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CREDIT: CROCE ROSSA PIEMONTE
invece, ha iniziato la scuola: «Hanno la possibilità di passare del tempo con i loro coetanei», spiega Sergio Pero, presidente dell’associazione Arca solidale che in Piemonte ha coordinato l’accoglienza dei profughi in diverse famiglie. «Sono circa 30 i bambini arrivati tramite la nostra rete – aggiunge –. Per loro la lingua è l’ultimo dei problemi». In realtà questo è uno dei nodi da affrontare per l’inserimento scolastico dei più piccoli. Per loro, il Ministero dell’Istruzione ha predisposto linee guida che prevedono un primo inserimento sociale in classe. Da settembre, quando sarà più chiaro quante persone resteranno in Italia, le scuole dovranno elaborare un vero percorso didattico con l’ausilio di mediatori culturali e linguistici che la Regione Piemonte sta cercando di reperire tra l’Università e gli iscritti ucraini ai centri per l’impiego. «Non sapendo quanto durerà questa emergenza – osserva Cuccuvè – bisognerà iniziare a pensare ad un progetto di integrazione di queste persone nella nostra società».
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ANZIANI E DISABILI
Le 20 persone evacuate da Leopoli e portate in Piemonte dalla Croce Rossa
DA ČERNIVCI
Dopo la fuga dall’Ucraina l’intervento in ospedale
di A. B.
Yuri (nome di fantasia) è arrivato in Italia il 7 marzo insieme alla mamma, grazie all’associazione torinese Rainbow For Africa.
Ha sei mesi, e viene da Černivci, città ucraina a 40 chilometri dal confine con la Romania. Ha una malformazione anorettale congenita, e in Ucraina non poteva essere operato. Se ne occuperà il Policlinico di Milano, dov’è arrivato tre settimane fa accompagnato dai volontari della Ong. Ora lui e la mamma sono ospiti di una famiglia italiana conosciuta grazie alla nonna materna, ma non si sa per quanto tempo, sperando che Yuri possa ritornare presto a casa dalla sorella più grande, dalla nonna e dal papà, rimasto in Ucraina per combattere.
YURI
È fuggito dall’Ucraina a soli sei mesi con sua madre
LA COVER
Continua la collaborazione tra il Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” e Ied Torino. L’immagine è stata realizzata da Irene Scanavacca
LA VOCE DEGLI ESPERTI
«Accompagnare senza accanirsi»
di Alessandro Balbo
Le persone arrivano con un disorientamento molto grande, che è quello di individui sradicati dal territorio. Hanno bisogno di tempo, devono capire dove sono, affrontare la lingua, la nuova routine, la preoccupazione su chi è rimasto in patria», spiega Fabrizio Zucca, coordinatore dell’equipe della Fondazione Paideia di Torino. Lasciare la propria casa, la propria vita. Certezze, prospettive, ambizioni e relazioni messe in pausa. Forse temporaneamente, forse definitivamente. La guerra in Ucraina, molto più di altri conflitti che l’Europa ha imparato a conoscere attraverso i loro effetti, ha messo in luce come il passo più difficile del fuggire non sia l’attraversamento di frontiere fisiche o sociali, ma sia l’inizio. L’abbandono della propria vita, l’incertezza sul tempo di permanenza in un luogo estraneo, tutti elementi che richiedono un supporto, anche psicologico. I profughi di questa prima fase manifestano esplicitamente l’intenzione di tornare a casa il prima possibile, ma regna l’incertezza. «Non sono troppo lontani da un luogo dove potrebbero tornare, e possono non capire bene come comportarsi – continua Zucca – Anche dal punto di vista culturale potrebbero nascere fraintendimenti. Una risposta un po’ rigida da parte loro potrebbe sembrare pretenziosa, ma spesso è soltanto complicato interagire per via dei diversi approcci comunicativi».
La Fondazione, che poche settimane fa ha portato 22 persone nel nostro Paese dal confine tra Ucraina e Polonia, fornisce alloggio e assistenza a quattro nuclei familiari provenienti dall’Ucraina. Ognuno di essi include una persona con disabilità, che richiede attenzioni particolari: «Chi ha disabilità cognitive può essere spaesato dall’interazione che trova qui», dice Zucca. «Nel contesto da cui proviene probabilmente la persona era seguita all’interno di un istituto, con servizi molto diversi da quelli italiani. Lì è molto netto il confine tra dentro e fuori, tra si e no, mentre qui ci si imbatte in risposte che possono sembrare evasive, ma che rispecchiano la complessità delle cose. Può essere positivo, ma disorientante». Come tiene a precisare Zucca, Paideia è sempre stata specializzata in assistenza a persone disabili, e in questa situazione sta chiedendo «supporto a organizzazioni specializzate sui fenomeni di guerra». Organizzazioni come Psicologi per i Popoli. Ed è proprio la sua presidente, Maria Teresa Fenoglio, a completare il quadro delineato fin qui: «Le persone, ora, hanno innanzitutto bisogno di trovare sicurezza, pace. Indagare subito il trauma sarebbe controproducente, perché ricomparirebbe tutta la brutalità passata senza che la persona abbia la forza mentale di assorbirla. Spesso ci si trova in uno stato dissociativo, utile a preservare sé stessi.
Occorre aspettare il momento giusto, e sta a loro deciderlo». Anche aiuti forniti in maniera sbagliata possono essere dannosi: «Oggi è buona norma donare abiti nuovi, perché lo stigma sociale percepito da chi viene aiutato ha un peso importante. In questo senso, una precoce partecipazione alla distribuzione dei propri aiuti fa riguadagnare il senso della propria vita». Occorrerà accompagnare l’incertezza sul futuro: «Dopo una catastrofe vuoi riavere la tua vita di prima. È capitato ai terremotati, capitava ai meridionali a Torino. Ma se i bambini ucraini si fanno amici qui, le mamme cosa fanno? Se si adattano a vivere in Italia, poi che fai? Gli fai rivivere uno strappo?».
FONDAZIONE PAIDEIA
Al confine per salvare 22 persone
In collaborazione con Cooperativa Pausa Cafè e Asociazione Accomazzi, la Fondazione Paideia è partita venerdì 11 marzo verso il confine tra Polonia e Ucraina. Il convoglio di quattro mezzi, rientrato in Italia due giorni dopo, ha portato in italia 22 persone: donne e bambini, di cui due con disabilità. Nel corso della missione sono stati anche consegnati medicinali e materiali sanitari. «È stato emozionante vedere sul confine il grande abbraccio dei volontari provenienti da tutto il mondo», ha dichiarato Fabrizio Serra, direttore della Fondazione.
CREDIT: ANDREA SACCO
Andrea Sacco, cooperativa Nanà
EMERGENZA
«Perché questa è un nuovo tipo di migrazione»
di G.P.
Chi arriva dall’Africa spera di aver trovato qui un punto di arrivo, mentre credo che la maggior parte degli ucraini voglia tornare a casa quando ce ne saranno le condizioni». Andrea Sacco, coordinatore per l’accoglienza di richiedenti asilo per la cooperativa torinese Nanà, individua una delle differenze tra l’esodo causato dalla guerra in Ucraina e le altre esperienze migratorie. I centri di accoglienza che fino a un mese fa ospitavano persone sole e adulte, per lo più uomini, oggi si ritrovano a offrire accoglienza a piccoli nuclei familiari composti da donne e bambini. Lo stesso accadrà per la cooperativa Nanà che ha dato disponibilità ad accogliere profughi ucraini in quattro alloggi nel quartiere di Barriera di Milano. «Normalmente i Cas hanno il compito di aiutare queste persone a presentare la domanda di asilo e accompagnarle davanti alla commissione territoriale che dovrà stabilire se hanno diritto ad una protezione. Nel caso degli ucraini, invece, non ci sarà nessuna commissione perché loro otterranno d’ufficio la protezione temporanea».
Con l’emergenza ucraina i centri di accoglienza straordinaria stanno cambiando la loro funzione: «Parlare ancora di straordinarietà è una contraddizione – spiega Sacco –. A distanza di anni dal 2015, quando i numeri effettivamente consentivano di parlare di straordinarietà, le migrazioni sono ancora trattate come emergenze». E adesso che un’emergenza umanitaria è davvero in corso, questo approccio rischia di saturare le strutture di accoglienza. «Il sistema era già saturo, tanto che è stato necessario fare manifestazioni di interesse per ampliare i posti disponibili. Adesso non bisogna solo chiedersi se il sistema sia pronto a reggere ai prossimi arrivi, ma anche capire a quali condizioni sarà pronto». Il tema, nei prossimi mesi, potrebbe essere legato alla qualità dell’ospitalità riservata a chi continuerà a fuggire, non solo dall’Ucraina. «Serve politica e non è una risposta retorica. La politica deve contribuire non solo a fermare il conflitto, ma anche a favorire canali istituzionali di arrivo in Italia perché un flusso più controllato permetterebbe ai singoli Paesi di costruire idonee politiche di accoglienza».