. Adesso la città era tutta bianca e la neve non cessava di cadere, sembrava che dovesse continuare per sempre. In quanto a Quinn, mi è impossibile dire dove si trovi adesso. Ho seguito il taccuino rosso con la massima cura possibile, e mi assumo la responsabilità di eventuali imprecisioni. In alcuni punti il testo è stato difficile da decifrare, ma ho fatto del mio meglio astenendomi da qualunque interpretazione personale. Naturalmente il taccuino rosso rappresenta solo metà della storia, come il lettore accorto avrà capito. Sono convinto che Auster si sia comportato male da cima a fondo. Se la nostra amicizia è finita, deve solo incolpare se stesso. Il mio pensiero rimane con Quinn. Sarà per sempre insieme a me. E dovunque sia andato a scomparire, gli auguro buona fortuna.
Fantasmi In principio c’è Blue. Più tardi c’è White, e dopo ancora Black, e prima del principio c’è Brown. È Brown che l’ha svezzato, Brown che gli ha insegnato il mestiere, e quando Brown è invecchiato Blue ne ha preso il posto. È così
che comincia: il luogo è New York, il tempo è il presente, e né l’uno né l’altro cambieranno mai. Ogni giorno Blue va in ufficio e siede alla scrivania aspettando che accada qualcosa. Non capita niente per un pezzo, finché un uomo di nome White varca la soglia, ed è così che comincia. Il caso sembra piuttosto semplice. White vuole che Blue segua un uomo di nome Black e lo tenga d’occhio finché sarà necessario. Ai tempi in cui lavorava per Brown, Blue ha condotto molti pedinamenti e questo non pare diverso dagli altri, forse è anche più facile della media. Blue ha bisogno di lavorare, perciò ascolta White senza fargli troppe domande. Deduce che si tratta di una crisi coniugale, e White è un marito geloso. White non fornisce dettagli. Dice di volere un rapporto settimanale, spedito alla cassetta postale icsipsilon, dattiloscritto in duplice copia di formato così e così. Sempre settimanalmente, a Blue sarà recapitato per posta un assegno. Poi White spiega a Blue dove abita Black, il suo aspetto fisico eccetera. Quando Blue gli domanda quanto durerà il caso presumibilmente, White risponde che non lo sa. Lei continui a spedirmi i rapporti, dice, fino a nuovo ordine. A onor del vero, Blue trova il tutto un po’ strano; ma per il momento sarebbe eccessivo definirlo preoccupato. Tuttavia, non può fare a meno di notare alcuni particolari di White. La barba nera, ad esempio, e le sopracciglia troppo folte. Poi c’è la pelle esageratamente pallida, da sembrare incipriata. Blue non è un dilettante nell’arte del travestimento e mangia facilmente la foglia: dopotutto il suo maestro è stato Brown, e Brown all’epoca era il numero uno. Allora Blue comincia a pensare di essersi sbagliato, che non c’è di mezzo alcun matrimonio. Ma più in là non si spinge, perché White gli sta parlando e lui deve concentrarsi per seguirlo. È già tutto preparato, dice White. C’è un piccolo appartamento proprio dirimpetto a quello di Black. L’ho già affittato, ci si può trasferire oggi. L’affitto sarà pagato per tutta la durata del caso. Buona idea, fa Blue ricevendo la chiave da White. Così evito di scarpinare. Difatti, risponde White accarezzandosi la barba. Così l’accordo è concluso. Blue accetta il lavoro e si stringono la mano. A prova della sua buona fede, White dà in anticipo a Blue dieci biglietti da cinquanta dollari.
Dunque è così che comincia. Il giovane Blue con un uomo di nome White, che ovviamente non è quello che sembra. Fa niente, dice Blue fra sé quando White se n’è andato. Sono certo che avrà le sue ragioni; e comunque non sono affari miei. Il mio unico problema è far bene il lavoro. È il 3 febbraio 1947. Come può immaginare Blue, adesso, che il caso andrà avanti per anni… Ma il presente non è meno oscuro del passato, e il suo mistero è pari ai segreti che serba il futuro. Così va il mondo: un passo dopo l’altro, una parola e poi la successiva. Ci sono cose che Blue, a questo punto, proprio non può sapere. Perché la conoscenza arriva piano, e quando arriva spesso costa cara. White lascia l’ufficio, e subito dopo Blue prende il telefono e chiama la futura signora Blue. Dovrò vivere in incognito, dice alla fidanzata. Non preoccuparti se per un po’ non sarò reperibile. Penserò sempre a te. Blue prende dallo scaffale una piccola sacca grigia e ci mette la sua fida trentotto, un binocolo, un taccuino e altri ferri del mestiere. Poi sgombra la scrivania, riordina le carte e chiude l’ufficio. Parte direttamente per l’appartamento che gli ha affittato White. L’indirizzo non importa, ma tanto per dirne uno facciamo Brooklyn Heights. Una strada tranquilla, con poco traffico, non lontano dal ponte… per esempio, Orange Street. La via dove nel 1855 Walt Whitman compose a mano la prima edizione di Foglie d’erba, e dove Henry Ward tuonava contro la schiavitù dal pulpito della sua chiesa di mattoni rossi. Questo per il colore locale. È una piccola monocamera al terzo piano di una palazzina con la facciata di arenaria, che ne comprende quattro in tutto. Blue nota subito con piacere che è provvista di tutte le comodità e ispezionando la stanza scopre che l’arredamento è nuovo di zecca: il letto, il tavolo, la sedia, il tappeto, le lenzuola, gli utensili di cucina, tutto quanto. Nell’armadio c’è un guardaroba completo: Blue si domanda se i vestiti siano lì per lui e li prova, trovandoli perfetti. Non è la casa più spaziosa dove abbia mai abitato, commenta fra sé misurando coi passi l’ambiente, ma è davvero comoda, davvero comoda. Esce, attraversa la strada ed entra nell’edificio di fronte. All’ingresso cerca e trova il nome di Black fra le cassette delle lettere: Black – terzo piano. Finora tutto bene. Torna nella sua stanza e si mette al lavoro. Scostando le tende della finestra guarda fuori, e scorge Black seduto a un tavolo nella stanza dirimpetto. Da quel che riesce a vedere, gli sembra che Black stia scrivendo. Uno sguardo col binocolo conferma l’ipotesi. Ma le
lenti non sono abbastanza potenti da leggere quanto sta scrivendo, e anche se lo fossero Blue dubita che saprebbe decifrare le parole capovolte. Per certo, dunque, può dire solo che Black scrive su un taccuino con una stilografica rossa. Blue prende il proprio e annota: 3 feb, h 15 Black al tavolo che scrive. Di tanto in tanto Black si interrompe per guardare fuori dalla finestra. A un certo punto Blue ha l’impressione che guardi proprio verso di lui e si ritrae; ma osservando con attenzione vede uno sguardo assente, più mentale che ottico, uno sguardo che rende le cose invisibili, che non dà loro accesso. A intervalli Black si alza dalla sedia e scompare in un punto nascosto della stanza: un angolo, immagina Blue, o magari il bagno; ma non si assenta mai troppo a lungo, in breve torna sempre alla scrivania. La scena va avanti per ore e Blue non ricava nulla dai propri sforzi. Alle sei scrive la seconda annotazione: La scena va avanti per ore. Più che annoiarsi, Blue si sente inchiodato. Non riuscendo a leggere ciò che ha scritto Black, per ora non ha combinato nulla. Forse è un pazzo, pensa Blue, che progetta di far saltare il mondo. Forse quello che scrive ha a che fare con la sua formula segreta. Ma subito Blue prova imbarazzo per un’ipotesi tanto puerile. È troppo presto per qualsiasi conclusione, dice fra sé, e per il momento decide di sospendere il giudizio. La sua mente vaga da una cosa all’altra, approdando infine alla futura signora Blue. Rammenta che quella sera sarebbero dovuti uscire insieme, e se non fosse stato per l’arrivo in ufficio di White col nuovo caso, ora sarebbe con lei. Prima il ristorante cinese sulla Trentanovesima, dove avrebbero litigato coi bastoncini e si sarebbero tenuti per mano sotto il tavolo, poi il doppio spettacolo al cinema Paramount. Per un istante gli viene in mente un’immagine straordinariamente chiara di lei (mentre ride a occhi bassi, fingendosi imbarazzata) e capisce che preferirebbe di gran lunga essere in sua compagnia piuttosto che lì, seduto in quella stanzetta per Dio sa quanto ancora. Gli viene voglia di telefonarle per far due chiacchiere, esita, poi decide di no. Non vuole apparire debole: se lei sapesse quanto gli è indispensabile, Blue comincerebbe a perdere il suo vantaggio, e questo non va. L’uomo deve essere sempre il più forte. Ora Black ha sgomberato il tavolo, sostituendo le scartoffie con l’occorrente per la cena. È lì seduto a masticare lentamente e guarda fuori con quella sua espressione vacua. Alla vista del cibo Blue si accorge di avere fame e ispeziona la dispensa alla ricerca di qualcosa da mangiare. Sceglie
stufato in scatola, inzuppando nell’intingolo una fetta di pane bianco. Spera che dopo cena Black esca di casa, e la speranza aumenta quando nota nella stanza di Black un improvviso fermento di attività. Ma si spegne presto. Un quarto d’ora dopo, Black è di nuovo seduto al tavolo, questa volta per leggere un libro. È vicino a una lampada accesa, e Blue può scorgerne il viso più chiaramente. Black ha all’incirca la sua età. Vale a dire intorno ai trenta, anno più, anno meno. Trova il viso di Black piuttosto gradevole, senza nulla che lo distingua dalle migliaia di altre facce che si incontrano ogni giorno. Blue si sente deluso, perché in cuor suo spera ancora di scoprire che Black è pazzo. Guardando col binocolo legge il titolo del libro che Black sta leggendo. Walden, di Henry David Thoreau. Blue non ne ha mai sentito parlare, e lo trascrive con cura sul taccuino. Così trascorre tutta la serata, con Black che legge e Blue che lo guarda. Col passare del tempo Blue è sempre più scoraggiato. Non è abituato all’ozio e, con le tenebre che ormai gli calano intorno, incomincia a sentirsi nervoso. A lui piace l’azione, il movimento, spostarsi da un luogo all’altro. Non ho la stoffa dello Sherlock Holmes, diceva a Brown ogni volta che il capo gli affidava un incarico particolarmente sedentario. Dammi qualcosa da affondarci i denti. Ora che il capo è lui, guarda cosa gli rifilano: un caso in cui non c’è da fare niente. Perché guardare un tale che legge e scrive è proprio come non far nulla. Per Blue l’unico modo per capire un po’ come stanno le cose sarebbe entrare nella mente di Black, vedere a cosa pensa; e questo è impossibile. Perciò pian piano Blue lascia la mente riandare ai vecchi tempi. Pensa a Brown e ad alcuni casi cui hanno lavorato insieme, assaporando il ricordo di quei successi. C’era stato l’Affare Redman, ad esempio, quando incastrarono quel cassiere di banca che aveva trafugato un quarto di milione di dollari. Quella volta Blue si era finto un allibratore, convincendo Redman a versargli denaro per una scommessa. Le banconote furono identificate, e l’uomo ebbe ciò che si meritava. Ancora meglio era stato il Caso Gray. Gray era scomparso da più di un anno, e la moglie era ormai pronta a dichiararlo morto. Blue operò le ricerche consuete e si ritrovò a mani vuote. Poi un giorno, quando stava per spedire il rapporto finale, incontrò Gray in un bar a neanche due isolati da dove la moglie lo aspettava, ormai senza più speranza che tornasse. Ora Gray si faceva chiamare Green, ma Blue lo riconobbe perché da tre mesi portava sempre con sé una foto dell’uomo, e ne conosceva il volto a memoria. Si rivelò un caso di amnesia.
Blue riportò Gray dalla moglie, e sebbene lui non la riconoscesse e ripetesse di chiamarsi Green, la trovò attraente e di lì a pochi giorni le chiese di sposarlo. Così la signora Gray divenne la signora Green, risposandosi con lo stesso uomo, e anche se Gray non ricordò mai il suo passato – anzi: continuò testardamente a negare di essersi dimenticato alcunché – questo non gli impedì di vivere bene nel presente. Mentre nella sua vita precedente Gray era stato ingegnere, in qualità di Green continuò a fare il barista nel caffè a due isolati di distanza. Gli piaceva preparare i cocktail, spiegò, e parlare con gli avventori, e non poteva immaginarsi dedito a un’altra occupazione. Sono nato per fare il barman, dichiarò a Blue e Brown alla festa di nozze, e loro chi erano per contestare le scelte esistenziali di un altro? Quelli erano i giorni, dice Blue fra sé mentre guarda Black spegnere la luce nella camera dirimpetto. Pieni di colpi di scena e coincidenze divertenti. Be’, non tutti i casi possono essere emozionanti. Nel lavoro ci sta il buono e il meno buono. Da bravo ottimista, la mattina dopo Blue si sveglia allegro. Fuori nevica sulla strada silenziosa, e tutto si è fatto bianco. Dopo aver osservato Black che, seduto al tavolo accanto alla finestra, fa colazione e legge ancora qualche pagina di Walden, Blue lo vede ritirarsi nella parte interna della stanza per tornare alla finestra con indosso un soprabito. Sono da poco passate le otto. Blue prende il cappello, il cappotto, la sciarpa e gli stivali, si copre in tutta fretta e scende le scale arrivando in strada meno di un minuto dopo Black. È un mattino senza vento, così tranquillo che si può sentire cadere la neve sui rami degli alberi. La strada è deserta, e le scarpe di Black hanno lasciato un perfetto sentiero di orme sul marciapiede bianco. Seguendo le impronte Blue gira l’angolo e vede Black che passeggia tranquillo per l’altra via, come se si godesse la nevicata. Non è certo il comportamento di un fuggitivo, pensa Blue, rallentando il passo a sua volta. Due strade più in là Black entra in una piccola drogheria; passano dieci o dodici minuti, poi esce con due borse di carta marrone piene fino all’orlo. Senza notare Blue, che si appiatta nell’ingresso di una casa di fronte, comincia a ritornare sui suoi passi, verso Orange Street. Ha fatto provviste per la tormenta, pensa Blue; quindi decide di arrischiarsi alla perdita di contatto ed entra nel negozio per imitare Black. Se non è un trucco, pensa, e Black non ha in mente di buttar via la spesa e squagliarsela, è quasi sicuro che stia tornando a casa. Perciò Blue compra quello che gli occorre, si ferma nel negozio accanto a prendere il giornale e
un po’ di riviste, e torna nella sua stanza in Orange Street. Naturalmente Black è già al tavolo vicino alla finestra, che scrive nel taccuino come ieri. La visibilità è scarsa a causa della neve, e Blue fatica a interpretare cosa sta succedendo nella camera di Black. Anche il binocolo non serve a molto: il giorno resta buio, e attraverso la neve che cade senza sosta Black non appare che un’ombra. Rassegnato a una lunga attesa, Blue si dedica ai giornali. È un affezionato lettore del mensile «Trae Detective» e cerca di non lasciarselo mai scappare. Ora che il tempo non gli manca, legge il nuovo numero da cima a fondo, soffermandosi anche sui trafiletti e sugli annunci pubblicitari delle pagine interne. Fra le storie principali che trattano di agenti segreti e sgominatori di gang, ce n’è una che colpisce Blue al punto che, ultimata la lettura del giornale, non riesce a pensare ad altro. Pare che, venticinque anni or sono, in un boschetto nelle vicinanze di Philadelphia abbiano trovato un bambino assassinato. Pur essendosi prodigata per risolvere il caso, la polizia non seppe cavarne alcun indizio. Non solo non riuscirono a formulare sospetti; non giunsero neanche all’identificazione della vittima. Chi era, da dov’era venuto, perché stava lì… tutte domande che rimasero senza risposta. Alla fine il caso passò in archivio, e sarebbe finito nel dimenticatoio se non fosse stato per il medico legale cui era stata affidata l’autopsia del bambino. Per il dottore, che si chiamava Gold, quell’omicidio divenne un’ossessione: prima della sepoltura fece una maschera mortuaria del volto della vittima, e da allora dedicò al mistero ogni momento libero. Dopo vent’anni, giunto all’età della pensione, smise di lavorare e cominciò a dedicarsi al caso a tempo pieno. Ma senza successo. Non ha scoperto nulla, non ha fatto il minimo progresso nella soluzione dell’enigma. L’articolo di «Trae Detective» spiega che ora ha offerto un compenso di duemila dollari a chiunque gli procuri informazioni sul bambino, ed è corredato da una foto ritoccata, a grana grossa, dell’uomo con la maschera mortuaria. Ha uno sguardo così tormentato e supplichevole che Blue non riesce a staccare gli occhi dall’immagine. Gold sta invecchiando, ormai, e teme di morire prima di aver risolto il caso. Blue ne è turbato e commosso: se potesse, abbandonerebbe di corsa il proprio incarico per dare una mano a Gold. Non ce n’è abbastanza di uomini così, pensa. Se il bambino fosse stato figlio di Gold, si potrebbe pensare a una pura e semplice vendetta, un comportamento comprensibile a tutti; e invece era un perfetto sconosciuto, non c’è nulla di personale, nessun’ombra di secondi fini. È questo che commuove tanto Blue.
Gold rifiuta un mondo in cui l’assassinio di un bimbo può restare impunito anche se forse l’infanticida è già morto, ed è disposto a sacrificare la propria vita e la propria felicità per fare giustizia. Ora Blue pensa un po’ anche al bambino, cercando di immaginare come è andata veramente, di sentire quello che deve aver sentito il piccolo, e conclude che l’assassino dev’essere stato uno dei suoi genitori, altrimenti ne avrebbero denunciato la scomparsa. Peggio ancora, pensa Blue, e l’ipotesi comincia a nausearlo perché ora capisce appieno come dev’essersi sentito Gold per tanti anni, pensa che anche lui venticinque anni fa era un bambino, e se quel bambino fosse vissuto ora avrebbe la sua età. Poteva toccare a me, pensa Blue. Potevo essere io quel bambino. Non sapendo che altro fare, ritaglia la foto dal giornale e l’attacca alla parete sopra il letto. I primi giorni passano così. Blue osserva Black, e non accade niente d’importante. Black scrive, legge, mangia, fa brevi passeggiate nel quartiere e sembra non accorgersi della presenza di Blue. Quanto a Blue, cerca di restare calmo. Ritiene che Black rimanga rintanato senza dare nell’occhio in attesa del momento propizio. Blue deduce che non gli è richiesta una sorveglianza costante, dato che è un uomo solo e non può tenere d’occhio una persona ventiquattr’ore su ventiquattro. Deve avanzargli tempo per dormire, mangiare, lavarsi i panni eccetera. Se White avesse preteso una vigilanza ininterrotta avrebbe assunto non uno, ma due o tre uomini. Ma Blue è solo, e più di tanto non può fare. A dispetto di queste considerazioni incomincia a preoccuparsi: perché se Black dev’essere sorvegliato, vuol dire che va sorvegliato ogni giorno, a tutte le ore. Una vigilanza meno che totale equivale a non vigilare affatto. Non ci vuole molto, ragiona Blue, perché il quadro muti completamente. Un momento di disattenzione – per guardarsi attorno, per grattarsi in testa, per un semplice sbadiglio – e Black può allontanarsi e commettere il crimine – quale che sia – che sta progettando. D’altra parte, di momenti simili ce ne dovranno essere centinaia, forse migliaia ogni giorno. Blue è turbato: per quanto rimugini non intravede alcuna soluzione. Ma non è solo questo che lo inquieta. Finora non aveva avuto molte occasioni di restare in ozio, e questa nuova inazione gli provoca smarrimento. Per la prima volta in vita sua si ritrova solo con se stesso, senza nulla di concreto fra le mani, nulla che gli faccia distinguere un momento da quello seguente. Non si è mai occupato granché
del proprio mondo interiore, della cui esistenza era cosciente, ma come fosse un’entità ignota, inesplorata e pertanto oscura anche a lui. Se ben ricorda, si è sempre mosso velocemente sulla superficie delle cose, studiandone la scorza al solo fine di percepirle, considerandone una per passare subito alla successiva. Ha sempre goduto di questo rapporto col mondo, per cui alle cose non chiedeva nient’altro che di esistere. E fino ad ora sono esistite, stagliandosi evidenti alla luce del giorno, dichiarandogli senza incertezze ciò che erano, così perfettamente se stesse – e nient’altro – che non ha mai dovuto indugiare al loro cospetto né tornare a guardarle. E ora all’improvviso, col mondo come alienato da lui, senza nient’altro da vedere che un’ombra vaga di nome Black, si concentra su cose che non gli erano mai venute in mente, e anche questo incomincia a dargli angoscia. Se pensiero a questo punto è una parola troppo forte, un termine un po’ meno ambizioso – speculazione, per esempio – può avvicinarsi alla realtà. Speculare, dal latino speculari, spiare, osservare, e legato alla parola speculum cioè specchio, riflesso, immagine. Perché spiando Black nella casa dirimpetto è come se Blue guardasse in uno specchio, e capisce che invece di osservare solo un’altra persona sta osservando anche se stesso. La sua vita ha subito un rallentamento così drastico che adesso riesce a vedere cose che gli erano sempre sfuggite. La traiettoria della luce che ogni giorno attraversa la stanza, per esempio; e il modo che ha il sole, a certe ore, di riverberare la neve nell’angolo più interno del soffitto. Il pulsare del suo cuore, il suono del respiro, il battito delle palpebre… ora Blue si accorge di tutte queste occorrenze minime, e per quanto si sforzi di ignorarle gli ristagnano nella mente come una frase senza senso ripetuta all’infinito. Lui sa che non può essere vera, ma a poco a poco la frase sembra assumere un significato. Su Black, su White, sul lavoro che gli è stato affidato, ora Blue incomincia ad avanzare alcune ipotesi. Scopre che inventare storie, oltre a servirgli a far passare il tempo, può essere un piacere. Pensa che forse White e Black sono fratelli, e che c’è di mezzo una grossa somma di denaro… un’eredità, per esempio, o il capitale investito in una società. Forse White vuole dimostrare che Black non è in grado d’intendere e di volere, per farlo rinchiudere in qualche istituto e ottenere il controllo su tutto il patrimonio familiare. Ma Black non è così ingenuo e se ne sta rintanato in attesa che passi la buriana. Secondo un’altra ipotesi di Blue, White e Black sono in corsa per il medesimo obiettivo – ad esempio una scoperta scientifica – e
White vuole far sorvegliare Black per essere certo che l’altro non lo distanzi. In un terzo scenario immagina che White sia un agente rinnegato dell’FBI o di qualche organizzazione spionistica, magari straniera, e si sia messo in proprio per condurre un’indagine laterale, non necessariamente autorizzata dai suoi superiori. Assumendo Blue per compiere l’opera al suo posto, può tenere segreta la vigilanza su Black e intanto lavorare come sempre. Giorno dopo giorno l’elenco di queste storie si allunga: Blue ogni tanto ripensa a uno scenario precedente per aggiungervi fronzoli e dettagli; altre volte ne aggiunge uno nuovo. Come trame omicide, o piani di rapimenti per riscatti esorbitanti. Col passare dei giorni Blue capisce che le storie che può raccontarsi sono infinite. Perché Black non è altro che un foro, un’interruzione nel tessuto delle cose, e a riempirlo una storia vale l’altra. Tuttavia Blue non inganna se stesso. Sa che più di ogni altra cosa vorrebbe conoscere la storia vera; ma sa anche che a questo stadio iniziale gli occorre pazienza. Perciò poco per volta inizia ad acclimatarsi col lavoro, e giorno dopo giorno si sente più padrone della situazione, più rassegnato all’idea che i tempi non saranno brevi. Purtroppo la sua crescente serenità è turbata dal pensiero della futura signora Blue. Gli manca molto, e per giunta ha come la sensazione che le cose non torneranno più come prima. Da dove gli venga questo presentimento non saprebbe dirlo. Ma se, finché si concentra su Black, sulla sua stanza, sul caso al quale sta lavorando, il suo umore è discreto, appena la futura signora Blue gli si affaccia alla coscienza si sente cogliere dal panico. D’improvviso la calma si tramuta in angoscia, Blue si sente cadere in un luogo buio come una spelonca senza speranza di trovare vie d’uscita. Quasi ogni giorno è stato tentato di prendere il telefono e chiamarla, pensando che forse un momento di contatto reale potrebbe spezzare l’incantesimo. Ma i giorni passano e lui non chiama. Anche questo lo inquieta, perché non ricorda nessun giorno della sua vita che l’abbia visto così riluttante a fare una cosa che tanto manifestamente desidera. Sto cambiando, dice fra sé. Poco alla volta non sono più lo stesso. Questa interpretazione un po’ lo rassicura, per qualche tempo almeno, ma solo per farlo poi sentire più strano di prima. Passano i giorni, e gli riesce difficile liberare la mente dalle immagini della futura signora Blue, soprattutto la notte; e lì, nell’oscurità della sua stanza, supino e a occhi aperti, ne ricostruisce il corpo pezzo dopo pezzo cominciando dai piedi e dalle caviglie, risalendo le gambe e le cosce,
arrampicandosi dal ventre ai seni e poi vagando in una paradisiaca morbidezza fino ai glutei, e di nuovo su per la schiena per trovare finalmente il collo e contorcersi verso il suo viso tondo e sorridente. Cosa starà facendo in questo momento? si domanda ogni tanto. E che ne penserà di tutto ciò? Ma non trova mai una risposta soddisfacente. Se sulla vicenda di Black sa di inventare un’infinità di storie possibili, sulla futura signora Blue tutto è silenzio, confusione, vuoto. Arriva il giorno in cui deve scrivere il primo rapporto. Blue ne compila da una vita, e non ha mai avuto nessun problema: segue il metodo di attenersi all’evidenza dei fatti, descrivendo gli avvenimenti in modo che ogni parola corrisponda esattamente alla cosa che descrive; senza scandagliare più a fondo. Per lui le parole sono trasparenti, come grandi finestre che lo separano dal mondo e che finora non gli hanno mai impedito di vedere, come se non esistessero. Oh, ci sono circostanze in cui il vetro appare un po’ offuscato e Blue deve pulirlo qua e là, ma quando trova la parola giusta tutto torna. Basandosi sugli appunti del taccuino, esaminandoli minuziosamente per rinfrescarsi la memoria ed evidenziare le osservazioni più notevoli, cerca di modellare un insieme coerente. Scarta il superfluo e abbellisce la sostanza. In tutti i rapporti che ha scritto fin qui, l’azione domina sull’interpretazione. Per esempio: Il soggetto ha camminato da Columbus Circle alla Carnegie Hall. Nessun riferimento al tempo, né allusioni al traffico; nessun accenno di ipotesi sui pensieri del soggetto. Il rapporto si attiene a fatti noti e comprovabili, senza spingersi al di là di questo limite. Ma di fronte ai fatti del caso Black, Blue si accorge del proprio imbarazzo. C’è il taccuino, naturalmente: ma quando lo sfoglia per vedere cosa ha scritto, si scontra con una desolante scarsità di dettagli. È come se le sue parole, invece di dar forma ai fatti collocandoli tangibilmente nel mondo, li avessero indotti a scomparire. Questo non gli era mai successo prima. Guarda nella stanza dirimpetto, e vede Black seduto come sempre al suo tavolo. Anche Black in quel momento sta guardando dalla finestra, e all’improvviso Blue decide che non potrà più affidarsi ai vecchi protocolli. Addio agli indizi, ai pedinamenti, alla routine investigativa. Ma adesso, se prova a immaginare come sostituirli, non approda a nulla. A questo punto, Blue può solo ipotizzare cosa il caso non è. Definirlo positivamente non è alla sua portata. Blue pone sul tavolo la macchina da scrivere rincorrendo le idee,
cercando di applicarsi al compito che ha di fronte. Pensa che forse un resoconto veritiero dell’ultima settimana dovrebbe includere le varie storie inventate su Black. Dato che per il resto c’è così poco da scrivere, quelle escursioni nel fittizio forniranno almeno un assaggio dell’accaduto. Ma cambia idea quasi subito, rendendosi conto che in realtà esse non hanno niente a che vedere con Black. Dopotutto, riflette, questa non è la storia della mia vita, e io dovrei scrivere di lui, non di me stesso. Eppure l’idea, come una tentazione perversa, non lo abbandona, e Blue deve lottare a lungo con se stesso per sbaragliarla. Ricomincia da capo e ripercorre il caso passo passo. Determinato a fare esattamente ciò che gli è stato chiesto, si affanna per stendere il rapporto alla vecchia maniera, sviscerando ogni particolare con diligenza e pignoleria, tanto che prima che abbia finito passano molte ore. Quando esamina il risultato è costretto ad ammettere che tutto appare esatto. Ma allora, perché si sente così insoddisfatto, così turbato da quello che ha scritto? Dice fra sé: ciò che è accaduto non è ciò che è accaduto realmente. Per la prima volta da quando stende rapporti, scopre che non necessariamente le parole funzionano, che possono anche oscurare i concetti che tentano di esprimere. Blue dà un’occhiata alla stanza indugiando su diversi oggetti, uno dopo l’altro. Vede la lampada, e dice fra sé: lampada. Vede il letto e dice fra sé: letto. Vede il taccuino e dice fra sé: taccuino. Pensa che non chiamerebbe la lampada letto, né il letto lampada. No, queste parole vanno a pennello agli oggetti che indicano, e nel pronunciarle Blue prova una soddisfazione profonda, come se avesse appena dimostrato l’esistenza del mondo. Poi guarda nella casa dirimpetto e vede la finestra di Black. È buio adesso, Black sta dormendo. Questo è il problema, considera Blue nel tentativo di farsi un po’ di coraggio. Questo, e nessun altro. Lui è laggiù, ma vederlo è impossibile; e anche quando lo vedo è come se le luci fossero spente. Chiude il rapporto in una busta sigillata ed esce; cammina fino all’angolo e lo infila nella buca delle lettere. Forse non sarò l’uomo più in gamba del mondo, dice fra sé, ma sto facendo del mio meglio, sto facendo del mio meglio. Poi la neve comincia a sciogliersi. Il mattino dopo c’è un sole luminoso, stormi di passeri cinguettano sugli alberi e Blue sente con piacere lo sgrondare dell’acqua dal tetto, dai rami, dai lampioni. Tutto a un tratto la
primavera non sembra lontana. Ancora qualche settimana, dice fra sé, e ogni mattina sarà come questa. Black approfitta del tempo per spingersi più lontano che in passato, e Blue lo segue. Ritrovarsi in movimento lo conforta, e mentre Black continua a camminare, Blue spera che il viaggio non finisca prima di avergli permesso di sgranchirsi per bene. Come si può arguire è sempre stato un appassionato camminatore, e sentire le gambe che si slanciano nell’aria mattutina lo mette di buon umore. Mentre percorrono le vie anguste di Brooklyn Heights, Blue considera con sollievo che Black continua ad allontanarsi da casa; mai poi, di colpo, si rabbuia. Black comincia a salire la scala che conduce sulla passerella del Ponte di Brooklyn, e Blue si fissa che voglia gettarsi. Queste cose succedono, dice fra sé. Un uomo sale in cima al ponte, guarda il mondo per l’ultima volta attraverso il vento e le nuvole, e poi salta giù verso l’acqua, le ossa che scricchiolano nell’impatto, il corpo che si schianta. L’immagine lo fa inorridire, dice a se stesso di stare all’erta. Decide che, se incomincia ad accadere qualcosa, abbandonerà il ruolo di osservatore neutrale e interverrà. Perché non vuole che Black muoia… almeno per adesso. Erano tanti anni che Blue non attraversava il ponte a piedi. L’ultima volta è stato da bambino, con il padre, e adesso il ricordo di quel giorno riaffiora. Vede se stesso per mano al padre, risente il rumore del traffico sulla campata inferiore, e rammenta di avergli detto che sembrava il ronzio di un immenso sciame di api. Alla sua sinistra c’è la Statua della Libertà; alla sua destra Manhattan, gli edifici così alti nel sole del mattino da sembrare finti. Suo padre era una miniera di notizie, e gli raccontava le storie di tutti i monumenti e i grattacieli, con litanie interminabili di dati: gli architetti, le date, gli intrighi dei politici, e come un tempo il Ponte di Brooklyn fosse l’edificio più alto d’America. Il suo vecchio era nato proprio nell’anno in cui avevano terminato il ponte e la coincidenza si era fissata nella mente di Blue come se il ponte fosse una specie di monumento in onore del padre. Gli era piaciuta la storia che il padre gli aveva raccontato quel giorno, mentre lui e Blue Senior tornavano a casa sulle medesime assi di legno che stava calpestando adesso, e per qualche ragione non l’aveva mai dimenticata. Come John Roebling, l’artefice del ponte, pochi giorni dopo aver ultimato il progetto ebbe un piede maciullato da un traghetto che si accostava al molo, e morì di cancrena in tre settimane. Non doveva morire, spiegò il padre di Blue, ma accettò di essere curato unicamente con l’idroterapia – che non fece effetto – e Blue restò
colpito dall’idea che un uomo che aveva speso la vita a costruire ponti sopra distese d’acqua perché la gente non si bagnasse, credesse che la sola medicina valida fosse proprio l’immersione in acqua… Dopo la morte di John Roebling, suo figlio Washington gli subentrò come ingegnere capo, e questa era un’altra storia curiosa. Ai tempi Washington Roebling aveva solo trentun anni, ed era privo di esperienza eccezion fatta per i ponti in legno progettati durante la Guerra Civile; ma si dimostrò ancor più capace di suo padre. Tuttavia, non molto tempo dopo l’inizio della costruzione del ponte di Brooklyn, durante un incendio rimase intrappolato per molte ore sott’acqua in una delle casseforme, e ne uscì con una grave embolia gassosa (un male temibilissimo, che è provocato dal formarsi di bolle d’azoto nel sangue). Sfuggì alla morte per miracolo, ma restò invalido e impossibilitato a lasciare l’appartamento all’ultimo piano in Brooklyn Heights dove abitava con la moglie. Qui Washington Roebling rimase molti anni seduto a seguire con il cannocchiale il procedere dei lavori, inviando ogni giorno la moglie a impartire le istruzioni necessarie e preparando elaborati disegni a colori per gli operai stranieri che non parlavano inglese, per spiegare loro le operazioni successive; e la cosa straordinaria è che aveva letteralmente in testa tutto il ponte: ne aveva memorizzato ogni componente, fino ai più minuti pezzetti di acciaio e di pietra, e anche se Washington Roebling non pose mai piede su quel ponte esso era interamente dentro lui, come se dopo tanti anni si fosse trasformato in una presenza corporea. Blue ripensa alla storia ora, mentre attraversa il fiume alle calcagna di Black e rammenta suo padre e la sua infanzia a Gravesend. Il vecchio era un agente di polizia, poi promosso a detective nel Settantasettesimo distretto, e tutto sarebbe andato bene se non fosse stato per il caso Russo e quella pallottola che gli aveva trapassato il cervello nel 1927. Vent’anni fa, dice fra sé, sbigottito al pensiero di quanto tempo è passato, domandandosi se esista il paradiso, e se in caso affermativo potrà rivedere il padre dopo morto. Ricorda una storia trovata in una delle tante riviste che ha letto quella settimana – un nuovo mensile intitolato «Stranger Than Fiction» – e che in qualche modo gli sembra derivare da tutti gli altri pensieri che gli si sono affacciati alla mente. In una località delle Alpi Francesi venti o venticinque anni fa era scomparso uno sciatore inghiottito da una slavina, e il corpo non era mai stato ritrovato. Suo figlio, che all’epoca era un bambino, diventò grande e a sua volta imparò a sciare. Un giorno, l’anno scorso, scendeva in un punto non lontano da
quello dove era andato disperso suo padre; ma senza saperlo. A causa degli impercettibili ma continui spostamenti del ghiaccio nei decenni successivi alla morte del padre, il terreno appariva del tutto diverso da allora. Solo fra i monti, a chilometri e chilometri di distanza dal più vicino essere umano, il figlio sciando si imbatté in un corpo prigioniero del ghiaccio: un cadavere perfettamente intatto, come di un uomo che si fosse fatto ibernare. Inutile dire che il giovane si fermò a esaminarlo, e chinandosi a guardare quel viso ebbe la netta e agghiacciante sensazione di vedere se stesso. Tremante di paura, continuava l’articolo, si avvicinò per ispezionare il cadavere che il ghiaccio isolava come se si trovasse oltre una spessa finestra, e riconobbe suo padre. Il morto era giovane, forse ancora più giovane di lui adesso; e qui, sentì Blue, c’era un che di spaventoso; era così strampalato e terribile questo ritrovarsi più vecchio del proprio padre, che durante la lettura aveva trattenuto a stento le lacrime. Ora che si avvicina all’altra riva prova le stesse sensazioni e darebbe qualsiasi cosa perché il padre fosse lì, a camminare sul ponte raccontandogli delle storie. Poi, accorgendosi della piega presa dai suoi pensieri, si domanda come mai sia diventato così sentimentale, e perché continuino ad opprimerlo quei ricordi che avevano taciuto per tanti anni. È tutto collegato, pensa, un po’ imbarazzato per se stesso. È questo che succede quando non hai nessuno con cui parlare. Arriva in fondo al ponte e constata di essersi sbagliato. Oggi non ci saranno suicidi, né salti dal ponte, né tuffi verso l’ignoto. Perché ecco che il suo uomo, più sereno e spensierato che mai, scende la scala della passerella e percorre la via che lambisce la City Hall, per poi dirigersi a nord in Centre Street, costeggiando il palazzo di giustizia e gli altri edifici municipali senza mai rallentare il passo, attraverso Chinatown e oltre. Questo vagabondaggio dura diverse ore, durante le quali Blue non ha mai la sensazione che Black si diriga in un luogo specifico. Sembra piuttosto dedito a ossigenarsi, a camminare per il semplice gusto di farlo, e man mano che il viaggio prosegue per la prima volta Blue ammette che si sta un po’ affezionando a Black. A un certo punto Black entra in una libreria e Blue lo segue. Black guarda i titoli per una mezz’ora, accumulando nel frattempo una piccola pila di libri e Blue, che non ha di meglio da fare, si guarda intorno anche lui, cercando sempre di tenere nascosto il volto a Black. Quando Black sembra guardare altrove, lui lo sbircia di sottecchi: ha l’impressione di averlo già visto, ma non ricorda dove. C’è qualcosa nei suoi occhi… dice fra sé, ma non riesce ad
andare oltre, un po’ perché non vuole attirare l’attenzione, e un po’ perché non ne è veramente sicuro. Un minuto dopo Blue si trova davanti una copia di Walden, di Henry David Thoreau. Sfogliando il libro, scopre con sorpresa che l’editore si chiama Black: «Edito per il Classics Club da Walter J. Black, Inc. Copyright 1942». Lì per lì Blue è urtato dalla coincidenza, pensa che forse essa contiene un messaggio per lui, un barlume di verità che potrebbe cambiare le cose. Ma poi, riprendendosi dal colpo, comincia a pensare che no; è un cognome assai comune, dice fra sé… e in tutti i casi, sa per certo che Black non si chiama Walter. Ma potrebbe essere un parente, aggiunge, magari suo padre. Meditando quest’ultima ipotesi, Blue decide di comprare il libro. Se non può leggere quello che Black scrive, potrà leggere almeno ciò che legge. È un azzardo, dice fra sé, ma chissà che non gli fornisca qualche indizio sulle intenzioni di quest’uomo. Fin qui tutto bene. Black paga i suoi libri, Blue paga il suo, e la camminata riprende. Blue è sempre alla ricerca di un disegno, di un indizio che gli venga incontro e lo conduca al segreto di Black. Ma Blue è troppo onesto per crearsi illusioni, e sa che da quanto è accaduto sin qui non si può dedurre un’acca. Per una volta l’idea non lo deprime: di fatto, esaminandosi più in profondità, capisce che, al contrario, gli dà forza. Scopre che c’è del buono nel ritrovarsi al buio, che c’è un fremito in questo suo ignorare gli eventi successivi. Ti mantiene all’erta, pensa, il che non fa mai male, o no? Tutt’orecchi, in campana, pronto a tutto. Appena fatte queste riflessioni, a Blue finalmente viene offerto un nuovo sviluppo: il caso conosce la sua prima svolta. Black gira l’angolo di una via del centro, prosegue fino a metà dell’isolato, indugia brevemente come in cerca di un indirizzo, fa qualche passo indietro, avanza di nuovo e dopo alcuni secondi entra in un ristorante. Blue lo segue senza almanaccare troppo, perché in fondo è ora di pranzo e la gente deve pur mangiare; ma non gli sfugge che l’esitazione di Black sembra indicare che non sia mai stato qui prima d’ora; il che forse a sua volta significa che ha un appuntamento. Il posto all’interno è buio e abbastanza affollato, con un gruppo che si accalca intorno al bar, e un fitto chiacchiericcio che proviene dal retro, accompagnato dall’acciottolio dei piatti e delle posate. Sembra caro, pensa Blue alla vista delle pareti a pannelli di legno e delle tovaglie bianche; e decide di contenere la spesa il più possibile. Tavoli liberi ce ne sono, e a Blue sembra di buon
auspicio che lo facciano accomodare in prossimità di Black: non vicino in maniera imbarazzante, ma abbastanza da controllarlo. Black fa segno con la mano che gli portino due menù, e tre o quattro minuti dopo sorride all’apparire di una donna che attraversa la sala, si avvicina al suo tavolo e lo bacia su una guancia per poi sedersi. Mica male come femmina, considera Blue. Un po’ secca per i suoi gusti, ma proprio mica male. Poi pensa: ora comincia la parte interessante. Purtroppo la donna gli volta le spalle, sicché durante il pranzo Blue non riesce a vederla in viso. Mentre mangia il suo hamburger, pensa che forse la prima ipotesi era quella giusta, si tratta proprio di una crisi coniugale. Blue immagina già che genere di cose scriverà nel prossimo rapporto, e si compiace delle frasi che userà per descrivere quello che sta vedendo adesso. Ritrovarsi con un’altra persona coinvolta lo costringe a prendere delle decisioni. Per esempio: resterà incollato a Black, o rivolgerà l’attenzione alla donna? La seconda soluzione potrebbe accelerare l’indagine, ma nel contempo dare a Black la possibilità di sparire, magari per sempre. In altri termini: l’appuntamento con la donna è un paravento o il cuore del problema? È parte del caso oppure no, è un fatto essenziale o contingente? Blue rimugina un po’ queste domande, concludendo che è troppo presto per decidere. Certo, dice fra sé, potrebbe essere una cosa. Ma potrebbe anche essere l’altra. Verso metà pranzo la situazione sembra volgere al peggio. Blue coglie sul viso di Black uno sguardo molto triste, e prima di poterlo soppesare ha l’impressione che la donna stia piangendo. Questo almeno è quanto può dedurre dal repentino cambio di posizione del suo corpo: le spalle cadenti, la testa china in avanti, il volto forse coperto dalle mani, un vago sussultare della schiena. Potrebbe essere uno scoppio di riso, ragiona Blue, ma allora come si spiegherebbe l’aria afflitta di Black? Sembra che gli manchi la terra sotto i piedi. Dopo un istante la donna distoglie il viso da Black e Blue ha una rapida visione del suo profilo: quelle sono lacrime, pensa, nel vederla asciugarsi gli occhi con il fazzoletto. Sulla guancia le luccica un’umida macchia di mascara. A un tratto si alza in piedi e si dirige verso la toilette; Blue si ritrova davanti la faccia di Black e leggendovi tristezza e frustrazione comincia quasi a provare pietà. Black dà un’occhiata verso Blue, ma chiaramente senza vedere nulla; un attimo dopo si prende il viso fra le mani. Blue tenta di immaginare cosa stia succedendo, ma è impossibile. Pare che
fra i due sia finita, pensa, ha tutta l’aria di una rottura. Ma se è per questo, potrebbe anche trattarsi di una semplice baruffa. Quando torna al tavolo la donna sembra un po’ più serena, e per un po’ i due siedono senza parlare né toccare cibo; Black sospira un paio di volte con lo sguardo distante, e alla fine chiede il conto. Blue lo imita, poi segue la coppia fuori dal locale. Nota che Black tiene la donna per il gomito, ma il dettaglio è irrilevante: potrebbe essere un’abitudine. Camminano in silenzio, finché all’angolo Black chiama un taxi. Apre la portiera alla donna e prima che salga le sfiora dolcemente una guancia. Lei lo ricambia con un bellissimo, breve sorriso, ma sempre senza parlare. Poi siede sul divano posteriore, Black chiude la portiera e il taxi parte. Black gironzola per qualche minuto, sostando brevemente davanti alla vetrina di un’agenzia di viaggi per studiare un manifesto delle White Mountains; poi a sua volta sale su un taxi. Di nuovo Blue ha fortuna, e riesce a trovarne un altro nel giro di pochi secondi. Ordina al conducente di seguire quello di Black e si siede dietro; i due veicoli gialli procedono lentamente nel traffico del centro, traversando il ponte di Brooklyn per riapprodare infine in Orange Street. Blue è scioccato dalla tariffa, e mentalmente si prende a sberle per aver seguito l’uomo e non la donna. Doveva immaginare che Black sarebbe tornato a casa. Il suo umore migliora nettamente quando, entrando nella palazzina, trova una lettera nella cassetta della posta. Può essere una cosa soltanto, dice fra sé; sale le scale, apre la busta, e puntualmente la previsione si avvera. Il primo assegno: un vaglia postale dell’esatto ammontare pattuito con White. Trova però sconcertante che il pagamento sia anonimo. Perché non un assegno personale di White? Così Blue torna ad accarezzare l’ipotesi che White sia proprio un agente doppiogiochista preoccupato di confondere le proprie tracce, e dunque attento a evitare che si possa risalire a lui dai pagamenti. Poi, toltosi cappello e cappotto, Blue rumina sdraiato sul letto un pizzico di delusione per non aver ricevuto commenti a proposito del rapporto. Considerando quanto si è spremuto alla ricerca dell’esattezza, una parola di incoraggiamento non avrebbe stonato. L’invio del denaro dimostra che White non è rimasto insoddisfatto; eppure… il silenzio non è una risposta gratificante, quale ne sia il senso. Ma se è così, dice Blue fra sé, ci dovrò fare il callo. I giorni passano, e le cose si riassestano nuovamente secondo la più piatta
routine. Black scrive, legge, esce a far compere, visita l’ufficio postale, fa qualche occasionale passeggiata. La donna non ricompare e Black non compie altre escursioni a Manhattan. Blue comincia a pensare che da un giorno all’altro riceverà una lettera con la comunicazione che il caso è chiuso. La donna se n’è andata, riflette, dunque potremmo essere alla fine. Ma non accade nulla del genere. La meticolosa descrizione di Blue della scena al ristorante non provoca reazioni apprezzabili da parte di White, e una settimana dopo l’altra gli assegni continuano ad arrivare puntuali. Tanti saluti alla gelosia, dice Blue fra sé. Quella donna non ha mai significato niente, non era che una falsa pista. In questo periodo iniziale, lo stato d’animo di Blue si può definire ambivalente e contraddittorio. A momenti si sente in un’armonia così completa con Black, così naturalmente fuso con lui, che per anticiparne le azioni, decidendo quando resterà in casa e quando uscirà, gli basta guardarsi dentro. Passa giorni interi senza nemmeno preoccuparsi di guardare dalla finestra o seguire Black in strada. Di tanto in tanto si concede persino spedizioni solitarie lontano da casa, sapendo benissimo che in sua assenza Black non si muoverà. Come faccia a esserne sicuro, rimane per lui un po’ un mistero, ma sta di fatto che non sbaglia mai, e quando il sesto senso lo avverte, ogni dubbio, ogni esitazione svanisce. Tuttavia, non tutti i momenti sono così. A volte si sente completamente estraniato da Black, isolato da lui in una misura così bianca e assoluta da fargli perdere la coscienza della propria identità. La solitudine lo avvolge e lo reclude, accompagnata da un terrore più atroce di qualunque altra cosa conosciuta. Si stupisce di trascorrere così rapidamente da uno stato all’altro, e fa la spola a lungo fra gli estremi senza sapere quale sia vero e quale falso. Dopo una serie di giorni particolarmente infelici, comincia a mancargli la compagnia. Si siede e scrive una lettera particolareggiata a Brown, descrivendogli il caso e chiedendo consiglio. Brown è pensionato in Florida, passa gran parte del tempo a pesca e Blue sa che ci vorrà parecchio prima che gli risponda. Ciononostante il giorno dopo aver spedito la lettera comincia ad aspettare la risposta con una bramosia che presto diventa ossessione. Ogni mattina, circa un’ora prima della consegna della posta, si mette alla finestra per vedere il postino che gira l’angolo e appare, con tutte le speranze appese a ciò che Brown gli dirà. Cosa si aspetti da quella lettera, non è sicuro. Blue non formula neppure l’interrogativo, ma di certo sarà qualcosa di
monumentale, parole luminose e straordinarie che lo riporteranno nel mondo dei vivi. Man mano che i giorni passano senza portare la lettera di Brown, la delusione di Blue si tramuta in straziante, irrazionale disperazione. Ma questo non è nulla al confronto di ciò che prova quando finalmente la risposta arriva. Perché Brown non fa nemmeno un accenno a quanto Blue gli ha scritto. Che piacere sentirti, comincia la lettera, e anche sapere che hai tanto lavoro. Sembrerebbe un caso interessante. Devo dire la verità, però: non ne sento la mancanza. Qua sì che sto bene: mi alzo presto e via, a pescare; passo un po’ di tempo con mia moglie, leggo un pochino, dormicchio al sole… nessuna lamentela. Mi spiace solo di non essermi trasferito qualche anno prima. La lettera prosegue su questo tono per alcune pagine, senza mai sfiorare l’oggetto delle angosce e dei tormenti di Blue. Che si sente tradito dall’uomo che è stato per lui come un padre, e quando finisce di leggere è vuoto, quasi gli avessero tolto l’imbottitura. Sono solo, pensa, non ho più nessuno a cui rivolgermi. Seguono ore di sconforto e di autocommiserazione, in cui un paio di volte giunge a desiderare di essere morto. Ma alla fine riemerge dalle tenebre: perché Blue tutto sommato ha un carattere solido, meno tetro della media, e anche se in certi momenti pensa che il mondo sia uno schifo, chi siamo noi per biasimarlo? Anzi, prima di cena ha iniziato addirittura a vedere il lato positivo della vicenda. È questo forse il suo maggior talento: dispera, certo, ma mai troppo a lungo. Dopotutto, dice fra sé, non tutto il male viene per nuocere. Meglio non dover dipendere da nessuno. Blue ci riflette un poco e decide che l’episodio gli è servito. Non è più un novellino, sotto l’ala del maestro. Sono in proprio, dice fra sé. Sono in proprio, e devo rispondere solo a me stesso. Ispirato da questo nuovo approccio ai fatti, scopre di aver trovato finalmente il coraggio di contattare la futura signora Blue. Ma quando prende il telefono e compone il numero, nessuno risponde. È una delusione, ma non si perde d’animo. Dice fra sé: ritenterò di nuovo. E presto. I giorni continuano a passare. Nuovamente Blue si sente in armonia con Black, forse ancora meglio di prima. A questo punto si accorge del paradosso insito nella situazione: perché più vicino si sente a Black, e meno gli sembra necessario pensarci. In altri termini, quanto più la situazione lo assorbe, tanto maggiore è la sua libertà. A invischiarlo non è il coinvolgimento, ma il distacco: perché solo quando Black sembra allontanarsi lui ha bisogno di
andarlo a cercare, e questo richiede tempo e fatica, per tacere del tormento. Invece quando si sente più vicino a Black può consentirsi persino una parvenza di vita indipendente. Dapprima non si concede licenze molto audaci, e tuttavia le gusta come trionfi, come atti di eroismo. Uscire, per esempio, e camminare su e giù per l’isolato. Per minima che sia, questa libertà lo riempie di gioia, e mentre fa avanti e indietro per Orange Street nel dolce clima primaverile è felice di essere vivo come non gli capitava da anni. A un capo della via si ha uno scorcio sul fiume, sul porto, sul profilo di Manhattan, sui ponti. Tutto questo a Blue sembra bellissimo, e certi giorni si concede addirittura qualche minuto su una panchina, a guardare i battelli. Nell’altra direzione c’è la chiesa e Blue qualche volta va a sedersi per un po’ nel piccolo cimitero erboso e contempla il monumento in bronzo di Henry Ward Beecher. Due schiavi si aggrappano alle gambe dell’eroe implorandolo di aiutarli a conquistare la libertà; e dietro, nel muro a mattoni, spicca un bassorilievo di porcellana di Abramo Lincoln. Blue non può non sentirsi ispirato da queste immagini, e ogni volta che torna al camposanto la sua mente freme di nobili pensieri sulla dignità umana. A poco a poco le sue licenze da Black si fanno meno timorose. È il 1947, l’anno in cui Jackie Robinson1 firma clamorosamente per i Dodgers, e Blue ne segue l’ascesa con simpatia, ricordando il monumento nel cimitero e sapendo che non è soltanto un fatto che riguarda il baseball. Un assolato martedì pomeriggio di maggio decide di fare una sortita a Ebbets Field, e nel lasciarsi dietro Black chiuso nella sua stanza di Orange Street, chino sul tavolo come sempre con penne e fogli, non si sente per nulla preoccupato, sicuro com’è che al ritorno lo ritroverà nella stessa identica posizione. Prende la metropolitana e si struscia spalla a spalla con la gente, assaporando la sensazione di immergersi in un momento storico. Quando prende posto sulla gradinata del campo di baseball è colpito dalla tersa luminosità dei colori che lo circondano: erba verde, terra bruna, la palla bianca, il cielo azzurro lassù. Ogni cosa è distinta dall’altra, interamente separata e definita, e la geometrica semplicità del disegno impressiona Blue per la sua forza. Seguendo la partita quasi non distoglie gli occhi da Robinson, perennemente calamitato dalla sua faccia nera: pensa che ci vuole coraggio per far questo, così, solo di fronte a tanti estranei, metà dei quali sicuramente lo vorrebbe morto. Durante l’incontro Blue si ritrova ad applaudire ogni azione di Robinson, e nel terzo
inning, quando il nero ruba una base, si alza in piedi; poi, nel settimo, quando Robinson fa un doppio mandando la palla vicino al muro di sinistra, per la gioia addirittura dà una pacca sulla schiena del vicino. I Dodgers chiudono nel nono inning con una volata mozzafiato, e uscendo dallo stadio con il resto del pubblico per dirigersi a casa, Blue si accorge di non aver pensato a Black neppure un momento. Ma le partite di baseball non sono che l’inizio. Certe sere, sapendo che Black non andrà in nessun posto, Blue si infila in un bar delle vicinanze per farsi una birra o due e godersi le occasionali conversazioni col barista, che si chiama Red ed è il ritratto di Green, il barista di quel vecchio caso Gray. Frequenta il bar anche una sgualdrina rubiconda di nome Violet, e un paio di volte Blue la fa sbronzare abbastanza da venirne come premio invitato a casa sua, dietro l’angolo. Blue sa di piacerle, dato che non lo fa mai pagare; ma sa anche che l’amore è diverso. Lei lo chiama tesoro, e le sue carni sono morbide e abbondanti, ma se ha bevuto un bicchiere di troppo inizia a piangere, e poi Blue deve consolarla, e sotto sotto si chiede se ne valga la pena. D’altra parte i suoi sensi di colpa verso la futura signora Blue sono deboli, poiché giustifica i rapporti carnali con Violet paragonandosi a un soldato in guerra in un paese straniero. Ogni uomo ha bisogno di un po’ di conforto, specie se all’indomani potrebbe non esserci più. E poi, dice fra sé, non sono di legno. Il più delle volte, però, Blue passa oltre il bar e prosegue fino al cinema, a diversi isolati di distanza. Con l’arrivo dell’estate e la calura che nella stanzetta comincia a opprimerlo, è un sollievo godersi un film al fresco dell’aria condizionata. A Blue piace il cinema, e non solo per le storie che raccontano e le donne bellissime che vi può ammirare, ma anche per l’oscurità dei locali, per come quelle immagini sullo schermo rassomigliano un po’ ai pensieri che si vede scorrere in mente se chiude gli occhi. Praticamente non fa differenza di generi, siano commedie o drammi, a colori o in bianco e nero: ma ha un debole per i film polizieschi perché gli sono naturalmente congeniali, e le loro trame lo avvincono in special modo. In questo periodo vede un buon numero di questi film e gli piacciono tutti: Una donna nel lago, Un angelo è caduto, La fuga, Anima e corpo, Fiesta e sangue, Morirai a mezzanotte, e via dicendo. Ma ce n’è uno che a Blue piace da morire, al punto che la sera successiva torna a rivederlo. S’intitola Le catene della colpa: il protagonista è Robert Mitchum, nella
parte di un ex detective che sta cercando di rifarsi una vita sotto falso nome in una cittadina di provincia. Ha una ragazza, una dolce campagnola di nome Ann, e gestisce una pompa di benzina con l’aiuto di un giovane sordomuto, Jimmy, che lo venera. Ma il passato lo riafferra senza che Mitchum possa farci nulla. Anni prima era stato assunto per rintracciare Jane Greer, la pupa del gangster Kirk Douglas: ma quando l’aveva trovata, si erano innamorati ed erano fuggiti insieme per andare a vivere in incognito. C’era stata una catena di crimini – un furto di denaro, poi un omicidio – finché Mitchum, tornato ragionevole, aveva lasciato la Greer, comprendendone la natura profondamente corrotta. Adesso Douglas e la Greer lo ricattano costringendolo a commettere un delitto che a sua volta non è che una messinscena, perché quando Mitchum capisce cosa sta succedendo si rende conto che in realtà mirano ad addossargli la colpa di un altro omicidio. Si dipana una storia complicata, con Mitchum che tenta disperatamente di liberarsi dalla trappola. A un certo punto ritorna nella sua cittadina e dichiara la propria innocenza ad Ann, convincendola di nuovo che la ama. Ma è troppo tardi, e Mitchum lo sa. Verso la fine riesce a convincere Douglas a incastrare la Greer per l’omicidio da lei commesso, ma proprio in quel momento la Greer entra nella stanza, estrae una pistola e fredda Douglas. Poi dice a Mitchum che sono fatti l’uno per l’altra e lui sembra acconsentire arrendendosi al destino. Decidono di fuggire insieme dal paese, ma mentre la Greer prepara i bagagli Mitchum prende il telefono e chiama la polizia. Salgono in auto, partono, ma presto incappano in un posto di blocco. Accorgendosi dell’inganno, la Greer prende la pistola dalla borsetta e spara a Mitchum; la polizia apre il fuoco, e anche la donna rimane uccisa. Segue la scena finale… è il mattino dopo, siamo tornati nella cittadina di Bridgeport. Jimmy è seduto su una panca davanti alla stazione di servizio, Ann si avvicina e gli siede accanto. Dimmi una cosa, Jimmy, gli domanda, devo sapere solamente questo: stava scappando con lei, oppure no? Il giovane ci pensa su un attimo, cercando di scegliere fra la verità o la compassione. È più importante difendere la reputazione dell’amico o non far soffrire la ragazza? Tutto si svolge in un attimo: guardando Ann negli occhi, Jimmy annuisce come a dire che sì, Mitchum era proprio innamorato della Greer. Ann gli dà un buffetto sul braccio e lo ringrazia, andando incontro al fidanzato precedente, un poliziotto locale tutto d’un pezzo che ha sempre disprezzato Mitchum. Jimmy alza gli occhi al nome di Mitchum sull’insegna della
stazione di servizio, gli fa un cenno d’intesa, poi si volta e s’incammina per la via. È l’unico a sapere la verità, e non la rivelerà mai. Nei giorni seguenti, Blue mentalmente si ripete la storia un sacco di volte. Decide che è una bella trovata, far finire il film col ragazzo sordomuto. Il segreto è sepolto, e Mitchum resterà uno sradicato anche da morto. La sua ambizione era semplice: diventare un abitante normale di una normale cittadina americana, sposare la ragazza della porta accanto, fare una vita tranquilla. Strano, pensa Blue, che il nuovo nome che si è scelto Mitchum sia Jeff Bailey. Assomiglia tanto al nome di un altro personaggio di un film che ha visto l’anno scorso con la futura signora Blue: George Bailey, interpretato da James Stewart in La vita è meravigliosa. Anche quella era una storia della provincia americana, ma vista dalla prospettiva opposta: le frustrazioni di un uomo che per tutta la vita tenta di evaderne. Ma solo per comprendere alla fine che la sua è stata una buona vita, che si è sempre comportato nella maniera giusta. Sicuramente al Bailey di Mitchum piacerebbe essere come il Bailey di Stewart: ma nel suo caso quel nome è fittizio, non è nient’altro che una pia illusione. Il suo vero nome è Markham, che alle orecchie di Blue suona come marchio: e il punto è proprio questo. Il passato lo ha marchiato, e in questi casi non si può fare nulla. A volte succede, pensa Blue, e allora durerà per sempre. Non si potrà mai né sovvertire né modificare. Blue comincia a sentirsi oppresso dall’idea perché essa gli appare come un ammonimento, come un messaggio pervenutogli dall’intimo, e malgrado i suoi sforzi la cappa di angoscia non si solleva. Perciò una sera Blue decide finalmente di aprire la sua copia di Walden. Il momento è arrivato, dice fra sé, sapendo che se non prova adesso non ce la farà mai. Ma il libro non è un gioco da ragazzi. Quando comincia a leggere, Blue ha l’impressione di entrare in un mondo alieno. Arrancando fra paludi e rovi, issandosi per cupi ghiaioni e rocce insidiose, si sente come un prigioniero costretto a una marcia forzata e col pensiero fisso sulla fuga. Il linguaggio di Thoreau lo annoia e trova difficile concentrarsi. Scorrono interi capitoli, e quando arriva alla fine capisce di non averne ricavato nulla. Perché mai un uomo dovrebbe andarsene a vivere solo fra i boschi? E che senso hanno quei pistolotti sul piantare fagioli e non bere caffè né mangiar carne? E tutte le interminabili descrizioni di uccelli? Blue pensava di trovare una storia, o almeno qualche cosa di simile, mentre questo non è che uno sproloquio, un’esasperante tirata sul niente.
Ma biasimarlo sarebbe ingeneroso. Blue non ha mai letto granché, a parte i giornali e le riviste, e un singolo romanzo d’avventure quando era ragazzo. Si sa che Walden ha messo a dura prova anche lettori esperti e raffinati, e un monumento come Emerson scrisse una volta nel suo diario che Thoreau lo rendeva nervoso e malinconico. A onore di Blue, va detto che non demorde. Il giorno dopo ricomincia e il secondo approccio si rivela meno ostico del primo. Nel terzo capitolo incontra finalmente una frase che gli dice qualcosa (I libri vanno letti con la stessa cura e la stessa riservatezza con cui sono stati scritti) e di colpo capisce che il trucco è procedere lentamente, più piano di quanto gli sia mai accaduto con una lettura. Questo un po’ lo aiuta, e alcuni passaggi cominciano a chiarirsi: il discorso iniziale sui vestiti, la battaglia tra formiche rosse e formiche nere, la perorazione contro il lavoro. Ma Blue continua a trovarlo faticoso, e pur ammettendo a malincuore che forse Thoreau non è stupido come pensava, comincia a maledire Black che gli ha inflitto questo supplizio. Quello che non sa è che, se trovasse la pazienza per leggere il libro nello spirito che esso richiede, tutta la sua vita comincerebbe a cambiare, e a poco a poco comprenderebbe appieno la situazione… vale a dire Black, White, il caso e tutto ciò che lo riguarda. Ma nella vita di un uomo le occasioni perdute non contano meno di quelle còlte, e una storia non può reggersi sui se. Allontanando il libro con disgusto, Blue si mette la giacca (perché ora siamo in autunno) ed esce a prendere un po’ d’aria. Non si avvede che questo è l’inizio della fine. Perché qualcosa sta per accadere, e quando sarà accaduto niente potrà più essere lo stesso. Va a Manhattan, più lontano da Black di quanto sia mai stato, sfogando la sua impotenza nella marcia con la speranza di calmarsi per sfinimento. Cammina verso nord, solo coi suoi pensieri, senza curarsi delle cose intorno. Nella Ventiseiesima est gli si slaccia la scarpa sinistra ed è esattamente allora, mentre si china per allacciarla piegando il ginocchio, che il mondo gli crolla addosso. Perché chi scorge in quel preciso momento, se non la futura signora Blue? Cammina verso di lui con le braccia avvinghiate al braccio destro di un uomo che Blue non ha mai visto, e sorride raggiante, rapita da quello che l’individuo le sta dicendo. Per diversi secondi Blue è così sbigottito che non sa se abbassarsi ancora di più per nascondere il volto o alzarsi a salutare la donna che – ora se ne rende conto – non diventerà mai sua moglie. Alla fine non fa né l’una né l’altra cosa: prima china la testa, ma un istante dopo scopre di voler essere riconosciuto e – accorgendosi che così non sarà, visto che la
donna è tanto assorta nella conversazione – si alza di scatto dal marciapiede quando la coppia è a meno di due metri. Come se avesse visto uno spettro l’ex-futura signora Blue rantola lievemente, ancor prima di aver riconosciuto l’apparizione. Blue la chiama per nome con una voce che gli suona strana e lei si blocca impietrita, il suo viso manifesta lo sgomento di vedere Blue… poi, di colpo, avvampa di rabbia. Tu! gli dice. Tu! Senza lasciargli il tempo di aprire bocca, si divincola dall’abbraccio del suo accompagnatore e incomincia a martellare di pugni il petto di Blue inveendo come una forsennata, accusandolo di ogni nefandezza. Tutto ciò che può fare Blue è ripetere senza sosta il nome di lei, come nel disperato tentativo di distinguere la donna che ama dalla belva feroce che lo sta assalendo. Si sente completamente inerme, e man mano che l’aggressione continua incomincia a ricevere ogni nuovo colpo come un giusto castigo per il suo comportamento. In breve però l’altro uomo si frappone e, pur avendo la tentazione di mollargli una sventola, Blue è troppo sconcertato per reagire con la rapidità necessaria, e prima che possa reagire l’uomo ha già condotto via piangente l’ex-futura signora Blue: girano un angolo, e tutto è finito. La breve scena, così inaspettata e devastante, disorienta completamente Blue. Quando ritrova il controllo di sé e riesce a incamminarsi verso casa, si rende conto di aver buttato via la propria vita. La colpa non è della ragazza, dice fra sé: gli piacerebbe, ma non può addossargliela. Per quanto ne sapeva lei, poteva essere morto: perché dovrebbe serbarle rancore se ha voluto sopravvivergli? Blue sente gli occhi riempirsi di lacrime, ma più che dolore prova collera verso di sé per essere stato così idiota. Ha perso ogni speranza di felicità, e stando così le cose non è errato affermare che siamo proprio all’inizio della fine. Blue torna nella sua stanza di Orange Street, si sdraia a letto e tenta di vagliare le possibilità. Alla fine si volta faccia al muro, trovandosi davanti la foto di Gold, quel medico legale di Philadelphia. Pensa al triste grigiore di quel caso irrisolto, del bambino che giace in una tomba anonima, e studiandone la maschera mortuaria incomincia a ruminare un’idea. Forse esistono delle vie per avvicinarsi a Black, pensa; vie che non lo facciano scoprire. Dio sa se ce ne devono essere. Mosse da eseguire, piani da attuare… magari due o tre contemporaneamente. Dimentica il resto, dice fra sé. È ora di voltar pagina.
Il suo prossimo rapporto è previsto per dopodomani, perciò si siede a scriverlo per riuscire a spedirlo in tempo. Negli ultimi mesi i suoi rapporti sono stati estremamente concisi – non più lunghi di un paio di paragrafi – e limitati all’essenziale; e anche stavolta segue questo schema. Tuttavia a piè di pagina inserisce una postilla oscura per vedere che succede, nella speranza di strappare a White qualcosa di più del solito silenzio: Black sembra malato. Temo per la sua vita. Poi sigilla la busta, dicendosi che questo non è che l’inizio. Due giorni dopo di buon mattino Blue si affretta verso l’ufficio postale di Brooklyn, un maestoso edificio in prossimità del ponte di Manhattan. Tutti i rapporti di Blue sono stati indirizzati alla cassetta numero milleuno, e lui ora vi si dirige come per caso, passeggiandole accanto e sbirciando al suo interno per vedere se il rapporto è arrivato. Sì, c’è. Quanto meno c’è una lettera – una solitaria busta bianca, infilata nel piccolo vano con un’angolazione di quarantacinque gradi – e Blue non ha motivo di sospettare che non si tratti della sua. Comincia allora a camminare lentamente in cerchio attorno alla zona, determinato a restare finché appaia White o qualcuno che lavora per lui, con gli occhi fissi su una muraglia di cassette numerate, ciascuna con una combinazione diversa, ciascuna col suo diverso segreto. La gente va e viene, apre e chiude le cassette, e Blue continua a girare, fermandosi ogni tanto in un punto a caso per poi riprendere la marcia. Intorno, tutto gli appare opaco come se il tempo autunnale da fuori fosse entrato nella sala che odora gradevolmente di sigaro. Dopo qualche ora comincia a sentire appetito, ma non cede al richiamo dello stomaco, dicendosi ora o mai più e restando al posto di combattimento. Blue osserva tutti quelli che si avvicinano al reparto delle cassette postali, inquadrando nel mirino chiunque passi accanto alla milleuno, conscio che, se non è White che ritira i rapporti, potrebbe essere chiunque: una vecchia, un bambino; e conseguentemente non deve dare nulla per scontato. Ma nessuna di queste eventualità prende corpo, dato che la casella resta intatta; e malgrado Blue – prima d’istinto, e poi regolarmente – si inventi una storia per ogni candidato che avanza, tentando di immaginare in che modo quella persona possa essere legata a White oppure a Black, quale ruolo rivesta nel caso e via dicendo, è costretto a rimandarli l’uno dopo l’altro nell’oblio da cui erano venuti. Poco dopo mezzogiorno, in un momento in cui l’ufficio postale inizia ad affollarsi – per un’ondata di gente in pausa pranzo che corre a imbucare
lettere, comprare francobolli, sbrigare varie commissioni – entra dalla porta un uomo con il volto mascherato. A tutta prima Blue non lo nota, in mezzo ai tanti che arrivano contemporaneamente; ma quando l’individuo si separa dalla folla dirigendosi verso le cassette numerate, Blue finalmente si avvede della maschera… una di quelle indossate dai bambini per Halloween, di gomma, che riproduce un mostro terrificante con la fronte sfregiata gli occhi venati di sangue e zanne al posto dei denti. Per il resto ha un aspetto assai comune (cappotto di tweed grigio, sciarpa rossa al collo), e Blue sente dal primo momento che l’uomo dietro la maschera è White. Quando l’uomo si dirige verso la zona della cassetta milleuno, l’istinto diviene convinzione. Nel contempo Blue sente che l’uomo in realtà non si trova lì, e che malgrado la sua certezza di vederlo, con ogni probabilità egli è invisibile a tutti gli altri. In questo però si sbaglia, visto che, mentre l’uomo mascherato procede sul vasto pavimento di marmo, diverse persone se lo additano ridendo: ma se ciò sia meglio o peggio, non lo saprebbe dire. L’uomo mascherato giunge alla milleuno, gira la rotella della combinazione indietro, avanti e indietro ancora e apre lo sportello. Stabilito che quello è senz’altro il suo uomo Blue comincia ad avvicinarglisi, incerto a dire il vero sul da farsi, ma alla fin fine deciso ad afferrarlo e a strappargli la maschera dal viso. Ma l’individuo è troppo vigile, e appena ha preso la busta e richiuso la cassetta si dà un’occhiata intorno, vede Blue che si avvicina e parte di scatto, lanciandosi verso l’uscita più in fretta che può. Blue lo rincorre nella speranza di raggiungerlo e placcarlo da dietro, ma è bloccato da un ingorgo sulla porta, e quando lo supera, l’uomo mascherato sta già scendendo le scale, guadagnando il marciapiede e correndo per la via. Blue continua l’inseguimento, ha l’impressione di guadagnare terreno, ma poi il fuggitivo arriva sull’angolo proprio mentre l’autobus sta ripartendo da una fermata: lo prende al volo e Blue rimane a terra sbuffante e con un palmo di naso. Due giorni dopo, quando Blue riceve l’assegno per posta, finalmente trova anche un commento di White. Niente scherzi d’ora in poi, dice, e anche se non è granché, tutto sommato Blue ne è soddisfatto: perché stavolta è riuscito a incrinare il muro di silenzio di White. Peraltro non gli è chiaro se il messaggio alluda all’ultimo rapporto o all’incidente dell’ufficio postale. Dopo averci pensato un po’ conclude che non fa differenza: in un modo o nell’altro, la chiave del caso è agire. Deve continuare a manomettere il congegno dove può, un po’ qui e un po’ là, intaccando ogni enigma finché
l’intera struttura comincerà a indebolirsi e un bel giorno tutto il maledetto imbroglio verrà a galla. Nelle settimane seguenti Blue torna spesso all’ufficio postale sperando di rivedere White. Ma senza risultato. Qualche volta il rapporto è già stato ritirato, qualche volta rimane nella cassetta. Il fatto che questo reparto dell’ufficio resti aperto ventiquattr’ore su ventiquattro gli lascia poca scelta. Ora White è sull’avviso e non ripeterà più lo stesso errore. Prima di ritirare il rapporto gli basterà aspettare che Blue sia uscito, e a meno che lui trascorra tutta la vita all’ufficio postale non c’è ragione di credere che lo sorprenderà ancora. Il quadro è molto più complesso di quanto Blue abbia mai immaginato. In quasi un anno trascorso fin qui, si è reputato sostanzialmente libero. Bene o male faceva il suo lavoro, scrutando nella casa dirimpetto e studiando Black nell’attesa di una possibile rivelazione, senza demordere; ma in tutto ciò non ha mai riflettuto su quanto poteva accadere a sua insaputa. Adesso, dopo l’incidente con l’uomo mascherato e le ulteriori complicazioni, Blue non sa più cosa pensare. Ritiene plausibile l’ipotesi di essere sorvegliato a sua volta, osservato da un altro come lui faceva con Black. In tal caso, non sarebbe mai stato libero. Fin dal principio è stato l’uomo nel mezzo, ostacolato di fronte e bloccato alle spalle. Curiosamente l’idea gli ricorda alcune frasi di Walden, e sfoglia il taccuino in cerca delle esatte citazioni, quasi certo di averle trascritte. Noi non siamo dove siamo, trova, ma in una posizione falsa. A causa di una debolezza della nostra natura immaginiamo una situazione e ci collochiamo in essa, sicché ci troviamo a un tempo in due situazioni e uscirne è doppiamente difficile. Blue ora capisce, e per quanto cominci ad aver paura pensa che forse non è troppo tardi per trovare una soluzione. Il vero problema si riassume nell’identificare la natura del problema stesso. Prima di tutto: chi lo minaccia più seriamente, White o Black? White ha tenuto fede al suo impegno, spedendo gli assegni puntualmente ogni settimana, e Blue sa che rivoìtarglisi contro adesso sarebbe come mordere la mano che lo ha nutrito. D’altronde, White è colui che ha dato inizio al caso, spingendo praticamente Blue in una stanza vuota per poi spegnere la luce e chiuderlo dentro. Da allora Blue non ha fatto che brancolare nel buio annaspando alla ricerca di un interruttore, prigioniero del caso medesimo. Niente di grave, intendiamoci… ma qual è lo scopo di White? Quando Blue
si scontra con questa domanda non riesce più a riflettere. Il suo cervello smette di funzionare, tutto si interrompe. Prendiamo Black, allora. Finora il caso si è identificato in lui, origine apparente di tutti i suoi guai. Ma se il vero bersaglio di White è Blue, forse Black non c’entra nulla; forse non è altro che un innocente spettatore. In questo caso sarà Black a occupare la posizione che Blue fin qui ha ritenuto propria, e Blue avrà il ruolo di Black. Su questo punto, bisogna spendere qualche parola. D’altro canto è possibile anche che Black sia in combutta con White, e che abbiano cospirato per incastrare Blue. In tal caso, cosa gli stanno facendo? Niente di così terribile, in definitiva… almeno in senso assoluto. Lo hanno intrappolato nell’inazione, in un’accidia tale da annichilire quasi la sua vita. Sì, dice Blue fra sé, è così che mi sento: come un niente. Come un uomo condannato a sedere in una stanza e continuare a leggere un libro per il resto della sua vita. È bizzarro questo: essere tutt’al più semivivo, vedere il mondo solo attraverso parole, vivere solo per mezzo delle vite altrui. Ma forse se il libro fosse interessante non sarebbe nemmeno una tragedia. Potrebbe farsi coinvolgere dalla trama, per così dire, e a poco a poco scordarsi di sé. Ma questo libro non gli dà nulla. Non c’è storia, né intreccio, né azione… nient’altro che un uomo seduto da solo in una stanza a scrivere un libro. Tutto qui, capisce ora Blue, e decide che non ne vuole più sapere. Ma come uscirne? Come uscire dalla stanza, cioè dal libro, che continuerà a essere scritto finché lui rimarrà nella stanza? In quanto a Black, il cosiddetto autore di questo libro, Blue non può più credere ai suoi occhi. Possibile che esista veramente un uomo simile, che non fa nulla a parte restare nella sua stanza e scrivere? Blue l’ha seguito dappertutto, pedinandolo fin negli angoli più sperduti, osservandolo con tanta attenzione da consumarsi gli occhi. Anche quando lascia la stanza Black non va da nessuna parte, non fa niente di particolare: fa un salto dal droghiere, qualche volta dal barbiere o al cinema e così via. Ma in genere passeggia senza meta, contemplando scorci slegati di paesaggio, grumi di elementi fortuiti, e anche questo rapsodicamente. Per un po’ si dedica agli edifici, allungando il collo per sbirciare i tetti, ispezionando entrate, carezzando lentamente con la mano le facciate di pietra. Poi, per un paio di settimane, passerà alle statue dei monumenti pubblici o ai battelli sul fiume, o ai cartelli stradali. Né più né meno di così: e senza mai rivolgere la parola a nessuno, senza incontrare nessuno a parte quel pranzo ormai lontano con la donna in
lacrime. In un certo senso Blue sa di Black tutto quanto c’è da sapere: che tipo di sapone usa, che giornali legge, che vestiti indossa; e ciascuno di questi dati lo ha fedelmente annotato nel taccuino. Ha appreso mille particolari, ma la sola cosa che gli hanno insegnato è che non sa niente. Perché rimane il fatto che tutto ciò è impossibile. Non è possibile che esista un uomo come Black. Perciò Blue inizia a sospettare che Black sia solo uno specchietto per le allodole, un altro mercenario di White pagato settimanalmente per sedere in quella stanza e non far nulla. Forse tutto quello scrivere è una commedia… pagine e pagine fasulle: per esempio, una lista di nomi dell’elenco telefonico, o parole del dizionario in ordine alfabetico; o una copia manoscritta di 'Walden. O forse non si tratta nemmeno di parole, ma di scarabocchi senza senso, tratti casuali di penna, un cumulo crescente di insensatezza e confusione. Ciò renderebbe White il vero scrittore… e Black nient’altro che la sua controfigura, un falso, un attore privo di vita propria. Di conseguenza vengono momenti in cui Blue, sulla spinta di questo pensiero, crede che l’unica spiegazione logica sia che Black non è un uomo solo, ma diversi. Due, tre, quattro sosia che interpretano il ruolo di Black a beneficio di Blue, ciascuno osservando il proprio turno per poi tornare alle comodità domestiche. Ma questa ipotesi gli pare troppo mostruosa per contemplarla a lungo. Passano i mesi, finché un giorno ad alta voce dice a se stesso: non respiro più. È la fine. Sto morendo. Siamo nell’estate del 1948. Trovando finalmente il coraggio di agire Blue rovista nella sua valigia dei travestimenti alla ricerca di una nuova identità. Dopo avere scartato varie possibilità, sceglie un vecchio che mendicava agli angoli del suo quartiere quando era ragazzo – una macchietta locale di nome Jimmy Rose – e si camuffa da barbone: cenciosi indumenti di lana, scarpe dalle suole trattenute coi legacci, una lacera sacca da viaggio per tenerci i suoi averi e, come tocco finale, barba fluente e lunghi capelli bianchi. Questi ultimi dettagli gli danno l’aspetto di un profeta del Vecchio Testamento. Il Jimmy Rose di Blue non è un laido derelitto quanto piuttosto un pazzo savio, un santo nullatenente che vive ai margini della società. Un po’ svitato, forse, ma inoffensivo: emana una dolce indifferenza verso il mondo che lo circonda, poiché essendogli già accaduto tutto, niente può sconvolgerlo. Blue si apposta in un punto strategico all’altro lato della strada, tira fuori di tasca una lente d’ingrandimento rotta e comincia a leggere un giornale
spiegazzato del giorno prima, recuperato da un vicino bidone delle immondizie. Due ore più tardi appare Black, che scende i gradini di casa e si dirige verso Blue. Black non presta attenzione al vagabondo – o perché è immerso nei suoi pensieri, o ignorandolo di proposito – sicché quando Black si avvicina Blue lo apostrofa con gentilezza. Non è che le avanza moneta, signore? Black si ferma, squadra la creatura scarmigliata che ha appena parlato e gradualmente, vedendo che non c’è pericolo, si rilassa e sorride. Poi si fruga in tasca, estrae una moneta e la porge a Blue. Ecco qui, aggiunge. Dio la benedica, gli augura Blue. Grazie, fa Black intenerito da tanta affabilità. Niente paura, replica Blue. Dio benedice tutti. E con questa parola di conforto, Black saluta Blue toccandosi il cappello e continua per la sua strada. Il pomeriggio seguente, sempre travestito da barbone, Blue aspetta Black nello stesso punto. Deciso stavolta a prolungare il colloquio, visto che ormai ha rotto il ghiaccio con Black, Blue scopre che il problema non si pone: è l’altro che ha voglia di trattenersi. Il giorno volge al termine: non è ancora l’imbrunire ma il tramonto è passato; è l’ora crepuscolare dei mutamenti progressivi, dei barbagli sui mattoni, delle ombre. Dopo aver salutato cordialmente il barbone e avergli dato un’altra moneta, Black indugia un istante, come indeciso se cogliere o no l’occasione, poi dice: Le hanno mai detto che sembra il ritratto di Walt Whitman? Walt chi? risponde Blue, senza uscire dalla parte. Walt Whitman. Un famoso poeta. No, dice Blue. Non credo di conoscerlo. Non lo può conoscere, osserva Black. È morto. Ma la rassomiglianza è notevole. Be’, lei lo sa cosa dicono, fa Blue. Ogni uomo ha il suo sosia da qualche parte. Non vedo perché il mio non potrebbe essere un morto. Lo strano, prosegue Black, è che Walt Whitman lavorava proprio in questa via. Ha pubblicato il suo primo libro proprio qui, non lontano da dove siamo adesso. Ma tu guarda, dice Blue scuotendo la testa pensieroso. Una bella combinazione, non le sembra?
Si raccontano storie curiose su Whitman, dice Black, invitando Blue con un cenno a sedersi sui gradini della scala alle loro spalle, e imitandolo subito; per cui all’improvviso si ritrovano soli, lì fuori nella luce estiva, a chiacchierare del più e del meno come vecchi amici. Sì, dice Black adagiandosi nel languore del momento, un sacco di storie strane. Per esempio, quella sul cervello di Whitman. Whitman ha creduto tutta la vita nella scienza della frenologia… sa, lo studio delle bozze del cranio. Era molto popolare all’epoca. Mai sentita nominare, ribatte Blue. Be’, non importa, dice Black. La cosa importante è che a Whitman interessavano cervelli e crani… pensava che spiegassero tutto del carattere di un uomo. Comunque, quando Whitman era moribondo giù nel New Jersey, cinquanta o sessantanni fa, acconsentì dopo morto a essere sottoposto ad autopsia. Come ha fatto ad acconsentire dopo morto? Ah, giusto rilievo. Mi sono espresso male. Quando acconsentì era ancora vivo. Dichiarò semplicemente che non aveva nulla in contrario se in seguito lo avessero aperto. Potremmo definirlo il suo ultimo desiderio. Le ultime parole famose. Perfetto. Sa, tanta gente lo reputava un genio, e volevano dare un’occhiata al suo cervello per vedere se aveva qualcosa di speciale. Così il giorno dopo la sua morte, un dottore asportò il cervello di Whitman – glielo rimosse di netto dalla testa – e lo spedì alla Società Antropometrica Americana per farlo misurare e pesare. Come un cavolfiore gigante, interloquisce Blue. Esattamente. Come un grosso ortaggio grigio. Ma è a questo punto che la storia diventa interessante. Il cervello arriva al laboratorio, e proprio mentre si apprestano a esaminarlo, uno degli assistenti lo fa cadere per terra. E si è rotto? Per forza che si è rotto. Sa, il cervello umano non è molto resistente. Si spiaccicò dappertutto e tanti saluti. Il cervello del più grande poeta americano finì raccolto con una scopa e gettato nei rifiuti. Blue, ricordandosi di non tradire il suo personaggio, emette una serie di risatine ansimanti… una buona imitazione del riso di un vecchio picchiatello. Ride anche Black, e ormai l’atmosfera si è fatta così cordiale che sembrano proprio vecchi compagnoni.
Però è triste pensare al povero Walt che giace sottoterra, dice Black. Solo solo e con la testa vuota. Come uno spaventapasseri, infierisce Blue. Proprio, fa Black. Come lo spaventapasseri del Mago di Oz. Dopo un’altra bella risata, Black ricomincia: Poi c’è la storia di quando Thoreau è venuto a trovare Whitman. Anche quella non è male. Era un poeta pure lui? Non esattamente. Ma comunque era un grande scrittore. Quello che viveva da solo nei boschi. Ah, sì, annuisce Blue, non volendo esagerare nella sua ostentazione di ignoranza. Ne ho sentito parlare. Aveva il bernoccolo della natura. È quello che dice lei? Precisamente, risponde Black. Henry David Thoreau. Una volta è sceso dal Massachusetts per qualche giorno ed è venuto a trovare Whitman a Brooklyn. Ma il giorno prima è stato proprio qui, in Orange Street. Per andare dove? Plymouth Church. Voleva ascoltare il sermone di Henry Ward Beecher. È un bel posto, commenta Blue pensando alle piacevoli ore trascorse sull’erba del camposanto. Ci vado volentieri anch’io. Vi sono passati molti grandi uomini, osserva Black. Abramo Lincoln, Charles Dickens… tutti hanno percorso questa via e sono entrati in chiesa. Fantasmi. Sì, i fantasmi sono dappertutto. E la storia? Oh, è molto semplice. Thoreau e un suo amico, Bronson Alcott, arrivarono a casa di Whitman in Myrtle Avenue, e la madre di Walt li fece salire nella mansarda–camera da letto che divideva con suo fratello Eddy, un ritardato mentale. Tutto andò bene. Si strinsero le mani, si salutarono calorosamente eccetera eccetera. Ma poi, quando si sedettero per affrontare argomenti più impegnativi, Thoreau e Alcott notarono che al centro della stanza c’era un vaso da notte. Whitman, che era estroverso per natura, non ci fece caso, ma i due del New England non riuscivano a conversare con un pitale pieno di escrementi sotto gli occhi; perciò alla fine decisero di proseguire il colloquio in salotto. È un dettaglio secondario, lo so: tuttavia, quando si incontrano due grandi scrittori è un momento storico, e bisognerebbe che tutto filasse liscio. Sa? Quel vaso da notte mi ricorda un po’
il cervello sul pavimento… e a pensarci bene, ci sono delle analogie anche nella forma. Alludo alle protuberanze e alle circonvoluzioni. C’è un collegamento incontestabile. Cervello e budella, l’interno di un uomo. Diciamo sempre che bisogna penetrare in uno scrittore per meglio capirne l’opera. Ma se ci si spinge veramente a fondo, non c’è molto da scoprire… perlomeno, c’è poco di diverso da ciò che troveremmo in chiunque altro. Vedo che la sa lunga su queste cose, dice Blue, che comincia a perdere il filo. È il mio hobby, spiega Black. Sapere tutto delle vite degli scrittori, soprattutto quelli americani. Mi aiuta a capire. Ho afferrato, fa Blue che non ha afferrato niente, anzi: ogni parola pronunciata da Black gli sembra più oscura. Prenda Hawthorne, dice Black. Un buon amico di Thoreau, e forse il primo autentico scrittore che l’America abbia avuto. Dopo la laurea ritornò a Salem, nella casa materna; si chiuse nella sua stanza e ci rimase dodici anni. E cosa ci faceva là dentro? Scriveva storie. Tutto qua? Scriveva e basta? Scrivere è un mestiere per solitari. Ti prosciuga. In un certo senso, lo scrittore non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c’è veramente. Un altro fantasma. Proprio così. A me sembra un mistero. Lo è. Ma, vede, Hawthorne scrisse storie stupende, che leggiamo ancora oggi più di un secolo dopo. In una di esse, un uomo di nome Wakefield decide di combinare uno scherzo alla moglie. Le dice che deve star via qualche giorno per affari ma, invece di lasciare la città, gira l’angolo, affitta una camera e rimane in attesa degli eventi. Non sa bene il perché, ma si comporta così lo stesso. Passano tre o quattro giorni e ancora non si sente pronto a tornare a casa, perciò resta nella camera d’affitto. I giorni diventano settimane, e le settimane mesi. Un giorno Wakefield cammina per la via dove abitava e vede la sua casa parata a lutto. È il suo funerale, sua moglie è diventata una povera vedova. Passano gli anni. Di tanto in tanto in città incrocia la moglie e una volta, nel mezzo di una gran folla, addirittura si scontrano; ma lei non lo riconosce. Passano altri anni, più di venti, e piano
piano Wakefield è invecchiato. Una sera piovosa d’autunno, passeggiando per le vie deserte, capita vicino alla sua vecchia casa, e sbircia dalla finestra. Il fuoco crepita piacevolmente nel caminetto, e lui pensa fra sé: che bello sarebbe se ora fossi lì dentro, seduto davanti al fuoco in una di quelle comode poltrone invece di star qui solo sotto la pioggia. Così, senza pensarci due volte, sale i gradini dell’entrata e bussa. E dopo? Basta. La storia finisce così. L’ultima immagine che vediamo è la porta che si apre e Wakefield che entra con un sorriso eloquente sulla faccia. E non sapremo mai cosa ha detto alla moglie? No. Fine. Neanche una parola di più. Sappiamo solo che ritornò a casa e si comportò da marito amoroso per il resto dei suoi giorni. Intanto il cielo lassù ha cominciato a farsi buio e la notte incalza. A ovest resta un bagliore rosato, ma il giorno si può dire finito. Black, avvedendosi dell’oscurità, si alza in piedi e tende la mano a Blue. È stato un piacere discorrere con lei, dice. Non mi sono accorto che si faceva tardi. Il piacere è stato mio, replica Blue, lieto che la conversazione sia conclusa perché sa che fra non molto la barba finta comincerà a scollarsi, per la calura estiva e la tensione che lo fa sudare ancor di più. Mi chiamo Black, dice Black stringendo la mano di Blue. Io sono Jimmy, fa Blue. Jimmy Rose. Non scorderò questa nostra chiacchierata, Jimmy, fa Black. Neanch’io, dice Blue. Mi ha dato un bel po’ di cose da pensarci sopra. Dio la benedica, Jimmy Rose, dice Black. E benedica pure lei, signore, fa Blue. Poi, dopo un’ultima stretta di mano, si allontanano in direzioni opposte, ciascuno assorto nei propri pensieri. Più tardi, quando torna nella stanza, Blue decide che è meglio seppellire subito Jimmy Rose, sbarazzarsene per sempre. Il vecchio barbone ha fatto il suo dovere, ma sarebbe poco accorto andare oltre. Blue è soddisfatto di avere stabilito un contatto iniziale con Black, ma l’incontro non ha sortito l’effetto desiderato, e in definitiva l’ha piuttosto scosso. Perché anche se il colloquio non ha nemmeno sfiorato l’argomento del caso, Blue non può fare a meno di pensare che Black in realtà vi abbia alluso di continuo… parlando, diciamo così, per enigmi, come se tentasse di
comunicare qualcosa a Blue ma non osasse esprimersi chiaramente. Sicuro, Black è stato più che amichevole, i suoi modi sempre garbati: eppure Blue non si toglie dalla testa che quell’uomo lo abbia riconosciuto fin dal principio. Stando così le cose, allora Black è senza dubbio uno dei congiurati… diversamente, perché sarebbe rimasto a parlare con lui? Per solitudine no di certo. Ammesso che Black sia quello che sembra, la solitudine non gli può pesare. Finora nella sua vita tutto è rientrato in un preciso piano per rimanere solo, e sarebbe assurdo interpretare la sua disponibilità al colloquio come un irresistibile desiderio di compagnia. Non a questo punto, dopo che per più di un anno ha evitato ogni contatto umano. Se Black finalmente ha intenzione di infrangere il suo ermetico tran–tran, perché cominciare conversando con un poveraccio all’angolo di una strada? No, Black sapeva che stava parlando con Blue; e se lo sapeva, conosce anche la sua identità. Da qui non si scappa, dice fra sé Blue: è al corrente di tutto. Quando arriva il momento di stendere il suo prossimo rapporto, Blue è costretto ad affrontare questo dilemma. White non ha mai alluso all’opportunità di contattare Black. Blue doveva osservarlo, niente di più, niente di meno; e ora si domanda se di fatto non ha violato le regole del suo incarico. Se include nel rapporto il suo colloquio, White potrebbe eccepire. Del resto, se lo omette e Black in realtà è alle dipendenze di White, White saprà subito che Blue gli sta mentendo. Blue rumina il problema per un pezzo, ma senza avvicinarsi alla soluzione. Per un verso o per l’altro è inchiodato, e lo sa. Alla fine decide di omettere, ma solo perché conserva una pallida speranza che White e Black non siano in combutta. Ma questo estremo sussulto di ottimismo non dura. Tre giorni dopo la spedizione del rapporto espurgato, trova fra la posta l’assegno settimanale, e nella busta c’è anche un biglietto che dice: Perché menti? dal che Blue ha la prova definitiva che ancora gli mancava. E d’ora in avanti vivrà con la consapevolezza che sta affogando. La sera dopo segue Black a Manhattan in metropolitana, vestito normalmente, ormai libero dalla preoccupazione di nascondere qualcosa. Black scende a Times Square e se ne va un po’ a zonzo fra le luci colorate, il baccano, i capannelli di gente che si formano qua e là. Blue, sorvegliandolo come se ne andasse della propria vita, lo tallona a non più di tre quattro passi di distanza. Alle nove Black entra nella lobby dell’Algonquin Hotel e Blue lo segue. C’è una bella folla che si accalca e i tavoli scarseggiano, perciò
quando Black si accomoda a uno d’angolo che si è liberato proprio in quel momento, a Blue sembra perfettamente naturale accostarglisi e chiedergli compitamente se può sedersi vicino. Black non ha nulla da obiettare, e scrollando le spalle con indifferenza indica a Blue di prendere la sedia di fronte a lui. Per parecchi minuti non si rivolgono la parola: nell’attesa che qualcuno venga a prendere le ordinazioni ammirano le donne di passaggio nei loro abiti estivi, aspirando le ventate di profumo che si lasciano alle spalle; e Blue non ha fretta di venire al dunque, accontentandosi di aspettare il momento propizio, in cui la situazione precipiterà. Quando infine arriva il cameriere a chiedere cosa desiderano, Black ordina un Black and White con ghiaccio, e Blue non può che interpretarlo come un segnale che sta per iniziare la danza, non senza meravigliarsi della sfacciataggine di Black, della sua grossolanità, della sua fissazione volgare. Per simmetria Blue ordina lo stesso liquore, e mentre lo fa guarda Black negli occhi; ma l’altro non lascia trapelare nulla, ricambiandolo con un’occhiata perfettamente vacua, occhi spenti che sembrano dire non c’è niente dietro di noi, niente che Blue possa trovare per quanto insista a fissarli. Tuttavia questa prima mossa rompe il ghiaccio, e cominciano a discutere sulle virtù delle varie marche di scotch. Non c’è da stupirsi che un argomento tiri l’altro, e mentre chiacchierano degli inconvenienti dell’estate newyorchese, dell’arredamento dell’hotel e degli indiani Algonchini che vivevano nella città tanti anni prima, quando non c’erano che campi e foresta, Blue si cala pian piano nel personaggio che vuole interpretare quella sera, optando per un gioviale fanfarone di nome Snow, assicuratore specializzato nel ramo vita di Kenosha, Wisconsin. Fai il finto tonto, dice Blue fra sé, conscio che non avrebbe senso rivelare la propria identità pur sapendo che Black sa. Dev’essere un gioco di rimpiattino, dice, rimpiattino fino all’ultimo. Finito il primo drink ne ordinano un altro giro, seguito da un terzo, e mentre la conversazione spazia dalle tabelle dei premi assicurativi alle attese di vita relative alle varie professioni, Black fa una considerazione che cambia il corso del colloquio. Immagino che nella sua tabella sarei messo piuttosto male, osserva. Ah, sì? dice Blue, senza sapere cosa aspettarsi. Perché, che lavoro fa? Poliziotto privato, risponde Black a bruciapelo, freddo e padrone di sé; e per un istante Blue è tentato di gettargli il drink in faccia, irritato e offeso da tanta faccia tosta.
Ma guarda un po’! esclama invece, riprendendosi prontamente e inscenando lo stupore del sempliciotto. Un poliziotto privato. T’immagini. In carne e ossa. Pensi un po’ cosa dirà la moglie quando glielo racconto. Io qua a New York che cicchetto con un piedipiatti privato. Non ci crederà mai. Quello che intendo, riprende Black piuttosto bruscamente, è che suppongo che la mia attesa di vita non sia troppo lunga. Per lo meno secondo le sue statistiche. Probabilmente no, imperversa Blue. Ma pensi all’emozione! Sa, la vita non è stare al mondo cent’anni. Metà degli uomini d’America darebbero dieci anni di pensione per vivere come lei. Risolvendo i casi, vivendo come le pare, corteggiando le belle donne e rimpinzando di piombo i delinquenti… porca miseria, se ne vale la pena. Tutte fandonie, dice Black. Il vero lavoro investigativo può essere di una noia mortale. Be’, tutti i mestieri hanno la loro routine, ricomincia Blue. Ma quantomeno, nel suo caso, sa che dopo la fatica possono esserci dei gran finali. A volte sì e a volte no. Ma generalmente no. Prenda il caso a cui sto lavorando adesso. È più di un anno che me ne occupo, e non ci potrebbe essere niente di più noioso. Sono così stufo che qualche volta credo di perdere la testa. Veramente? Be’, provi un po’ a immaginarselo. Il mio lavoro consiste nello spiare una persona, uno che per quanto ne so non ha niente di speciale, e ogni settimana fare rapporto. Tutto qui. Guardare questo tizio e scrivere. Che io sia dannato se ho altri compiti. E cosa c’è di terribile? Che quello non fa niente, ecco cosa c’è. Se ne sta seduto nella sua stanza tutto il giorno e scrive. È abbastanza da farti uscire pazzo. Magari si comporta così per fregarla. Insomma, la fa addormentare e dopo passa all’azione. È quello che credevo all’inizio; ma adesso sono certo che non succederà niente… mai niente. Me lo sento nelle ossa. Che peccato, dice Blue in tono comprensivo. Perché non dà forfait? Ci sto pensando. Sto pensando anche che potrei mollare tutto e cambiare mestiere. Fare tutt’altro. L’assicuratore, magari, o magari entrare in un circo
equestre. Non avrei mai immaginato che potesse essere così brutto, dice Blue scuotendo la testa. Ma senta: perché adesso non sta sorvegliando il suo uomo? Non dovrebbe tenerlo d’occhio? È proprio questo il punto, risponde Black; non ho più neanche questa preoccupazione. È così tanto tempo che lo osservo che lo conosco meglio di me stesso. Mi basta pensare a lui, e so già che cosa sta facendo, dove si trova… tutto quanto. Oramai lo sorveglio anche a occhi chiusi. Lo sa dov’è adesso? A casa. Come sempre. È seduto nella sua stanza e scrive. E che cosa scrive? Non ne sono sicuro, ma ho un’idea mica male. Credo che stia scrivendo di se stesso. La storia della sua vita. Questa è l’unica risposta possibile. Le altre non funzionano. E perché tutto questo mistero, allora? Non lo so, risponde Black; e per la prima volta la sua voce si incrina, tradendo un po’ di emozione. Insomma, tutto si riduce a una domanda, vero? dice Blue fissando l’altro negli occhi, ormai dimentico di Snow. Lo sa o no che lei lo sta osservando? Non reggendo lo sguardo di Blue Black distoglie gli occhi, e risponde con un tremito improvviso nella voce: Certo che lo sa. È questo il nocciolo della questione, no? Deve saperlo, altrimenti niente ha più senso. Perché? Perché lui ha bisogno di me, dice Black, sempre guardando altrove. Ha bisogno dei miei occhi su di sé. Gli servo a dimostrare che è vivo. Blue vede una lacrima scendere sulla guancia di Black; ma prima che possa aprire bocca, prima che sfrutti la situazione per segnare un punto a favore, Black si alza di scatto e domanda scusa, deve fare una telefonata. Blue rimane seduto ad aspettare per dieci, quindici minuti, certo in cuor suo che sia tempo sprecato. Black non ritornerà. Il colloquio è finito, e anche se resterà lì tutta la sera non può accadere più nulla. Blue paga gli scotch e si incammina verso Brooklyn. All’imbocco di Orange Street alza lo sguardo alla finestra di Black e vede che è tutto buio. Fa niente, dice Blue, tornerà presto. Non siamo ancora all’epilogo. La festa è appena iniziata: aspettiamo che stappino lo champagne, e poi vedremo cosa succede.
Nella sua stanza Blue cammina avanti e indietro meditando la prossima mossa. Gli sembra che Black abbia finalmente commesso un errore, ma non è sicuro; perché in barba all’evidenza Blue non può soffocare il dubbio che tutto corrisponda a un disegno e ora Black lo stia stanando, lo stia prendendo per mano per guidarlo verso il finale da lui preordinato. Ciò nonostante ha aperto una breccia, e per la prima volta dall’inizio del caso non si trova più nella posizione di partenza. Normalmente Blue festeggerebbe questo piccolo trionfo, ma stasera si accorge di non essere dell’umore adatto. Più che altro si sente triste, senza più entusiasmo, deluso del mondo. Alla fine la realtà lo ha sconfitto, e non riesce a non prenderla come una sconfitta personale, perché sa benissimo che da qualunque lato consideri il caso, anche lui ne è parte. Poi va alla finestra, guarda la casa dirimpetto e vede che ora nella stanza di Black la luce è accesa. Si sdraia sul letto e pensa: addio, Mr White. Non sei mai esistito, eh? Non c’è mai stato nessun White. E ancora: povero Black. Povero diavolo. Povero avanzo di nessuno. Poi, mentre le palpebre si appesantiscono e il sonno comincia a sopraffarlo, pensa che strano che ogni cosa abbia il suo colore. Tutto ciò che vediamo, ciò che tocchiamo… a questo mondo tutto ha il suo colore. Sforzandosi di rimanere sveglio ancora un po’, incomincia a fare un elenco. Prendi il blu, per esempio, dice. Ci sono i pettirossi blu, e le ghiandaie blu e gli aironi blu. I fiordalisi e le pervinche. E il mezzogiorno sopra New York. Ci sono diverse specie di mirtilli e l’Oceano Pacifico. Ci sono i diavoli blu, i nastrini blu e chi ha il sangue blu. C’è la divisa da poliziotto di mio padre. Ci sono le blue laws, le leggi puritane, e i blue movies. C’è una voce che canta il blues. E i miei occhi, e il mio nome. Indugia, improvvisamente a corto di cose blu, e poi passa al bianco. Ci sono i gabbiani, dice, le rondini di mare, le cicogne e i cacatua. Le pareti di questa stanza e le lenzuola sul mio letto. Mughetti, garofani, petali di margherite. C’è la bandiera della pace e la morte cinese. C’è il latte materno e c’è il seme. I miei denti. C’è il bianco dei miei occhi. I pesci bianchi, i pini bianchi e le formiche bianche. C’è la casa del Presidente e la corruzione bianca. Le bugie bianche d’innocenza e il calor bianco. A questo punto passa senza esitazione al nero iniziando coi libri neri, il mercato nero e la Mano Nera. È notte sopra New York, aggiunge. Ci sono i Chicago Black Sox del baseball. Le more e i corvi, i blackout e i punti neri, il Martedì Nero e la Morte Nera. Le anime nere. I miei capelli, e l’inchiostro che sgorga dalla penna. C’è il mondo visto da un cieco. Infine, stanco del
gioco, comincia a divagare, dicendo fra sé che potrebbe continuare all’infinito. Si assopisce, sogna cose accadute tanto tempo fa e poi, nel cuore della notte, d’improvviso si sveglia e ricomincia a misurare la stanza meditando la prossima mossa. Viene mattino e Blue già traffica col nuovo travestimento. Stavolta si tratta del venditore di spazzole Fuller, un personaggio già sperimentato, per cui trascorre due ore a dotarsi pazientemente di calvizie, baffi e rughe intorno agli occhi e alla bocca, seduto davanti allo specchietto come un attore del vecchio vaudeville in tournée. Poco dopo le undici prende la sua valigetta campionario e attraversa la strada. Scassinare la porta principale della palazzina di Black per Blue è un gioco da ragazzi, questione di pochi secondi; e sgusciando nell’androne non può fare a meno di riprovare il brivido di un tempo. Andiamoci piano, ripete fra sé salendo le scale verso il piano di Black. La visita si limiterà a una semplice occhiata, per farsi un’idea della stanza a futura memoria. Eppure Blue non può soffocare l’eccitazione del momento. Perché lo sa, sarà più che un semplice sopralluogo alla stanza… è l’idea di essere proprio lì, fra quelle quattro mura, a respirare la stessa aria di Black. D’ora in avanti, pensa, tutto ciò che accadrà influirà sul resto. La porta si aprirà, e Black sarà per sempre dentro di lui. Bussa, la porta si apre, e d’un tratto ogni distanza svanisce, la cosa e il pensiero della cosa sono unici e indivisibili. Successivamente c’è Black, in piedi sulla soglia con una penna stilografica senza cappuccio nella destra, come se fosse stato interrotto durante il lavoro, eppure i suoi occhi dicono a Blue che lo stava aspettando, che è rassegnato alla dura verità, ma non gliene importa più. Blue attacca la sua arringa sulle spazzole indicando il campionario, scusandosi e chiedendo di entrare: tutto d’un fiato, con lo scilinguagnolo del piazzista che ha già esibito mille volte. Black lo fa entrare senza scomporsi, dicendo che potrebbe essere interessato a uno spazzolino da denti, e mentre avanza Blue continua a ciarlare di spazzole per i capelli e per i vestiti, qualunque cosa pur di non interrompersi, perché così permette al resto di sé di memorizzare la stanza, osservare l’osservabile, pensare, distogliendo nel frattempo Black dal suo vero proposito. La stanza è più o meno come se l’aspettava, forse ancora più spartana. Niente alle pareti, per esempio, e questo un po’ lo sorprende, dato che era convinto di trovare un quadro o due, qualche immagine, così per spezzare la
monotonia: un paesaggio magari, o il ritratto di una persona un tempo amata da Black. Blue era sempre stato curioso di vedere quel quadro pensando che gli avrebbe fornito qualche prezioso indizio, ma ora, constatato che non c’è niente, capisce che avrebbe dovuto attendersi proprio questo. Per il resto, c’è ben poco che possa contraddire le sue nozioni preliminari. È la stessa cella monacale che si era figurato: il lettino lindo in un angolo, la piccola cucina nell’altro, tutto immacolato, senza l’ombra di una briciola. E nel centro della stanza, davanti alla finestra, il tavolo di legno con un’unica sedia di legno dallo schienale rigido. Matite, penne, una macchina da scrivere. Un cassettone, un comodino, una lampada da notte. Una libreria contro il muro a settentrione, ma solo con pochi volumi: Walden, Foglie d’erba, Racconti narrati due volte, qualche altro. Niente telefono, niente radio, niente giornali. Sul tavolo, pile di fogli accatastati in perfetto ordine: alcuni bianchi, altri scritti a macchina, altri a mano; centinaia di pagine, forse migliaia. Ma questa non è vita, pensa Blue. Non è niente di niente. È una terra di nessuno, il posto dove arrivi alla fine del mondo. Esaminano insieme i diversi spazzolini e finalmente Black ne sceglie uno rosso; poi passano a considerare le spazzole per i vestiti, con Blue che offre dimostrazioni sul proprio abito. Credo che un signore distinto come lei, dice Blue, la troverà indispensabile. Ma Black replica che finora ha fatto senza. Invece non esclude l’acquisto di una spazzola da capelli, perciò passano in rassegna il campionario discutendo le varie fogge e misure, i diversi tipi di setola e così via. Naturalmente Blue ha già finito il suo vero lavoro, ma prolunga la finzione per fare tutto a regola d’arte, anche se non conta. Però, riordinando la valigetta dopo che Black ha pagato le spazzole, si lascia andare a una piccola osservazione. Ma allora lei fa lo scrittore, dice indicando il tavolo; e Black risponde che sì, è vero, fa lo scrittore. Sembra un bel librone, insiste Blue. Sì, fa Black. Sono molti anni che ci lavoro. L’ha quasi finito? Non manca molto, dice Black pensieroso. Ma a volte è difficile sapere dove siamo. Credo di avere quasi finito, e poi mi accorgo che ho tralasciato una cosa importante, per cui devo riprendere dall’inizio. Ma sì, il mio sogno è che un giorno lo finirò. Presto, forse. Spero che me lo farà leggere, dice Blue. Tutto è possibile, osserva Black. Ma prima devo finirlo. Certi giorni non
so nemmeno se vivrò abbastanza. Be’, non lo sa mai nessuno, le pare? fa Blue annuendo con filosofia. Un giorno siamo vivi, e domani non ci siamo più. Succede a tutti. Verissimo, conferma Black. Succede a tutti. Ora sono sulla porta, e qualcosa dentro Blue vuole che entrambi proseguano con i futili rilievi come questo. Capisce che fare il buffone è divertente, ma nello stesso tempo c’è il gusto di prendersi gioco di Black, di mostrare che non gli è sfuggito nulla… perché intimamente Blue desidera far sapere a Black che è intelligente quanto lui, che può ribattere colpo su colpo. Tuttavia riesce a dominarsi e a trattenere la lingua, ringraziando per gli acquisti con educati cenni del capo, per prendere infine congedo. Questa è la fine del piazzista di Spazzole Fuller, che meno di un’ora dopo giace nella stessa borsa dove riposano le spoglie di Jimmy Rose. Blue sa che d’ora in poi non serviranno altri travestimenti. Il passo successivo è inevitabile, e ora la sola cosa che importa è scegliere il momento giusto. Ma tre sere dopo, quando l’occasione finalmente si presenta, Blue capisce di avere paura. Black esce alle nove in punto, imbocca la strada e scompare dietro l’angolo. Pur riconoscendo che il segnale è inequivocabile, che in pratica Black lo scongiura di muoversi, Blue teme ancora un tranello: proprio adesso, nel più improbabile dei momenti, quando solo poco fa traboccava di fiducia, quasi tronfio del senso del proprio potere, sprofonda in una nuova, logorante incertezza. Perché tutto a un tratto dovrebbe cominciare a fidarsi di Black? Che motivo c’è di credere che adesso siano entrambi dalla stessa parte? Com’è successo, perché mai si riscopre così ossequioso nei confronti di Black? Poi, di colpo, inizia a contemplare un’altra possibilità. E se partisse e basta? Se si alzasse e uscisse per farla finita con tutta la faccenda? Medita un po’ questa ipotesi, soppesandola e vagliandola, e piano piano comincia a tremare, sopraffatto dal terrore e dalla gioia, come uno schiavo davanti alla visione della propria libertà. Si immagina altrove, lontano da qui, a camminare per i boschi con un’ascia che gli dondola sulla spalla. Libero e solo, senza più padrone. A costruirsi la vita dalle fondamenta come un esule, un pioniere, un pellegrino nel nuovo mondo. Ma più in là non arriva: perché appena incomincia a camminare tra quei boschi sperduti avverte la presenza di Black, nascosto dietro un albero o appostato nel folto di una macchia, in attesa che Blue si corichi e chiuda gli occhi per piombargli addosso e tagliargli la gola. Da qui non si esce, pensa Blue. Se non se la vede con Black
adesso, non finirà mai. È quello che gli antichi chiamavano fato, e ogni eroe vi deve soggiacere. Non c’è scelta, e se una cosa va fatta è proprio l’unica che non dà scelta. Ma Blue recalcitra: lotta contro l’ineluttabile, lo respinge, si affanna. Ma solo perché ne è consapevole, e lottare è già come averlo accettato, voler dire di no è già una risposta affermativa. Così gradatamente Blue si persuade, cedendo almeno alla necessità che la cosa sia fatta. Ma questo non vuol dire che non abbia paura. D’ora in poi c’è una sola parola per descrivere lo stato d’animo di Blue, ed è paura. Ha sprecato del tempo prezioso e ora deve catapultarsi in strada nella febbrile speranza che non sia troppo tardi. Black non si assenterà in eterno e chissà che non stia in agguato dietro l’angolo, aspettando il momento giusto per piombargli addosso. Blue sale di corsa i gradini dell’entrata, armeggia goffamente con la serratura della porta principale guardandosi di continuo alle spalle; poi sale al piano di Black. La seconda serratura si rivela un osso più duro della prima anche se in teoria c’era da aspettarsi il contrario, un giochetto anche per il più rozzo dei principianti. Questo impaccio indica a Blue che sta perdendo il controllo dei propri nervi: ma per quanto lo sappia, non può fare altro che resistere sperando che le mani smettano di tremargli. Invece va di male in peggio, e appena mette piede nella stanza di Black sente oscurarsi tutto dentro, come se la notte lo premesse attraverso i pori, salendogli addosso con un peso terribile e nel contempo la sua testa sembra espandersi, gonfiandosi d’aria quasi stesse per staccarsi dal corpo e allontanarsi fluttuando. Avanza di un altro passo e perde i sensi, stramazzando come un morto. Per la caduta il suo orologio si ferma, e quando si riprende non sa per quanto tempo è rimasto svenuto. Riacquista coscienza con l’impressione, dapprima confusa, di essere già stato in quel luogo, forse molto tempo prima, e quando vede le tende ondeggiare ai lati della finestra aperta e le ombre bizzarre che si muovono sul soffitto, si rivede nel letto di casa sua, quando era bambino e non riusciva a dormire nelle torride notti estive; e immagina che tendendo bene l’orecchio sentirà le voci di sua madre e suo padre che discorrono pacatamente nella camera attigua. Ma dura solo un attimo. Comincia ad avvertire mal di testa, ad accorgersi della nausea che gli sconvolge lo stomaco finché, vedendo finalmente dove si trova, rivive il panico che l’afferrava al momento di entrare nella stanza. Si rialza precariamente in piedi, inciampando un paio di volte, e dice fra sé che non
può restare lì, no, deve andarsene, e subito. Afferra la maniglia ma poi, rammentando all’improvviso la prima ragione della sua venuta, estrae di tasca la torcia elettrica e l’accende, agitandola convulsamente per la stanza finché per caso la luce va a cadere su una pila di fogli ordinatamente disposti sul bordo del tavolo di Black. Senza pensarci due volte Blue con la mano libera raccoglie le carte, dicendosi che non importa, è solo un inizio; poi guadagna l’uscita. Ritornato nella sua camera Blue si riempie un bicchiere di brandy, siede sul letto e s’impone di stare calmo. Sorseggia la bevanda fino all’ultima goccia e si versa un altro bicchiere. Quando il panico comincia a diminuire, gli rimane un senso di vergogna. Ha fatto fiasco, pensa, è inutile negarlo. Per la prima volta nella sua vita non è stato all’altezza della situazione, e l’idea lo sconvolge: constatare di essere un fallito, e in fin dei conti un vile. Prende i fogli che ha rubato, nella speranza di distrarsi: ma al contrario il problema si aggrava, perché quando comincia a leggerli si accorge che non sono altro che i suoi rapporti. Eccoli qui tutti quanti i consuntivi settimanali, tutti nero su bianco, tutti senza significato né valore, non più prossimi alla realtà del caso di quanto lo sarebbe stato il silenzio. Alla loro vista Blue geme sprofondando nei recessi più intimi della propria coscienza, e poi, davanti a quello che ritrova in essi, comincia a ridere, prima debolmente, poi con maggiore intensità, sempre più forte finché gli manca il respiro quasi da soffocare; come se tentasse di cancellarsi una volta per sempre. Tenendo saldamente i fogli fra le mani, li lancia verso il soffitto e vede la pila scompaginarsi, sparpagliarsi e ricadere svolazzando al suolo, una pagina infelice dopo l’altra. Non è certo che Blue si risollevi mai completamente dai fatti di questa notte. E quand’anche, va registrato che passano diversi giorni prima che torni a una parvenza di normalità. Nel frattempo non si rade, non si cambia d’abito, non considera nemmeno la possibilità di uscire dalla sua stanza. Quando arriva il giorno in cui dovrebbe scrivere il prossimo rapporto, non ci pensa nemmeno. È finita ormai, dice tirando un calcio a uno dei vecchi rapporti sul pavimento; e che mi venga un colpo se scriverò mai più di questa roba. Solitamente rimane a letto o cammina su e giù per la stanza. Guarda le varie immagini che ha appeso alle pareti dall’inizio del caso, esaminandole a turno e meditando su ciascuna il più a lungo possibile. C’è il medico legale di
Philadelphia, Gold, con la maschera mortuaria del bambino. C’è una montagna coperta di neve, e nell’angolo superiore destro della foto un rettangolino con uno sciatore francese, il viso incorniciato nel piccolo riquadro. C’è il Ponte di Brooklyn con accanto i due Roebling padre e figlio. C’è il padre di Blue in uniforme della polizia, che riceve una medaglia dal sindaco di New York Jimmy Walker. C’è ancora suo padre, stavolta in borghese, che abbraccia la madre di Blue nei primi tempi del loro matrimonio; tutti e due ridono al fotografo. C’è una foto di Brown con un braccio intorno alle spalle di Blue, immortalati davanti al loro ufficio il giorno in cui Blue è diventato socio. Sotto, c’è un’istantanea di Jackie Robinson in scivolata alla conquista di una seconda base. Di fianco, un ritratto di Walt Whitman. E per finire, proprio alla sinistra del poeta, c’è un fotogramma di un film di Robert Mitchum ritagliato da una rivista specializzata: pistola nella mano, espressione di chi si aspetta che il mondo gli crolli addosso. Non ci sono ritratti dell’ex-futura signora Blue, ma ogni volta che Blue passa in rassegna la piccola galleria indugia su una zona vuota della parete e finge che sia lì. Per diversi giorni Blue non si azzarda a guardar fuori dalla finestra. Si è rinchiuso così ermeticamente nei suoi pensieri che Black sembra non esistere più. Il dramma concerne solo Blue, ed è come se Black – pur essendone in qualche modo la causa – avesse recitato la sua parte e pronunciato le battute, e fosse già uscito di scena. Perché Blue a questo punto non può più tollerare l’esistenza di Black, e dunque la nega. Avendo fatto irruzione nella stanza di Black ed essendovi rimasto da solo; essendo stato per così dire, nella stanza segreta della solitudine di Black, non può controbilanciare la tenebra di quel momento se non sostituendola con una solitudine propria. Entrare in Black, quindi, è stato l’equivalente di entrare in se stesso, non può più concepire di essere altrove. Ma è precisamente altrove che si trova Black, anche se Blue non lo sa. Perciò un pomeriggio, come per caso, Blue si avvicina alla finestra più di quanto abbia fatto da molti giorni; si arresta e poi, come in omaggio ai vecchi tempi, scosta le tende e guarda fuori. La prima cosa che vede è Black: non nella sua stanza, ma seduto sui gradini della palazzina dirimpetto, che guarda verso la finestra di Blue. Allora è finito? si domanda Blue. Vuol dire che è finita? Blue va a prendere il binocolo nella parte posteriore della stanza e torna
alla finestra. Mette a fuoco su Black e studia per qualche minuto la faccia dell’uomo, un lineamento alla volta: gli occhi, le labbra, il naso e così via. È turbato dalla profondità della tristezza di Black, da come gli occhi alzati verso di lui appaiono vuoti di ogni speranza; e suo malgrado, colto di sprovvista da quell’immagine, Blue prova un moto di compassione, un sussulto di pena per quella figura sventurata sull’altro lato della strada. Eppure non lo vorrebbe: vorrebbe avere il coraggio di caricare la pistola, mirare a Black e trapassargli il cranio con una pallottola. Non saprebbe mai cosa lo ha colpito, pensa Blue; sarebbe già in cielo prima di toccare terra. Ma appena si è rappresentato mentalmente la scena, se ne ritrae. No, capisce che non è affatto questo che desidera. Ma allora… che cosa? Sempre lottando contro il sentimentalismo, ripetendo fra sé che non vuole grane, che desidera solo pace e tranquillità, gradualmente si accorge di aver trascorso un bel po’ di tempo chiedendosi se non ha modo di aiutare Black; se non potrebbe tendergli amichevolmente una mano. Certo, pensa Blue, questo cambierebbe le carte in tavola capovolgendo tutta la faccenda. Ma perché no? Perché non compiere la mossa imprevedibile? Bussando alla sua porta, cancellando tutto… non sarebbe più assurdo di altre scelte. Perché il punto è che Blue è svuotato di ogni bellicosità. Non ha più nerbo. E, a giudicare dalle apparenze, neppure Black. Basta guardarlo, dice Blue fra sé. È la creatura più infelice del mondo. Poi, nell’attimo in cui formula queste parole, capisce che sta parlando anche di se stesso. Molto tempo dopo che Black ha lasciato i gradini, volgendosi e rientrando nella palazzina, Blue sta guardando ancora il punto deserto. Un paio d’ore dopo il crepuscolo finalmente si scosta dalla finestra, si avvede del disordine in cui ha lasciato sprofondare la sua stanza e passa l’ora successiva a rimettere a posto: lava i piatti, rifà il letto, ripone i vestiti e raccoglie dal pavimento i vecchi rapporti. Quindi va in bagno, si fa una lunga doccia, si rade e indossa un abito pulito, scegliendo per l’occasione il suo migliore completo blu. Ora per lui è tutto diverso, improvvisamente e irrevocabilmente diverso. Non ha più paura, non trema più. Prova solo una quieta sicurezza, il senso che quanto sta per fare sia giusto. Appena fa buio, si accomoda un’ultima volta la cravatta davanti allo specchio e lascia la stanza per uscire, attraversare la strada ed entrare nella palazzina di Black. Sa che Black è in casa perché nella sua stanza c’è una lampadina accesa; e salendo le scale prova a immaginarsi l’espressione che
apparirà sulla faccia dell’altro quando lui gli avrà detto cosa ha in mente. Bussa due volte alla porta con molta discrezione, poi sente la voce di Black dall’interno. È aperto. Avanti. È difficile dire cosa Blue precisamente si attendesse… ma in tutti i casi non questo, non la cosa che si trova di fronte entrando nella stanza. C’è Black seduto sul letto, di nuovo con la maschera sul volto – la stessa che indossava l’uomo nell’ufficio postale –; e nella destra stringe una pistola, – un revolver calibro 38 capace, a bruciapelo, di spaccare in due un uomo – puntandola addosso a Blue. Blue resta immobile senza dire una parola. Altro che seppellire l’ascia di guerra, pensa. Altro che cambiare le carte in tavola. Accomodati, Blue, dice Black accennando con la rivoltella alla seggiola di legno. Blue non ha scelta e si siede: dirimpetto a Black, ora, ma troppo distante per saltargli addosso, troppo scomodo per cercare di disarmarlo. Ti aspettavo, dice Black. Sono contento che tu ce l’abbia fatta, finalmente. Lo sospettavo, è il commento di Blue. Sei sorpreso? No davvero. Almeno non di te. Di me, forse… ma solo per la mia stupidità. Vedi, sono venuto in amicizia. Come no, dice Black in tono vagamente beffardo. Sicuro che siamo amici. Lo siamo stati fin dall’inizio, o no? Amici per la pelle. Se gli amici li tratti così, dice Blue, meno male che non sono un tuo nemico. Spiritoso. Bravo: sono proprio un mattacchione. Quando ci sono io, risate a volontà. E la maschera? Non stai per domandarmi della maschera? Non vedo perché. Se ti piace metterti quella roba, non sono affari miei. Ma non puoi evitare di guardarla, vero? Perché mi fai domande se sai già la risposta? È grottesca, ti pare? Sicuro che è grottesca. E spaventosa, anche. Molto spaventosa. Bene. Mi piaci, Blue. Ho sempre saputo che facevi al caso mio. L’uomo giusto per me. Se la piantassi di agitare quel cannone, forse penserei lo stesso anche di
te. Spiacente, non posso. È troppo tardi. Sarebbe a dire? Che non mi servi più, Blue. Be’, non credere che sia così facile sbarazzarsi di me. Mi hai attirato in questa faccenda, e ora siamo legati l’uno all’altro. No, Blue: ti sbagli. Tutto è finito adesso. Vuoi parlar chiaro, una volta per tutte? È finita. Non c’è più niente da scoprire. Tutto è stato compiuto. Da quando? Da adesso. Da questo momento. A te manca un venerdì. No, Blue. Il cervello mi funziona benissimo: anche troppo, semmai. Tanto che mi ha svuotato da dentro, e di me non resta niente. Ma questo lo sai, Blue: lo sai meglio di chiunque altro. E allora, perché non premi il grilletto e stop? Quando sarò pronto. E poi non te ne vai lasciando il mio cadavere sul pavimento? E tanti auguri. Oh, no, Blue. Non capisci. Saremo ancora insieme noi due, come sempre. Ma non ti pare di aver dimenticato qualcosa? Dimenticato che? Be’, dovresti raccontarmi la storia. Non è così che deve finire? Mi racconti la storia e poi ci diciamo addio. La conosci già, Blue. Non capisci? La conosci a memoria. E allora perché ti sei dato tanto da fare? Non fare domande sciocche. E io… che ruolo avevo? L’intermezzo comico? No, Blue: mi sei servito fin dal principio. Se non fosse stato per te, non ci sarei riuscito. Servito a cosa? A ricordarmi quello che dovevo fare. Ogni volta che alzavo gli occhi tu eri lì che mi osservavi, mi seguivi, sempre in vista, a scrutarmi. Per me eri tutto il mondo, Blue, e ti ho trasformato nella mia morte. Tu sei l’unica cosa immutabile, la mia soluzione finale. E ora non resta niente. Hai scritto il biglietto del suicida ed è la fine.
Esattamente. Sei pazzo. Sei un povero pazzo maledetto. Lo so. Ma non più di chiunque altro. Vuoi provare a dimostrarmi che sei più in gamba di me? Almeno io so cosa sto facendo. Avevo un lavoro e l’ho terminato. Ma tu non sei in nessun posto, Blue. Ti sei smarrito fin dal primo giorno. E allora perché non mi spari, bastardo? dice Blue, alzandosi di scatto e percuotendosi furiosamente il petto per provocare Black. Perché non spari e non la fai finita? Poi Blue fa un passo verso Black e, visto che la pallottola non parte, ne fa un altro e un altro ancora urlando all’uomo mascherato di sparare, ormai indifferente alla vita e alla morte. Senza esitare fa volare la rivoltella dalla mano di Black, lo afferra per il colletto e lo costringe a mettersi in ginocchio. Black cerca di resistere, ma Blue è troppo forte, così gonfio di rabbia da sembrare trasfigurato, e quando i primi colpi lo raggiungono al viso, all’inguine e allo stomaco Black non può reagire, tanto che in breve resta svenuto al suolo. Ciò nonostante Blue prosegue nella punizione, prendendo a calci l’esanime Black, sollevandolo e sbattendogli la testa contro il pavimento, tempestandolo di pugni. Alla fine, quando la collera si placa e Blue si accorge di quello che ha fatto, non sa dire con certezza se Black sia vivo o morto. Gli toglie la maschera dal viso accostandogli l’orecchio alla bocca per ascoltare se respira. Gli pare che un suono si senta, ma è troppo debole per stabilire se provenga da Black o da lui stesso. Se è vivo, pensa Blue, non lo resterà a lungo. E se è morto, pace all’anima sua. Blue si rialza col vestito lacero e incomincia a raccogliere dal tavolo le pagine del manoscritto di Black. Ci vogliono vari minuti. Quando le ha prese tutte, spegne la luce nell’angolo ed esce dalla stanza senza rivolgere a Black neanche un ultimo sguardo. È mezzanotte passata quando Blue torna nella sua stanza. Posa il manoscritto sul tavolo, va in bagno e si lava le mani insanguinate. Poi si cambia, si versa un bicchiere di scotch e siede al tavolo col libro di Black. Ha poco tempo. Arriveranno prima che se lo aspetti, e il prezzo da pagare sarà atroce: ma questo non deve interferire con il lavoro di adesso. Legge la storia tutta d’un fiato, parola per parola dal principio alla fine. Quando ha finito albeggia e la stanza comincia a rischiararsi. Sente il canto di
un uccello e dei passi per strada; sente una macchina che attraversa il ponte di Brooklyn. Black aveva ragione, dice fra sé. Lo conoscevo tutto a memoria. Ma la storia non è ancora finita. Rimane il momento conclusivo, che non verrà finché Blue non abbandona la stanza. Così va il mondo: non un attimo prima, non un attimo dopo. Quando Blue si alzerà dalla sedia e si metterà il cappello e uscirà dalla porta, quella sarà la fine. Dove andrà poi, non conta: perché dobbiamo ricordare che tutto questo è accaduto più di trent’anni fa, nei giorni della nostra prima infanzia. Dunque, tutto è possibile. Personalmente preferisco credere che sia andato lontano, prendendo il treno quella mattina stessa alla volta dell’Ovest per rifarsi una vita. Può anche darsi che il viaggio non termini in America; nei miei sogni segreti mi piace pensare che Blue prenoti un posto su una nave e salpi per la Cina. Vada per la Cina, allora, e fermiamoci qui. Perché questo è il momento in cui Blue si alza in piedi, si mette il cappello ed esce dalla porta; e da questo momento non sappiamo più nulla.
La stanza chiusa
1. Adesso mi sembra che Fanshawe ci sia sempre stato. È lui il luogo dove per me tutto comincia, senza di lui non credo che saprei chi sono. Quando ci siamo incontrati non sapevamo ancora parlare, eravamo lattanti che arrancavano carponi fra l’erba, e a sette anni ci eravamo già punti le dita con uno spillo proclamandoci fratelli di sangue per la vita. Ogni volta che ripenso alla mia infanzia, vedo Fanshawe. Era lui che mi stava vicino, la persona con cui condividevo i miei pensieri e che vedevo appena alzavo gli occhi da me stesso. Ma questo fu molto tempo fa. Siamo cresciuti, abbiamo preso direzioni diverse, ci siamo allontanati. Credo che in questo non ci sia niente di strano. Le nostre vite ci guidano secondo schemi che non possiamo controllare, e con noi non rimane quasi nulla. Le cose muoiono quando noi moriamo, e in verità moriamo tutti i giorni. A novembre saranno sette anni che ricevetti una lettera da una donna di nome Sophie Fanshawe. «Lei non mi conosce,» cominciava, «e la prego di scusarmi se le scrivo così, di punto in bianco. Ma la situazione è precipitata, e date le circostanze non mi resta molta scelta». Si trattava della moglie di Fanshawe. Sapeva che suo marito e io eravamo cresciuti insieme, e sapeva anche che abitavo a New York, avendo letto molti articoli che avevo pubblicato su varie riviste. La spiegazione arrivò nel secondo paragrafo, cruda e senza preamboli. Scriveva che Fanshawe era scomparso, e lei non lo vedeva da più di sei mesi. In tutto quel tempo, non una parola, né il più pallido indizio su dove potesse nascondersi. La polizia non ne aveva trovato traccia, e l’investigatore privato che aveva assunto era tornato a mani vuote. Non c’era niente di sicuro, ma i fatti sembravano inoppugnabili. Probabilmente Fanshawe era morto: non c’era ragione di credere che sarebbe tornato. Alla luce di tutto ciò, lei aveva bisogno di discutere con me una questione importante, e mi chiedeva un colloquio.
Questa lettera mi provocò una serie di piccoli traumi. C’erano troppi dati da digerire in una volta sola: troppe forze mi traevano in diverse direzioni. Fanshawe era improvvisamente ricomparso nella mia vita dal nulla. Ma appena pronunciato il suo nome, era sparito di nuovo. Si era sposato, aveva vissuto a New York, e io non avevo saputo più niente di lui. Mi rammaricai egoisticamente che non mi avesse neppure cercato. Una telefonata, una cartolina; un brindisi per ricordare i vecchi tempi non sarebbe stato difficile da organizzare. Ma la colpa era anche mia. Sapevo dove abitava la madre di Fanshawe, e se avessi voluto rintracciarlo avrei potuto facilmente rivolgermi a lei. La realtà era che a Fanshawe avevo rinunciato. La sua vita era finita nel momento in cui avevamo preso strade diverse, e ormai apparteneva al mio passato, non al presente. Era un fantasma che mi portavo dentro, una finzione preistorica, qualcosa di non più reale. Cercai di ricordare l’ultima volta che l’avevo visto, ma tutto era confuso. La mia mente vagò per qualche minuto, poi si arrestò di colpo sul giorno della morte di suo padre. Facevamo il liceo, avremo avuto al massimo diciassette anni. Telefonai a Sophie Fanshawe e le dissi che sarei stato felice di vederla appena lo ritenesse opportuno. Ci accordammo per l’indomani e c’era gratitudine nella sua voce, anche se le spiegai che da molto tempo non ricevevo notizie di Fanshawe e non avevo idea di dove fosse. Abitava a Chelsea, in un casermone di mattoni rossi, vecchio e senza ascensore, con scale male illuminate e crepe nell’intonaco dei muri. Salii fino al suo appartamento al quinto piano, accompagnato per le scale da rumori di radio accese, baruffe e sciacquoni di altri inquilini; mi fermai per riprendere fiato, poi bussai. Un occhio mi guardò dallo spioncino, sentii uno sferragliare di lucchetti, e infine mi trovai di fronte Sophie Fanshawe, che teneva con il braccio sinistro un bambino piccolo. Mentre mi sorrideva invitandomi a entrare, il bambino le tirava i lunghi capelli castani. Lei si sottrasse delicatamente all’assalto piegando la testa, prese il piccolo con entrambe le mani e lo voltò con la faccia verso di me. Quello era Ben, disse, il figlio di Fanshawe, nato da appena tre mesi e mezzo. Finsi di ammirare il bambino, che agitava le braccia sbavando saliva biancastra giù per il mento, ma ero più interessato a sua madre. Fanshawe era stato fortunato. Quella donna era bellissima, aveva gli occhi scuri e intelligenti, quasi feroci nella loro fermezza. Magra, di statura non superiore alla media, e con una lentezza nei modi, qualcosa che la rendeva contemporaneamente sensuale e sorvegliata,
come se scrutasse il mondo dal cuore di una profonda vigilanza interiore. Nessun uomo avrebbe lasciato una donna simile di sua spontanea volontà, tanto meno mentre stava per dargli un figlio. Su questo non avevo dubbi. Ancor prima di entrare nella casa, fui sicuro che Fanshawe doveva essere morto. Era un appartamentino di quattro stanze senza corridoio, con pochi mobili: una stanza era riservata ai libri e a un tavolo da lavoro, una faceva da soggiorno e le altre due da camere da letto. Il luogo era in ordine, dimesso nei dettagli, ma tutto sommato abbastanza accogliente. Se non altro, dimostrava che Fanshawe non aveva dedicato la vita a fare soldi. Del resto, io non ero nella condizione di guardare dall’alto in basso quella mediocrità. Il mio appartamento era ancora più buio e striminzito, e conoscevo la battaglia mensile per pagare l’affitto. Sophie Fanshawe mi diede una sedia, mi preparò un caffè e sedette sul logoro divanetto azzurro. Con il bambino in grembo, mi raccontò la storia della scomparsa di Fanshawe. Si erano conosciuti tre anni prima a New York. Nel volgere di un mese erano andati a vivere insieme, e dopo meno di un anno si erano sposati. Non era facile convivere con Fanshawe, spiegò, ma lei lo amava, e nel suo comportamento non aveva mai colto alcun indizio che lui non la ricambiasse. Insieme erano stati felici; lui non vedeva l’ora che nascesse il bambino; non avevano nessun motivo di risentimento. Un giorno di aprile Fanshawe le aveva detto che avrebbe passato il pomeriggio da sua madre nel New Jersey, e non era più tornato. A tarda sera Sophie chiamò la suocera e seppe che Fanshawe non aveva mai compiuto la visita. Era la prima volta che succedeva un fatto simile, ma Sophie decise di non affrettare le conclusioni. Non voleva comportarsi come quelle mogli che cadono nel panico ogni volta che il marito fa tardi, e sapeva che a Fanshawe serviva più spazio vitale che alla maggioranza degli uomini. Decise anche di non fargli domande al suo ritorno. Ma passò una settimana, poi un’altra, e alla fine Sophie andò alla polizia. Come si aspettava, non si gettarono a capofitto sul suo caso. Senza nessun indizio di reato, non potevano fare molto. In fin dei conti tutti i giorni ci sono mariti che abbandonano le mogli, e in genere non desiderano essere rintracciati. La polizia eseguì le indagini dovute senza scoprire nulla e alla fine le consigliarono di rivolgersi a un investigatore privato. Con l’aiuto della suocera, che si offrì di pagare le spese, ingaggiò un uomo di nome Quinn.
Quinn lavorò alacremente al caso per cinque o sei settimane, ma alla fine rassegnò l’incarico non volendo farle sprecare altro denaro. Le riferì che con tutta probabilità Fanshawe si trovava ancora nel paese, ma non sapeva se era vivo o morto. Quinn non era un cialtrone. A Sophie era sembrato comprensivo e sinceramente intenzionato a rendersi utile; e l’ultima volta che le fece rapporto, capì che la sua diagnosi non si poteva discutere. Non c’era niente da fare. Se Fanshawe avesse deciso di lasciarla, non sarebbe svanito senza una parola. Non era da lui eludere la verità, sfuggire i confronti spiacevoli. Perciò la sua scomparsa poteva solamente significare che era stato colpito da una tremenda disgrazia. Malgrado tutto, Sophie continuò a sperare che accadesse qualcosa. Aveva letto di casi di amnesia, e per qualche tempo si aggrappò a questa ipotesi disperata: il pensiero di Fanshawe che si aggirava incerto chissà dove, ignaro della propria identità, depredato della propria vita ma vivo almeno, e forse prossimo a ritornare in sé da un momento all’altro. Passarono altre settimane, e cominciò ad avvicinarsi il termine della gravidanza. Il bambino doveva nascere entro due mesi – quindi poteva succedere in qualsiasi momento – e a poco a poco il figlio non ancora nato cominciò ad assorbire tutti i suoi pensieri, come se dentro di lei non avesse più posto per Fanshawe. Tali furono le parole che usò per descrivere quello che provava – niente più posto dentro di lei – e proseguì spiegando che questo probabilmente dimostrava, malgrado tutto, il suo astio nei confronti di Fanshawe: astio perché l’aveva abbandonata, anche se non era stata colpa sua. Questa ammissione mi sembrò brutalmente onesta. Non avevo mai sentito nessuno parlare in quel modo dei propri sentimenti personali – così crudamente, senza ricorrere ai convenzionali eufemismi – e ora capisco che già quel primo giorno ero scivolato in una voragine, che cadevo verso un luogo dove non ero mai stato prima. Un mattino, continuò Sophie, al risveglio dopo una notte agitata, aveva compreso che Fanshawe non sarebbe tornato. Fu una verità subitanea e assoluta, da non porre mai più in discussione. Allora aveva pianto e aveva continuato a piangere per una settimana, deplorando Fanshawe come se fosse morto. All’esaurirsi delle lacrime, però, non provava più nessun rimpianto. Stabilì che Fanshawe le era stato elargito solo per alcuni anni, ecco tutto. Ora bisognava pensare al bambino, era la sola cosa che importasse veramente. Sapeva che potevano sembrare parole retoriche, ma in realtà aveva continuato
a vivere sulla loro falsariga, ed era questo che le rendeva ancora possibile la vita. Le feci una serie di domande, a ognuna delle quali rispose con calma e determinazione, come sforzandosi di evitare che le risposte fossero influenzate dai suoi sentimenti. Per esempio, come erano vissuti, che lavoro faceva Fanshawe, e cosa gli era successo negli anni in cui lo avevo perso di vista. Il bambino cominciò ad agitarsi sul divano, e senza interrompere la conversazione Sophie si sbottonò la camicetta e lo allattò, prima da un seno e poi dall’altro. Spiegò che non aveva notizie certe sugli anni antecedenti al suo primo incontro con Fanshawe. Le risultava che avesse abbandonato il college dopo due anni, ottenendo un rinvio del servizio di leva e finendo per un certo periodo a lavorare su una nave, non sapeva esattamente di che genere. Forse una petroliera, o un mercantile. Successivamente era vissuto qualche anno in Francia: prima a Parigi, poi nel Sud, dove aveva fatto il custode di una fattoria. Ma non avrebbe potuto giurarlo, dato che Fanshawe non aveva mai parlato molto del passato. All’epoca in cui si erano conosciuti, era tornato in America al massimo da otto o dieci mesi. Avevano letteralmente sbattuto l’una contro l’altro: erano tutti e due nell’entrata di una libreria di Manhattan in un umido pomeriggio di domenica, a guardare dalla vetrina in attesa che spiovesse. Quello era stato il principio, e da quel giorno al giorno in cui Fanshawe era scomparso avevano passato quasi ogni momento insieme. Spiegò che Fanshawe non aveva mai avuto un’occupazione fissa, niente che si potesse definire un vero lavoro. Il denaro per lui non contava granché, e cercava di pensarci il meno possibile. Prima di conoscere Sophie aveva fatto ogni sorta di mestiere: era stato in marina mercantile, aveva lavorato in un magazzino, dato lezioni private, fatto il ghost writer, il cameriere, l’imbianchino, il facchino per una ditta di traslochi – tutti lavori temporanei, e appena guadagnava abbastanza da mantenersi per qualche mese si licenziava. Per esempio, quando lui e Sophie erano andati a vivere insieme, Fanshawe non lavorava affatto. Lei insegnava musica in una scuola privata, e il suo stipendio bastava a mantenerli tutti e due. Naturalmente dovevano fare economie, ma c’era sempre cibo sulla tavola, e nessuno dei due si lamentava. Non la interruppi. Mi sembrava chiaro che questo resoconto era solo un preambolo, un insieme di dettagli da evadere prima di venire al dunque.
Qualsiasi cosa Fanshawe avesse fatto della propria vita, c’entrava poco con quella lista di occupazioni saltuarie. Lo capii subito, prima che cominciassimo la discussione. In fin dei conti non stavamo parlando di uno qualunque. Si trattava di Fanshawe, e il nostro passato non era così remoto da avermelo fatto dimenticare. Sophie sorrise quando si accorse che la prevenivo, che sapevo già il seguito. Credo che si aspettasse di trovare riscontro, e credo che il mio atteggiamento abbia confermato le sue speranze, cancellando eventuali dubbi sull’opportunità di quel colloquio. Io ero al corrente, senza bisogno di troppe spiegazioni, e ciò mi dava il diritto di trovarmi lì, di ascoltare quello che aveva da dire. – Continuò a scrivere, – dissi. – Diventò uno scrittore, vero? Sophie annui. Avevo ragione. In parte, almeno. Mi stupii però di non averne mai sentito parlare. Se Fanshawe era uno scrittore avrei dovuto imbattermi nel suo nome, da qualche parte. Essere informato su questi argomenti era il mio mestiere, e mi sembrava difficile che mi potesse essere sfuggito proprio Fanshawe. Chissà, forse non era riuscito a trovare un editore. Era l’unica spiegazione logica. No, disse Sophie, la faccenda era più complicata. Non aveva mai tentato di pubblicare nulla. Dapprima, quando era molto giovane, era troppo timido per divulgare i suoi scritti, temendo che non fossero abbastanza buoni. Ma anche in seguito, dopo aver preso più fiducia in se stesso, si rese conto che preferiva rimanere nell’ombra. Andare in cerca di un editore lo avrebbe distratto, le diceva, e dovendo scegliere preferiva di gran lunga dedicare il proprio tempo alla scrittura, il lavoro vero. Sophie era seccata da quell’indifferenza, ma ogni volta che lo spronava lui scrollava le spalle: non c’era fretta, presto o tardi avrebbe trovato il tempo di occuparsene. A dire il vero, un paio di volte Sophie aveva pensato di prendere l’iniziativa e di spedire di nascosto un manoscritto a un editore, ma non attuò mai il progetto. In un matrimonio ci sono delle regole che non vanno violate, e per criticabile che fosse l’atteggiamento del marito, non aveva altra scelta che assecondarlo. C’era una quantità imponente di scritti, spiegò, e le veniva da impazzire all’idea che restasse lì chiusa in un cassetto, ma Fanshawe meritava la sua lealtà, e lei si sforzò sempre di non dire nulla. Un giorno, tre o quattro mesi prima di scomparire, Fanshawe le offrì un compromesso, promettendole solennemente che entro un anno si sarebbe dato
da fare, e aggiungendo a prova della sua sincerità che se per qualsiasi ragione non fosse riuscito a mantenere l’impegno, lei avrebbe dovuto consegnarmi tutti i suoi manoscritti e lasciarli a mia disposizione. Io sarei stato il custode della sua opera, spiegò, e stava a me deciderne la sorte. Se l’avessi ritenuta degna di pubblicazione, lui avrebbe accettato il mio giudizio. Aggiunse inoltre che se nel frattempo gli fosse capitato qualcosa, lei avrebbe dovuto consegnarmi immediatamente i manoscritti delegandomi qualunque iniziativa, fermo restando che se le sue opere si fossero rivelate remunerative, a me sarebbe toccato il venticinque per cento dei diritti. Se invece avessi giudicato i suoi scritti inadeguati, avrei dovuto restituire i manoscritti a Sophie che li avrebbe distrutti dalla prima all’ultima pagina. Sophie raccontò che quelle dichiarazioni l’avevano sbalordita, e si era trattenuta a stento dal deridere Fanshawe per la loro solennità. Tanta gravità era in contraddizione con il carattere di lui, e pensò che forse dipendeva dalla sua gravidanza. Forse l’idea della paternità lo aveva responsabilizzato guarendolo dalle sue stranezze: forse era così deciso a dimostrarsi bene intenzionato che aveva esagerato nei toni. Qualunque fosse il motivo, si rallegrò di quel nuovo atteggiamento. Coll’avanzare della gravidanza, cominciò persino a sognare segretamente che Fanshawe avesse successo, così lei avrebbe potuto smettere di lavorare e allevare il bambino senza preoccupazioni finanziarie. Naturalmente poi tutto era andato male, e nello stravolgimento seguito alla scomparsa di Fanshawe si era dimenticata quasi subito dei suoi scritti. In seguito, diradatosi il polverone, si era rifiutata di eseguire le sue istruzioni, nel timore che se lo avesse fatto avrebbe pregiudicato ogni speranza di rivederlo. Ma alla fine si era arresa, sapendo di dover rispettare la volontà del marito. Ecco perché mi aveva scritto. Ed ecco perché adesso ero seduto davanti a lei. Quanto a me, non sapevo cosa rispondere. La proposta mi aveva colto impreparato, e per un minuto o due restai senza parole, a confrontarmi con il peso immane che mi era stato gettato sulle braccia. A quanto ne sapevo, non c’era una ragione al mondo perché Fanshawe scegliesse proprio me. Non lo vedevo da più di dieci anni, e quasi mi sorpresi nel sentire che si ricordava ancora di me. Come poteva aspettarsi che accettassi una simile responsabilità: ergermi a giudice di un uomo e decidere se la sua vita era stata degna di essere vissuta? Sophie tentò di spiegarmi. Era vero che Fanshawe aveva rinunciato ai contatti, ma spesso le aveva parlato di me, e ogni volta che
faceva il mio nome era per descrivermi come il suo migliore amico: l’unico vero amico che avesse mai avuto. Inoltre, aveva seguito costantemente il mio lavoro, comprando tutte le riviste che pubblicavano i miei articoli e qualche volta addirittura leggendoglieli ad alta voce. Sophie aggiunse che ammirava i miei scritti; era fiero di me, e giurava che avessi il talento per fare grandi cose. Tutti questi elogi mi imbarazzarono. C’era una convinzione così intensa nella voce di Sophie che mi sembrava quasi di sentire Fanshawe parlare attraverso di lei, pronunciare quelle parole con le sue proprie labbra. Ammetto che mi sentivo lusingato, ed era un sentimento naturale in quelle circostanze. Fra l’altro, proprio allora attraversavo un periodo difficile, e non nutrivo affatto altrettanta considerazione di me stesso. È vero, avevo scritto tanti articoli, ma non mi sembrava un buon motivo per esaltarmi, e non ne ero neanche troppo orgoglioso. In effetti, non mi sembrava altro che monotona routine. Ero partito pieno di grandi speranze, convinto che sarei diventato un romanziere, che alla fine sarei riuscito a scrivere cose capaci di penetrare a fondo nelle persone, di modificare la loro vita. Ma il tempo passava, e a poco a poco mi resi conto che non sarebbe successo. Dentro di me non c’era un libro simile, e a un certo punto decisi che era meglio smetterla di fare castelli in aria. E poi, scrivere articoli era più semplice. Lavorando sodo, passando disciplinatamente da un pezzo al successivo, riuscivo più o meno a guadagnarmi da vivere. E inoltre, per quello che valeva, mi levavo lo sfizio di vedere il mio nome stampato a ogni piè sospinto. Capii che la situazione avrebbe potuto essere molto più triste. A neppure trent’anni mi ero già fatto una certa reputazione. Avevo iniziato con recensioni di poesie e romanzi, e ormai ero in grado di lanciarmi praticamente su qualunque argomento con risultati dignitosi. Film, teatro, mostre d’arte, concerti, libri, persino il baseball… bastava interpellarmi, ed eseguivo. Il mondo vedeva in me un giovane promettente, un nuovo critico sulla rampa di lancio, ma intimamente mi sentivo vecchio, già logoro. Quello che avevo fatto fino allora si riduceva a una ridicola frazione di nulla. Nient’altro che polvere, che il primo alito di vento avrebbe disperso. Perciò quell’elogio di Fanshawe destò in me reazioni contrastanti. Da una parte sapevo che si sbagliava. D’altro lato (ed è il lato più oscuro e più torbido), avrei tanto voluto che avesse ragione. Pensai: sarò stato troppo severo con me stesso? E appena cominciai a chiedermelo, fui perduto. Ma chi
non si sarebbe gettato a corpo morto sulla possibilità di riscattarsi… quale individuo è così tetragono da rifiutare la possibilità della speranza? Mi balenò l’idea che un giorno, forse, sarei risorto agli occhi di me stesso, e provai un improvviso impulso di amicizia che risaliva a Fanshawe lungo gli anni, attraverso il silenzio degli anni che ci avevano divisi. Fu così che successe. Soccombetti all’adulazione di un uomo che non era presente, e in quel momento di debolezza accettai. Dissi che volentieri avrei letto gli scritti di Fanshawe e avrei fatto il possibile per aiutarla. Sophie sorrise – non seppi mai se di gioia o di delusione – poi si alzò dal divano e andò con il bambino nella stanza attigua. Si fermò davanti a un alto armadio di quercia, levò il fermo dalla porta e la lasciò aprire ruotando sui cardini. Ecco qui, disse. I ripiani straripavano di scatole taccuini cartelle e cartellette: non avrei mai pensato che ci potesse stare tanta roba. Ricordo che per l’imbarazzo risi e mi venne una battuta scialba. Poi discutemmo asetticamente del sistema più adatto per portar via i manoscritti dall’appartamento, optando per due grandi valigie. Ci volle quasi un’ora, ma alla fine riuscimmo a infilarci tutto. Ovviamente, spiegai, mi sarebbe occorso del tempo per esaminare tutto il materiale. Sophie mi disse di non preoccuparmi, e si scusò per avermi inflitto tutto quel lavoro. Risposi che era nel giusto, che non avrebbe mai potuto tradire la volontà di Fanshawe. Era tutto molto drammatico e al contempo grottesco, quasi ridicolo. La bella Sophie adagiò delicatamente il bambino sul pavimento, mi abbracciò stretto e mi baciò sulla guancia. Per un attimo pensai che scoppiasse a piangere, ma il momento trascorse senza lacrime. Poi trascinai lentamente le valigie giù per le scale e in strada. Sommate erano pesanti come un uomo.
2. La verità è molto meno semplice di quanto vorrei. Che volessi bene a Fanshawe, che fosse il mio migliore amico, che lo conoscessi meglio di chiunque altro, sono dati di fatto che nessun ragguaglio potrebbe sminuire. Ma questa è solamente una premessa, e se provo a ricordare come veramente stavano le cose, mi accorgo che nello stesso tempo diffidavo di Fanshawe; che una parte di me gli aveva sempre opposto resistenza. Specialmente da grandi, credo di non essermi mai sentito del tutto a mio agio davanti a lui. Se invidia è una parola eccessiva per quello che sto cercando di descrivere, allora lo definirò sospetto, l’idea segreta che Fanshawe fosse globalmente migliore di me. Allora ero inconsapevole di questo, e non avvenne mai un fatto specifico a cui potrei riferirmi. Tuttavia permaneva l’impressione che Fanshawe per natura fosse più dotato degli altri, che lo animasse come un fuoco inestinguibile, che fosse più autenticamente se stesso di quanto io avrei mai potuto sperare. Già da prima, il suo influsso era piuttosto chiaro. Si estendeva anche a dettagli trascurabili. Se Fanshawe portava la fibbia della cintura su un fianco dei pantaloni, anch’io la spostavo nella stessa posizione. Se Fanshawe arrivava al campo giochi con le scarpe da ginnastica nere, la prima volta che mia madre mi portava dal calzolaio chiedevo scarpe da ginnastica nere. Se Fanshawe portava a scuola una copia di Robinson Crusoe, la sera stessa a casa cominciavo a leggere Robinson Crusoe. Non ero l’unico a comportarmi così, ma ero forse il più devoto, quello che si assoggettava più volentieri al potere che deteneva su di noi. Di quel potere Fanshawe non aveva coscienza, ed è sicuramente per questo che continuò a esercitarlo. Era indifferente all’attenzione che destava, e si occupava tranquillamente dei fatti suoi senza mai servirsi del proprio ascendente per manovrare gli altri. A differenza di tutti noi, non combinava guai; non era affatto discolo; non aveva problemi con gli insegnanti. Ma nessuno lo detestava per questo. Pur rimanendo in disparte, Fanshawe era quello che ci teneva uniti, che faceva da arbitro nelle nostre dispute, e noi sapevamo di poterci fidare perché era imparziale e
capace di risolvere le nostre piccole contese. In lui c’era qualcosa di così affascinante che veniva voglia di averlo sempre vicino, come se si potesse vivere nella sua sfera e farsi sfiorare dal suo essere. Era lì, a nostra disposizione, e contemporaneamente era inaccessibile. Sentivamo che in lui c’era un nucleo segreto che non avremmo mai potuto penetrare, un misterioso centro recondito. Imitarlo era un modo di essere partecipi di quel mistero, ma anche di comprendere che non l’avremmo mai conosciuto fino in fondo. Sto parlando della nostra prima infanzia… indietro, indietro fino a cinque, sei, sette anni. Un periodo in gran parte sepolto, e so bene che anche i ricordi a volte sono bugiardi. Tuttavia credo di non sbagliarmi se dico di avere conservato in me l’atmosfera di quei giorni, al punto di riprovare le sensazioni che provavo allora, e non penso che queste sensazioni possano mentire. Qualunque cosa Fanshawe sia diventato dopo, l’istinto mi dice che iniziò allora. La sua formazione avvenne molto precocemente, e quando cominciammo ad andare a scuola aveva già una personalità ben definita. Fanshawe si distingueva, mentre noi altri eravamo creature amorfe, che trascorrevano ciecamente da un istante all’altro nelle convulsioni di un costante fermento. Non voglio dire che sia cresciuto in fretta – non è mai sembrato più grande della sua età – ma che era già se stesso prima di essere cresciuto. Non so perché, ma non andò mai soggetto a radicali trasformazioni come noi. I suoi drammi furono di altro genere: più interiori, e anche più tormentosi, ma senza quei repentini cambiamenti che sembravano costellare la vita di tutti gli altri. Ho un ricordo particolarmente vivido. Riguarda una festa di compleanno cui Fanshawe e io fummo invitati in prima o in seconda elementare, cioè proprio all’inizio dei tempi che riesco a ricordare con accettabile precisione. Era un sabato pomeriggio di primavera, e ci recammo alla festa a piedi, con un altro bambino, un nostro amico di nome Dennis Walden. La vita di Dennis era molto più difficile della nostra: aveva la madre alcolizzata, il padre troppo preso dal lavoro, un nugolo di fratelli e sorelle. Ero stato un paio di volte a casa sua – un edificio immenso, buio e cadente – e ricordo che la vista di sua madre mi spaventò, somigliava alla strega delle fiabe. Passava tutta la giornata in camera, con la porta chiusa, sempre in accappatoio, la faccia pallida come un incubo di rughe, sporgendo ogni tanto la testa dall’uscio per inveire urlando contro i figli. Il giorno della festa, Fanshawe e io eravamo convenientemente provvisti di regali da portare al festeggiato, tutti
confezionati in carta multicolore e annodati con nastri. Invece Dennis non aveva nulla, ed era mortificato. Ricordo di avere cercato di consolarlo con qualche frasetta poco originale: non importa, nessuno ci farà caso, in quella confusione passerai inosservato. Ma Dennis soffriva, e Fanshawe se ne accorse subito. Senza nessun preambolo, si voltò verso Dennis e gli consegnò il suo regalo. Ecco, disse, prendi questo, dirò che il mio l’ho dimenticato a casa. Lì per lì pensai che Dennis non avrebbe apprezzato, che si sarebbe sentito offeso dalla compassione di Fanshawe. Ma mi sbagliai. Esitò per un attimo cercando di assorbire quella giravolta della sorte, poi annuì, come per confermare la saggezza di Fanshawe. Non era stata un’elemosina, ma un atto di giustizia, e perciò Dennis poteva accettarlo senza sentirsi umiliato. Una realtà era stata tramutata in un’altra. Come per magia, grazie a una combinazione di disinvoltura e di convinzione assoluta; e dubito che una persona diversa da Fanshawe ci sarebbe riuscita. Dopo la festa tornai a casa di Fanshawe insieme a lui. C’era sua madre, seduta in cucina, che ci domandò della festa, e se al festeggiato era piaciuto il regalo che aveva scelto per lui. Prima che Fanshawe potesse aprire bocca, spifferai quello che aveva fatto. Non intendevo metterlo nei guai, ma non potei trattenermi. Il gesto di Fanshawe mi aveva aperto tutto un mondo nuovo: l’idea che qualcuno potesse comprendere i sentimenti di un altro e immedesimarvisi così totalmente da non curarsi più dei propri. Era il primo autentico atto morale cui avessi assistito, e non mi sembrava sensato parlare di nient’altro. Ma la madre di Fanshawe non si mostrò altrettanto entusiasta. Sì, disse, era stato un gesto cortese e generoso, ma anche sbagliato. A lei il regalo era costato e Fanshawe, cedendolo, in un certo senso le aveva rubato dei soldi. Inoltre Fanshawe si era comportato maleducatamente presentandosi senza regalo, il che si sarebbe riflesso in modo negativo su di lei, che era responsabile delle sue azioni. Fanshawe ascoltò attentamente sua madre senza dire una parola. Alla fine del rimprovero continuò a tacere, e lei gli chiese se aveva capito. Sì, rispose, aveva capito. Probabilmente il caso si sarebbe chiuso, ma poi, dopo una breve pausa, Fanshawe proseguì dicendo che era ancora convinto di avere ragione. Lo stato d’animo di sua madre contava poco: la prossima volta si sarebbe comportato nello stesso modo. Allo scambio di battute seguì una scenata. La signora Fanshawe si arrabbiò per l’impertinenza del figlio che da parte sua non cedette di un millimetro, facendo muro davanti ai rimproveri materni. Alla fine, la madre gli ordinò di
andare nella sua stanza e mi invitò perentoriamente a tornarmene a casa. Restai sbigottito di fronte a tanta ingiustizia, ma quando cercai di prendere le sue difese Fanshawe mi fece cenno di desistere. Invece di continuare a protestare, accettò il castigo in silenzio e scomparve nella propria stanza. Tutto l’episodio è tipico di Fanshawe: dallo spontaneo atto di bontà alla convinzione incrollabile di avere agito per il meglio, alla muta, quasi passiva accettazione delle conseguenze. Per quanto si comportasse in modo eccezionale, sembrava sempre un po’ distaccato. Era soprattutto questa caratteristica che a volte mi spingeva a evitarlo. Mi facevo così vicino a Fanshawe, lo ammiravo così intensamente, provavo un desiderio così disperato di emularlo. Poi, a un tratto, in un attimo, capivo che mi era estraneo, che quella vita così interiorizzata non avrebbe mai potuto corrispondere al modo in cui io avevo bisogno di vivere. Volevo troppe cose, nutrivo troppi desideri, ero troppo rapito dal presente per poter mai raggiungere quell’indifferenza. Mi importava riuscire, impressionare gli altri con i vacui trofei della mia ambizione: le votazioni alte, le iniziali della scuola per meriti sportivi, premi e menzioni per la più insignificante verifica settimanale. Fanshawe si teneva in disparte da tutto questo, restando nel suo angolo in silenzio, senza mostrare attenzione. Se otteneva buoni risultati era sempre a dispetto di se stesso, senza combattere, senza sforzarsi, senza interesse per ciò che aveva fatto. Questo atteggiamento poteva risultare esasperante, e impiegai molto tempo per imparare che quello che andava bene a Fanshawe non andava necessariamente bene anche a me. D’altra parte non voglio esagerare. Anche se alla fine Fanshawe e io ci rivelammo diversi, il più vivo ricordo che ho dell’infanzia è l’intensità della nostra amicizia. Eravamo vicini di casa, e i nostri cortili, non essendo divisi da steccati, si confondevano in un unico spiazzo d’erba, terriccio e ghiaia, come se appartenessimo alla stessa famiglia. Le nostre madri erano intime amiche, i nostri padri compagni di tennis, e non avevamo fratelli maschi: le condizioni ideali, perciò, dato che niente si frapponeva tra noi. Eravamo nati a meno di una settimana di distanza l’uno dall’altro e trascorremmo la prima infanzia insieme nel cortile, esplorando l’erba a gattoni, strappando i fiori, alzandoci e muovendo i primi passi lo stesso giorno (ci sono foto che lo documentano). Più tardi, sempre in cortile, imparammo insieme a giocare a football e a baseball. Nel cortile costruivamo i nostri fortini, facevamo i nostri giochi, inventavamo i nostri mondi, finché poi vennero le nostre scorribande
per la città, i lunghi pomeriggi in bicicletta, le conversazioni interminabili. Non credo che mi sarebbe possibile conoscere bene qualcuno come allora conoscevo Fanshawe. Mia madre ricorda che eravamo talmente legati che un giorno, a sei anni, le domandammo se due uomini si possono sposare. Da grandi volevamo vivere insieme, e chi vive insieme se non le coppie sposate? Fanshawe voleva fare l’astronomo, e io il veterinario. Pensavamo di abitare in una grande casa in campagna: un posto dove di notte il cielo sarebbe stato abbastanza scuro da vedere tutte le stelle, e io avrei avuto animali da curare in abbondanza. Retrospettivamente, mi sembra naturale che Fanshawe diventasse uno scrittore. La sua stessa severità introspettiva sembrava imporlo. Già alle elementari scriveva brevi racconti, e credo che dai dieci o dodici anni abbia sempre pensato a se stesso come scrittore. Naturalmente all’inizio non fece nulla di eccezionale. Prese a modelli Poe e Stevenson, e i risultati furono i soliti sproloqui dei ragazzini. «Una notte, nell’anno del Signore Millesettecento e cinquantuno, m’incamminavo in un’atroce tormenta verso la magione dei miei avi, allorché fra la neve m’imbattei in una figura spettrale». Paccottiglia di questo genere, condita con frasi roboanti e inverosimili colpi di scena. Ricordo che in sesta Fanshawe scrisse un breve romanzo poliziesco di una cinquantina di pagine, che l’insegnante gli faceva leggere in classe, a puntate di dieci minuti, ogni giorno alla fine delle lezioni. Eravamo tutti fieri di Fanshawe, e sorpresi dalla drammaticità della sua lettura, in cui interpretava le parti dei diversi personaggi. La trama ora mi sfugge, ma ricordo che era incredibilmente complicata, e che la soluzione si basava su qualcosa come lo scambio di identità fra due coppie di gemelli. Tuttavia Fanshawe non viveva per i libri. Era troppo portato per gli sport, troppo al centro di tutti noi per rinchiudersi in se stesso. In quei primi anni, sembrava non ci fosse niente che non sapesse far bene: anzi, meglio di tutti. Era il più bravo a baseball, il primo della classe, il bambino più bello. Sarebbe bastato uno solo di questi primati per eccellere: ma tutti insieme lo facevano apparire eroico, un bambino prediletto dagli dei. Eppure, anche se era tanto eccezionale, restava uno di noi. Fanshawe non era né un piccolo genio né un bambino prodigio: non aveva talenti miracolosi che lo avrebbero isolato dai suoi coetanei. Era un bambino assolutamente normale… ma, se possibile, più normale della norma, più in armonia con se stesso: il bambino più idealmente normale di tutti.
Il Fanshawe che ho conosciuto non aveva un carattere spavaldo. Tuttavia a volte mi sbalordiva per la sua determinazione a lanciarsi nei pericoli. Sotto un velo di compostezza, sembrava nascondere una grande oscurità: una necessità di cimentarsi, di correre dei rischi, di trovarsi sul filo del rasoio. Da bambino adorava andare a giocare nei cantieri edili, inerpicandosi per scale e impalcature, restando in equilibrio sulle assi sopra un baratro di macchinari, sacchetti di sabbia e malta. Mentre Fanshawe eseguiva queste acrobazie io mi tenevo dietro le quinte, fra me e me supplicandolo di smetterla, ma senza mai dire nulla. Avrei voluto andarmene, ma temevo che cadesse. Con il passare del tempo, questi slanci divennero meno aleatori. Fanshawe mi parlava dell’importanza di «assaporare la vita». Cercare le asperità, spiegava, andare alla scoperta dell’ignoto: era questo che desiderava, e sempre più intensamente a mano a mano che diventava grande. Una volta, avremo avuto quindici anni, mi convinse a passare il fine settimana con lui a New York: vagabondammo per le strade, dormimmo su una panchina della vecchia Penn Station, parlammo con i barboni, misurammo la nostra resistenza al digiuno. Ricordo di essermi ubriacato a Central Park alle sette di una domenica mattina e di avere vomitato in mezzo all’erba. Per Fanshawe fu una tappa fondamentale – un nuovo passo per verificare se stesso – ma per me fu solo sordido, un’infelice degenerazione in qualcosa che non ero. Non per questo cessai di seguirlo, come un testimone stordito che partecipava alla ricerca senza condividerla; un Sancho adolescente in groppa al mio somaro, che guardavo l’amico dar battaglia a se stesso. Un mese o due dopo il nostro fine settimana da barboni, Fanshawe mi condusse in un bordello di New York (era stato un suo amico a organizzare la visita) e fu lì che perdemmo la verginità. Ricordo un appartamentino con i muri di arenaria nello Upper West Side, vicino al fiume: angolo di cottura e camera da letto buia, separati da una tenda sottile. C’erano due donne di colore, una grassa e vecchia, l’altra giovane e carina. Dato che nessuno di noi voleva la più anziana, bisognò decidere chi andava per primo. Se la memoria non mi inganna, uscimmo nell’ingresso e lanciammo la tradizionale monetina. Naturalmente vinse Fanshawe, e due minuti dopo mi ritrovai seduto nella piccola cucina con la signora grassa. Mi chiamava tesorino, ripetendomi a intervalli che se avessi cambiato idea lei era ancora disponibile. Io ero troppo nervoso per prendere qualunque iniziativa, ma scuotevo la testa e, insomma, restai seduto ad ascoltare il respiro pesante e trafelato di
Fanshawe al di là della tenda. Riuscivo a pensare una cosa soltanto: che di lì a poco il mio uccello si sarebbe trovato dove adesso c’era quello di Fanshawe. Poi fu il mio turno, e in tutti questi anni non ho mai avuto idea di come si chiamasse la ragazza. Era la prima donna nuda che vedevo, voglio dire in carne e ossa, e presentava la propria nudità in modo così disinvolto e amichevole che forse tutto sarebbe andato a meraviglia se non fossi stato distratto dalle scarpe di Fanshawe, che spuntavano fra tenda e pavimento riflettendo la luce della cucina, come staccate dal suo corpo. La ragazza era gentile e fece del suo meglio per aiutarmi, ma fu una lunga lotta, e anche al culmine non provai nessun vero piacere. Poi, quando uscii con Fanshawe nel crepuscolo, non trovai molto da dire. Lui invece appariva piuttosto soddisfatto, come se l’esperienza avesse contribuito a confermare la sua teoria che la vita va assaporata. Compresi allora che Fanshawe ne era molto più vorace di quanto io non sarei mai stato. La nostra vita nei sobborghi scorreva ovattata. New York distava appena ventisei miglia, ma in confronto al nostro piccolo mondo di prati e case di legno avrebbe potuto essere lontana come la Cina. Compiuti i tredici o quattordici anni, Fanshawe diventò una specie di esule interiore, che eseguiva le mosse prescritte dalla consuetudine, ma in realtà era sradicato dal suo ambiente e disprezzava la vita che lo costringevano a vivere. Non diventò sprezzante, e nemmeno apertamente ribelle: si appartò e basta. Con tutta l’attenzione che aveva suscitato da bambino, quando era sempre alla ribalta, prima che cominciassimo il liceo Fanshawe era quasi sparito, votandosi a un’ostinata marginalità. Sapevo che aveva cominciato a scrivere seriamente (anche se dai sedici anni in poi non fece più leggere i suoi lavori a nessuno), ma lo interpreto più come un sintomo che come una causa. In seconda liceo, per esempio, Fanshawe fu l’unico alunno della nostra classe a essere ammesso nella squadra di baseball della scuola. Giocò molto bene per alcune settimane, poi, apparentemente senza motivo, abbandonò la squadra. Ricordo quando mi raccontò l’episodio, il giorno dopo: era entrato nell’ufficio dell’allenatore e gli aveva restituito la tenuta di gioco. L’allenatore aveva appena fatto la doccia, e quando Fanshawe entrò era in piedi vicino al tavolo nudo come un bruco, con un sigaro in bocca e il berretto da baseball sulla testa. Fanshawe si appassionò alla descrizione, soffermandosi sull’assurdità della scena e arricchendola con dettagli del corpo chiatto e atticciato dell’allenatore, dell’illuminazione della stanza, della pozzanghera sul
pavimento di cemento grigio: ma limitandosi appunto a una descrizione, a una catena di parole scevre di ogni partecipazione personale. Restai deluso da quella rinuncia, ma Fanshawe non mi spiegò mai che cosa era successo, si limitò a dire che il baseball lo annoiava. Come molte persone dotate, a un certo momento anche Fanshawe smise di provare soddisfazione nel fare le cose che gli riuscivano facilmente. Avendo fin da piccolo soddisfatto ogni richiesta, probabilmente era naturale che andasse in cerca di nuove sfide altrove. E dati i limiti impostigli dalla sua vita di liceale di provincia, il fatto che quell’altrove lo abbia trovato dentro di sé non è né sorprendente né insolito. Ma credo che ci fossero altre ragioni. In quel periodo la famiglia di Fanshawe fu colpita da alcuni avvenimenti profondamente significativi, che sarebbe scorretto tralasciare. Se poi essi abbiano avuto un peso decisivo, è un’altra questione, ma in linea di massima credo che tutto sia importante. A conti fatti, la vita si riduce a una somma di incontri fortuiti, di coincidenze, di fatti casuali che non rivelano altro che la loro mancanza di scopo. Quando Fanshawe aveva sedici anni, scoprirono che suo padre era malato di cancro. Per un anno e mezzo guardò il padre morire, e in quel periodo la sua famiglia cominciò lentamente a sgretolarsi. La più colpita fu forse la madre di Fanshawe. Mantenendo stoicamente le apparenze, facendosi carico dei consulti medici e delle questioni finanziarie e cercando di governare la casa, oscillava fra il più totale ottimismo sulle speranze di guarigione e uno stato di disperazione paralizzante. Secondo Fanshawe non fu mai capace di accettare l’unica inesorabile realtà che le stava costantemente davanti. Sapeva cosa sarebbe successo, ma non aveva la forza di ammetterlo, e piano piano cominciò a vivere come trattenendo il fiato. Si comportava in modo sempre più bizzarro: orge notturne di maniacali pulizie domestiche, il terrore di rimanere in casa da sola (combinato con assenze improvvise e ingiustificate) e un assortimento completo di malanni immaginari (allergie, ipertensione, capogiri). Verso la fine, cominciò a interessarsi a diverse teorie astruse – astrologia, fenomeni psichici, vaghi precetti spiritualisti sull’anima – fino a quando divenne impossibile parlarle senza essere zittiti da qualche filippica sulla corruzione del corpo umano. I rapporti tra Fanshawe e la madre diventarono tesi. La donna cercava sostegno nel figlio comportandosi come se il dolore familiare gravasse esclusivamente su di lei. Fanshawe doveva essere il sostegno della casa: non
gli spettò solo di badare a se stesso, ma anche di farsi carico della sorella, che aveva appena dodici anni. Ma questo implicò un’altra serie di problemi: perché Ellen era una bambina ansiosa e instabile, e nel vuoto parentale determinato dalla malattia cominciò a fare riferimento solo a Fanshawe. Lui diventò suo padre, sua madre, la sua fonte di consigli e di conforto. Fanshawe capiva che quella dipendenza era insidiosa, ma poteva fare ben poco se non voleva rischiare di ferirla irreparabilmente. Ricordo che mia madre parlava della «povera Jane» (la signora Fanshawe) e di quanto era terribile la situazione per la «bambina». Ma io sapevo che alla fin fine quello che soffriva di più era Fanshawe. Solo, non ebbe mai la possibilità di darlo a vedere. Quanto al padre di Fanshawe, non posso dire di saperne molto. Per me era una sfinge, un uomo taciturno, di una benevolenza distaccata, e non lo conobbi mai a fondo. Mentre mio padre generalmente passava tanto tempo con noi, specialmente nei fine settimana, il padre di Fanshawe si vedeva di rado. Era un avvocato abbastanza in vista, e a un certo punto aveva nutrito ambizioni politiche, risoltesi però in una serie di delusioni. Solitamente lavorava fino a tardi, lo sentivamo entrare nel vialetto alle otto o alle nove di sera, e spesso trascorreva il sabato e parte della domenica in ufficio. Dubito che abbia mai saputo come comportarsi con il figlio, perché sembrava un uomo incapace di comprendere i bambini, sembrava che si fosse completamente scordato di essere stato bambino anche lui. Il signor Fanshawe era così integralmente adulto, così totalmente immerso in faccende serie, da grandi, che immagino gli risultasse difficile non vederci come creature di un altro mondo. Quando morì non aveva nemmeno cinquant’anni. Gli ultimi sei mesi di vita, dopo che i dottori avevano abbandonato ogni speranza di salvarlo, li passò nella camera degli ospiti di casa Fanshawe, guardando il cortile dalla finestra, leggendo qualche libro, prendendo gli analgesici e sonnecchiando. Fanshawe passava la maggior parte del tempo con lui, e anche se posso solo immaginare cosa accadde, credo che il rapporto fra loro sia cambiato. Almeno, so che Fanshawe si prodigò in ogni modo a questo scopo, saltando spesso scuola per tenergli compagnia, cercando di rendersi indispensabile, accudendolo con indomita assiduità. Per Fanshawe fu un’esperienza atroce, forse eccessiva, e anche se sembrò reggervi, facendo perno su tutto l’ardore
di cui dispongono solo i giovanissimi, a volte mi domando se sia mai riuscito a superarla. Vorrei aggiungere un ultimo episodio. Al termine di questo periodo – proprio al termine, quando nessuno sperava che il padre di Fanshawe sopravvivesse più di qualche giorno – dopo la scuola Fanshawe e io facemmo un giro in auto. Era febbraio, e pochi minuti dopo la partenza cominciò una leggera nevicata. Viaggiammo senza meta, deviando per attraversare qualche città vicina senza curarci troppo della nostra posizione. A dieci o quindici miglia da casa incontrammo un cimitero: per caso il cancello era aperto, e decidemmo di entrare. Poco dopo fermammo la macchina e cominciammo a passeggiare. Leggemmo qualche iscrizione sulle lapidi, fantasticando sui corsi delle diverse vite, tacemmo, camminammo ancora un po’, restammo di nuovo in silenzio. Ora la neve cadeva fitta e il terreno si stava imbiancando. Nella zona centrale del cimitero c’era una tomba scavata di fresco, e Fanshawe e io ci fermammo sull’orlo e guardammo sotto. Ricordo un incredibile silenzio, il mondo ci sembrava remotissimo. Per molto tempo nessuno parlò, poi Fanshawe disse che voleva vedere com’era giù in fondo. Gli detti la mano e lo tenni saldamente mentre si calava nella fossa. Quando toccò terra con i piedi, alzò gli occhi e mi guardò sorridendo, poi si sdraiò supino per fingersi morto. Ne conservo un’immagine chiarissima: io che guardavo in basso verso Fanshawe che guardava in alto verso il cielo, sbattendo le palpebre all’impazzata per la neve che gli cadeva sul viso. Qualche oscura concatenazione di pensieri mi riportò alla nostra prima infanzia, non avevamo più di quattro o cinque anni. I genitori di Fanshawe avevano comprato un nuovo elettrodomestico, forse un televisore, e per alcuni mesi Fanshawe tenne in camera sua il cartone d’imballaggio. Era sempre stato generoso nel dividere i suoi giochi, ma quella scatola mi rimase inaccessibile, non ebbi mai il permesso di entrarvi. Mi spiegò che era un luogo segreto, e quando entrava e la chiudeva intorno a sé poteva andare dove voleva, essere tutto quello che voleva. Ma se nella scatola si fosse introdotta un’altra persona, la sua magia sarebbe svanita per sempre. Io credetti alla storia e non insistetti per fargli cambiare idea, anche se soffrii molto. Giocavamo in camera sua, schierando silenziosamente i soldatini o disegnando, quando a un tratto Fanshawe annunciava che sarebbe entrato nella scatola. Io mi sforzavo di proseguire nel mio gioco, ma era inutile. Niente poteva interessarmi come ciò che succedeva a Fanshawe nella scatola,
e passavo quei minuti nel disperato tentativo di immaginare le avventure che stava vivendo. Ma non seppi mai di cosa si trattasse, dato che per Fanshawe era contro le regole parlarne dopo essere uscito. Adesso, nella tomba spalancata sotto la neve, si ripresentava una situazione simile. Fanshawe era solo lì dentro, solo con i suoi pensieri, a vivere quei momenti in solitudine, e anche se ero presente mi trovavo escluso dall’avvenimento come se non ci fossi stato affatto. Capii che quello era il modo di Fanshawe di immaginarsi la morte del padre. Di nuovo, tutto dipendeva dal caso: c’era una tomba aperta e Fanshawe aveva sentito il suo richiamo. Come ha detto qualcuno, le storie capitano solo a chi le sa raccontare. Analogamente, forse, le esperienze si presentano solo a chi è capace di viverle. Ma questo è un punto controverso, non ne sono sicuro. Restai in attesa che Fanshawe risalisse, cercando di immaginare a che cosa pensava e sforzandomi per un istante di vedere quello che vedeva lui. Poi sollevai la testa verso il cielo invernale che imbruniva e tutto si trasformò nel caos della neve che cadeva su di me. Quando ci incamminammo verso l’auto, era scesa la sera. Attraversammo arrancando il cimitero senza scambiare una sola parola. Erano scesi molti centimetri di neve, e nevicava ancora, sempre più forte, come se non dovesse più cessare. Raggiungemmo la macchina, salimmo e poi, con il massimo stupore, scoprimmo che non potevamo muoverci. Le ruote posteriori erano bloccate in una cunetta, e i nostri sforzi non giunsero a nulla. Spingemmo l’auto, cercammo di spostarla, ma le gomme giravano a vuoto con un atroce, inutile frastuono. Dopo mezz’ora rinunciammo, decidendo a malincuore di abbandonare l’auto. Facemmo l’autostop fino a casa sotto la tormenta, e impiegammo altre due ore prima di arrivare. Solo allora venimmo a sapere che il padre di Fanshawe era morto durante il pomeriggio.
3. Passarono dei giorni prima che trovassi il coraggio di aprire le valigie. Terminai l’articolo che stavo scrivendo, andai al cinema, accettai inviti che normalmente avrei rifiutato. Tuttavia non mi illudevo sull’efficacia di queste manovre. Il mio responso aveva un peso terribile, e non volevo affrontare la possibilità di restare deluso. Nella mia mente non c’era differenza tra dare l’ordine di distruggere l’opera di Fanshawe e ucciderlo con le mie mani. Mi era stato conferito il potere di condannarlo all’oblio, di sottrarre un cadavere dalla tomba e farlo a pezzi. Era una situazione intollerabile, e non volevo saperne. Finché le valigie rimanevano intatte, avrei avuto la coscienza tranquilla. D’altra parte avevo promesso, e sapevo che non avrei potuto rimandare all’infinito. Fu proprio a questo punto (mentre mi assuefacevo all’idea e mi preparavo ad agire) che fui colto da un nuovo timore. Scoprii che, se non volevo che l’opera di Fanshawe fosse mediocre, non volevo neppure che fosse interessante. Mi è difficile spiegare questo sentimento. Sicuramente era legato alle vecchie rivalità, al desiderio di non essere umiliato dalla genialità di Fanshawe, ma nasceva anche dalla sensazione di essere stato preso in trappola. Avevo dato la mia parola. Una volta aperte le valigie, sarei diventato il portavoce di Fanshawe e, lo volessi o no, avrei parlato in vece sua. Entrambe le possibilità mi atterrivano. Pronunciare una condanna a morte era orribile, ma lavorare per un morto non sembrava molto meglio. Per alcuni giorni oscillai tra queste paure senza stabilire quale fosse la più spaventosa. Naturalmente alla fine aprii le valigie. Ma a quel punto è probabile che non l’abbia fatto più tanto per Fanshawe quanto per Sophie. Volevo rivederla, e prima mi mettevo al lavoro, prima avrei avuto un motivo per chiamarla. In questa sede non scenderò nei particolari. Ormai tutti conoscono le qualità dell’opera di Fanshawe. È stata letta e commentata, si sono scritti articoli e saggi, è diventata di dominio pubblico. Se posso aggiungere qualcosa, è solo che non mi occorse più di un’ora o due per capire che i miei sentimenti personali erano irrilevanti. Amare le parole, investire una parte di
sé in quello che è scritto, credere nel potere dei libri: tutto ciò sommerge il resto, e al confronto la propria vita individuale diventa insignificante. Non dico questo per autoelogiarmi o porre le mie azioni in una luce migliore. Fui il primo, ma a parte questo non vedo niente che mi distingua da chiunque altro. Se l’opera di Fanshawe avesse avuto un po’ meno valore, il mio ruolo sarebbe stato diverso: forse più importante, più decisivo per l’esito della storia. Ma in effetti non fui altro che uno strumento invisibile. Un fenomeno era in atto, e a meno di negarlo, a meno di fingere di non avere aperto le valigie, avrebbe continuato a manifestarsi, abbattendo ogni ostacolo, procedendo di slancio. Impiegai circa una settimana per assimilare e ordinare il materiale, dividendo le opere compiute dagli abbozzi e raccogliendo i manoscritti secondo una parvenza di ordine cronologico. Il primo componimento era una poesia datata 1963 (quando Fanshawe aveva sedici anni), mentre l’ultimo era del 1976 (appena un mese prima della scomparsa). In tutto c’erano più di cento poesie, tre romanzi (due brevi e uno lungo) e cinque atti unici oltre a tredici taccuini contenenti un gran numero di pièces abortite, abbozzi, appunti, commenti sui libri che Fanshawe stava leggendo e idee per futuri progetti. Non c’erano né lettere, né diari, né allusioni alla sua vita privata. Ma questo me lo aspettavo. Un uomo non si isola in disparte dal mondo senza confondere accuratamente le proprie tracce. Tuttavia, ero convinto che in qualche punto delle sue carte avrei trovato un accenno alla mia persona: almeno una lettera di istruzioni, o una nota con cui mi nominava suo agente postumo. Ma non c’era nulla. Fanshawe mi aveva lasciato completamente solo. Telefonai a Sophie invitandola a cena la sera dopo. Credo abbia indovinato il mio giudizio sugli scritti di Fanshawe, perché proposi un rinomato ristorante francese (ben superiore alle mie possibilità). Ma a parte questa allusione celebrativa, osservai il massimo riserbo. Volevo che tutto avvenisse a tempo debito: niente movimenti bruschi, niente iniziative premature. Ero già certo del valore letterario di Fanshawe, ma temevo di precipitare le cose con Sophie. La posta in gioco era troppo alta, avrei provocato danni troppo gravi con una falsa partenza. Adesso Sophie e io eravamo legati, che lei lo sapesse o no – almeno in quanto soci nel divulgare l’opera di Fanshawe. Ma io volevo di più, e volevo che anche Sophie lo
volesse. Frenai l’impazienza e mi imposi di procedere con calma, riflettendo prima di agire. Indossava un vestito di seta nera, piccoli orecchini d’argento, e si era ravviati i capelli all’indietro per evidenziare lo slancio del collo. Quando entrò nel ristorante e mi vide seduto al bar, mi rivolse un sorriso luminoso e complice, come per dirmi che era cosciente della sua bellezza e nello stesso tempo sottolineare l’ambiguità della situazione, quasi per assaporarla, per crogiolarsi nella consapevolezza dei suoi risvolti sconvenienti. Le dissi che era uno schianto, e lei rispose un po’ civettuola che dalla nascita di Ben era la prima sera in cui usciva, e aveva voluto «apparire diversa». Poi cominciai a parlare di lavoro, cercando di rientrare nei ranghi. Quando ci accompagnarono al tavolo e ci assegnarono i posti (tovaglia bianca, posate d’argento massiccio, un tulipano rosso in un vaso sottile a centro tavola), risposi al suo secondo sorriso mettendomi a parlare di Fanshawe. Non sembrò stupirsi di nessuna delle cose che le dissi. Per lei erano una realtà acquisita, a cui si era abituata da tempo, e le mie parole non furono che la conferma di quanto già sapeva. Strano, ma non manifestò neanche la minima emozione. La sua circospezione mi sconcertava, e per qualche minuto mi sentii in imbarazzo. Poi, lentamente, cominciai a capire che i suoi sentimenti non erano diversi dai miei. Fanshawe era scomparso dalla sua vita, e pensai che avesse il diritto di provare risentimento per il peso che le aveva addossato. Pubblicando le opere di Fanshawe, dedicandosi a un uomo che non c’era più, sarebbe stata costretta a vivere nel passato, e qualunque futuro si fosse costruita sarebbe stato marchiato dal ruolo che doveva impersonare: la vedova ufficiale, la musa del letterato defunto, la bellissima eroina di tragedia. Nessuno vuole essere un personaggio fittizio, tanto meno se la finzione è reale. Sophie aveva solo ventisei anni. Era troppo giovane per vivere attraverso un altro, troppo intelligente per non desiderare una vita tutta sua. Il fatto che avesse amato Fanshawe non cambiava la situazione. Fanshawe era morto, ed era il momento di voltare pagina. Niente di tutto ciò fu detto esplicitamente. Ma aleggiava fra noi, e sarebbe stato assurdo ignorarlo. Date le mie riserve, era strano che toccasse proprio a me assumere l’iniziativa, ma capivo che se non avessi preso il toro per le corna non avremmo mai concluso nulla. – Non è necessario che tu partecipi attivamente, – dissi. – Naturalmente dovremo consultarci, ma non perderai molto tempo. Se
mi lasci carta bianca, credo che saprò cavarmela discretamente. – Certo che acconsento, – rispose. – Non so proprio niente di queste cose. Se tentassi di occuparmene da sola, dopo cinque minuti sarei già in un vicolo cieco. – L’importante è sapere che siamo dalla stessa parte, – dissi. – Credo che a conti fatti la questione sia solo se ti fidi di me oppure no. – Mi fido, – disse lei. – Ma non ti ho dato nessuna garanzia, – dissi. – Almeno, non ancora. – Lo so. Ma mi fido ugualmente. – Così, senza motivo? – Sì. Senza motivo. Mi sorrise di nuovo, e per il resto della cena non parlammo più degli scritti di Fanshawe. Avevo programmato di analizzare la questione nei dettagli – quali passi era meglio compiere inizialmente, quali editori potevano essere interessati, le persone da contattare eccetera – ma mi sembrò che non contasse più. Sophie era contenta di non occuparsene, e ora che l’avevo rassicurata su questo punto, piano piano ritrovò l’allegria. Dopo tanti mesi difficili poteva finalmente accantonare un po’ la sua situazione, e mi apparve evidente che aveva voglia di abbandonarsi ai semplici piaceri del momento: il ristorante, il cibo, le risate della gente intorno a noi, il fatto di trovarsi lì e non altrove. Desiderava essere assecondata in tutto questo, e io chi ero mai per negarglielo? Quella sera mi sentivo in forma. Sophie mi ispirava, e non faticai molto per scaldarmi. Raccontai barzellette e aneddoti, eseguii piccoli giochi di destrezza con le posate. Quella donna era così bella che non riuscivo a staccare lo sguardo da lei. Volevo vederla ridere, vedere le reazioni del suo volto a quello che dicevo, scrutarne gli occhi, studiarne i gesti. Dio solo sa che stupidaggini mi uscirono di bocca, ma cercai di restare più distaccato che potevo, di celare i miei veri propositi sotto questo attacco di charme. Fu la parte più difficile. Sapevo che Sophie era sola, che aveva bisogno del calore di un corpo accanto a sé, ma io non cercavo il piacere di una notte, e se avessi accelerato troppo i tempi probabilmente tutto si sarebbe risolto in questo. Allo stadio iniziale Fanshawe era ancora insieme a noi, rappresentava il tacito legame, la forza invisibile che ci aveva uniti. Ci sarebbe voluto del tempo prima che svanisse, e fino a quando accadde scoprii che avevo voglia di aspettare.
Tutto questo creò una tensione deliziosa. Col passare della sera, le considerazioni più casuali si caricavano di sottintesi erotici. Le parole non erano più semplici parole, ma un misterioso codice di silenzi, un modo di esprimersi in costante movimento entro i confini del discorso. Finché evitavamo il punto centrale, l’incantesimo non si sarebbe rotto. Entrambi scivolammo senza sforzo in questo gioco di schermaglie, che divenne tanto più potente perché nessuno dei due abbandonava la finzione. Sapevamo quello che stavamo facendo, e al contempo fingevamo di non saperlo. Così iniziò il mio corteggiamento di Sophie: lentamente, dignitosamente, progredendo a passi impercettibili. Dopo cena passeggiammo una ventina di minuti nell’oscurità della fine di novembre, per concludere la serata con un drink in un bar del centro. Fumai una sigaretta dopo l’altra, ma fu l’unico segno della mia agitazione. Sophie accennò alla sua famiglia nel Minnesota, alle tre sorelle minori, al suo arrivo a New York otto anni prima, alla musica, all’insegnamento, al progetto di riprenderlo il prossimo autunno… ma ormai l’atmosfera era così irremovibilmente giuliva che ogni frase diventava un pretesto per prolungare l’ilarità. Avremmo continuato all’infinito, ma bisognava tenere conto della baby sitter, e così verso mezzanotte ci interrompemmo. La accompagnai alla porta del suo appartamento e mi sobbarcai l’ultimo sforzo titanico della serata. – Grazie, dottore, – disse Sophie. – L’intervento è riuscito. – I miei pazienti sopravvivono sempre, – dissi. – È merito del gas esilarante. Giro la valvola, e piano piano si sentono meglio. – Quel gas potrebbe dare assuefazione. – È questo il punto. I pazienti ritornano perché ne vogliono ancora… a volte anche due o tre interventi alla settimana. Come pensa che abbia fatto a pagare il mio appartamento in Park Avenue e la casa al mare in Francia? – Allora c’è un motivo nascosto. – Certamente. Sono mosso dalla cupidigia. – I suoi affari andranno a gonfie vele. – Un tempo, sì. Ma ora mi sono praticamente ritirato. In questi giorni mi è rimasta una sola paziente… e non sono sicuro che tornerà. – Oh, tornerà, – disse Sophie con il sorriso più raggiante e seducente che avessi mai visto. – Ci può contare. – Questo mi fa piacere, – risposi. – La farò chiamare dalla mia segretaria
per fissare il prossimo appuntamento. – Al più presto possibile. Sono terapie lunghe, e non c’è un minuto da perdere. – Ottimo consiglio. Dovrò ricordarmi di ordinare una nuova fornitura di gas esilarante. – Sì, dottore, la prego. Penso proprio di averne bisogno. Ci scambiammo ancora un sorriso; poi la cinsi in un abbraccio forte e appassionato, la baciai fuggevolmente sulle labbra e scesi le scale a tutta velocità. Tornai dritto a casa, capii che di andare a dormire non se ne parlava nemmeno, e rimasi due ore davanti alla televisione, a guardare un film su Marco Polo. Finalmente, verso le quattro, crollai, nel bel mezzo di una replica di Ai confini della realtà. La mia prima mossa fu contattare Stuart Green, direttore editoriale in una casa editrice di grido. Non lo conoscevo molto bene, ma eravamo cresciuti nella stessa città e Roger, il suo fratello minore, era stato compagno di scuola mio e di Fanshawe. Pensai che Stuart si sarebbe ricordato di Fanshawe, e questo mi sembrava già un buon inizio. In quegli anni avevo incontrato Stuart ad alcuni convegni, forse tre o quattro volte, e si era sempre mostrato cordiale, parlando dei bei tempi andati (li chiamava così) e promettendomi immancabilmente di salutarmi Roger la prima volta che lo vedeva. Non sapevo proprio cosa aspettarmi da Stuart, ma quando gli telefonai mi sembrò abbastanza contento di sentirmi. Concordammo di vederci nel suo ufficio un pomeriggio di quella settimana. Impiegò qualche secondo per inquadrare il nome di Fanshawe. Disse che gli suonava familiare, ma non ricordava il perché. Gli rinfrescai un poco la memoria, menzionando Roger e i suoi amici, e a un tratto gli venne in mente. – Ma sì, ma sì, ma certo, – disse. – Fanshawe. Quel bambino prodigio. Roger diceva sempre che sarebbe diventato presidente. – Proprio lui,– dissi, e gli raccontai la storia. Stuart era un tipo piuttosto affettato, stile Harvard, sempre in farfallino e giacca di tweed, e anche se in fin dei conti era poco più che un tirapiedi, nell’editoria uno come lui passava per intellettuale. Fino allora aveva fatto una carriera bruciante – a poco più di trent’anni era già direttore editoriale: insomma, un giovane professionista serio e responsabile – ed era senz’altro in piena ascesa. Dico tutto questo solo per chiarire che non era il tipo da
impressionarsi automaticamente per la storia che gli raccontai. In lui non c’era nessun romanticismo, era tutto cautele e concretezza, ma capii che era interessato, e a mano a mano che parlavo l’interesse divenne eccitazione. Certo, non aveva niente da perdere. Se gli scritti di Fanshawe non gli fossero piaciuti, non avrebbe fatto altro che respingerli. Cestinare era il cuore del suo lavoro, e lo avrebbe fatto senza pentimenti. D’altra parte, se Fanshawe era lo scrittore che io asserivo che fosse, pubblicarlo avrebbe solo contribuito a dar lustro alla reputazione di Stuart. Avrebbe condiviso la gloria della scoperta di un genio americano sconosciuto, e un colpo simile gli avrebbe permesso di vivere sugli allori per anni. Gli passai il manoscritto del grande romanzo di Fanshawe. Alla fine, spiegai, doveva essere o tutto o niente – le poesie, i drammi, gli altri due romanzi – ma questa era l’opera principale di Fanshawe, e mi pareva logico che la leggesse per prima. Naturalmente sto parlando di Nel paese del mai. Stuart dichiarò che il titolo gli piaceva, ma quando mi domandò di descrivergli il contenuto risposi che preferivo di no, pensavo che sarebbe stato meglio se lo scopriva da solo. Reagì inarcando un sopracciglio (probabilmente lo aveva imparato nell’anno trascorso a Oxford), come per dire, immagino, che non dovevo fare il furbo con lui. Ma la realtà è che non volevo forzarlo. Il libro avrebbe agito da sé, e non vedevo perché gli dovessi negare il piacere di entrarci a freddo: senza né mappa né bussola, né la mano paterna di una guida. Ci vollero tre settimane prima che si facesse sentire. Le notizie non erano né buone né cattive, ma lasciavano ben sperare. Stuart disse che il giudizio dei suoi colleghi era stato abbastanza favorevole da far intravedere una pubblicazione, ma prima della decisione definitiva volevano dare uno sguardo al rimanente materiale. Me l’aspettavo – una certa prudenza, non sbilanciamoci troppo – e dissi a Stuart che sarei passato il pomeriggio seguente per lasciargli i manoscritti. – È un libro strano, – disse, additando la copia di Nel paese del mai sulla sua scrivania. – Be’, tutt’altro che il solito romanzo. Non c’è niente di solito. Non siamo ancora sicuri di prenderlo, ma se lo facciamo, pubblicarlo sarà un po’ una scommessa. – Lo so, – risposi. – Ma è questo che lo rende interessante. – Quello che mi dispiace veramente è che Fanshawe non sia qui. Vorrei tanto poter lavorare insieme a lui. Nel libro ci sono cose che credo
andrebbero cambiate, delle parti che sarebbe meglio tagliare. Il libro diventerebbe ancora più forte. – Questo è soltanto orgoglio redazionale, – dissi. – Per voi è impossibile leggere un manoscritto senza provare la voglia di aggredirlo a colpi di matita rossa. Vedi, io credo che le parti su cui adesso nutri perplessità alla fine ti convinceranno, e sarai contento di non averle potute toccare. – Chi vivrà vedrà, – disse Stuart, mal disposto ad arrendersi. – Ma non c’è dubbio, – proseguì, – non c’è nessun dubbio che l’uomo sapesse scrivere. Ho letto il libro più di due settimane fa, e da allora me lo porto impresso qui. Non mi esce dalla mente. Riaffiora di continuo, e sempre nei momenti più strani. Quando esco dalla doccia o passeggio per strada, o alla sera quando vado a letto… insomma, ogni volta che non sto pensando consapevolmente a nulla. E sai che questo non succede molto spesso. In questo lavoro si leggono tanti di quei libri che tendono a confondersi l’un l’altro. Ma quello di Fanshawe si distingue. È come se avesse un suo potere, e lo strano è che non capisco nemmeno cosa sia. – Probabilmente questa è la prova decisiva, – dissi. – È accaduto lo stesso anche a me. Il libro ti si stampa in un angolo del cervello e non puoi più liberartene. – E le altre cose? – Lo stesso, – risposi. – Non smetti di pensarci. Stuart scosse la testa e per la prima volta mi accorsi che era sinceramente impressionato. Non durò che un istante, ma in quell’istante la sua arroganza e la sua prosopopea svanirono di colpo, e mi venne quasi voglia di farmelo piacere. – Credo che abbiamo in mano qualcosa di grosso, – affermò. – Se è come dici, mi sa proprio che è roba grossa. Era vero: anzi, forse superò anche le aspettative di Stuart. Nel paese del mai fu acquistato quel mese stesso con un’opzione sugli altri libri, il mio quarto dell’anticipo era sufficiente a mantenermi per qualche tempo, che mi servì per curare un’edizione delle poesie. Mi recai anche da alcuni registi a chiedere se erano interessati a rappresentare i drammi. Alla fine anche questa iniziativa ebbe successo, e si programmò l’allestimento di tre atti unici in un piccolo teatro del centro: la «prima» avrebbe avuto luogo circa sei settimane dopo l’uscita di Nel paese del mai. Nel frattempo, convinsi il direttore di una delle più importanti riviste con cui collaboravo saltuariamente a pubblicarmi
un articolo su Fanshawe. Mi riuscì un pezzo lungo e suggestivo, che allora mi sembrò una delle cose migliori che avessi mai scritto. Si decise che l’articolo dovesse apparire due mesi prima dell’uscita di Nel paese del mai… insomma, sembrava che stesse succedendo tutto in una volta. Ammetto che restai preso nell’ingranaggio. Una novità tirava l’altra, e prima che me ne rendessi conto era nata una piccola impresa. Credo sia stata una specie di delirio. Mi sentivo come un ingegnere che preme pulsanti e tira leve, affannandosi tra le camere delle valvole e le scatole dei circuiti, sistemando un componente qui, progettando una miglioria là, ascoltando i ronzii, gli sbuffi e i gemiti del marchingegno, dimentico di tutto tranne che del trambusto della mia creatura. Ero lo scienziato pazzo che ha inventato la grande macchina abracadabra, e più fumo ne usciva, più rumore faceva, e più ero soddisfatto. Forse era inevitabile; forse per cominciare avevo bisogno di essere un po’ pazzo. Riconciliarmi con il progetto mi era costato una tale tensione che probabilmente avevo bisogno di un successo personale pari a quello di Fanshawe. All’improvviso disponevo di uno scopo, di qualcosa che mi giustificava e mi faceva sentire importante; e più mi dissolvevo dentro le mie ambizioni verso Fanshawe, più chiaramente mi mettevo a fuoco agli occhi di me stesso. Queste non sono scuse, ma una semplice descrizione di quello che accadde. Ripensandoci, vedo che mi stavo complicando la vita, ma allora non ne sapevo nulla. Anzi: dubito che anche se lo avessi saputo me ne sarebbe importato. Alla base di tutto c’era il desiderio di tenermi in contatto con Sophie. Con il passare del tempo, per me diventò perfettamente naturale telefonarle tre o quattro volte alla settimana, pranzare insieme a lei, andarla a prendere per fare una passeggiata pomeridiana nel quartiere con Ben. La presentai a Stuart Green, la portai a conoscere il regista teatrale, le trovai un avvocato che si occupasse dei contratti e delle altre questioni legali. Sophie reagì a tutto con molta serenità, come se quegli incontri fossero occasioni sociali più che colloqui di lavoro, premurandosi di mostrare ai nostri interlocutori che le decisioni le prendevo io. Intuii che non aveva nessuna intenzione di sentirsi in debito con Fanshawe, e qualunque cosa fosse, o non fosse, accaduta ne avrebbe preso le distanze. Ovviamente i guadagni le facevano piacere, ma non li pose mai in rapporto diretto col lavoro di Fanshawe. Erano una fortuna imprevedibile, un biglietto vincente della lotteria che le era caduto dal cielo,
nient’altro. Sophie fu subito capace di orientarsi in quella bufera. Capì la fondamentale assurdità della situazione, e non essendo né avida né smaniosa di ottenere vantaggi personali, non perse mai la testa. Le feci una corte spietata. Certo, le mie intenzioni erano lampanti, ma forse fu proprio questo a favorirmi. Sophie sapeva che mi ero innamorato di lei, e il fatto che non la spingessi alle corde costringendola a dichiarare i propri sentimenti probabilmente servì più di ogni altra cosa a persuaderla della mia serietà. Del resto, non potevo aspettare in eterno. La discrezione è una virtù, ma in eccesso può rivelarsi fatale. A un certo momento mi accorsi che fra noi i preliminari erano finiti, che la situazione si era stabilizzata. Ora nel ripensare a quel momento sono tentato di usare il tradizionale lessico dell’amore. Vorrei parlare per metafore di impeto, di ardore, di usberghi infranti a colpi di passione irresistibile. Capisco che questi termini possano sembrare retorici, ma credo che alla fine siano esatti. Tutto in me era cambiato, e delle parole che non avevo mai capito all’improvviso acquistarono senso. Fu come una rivelazione, e quando finalmente ebbi il tempo di assorbirla mi domandai come avevo fatto a vivere fino allora senza imparare una cosa tanto semplice. Non parlo tanto del desiderio, quanto della consapevolezza, della scoperta che due persone, tramite il desiderio, possono creare una realtà più potente di quella che ciascuna potrebbe creare da sola. Credo che tale consapevolezza mi trasformò, facendomi veramente sentire più umano. Appartenendo a Sophie cominciai a provare la sensazione di appartenere anche a tutti gli altri. Compresi che il mio posto nel mondo corrispondeva a un punto al di là di me stesso, e che quel punto, pur trovandosi dentro di me, non era localizzabile. Era la piccola intercapedine tra il sé e il non–sé, e per la prima volta in vita mia questo non–luogo mi apparve come il centro esatto del mondo. Arrivò il mio trentesimo compleanno. Conoscevo Sophie da tre mesi, e lei volle festeggiare a tutti i costi. Dapprima ero restio, perché non avevo mai dato troppa importanza ai compleanni, ma alla fine mi lasciai sopraffare dalla sua eccitazione per l’evento. Mi regalò una costosa edizione illustrata di Moby Dick, mi portò prima a cena in un buon ristorante e poi al Met, a una rappresentazione del Boris Godunov. Una volta tanto mi lasciai andare, senza volermi sentire superiore alla mia felicità, senza volermi guardare dall’alto o essere più intelligente dei miei sentimenti. Forse cominciavo ad avvertire in Sophie una nuova audacia: forse mi stava mostrando che aveva già deciso
tutto, e che né lei né io eravamo più in tempo per tirarci indietro. Sia come sia, quella fu la notte in cui tutto cambiò, e non restò alcun dubbio su ciò che avremmo fatto. Tornammo a casa sua alle undici e mezza, Sophie pagò l’ormai insonnolita baby–sitter e in punta di piedi entrammo nella cameretta di Ben fermandoci a guardarlo dormire nella culla. Ricordo perfettamente che non dicemmo una parola: l’unico suono che sentivo era il leggero gorgoglio del respiro di Ben. Ci appoggiammo alla spalliera per studiare la forma del suo corpicino sdraiato a pancia in giù, con le gambe raccolte e il sedere per aria, e due o tre dita in bocca. Mi sembrò che durasse molto a lungo, ma non credo che passarono più di due minuti. Poi, senza preavviso, ci alzammo tutti e due, ci voltammo l’uno verso l’altra e cominciammo a baciarci. Mi è difficile parlare di quel che accadde dopo. Queste cose hanno poco a che fare con le parole: tanto poco, in realtà, che cercare di descriverle sembra quasi inutile. Tutto quello che so dire è che cademmo l’una nell’altro, precipitando così velocemente e così lontano che niente avrebbe potuto arrestarci. Rieccomi a scivolare nella metafora. Ma probabilmente conta poco. Che io sia capace o meno di parlarne non altera la verità di quanto accadde. Il fatto è che non ci fu mai un bacio simile, e non credo che nella mia vita ce ne potrà essere un altro.
4. Passai la notte nel letto di Sophie, e da allora mi fu impossibile lasciarlo. Di giorno andavo a casa a lavorare, ma ogni sera tornavo da Sophie. Diventai parte della famiglia: facevo la spesa per la cena, cambiavo i pannolini a Ben, portavo fuori la spazzatura. Convissi con un’altra persona più intimamente di quanto mi era mai accaduto. I mesi passarono e, con mio perenne stupore, mi scoprii portato a quel genere di vita. Ero nato per stare con Sophie, e sentivo che a poco a poco diventavo sempre più forte, sentivo che grazie a lei tutto cambiava in meglio. Strano che a farci incontrare fosse stato proprio Fanshawe. Se non fosse stato per la sua scomparsa, non sarebbe accaduto nulla. Gli ero debitore, e il solo modo di ripagarlo era fare il possibile per diffondere la sua opera. Il mio articolo fu pubblicato e sembrò produrre gli effetti desiderati. Stuart Green mi telefonò per dirmi che era «un traino strepitoso»: dal che arguii che si sentiva più tranquillo sul suo acquisto. Dopo tutto l’interesse suscitato dall’articolo, Fanshawe non gli sembrava più un salto nel buio. Poi uscì Nel paese del mai e le recensioni furono concordemente favorevoli, alcune entusiastiche. Non avremmo potuto chiedere di meglio. Il sogno di ogni scrittore si era avverato, e ammetto che io stesso restai interdetto. Nella realtà queste cose non succedono. Poche settimane dopo la pubblicazione le vendite erano già superiori al preventivo per l’edizione completa. Si fece subito una ristampa; il libro fu lanciato su giornali e riviste, e ne cedemmo i diritti a una casa editrice di tascabili che lo avrebbe ripubblicato l’anno dopo. Non dico che in termini commerciali fu un bestseller, e nemmeno che Sophie si avviava a diventare miliardaria, ma valutando l’impegno e la difficoltà dell’opera di Fanshawe e la tendenza del pubblico ad astenersi dalla letteratura di quel livello, fu un successo superiore a ogni attesa. Per certi versi, la storia dovrebbe finire qui. Il giovane genio è morto, ma i suoi scritti vivranno e il suo nome sarà ricordato dai posteri. L’amico d’infanzia ha salvato l’affascinante vedovella, vivranno insieme felici e contenti. Questo dovrebbe porre la parola fine, lasciando spazio appena per
un’ultima chiamata al proscenio. Ma si dà il caso che sia solo l’inizio. Ciò che ho scritto fin qui non è altro che un preludio, un veloce riassunto di tutto ciò che accadde prima della storia che devo raccontare. Se non ci fosse che questo, non ci sarebbe proprio niente: perché niente mi avrebbe spinto a cominciare. Solo le tenebre possono persuadere un uomo ad aprire il proprio cuore al mondo, e ogni volta che penso a quello che accadde mi trovo circondato dalle tenebre. Se per scriverne serve del coraggio, so anche che scriverne è la mia unica possibilità di salvezza. Ma io non credo che mi salverò, neppure se riuscissi a dire la verità. Le storie senza epilogo non possono che durare per sempre, ed essere invischiati in una di esse significa dover morire prima che la parte che vi recitiamo sia terminata. La mia sola speranza è che quello che sto per dire abbia una fine, che a un certo punto troverò uno squarcio nell’oscurità. La speranza è ciò che chiamo coraggio, ma se ci sia motivo di sperare è un altro discorso. Dall’inizio delle rappresentazioni erano trascorse circa tre settimane. Come al solito passai la notte a casa di Sophie, e la mattina dopo mi recai nel mio appartamento, per lavorare un po’. Ricordo che dovevo finire un articolo su quattro o cinque raccolte di poesia – una di quelle recensioni raffazzonate e frustranti – ma non riuscivo a concentrarmi. La mia mente vagava, allontanandosi dai libri sulla scrivania, e ogni cinque minuti mi alzavo di scatto dalla sedia e passeggiavo per la stanza. Il giorno prima Stuart Green mi aveva raccontato una strana storia, e mio malgrado continuavo a ripensarci. Secondo Stuart, qualcuno cominciava a dire che Fanshawe non era mai esistito. Correva voce che lo avessi inventato per il gusto di creare un caso, e in realtà fossi io il vero autore dei libri. Lì per lì risi, poi aggiunsi scherzando che in fondo anche Shakespeare non aveva mai scritto un’opera teatrale. Ma ora, riflettendoci, non sapevo se sentirmi offeso o lusingato. La gente non credeva alla mia parola? Perché avrei dovuto sfiancarmi a scrivere un intero corpus letterario per non ricavarne nessun riconoscimento? D’altronde… davvero mi credevano capace di scrivere un libro della bellezza di Nel paese del mai? Compresi che una volta completata la pubblicazione dei manoscritti di Fanshawe, avrei potuto benissimo scrivere un altro libro, o due, sotto il suo nome: svolgere io il lavoro, e farlo passare per suo. Ovviamente non ne avevo intenzione, ma la semplice idea mi suggerì alcune considerazioni bizzarre e affascinanti: che significa per uno scrittore firmare un libro con il proprio nome? perché alcuni decidono di nascondersi dietro uno pseudonimo? e in
tutti i casi, uno scrittore vive davvero una vita reale? Pensai che forse scrivere sotto pseudonimo mi sarebbe piaciuto – inventarmi un’identità segreta – e mi chiesi perché trovavo l’idea così seducente. Un pensiero tirò l’altro, e quando la riflessione fu esaurita scoprii che avevo sprecato quasi tutta la mattina. Arrivarono le undici e mezza – l’ora della posta – e ottemperai alla rituale escursione in ascensore per guardare nella cassetta. Era un momento cruciale della mia giornata, e non riuscivo mai ad affrontarlo con serenità. Avevo sempre la speranza di trovare una bella notizia – un pagamento inatteso, un’offerta di lavoro, una lettera che avrebbe cambiato la mia vita – e questa ansia era diventata una consuetudine così radicata che non potevo guardare la cassetta senza avere un tuffo al cuore. Era il mio nascondiglio, il solo angolo di mondo che fosse completamente mio. E nel contempo mi legava al resto del mondo, serbando nella sua magica oscurità il potere di creare gli eventi. Quel giorno era arrivata soltanto una lettera, recapitata in una semplice busta bianca con il timbro di New York e senza mittente. Non conoscevo la calligrafia (il mio nome e indirizzo erano scritti in stampatello), e non potevo neanche vagamente indovinare chi me la mandava. Nell’ascensore aprii la busta – e fu allora, mentre risalivo all’ottavo piano, che mi sentii crollare il mondo addosso. «Non serbarmi rancore se ti scrivo», cominciava la lettera. «Anche se rischio di farti prendere un colpo, volevo dirti ancora due parole, e ringraziarti per quello che hai fatto. Sapevo che eri la persona giusta, ma la realtà ha superato le mie speranze. Hai fatto più di quanto fosse possibile, e ti sono debitore. Sophie e il bambino avranno qualcuno che si prenderà cura di loro, e io potrò vivere con la coscienza pulita. «Non intendo spiegarti tutto qui. Malgrado questa lettera, voglio che continui a credermi morto. È la cosa essenziale, e non devi dire a nessuno che hai avuto mie notizie. Non mi troveranno mai, e parlarne creerebbe solo più problemi del dovuto. Soprattutto, non dire niente a Sophie. Falle chiedere il divorzio da me e sposala appena puoi. Sono sicuro che lo farai e ti do la mia benedizione. Il bambino ha bisogno di un padre, e tu sei l’unica persona di cui mi fido. «Voglio che tu sappia che non sono impazzito. Ho preso delle decisioni necessarie, e anche se qualcuno ne ha sofferto, andarmene è stata la cosa migliore, la più umana che io abbia mai fatto. «Il settimo anniversario della mia scomparsa sarà il giorno della mia
morte. Ho pronunciato il verdetto, e non ascolterò nessun appello. «Ti prego di non cercarmi. Non desidero essere trovato, e penso di avere il diritto di passare il resto della mia vita come credo opportuno. Detesto le minacce, ma mi vedo costretto ad avvisarti: se per miracolo riuscissi a trovarmi, ti ucciderò. «Sono contento che i miei scritti abbiano suscitato tanto interesse. Non lo avrei mai creduto. Ma ormai tutto mi sembra così remoto. Scrivere dei libri appartiene a un’altra vita, e pensarci adesso non mi fa né caldo né freddo. Non reclamerò mai nessun provento, e sono felice di lasciare tutto a te e a Sophie. Ho sofferto per tanto tempo del male di scrivere, ma ora sono guarito. «Stai sicuro che non avrai più mie notizie. D’ora in avanti sei libero dalla mia persona, e ti auguro una vita lunga e felice. Tu sei mio amico, e spero solo che resterai sempre te stesso. Per me, è un’altra faccenda. Augurami buona fortuna». La lettera non era firmata, e per un paio d’ore mi sforzai di convincermi che fosse uno scherzo. Se l’aveva scritta Fanshawe, perché non l’aveva firmata? Mi aggrappai a questa obiezione come se fosse la prova di una frode, cercando disperatamente un pretesto per negare l’accaduto. Ma il mio ottimismo non durò a lungo, e a poco a poco decisi di affrontare la realtà. Potevano esserci infinite ragioni per omettere una firma, e riflettendo conclusi che in effetti quella era la prova dell’autenticità della lettera. Un impostore si sarebbe preoccupato di firmare, mentre l’autore vero non ci avrebbe fatto caso: soltanto una persona in buona fede poteva sentirsi abbastanza sicura da commettere un errore così marchiano. E poi c’erano le ultime parole della lettera: «…spero solo che resterai sempre te stesso. Per me, è un’altra faccenda». Significavano che Fanshawe era diventato qualcun altro? Senza dubbio viveva sotto falso nome… ma come viveva, e dove? Il timbro di New York poteva essere un indizio come un inganno, un’informazione fasulla per allontanarmi dalla pista. Fanshawe era stato molto accorto. Rilessi più volte la lettera cercando di scomporla, di trovare un pertugio, una chiave per leggerla tra le righe, ma non approdai a nulla. Era un blocco compatto che respingeva ogni tentativo di forzarlo. Alla fine mi arresi, riposi la lettera in un cassetto della scrivania e considerai che ero perduto, nulla sarebbe più stato uguale. Credo ad avvilirmi fu anzitutto la mia stupidità. Ripensandoci adesso,
vedo che tutti i dati mi erano stati forniti dal principio: fin dal mio primo incontro con Sophie. Per anni Fanshawe non pubblica una riga, poi istruisce la moglie sul comportamento da tenere se gli fosse successo qualcosa (contattarmi, far pubblicare le sue opere), e scompare. Era lampante. L’uomo voleva andarsene, e se ne era andato. Un bel giorno si era alzato e aveva piantato la moglie che aspettava un bambino; e dato che la moglie si fidava di lui, e non lo riteneva capace di un’azione del genere, non aveva avuto altra scelta che credere alla sua morte. Sophie si era illusa, ma date le circostanze, era difficile comportarsi diversamente. Io non avevo questa giustificazione. Fin dal principio mi ero rifiutato di riflettere autonomamente sulla vicenda. Mi ero accodato ciecamente a lei, assimilando a tutta forza il suo travisamento della realtà; poi avevo smesso del tutto di pensare. C’è chi è stato fucilato per un delitto meno grave di questo. Passavano i giorni. Anche se il mio istinto mi suggeriva di aver fiducia in Sophie e mostrarle la lettera, ancora non ci riuscivo. Ero troppo timoroso, troppo incerto sulla sua reazione. Nei momenti di maggiore baldanza, mi ripetevo che il silenzio era l’unico modo per proteggerla. Come poteva esserle di aiuto la certezza che Fanshawe l’aveva abbandonata? Si sarebbe sentita in colpa, e io non volevo farle del male. Tuttavia, dietro la maschera di questo nobile silenzio ce n’era un altro, fatto di panico e di terrore. Fanshawe era vivo… e se lo avessi detto a Sophie, quali conseguenze avrebbe avuto su noi due? Non sopportavo l’idea che lei lo volesse ancora, e non potevo azzardarmi a scoprirlo. Forse fu il mio errore più grave. Se avessi creduto fino in fondo nell’amore di Sophie sarei stato disposto a correre dei rischi. Ma in quel momento mi sembrava di non avere scelta, e feci come Fanshawe mi aveva chiesto: non per lui, ma per me stesso. Nascosi il segreto dentro di me e imparai a non tradirmi. Passò qualche altro giorno, e finalmente chiesi a Sophie di sposarmi. Ne avevamo già parlato, ma stavolta misi in chiaro che non erano semplici intenzioni, ma si trattava di una proposta in piena regola. Mi resi conto che sembravo un altro, ingessato e per niente spiritoso, ma non potei farci nulla. Non resistevo più in quella condizione di precarietà, e sapevo di dover procedere senza indugi. Naturalmente Sophie si accorse del mio cambiamento, ma non sapendone la ragione lo interpretò come un eccesso di ardore, le smanie di un maschio troppo passionale che scalpita per l’oggetto
del proprio desiderio (ed era vero, in fondo). Sì, rispose, mi sposava. Come potevo pensare che mi avrebbe respinto? – E voglio anche adottare Ben, – aggiunsi. – Voglio dargli il mio nome. È importante che cresca considerandomi suo padre. Sophie rispose che non aveva nulla in contrario. Era l’unica soluzione sensata. Per tutti e tre. – E voglio che lo facciamo al più presto, – continuai, – appena sarà possibile. A New York non si ottiene il divorzio prima di un anno… troppo. Non posso aspettare così a lungo. Ma ci sono altri posti. L’Alabama, il Nevada, il Messico, vattelapesca. Possiamo partire per una vacanza, e prima del ritorno sarai libera di sposarmi. Sophie disse che le piaceva quell’espressione: «libera di sposarmi». Se per questo era necessario viaggiare avrebbe viaggiato, mi avrebbe seguito dappertutto. – In fin dei conti, – ripresi, – è sparito da più di un anno, quasi un anno e mezzo. Ce ne vogliono sette prima che un morto venga dichiarato ufficialmente morto. E le cose succedono, la vita continua. Pensa che noi due ci conosciamo da quasi un anno. – Per essere esatti, – puntualizzò Sophie, – sei entrato per la prima volta da quella porta il 25 novembre del 1976. Fra otto giorni sarà giusto un anno. – Te lo ricordi. – Se lo ricordo… è stato il giorno più importante della mia vita. Il 27 novembre prendemmo l’aereo per Birmingham, Alabama, e tornammo a New York alla fine della prima settimana di dicembre. L’11 ci sposammo in municipio, poi andammo a cena sbronzandoci con una ventina di amici. Trascorremmo la notte al Plaza, ordinammo la colazione a letto per la mattina dopo e più tardi, quello stesso giorno, partimmo per il Minnesota con Ben. Il 18, i genitori di Sophie organizzarono una festa di nozze a casa loro e la sera del 24 festeggiammo il Natale norvegese. Due giorni dopo, Sophie e io abbandonammo la neve per trascorrere una decina di giorni alle Bermude, poi ripassammo nel Minnesota a prendere Ben. Pensavamo di cercare un nuovo appartamento appena arrivati a New York. Dopo circa un’ora di volo, mentre sorvolavamo la Pennsylvania occidentale, Ben mi fece la pipì addosso attraverso il pannolino. Quando gli mostrai la larga chiazza scura sui miei pantaloni rise, batté le mani e poi, guardandomi diritto negli occhi, per la prima volta mi chiamò papà.
5. Mi immersi nel presente. Passarono alcuni mesi, e a poco a poco la sopravvivenza cominciò a sembrarmi possibile. Era come acquattarsi in una tana, ma ero in compagnia di Sophie e Ben e non desideravo altro. Fino a quando badavo a non espormi, non avremmo corso alcun pericolo. In febbraio traslocammo in un appartamento di Riverside Drive. Quando finimmo di sistemarci era metà primavera, e fino allora non ebbi molto tempo per pensare a Fanshawe. Anche se non svanì totalmente, il ricordo della lettera si fece meno assillante. Ormai ero sicuro di Sophie, e sentivo che nulla avrebbe potuto dividerci… neppure Fanshawe, neppure Fanshawe in carne e ossa. O così mi sembrava in quei momenti. Ora capisco quanto mi ingannavo, ma lo scoprii solo molto tempo dopo. Per definizione un pensiero è qualcosa di cui si è consapevoli. Ma, allora, il fatto che non smettessi mai di pensare a Fanshawe, che per tutti quei mesi aveva abitato in me giorno e notte, mi era ignoto. E se non si è consapevoli di avere un pensiero, si può affermare che si sta pensando? Forse ero ossessionato, forse anche posseduto, ma non ne avevo sentore, nessun indizio mi svelò cosa stava succedendo. Adesso la mia vita quotidiana era piena. Non mi accorgevo che erano anni che non lavoravo così poco. Dato che non dovevo timbrare cartellini, e che Sophie e Ben vivevano con me, fu facile trovare delle scuse per non mettermi alla scrivania. Invece di iniziare tutti i giorni alle nove in punto, a volte non andavo in studio prima delle undici o delle undici e mezza. Per di più la presenza di Sophie in casa era una tentazione continua. Ben faceva ancora uno o due sonnellini al giorno, e in quelle ore tranquille, mentre dormiva, era impossibile non pensare al corpo di lei. Di solito finivamo per fare l’amore. Sophie era altrettanto desiderosa e lentamente, col passare delle settimane, la casa si erotizzò tramutandosi in un laboratorio di opportunità sessuali. Gli inferi emersero in superficie. Ogni stanza si tinse di un ricordo speciale, ogni angolo evocava un momento distinto, al punto che, anche nella pace della routine domestica, una particolare zona del tappeto, o il limitare di una determinata porta non erano più solo una cosa, ma una sensazione,
un’eco della nostra vita erotica. Ci eravamo inoltrati nel paradosso del desiderio. Nutrivamo un insaziabile bisogno reciproco, e più lo assecondavamo più sembrava aumentare. Ogni tanto Sophie parlava di cercarci un lavoro, ma nessuno dei due aveva fretta. Il denaro bastava a mantenerci: anzi, ne risparmiavamo parecchio. Il secondo libro di Fanshawe, Miracoli, era in lavorazione, e l’anticipo fissato dal contratto era stato maggiore di quello di Nel paese del mai. Secondo il calendario concordato con Stuart, le poesie sarebbero uscite sei mesi dopo Miracoli, seguite dal primo romanzo di Fanshawe, Oscuramenti, e infine dalle opere teatrali. Le rendite di Nel paese del mai cominciarono ad affluire in marzo, e ogni problema finanziario svanì con l’improvviso susseguirsi degli assegni per i vari diritti. Come tutte le altre cose che sembravano accadermi, per me fu un’esperienza nuova. Negli ultimi otto o nove anni la mia vita era stata una rincorsa incessante, un volteggiare frenetico da un articolo dozzinale all’altro, e mi consideravo fortunato quando potevo respirare per un mese o due. Ormai soffrivo di un’ansia congenita: faceva parte del mio sangue, delle mie cellule, e quasi non sapevo cosa volesse dire respirare senza chiedermi se sarei riuscito a pagare la bolletta del gas. Adesso, per la prima volta da quando ero uscito dalla casa paterna, capii di non avere più queste preoccupazioni. Un mattino, mentre sedevo alla scrivania lottando con il finale di un articolo, a caccia di una frase che non c’era, piano piano mi venne in mente che mi era stata offerta una seconda possibilità. Potevo smettere per ricominciare. Non ero più obbligato a scrivere articoli. Potevo passare ad altro, fare il lavoro che avevo sempre desiderato. Era la mia occasione di salvarmi, e decisi che sarei stato pazzo a perderla. Passarono altre settimane, ma non accadde nulla. In teoria mi sentivo ispirato, e quando non lavoravo avevo sempre la testa piena di idee. Ma appena mi sedevo e incominciavo a scrivere qualcosa, i miei pensieri sembravano dissolversi. Le parole morivano nell’atto di alzare la penna. Cominciai una quantità di progetti, ma nessuno si concretizzava, e li abbandonai uno dopo l’altro. Cercavo delle scuse per spiegarmi l’insuccesso. Non fu difficile trovarle, e in poco tempo ne approntai una sfilza: l’adattamento alla vita coniugale, gli oneri della paternità, il mio nuovo studio (che mi sembrava troppo piccolo), la vecchia abitudine di scrivere con una scadenza, il corpo di Sophie, quel benessere piovuto dal cielo… insomma, un
repertorio completo. Per qualche giorno accarezzai anche l’idea di scrivere un romanzo poliziesco, ma poi rimasi impastoiato nella trama e non riuscii ad amalgamare le varie parti. Lasciai che la mia mente vagasse, sperando di convincermi che in realtà quell’inerzia era un segno che stavo raccogliendo le forze, e la soluzione era imminente. Per più di un mese, la sola cosa che feci fu ricopiare brani di libri. Uno di essi, di Spinoza, diceva: «E quando sogna di non voler scrivere, non ha il potere di sognare che vuol scrivere; e quando sogna di volere scrivere, non ha il potere di sognare che non vuole scrivere». Forse sarei riuscito a emergere da quell’inazione. Ancora non mi è chiaro se fosse una condizione stabile o transitoria. Di primo acchito direi che per un certo periodo fui davvero perduto, disperatamente invischiato in me stesso, e tuttavia non credo che fosse un caso disperato. La mia esistenza non era più la stessa. Stavo vivendo grandi cambiamenti, ed era ancora presto per stabilire dove mi avrebbero portato. Poi, inaspettatamente, una soluzione si presentò. Se la parola è troppo trionfalistica, lo chiamerò un compromesso. In ogni caso vi opposi ben poca resistenza. Arrivò in un momento di vulnerabilità, di alterazione del discernimento. Fu il mio secondo madornale errore, direttamente derivato dal primo. Un giorno ero a pranzo con Stuart, vicino al suo ufficio nello Upper East Side. A metà pasto tirò fuori ancora quei pettegolezzi su Fanshawe, e per la prima volta mi accorsi che cominciava a dubitare anche lui. Era un argomento così ghiotto che doveva parlarne a tutti i costi. In tono malizioso, certo, scherzosamente complice: ma cominciai a sospettare che sotto sotto tentasse di strapparmi una confessione. Per un po’ stetti al gioco, replicando che il solo sistema infallibile per mettere a tacere le chiacchiere era commissionare una biografia. Feci questa osservazione in buona fede (non come proposta, ma come conclusione logica), ma a Stuart sembrò una trovata eccezionale. Ruppe gli argini: ma certo, certo, la spiegazione del mito di Fanshawe, assolutamente ovvio, certo, finalmente la storia vera. In pochi minuti aveva già programmato tutto. Il libro l’avrei scritto io. Sarebbe uscito dopo la pubblicazione dell’opera completa di Fanshawe, e avrei avuto tutto il tempo che volevo: due anni, tre, anche di più. Sarebbe stato un libro straordinario, aggiunse Stuart, un libro degno dello stesso Fanshawe, ma lui aveva sempre avuto piena fiducia in me e mi sapeva all’altezza del compito. La proposta mi colse di sorpresa, e la presi come uno scherzo. Ma Stuart parlava sul serio: non potevo rifiutare. Riflettici, ripeté, e dimmi cosa ti
sembra. Rimasi scettico, ma per cortesia gli risposi che ci avrei pensato. Stabilimmo che per una risposta definitiva avevo tempo fino alla fine del mese. Quella sera riferii la proposta a Sophie, ma dato che con lei non potevo parlare sinceramente, non mi servì a molto. – Dipende da te, – mi disse. – Se te la senti, penso che dovresti accettare. – Non ti secca? – No. Almeno, non credo. Lo avevo già pensato, che un giorno o l’altro sarebbe uscito un libro su di lui. Se proprio deve succedere, be’, preferisco che lo scriva tu. – Dovrei parlare di te e Fanshawe. Potrebbe essere antipatico. – Basteranno poche pagine. Visto che sei tu a scriverle, non mi preoccupo. – Sarà, – dissi, non sapendo come continuare. – Ma in effetti, chissà se ho proprio voglia di dedicarmi anima e corpo a Fanshawe… Forse sarebbe ora di lasciarlo perdere. – Decidi tu. Ma il fatto è che questo libro tu lo sapresti scrivere meglio di tutti gli altri. E non dev’essere per forza una biografia arida. Potresti fare un lavoro più interessante. – Per esempio? – Non so, qualcosa di più personale, di più affascinante. Per esempio, la storia della vostra amicizia. Potresti parlare non solo di lui, ma anche di te. – Forse. Almeno è un’idea. Mi sorprende solo vederti così serena. – È che sono tua moglie e ti amo, ecco il perché. Se decidi di accettare, hai la mia approvazione. In fin dei conti, non sono cieca. Ho capito che hai delle difficoltà con il lavoro, e a volte temo che sia colpa mia. Forse questo è il progetto che ti serve per ripartire. In segreto contavo che fosse Sophie a decidere per me, ed ero sicuro che si sarebbe opposta, che ne avremmo parlato una volta e il discorso sarebbe stato chiuso. Ma era accaduto tutto il contrario. Mi ero chiuso in difesa e avevo perso il coraggio. Lasciai passare qualche giorno, poi chiamai Stuart e gli dissi che avrei scritto il libro. Così mi procurai un altro pranzo gratis, poi fui abbandonato a me stesso. Neanche a parlarne di dire la verità. Fanshawe doveva essere morto, altrimenti il libro non avrebbe avuto senso. Non soltanto dovevo tacere della lettera, ma fingere che non fosse mai stata scritta. Sarò sincero sulle mie
intenzioni. Le avevo chiare fin dal principio, e mi misi al lavoro con la coscienza dell’inganno. Il libro era un’opera di fantasia. Pur essendo basato sui fatti, non poteva raccontare che bugie. Firmai il contratto, e da allora mi sentii come un uomo che ha venduto l’anima. Meditai disordinatamente per alcune settimane, cercando uno spunto per cominciare. Ogni vita è inspiegabile, continuavo a ripetermi. Per quanti fatti si riferiscano, per quanti dettagli vengano forniti, il nocciolo resiste alla rappresentazione. Riferire che tizio è nato qui e si è recato là, che ha fatto questo o quello, che ha sposato la tale donna e ha avuto i tali figli, che è vissuto, che è morto, che si è lasciato alle spalle questi libri o quella battaglia, o quel ponte… niente di tutto ciò ci dice molto. Tutti vogliamo che ci raccontino delle storie, e le ascoltiamo come facevamo da bambini. Dentro le parole immaginiamo la vera vicenda, e a tal fine ci sostituiamo ai personaggi fingendoci capaci di comprenderli perché comprendiamo noi stessi. È una mistificazione. Noi esistiamo per noi stessi, forse, e talora cogliamo anche un barlume della nostra identità, ma alla fine non siamo mai sicuri, e col passare delle nostre vite diventiamo sempre più opachi al nostro sguardo, più consci della nostra disorganicità. Nessuno può sconfinare in un altro – per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso. Ripensai a un fatto che mi era capitato otto anni prima, nel giugno del 1970. Essendo quasi al verde, e senza prospettive per l’estate, accettai temporaneamente di raccogliere i dati per il censimento a Harlem. Il nostro gruppo era composto di una ventina di persone: un commando di incursori ingaggiati per rintracciare le persone che non avevano compilato i questionari depositati nelle cassette postali. Ci addestrarono per qualche giorno in un polveroso magazzino al primo piano di fronte all’Apollo Theatre e poi, assimilate le tortuosità dei moduli e i fondamenti dell’etica professionale, ci disperdemmo nel quartiere con le nostre tracolle rosse, bianche e blu per bussare alle porte, far domande e rientrare con del nero su bianco. Il primo posto dove andai si rivelò il quartier generale di una lotteria clandestina. La porta fu appena socchiusa, fece capolino una testa (dietro la quale scorsi una stanza spoglia con una decina di uomini che scrivevano su dei lunghi tavoli da picnic), e mi fu risposto educatamente che non erano interessati. Più o meno, l’andazzo era questo. Parlai con una donna quasi cieca i cui genitori erano stati schiavi. Dopo venti minuti di colloquio capì che non ero di colore, e scoppiò in una risata stridula. L’aveva sospettato subito, disse, dato che
avevo la voce strana, ma le sembrava impossibile. Ero il primo bianco che fosse mai entrato in casa sua. In un altro appartamento mi capitò una famiglia di undici persone, tutti al di sotto dei ventidue anni. Ma generalmente non c’era nessuno. E quando erano in casa, rifiutavano di parlarmi e anche di farmi entrare. Arrivo l’estate e le strade diventarono umide e infuocate, atroci come sa essere solo New York. Cominciavo i miei giri di buon’ora, annaspando come un idiota da una casa all’altra, sentendomi sempre più un extraterrestre. Finalmente presi contatto con il sovrintendente (un nero che parlava a raffica e portava plastron di seta e un anello di zaffiro) spiegandogli il mio problema. Fu allora che seppi quello che veramente ci si aspettava da me. Quell’uomo riceveva una somma per ciascun modulo compilato da un membro della squadra. Più positivi erano i nostri risultati, più denaro gli entrava nelle tasche. – Tu fai come ti senti, – mi disse, – ma a me sembra che se ce l’hai messa tutta non dovresti sentirti troppo in colpa. – Allora lascio perdere? – D’altra parte, – proseguì filosoficamente, – il governo ci richiede i moduli compilati. Più moduli ricevono, e più sono contenti. Ora, io so che sei un ragazzo intelligente, e per te due più due non fa cinque. Non è che solo perché una porta non si apre vuol dire che non c’è nessuno in casa. Devi usare un po’ di immaginazione, caro mio. Non vogliamo mica che il nostro governo sia triste, vero? Da allora in poi il mio compito divenne assai più semplice, ma anche di natura diversa. Da lavoro sul campo si trasformò in lavoro a tavolino, e invece che ricercatore mi ritrovai inventore. Quasi ogni giorno passavo dall’ufficio a ritirare un nuovo fascicolo di moduli e restituire quelli che avevo compilato, ma per il resto potevo anche non uscire di casa. Non so quanti newyorkesi abbia inventato, ma devono essere stati centinaia, forse migliaia. Me ne stavo seduto in camera con il ventilatore puntato sulla faccia e un asciugamano freddo intorno al collo, a compilare moduli a rotta di collo. Prediligevo le famiglie numerose – con sei, otto, dieci figli – e mi divertivo specialmente a tramare complicate reti di parentela, esaurendo tutte le combinazioni possibili: genitori, figli, cugini, zii, zie, nonni, conviventi more uxorio, figliastri, fratellastri, sorellastre e semplici amici. Ma il mio sommo piacere era inventare i nomi. A volte dovevo fare i conti con il mio gusto per le stravaganze – la caricatura, il gioco verbale, la parolaccia – ma per lo più mi accontentavo di restare nei limiti del realismo. Quando la fantasia veniva
meno, mi soccorrevano categorie già pronte: i colori (Brown, White, Black, Green, Gray, Blue), i presidenti (Washington, Adams, Jefferson, Fillmore, Pierce), i personaggi fittizi (Finn, Starbuck, Dimmesdale, Budd). Apprezzavo i nomi che rimandavano al cielo (Orville Wright, Amelia Earhart), ai comici del muto (Keaton, Langdon, Lloyd), ai leggendari fuoricampo (Killebrew, Mantle, Mays) e alla musica (Schubert, Ives, Armstrong). Occasionalmente attingevo ai lontani parenti e ai vecchi compagni di scuola, e una volta usai anche un anagramma del mio nome. Era un gioco infantile, ma non avevo scrupoli. Non mi era neanche difficile giustificarmi. Il sovrintendente non si sarebbe lamentato, e neanche del resto le persone che abitavano veramente agli indirizzi scritti sui moduli (non amavano gli scocciatori, tanto meno un bianco che curiosava nelle loro faccende private); e non si sarebbe lamentato il governo, perché quello che si ignora non può fare danno, e comunque il danno non avrebbe superato quello che già il governo si infliggeva da sé. Arrivai a giustificare ideologicamente la mia preferenza per le famiglie numerose: più poveri c’erano, e più il governo si sarebbe sentito obbligato a stanziare dei fondi per loro. Era una versione americana dell’imbroglio delle anime morte, e la mia coscienza restava immacolata. Questo era un aspetto. Alla base, però, la spiegazione era che mi divertivo. Mi piaceva far scaturire i nomi dal nulla, inventare delle vite che non erano mai esistite e non sarebbero esistite mai. Non era proprio come creare i personaggi di un racconto, ma un atto più grandioso, e di gran lunga più apocalittico. Tutti sanno che i racconti sono immaginari. Per quanto ci colpiscano, sappiamo che non sono veri, anche quando ci svelano verità più importanti di quelle che troviamo altrove. Al contrario del narratore, io porgevo le mie creazioni direttamente al mondo reale, e perciò mi sembrava possibile che influissero realmente su quella realtà, giungendo infine a farne parte. Nessuno scrittore avrebbe potuto chiedere di più. Ripensai a tutto questo mentre sedevo a scrivere su Fanshawe. Un tempo avevo dato vita a mille anime immaginarie. Ora, otto anni dopo, mi accingevo a prendere un uomo vivo e a calarlo nella tomba. Ero il primo dolente e il sacerdote che celebrava quel falso funerale, con l’incarico di pronunciare le parole giuste, quelle che tutti volevano sentire. I due atti erano uguali e contrari come immagini simmetriche. Ma questo non valeva a consolarmi. La vecchia truffa era uno scherzo, niente più che un’avventura
giovanile, ma la nuova era seria, era un’azione torbida e agghiacciante. In fondo stavo scavando una fossa, e qualche volta cominciavo a dubitare che non fosse la mia. Pensai che le vite degli uomini non hanno senso. Una persona nasce e muore, e quello che succede in mezzo non ha senso. Pensai alla storia di La Chère, un soldato che prese parte a una delle prime spedizioni francesi in America. Nel 1562, Jean Ribaut lasciò una guarnigione a Port Royal (nei pressi di Hilton Head, nella Carolina del Sud) al comando di Albert de Pierra, un folle che comandava attraverso il terrore e la violenza. «Impiccò con le proprie mani un tamburino cadutogli in disgrazia,– scrisse Francis Parkman, – e bandì un militare di nome La Chère su un’isola deserta a tre leghe dal forte, ivi lasciandolo a morire di fame». Alla fine Albert fu ucciso in un ammutinamento dei suoi uomini e La Chère fu riportato dall’isola mezzo morto. A questo punto si dovrebbe credere che La Chère fosse salvo, che essendo sopravvissuto a un castigo così atroce non gli spettassero più altre sciagure. Ma la vita non è così semplice. Non vale il calcolo delle probabilità, nessuna legislazione pone limiti alla malasorte, e a ogni momento ricominciamo da capo, siamo esposti alla disgrazia come un momento prima. La situazione nella colonia precipitò. Quegli individui non erano in grado di affrontare la vita selvaggia, e furono vinti dalla fame e dalla nostalgia. Servendosi di attrezzi improvvisati, si ruppero la schiena per costruire una barca «degna di Robinson Crusoe» e tornare in Francia. Nell’Atlantico, nuova catastrofe: incontrarono una bonaccia, che durò finché non esaurirono acqua e cibo. Allora cominciarono a mangiare scarpe e farsetti di cuoio, alcuni disperati bevettero acqua di mare, molti morirono. Poi inesorabilmente caddero nell’abominio del cannibalismo. «Estrassero a sorte,– narra Parkman, – e toccò a La Chère, lo stesso sventurato che Albert aveva condannato a morire di fame su di un’isola deserta. Lo uccisero, e con belluina voracità se ne spartirono le carni. Il fiero pasto li sostentò fin quando scorsero terra, allorché, si racconta, folli di gioia persero il governo dell’imbarcazione, e la lasciarono in balia delle maree. Un brigantino inglese puntò su di loro, li prese tutti a bordo e, sbarcati i più deboli, recò i restanti come prigionieri alla regina Elisabetta». Ho scelto La Chère solo come esempio. In fondo il suo destino non presenta alcun tratto eccezionale: forse fu anche più scialbo della media. Se non altro si dipanò in linea retta, e già questa è una rarità, quasi una fortuna.
In generale le vite sembrano sterzare bruscamente da un punto all’altro, urtare e sobbalzare, dimenarsi. Una persona prende una direzione, poi a metà strada svolta di colpo, si impantana, scarroccia, riparte. Niente è mai noto, e inevitabilmente giungiamo a una meta completamente diversa da quella verso cui eravamo partiti. Nel mio primo anno all’università di Columbia, ogni giorno andando a lezione passavo davanti a un busto di Lorenzo Da Ponte. Sapevo vagamente che aveva scritto i libretti per Mozart, ma poi lessi che era stato anche il primo professore italiano alla Columbia. I due dati sembravano incompatibili e decisi di approfondire, curioso di sapere come mai un uomo aveva vissuto due vite così diverse. Scoprii che Da Ponte ne aveva vissute cinque o sei. Nato nel 1749 con il nome di Emmanuele Conegliano, era figlio di un ebreo che faceva il mercante di pellami. Dopo la morte della madre, suo padre si risposò con una cattolica e decise che lui e i suoi figli dovevano essere battezzati. Il giovane Emmanuele era portato per gli studi, e a quattordici anni il vescovo di Cenada (Monsignor Da Ponte) lo prese sotto la sua protezione pagando tutte le spese della sua formazione sacerdotale. Secondo il costume dei tempi, il discepolo assunse il cognome del benefattore. Nel 1773 Da Ponte fu ordinato sacerdote e in seguito insegnò in seminario, essendo particolarmente dotto in letteratura latina, italiana e francese. Oltre ad abbracciare i principi dell’Illuminismo, divenne l’amante di una nobildonna veneziana che gli partorì un figlio segreto. Nel 1776 a Treviso patrocinò un pubblico dibattito sul tema se la civiltà era riuscita o no ad accrescere la felicità dell’uomo. A causa di questo affronto alla dottrina della chiesa si vide costretto alla fuga: prima a Venezia, poi a Gorizia, e finalmente a Dresda, dove avviò la sua nuova carriera di librettista. Nel 1782 andò a Vienna con una lettera di raccomandazione per Salieri, e alla fine fu assunto come «poeta dei teatri imperiali», carica che conservò per quasi dieci anni. Fu in quel periodo che conobbe Mozart, collaborando alla creazione delle tre opere che gli hanno dato l’immortalità. Tuttavia nel 1790, quando Leopoldo II limitò le attività musicali viennesi a causa della guerra con i turchi, Da Ponte si trovò disoccupato. Andò a Trieste, dove si innamorò di un’inglese di nome Nancy Grahl o Krahl (non è ancora sicuro). Da laggiù partirono entrambi per Parigi e successivamente per Londra, dove vissero tredici anni. L’attività di Da Ponte si era ridotta alla stesura di libretti per compositori di secondo piano. Nel 1805 lui e Nancy emigrarono in America: qui Da Ponte passò gli ultimi trentatre anni della sua vita, tenendo bottega in
New Jersey e Pennsylvania e spegnendosi all’età di ottantanove anni. Fu uno dei primi italiani a essere sepolto nel Nuovo Mondo. A poco a poco, tutta la sua vita era cambiata. Dal libertino azzimato e lezioso della giovinezza, dall’opportunista che sguazza negli intrighi della Chiesa e della corte, si trasformò in un comunissimo cittadino del Nuovo Mondo, che nel 1805 doveva apparirgli un po’ come l’Altro Mondo. Da tutto quello che si è visto sopra, a laborioso insegnante, marito fedele, padre di quattro figli. Si dice che alla morte di uno di loro, fu talmente sconvolto dal dolore che non volle uscire di casa per un anno. Insomma, la morale è che ogni vita non può ridursi ad altro che a se stessa. Che è come dire: le vite degli uomini non hanno senso. Non voglio diventare pedante. Ma le circostanze a causa delle quali una vita cambia rotta sono talmente diverse che sembra impossibile esprimere il più cauto parere su un individuo prima che sia morto. La morte non è solamente l’unica vera arbitra della felicità (come diceva Solone), ma l’unico metro di giudizio della vita stessa. Una volta ho conosciuto un barbone che parlava come un attore shakespeariano: un rottame di mezza età, alcolizzato, con la faccia coperta di croste e vestito di stracci, che dormiva per strada e continuava a chiedermi l’elemosina. Eppure un tempo aveva posseduto una galleria d’arte in Madison Avenue. Ho conosciuto un altro che una volta era considerato il giovane romanziere più promettente d’America. Quando lo incontrai aveva appena ereditato da suo padre quindicimila dollari, e si era piazzato a un angolo di strada di New York per donare ai passanti banconote da cento dollari. Mi spiegò che era parte di un piano per distruggere il sistema economico degli Stati Uniti. Se si pensa a che cosa può succedere. Se si pensa a come una vita si sfascia. Per esempio, Goffe e Whalley, due dei giudici che condannarono a morte Carlo I, dopo la Restaurazione emigrarono in Connecticut passando il resto della vita in una caverna. O la signora Winchester, vedova del fabbricante di fucili, che temeva che i fantasmi delle persone uccise con le armi di suo marito sarebbero venute a strapparle l’anima: perciò continuò ad aggiungere stanze alla sua casa, creando un mostruoso labirinto di corridoi e nascondigli in modo da poter dormire ogni notte in una stanza diversa, sfuggendo ai fantasmi. Ironia della sorte, durante il terremoto di San Francisco del 1906 rimase intrappolata in una di quelle stanze e per poco non morì di fame perché i domestici non riuscivano a trovarla. C’è anche Michail Bachtin, critico e filosofo della letteratura.
Durante l’invasione tedesca della Russia nella Seconda guerra mondiale, fumò l’unica copia di un suo manoscritto, un voluminoso saggio sulla narrativa tedesca che gli era costato anni di lavoro. Staccò le pagine del manoscritto una a una e usò la carta per arrotolarsi delle sigarette, bruciando ogni giorno un frammento del libro, finché non fu finito. Queste sono storie vere. Forse sono anche apologhi, ma significano quello che significano solo perché sono vere. Nei suoi scritti, Fanshawe mostra particolare interesse verso questo genere di storie. Specialmente nei taccuini, ripete di continuo piccoli aneddoti, e dato che lo fa con tanta frequenza – sempre di più man mano che procede verso la fine – vien fatto di pensare che sentisse che in qualche modo potevano aiutarlo a capire se stesso. Uno degli ultimi (del febbraio 1976, solo due mesi prima della sua scomparsa) mi sembra significativo. «Una volta ho letto un libro di Peter Freuchen,– scrive Fanshawe, – dove il famoso esploratore artico racconta di essere stato investito da una bufera di neve nella Groenlandia del nord. Solo, e sul punto di esaurire le provviste, decise di costruirsi un igloo e aspettare che il tempo cambiasse. Passarono molti giorni. Temeva soprattutto di essere attaccato dai lupi (li aveva sentiti aggirarsi famelici sul tetto dell’igloo), quindi periodicamente usciva e cantava a squarciagola per spaventarli e metterli in fuga. Ma soffiava un vento micidiale, e per quanto alzasse la voce non sentiva che il rombo dell’aria. Se questo era un serio problema, però, era molto più grave quello inerente allo stesso igloo. Perché Freuchen si accorse che i muri del suo piccolo rifugio si stavano progressivamente chiudendo su di lui. A causa del clima il suo fiato gelava letteralmente sulle pareti, che a ogni respiro si facevano più spesse, e di conseguenza l’igloo si rimpiccioliva, finché non rimase più spazio per il suo corpo. È davvero tremendo immaginare di costruirsi una bara di ghiaccio con il proprio respiro: a mio giudizio è molto più spaventoso che, per esempio, Il pozzo e il pendolo di Poe. Perché in questo caso l’agente della propria distruzione è l’uomo stesso; anzi, lo strumento della distruzione è proprio quello che gli serve per sopravvivere. Infatti un uomo non può vivere senza respirare. Ma nello stesso tempo, se respira non vivrà. Strano, ma non ricordo come fece Freuchen a uscire da quella trappola. Ma va da sé che vi riuscì. Se non ricordo male, il titolo del libro è Avventura nell’Artico. Non si ristampa più da molti anni».
6. Nel giugno di quell’anno (1978), Sophie, Ben e io andammo nel New Jersey a trovare la madre di Fanshawe. I miei genitori non abitavano più da quelle parti (da pensionati si erano trasferiti in Florida), e anch’io non ci tornavo da anni. Essendo la nonna di Ben, la signora Fanshawe aveva mantenuto i contatti con noi, ma i rapporti non erano sereni. In lei si percepiva un sottofondo di ostilità verso Sophie, come se in cuor suo le rimproverasse la scomparsa di Fanshawe, e ogni tanto quel risentimento affiorava in una frase tagliente. Sophie e io la invitavamo a cena abbastanza spesso, ma lei accettava solo raramente, e quando veniva era tutta sorrisi d’inquietudine, e blaterava con la voce gelida fingendo di stravedere per il bambino e facendo a Sophie complimenti inopportuni, e ripetendole che era proprio una ragazza fortunata, e andandosene sempre al più presto: nel bel mezzo della conversazione saltava su e diceva che si era scordata di avere un altro appuntamento. Del resto, era difficile fargliene una colpa. Le era andato tutto storto nella vita, e ormai sembrava essersi rassegnata. Suo marito era morto; sua figlia aveva sofferto di una serie di esaurimenti nervosi e ora manteneva un precario equilibrio grazie ai tranquillanti; suo figlio era scomparso. A cinquant’anni era ancora bellissima (da ragazzo mi sembrava la donna più irresistibile che avessi mai visto), e sopravviveva gettandosi in intricate avventure erotiche (l’elenco dei suoi spasimanti si aggiornava di continuo), in orge di shopping newyorkese e nella sua passione per il golf. Il successo letterario di Fanshawe l’aveva colta di sorpresa, ma adesso che vi si era assuefatta era più che disposta ad assumersi la responsabilità di aver partorito un genio. Quando le telefonai per parlarle della biografia, sembrò entusiasta di collaborare. Disse che disponeva di lettere, fotografie e documenti, e me li avrebbe mostrati quando volevo. Arrivammo a casa sua a metà mattina, e dopo un momento di imbarazzo, seguito da un caffè in cucina e da una lunga conversazione meteorologica, ci condusse di sopra nella stanza di Fanshawe. La signora si era preparata alla mia visita con il massimo zelo, accatastando ordinatamente tutto il materiale
su quella che era stata la scrivania di Fanshawe. Rimasi sbalordito dalla mole. Non sapendo che dire, la ringraziai per la sua cortesia, ma in realtà ero atterrito, sopraffatto dalla quantità di quello che vedevo. Pochi minuti dopo, la signora Fanshawe scese al pianterreno con Sophie e Ben per andare in giardino (era una giornata tiepida e solatia) e io rimasi da solo nella stanza. Ricordo che guardai fuori dalla finestra e vidi Ben che ruzzava sull’erba nel pagliaccetto imbottito con il pannolino, strillando e indicando un pettirosso in volo sopra la sua testa. Battei sul vetro, e quando Sophie si voltò e alzò gli occhi la salutai con la mano. Lei sorrise, mi mandò un bacio, e poi si allontanò per esaminare un’aiuola insieme alla signora Fanshawe. Mi misi alla scrivania. Trovarmi in quella stanza era terribile, e non sapevo quanto avrei resistito. Su un ripiano il guantone da baseball di Fanshawe avvolgeva una logora pallina; sugli scaffali sopra e sotto c’erano i libri che aveva letto da bambino; proprio alle mie spalle il letto, con la trapunta a scacchi bianchi e azzurri che ricordavo da tanti anni prima. Queste erano le prove tangibili, gli avanzi di un universo morto. Mi ero affacciato al museo del mio passato, e quello che vi trovai per poco non mi annientò. In una catasta: il certificato di nascita di Fanshawe, le pagelle scolastiche di Fanshawe, i distintivi da scout di Fanshawe, il diploma di liceo di Fanshawe. In un’altra catasta: fotografie. Un album di Fanshawe da bambino; un album di Fanshawe e sua sorella; un album di tutta la famiglia (Fanshawe a dieci anni che sorride in braccio al padre, Fanshawe ed Ellen che spingono la madre sull’altalena in cortile, Fanshawe circondato dai cugini). E poi le foto sparse – in cartellette, buste, scatolette: decine ritraevano me e Fanshawe insieme (mentre nuotiamo, giochiamo alla lotta, andiamo in bicicletta, facciamo le boccacce in cortile; mio padre che ci porta in groppa tutti e due; i capelli a spazzola, i jeans larghi, le vecchie auto sullo sfondo: una Packard, una De Soto, una Ford familiare con i pannelli di legno). Foto di classe, di squadra, di campeggio. Foto di corse, di partite. Seduti in canoa, impegnati nel tiro alla fune. Poi, quasi in fondo, alcune foto di anni più recenti, di Fanshawe come non lo avevo mai visto. Fanshawe a Harvard Yard; Fanshawe sul ponte di una petroliera Esso; Fanshawe a Parigi, davanti a una fontana di pietra. Per ultima, un’unica foto di Fanshawe con Sophie… un Fanshawe invecchiato, incupito; e Sophie così terribilmente giovane, così bella ma come assente, incapace di concentrarsi. Trassi un lungo sospiro e poi, di colpo, cominciai a piangere, ignaro fino all’ultimo secondo di avere
dentro di me quelle lacrime, singhiozzando forte, tremando con la faccia tra le mani. A destra delle foto c’era una scatola piena di lettere, almeno un centinaio, che iniziavano quando aveva otto anni (la scrittura stentata di un bambino, macchie d’inchiostro e cancellature) e arrivavano all’inizio degli anni settanta. C’erano delle lettere dal college, dalla nave, dalla Francia. In maggioranza erano indirizzate a Ellen, e molte erano lunghe. Capii subito che dovevano essere fondamentali, certo più importanti di tutte le altre cose in quella stanza, ma non ebbi il coraggio di leggerle là dentro. Aspettai un quarto d’ora, poi raggiunsi gli altri al pianterreno. La signora Fanshawe voleva che gli originali rimanessero in casa, ma non aveva niente in contrario a fotocopiarli. Si offrì di farlo personalmente, ma le dissi di non preoccuparsi: sarei tornato un altro giorno e avrei sistemato tutto. Per pranzo facemmo picnic in giardino. Ben dominò la scena, alternando i morsi al panino con le corse e rincorse tra le aiuole, finché alle due eravamo pronti per rincasare. La signora Fanshawe ci accompagnò in macchina alla fermata dell’autobus e ci baciò tutti e tre, manifestando più emozione di quanto avesse fatto fino allora. Cinque minuti dopo l’autobus si mise in moto, Ben si addormentò tra le mie braccia e Sophie mi prese la mano. – Non è stata una giornata troppo allegra, vero? – disse. – Di’ pure che è stata orrenda, – risposi. – Immagina di dover fare conversazione con quella donna per quattro ore. Ho esaurito gli argomenti nell’attimo in cui siamo arrivati. – Probabilmente non le piacciamo molto. – No, non credo. – Ma questo non sarebbe niente. – È stato duro rimanere di sopra da solo, vero? – Molto. – Ci vuoi ripensare? – Ho paura di sì. – Ti capisco. Questa storia sta diventando abbastanza macabra. – Devo riconsiderare bene tutto. Ora come ora, comincio a credere di avere commesso un grave errore. Quattro giorni dopo la signora Fanshawe telefonò annunciandomi che partiva per l’Europa per un mese, e forse conveniva sbrigare subito la nostra faccenda (parole sue). Io avevo intenzione di mollare tutto, ma prima di
trovare una scusa plausibile per non passare da lei avevo già sentito me stesso accordarsi per il lunedì dopo. Sophie rinunciò ad accompagnarmi, e io non insistetti. Eravamo d’accordo che una sola visita di famiglia fosse più che sufficiente. Jane Fanshawe venne a prendermi alla stazione degli autobus, tutta sorrisi e salutini teneri. Dal momento in cui salii sulla sua macchina, ebbi la sensazione che stavolta le cose sarebbero state diverse. Si era vestita in modo più civettuolo (pantaloni bianchi, camicetta di seta rossa aperta sul collo abbronzato e ancora senza rughe), ed era difficile non accorgersi che mi invitava a guardarla, a riconoscere che era ancora bellissima. Ma c’era anche qualcos’altro: il tono un po’ insinuante della sua voce, come a evocare una complicità da vecchi amici, un’intimità creata dal passato, a sottintendere che bello, stavolta ero venuto da solo, così saremmo stati liberi di parlarci apertamente. Lo trovai molto spiacevole, e non dissi una parola più del necessario. – Ti sei fatto proprio una bella famigliola, caro, – disse voltandosi verso di me mentre ci fermavamo a un semaforo rosso. – Sì, – ripetei. – Una bella famigliola. – Oh, il bambino è adorabile, veramente. Ti ruba il cuore. Ma un po’ scatenato, non ti sembra? – Ha soltanto due anni. A quell’età in genere i bambini sono molto vivaci. – Certo. Ma ho paura che Sophie abbia un po’ perso la testa per lui. Sembra che qualunque cosa la faccia ridere, non so se sono chiara… Voglio dire, io non ho niente contro l’allegria, ma un po’ di disciplina non farebbe male. – Sophie fa così con tutti, – ribattei. – Una donna piena di vita è anche una madre piena di vita. Da quello che vedo, Ben è molto sereno. Una breve pausa; poi, quando ripartimmo lungo un ampio viale di negozi, Jane Fanshawe aggiunse: – È proprio una ragazza fortunata, quella Sophie. Ha avuto la fortuna di cadere in piedi. E di trovare un uomo come te. – Solitamente penso tutto l’opposto, – dissi. – Sei troppo modesto. – No. So quello che dico. Finora, ho avuto tutta la fortuna dalla mia. A queste parole sorrise… un sorriso sfuggente ed enigmatico, come se mi giudicasse un po’ tonto e nello stesso tempo incassasse il colpo, visto che non le lasciavo spiragli. Pochi minuti dopo, quando arrivammo a casa sua,
sembrava che avesse abbandonato la tattica iniziale. Non parlò più di Sophie e di Ben, ma si trasformò in un modello di sollecitudine, ripetendomi che era felice che scrivessi il libro su Fanshawe, come se il suo incoraggiamento fosse determinante, fosse l’approvazione definitiva non solo per il libro, ma per tutta la mia persona. Quindi, porgendomi le chiavi della macchina, mi spiegò come fare per raggiungere il centro di fotocopie più vicino. Disse che quando tornavo avrei trovato il pranzo servito. Per copiare le lettere impiegai più di due ore, perciò quando tornai da lei era l’una. Effettivamente il pranzo era servito, ed era da restare a bocca aperta: asparagi, salmone freddo, formaggi, vino bianco… insomma, ogni ben di Dio. Tutto pronto sulla tavola, accompagnato da fiori e da quello che era chiaramente il servizio più pregiato. Credo che il mio volto tradì la sorpresa. – Volevo farti un po’ festa, – spiegò la signora Fanshawe. – Non hai idea del piacere che provo ad averti qui. Tutti i ricordi che riaffiorano. È come se le disgrazie non fossero mai successe. Sospettai che in mia assenza avesse già cominciato a bere. Era ancora lucida e sicura nei movimenti, ma la voce le si era come ispessita, assumendo una nuova tonalità tremula ed espansiva. Mentre ci sedevamo a tavola, mi dissi che dovevo stare in guardia. Il vino fu versato generosamente, e quando vidi che lei prestava più attenzione al bicchiere che al piatto, servendosi il cibo e poi ignorandolo completamente, cominciai a temere il peggio. Dopo qualche domanda di circostanza sui miei genitori e sulle mie sorelle minori, la conversazione si ridusse a un monologo. – È strano, – disse, – strano come cambiano i fatti della vita. Da un momento all’altro non si sa mai che cosa può succedere. Eccoti qui, il bambino della porta accanto. Sei la stessa persona che mi correva per casa con le scarpine infangate… ma adesso sei cresciuto, sei un uomo. Sei il padre di mio nipote, te ne rendi conto? Hai sposato la moglie di mio figlio. Se dieci anni fa qualcuno mi avesse detto che il futuro era questo, gli avrei riso in faccia. Alla fine cosa impari dalla vita? Che è proprio strana. Non riesci a stare al passo con quello che succede. Non riesci nemmeno a immaginartelo. Lo sai che gli assomigli, perfino? Vi siete sempre assomigliati, voi due… come fratelli, quasi come gemelli. Mi ricordo che quando eravate bambini qualche volta da lontano vi scambiavo. Non distinguevo chi era mio figlio. So che gli hai voluto tanto bene, e che lo ammiravi. Ma, caro, lascia che
te lo dica. Non valeva nemmeno la metà di te. Era freddo dentro. In lui tutto era morto, e credo che non abbia mai amato nessuno… neppure una volta, una volta nella vita. Certi giorni guardavo te e tua madre in cortile: come le correvi incontro e le buttavi le braccia al collo, come lasciavi che ti baciasse… vedevo proprio davanti a me, come uno schiaffo sulla faccia, tutto quello che non avevo da mio figlio. Non voleva che lo toccassi, sai. Dopo i quattro o cinque anni, ogni volta che mi avvicinavo a lui si chiudeva come un riccio. Come credi che si senta una donna… quando suo figlio la disprezza? Dio santo, ero così giovane allora. Quando è nato non avevo ancora vent’anni. Immagina cosa vuol dire sentirsi rifiutata così. Non sto dicendo che fosse cattivo. Era una creatura a sé, un figlio senza genitori. Le mie parole non avevano nessun effetto su di lui. Lo stesso con suo padre. Da noi non voleva mai imparare niente. Robert ha provato e riprovato, senza mai riuscire a comunicare con il bambino. Ma non si può castigare qualcuno per mancanza di affetto, non credi? Non puoi obbligare un bambino ad amarti solo perché è il tuo. Certo, c’era Ellen. La povera, infelice Ellen. Con lei è stato buono, lo sai anche tu. Ma, come dire, è stato troppo buono, ha finito per danneggiarla. Le ha fatto il lavaggio del cervello. L’ha resa talmente succube che prima di rivolgersi a noi ci pensava due volte. Era lui quello che la sapeva capire, l’unico che le dava i consigli, l’unico che poteva risolvere i suoi problemi. Robert e io eravamo come pupazzi. Nei confronti dei figli, era come se non esistessimo. Ellen aveva una tale fiducia in suo fratello che alla fine gli ha ceduto anche l’anima. Non voglio dire che lui sapesse cosa stava facendo, ma mi tocca ancora vivere con il risultato dei suoi pasticci. La ragazza ha ventisette anni, ma si comporta come se ne avesse quattordici… questo quando sta bene. È talmente confusa, così terrorizzata dentro. Un giorno pensa che voglio distruggerla, l’indomani mi telefona trenta volte. Trenta volte, ti dico. Non puoi neanche lontanamente immaginarti cosa significa. Sai, è Ellen la causa della sua decisione di non pubblicare niente. È per lei che ha lasciato Harvard dopo il secondo anno. All’epoca scriveva poesie, e ogni settimana le spediva un po’ di manoscritti. Lo sai come sono quelle poesie. Praticamente incomprensibili. Molto appassionate, certo, tutto un putiferio di esortazioni, ma così oscure che fanno pensare di essere state scritte in codice. Ellen passava delle ore a scervellarsi su quei testi, sembrava che la sua vita dipendesse da loro, leggeva le poesie come messaggi segreti,
profezie scritte apposta per lei. Penso che lui non avesse idea di quello che stava succedendo. Sai com’è, il fratello era partito, e le poesie erano tutto quello che le aveva lasciato. Povera piccola. Aveva solo quindici anni, e si stava già sfasciando. Si lambiccava su quelle pagine finché erano tutte sporche e cincischiate, se le portava dietro dappertutto. Quando poi stava davvero male, abbordava sull’autobus dei perfetti sconosciuti e gliele metteva in mano. «Leggi queste poesie, – diceva. – Saranno la tua salvezza». Naturalmente, alla fine le è venuto il primo esaurimento. Un giorno, al supermercato, l’ho persa di vista e prima che me ne accorgessi lei stava prendendo dalle scansie quei grossi bottiglioni di succo di mela e li sbatteva per terra. Uno dopo l’altro, come se fosse stata in trance, lì, in piedi fra tutti quei vetri rotti, le caviglie insanguinate, succo che scorreva dappertutto. È stato orribile. Era talmente fuori di sé che ci sono voluti tre uomini per immobilizzarla e portarla via. Non voglio dire che la colpa sia stata di suo fratello. Ma di sicuro quelle maledette poesie non le hanno fatto bene, e a ragione o a torto, lui ha deciso che era colpa sua. Da allora, non ha mai voluto pubblicare niente. È venuto a trovare Ellen in ospedale, e credo che sia stato troppo per lui, vederla in quelle condizioni, completamente sconvolta, completamente folle… inveiva contro di lui, gridava, lo accusava di odiarla. È stata una vera e propria crisi da schizoide, sai, e lui non resistette. Fu allora che giurò di non pubblicare. Credo se lo sia imposto come una specie di autopunizione, e l’ha mantenuto per il resto della sua vita, eh? L’ha mantenuto secondo il suo carattere, cocciuto, implacabile, fino alla fine. Circa due mesi dopo, mi arrivò una lettera con cui mi informava di avere lasciato il college. Bada che non mi chiedeva il mio parere, me lo comunicava e basta. Cara mamma eccetera eccetera, tutto molto nobile e solenne. Lascio la scuola per risparmiarti l’onere del mio mantenimento. E via discorrendo con le condizioni di Ellen, i costi esorbitanti delle cure, i dannatissimi qui e là, e su e giù, eccetera eccetera. Andai su tutte le furie. Un ragazzo come lui che buttava via la propria istruzione senza motivo. Era un atto di sabotaggio, ma non potevo farci niente. Era già partito. Il padre di un suo amico di Harvard c’entrava con la marina mercantile – doveva essere un sindacalista dei marittimi, o roba del genere – e grazie a lui riuscì ad avere i documenti. Quando mi arrivò la lettera era nel Texas, e tanti saluti. Non l’ho visto per più di cinque anni.
Circa ogni mese arrivava una lettera o una cartolina per Ellen, ma sempre senza mittente. Parigi, Francia del sud, Dio sa dove, ma tutto organizzato in modo che non potessimo mai contattarlo. Trovavo il suo comportamento vergognoso. Vigliacco e vergognoso. Non chiedermi perché ho conservato le lettere. Mi pento di non averle bruciate. Ecco cosa avrei dovuto fare. Bruciarle, tutte quante –. Andò avanti così per più di un’ora, le sue parole madide di una crescente amarezza, a tratti chiare e nette, poi, dopo un nuovo bicchiere di vino, sempre meno coerenti. La sua voce era ipnotica. Sentivo che fino a quando continuava a parlare, più niente avrebbe potuto toccarmi. Mi sentivo invulnerabile, sotto la protezione delle parole che le uscivano di bocca. Non l’ascoltavo nemmeno. Galleggiavo nella sua voce, ne ero fasciato, la sua persistenza mi spingeva all’insú come una boa nei frangenti delle sillabe, nell’altalena delle onde. Quando la luce pomeridiana entrò dalla finestra inondando la tavola, guizzando sulle salse, sul burro che scioglieva, sulle verdi bottiglie di vino, tutto nella stanza si fece così luminoso e immobile che il fatto di essere lì seduto, dentro il mio corpo, cominciò a sembrarmi irreale. Sto dileguandomi, dissi fra me, guardando il burro che si squagliava nel piattino, e un paio di volte arrivai a pensare che dovevo finirla, che dovevo impedire alla situazione di sfuggirmi di mano, ma alla fine non feci niente, capii che non potevo farci niente. Non voglio giustificarmi per quello che successe. L’ubriachezza non è mai più che un sintomo, non è una vera causa, e capisco che farei male a impostare una difesa. Tuttavia, esiste almeno una possibilità di spiegazione. Ora sono abbastanza sicuro che i fatti che seguirono riguardavano il passato non meno che il presente; a distanza di anni mi sembra bizzarro come quel pomeriggio abbia saldato il conto con tanti vecchi sentimenti. Mentre ascoltavo la signora Fanshawe, non potevo non ricordare come l’avevo vista da ragazzo, e da qui mi tornarono in mente delle immagini che non vedevo da anni. Restai scosso da una in particolare: quella di un pomeriggio d’agosto, quando avevo tredici o quattordici anni, e dalla finestra della mia camera avevo visto la signora Fanshawe uscire di casa in costume da bagno, sganciare con noncuranza il pezzo superiore e adagiarsi su una sdraio con la schiena al sole. Tutto era accaduto per caso. Ero lì alla finestra, a fantasticare, quando una donna bellissima entra inaspettatamente, senza scomporsi, nel mio campo visivo, quasi nuda, ignara della mia presenza come se l’avessi
evocata per incanto. Quell’immagine mi accompagnò a lungo, e nell’adolescenza la proiettai spesso: era il mio baccanale fanciullesco, il pezzo forte delle mie fantasie notturne. E adesso con ogni probabilità quella donna mi stava seducendo. Non sapevo che cosa pensare. Da una parte, la scena mi sembrava grottesca. Dall’altra, aveva un risvolto naturale, anche logico, e sentivo che se non l’avessi contrastato con tutte le forze, avrei consentito che accadesse. Sicuramente mi fece pietà. La sua versione della storia di Fanshawe era così sofferta, così irta dei segni di una sincera infelicità, che a poco a poco diventai più indulgente e caddi nella sua trappola. Quello però che ancora non capisco, è in che misura fosse conscia di quello che faceva. Lo aveva premeditato, o aveva solo lasciato che le cose seguissero il loro corso? Il suo scilinguagnolo era il grimaldello per stroncare le mia resistenza o lo sfogo di un sentimento sincero? Temo che su Fanshawe abbia detto la verità, o almeno la sua verità, ma questo non basta a persuadermi: anche un bambino sa che la verità si può piegare a un secondo fine. Ma soprattutto resta la questione del movente. Dopo quasi sei anni, non ho ancora trovato una risposta. Non mi illudo che mi trovasse così irresistibile. No: la ragione era più intima, e molto più sinistra. È da un po’ che mi chiedo se per caso in me non abbia colto lo stesso odio verso Fanshawe che provava lei. Forse sentì questo legame occulto fra di noi, forse era il genere di legame che si può manifestare solo con un gesto smisurato e perverso. Scopare con me sarebbe stato come scopare con Fanshawe – come scopare con il proprio figlio – e nella tenebra di questo peccato reimpossessarsene, ma solo per distruggerlo. Una vendetta terribile. Se così fosse, non avrei più il conforto di chiamarmi la sua vittima. Semmai, sarei suo complice. Cominciò poco dopo che era scoppiata a piangere, quando, esaurita finalmente la carica, le sue parole si spezzarono in lacrime. Ubriaco, saturo di emozioni, mi alzai, mi avvicinai e l’abbracciai per consolarla. Quel gesto ci portò oltre la soglia. Un semplice contatto fu sufficiente a destare una reazione erotica, il cieco ricordo di altri corpi, altri abbracci. Un attimo dopo ci stavamo baciando; poi, dopo pochi altri attimi, ci ritrovammo nudi sul letto al piano di sopra. Pur essendo ubriaco, non ero così stordito da non sapere cosa stavo facendo. Ma nemmeno il rimorso mi fermò. Questo attimo passerà, dissi fra me, e non farà male a nessuno. Non ha rapporti con la mia vita, non c’entra
con Sophie. Ma già allora, nell’atto, mi resi conto che questo non bastava. Perché in realtà scopare la madre di Fanshawe mi piaceva, ma in un modo che non aveva niente a che vedere con il piacere fisico. Ero come corroso, e per la prima volta in vita mia non trovai in me nessuna tenerezza. Scopai per odio, e fu un atto di violenza, raschiavo quella donna come se avessi voluto polverizzarla. Ero entrato nella mia zona oscura, e lì incontrai la più atroce delle rivelazioni: che il desiderio sessuale può essere anche desiderio di uccidere, che viene il momento in cui un uomo invece della vita può scegliere la morte. Quella donna voleva che la torturassi e io lo feci, e mi scoprii a godere della mia crudeltà. Ma anche in quel momento sapevo di essere solo a mezza via, sapevo che lei era soltanto un’ombra attraverso la quale cercavo di colpire Fanshawe. Quando le venni dentro per la seconda volta – tutti e due madidi di sudore, bramivamo come creature di un incubo – finalmente compresi. Volevo uccidere Fanshawe. Volevo che Fanshawe fosse morto, e lo avrei fatto morire. Lo avrei trovato e lo avrei ucciso. La lasciai addormentata nel letto, uscii silenziosamente dalla stanza e scesi le scale per chiamare un taxi. Mezz’ora dopo ero sull’autobus per New York. Al Port Authority Terminal andai nella toilette e mi lavai la faccia e le mani, poi presi la metropolitana. Rincasai proprio mentre Sophie apparecchiava la cena.
7. Il peggio cominciò allora. Avevo talmente tante cose da nascondere a Sophie che non avrei neanche dovuto farmi vedere. Diventai irritabile e schivo e mi rintanai nel mio piccolo studio, sempre in cerca della solitudine. Sophie sopportò a lungo, dimostrando una pazienza che non mi era dovuta, ma alla fine cedette, e a mezza estate avevamo cominciato a punzecchiarci, a sindacare su tutto, a litigare per la minima sciocchezza. Un giorno rincasando la trovai che piangeva sul letto, e capii che stavo distruggendo la mia vita. Per Sophie, era tutta colpa del libro. Se solo avessi smesso di lavorarci, tutto sarebbe tornato normale. Disse che ero stato precipitoso. Quel progetto era un errore, e non dovevo ostinarmi a negarlo. Ovviamente aveva ragione, ma continuai a opporle altri argomenti: mi ero impegnato a scriverlo, avevo firmato un contratto, e rimangiarmi tutto sarebbe stato pusillanime. Non le dissi che non avevo più intenzione di scriverlo. Per me il libro aveva senso solo in quanto poteva condurmi a Fanshawe, per il resto non contava niente. Era diventata una questione privata, che non c’entrava più con la scrittura. Tutte le ricerche preliminari, tutti i fatti che avrei scoperto scavando nel passato, tutto il lavoro apparentemente legato al libro, erano strumenti per scoprire dove si nascondeva lui. Povera Sophie. Non ebbe mai il minimo sentore delle mie intenzioni, perché in realtà quello che fingevo di fare non era diverso da quello che facevo veramente. Riordinavo il mosaico della vita di un uomo. Accumulavo notizie, raccoglievo nomi, luoghi e date fissando una cronologia dei fatti. Ancora oggi la mia pervicacia mi sgomenta. Tutto si era ridotto a un solo imperativo categorico: rintracciare Fanshawe, parlare con Fanshawe, trovarmi faccia a faccia con Fanshawe per l’ultima volta. Ma non riuscii mai a procedere oltre, a stabilire cosa speravo di ottenere da quell’incontro. Fanshawe aveva scritto che mi avrebbe ucciso, ma le minacce non mi spaventavano. Sapevo che dovevo trovarlo: altrimenti niente sarebbe mai stato chiarito. Questo era l’assioma, il fondamento, il mistero della fede: lo accettavo, ma non mi preoccupavo di spiegarmelo.
In ultima analisi, non credo che volessi veramente ucciderlo. La fantasia omicida che mi era balenata insieme alla signora Fanshawe non durò a lungo, almeno a livello conscio. A volte mi sfilavano davanti rapide scene in cui strangolavo Fanshawe, lo accoltellavo, gli sparavo al cuore… ma negli anni avevo analogamente ucciso dentro di me altre persone, e non me ne preoccupai troppo. Lo strano non era tanto che io desiderassi uccidere Fanshawe, quanto che a volte pensassi che lui desiderava essere ucciso da me. Capitò solo una volta o due – nei miei momenti di massima lucidità – e mi convinsi che il vero significato della lettera che mi aveva scritto era questo. Fanshawe mi aspettava. Mi aveva scelto come suo carnefice, e sapeva di potersi fidare. Ma era proprio per questo che non lo avrei ucciso. Dovevo porre termine al potere di Fanshawe, non soggiacervi. Lo scopo era provargli che non mi curavo più di lui: lo dovevo trattare come un morto pur sapendo che era vivo. Ma prima che a Fanshawe, dovevo provarlo a me stesso, e il fatto che dovessi provarmelo era la prova che me ne curavo ancora. Non mi era sufficiente lasciare che le cose seguissero il loro corso. Dovevo dare loro uno scossone, portarle al punto critico. Poiché non ero ancora sicuro di me stesso, avevo bisogno di correre dei rischi, di saggiare le mie risorse prima dell’estremo pericolo. Uccidere Fanshawe non avrebbe avuto nessun significato. Il problema era ritrovarlo vivo, e malgrado ciò allontanarmi da lui. Le lettere a Ellen mi furono utili. Diversamente dai taccuini, per lo più speculativi e aridi di dettagli, le lettere erano molto particolareggiate. Vi trapelavano gli sforzi di Fanshawe per svagare la sorella, per divertirla con racconti umoristici, e perciò i riferimenti apparivano più personali che altrove. Spesso, ad esempio, comparivano nomi: di compagni di scuola e di navigazione, o di persone conosciute in Francia. E anche se ometteva il proprio indirizzo sulla busta, citava molte località: Baytown, Corpus Christi, Charleston, Baton Rouge, Tampa, vari quartieri di Parigi, un villaggio della Francia meridionale. Ricavai abbastanza elementi per mettermi in azione, e per alcune settimane restai nella mia stanza a compilare elenchi, abbinando le persone con i luoghi, i luoghi con i tempi, i tempi con le persone, schizzando mappe e calendari, ricercando indirizzi, scrivendo lettere. Dovevo trovare una pista, e tentavo di seguire qualsiasi direzione mi apparisse minimamente promettente. Presumevo che strada facendo Fanshawe dovesse avere commesso un errore, che qualche vecchia conoscenza del passato avesse
incrociato la sua strada. Non era una certezza, ma sembrava l’unico punto di partenza sensato. Le lettere dall’università appaiono piuttosto genuine e piatte – riassunti di libri letti e di discussioni con gli amici, descrizioni della vita del college – ma risalgono al periodo antecedente al crollo nervoso di Ellen, e sono contraddistinte da un tono intimo e confidenziale abbandonato nelle lettere successive. Per esempio, sulla nave Fanshawe parla raramente di sé, salvo che in relazione agli aneddoti che ha deciso di narrare. Lo vediamo alle prese con il nuovo ambiente, mentre gioca a carte (e vince) in sala comune con un macchinista della Louisiana, mentre gioca a biliardo (e vince) in alcuni bar malfamati della terraferma, e spiega i suoi successi come colpi fortunati: «Devo tenermi talmente su di giri per non cadere a pelle di leone, che mi sa tanto di avere superato i miei limiti. Grazie alle scariche di adrenalina, credo». Descrizioni degli straordinari in sala macchine: «Sembra incredibile, ma ci sono sessanta gradi… le scarpe mi si sono talmente riempite di sudore che sciaguattavano come se camminassi nelle pozzanghere»; o di quando un dentista ubriaco di Baytown, Texas, gli estrasse un dente del giudizio: «Sangue dappertutto, e per una settimana il buco nella gengiva ostruito dai frammenti del povero dente». Essendo l’ultima ruota del carro, Fanshawe veniva trasferito da una mansione all’altra. In ogni porto c’erano membri dell’equipaggio che abbandonavano la nave per tornare a casa e altri che ne prendevano il posto: e se uno dei nuovi arrivati preferiva il lavoro di Fanshawe a quello rimasto vacante, il Ragazzo (lo chiamavano così), veniva destinato ad altra occupazione. Perciò Fanshawe fece di volta in volta il marinaio semplice (raschiando e verniciando il ponte), il mozzo (lavando i pavimenti, rifacendo i letti, pulendo i bagni) e lo sguattero (servendo in tavola e lavando i piatti). Quest’ultimo lavoro era il più duro, ma anche il più interessante, dato che la vita su una nave ruota principalmente intorno al grande tema del cibo: giganteschi appetiti gonfiati dalla noia, uomini che vivevano letteralmente per passare da un pasto all’altro, alcuni sorprendentemente sofisticati (corpacciuti energumeni capaci di giudicare un manicaretto con l’aristocratico disdegno di un duca francese del Settecento). Ma il primo giorno di lavoro Fanshawe fu catechizzato da un veterano: – Tu non farti mettere sotto i piedi da nessuno, – gli disse. – Se uno si lamenta del rancio, digli di non rompere i coglioni. Se insiste, ignoralo e servilo per ultimo. E se non funziona, tu digli che la prossima volta gli metti l’acqua
gelata nella zuppa. No, anzi, digli che ci pisci dentro. Bisogna che sappiano chi è che comanda. Vediamo Fanshawe portare la colazione al capitano una mattina, dopo una notte di violente tempeste al largo di Capo Hatteras: Fanshawe che dispone sul vassoio il pompeimo, le uova strapazzate e il pane tostato, avvolge il vassoio nella stagnola e lo avvolge ulteriormente negli asciugamani sperando che quando salirà sul ponte i piatti non volino in mare (dato che il vento soffia a settanta nodi); quindi Fanshawe che sale la scala, muove i primi passi sul ponte e poi, all’improvviso, investito da una folata, compie una spasmodica piroetta: la furia del vento raggiunge il vassoio da sotto spingendogli le braccia sopra la testa come se stesse aggrappato a una primitiva macchina volante, e fosse sul punto di tuffarsi in acqua; Fanshawe che raccoglie le forze per abbassare il vassoio riuscendo infine a stringerselo al petto, mentre miracolosamente i piatti evitano di cadere; dopodiché, un passo dopo l’altro, percorre il ponte come un lillipuziano miniaturizzato dall’apocalisse eolica che lo circonda; Fanshawe che, dopo chissà quanti minuti, raggiunge l’estremità opposta, entra nel castello di prua, vede il capitano grassoccio al timone, dice – La sua colazione, capitano, – e il nocchiero si volta, lo ringrazia con la più fuggevole delle occhiate e risponde con voce distratta: – Grazie, ragazzo. Lasciala sul tavolo. Tuttavia l’esperienza di Fanshawe non fu sempre così amena. Fa allusione a una rissa (senza altri dettagli) che sembra averlo turbato, oltre ad alcune scene spiacevoli di cui fu testimone a terra. Per esempio, i maltrattamenti a un negro in un bar di Tampa: una masnada di ubriachi che si coalizzano contro un vecchio uomo di colore entrato con una grande bandiera americana – voleva venderla – e il primo ubriaco che spiega la bandiera e sentenzia che non ci sono abbastanza stelle – «questa bandiera è fasulla» – al che il vecchio nega, quasi strisciando a chiedere pietà, mentre gli altri ubriachi bofonchiando danno ragione al primo… e tutto si conclude con il vecchio spintonato fuori dalla porta e cade a faccia in giù sul marciapiede, e gli ubriachi che annuiscono liquidando la faccenda con alcuni rilievi sulla necessità di difendere la democrazia in tutto il mondo. «Mi sono sentito umiliato, – scrisse Fanshawe, – mi vergognavo di trovarmi lì». In complesso però le lettere hanno un tono scherzoso (una comincia così: «Chiamami Redburn»), e alla fine si ha la sensazione che Fanshawe sia riuscito a dimostrare qualcosa a se stesso. La nave non era che un pretesto,
un’alterità arbitraria, un modo per cimentarsi con l’ignoto. E come in tutte le iniziazioni, la sopravvivenza è di per sé un trionfo. Quelli che inizialmente potevano sembrare i suoi punti deboli – l’istruzione harvardiana, le origini borghesi – riesce a volgerli a proprio vantaggio, tant’è che alla fine del servizio è unanimemente riconosciuto come l’intellettuale dell’equipaggio, e non lo chiamano più solo «il Ragazzo», ma qualche volta anche «il Professore»; lo chiamano ad arbitro delle loro dispute (chi fu il ventitreesimo presidente degli Stati Uniti, quanti abitanti ha la Florida, chi era l’esterno sinistro dei Giants nel 1947) e lo consultano regolarmente come fonte delle informazioni più insolite. I marinai gli chiedono aiuto per compilare i moduli burocratici (cartelle fiscali, questionari assicurativi, descrizioni di incidenti sul lavoro) e alcuni addirittura per scrivere lettere personali (spiccano le diciassette missive d’amore di Otis Smart alla sua ragazza Sue–Ann di Dido, Louisiana). Il dato più importante non è che Fanshawe sia salito alla ribalta, ma che sia stato in grado di adattarsi, di trovare una sua collocazione. Dopo tutto, per lui l’autentica ordalia è essere uno come gli altri. Una volta raggiunto l’obiettivo, non soffre più il problema della propria eccezionalità. È libero… e non solo dagli altri, ma da se stesso. Credo che la prova decisiva sia che quando lascia la nave non saluta nessuno. Firma il congedo una sera a Charleston, riceve la paga dal capitano e sparisce. Due settimane dopo è a Parigi. Per due mesi nessuna notizia. Poi, per i tre mesi successivi, soltanto cartoline. Messaggi brevi, frammentari, scribacchiati sul verso delle solite vedute turistiche: il Sacré-Coeur, la Tour Eiffel, la Conciergerie. Quando cominciano ad arrivare le lettere, sono sporadiche e non dicono niente di importante. Sappiamo che a questo punto Fanshawe è immerso nel suo lavoro (molte poesie giovanili, un primo abbozzo di Oscuramenti), ma dalle lettere non ricaviamo indicazioni utili sulla vita che sta conducendo. Si capisce che attraversa un conflitto, che è in crisi nei confronti di Ellen, che non vuole interrompere i contatti ma non sa decidere se deve dirle molto o poco. (E in realtà la maggior parte di queste lettere Ellen non le vede nemmeno. Sono indirizzate a casa nel New Jersey, e naturalmente vengono aperte dalla signora Fanshawe che le esamina prima di mostrarle alla figlia: così, in genere Ellen non le legge. Credo che Fanshawe sapesse che sarebbe andata così, o almeno lo sospettava. Il che complica ancora la faccenda… dato che a ben guardare queste lettere non erano affatto concepite per Ellen. Spedirle a
sua sorella si rivela un semplice espediente letterario, il mezzo con cui Fanshawe comunica con la madre. Da qui nasce la rabbia di lei. Perché proprio nell’atto di parlarle, il figlio può fingere di ignorarla). Per circa un anno le lettere vertono quasi esclusivamente su cose (strade, edifici, descrizioni di Parigi), contenendo meticolosi cataloghi di ciò che l’autore ha visto e sentito: ma la presenza di Fanshawe è impercettibile. Poi, gradualmente, cominciamo a intravedere i suoi conoscenti, a cogliere una lenta gravitazione verso l’aneddoto: tuttavia, i racconti sono staccati da ogni contesto, e risultano vaghi e impalpabili. Per esempio, leggiamo di un vecchio compositore russo di nome Ivan Wyshnegradsky, ormai quasi ottantenne, vedovo, in miseria, che vive da solo in uno squallido appartamento di rue Mademoiselle. «Vedo quest’uomo più di chiunque altro», dichiara Fanshawe. Non una parola sulla loro amicizia, nessun riferimento agli argomenti dei loro colloqui. Viceversa, un’interminabile descrizione del pianoforte con i quarti di tono che il compositore tiene in casa, enorme e dalla tastiera multipla (costruito espressamente per Wyshnegradsky a Praga quasi cinquant’anni prima, uno dei tre pianoforti di questo tipo esistenti in tutta l’Europa), seguita, senza altre notizie sulla carriera musicale del vecchio, dal racconto di come Fanshawe gli abbia regalato un frigorifero. «Il mese scorso stavo traslocando, – scrive Fanshawe. – E dato che la casa è fornita di un frigorifero nuovo, ho deciso di regalare quello vecchio a Ivan. Come molti parigini, non ha mai posseduto un frigorifero… per tutti questi anni ha conservato gli alimenti in una nicchia nel muro di cucina. Mi pare che abbia gradito l’offerta, e ho fatto in modo di recapitarglielo direttamente a casa, trasportandolo su per le scale con l’aiuto del camionista. Ivan ha salutato l’arrivo dell’elettrodomestico come un avvenimento importante della sua vita, con l’entusiasmo di un bambino, ma nel contempo era diffidente. Me ne sono accorto: era anche un po’ impaurito, non sapeva bene cosa fare di quell’oggetto estraneo. Mentre lo installavamo continuava a ripetere: – È così grosso… –, e poi, quando lo abbiamo collegato e il motore si è acceso: – Com’è rumoroso –. Gli ho assicurato che ci avrebbe fatto l’abitudine, elencando tutti i vantaggi di questo ritrovato della tecnica, e i motivi per cui gli avrebbe facilitato la vita. Mi sentivo un missionario: il grande Padre Sotutto, che redime il troglodita illustrandogli la vera religione. Passò più o meno una settimana e Ivan mi chiamò quasi ogni giorno per ripetermi quanto
era soddisfatto del frigorifero, descrivendo tutte le nuove vettovaglie che poteva comprare e conservare in casa. Poi, la catastrofe. Un giorno con la voce funerea mi annuncia: – Ho paura di averlo rotto Sembra che il piccolo congelatore in alto si fosse riempito di ghiaccio e lui, non sapendo come liberarlo, abbia usato il martello, frantumando non solo il ghiaccio, ma anche le serpentine sottostanti. – Mio caro amico, – aggiunse, – mi rincresce tanto –. Gli dissi di non preoccuparsi: avrei trovato un tecnico per ripararlo. Seguì una lunga pausa. – Be’, – rispose alla fine, – credo che forse sia meglio così. Sa, il chiasso. Faccio molta fatica a concentrarmi. È da tanto che uso la mia nicchia, che insomma, mi ci sono affezionato. Mio caro amico, non si arrabbi. Ho paura che non ci sia niente da fare con un vecchio come me. Quando si arriva a un certo punto, nella vita, dopo è troppo tardi per cambiare». Le lettere successive hanno lo stesso tono: citano personaggi, alludono a diverse occupazioni. Se ne ricava che i soldi guadagnati da Fanshawe sulla nave gli bastarono per circa un anno, poi dovette rimboccarsi le maniche. Sembra che per un po’ abbia tradotto una collana di libri d’arte: poi avrebbe impartito lezioni private di inglese ad alcuni studenti liceali; dopo ancora, per un’estate, fece il secondo turno di notte alla redazione parigina del «New York Times», come centralinista (il che quanto meno dimostra che aveva imparato bene il francese); segue un periodo abbastanza particolare, durante il quale lavora saltuariamente per un produttore cinematografico, revisionando i trattamenti, traducendo, abbozzando sceneggiature. Benché nelle opere di Fanshawe i riferimenti autobiografici siano rari, credo che alcuni episodi di Nel paese del mai si possano far risalire a quest’ultima esperienza (la casa di Montag nel settimo capitolo; il sogno di Flood al capitolo trenta). «Lo strano in quest’uomo, – scrive Fanshawe in una sua lettera (parlando del produttore), – è che mentre le sue relazioni finanziarie con i ricchi corrono sul filo della delinquenza (atti da pescecane, menzogne spudorate), verso i più derelitti si mostra comprensivo. Raramente denuncia i suoi debitori o li porta in tribunale: al contrario, consente loro di pagare il debito lavorando per lui. Il suo autista, ad esempio, è un marchese decaduto che gira su una Mercedes bianca. C’è un anziano barone che è occupato solo a fare fotocopie. Ogni volta che vado a casa sua per consegnare un lavoro, trovo in piedi in un angolo qualche nuovo lacchè, un nobile decrepito nascosto dietro i tendaggi, un distinto finanziere che poi scopro essere il
fattorino. Inoltre, non si spreca mai niente. Il mese scorso, quando l’ex direttore che abitava nella stanza della domestica al quinto piano si è suicidato, ho ereditato il suo cappotto. Da allora l’ho indossato tutti i giorni. È un lungo arnese nero che mi scende fin quasi alle caviglie. Sembro una spia». Quanto alla vita privata di Fanshawe, si limita ad accenni molto vaghi. Allude a una festicciola, descrive l’atelier di un pittore, e un paio di volte fa il nome di una certa Anne: ma la natura di questi rapporti rimane misteriosa. Del resto, ormai disponevo degli agganci che mi servivano. Pensai che scarpinando il giusto, recandomi sui luoghi e facendo domande, alla fine sarei riuscito a ritrovare alcune di quelle persone. A parte un viaggio di tre settimane in Irlanda (Dublino, Cork, Limerick, Sligo), pare proprio che Fanshawe fosse rimasto quasi sempre a Parigi. La versione finale di Oscuramenti fu completata durante il secondo anno nella capitale francese; Miracoli fu scritto durante il terzo, insieme a quaranta o cinquanta poesie brevi. Non è difficile fissare la cronologia, perché fu in quel periodo che Fanshawe prese l’abitudine di datare i suoi lavori. È ancora incerto il momento preciso in cui abbandonò Parigi per la campagna, ma credo che si collochi fra giugno e settembre del 1971. Qui la corrispondenza si dirada, e anche i taccuini riportano solo un elenco dei libri che stava leggendo (la Storia del mondo di Raleigh e i Viaggi di Cabeza de Vaca). Ma dopo essersi sistemato nella casa di campagna, racconta abbastanza esaurientemente come mai è finito proprio lì. I dettagli in sé sono trascurabili, anche se emerge un dato fondamentale: durante la sua permanenza in Francia, Fanshawe non fece mistero di essere uno scrittore. Gli amici conoscevano le sue opere, e se mai si dimostra reticente, lo fa solo nei confronti dei familiari. Fu un errore marchiano: l’unico momento di sbadataggine in tutto l’epistolario. «I Dedmon, una coppia americana che ho conosciuto a Parigi, – scrive, – l’anno prossimo non potranno recarsi nella loro casa di campagna (vanno in Giappone). Dato che la casa è già stata svaligiata un paio di volte, non vorrebbero lasciarla disabitata, e mi hanno proposto di fare il custode. Non solo potrò abitarci gratuitamente, ma mi viene assicurato l’uso della macchina e un piccolo stipendio (basterà a mantenermi, se starò molto attento). Questa sì che si chiama fortuna. Hanno detto che preferiscono che nella loro casa ci resti io a scrivere per un anno, piuttosto che affittarla a degli sconosciuti». Un peccato veniale, se vogliamo, ma quando lessi la frase mi
sentii incoraggiato. Per un momento, Fanshawe aveva abbassato la guardia: e se era successo una volta, poteva benissimo succedere di nuovo. Per valore letterario, le lettere dalla campagna sono le più notevoli. Ormai l’occhio di Fanshawe si era fatto incredibilmente acuto, e si coglie una nuova ricchezza di parole, come se la distanza tra vista e scrittura si fosse ridotta, e i due atti coincidessero, appartenessero a un unico gesto ininterrotto. Fanshawe è preoccupato del paesaggio e vi ritorna continuamente, studiandolo e registrandone i mutamenti all’infinito. In queste cose la sua pazienza non è mai meno che straordinaria, e nelle lettere come nei taccuini troviamo dei passi naturalistici di uno splendore per me incomparabile. La casa di pietra dove vive (muri spessi due piedi) è stata costruita durante la Rivoluzione: da una parte c’è un piccolo vigneto, dall’altra un prato dove pascolano le pecore; alle spalle si stende una foresta (gazze, corvi, cinghiali) e davanti, di là dalla strada, le rocce che conducono al villaggio (quaranta abitanti). Su quelle medesime rocce, nascoste in un intrico di alberi e arbusti, sorgono le rovine di una cappella appartenuta ai Templari. Ginestre, timo, querce, terra del sottobosco, argilla bianca, il mistral… Fanshawe vive più di un anno circondato da questi elementi, che a poco a poco sembrano modificarlo, radicandolo più profondamente in se stesso. Non parlerei di esperienza mistica o religiosa (parole che per me non vogliono dire nulla), ma tutto lascia credere che Fanshawe sia sempre rimasto solo, senza vedere quasi nessuno e praticamente senza parlare. Questa vita scabra lo disciplinò. La solitudine diventò una strada per giungere a se stesso, uno strumento di rivelazione. Benché fosse ancora molto giovane, ritengo che quel periodo abbia segnato l’inizio della sua maturità letteraria. Da allora, la sua opera non si può più definire promettente: è adulta, realizzata, inconfondibile. A partire dalla lunga raccolta di poesie scritte in campagna (Dalle radici), fino ai drammi e a Nel paese del mai (composti a New York), Fanshawe appare ai vertici della sua ispirazione. Viene spontaneo cercarvi qualche segno di squilibrio, qualche annuncio delle concezioni che alla fine gli si ritorsero contro: ma la sua opera non svela niente di simile. Fanshawe conferma una personalità non comune, ma all’apparenza sana, e nell’autunno del 1972, al suo ritorno in America, sembra assolutamente lucido. Le prime risposte me le dettero le persone che Fanshawe aveva conosciuto a Harvard. Sembrò che la parola biografia mi aprisse tutte le porte, e potei agevolmente incontrarmi con gran parte di loro. Parlai con il
suo compagno di camera del primo anno; parlai con alcuni suoi amici; parlai con due o tre ragazze di Radcliffe che erano uscite con lui. Non ne ricavai molto, però. Di tutti i miei informatori, uno solo mi fornì qualche notizia interessante. Parlo di Paul Schifi, il figlio del sindacalista che aveva trovato lavoro a Fanshawe sulla petroliera. Schifi ora faceva il pediatra nella contea di Westchester, e passammo una sera a parlare nel suo ambulatorio. Mi piacque per la sua franchezza (era un uomo piccolo, passionale, precocemente stempiato, con lo sguardo diretto e una voce suadente e sonora), e parlò apertamente, senza indugi. Conservava un ricordo indelebile della sua amicizia con Fanshawe che era stato molto importante nella sua vita. – Io ero un ragazzo diligente, – disse Schifi, – sgobbone, quadrato, senza troppa fantasia. A differenza di tutti noi, Fanshawe non aveva il sacro terrore di Harvard, e credo che questo fatto mi mise in soggezione. Aveva letto più di tutti – poesia, filosofia, narrativa – ma sembrava che la vita universitaria lo annoiasse. Se ne fregava dei voti, perdeva un sacco di lezioni, era come se andasse per conto suo. Da matricole non eravamo nemmeno vicini di stanza, ma chissà perché, mi scelse come amico. Finì che in pratica diventai la sua ombra. Fanshawe era sempre pieno di idee su tutto, credo di avere imparato di più da lui che a Harvard. Sarò stato anche malato di idolatria acuta… ma Fanshawe mi aiutò, e non l’ho dimenticato. È stato lui a insegnarmi a pensare con il mio cervello, a scegliere da solo. Se non fosse stato per lui, non sarei mai diventato medico. Cambiai facoltà perché lui mi convinse a fare quello che desideravo, e gliene sono ancora riconoscente. Verso la metà del secondo anno, Fanshawe mi disse che avrebbe lasciato l’università. Non mi sorpresi. Cambridge non era il posto adatto a Fanshawe, e sapevo che scalpitava, che non vedeva l’ora di andarsene. Ne parlai con mio padre, che era rappresentante sindacale dei marittimi, e gli trovò il lavoro su quella nave. Andò tutto benissimo. Fanshawe ottenne i documenti necessari in quattro e quattr’otto, e poche settimane dopo partì. Mi scrisse qualche volta, cartoline dai vari scali. Ciao, come va, banalità del genere. Ma non mi offesi… anzi, ero contento di avere fatto qualcosa per lui. Più tardi però, la considerazione che avevo di Fanshawe è andata un po’ a pallino. Un giorno, credo quattro anni fa, ero in città che camminavo sulla Quinta Avenue, quando ti incontro proprio lui, lì, per strada. Fui felice di rivederlo, veramente contento e meravigliato, ma lui fece fatica a salutarmi. Come se si fosse dimenticato di
me. Molto scostante, quasi sgarbato. Dovetti ficcargli in mano il mio indirizzo e il mio numero di telefono. Mi promise di chiamarmi, ma naturalmente non si sognò nemmeno di farlo. Fu un bruttissimo colpo, mi creda. Brutto bastardo, pensavo, chi ti credi di essere? Non mi aveva nemmeno detto cosa faceva nella vita… aveva eluso le mie domande e mi aveva piantato lì appena aveva potuto. Alla faccia dei tempi di Harvard, pensai. E alla faccia dell’amicizia. Mi lasciò l’amaro in bocca. L’anno scorso, per il mio compleanno, mia moglie mi ha regalato uno dei suoi libri. Lo so che è infantile, ma non ho avuto il coraggio di aprirlo. È rimasto lì sullo scaffale a coprirsi di polvere. È proprio strano, no? Tutti dicono che è un capolavoro, ma non penso che riuscirò mai a leggerlo. Questo fu il resoconto più lucido che raccolsi. Alcuni compagni di navigazione sulla petroliera mi dettero altre informazioni, ma niente che servisse al mio scopo. Per esempio, Otis Smart ricordava le lettere che Fanshawe aveva scritto al suo posto. Quando lo raggiunsi per telefono a Baton Rouge, si dilungò a rievocarle, citando anche alcuni appellativi inventati da Fanshawe («mia cara alluzza–alluci», «mia spiaccicacocomero», «diguazzasogno di perversità» e così via) e ridendo a crepapelle. La cosa più fenomenale, mi disse, fu che mentre lui le mandava quelle lettere, Sue–Ann correva la cavallina con un altro, e al suo ritorno gli annunciò che si sposava. – Meglio così, – aggiunse Smart. – L’altr’anno giù a casa l’ho rivista, peserà un quintale e mezzo. Sembra quelle ciccione dei fumetti… gira per strada impettita come un’oca coi calzoni attillati arancio e un branco di mocciosi che le urlano dietro. Mi ha fatto proprio ridere… ricordare le lettere. Quel Fanshawe là mi faceva scompisciare. Continuava a sparare fuori i suoi spropositi, e io iniziavo a rotolarmi per terra come una bertuccia. È proprio un peccato quello che è successo. Fa tristezza sentire che uno tira il calzino così da giovane. Jeffrey Brown, ora chef in un ristorante di Houston, era stato il vicecuoco della nave. Ricordava Fanshawe come l’unico bianco dell’equipaggio che lo trattasse umanamente. – Non era facile, – spiegò Brown. – Quelli dell’equipaggio erano quasi tutti vaccari sudisti, che avrebbero avuto più gusto a sputarmi in faccia che a salutarmi. Ma Fanshawe mi teneva compagnia, non gli importava del giudizio degli altri. Quando eravamo in franchigia a Baytown o in altri posti del genere, andavamo insieme a bere, a ragazze, tutto quanto.
Io quelle città le conoscevo meglio di lui, e lo avvisavo che se voleva venire in giro con me, non potevamo entrare nei soliti bar dei marinai. Sapevo che in quei posti avevo il culo a rischio, e non cercavo guai. Non c’è problema, diceva Fanshawe, e andavamo nei posti dei neri, senza problema. In genere sulla nave non succedeva niente di particolare, me la cavavo alla grande. Ma poi per qualche settimana ti arriva ’sto bifolco. Un tale che si chiamava Cutbirth, pensi lei, Roy Cutbirth. Era un cretino di oliatore visopallido che alla fine lo hanno cacciato dalla nave quando il Capomacchine si è accorto che di motori non sapeva un’acca. Aveva cacciato balle al test di assunzione per avere il lavoro… proprio l’uomo giusto da tenerti sottocoperta se hai voglia di far saltare in aria tutta la barca. Questo Cutbirth era stupido, stupido e cattivo. Aveva ’sti tatuaggi sulle nocche… una lettera per dito: L-O-V-E sulla destra, e H-A-T-E sulla sinistra. Quando vedi una stronzata simile, capisci subito che è meglio stare alla larga. Una volta ’sto bullo deficiente ha raccontato a Fanshawe come passava i sabati sera a casa sua, in Alabama: si sedeva su una collina sopra la statale e sparava alle auto. Davvero una persona interessante, niente da dire. Poi aveva ’sto occhio guercio, tutto strabico e iniettato di sangue. Ma si vantava anche di quello. Pare che se lo era fatto per via di una scheggia di vetro. Diceva che era successo a Selma, mentre lanciava bottiglie contro Martin Luther King. Non le sto a dire com’ero pappa e ciccia con questo Cutbirth. Continuava a squadrarmi fisso, parlando sottovoce e facendo sì sì con la testa, ma non ci badavo. Per un po’ è andata avanti così. Poi ci ha provato con Fanshawe nei paraggi, e ha alzato la voce un po’ troppo per non farsi sentire. Allora Fanshawe si ferma, si gira verso Cutbirth e gli fa: «Cosa hai detto?» E Cutbirth, bello duro e spavaldo, risponde una cosa tipo «Niente, puccipucci… mi chiedevo quando tu e… qua, l’orangotango, convolerete a giuste nozze». Be’, Fanshawe era sempre buono e caro, un vero signore, non so se mi spiego, e non mi sarei mai aspettato quello che è successo. Come vedere Hulk, quello della tivù, l’uomo che si trasforma in una bestia. Ha pigliato Cutbirth e lo ha sbattuto contro il muro, proprio, l’ha appeso lì e ce lo ha tenuto, così, soffiandogli sulla faccia. «Non dirlo mai più, – gli fa Fanshawe, con gli occhi di fuoco. – Non dirlo mai più, o ti ammazzo». E vigliacco se non c’era da crederci mentre lo diceva. L’uomo era pronto a uccidere, e Cutbirth lo ha capito. «Scherzavo, – gli fa, – insomma… era solo uno scherzo». Tutto finito, in un attimo. La faccenda è durata un batter d’occhio.
Un paio di giorni dopo a Cutbirth l’hanno licenziato. Gli è andata di lusso. Se rimaneva in giro ancora un po’, chissà come andava a finire. Raccolsi decine di testimonianze come questa: lettere, conversazioni telefoniche, colloqui. Durò qualche mese, e ogni giorno il materiale si espandeva, lievitava in ondate geometriche, evidenziando sempre nuove concatenazioni, una rete di contatti che a un certo punto prese a vivere di vita propria. Come un organismo perennemente affamato: e alla fine mi accorsi che niente gli avrebbe impedito di diventare grande come il mondo. Una vita ne tocca un’altra, che a sua volta ne tocca un’altra, e in breve i legami si fanno innumerevoli, superano qualsiasi calcolo. Mi avevano parlato di una grassona che viveva in una piccola città della Louisiana; mi avevano parlato di un demente razzista con le dita tatuate e un cognome incredibile. Mi parlarono di decine di altre persone che non avevo mai sentito nominare, e tutte avevano avuto una parte nella vita di Fanshawe. Da fregarsi le mani, forse: si potrebbe dire che proprio questa abbondanza di dati dimostrava che avevo preso la direzione giusta. Ero un investigatore, dopo tutto, e andare a caccia di indizi era il mio lavoro. Provvisto di un milione di informazioni frammentarie e vaganti, adescato da un milione di false piste, dovevo fiutare l’unica traccia in grado di condurmi alla meta. E finora il problema essenziale era che non l’avevo trovata. Nessuna di quelle persone vedeva o sentiva Fanshawe da anni, e a meno di dubitare di ogni loro parola, o di compiere indagini su tutti, dovevo presumere che dicessero la verità. Credo che in sostanza fosse questione di metodo. Se vogliamo, di Fanshawe sapevo già tutto quello che c’era da sapere. Le notizie che appresi non aggiunsero nulla di sostanziale, e non contraddissero nessuno dei dati in mio possesso. O in altri termini: il Fanshawe che avevo conosciuto non era lo stesso Fanshawe che stavo cercando. A un certo punto si era determinata una cesura, una crepa improvvisa e incomprensibile: e le cose che mi dicevano i testimoni da me interrogati non contribuivano a spiegarla. Insomma, le loro dichiarazioni poterono soltanto confermare che l’accaduto non poteva essere accaduto. Che Fanshawe fosse buono, che Fanshawe potesse essere crudele… be’, era un’altra storia, e la conoscevo fin troppo. Quello che cercavo era diverso, era qualcosa che non avrei potuto immaginare: un atto puramente irrazionale, un episodio in totale contraddizione con il suo carattere, la negazione di tutto quello che Fanshawe era stato fino al momento della scomparsa. Spiccavo sempre il salto nell’ignoto, ma poi a ogni atterraggio mi
ritrovavo sul terreno di casa, circondato dal paesaggio che mi era più familiare. Più mi inoltravo, più le possibilità si restringevano. Chissà, fu un bene. Se non altro, sapevo che dopo ogni fallimento restava un posto di meno dove guardare. Trascorsero dei mesi, più tempo di quanto vorrei ammettere. In febbraio e marzo mi dedicai principalmente alla ricerca di Quinn, il detective privato che aveva lavorato per Sophie. Strano, ma non ne trovai nessuna traccia. Sembrava che si fosse ritirato: non lavorava più né a New York né altrove. Per un po’ seguii le notizie di ritrovamenti di cadaveri, interrogai i dipendenti dell’obitorio, cercai di risalire alla sua famiglia: ma senza risultato. Come estrema risorsa, pensai di assumere un altro investigatore per cercarlo, ma poi rinunciai. Decisi che un uomo scomparso bastava, e a poco a poco esaurii le opportunità residue. A metà aprile me ne restava solamente una. Tergiversai ancora qualche giorno sperando in un colpo di fortuna, ma senza successo. La mattina del ventuno, finalmente andai in un’agenzia di viaggi e prenotai un volo per Parigi. Avrei dovuto partire di venerdì. Il martedì, Sophie e io ci dedicammo all’acquisto di un giradischi. Una delle sue sorelle minori stava per trasferirsi a New York, e avevamo deciso di regalarle il nostro. L’idea di sostituirlo era nell’aria da molti mesi, e questa novità fu il pretesto per comprarne uno nuovo. Perciò quel martedì visitammo qualche negozio, comprammo l’apparecchio e lo portammo a casa in taxi. Poi lo installammo al posto di quello vecchio, che impacchettammo nella scatola nuova. Ci sembrò una soluzione valida: Karen sarebbe arrivata in maggio, e nel frattempo non volevamo ingombro. Fu allora che si presentò il problema. Come in quasi tutti gli appartamenti di New York, avevamo poco spazio da adibire a ripostiglio, e sembrava che fosse tutto pieno. L’unico armadio che ci lasciava qualche speranza era quello della camera da letto, ma il ripiano inferiore rigurgitava già di scatole – tre in basso, due in alto, quattro di traverso – e quello superiore era mezzo pieno. C’erano gli scatoloni che contenevano la roba di Fanshawe (vestiti, libri, cianfrusaglie): erano sempre rimasti lì dal nostro trasloco. Quando Sophie aveva sgomberato la sua casa di prima, né lei né io avevamo saputo che farne. Nella nostra nuova vita non volevamo sentirci assediati dai ricordi di Fanshawe, ma nel contempo non ci sembrava giusto buttare via tutto. Gli scatoloni avevano rappresentato un compromesso, e a un certo punto ce ne eravamo scordati. Ormai facevano
parte del paesaggio domestico, come l’asse rotta sotto il tappeto del soggiorno, o la crepa nel muro sopra il letto: segni invisibili nello scorrere della vita quotidiana. Ma adesso, appena aprì la porta dell’armadio e guardò dentro, l’atteggiamento di Sophie cambiò bruscamente. – Basta! – esclamò, chinandosi verso l’interno. Scostò i vestiti che ricadevano sugli scatoloni facendo sbattere gli appendini, fendendo il caos, dando sfogo alla sua esasperazione. Fu una collera improvvisa, che sembrava rivolta più a lei stessa che a me. – Basta con che cosa? – Ero in piedi dall’altra parte del letto, e le guardavo la schiena. – Con tutta questa roba, – rispose, sempre agitando istericamente i vestiti. – Basta con Fanshawe e i suoi scatoloni. – Che cosa vuoi farne? – Mi sedetti sul letto in attesa di una risposta, ma lei non parlò. – Che cosa intendi farne, Sophie? – ripetei. Si voltò a guardarmi: vidi che stava per piangere. – A cosa serve un armadio se non lo puoi usare? – disse. Aveva la voce tremante, stavano cedendole i nervi. – Voglio dire, è morto sì o no? E se è morto, perché dobbiamo tenere tutta questa… tutta questa… – gesticolava, cercava la parola spazzatura. È come vivere con un cadavere. – Se vuoi, oggi chiamo l’Esercito della Salvezza, – dissi. – Chiamali adesso. Subito. – Li chiamo. Ma prima dobbiamo aprire le scatole ed esaminare il contenuto. – No. Voglio dare via tutto, immediatamente. – Sui vestiti sono d’accordo, – osservai. – Ma i libri, li avrei tenuti ancora un po’. Volevo catalogarli e controllare le sue note ai margini. In mezz’ora ho finito. Sophie mi guardò incredula. – Allora non capisci proprio niente? – disse. Poi si alzò e finalmente i suoi occhi si bagnarono di lacrime: lacrime da bambina, senza ritegno, che le scorrevano sulle guance come se non se ne accorgesse. – Non riesco più a comunicare con te. Non senti neanche quello che ti dico. – Faccio del mio meglio, Sophie. – Non è vero. Ne sei convinto, ma non è vero. Non vedi che cosa succede? Lo stai resuscitando.
– Sto scrivendo un libro. Nient’altro… solo un libro. Ma come posso farcela se non mi impegno seriamente? – No, non è solo questo. Lo so, lo sento. Se non vogliamo che tutto finisca, fra noi due, bisogna che lui sia morto. Non lo capisci? Morto, anche se fosse vivo. – Cosa ti salta in mente? È morto di sicuro. – Ancora per poco. Soprattutto se continui così. – Ma sei tu che hai voluto che accettassi. Hai voluto che scrivessi il libro. – Questo è stato un secolo fa, amore. Ho paura di perderti. Non potrei sopportarlo. – È quasi finita, ti prometto. Questo viaggio sarà l’ultima tappa. – E dopo? – Lo vedremo. Non posso sapere in anticipo cosa succederà. – È proprio questo che mi spaventa. – Puoi venire con me. – A Parigi? – A Parigi. Possiamo andarci tutti e tre insieme. – Non credo. No, con questa situazione, non credo. Vai da solo. Almeno, se torni, sarà perché lo desideri. – Che significa «se»? – Niente. Soltanto «se». Per esempio, «se torni». – Non ne puoi dubitare. – E invece sì. Se va avanti così, ti perderò. – Non dirlo nemmeno, Sophie. – Ma me lo sento. È quasi come se fosse già successo. Qualche volta mi sembra di vederti svanire davanti ai miei occhi. – Ma è assurdo. – Ti sbagli. La fine si avvicina, amore mio, e tu non te ne accorgi nemmeno. Svanirai, e non ti rivedrò mai più.
8. A Parigi le cose mi sembravano stranamente più grandi. La presenza del cielo era più evidente che a New York, i suoi umori più fragili. Mi attraeva irresistibilmente, e all’inizio, per un giorno o due non smisi di guardarlo: restai seduto nella mia stanza d’albergo a studiare le nubi nell’attesa che succedesse qualcosa. Erano nubi settentrionali, nubi di sogno, sempre mutevoli, che si ammassano in smisurate montagne grigie, scaricano rapide piogge, si dissolvono, si raccolgono di nuovo e scorrono davanti al sole rifrangendo la luce in maniere che sembrano ogni volta diverse. Il cielo di Parigi ha le sue leggi, che agiscono indipendentemente dalla città sottostante. Mentre le case sembrano salde, ancorate a terra, indistruttibili, il cielo è vasto e amorfo, e soggetto a un perenne tumulto. Per la prima settimana mi sentii sottosopra. È una metropoli del Vecchio Mondo, non ha niente in comune con New York, con i suoi cieli lenti e le strade caotiche, le nuvole scialbe e l’aggressività degli edifici. Ero spaesato, e perciò improvvisamente incerto. Stavo perdendo il contatto con la realtà, e almeno una volta all’ora dovevo ripetermi la ragione per cui ero venuto. Parlavo un francese né buono né cattivo. Lo masticavo abbastanza da capire quello che mi dicevano, ma parlarlo era difficile, e a volte non trovavo assolutamente le parole neanche per esprimere i concetti più elementari. Credo che da un certo punto di vista fosse piacevole. Sperimentare il linguaggio come complesso di suoni, ritrovarmi inchiodato sulla superficie di parole i cui significati si dileguano; ma era anche molto faticoso, e finii per chiudermi nei miei pensieri. Per capire, dovevo silenziosamente tradurre tutto in inglese, il che significava che anche quando ci riuscivo era soltanto dopo un interludio: la metà del risultato mi costava il doppio del lavoro. Sfumature, segrete associazioni, correnti sotterranee… tutto questo per me andava perduto. Insomma, alla fin fine non sarebbe sbagliato affermare che perdevo tutto. Eppure andavo avanti. Impiegai qualche giorno per partire con l’indagine, ma appena preso il primo contatto, altri ne seguirono. Dovetti inghiottire
anche qualche delusione. Wyshnegradsky era morto; non rintracciai nessuno degli studenti di inglese di Fanshawe; la donna che lo aveva assunto al «New York Times» non c’era più, aveva cambiato lavoro da anni. Erano contrattempi prevedibili, ma ne fui contrariato, perché sapevo che anche la minima lacuna poteva essere fatale. Per me valevano come spazi vuoti, tasselli bianchi nel mio mosaico, e anche se fossi riuscito a riempire le altre zone, sarebbero rimasti dei dubbi, e non avrei mai completato il lavoro fino in fondo. Parlai con i Dedmon, parlai con gli editori d’arte per cui Fanshawe aveva lavorato, parlai con la donna di nome Anne (scoprendo che era stata una sua fiamma), parlai con il produttore cinematografico. – Lavori occasionali, – mi spiegò in un inglese dal forte accento russo. – Faceva dei lavori occasionali. Traduzioni, riassunti di sceneggiature, un po’ di cose a nome di mia moglie. Era un ragazzo intelligente, ma troppo rigido. Molto letterato, non so se mi spiego… Avrei voluto dargli l’occasione di recitare: gli ho offerto anche di prendere lezioni di scherma e di equitazione per un film che avevamo in programma. Aveva il fisico giusto, ero convinto che potesse riuscire. Ma a lui non interessava. Ho altra carne al fuoco, mi ha risposto. Più o meno. Pazienza. Il film ha incassato milioni, che mi frega se il ragazzo voleva recitare o no? Poteva essere una traccia da seguire, ma mentre ero seduto con quell’uomo nel suo faraonico appartamento di Avenue Henri Martin, aspettando che proseguisse il racconto fra una raffica di telefonate, a un tratto compresi che non avevo bisogno di sentire altro. C’era una sola domanda importante, e il produttore non poteva rispondermi. Se restavo ad ascoltarlo, avrei appreso altri particolari, altre minuzie, un altro ammasso di appunti superflui. Era da troppo tempo che fingevo di scrivere un libro, e via via mi ero dimenticato del mio scopo. Basta, dissi fra me con la coscienza di citare Sophie, basta con questa roba: mi alzai e uscii. Perché in realtà non c’era più nessuno a sorvegliarmi. Non dovevo più simulare come a casa, non dovevo più ingannare Sophie mostrandomi eternamente assorto nel lavoro. La finzione non aveva più motivo. Finalmente potevo disfarmi del mio libro inesistente. Per una decina di minuti, mentre tornavo all’albergo sull’altra riva del fiume, mi sentii felice come non ero stato da mesi. La situazione si semplificava, riducendosi all’evidenza di un unico problema. Ma poi, assimilata questa idea, capii che
in effetti non avevo molto da rallegrarmi. La fine si avvicinava e non lo avevo ancora trovato. L’errore che avevo cercato non era mai apparso. Non c’erano tracce, né indizi, né vie aperte. Fanshawe era sepolto da qualche parte, e con lui era sepolta la sua vita. A meno che non decidesse di lasciarsi trovare, non avevo nemmeno il fantasma di una possibilità. Tuttavia insistetti nel tentativo di arrivare in fondo, alla vera conclusione, buttandomi a capofitto negli ultimi colloqui, deciso a non mollare prima di avere parlato con tutti. Volevo telefonare a Sophie. Un giorno, giunsi a entrare in un ufficio postale e a chiamare il centralino delle telefonate internazionali, ma poi rinunciai. Ormai le parole mi sfuggivano continuamente, e il pensiero di impappinarmi al telefono mi terrorizzò. E poi, che cosa avrei potuto dire? Invece le mandai una cartolina con una foto di Stanlio e Ollio. Sul retro scrissi: «I veri matrimoni non significano mai niente. Guarda la coppia qui dietro. Dimostrano che tutto è possibile, no? Forse dovremmo cominciare a portare la bombetta. Quantomeno, ricordati di sgomberare l’armadio prima del mio ritorno. Un abbraccio a Ben». Il pomeriggio dell’indomani vidi Anne Michaux, che trasalì leggermente quando entrai nel caffè dove aveva fissato il nostro incontro (Le Rouquet, Boulevard Saint-Germain). Quello che mi disse di Fanshawe non conta: chi baciò chi, che cosa accadde nel tale luogo, chi disse cosa e via discorrendo. Tutto sommato, le solite cose. Quello che invece devo riferire, è che il suo sconcerto iniziale dipese dal fatto che mi aveva scambiato per Fanshawe. Mi spiegò che si era trattato solo di un lampo subito svanito. Naturalmente la somiglianza era già stata notata altre volte, ma mai in modo altrettanto istintivo, con un impatto così immediato. Dovevo avere accusato il colpo, perché lei si scusò rapidamente (come se avesse fatto una gaffe) e nelle tre ore che trascorremmo insieme tornò più volte sull’argomento, arrivando persino a contraddirsi: – Proprio non so cosa mi è saltato in mente… non le assomiglia affatto. Dev’essere stato perché avete tutti e due l’aria da americani. Tuttavia l’episodio mi turbò, e mi fece paura. Stava accadendo qualcosa di mostruoso, che non ero più in grado di controllare. Sicuro, dentro di me il cielo si stava oscurando; la terra tremava. Non riuscivo a star fermo, e nello stesso tempo stentavo a muovermi. Di colpo mi sembrò di trovarmi in un luogo diverso, di scordare chi ero. Continuavo a ripetermi che i pensieri si interrompono dove il mondo comincia. Ma anche il sé si trova nel mondo,
ribattevo, e dunque anche i pensieri che ne nascono. Il problema era che non riuscivo più a operare le giuste distinzioni. Questo non può mai essere quello. Le mele non sono arance, le pesche non sono prugne. La differenza la avverti sulla lingua e dopo la conosci, è come se l’avessi al tuo interno. Ma ormai per me tutto cominciava ad avere lo stesso sapore. Non avevo più fame, non potevo più decidermi a mangiare. In quanto ai Dedmon, forse c’è ancora meno da dire. Erano i benefattori più squisiti che Fanshawe avrebbe potuto scegliersi, e fra tutte le persone che conobbi a Parigi si dimostrarono i più gentili e i più affabili. Dopo che mi avevano invitato da loro a bere qualcosa mi fermai a cena, e già al secondo piatto insistevano perché mi recassi in visita nella loro casa nel Var, la stessa che aveva ospitato Fanshawe: e non doveva essere necessariamente una visita breve, dato che loro non ci sarebbero andati prima di agosto. Il signor Dedmon affermò che era stato un luogo importante per Fanshawe e per il suo lavoro: perciò vedendolo di persona avrei ricavato utili informazioni per il libro. Non avevo nulla in contrario, e appena lo dichiarai la signora Dedmon corse al telefono e mi organizzò tutto il viaggio nel suo francese puntuale ed elegante. Non c’era più niente che mi trattenesse a Parigi, perciò l’indomani pomeriggio presi il treno. Era la fine del mio cammino, la mia discesa a sud, verso l’oblio. Qualunque speranza avessi nutrito (la labile supposizione che Fanshawe fosse tornato in Francia, l’ipotesi illogica che avesse trovato rifugio per la seconda volta nello stesso luogo), al mio arrivo svanì. La casa era vuota, nessun segno della presenza di nessuno. Il secondo giorno, ispezionando le stanze di sopra, trovai una breve poesia che Fanshawe aveva scritto sulla parete, ma la conoscevo già, e sotto c’era una data: 25 agosto 1972. Non era mai tornato. Ero stato uno sciocco anche solo a pensarlo. Non avendo di meglio da fare, passai qualche giorno a interpellare la gente della zona: agricoltori, abitanti del villaggio e delle località circostanti. Mi presentavo mostrando una foto di Fanshawe e fingendomi suo fratello, ma mi sentivo un segugio da burletta, un ciarlatano che si arrampica sugli specchi. Alcuni lo ricordavano, altri no, altri non erano sicuri. Non cambiava niente. Trovai l’accento del Sud impenetrabile (con le erre arrotate e le finali nasali) e praticamente non capii una parola. Di tutte le persone che interrogai, uno solo aveva avuto notizie di Fanshawe dopo la sua partenza: il vicino più prossimo, un fittavolo che abitava a circa un miglio da lui. Era uno strano
omino sui quaranta, la persona più sudicia che abbia mai conosciuto. La sua casa era una dimora del Seicento, umida e cadente, e sembrava che ci vivesse da solo, senza altra compagnia che un cane da tartufo e un fucile da caccia. Era palesemente orgoglioso di essere stato amico di Fanshawe, e per dimostrare quanto erano legati mi fece vedere un cappello bianco da cowboy che Fanshawe gli aveva spedito al suo ritorno in America. Non avevo motivo di non credergli. Il cappello era ancora nella scatola originale, sembrava intonso. Mi spiegò che lo serbava per il momento opportuno, poi si lanciò in una tirata sulla politica di cui a un certo punto persi il filo. Disse che la rivoluzione era imminente, e quando scoppiava avrebbe comprato un cavallo bianco e una mitragliatrice, si sarebbe messo il cappello in testa e avrebbe cavalcato per la via principale del paese facendo secchi tutti quelli che in guerra erano stati collaborazionisti. Proprio come in America, aggiunse. Quando gli domandai cosa intendeva, improvvisò un rapsodico e delirante sproloquio sui cowboy e gli indiani. Ma è successo tanto tempo fa, dissi nel tentativo di arginarlo. No, no, insistette, succede ancora oggi. Non avevo sentito parlare delle sparatorie sulla Quinta Avenue? E degli Apaches? Era inutile discutere. Per giustificare la mia ignoranza, gli spiegai che abitavo in un altro quartiere. Mi trattenni in quella casa ancora qualche giorno. Il mio piano era di non fare niente il più a lungo possibile, di tirare un po’ il fiato. Ero sfinito, e dovevo riprendere le forze prima di tornare a Parigi. Trascorsero un paio di giorni. Passeggiavo nei campi, attraversavo i boschi, mi sedevo al sole a leggere polizieschi americani tradotti in francese. In teoria, era la cura perfetta: rintanarmi nel centro del nulla, lasciando libera la mia mente di vagare senza meta. Ma non funzionò. Quella casa mi respingeva, e il terzo giorno mi resi conto che non ero più solo, che in quel luogo non lo sarei mai stato. Fanshawe era presente, e per tanto che facessi per non pensare a lui, non potevo sfuggirgli. Fu un’amara sorpresa. Ora che avevo smesso di cercarlo, me lo ritrovavo più vicino che mai. La relazione si era capovolta. Dopo tanti mesi passati sulle sue tracce, capii che il rintracciato ero io. Invece di cercare Fanshawe, in realtà ero fuggito da lui. Le attività che avevo simulato – il falso libro, le interminabili divagazioni – erano state solo un tentativo di sfuggirgli, un espediente per tenerlo lontano il più possibile. Perché se riuscivo a convincermi che lo stavo cercando, voleva dire automaticamente che lui era un altro: un individuo distinto da me, al di là dei
confini della mia vita. Ma mi ero sbagliato. Fanshawe si trovava esattamente dove ero io, ed era lì dal principio. Dall’arrivo della sua lettera mi sforzavo di immaginarlo, di raffigurarmene l’aspetto: ma la mia mente era riuscita a evocare solo il bianco, il vuoto. Al massimo un’immagine stilizzata: la porta di una stanza chiusa. Non arrivavo oltre: Fanshawe solo in quella stanza, dannato a una titanica solitudine… forse vivo, spirante, preso a sognare Dio solo sa cosa. Ora scoprii che quella stanza si trovava nel mio cervello. In seguito mi successero delle cose strane. Ritornai a Parigi, ma solo per ritrovarmi sfaccendato. Non volevo rivedere le persone che avevo conosciuto, ma non avevo nemmeno il coraggio di tornare a New York. Divenni abulico, come un oggetto incapace di muoversi, e a poco a poco mi smarrii. Se posso rievocare qualcosa di quel periodo è solo grazie ad alcune prove materiali. I visti sul mio passaporto; il mio biglietto aereo, il conto dell’albergo e via dicendo. Dimostrano che mi trattenni ancora a Parigi per più di un mese. Ma questi non sono ricordi, e nonostante tutto ricordare mi rimane impossibile. Rivedo avvenimenti, incontro immagini di me stesso in vari luoghi, ma solo da lontano, come se stessi contemplando un altro. Altra cosa dal ricordo, che è sempre ancorato dentro a noi: tutto rimane all’esterno, fuori dalla portata dei miei sentimenti e dei miei sensi, fuori da tutto quello che mi tocca. Ho perso un mese della mia vita, e ancora oggi fatico ad ammetterlo, provo una sensazione di vergogna. Un mese è lungo, basta e avanza perché un uomo si sfasci. Le poche volte in cui quei giorni mi riappaiono, mi riappaiono a frammenti, schegge e tritume che non vuole ricomporsi. Mi rivedo una notte stramazzare per strada ubriaco, rialzarmi, barcollare verso un lampione e vomitarmi sulle scarpe. Mi rivedo seduto in un cinema con le luci accese, mentre guardo una fila di persone passarmi davanti per uscire, e non ricordo il film che ho appena visto. Mi vedo, ancora di notte, aggirarmi per rue Saint-Denis e scegliere le prostitute con cui andare a letto, la testa arroventata dal pensiero dei loro corpi, un viavai di seni nudi, cosce nude, natiche nude. Vedo l’immagine del mio cazzo succhiato da una donna. Mi vedo a letto con due ragazze che si baciano fra loro. Vedo un’enorme donna di colore che si accovaccia a gambe aperte sul bidè e si lava la fica. Non voglio dire che queste cose non siano reali, che non siano accadute veramente. Solo, non me ne sento responsabile. Stavo impazzendo a forza di scopate, l’alcol mi trasportava in un altro
mondo. Ma se il mio scopo era cancellare Fanshawe, i bagordi furono un successo. Se n’era andato; e io con lui. La conclusione, tuttavia, mi è chiara. Non l’ho dimenticata, ed è una fortuna che mi sia rimasta almeno quella. Tutta la storia si restringe al suo epilogo, e se ora quell’epilogo non l’avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro. Lo stesso vale per i due che lo precedono, Città di vetro e Fantasmi. In sostanza, le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza di essa. Non pretendo di avere risolto nessun problema. Voglio solo segnalare che venne un momento in cui guardare ciò che era successo cessò di spaventarmi. Se le parole seguirono, fu unicamente perché non avevo altra scelta che accettarle, addossarmele e andare dove mi portavano. È tanto tempo ormai che lotto per dire addio a qualcosa, ed è la lotta quello che veramente conta. La storia non è nelle parole: è nella lotta. Una notte, mi trovavo in un bar vicino a Place Pigalle. Uso il verbo trovarmi perché non ho idea di come ci fossi capitato, non ricordo nemmeno come entrai. Era uno dei tanti locali malfamati del quartiere: sette o otto ragazze al bar, la possibilità di sedere al tavolino con una di loro e ordinare una bottiglia di champagne a un prezzo di rapina… e per finire, se lo si desidera, si raggiunge un accordo economico e ci si chiude nell’intimità di una stanza dell’albergo adiacente. Mi rivedo seduto a un tavolino in compagnia di una ragazza: ci hanno appena servito il cestello con lo champagne. Ricordo che era tahitiana, e anche molto bella: diciannove o vent’anni, non di più, molto minuta, con un abitino bianco a rete e sotto nulla, un incrocio di cavetti sopra la sua pelle bruna e liscia. L’effetto era splendidamente erotico. Ricordo i seni tondi che occhieggiavano dalle aperture a losanga, l’irresistibile morbidezza del collo allorché mi chinai a baciarlo. Mi disse il suo nome, ma continuai a chiamarla Fayaway, spiegandole che lei era un’esule di Typee e che io ero Herman Melville, un marinaio americano venuto da New York per salvarla. Non capì niente, ma continuò a sorridere: mi avrà sicuramente creduto matto, a sentirmi farfugliare nel mio francese pasticciato; ma non faceva una piega, quando ridevo rideva anche lei e mi permetteva di baciarla dappertutto. Eravamo seduti in un separé d’angolo, e dal mio posto vedevo il resto del locale. I maschi andavano e venivano: alcuni facevano capolino dalla porta e uscivano subito, altri si fermavano al bar per bere un drink, e un paio si
sedettero ai tavolini come me. Dopo un quarto d’ora, entrò un giovane dall’aria inequivocabilmente americana. Mi parve inquieto, come se non fosse mai stato in un posto simile, ma sorprendentemente parlava un ottimo francese, e quando con disinvoltura ordinò un bourbon e cominciò a chiacchierare con una delle ragazze, capii che aveva intenzione di trattenersi. Lo osservai dalla mia nicchia senza smettere di accarezzare la gamba di Fayaway e di strofinare il viso contro di lei: ma sempre più distratto dalla presenza del giovane. Era alto, prestante, con i capelli biondo–rossicci e un modo di fare aperto, quasi fanciullesco. Giudicai che avesse ventisei o ventisette anni: doveva essere un laureato iscritto a un corso di specialità, o un giovane avvocato che lavorava nella sede locale di qualche ditta americana. Non lo avevo mai visto, eppure aveva un che di familiare, che mi impediva di distogliere lo sguardo: come una scossa istantanea, una strana sinapsi di riconoscimento. Cercai di attribuirgli alcuni nomi, lo deviai sui binari del passato, svolsi il rotolo delle corrispondenze: ma non accadde nulla. Non è nessuno, dissi fra me alla fine, e rinunciai. Poi, all’improvviso, per chissà che arruffata concatenazione, completai il pensiero aggiungendo: e se non è nessuno, deve essere Fanshawe. Risi fragorosamente alla battuta. Sempre sul chi vive, Fayaway rise con me. Sapevo che non poteva esserci niente di più assurdo, ma lo ripetei: Fanshawe. E ancora: Fanshawe. E più lo ripetevo, più ci prendevo gusto. Ogni volta che la parola mi usciva di bocca scoppiavo in una nuova risata. Ero come intossicato: mi venne la voce rauca, e Fayaway cominciava a sembrare perplessa. Probabilmente sulle prime pensava che alludessi a una pratica sessuale, attraverso doppi sensi a lei incomprensibili: ma le mie ripetizioni avevano via via spogliato la parola del suo senso, e alla ragazza cominciava a sembrare minacciosa. Guardai l’uomo in fondo al locale e ripetei un’altra volta il nome. La mia felicità era incontenibile. Esultavo per la pura e semplice inesattezza della mia deduzione, festeggiando il nuovo potere di cui mi ero appena investito. Ero il sublime alchimista che può cambiare a piacimento il mondo. Quell’uomo era Fanshawe perché io sostenevo che era Fanshawe, e tanto bastava. Niente mi avrebbe più fermato. Senza riflettere, sussurrai all’orecchio di Fayaway che tornavo subito, mi sciolsi dalle sue magnifiche braccia e raggiunsi lo pseudo– Fanshawe al bar. Nella mia migliore imitazione dell’accento oxfordiano, gli dissi: – Be’, vecchio mio, che combinazione. Ci si ritrova.
Si volse e cautamente mi guardò. Il sorriso che si era formato sul suo volto lasciò il posto a un’espressione accigliata. Alla fine mi chiese: – Ci conosciamo? – Ma certo, – risposi, tutto gioviale e spavaldo. – Sono Melville. Herman Melville. Forse hai letto qualcuno dei miei libri. Non sapeva se trattarmi come uno sbronzo giulivo o uno psicopatico, e il suo viso tradiva la confusione. Era una confusione stupenda, e l’assaporai fino in fondo. – Ma sì, – disse infine, sforzandosi di sorridere, – credo di averne letti un paio. – Quello sulla balena, di sicuro. – Esatto. Quello sulla balena. – Mi fa molto piacere, – dissi annuendo amabilmente; poi gli misi un braccio intorno alle spalle. – Allora, Fanshawe, – ripresi, – qual buon vento ti porta a Parigi in questo periodo? La confusione riapparve sul suo viso. – Scusa, – disse, – non ho capito il nome. – Fanshawe. – Fanshawe? – Fanshawe. F-A-N-S-H-A-W-E. – Ah, – disse, mentre il suo volto si distendeva in un largo sorriso. Di colpo aveva ritrovato la sua sicurezza. – Allora è questo il problema. Mi hai confuso con un altro. Io non mi chiamo Fanshawe. Mi chiamo Stillman. Peter Stillman. – Non fa niente, – replicai con una strizzatina alla sua spalla. – Se preferisci chiamarti Stillman, per me va benissimo. In fin dei conti, i nomi non hanno importanza. Quello che importa è che so chi sei veramente. Sei Fanshawe. L’ho saputo dal momento in cui sei entrato. Mi sono detto: «Eccolo qua, il vecchio tagliagole. Chissà cosa ci fa in un posto come questo». Ormai cominciava a spazientirsi. Liberò la spalla dal mio braccio e fece un passo indietro. – Adesso basta, – disse. – Ti sei sbagliato, e finiamola qui. Sono stufo di parlare con te. – Troppo tardi, – risposi. – Il tuo segreto è svelato, amico mio. Hai finito di giocare a nascondino. – Lasciami stare, – disse, per la prima volta stizzito. – Io non parlo coi
matti. Levati dai piedi, o sono guai. Gli altri clienti non capivano la nostra lingua, ma la tensione era evidente e mi sentivo tutti gli occhi addosso, sentivo il cambiamento d’atmosfera. All’improvviso, Stillman sembrò colto dal panico. Lanciò un’occhiata alla barista, guardò preoccupato la ragazza al suo fianco, poi d’improvviso decise di andare via. Mi allontanò con uno spintone e si diresse verso l’uscita. A questo punto avrei potuto desistere, ma non lo feci. Avevo appena cominciato a scaldarmi, e non volevo sprecare quel momento di ispirazione. Tornai al separé dov’era seduta Fayaway e posai sul tavolo qualche centinaio di franchi. In risposta, lei simulò un broncetto. – C’est mon frère, – le dissi. – Il est fou. Je dois le poursuivre –. Poi, mentre raccoglieva i soldi, le mandai un bacio, mi voltai e uscii. Stillman camminava svelto per la via, precedendomi di venti o trenta metri. Io tenni il suo passo, senza avvicinarmi per non essere notato, ma senza perderlo di vista. Di tanto in tanto si guardava alle spalle come se sapesse che l’avrei seguito, ma credo che non mi vide finché non fummo fuori dal quartiere, lontani dalla folla e dal trambusto, e ci inoltrammo nel cuore silenzioso e buio della Riva Destra. L’incontro lo aveva spaventato, e si comportava come un uomo che fugge da un pericolo mortale. Ma ciò era facilmente comprensibile. Ero la cosa che tutti temiamo maggiormente: il nemico sconosciuto che esce dall’ombra, il pugnale che ci colpisce nella schiena, l’auto lanciata che ci investe e ci uccide. Faceva bene a scappare, ma il suo timore mi eccitò spingendomi a inseguirlo, mi infuse una rabbiosa determinazione. Non avevo né un piano né la minima idea di quello che avrei fatto, ma lo seguii senza esitare, sapendo che tutta la mia vita dipendeva da questo. È importante sottolineare che a questo punto ero lucidissimo: non barcollavo, non ero ubriaco, tutto era chiaro nella mente. Capivo che mi stavo comportando in modo inammissibile. Stillman non era Fanshawe, lo sapevo. Era un bersaglio scelto a casaccio, del tutto innocente e improduttivo. Ma era questo a elettrizzarmi: la gratuità dell’atto, la vertigine della pura casualità. Non aveva alcun senso, e dunque aveva senso nel mondo. A un certo momento nella strada si sentirono solo i nostri passi. Stillman si voltò ancora, e finalmente mi vide. Affrettò il passo, cominciando a correre. Io lo chiamai:– Fanshawe –. E ancora: – Fanshawe –. E poi di nuovo: – È troppo tardi. Lo so chi sei, Fanshawe –. E ancora, nella via successiva: – È finita, Fanshawe. Non mi sfuggirai –. Stillman non rispose nulla, non
si girò nemmeno. Avrei voluto continuare a parlargli, ma ormai stava correndo a perdifiato, e per parlare avrei dovuto rallentare il passo. Smisi di provocarlo e mi lanciai all’inseguimento. Non so per quanto tempo corremmo, ma mi sembrò che durasse per ore. Era più giovane di me, più giovane e più forte, e rischiavo di perderlo, rischiavo di non farcela. Mi precipitai per la strada buia, oltrepassando il limite dello sfinimento, della nausea, scaraventandomi alle sue calcagna, costringendomi a continuare. Molto prima di averlo raggiunto, e ben prima di accorgermi che ci sarei riuscito, ebbi l’impressione di non essere più dentro me stesso. Non saprei definirla altrimenti. Non mi sentivo più io. La sensazione della vita era stillata da me goccia a goccia, lasciando il posto a una miracolosa euforia, a un dolce veleno che mi scorreva nelle vene, all’aroma innegabile del nulla. È il momento della mia morte, dissi fra me, è adesso che morirò. Un secondo dopo raggiunsi Stillman e lo placcai da dietro. Crollammo sul marciapiede, gemendo tutti e due per il colpo. Avevo esaurito le forze, e non mi restava fiato per difendermi, ero troppo sfinito per lottare. Non dicemmo una parola. Per qualche attimo restammo avvinghiati sul selciato, poi lui riuscì a divincolarsi e non potei più opporgli resistenza. Cominciò a tempestarmi di pugni, mi prese a calci con la punta delle scarpe, mi colpì dappertutto. Ricordo che tentavo di proteggermi il viso con le mani; ricordo il dolore e lo stordimento, quanto soffrivo e quanto disperatamente avrei voluto che smettesse. Ma non deve essere durato a lungo, perché non ho altri ricordi. Stillman mi riempì di botte, e quando finì avevo perso i sensi. Ricordo che svegliandomi sul marciapiede mi sorpresi che fosse ancora notte, ma nient’altro. Il resto è cancellato. Per i tre giorni successivi non uscii dalla mia stanza d’albergo. A sconvolgermi non era tanto il dolore, quanto la certezza che esso non sarebbe bastato a uccidermi. Lo compresi il secondo o il terzo giorno. A un certo punto, mentre, sdraiato sul letto, guardavo le assicelle delle imposte chiuse, capii che ero sopravvissuto. Fu una sensazione strana, quasi incomprensibile. Avevo un dito rotto; lacerazioni su tutte e due le tempie; mi faceva male anche respirare. Ma questi erano dettagli. Ero vivo, e più ci pensavo e meno lo comprendevo. Non mi sembrava possibile essere stato graziato. Quella sera telegrafai a Sophie che tornavo a casa. Ora sono quasi alla fine. Resta una cosa ancora, ma non sarebbe accaduta che in seguito, dopo altri tre anni. Nel frattempo ci furono molte traversie,
molti drammi, ma penso che non riguardino la storia che sto cercando di raccontare. Dopo il mio ritorno a New York, Sophie e io vivemmo separati per quasi un anno. Lei aveva perso ogni speranza sul mio conto, e trascorsero mesi di incertezza prima che la riconquistassi. Dal mio attuale punto di osservazione (maggio 1984) questa è l’unica cosa che importa. Gli altri fatti della mia vita sono puramente accidentali. Il 23 febbraio 1981 è nato il fratellino di Ben. Lo abbiamo chiamato Paul, in memoria del nonno di Sophie. Qualche mese dopo (in luglio), abbiamo traslocato di là dal fiume, affittando i due piani più alti di un palazzo di arenaria di Brooklyn. In settembre Ben ha iniziato l’asilo. Per Natale siamo andati tutti in Minnesota, e al nostro ritorno Paul camminava da solo. Ben, che piano piano l’ha preso sotto la sua protezione, si attribuisce ogni merito del decisivo progresso. In quanto a Fanshawe, Sophie e io non ne abbiamo più parlato. Era il nostro tacito accordo, e più a lungo lo rispettavamo, più lealtà reciproca ci saremmo dimostrati. Dopo che restituii l’anticipo a Stuart Green e smisi di scrivere la biografia, ne parlammo solo una volta. Fu il giorno in cui decidemmo di tornare a vivere insieme, e rientrò in un discorso rigorosamente pratico. I libri e le opere teatrali di Fanshawe continuavano a rendere. Sophie disse che, se volevamo restare marito e moglie, non si parlava nemmeno di usare quel denaro per noi due. Ero d’accordo. Trovammo altre fonti di guadagno, versando i diritti d’autore su di un conto intestato a Ben, e successivamente anche a Paul. Infine assumemmo un agente letterario per la gestione finanziaria dell’opera di Fanshawe: richieste di rappresentazioni teatrali, trattative per le ristampe, contratti, eccetera. Facemmo tutto quanto era possibile. Se Fanshawe avesse avuto ancora il potere di distruggerci sarebbe stato solo perché noi lo volevamo, perché volevamo distruggerci da soli. Ecco perché non dissi mai la verità a Sophie: non perché la temessi, ma perché la verità non importava più. La nostra forza stava nel silenzio, e non avevo intenzione di romperlo. Sapevo tuttavia che la storia non era finita. Lo avevo capito nell’ultimo mese passato a Parigi, e a poco a poco finii per farmene una ragione. Era solo questione di tempo e ci sarebbe stata la prossima puntata. Mi sembrava inevitabile: e invece di continuare a negarlo, invece di accarezzare l’illusione che un giorno o l’altro mi sarei liberato di Fanshawe, cominciai a prepararmi, a sforzarmi di essere pronto a tutto. È la potenza di questo tutto, credo, ad
avere reso la storia così difficile da raccontare. Perché è proprio quando può succedere di tutto che le parole perdono efficacia. A mano a mano che diventava ineluttabile, Fanshawe smetteva di esistere. Imparai ad accettarlo. Imparai a convivere con lui come convivevo con il pensiero della mia morte. Fanshawe non era la morte, ma era come la morte, e dentro di me agiva da traslato della morte. Se non fosse stato per il mio crollo di Parigi, non l’avrei mai capito. Laggiù non ero morto, ma ero stato prossimo alla morte; e ci fu un momento, forse diversi momenti, in cui ne sentii il sapore, mi vidi morto. Non esiste un antidoto per un incontro simile. Una volta accaduto, accade sempre: ti accompagna per tutta la vita. La lettera arrivò all’inizio della primavera del 1982. Stavolta portava il timbro di Boston e il messaggio era più sintetico e pressante. «Impossibile resistere oltre, – diceva. – Devo parlarti. Columbus Square, 9, Boston. Il 1° aprile. Ti prometto che sarà l’ultima volta». Avevo meno di una settimana per trovare la scusa per andare a Boston. Fu più problematico di quello che potevo prevedere. Ero sempre deciso a tenere Sophie all’oscuro di tutto (mi sembrava il minimo che potessi fare), ma esitavo a mentirle di nuovo, anche se era necessario. Per tre giorni non feci nessun progresso, e alla fine inventai una debole storiella di presunti documenti da consultare alla biblioteca di Harvard. Non ricordo nemmeno di cosa si dovesse trattare. Se non sbaglio riguardava un mio articolo, ma non ne sono certo. L’importante era che Sophie non fece nessuna obiezione. L’istinto mi dice che doveva sospettare qualcosa, ma è solo una sensazione, e non è il caso di azzardare ipotesi in questa sede. Nei confronti di Sophie tendo sempre a credere di essere un libro aperto. Prenotai un posto sul primo treno della mattina. Quel giorno, Paul si svegliò poco prima delle cinque e venne a infilarsi nel nostro letto. Un’ora dopo mi riscossi e uscii silenziosamente dalla stanza, soffermandomi brevemente sulla soglia per guardare Sophie e il bambino alla luce fioca e grigiastra: indifferenti, braccia e gambe scomposte. Erano i corpi a cui appartenevo. Ben era di sopra in cucina, già vestito, indaffarato a mangiare una banana e a disegnare. Preparai uova strapazzate per entrambi, poi gli dissi che prendevo il treno per Boston. Volle sapere dove si trovava. – Circa a duecento miglia da qui, – risposi. – È lontano come lo spazio?
– Se viaggiassi verso l’alto, quasi ci arriveresti. – Secondo me è meglio che passi dalla luna. Le astronavi sono più veloci dei treni. – Ci passerò al ritorno. Il venerdì ci sono regolari voli di linea da Boston alla luna. Appena sarò là, lo prenoto. – Bene. Così dopo mi racconti com’è. – Cercherò una roccia lunare. Così te la porto. – E a Paul, niente? – Ne raccoglierò una anche per lui. – No, grazie. – Perché, no? – Non la voglio la roccia della luna. Dopo, Paul se la mette in bocca e soffoca. – E cosa vorresti, invece? – Un elefante. – Non ci sono elefanti nello spazio. – Lo so. Ma tu non vai mica nello spazio. – Vero. – E scommetto che a Boston gli elefanti ci sono. – Mi sa che hai ragione. Vuoi un elefante rosa o uno bianco? – Grigio. Grosso e ciccione, con tantissime rughe. – Non c’è problema. Sono quelli che si trovano più facilmente. Vuoi che lo faccia confezionare, o te lo porto a casa al guinzaglio? – È meglio che vieni a casa in groppa. Seduto in alto con una corona in testa. Come l’imperatore. – Quale imperatore? – L’imperatore dei bambini. – E posso avere un’imperatrice? – Certo. L’imperatrice è la mamma. Sarà tutta contenta. Magari dovremmo svegliarla e dirglielo. – Meglio di no. Preferisco farle la sorpresa al mio ritorno. – Buona idea. E poi finché non ti vede non ci crederebbe. – Esatto. E non vogliamo deluderla. Casomai non trovassi l’elefante. – Oh, papà… lo troverai. Non preoccuparti. – Come fai a essere così sicuro? – Perché tu sei l’imperatore. Gli imperatori possono avere tutto quello che
vogliono. Piovve tutto il giorno, e quando arrivammo a Providence il cielo minacciava addirittura neve. A Boston mi comprai un ombrello e feci le ultime due o tre miglia a piedi. Le strade erano tetre in quell’aria insopportabilmente grigia, e sulla strada verso il South End non incontrai quasi nessuno: un ubriaco, una banda di adolescenti, un tecnico dei telefoni, due o tre cani randagi. Columbus Square consisteva in una fila di dieci o dodici case, separate dalla via principale da uno spartitraffico in acciottolato. Il numero nove era la casa più malandata: a quattro piani come tutte le altre, ma cadente, con l’ingresso puntellato da travi e una facciata in mattoni molto bisognosa di restauri. Tuttavia dava un senso di rispettabile solidità, dalle sue crepe trapelava ancora un’eleganza ottocentesca. Immaginai saloni con i soffitti alti, un bovindo dai comodi listelli, stucchi e modanature ornamentali. Ma non avrei visto niente di tutto questo. Alla fine, non avrei nemmeno superato l’ingresso. La porta aveva un battaglio arrugginito, una mezza sfera con la maniglia al centro che quando bussai fece lo stesso rumore di un conato di vomito: un suono attutito, intasato, che non poteva espandersi lontano. Aspettai, ma non accadde nulla. Bussai di nuovo, ma non venne nessuno. Poi, tentando la porta con la mano, vidi che era aperta: la spinsi, mi fermai un momento, poi entrai. L’ingresso era vuoto. Alla mia destra la scala, con la ringhiera di mogano e i semplici gradini di legno; a sinistra una porta a battenti chiusa per impedire l’accesso in quello che era sicuramente il salotto; davanti a me un’altra porta, anch’essa chiusa, che probabilmente portava in cucina. Indugiai un momento, poi optai per la scala. Stavo per salire quando sentii un suono provenire dalla porta a battenti: come un debole bussare, seguito da una voce troppo bassa. Mi voltai a guardare, restando in ascolto. Non accadde nulla. Ci fu un lungo silenzio. Poi, quasi in un sussurro, la voce parlò di nuovo. – Sono qui, – disse. Mi avvicinai alla porta e accostai l’orecchio allo spiraglio tra i battenti. – Sei tu, Fanshawe? – Non usare quel nome, – rispose la voce, questa volta più chiara. – Non ti permetto di usare quel nome –. La persona all’interno aveva la bocca direttamente in linea con il mio orecchio. Solo la porta ci separava, eravamo talmente vicini che mi sembrò che quelle parole mi venissero versate direttamente nel cranio. Era come ascoltare il battito cardiaco sul petto di un
uomo, come palpare un corpo alla ricerca delle pulsazioni. Quando smise di parlare, sentii il suo respiro che filtrava attraverso la fessura. – Fammi entrare, – dissi. – Apri la porta e fammi entrare. – Non posso, – rispose la voce. – Dovremo parlare così. Esasperato, afferrai il pomello e scrollai la porta. – Apri, – ripetei, – apri, o la sfondo. – No, – disse la voce. – La porta resta chiusa –. Ormai non dubitavo che l’uomo nella stanza fosse Fanshawe. Avrei preferito un impostore, ma riconoscevo troppo bene la voce per fingere che fosse un altro. – Ho una pistola, – disse, – ed è puntata dritta su di te. Se entri, sparo. – Non ti credo. – Allora senti questo, – disse, e sentii che si allontanava dalla porta. Un secondo dopo, echeggiò un colpo di pistola, seguito dal rumore dello stucco che si abbatteva sul pavimento. Ne approfittai per sbirciare nella fessura sperando di farmi un’idea della stanza, ma era troppo stretta. Non scorsi che una lama di luce, un esile filamento grigio. Poi la bocca si riaccostò, e non vidi più neanche quello. – D’accordo, – dissi. – Hai una pistola. Ma se non mi permetti di vederti, come faccio a sapere che sei davvero chi dici di essere? – Ma io non ho detto chi sono. – Allora mi esprimerò diversamente. Come posso sapere che sto parlando con la persona giusta? – Devi fidarti della mia parola. – È il nostro ultimo appuntamento, e puoi aspettarti di tutto da me fuorché la fiducia. – Ti ho detto che sono la persona giusta. Dovrebbe bastarti. Sei venuto nel posto giusto, e io sono la persona giusta. – Pensavo che volessi vedermi. Lo hai scritto nella lettera. – Ti ho scritto che volevo parlarti. C’è una bella differenza. – Non spacchiamo il capello a metà. – Sto solo precisando quello che ti ho scritto. – Non tirare troppo la corda, Fanshawe. Altrimenti me ne vado, niente può impedirmelo. Di colpo lo sentii trattenere il respiro, poi una mano si abbatté violentemente sulla porta. – Non chiamarmi Fanshawe! – gridò. – Non chiamarmi con quel nome… mai più!
Lasciai che si calmasse, non volevo provocare altre crisi. La bocca si ritrasse e credetti di sentire dei gemiti che provenivano dal centro della stanza… gemiti o singhiozzi, non capivo. Restai in attesa senza più sapere cosa dire. Finalmente la bocca ritornò, e dopo un’altra pausa Fanshawe chiese: – Sei ancora lì? – Sì. – Ti chiedo scusa. Non volevo cominciare in questo modo. – Ma ricordati… – dissi, – sono venuto solo perché me lo hai chiesto. – Lo so. E te ne sono grato. – Ora dovresti proprio spiegarmi il perché. – Dopo. Non mi va ancora di parlarne. – E di cosa vuoi parlare, allora? – D’altro. Di quello che è successo. – Ti ascolto. – Perché non voglio che tu mi odi, capisci? – Io non ti odio. Un tempo sì, ti odiavo… ma è passata. – Oggi è il mio ultimo giorno, sai. E devo essere sicuro. – Sei sempre rimasto qui dentro? – Sono venuto qui due anni fa, se non sbaglio. – E prima? – Oh, sono stato in giro. Quell’uomo mi dava la caccia, e non potevo fermarmi. Così mi ha preso il gusto di viaggiare, una vera passione. L’ultima cosa che mi sarei aspettato. Avevo sempre progettato di restare immobile e lasciar consumare il tempo. – Parli di Quinn? – Sì. L’investigatore. – Ti ha mai trovato? – Due volte. La prima a New York, la seconda nel Sud. – E perché ha mentito, allora? – Perché l’ho spaventato a morte. Sapeva cosa gli sarebbe successo se qualcuno mi avesse scoperto. – Lo sai che è scomparso? Non l’ho più rintracciato. – Sarà da qualche parte. Non importa. – Come hai fatto per liberarti di lui? – Ho capovolto i ruoli. Credeva di pedinarmi, mentre in realtà ero io a seguire lui. Mi ha trovato a New York, certo, ma gli sono sfuggito: gli sono
letteralmente sgusciato fra le dita. Poi, è stato come giocare al gatto con il topo. Me lo trascinavo dietro lasciando indizi da tutte le parti: sembrava impossibile che non mi trovasse. Ma in realtà lo tenevo al guinzaglio, finché al momento buono l’ho preso in trappola. – Molto astuto. – No. Molto stupido. Ma non avevo scelta. Comportarmi così oppure farmi riprendere… che avrebbe voluto dire essere trattato come un pazzo. Ero nauseato da me stesso. Dopo tutto quell’uomo faceva soltanto il suo lavoro, e mi sentivo in colpa. La compassione mi disgusta, specie quando la riscontro in me stesso. – E poi? – Non ero sicuro che il mio stratagemma avesse funzionato veramente. Pensavo che forse Quinn si sarebbe rimesso alle mie calcagna. Perciò mi tenevo sempre in movimento, anche quando non sarebbe stato necessario. Ho perso un anno intero in questo modo. – Dove sei andato? – Nel Sud, nel Sudovest. Volevo stare al caldo. Sai, mi spostavo a piedi, dormivo all’aperto, cercavo i luoghi meno popolati. È una regione immensa, quella. Davvero incredibile. Una volta ho passato due mesi nel deserto. Poi ho vissuto in una baracca ai confini di una riserva Hopi, in Arizona. La tribù si è riunita in consiglio per decidere se permettermi o no di abitare lì. – Questa non me la bevo. – Non pretendo che mi creda. Ti racconto la storia e basta. Pensa quello che vuoi. – E dopo? – Ero nel Nuovo Messico. Entro in una tavola calda sulla strada per mangiare un boccone, e qualcuno aveva lasciato il giornale sul banco. Lo prendo e leggo. È stato allora che ho scoperto che avevano pubblicato un mio libro. – Ti ha sorpreso? – Non è il termine esatto. – E qual è, allora? – Non lo so. Ero turbato, direi. Irritato. – Non capisco. – Ero irritato perché quel libro fa schifo. – Gli scrittori non sono mai buoni critici di se stessi.
– No, fa proprio schifo, credimi. Tutto quello che ho scritto fa schifo. – E allora perché non l’hai distrutto? – Ero troppo legato ai miei lavori. Ma non per questo li ritengo interessanti. Un bambino è legato alla sua cacca, ma nessuno ci fa caso. Sono affari suoi, e basta. – E allora perché hai raccomandato a Sophie di mostrarmi i tuoi scritti? – Per farla contenta. Ma questo lo sapevi. Lo hai immaginato tanto tempo fa. Era un pretesto. Il mio vero proposito era trovarle un nuovo marito. – Ha funzionato. – Per forza. Sai, non ho scelto il primo che passava. – E i manoscritti? – Ero convinto che li avresti buttati. Non avrei mai creduto che qualcuno li prendesse sul serio. – Che cosa hai fatto quando hai letto che il libro era stato pubblicato? – Sono tornato a New York. Fu una decisione assurda, ma ero un po’ frastornato, mancavo di lucidità. Vedi, quel libro mi fece invischiare nella mia vita precedente, e mi ritrovai daccapo a lottare con il passato. Dopo la pubblicazione, non potevo più tornare indietro. – Credevo che fossi morto. – Era proprio quello che dovevi credere. Se non altro, dimostrava che il problema di Quinn era superato. Ma il nuovo problema era ancora più grave. Fu allora che ti scrissi la lettera. – Quella sì che è stata una carognata. – Ce l’avevo con te. Volevo farti male, farti vivere con le mie stesse sofferenze. Me ne sono pentito appena l’ho imbucata. – Troppo tardi. – Sì. Troppo tardi. – Per quanto tempo sei rimasto a New York? – Non lo so. Sei, otto mesi, credo. – E come mangiavi? Come ti guadagnavi da vivere? – Rubavo. – Perché non dici la verità? – Sto facendo il possibile. Ti dico tutto quello che posso dirti. – Che altro hai fatto a New York? – Ti ho osservato. Osservavo te, Sophie e il bambino. Per un certo periodo mi sono anche accampato fuori dal vostro palazzo. Due o tre
settimane… forse un mese. Vi seguivo dappertutto. Un paio di volte ti ho persino incontrato per strada, ti ho guardato negli occhi. Ma non mi hai riconosciuto. È incredibile, non mi vedevi nemmeno. – Questa è un’altra fandonia. – Sono diverso da prima. – Nessuno può cambiare tanto. – Credo di essere irriconoscibile. Ma per te è stata una fortuna. Probabilmente se fosse successo qualcosa ti avrei ucciso. Per tutto quel periodo a New York ero ossessionato da idee omicide. Brutta roba. Mi sono affacciato sull’orlo dell’abisso. – Cosa ti ha trattenuto? – Ho trovato il coraggio di andar via. – Che animo nobile. – Non sto cercando di giustificarmi. Ti sto solo raccontando la storia. – E poi? – Mi sono imbarcato di nuovo. Avevo ancora il mio libretto da marittimo, e sono partito su un cargo greco. Fu disgustoso, davvero rivoltante dal principio alla fine. Ma me lo meritavo: era precisamente quello che volevo. La nave faceva scalo dappertutto: India, Giappone, il giro del mondo. Non scesi nemmeno una volta. Quando arrivavamo in un porto, scendevo in cabina e mi chiudevo dentro. Ho passato due anni così, senza vedere niente, senza fare niente, vivendo come un morto. – Proprio mentre io tentavo di scrivere la storia della tua vita. – Veramente? – Si direbbe di sì. – Un grave errore. – È inutile che tu me lo dica. L’ho scoperto da solo. – Un giorno la nave fece scalo a Boston, e decisi di andarmene. Avevo risparmiato un sacco di soldi, ne avevo d’avanzo per comprare questa casa. Da allora sono sempre stato qui. – Sotto che nome? – Henry Dark. Ma nessuno sa chi sono. Non esco mai. Due volte alla settimana viene una donna che mi porta tutto quello che mi serve, ma non la vedo mai. Le lascio ai piedi delle scale un biglietto con i soldi che le devo. È un sistema semplice ed efficace. Sei la prima persona con cui parlo da due anni.
– Non ti viene mai in mente di essere diventato pazzo? – So di poter dare questa impressione, ma credimi, non è vero. Non voglio neppure perdere tempo a parlarne. È soltanto che ho delle necessità molto diverse da quelle degli altri. – Questa casa non è un po’ grande per una persona sola? – Decisamente. Dal giorno in cui sono venuto, sono sempre rimasto al piano terra. – Allora, si può sapere perché l’hai comprata? – Costava una miseria. E mi piaceva il nome della piazza, lo trovavo affascinante. – Columbus? – Sì. – Non capisco. – Mi sembrava di buon augurio. Torno in America… e trovo casa su una piazza intitolata a Colombo. Tutto sommato era logico. – Ed è qui che hai deciso di morire. – Esatto. – Nella prima lettera parlavi di sette anni. Te ne resta ancora uno. – Non ho più niente da dimostrare. Non c’è motivo di andare avanti. Ne ho abbastanza. – Mi hai fatto venire perché pensavi che ti avrei fermato? – No. Affatto. Non mi aspetto niente da te. – E allora cosa vuoi? – Devo darti una cosa. A un certo punto, mi sono reso conto che dovevo fornirti una spiegazione per il mio comportamento… o almeno provarci. Ho impiegato gli ultimi sei mesi a scriverla. – Credevo avessi smesso di scrivere per sempre. – Questo è diverso. Non c’entra niente con le mie opere di una volta. – E dove sarebbe? – Alle^tue spalle. Sul ripiano più basso dell’armadio sotto la scala. È un taccuino rosso. Mi voltai, aprii l’anta dell’armadio e presi il taccuino. Era un comune quaderno a spirale, a righe, di duecento pagine. Lo sfogliai rapidamente e vidi che tutte le pagine erano scritte: la solita calligrafia, il solito inchiostro nero, le solite lettere minute. Mi alzai e tornai allo spiraglio. – E adesso? – domandai.
– Portalo a casa. Leggilo. – E se non ci riesco? – Tienilo per il bambino. Quando cresce, potrebbe avere voglia di guardarlo. – Non so se hai il diritto di chiedermelo. – È mio figlio. – Ti sbagli. È mio figlio. – Non voglio insistere. Leggilo tu allora… in fin dei conti, l’ho scritto per te. – E Sophie? – No. A lei non parlarne. – Questa è l’unica cosa che non capisco. – Sophie? – Come hai potuto trattarla così? Cosa ti aveva fatto? – Niente. Non è stata colpa sua. Ormai dovresti averlo capito. È solo che non ero fatto per vivere come gli altri. – E come avresti dovuto vivere? – È tutto sul taccuino. Qualunque cosa dicessi ora, servirebbe solo a confondere la verità. – Hai altro da dirmi? – No, non mi pare. Probabilmente siamo alla fine. – Non credo che avresti il coraggio di spararmi. Se in questo momento sfondassi la porta, non reagiresti. – Non mettermi alla prova. Moriresti inutilmente. – Ti strapperei di mano la pistola. Ti metterei a terra. – E a che scopo? Io sono già morto. Qualche ora fa ho inghiottito un veleno. – Non ci credo. – Non puoi sapere cosa è vero o falso. Non lo saprai mai. – Chiamerò la polizia. Sfonderanno la porta e ti porteranno di forza all’ospedale. – Al primo colpo contro la porta una pallottola mi trapasserà il cranio. Non puoi vincere, è inutile. – È così irresistibile, la morte? – Convivo insieme a lei da tanto tempo, che ormai è tutto quello che mi resta.
Non sapevo più che cosa dire. Fanshawe mi aveva prosciugato di tutte le energie, e mentre lo sentivo respirare oltre la porta, mi sembrò che la mia vita venisse risucchiata fuori di me. – Tu sei pazzo, – gli dissi, non riuscendo a trovare di meglio. – Sei pazzo, e meriti di morire –. Poi, sopraffatto dalla debolezza e dalla futilità delle mie parole, cominciai a tempestare la porta di pugni come un bambino, tremando e balbettando frasi sconnesse, sull’orlo delle lacrime. – Adesso è meglio che tu vada via, – disse Fanshawe. – Non c’è motivo di prolungare il supplizio. – Io non mi muovo, – dissi. – Dobbiamo ancora parlare di tante cose. – No. È finita. Prendi il taccuino e torna a New York. Non ti chiedo altro. Ero così stremato che per un attimo temetti di cadere. La mente mi si oscurò, mi aggrappai al pomello della porta lottando per non svenire. Non ricordo cosa accadde dopo. Mi ritrovai fuori, davanti alla casa, con l’ombrello in una mano e il taccuino rosso nell’altra. Aveva smesso di piovere, ma il tempo era ancora brutto, e mi sentivo l’umidità nei polmoni. Guardai un grosso camion che passava nel traffico, seguendo le sue rosse luci di coda finché non lo persi di vista. Quando alzai lo sguardo, vidi che era quasi buio. Cominciai ad allontanarmi dalla casa, muovendo meccanicamente un passo dopo l’altro, incapace di concentrarmi sulla direzione del mio cammino. Credo anche di essere caduto una volta o due. Ricordo che a un certo punto aspettai un taxi a un angolo di strada, ma non si fermava nessuno. Pochi minuti dopo, l’ombrello mi sfuggì di mano e cadde in una pozzanghera. Non lo raccolsi neppure. Quando arrivai alla South Station erano appena scoccate le sette. Il treno per New York era partito da un quarto d’ora, e non ce ne sarebbe stato un altro prima delle otto e mezza. Mi sedetti su una panchina di legno, con il taccuino rosso sulle ginocchia. Gli ultimi pendolari entravano alla spicciolata; un inserviente passava lentamente lo straccio sul pavimento di marmo; orecchiai la conversazione di due uomini alle mie spalle, che parlavano dei Red Sox. Poi, dopo aver resistito dieci minuti, cedetti all’impulso di aprire il taccuino. Lessi ininterrottamente per un’ora, saltando avanti e indietro fra le pagine nel tentativo di trovare un senso in quello che Fanshawe aveva scritto. Se in questa sede non ne parlerò, è perché non capii praticamente nulla. Tutte le parole mi erano familiari, ma sembravano accostate in maniera bizzarra, come se il loro scopo finale fosse quello di cancellarsi a vicenda. Non saprei
spiegarmi diversamente. Ogni frase annullava la frase precedente, ogni paragrafo rendeva impossibile il successivo. Strano, quindi, che da quella lettura abbia riportato un’impressione di assoluta lucidità. Come se Fanshawe sapesse che la sua ultima opera doveva sovvertire ogni mia aspettativa. Quelle erano le parole di un uomo che non nutriva il minimo rimpianto. Aveva risposto alla domanda ponendo un’altra domanda, cosicché tutto era rimasto aperto, incompiuto, da ricominciare. Persi immediatamente il filo, e poi non feci altro che annaspare, che avanzare a tentoni nell’oscurità, accecato dal libro che era stato scritto per me. Eppure, sotto quella confusione, sentivo qualcosa di troppo voluto, di troppo perfetto, come se in ultimo la sua sola, autentica finalità fosse l’incomprensione, anche a costo di non capire se stesso. Certo, posso sbagliarmi. In quel momento non ero in condizione di leggere nulla, e forse il mio giudizio è alterato. Ero lì, scorrevo le parole con gli occhi, e stentavo a credere a quello che vedevo. Mi recai sul binario con qualche minuto di anticipo. Aveva ricominciato a piovere, e nell’aria davanti a me vedevo il mio respiro uscirmi dalla bocca in piccoli sbuffi di nebbia. Strappai le pagine del taccuino una a una, le accartocciai e le gettai in un cestino dei rifiuti. Giunsi all’ultima pagina proprio mentre il treno si metteva in movimento.
1) Jackie Robinson (1919–1972). Primo giocatore di colore a essere ingaggiato da una squadra del campionato professionistico americano di baseball. ↾