Coscienza e cervello trascrizione di gabriele nani

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A cura di: Gabriele Nani – estratti del libro integrati con altre discipline


Coscienza e cervello Si sente parlare spesso di mente, pensiero, cervello, conscio e inconscio; molti citano teorie affascinanti che “rispondono bene” al bisogno di sapere che alimenta la vita degli esseri umani. Ma pochi studiano con metodi rigorosi il cervello e i processi mentali. Tutto ciò che segue è tratto dal libro “Coscienza e cervello – come i neuroni codificano il pensiero” di Stanislas Dehaene, edito da Raffaello Cortina. Ho trovato questo libro illuminante sotto molti aspetti, e mentre lo leggevo notavo i molti punti di congiunzione con diverse altre discipline, ma soprattutto mi ha colpito il senso della misura e l’umiltà dell’autore, e mi piacerebbe che tutti/e i ricercatori/trici della mente si approcciassero in un modo simile allo studio della mente, ma soprattutto alla divulgazione di ciò che vi via vanno scoprendo; ho capito che il cervello crea sé stesso durante il nostro cammino, auto-configurandosi a seconda di molteplici fattori, quali ad esempio i pensieri più frequenti, le esperienze vissute nel passato e come le abbiamo interpretate, gli obiettivi di vita, le emozioni che viviamo al momento. Il mio desiderio è quello di trovare pratiche comporta_mentali sempre più efficaci per affrontare al meglio le situazioni in cui ci troviamo nel nostro percorso di vita, indicazioni concrete, pratiche, per far funzionare meglio le cose, o per saperle sistemare al meglio quando non funzionano più; ma desidero anche divulgare conoscenza nei confronti di questa grande sconosciuta che per molti è la nostra mente. Sento troppe persone criticare o elogiare i propri processi mentali, parlare di conscio e inconscio come se fosse un partner senza segreti, dare o seguire consigli basandosi solo sulla fiducia che ispira l’interlocutore. Ho cercato dunque di semplificare alcuni passaggi, aggiungendo delle metafore al testo originale, oppure degli esempi; a volte non ce l’ho fatta e ho riportato fedelmente il testo del libro, altre volte sì. Inoltre ho integrato le pagine del libro, laddove riscontravo delle connessioni significative, con quelle di altre discipline che studio e uso nel mio lavoro, come la programmazione neuro linguistica, le dinamiche a spirale, la cognizione incarnata, la mindfulness. E mi sono permesso di aggiungere delle considerazioni personali, per calare nel nostro concreto quotidiano alcuni dei concetti esposti, sotto forma di suggerimenti comportamentali; ho cercato di distillare qualche consiglio pratico per suggerire dei comportamenti che meglio di altri possono far lavorare il cervello in un modo più efficace. Questa è una tematica molto complessa, perché il funzionamento della mente può apparire ingannevolmente semplice sotto alcuni aspetti, mentre sotto altri è estremamente complesso; molte cose sono state scoperte, e molte non sappiamo nemmeno cosa sono e quindi nemmeno se le scopriremo. Di una cosa sono sicuro, che se vogliamo parlare di mente, è meglio leggere qualcosa che provenga da fonti accreditate, delle quali, molte, Stanislas Dehaene fa parte, e non si può pretendere di ridurre tutto alla semplicità, perché la complessità mantiene il suo fascino; lo so, non è da tutti leggere cose del genere, ma se volete parlare di mente, psicologia, di cosa funzioni e cosa no, dovete conoscere meglio ciò di cui parlate, altrimenti è meglio tacere o parlar d’altro. Un’altra cosa che credo di avere imparato da questo libro, è che sembra che tutto ciò che le persone hanno inventato, sia una replica, un modello che ricalca il funzionamento della mente, e quindi se vogliamo sapere di più su come funziona la mente, basta che osserviamo quello che le persone fanno e come lo fanno, e raccoglieremo informazioni molto interessanti. Questa prospettiva non piacerà a tutti, perché ognuno possiede una momentanea configurazione mentale che potrebbe non essere aperta a questo approccio, oppure semplicemente certe persone


‘vogliono’ sentirsi dire che le cose funzionano in un certo modo e basta, vogliono delle risposte definitive a cui affidare il loro credo. Non tutti sono fatti per muoversi nel dubbio, nella visione multiplistica delle cose, altri ancora trovano l’approccio scientifico troppo ‘freddo’ e ‘limitato’ dagli strumenti attuali della scienza, o peggio, dall’occhio ‘mentale’ dello scienziato. Alcune persone vogliono credere che il pensiero crea la materia, che la mente crea la realtà, che siamo creatori del nostro universo e artefici del nostro destino, altre ancora sono alla ricerca di ciò che qualcun altro, spesso molto in alto, ha disegnato per loro, e cercano di trovare un (uno) senso alle cose, e il coraggio e l’energia per accettare ciò che viene; altri sono stanchi di un certo tipo di dogmi, e ne cercano altri di un altro genere, altri se ne fregano alla grande di cercare risposte, e pensano che la vita sia tutta qui, e ridere o soffrire, decidi tu, ognuno insomma ha bisogno di vedere così le cose; non siamo tutti pronti per ricevere le stesse storie. In questo caso io non desidero fare della psico-teologia, non cerco un nuovo terreno su cui edificare una nuova parrocchia, non voglio dare peso alla scienza di più di quello che possiede; sono solo in cerca di qualcosa di utile, qualcosa che ognuno possa provare su di sé e decidere; sono un uomo in movimento curioso, e visto la diversità di tutte le persone che si rivolgono a me ho sentito che sarebbe stato utile conoscere più approcci, senza chiudermi in nessuno. Ho scelto una via molto dura, perché spesso trovo cose diametralmente opposte, ma allo stesso tempo entrambe valide, per qualcuno, o per qualcosa, e spesso stanca continuare a navigare senza mai vedere terra, ma in fondo so che non desidero arrivare in nessun posto in particolare, il mio piacere sta proprio nel viaggiare, e fin che posso continuo. Buona complessa lettura Gabriele Nani Introduzione Da dove provengono i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri sogni? È possibile governarli? Chi sono io? E ancora, come faccio a pensare? Cos’è quell’ “io” che sembra compiere volontariamente il pensiero? Sarebbe diverso, se io fossi nato in un altro momento, in un altro luogo, o in un altro corpo? Dove vado, quando mi addormento, quando sogno e quando muoio? Tutto ciò nasce nel mio cervello? Oppure, io sono in parte uno spirito, formato da una distinta sostanza del pensiero? E’ affascinante il fatto che dal V secolo A.C. fino ai giorni nostri ci stiamo ponendo ancora le stesse domande, e ancora più affascinante è il fatto di come sono cambiate le risposte. Negli ultimi vent’anni, le neuroscienze si sono affiancate alla filosofia, alla teologia, alla ricerca spirituale, nel coraggioso tentativo di dare una risposta alla storica questione della coscienza; nelle righe che seguono andiamo a tracciare un quadro del loro prezioso contributo, che come sempre succede, quando una tematica è stata monopolio di altri, porterà cambiamenti, critiche, nuove intuizioni, scosse di assestamento prima che il sapere raggiunga un nuovo, momentaneo, assetto. Il fatto curioso, è come sia possibile passare dal mondo ‘materico’, ‘oggettivo’, ad una prospettiva soggettiva e per certi versi unica.


La questione della coscienza Quando si parla di coscienza è necessario prima di tutto definire cosa intendiamo con questo termine, in modo da definire un preciso campo di indagine, perché questa parola viene utilizzata tutti i giorni, ma con attribuzione di differenti significati, e quindi se non capiamo cosa sta ‘indicando’ una persona quando pronuncia questa parola, diventa difficile capirsi. Di solito troviamo il termine coscienza associato ai seguenti aspetti e/o significati:  Vigilanza: lo stato di veglia, che varia quando ci addormentiamo, oppure quando ci svegliamo  Attenzione: la focalizzazione delle nostre risorse mentali su uno specifico ‘oggetto’ o meglio, brandello di informazione  Accesso cosciente: il fatto che alcune delle informazioni alle quali si presta attenzione, arrivino infine alla nostra consapevolezza, e diventino riferibili ad altri  Orientamento Etico : il valore che diamo alle cose, in che modo valutiamo ciò che è ‘giusto’ e ciò che è ‘sbagliato’, corretto o scorretto, l’interpretazione valoriale che guida i nostri comportamenti L’accesso cosciente – cos’è Le neuroscienze di nuova generazione si sono concentrate sul fenomeno dell’accesso cosciente (il terzo dell’elenco), ovvero il semplice fatto che di solito, ogni volta che siamo svegli, qualsiasi cosa sulla quale decidiamo di focalizzarci può diventare cosciente. Vigilanza e attenzione, da sole, non sono sufficienti. Quando siamo completamente svegli e attenti, a volte possiamo vedere un oggetto e descriverne la nostra percezione agli altri; a volte, invece, non riusciamo a farlo: forse perché l’oggetto era troppo sfuocato, oppure perché era ‘mascherato’ fra altri oggetti, oppure ancora perché ci è stato mostrato troppo rapidamente per essere visibile. Nel primo caso, quando cioè possiamo descrivere la nostra percezione ad altri, parliamo di accesso cosciente; nel secondo no, anche se vedremo che, fino ad un certo livello, si attiva un processo di elaborazione, che rimane però del tutto inconscio, nel senso che l’informazione viene processata fino ad un certo punto, ma comunque noi non ne siamo consapevoli; in questo caso stiamo parlando di quelli che comunemente vengono definite informazioni subliminali, e capiremo che, a differenza di quanto sostengono alcune leggende popolari, l’impatto di questo tipo di messaggi è molto più debole, e meno ‘attivante’ dell’informazione che giunge fino all’accesso cosciente. L’accesso cosciente, è il portale di ingresso per forme più complesse di esperienza cosciente, quali il senso di un “sé”, un “io” dotato di libero arbitrio e capacità di auto-riflessione, di osservazione di sé stesso come da un punto di vista ‘esterno’, ecc. Ciò che solitamente indichiamo come autocoscienza, sembrerebbe una funzione molto simile alla normale percezione di un suono, o di un’immagine, nel senso che, diventare coscienti di alcuni aspetti di noi stessi, indicherebbe semplicemente un accesso cosciente della rappresentazione mentale interna che abbiamo di noi stessi, l’immagine che ci siamo creati di noi; mentre solitamente giungono dati sensoriali, in questo


caso giungono alla coscienza informazioni dall’interno. In ogni momento noi possiamo diventare coscienti di cose ‘fuori’ da noi, oppure ‘dentro’ di noi. Succede qualcosa di simile quando ci vediamo all’interno di un filmato video e pensiamo: “quello/a sono io!”, ma in verità sappiamo che “quello/a” non siamo ‘veramente’ noi, che è solo un’immagine, ovvero la parte visibile di noi stessi fissata su una pellicola, un file, una frequenza, qualcosa di diverso dal ‘noi materico’ che possiamo toccare, che respira, ha un cuore che batte nel qui ed ora. Noi possiamo dire “quello/a sono io”, anche se “noi”, lì, non ci siamo, e quella rappresentazione è qualcosa di ‘vecchio’, che appartiene al passato, un ricordo. Nella concezione dell’io, il film viene da dentro invece che da fuori. Tale processo prende il nome di meta-cognizione, ovvero il fenomeno circolare ricorsivo all’interno del quale mentre riflettiamo su noi stessi, il nostro “io” appare due volte, sia come percettore, sia come percepito. La meta-cognizione è dunque la capacità di pensare sulla propria mente. L’accesso cosciente è tuttavia ingannevolmente semplice; gettiamo il nostro sguardo su un oggetto, e apparentemente all’istante diventiamo consapevoli della sua forma, colore e identità (ovvero cos’è, o a cosa serve). Dietro la nostra consapevolezza percettiva, si nasconde un intricato complesso di attività cerebrale, che coinvolge miliardi di neuroni specializzati, e che può richiedere da un terzo, fino a mezzo secondo, per essere completata prima che si manifesti in coscienza. Sotto la superficie della nostra mente cosciente avviene una quantità sbalorditiva di costante elaborazione inconscia, ricerche e calcoli statistici di probabilità. Possiamo dire, semplificando estremamente, che il concetto di accesso cosciente sta a indicare il “come” diventiamo consapevoli di uno specifico brandello di informazione. A cosa serve la coscienza? Perché si è evoluta la coscienza? Milioni di anni di evoluzione in senso Darwiniano, hanno fatto sì che alcune operazioni fondamentali possano essere condotte solo in modalità cosciente. La tesi è che la coscienza sia utile, perché la percezione cosciente trasforma l’informazione in ingresso in un codice interno che le consente di essere rielaborata secondo modalità peculiari. L’informazione subliminale, che tratteremo in seguito, è fugace, volatile, mentre quella cosciente è stabile – possiamo contarci per quanto tempo vogliamo, inoltre la coscienza ‘comprime’ l’informazione in arrivo, restringendo un immenso flusso di dati provenienti dai sensi a un piccolo insieme attentamente selezionato di simboli. L’informazione così selezionata e semplificata, può quindi essere indirizzata ad un’altra fase dell’elaborazione, consentendoci di compiere sequenze di operazioni accuratamente collegate fra loro, proprio come un computer seriale. Questa funzione di eccellente filtro e traduttore, viene altamente potenziata dal linguaggio, che ci permette la distribuzione dei nostri pensieri coscienti attraverso la rete sociale. La funzione della coscienza potrebbe essere quella di semplificare la percezione, stendendo un riassunto dell’ambiente in quel momento, prima di trasmetterlo, in una maniera coerente, a tutte le altre aree cerebrali coinvolte nella memoria, nel processo decisionale e dell’azione.


Per essere utile, il ‘riassunto’ cosciente del cervello dev’essere stabile e integrativo. Prendete per esempio una crisi internazionale, non avrebbe alcun scopo che l’FBI inviasse al presidente migliaia di messaggi, uno dietro l’altro, magari differenti di poco, o comunque suscettibili di altri cambiamenti possibili e significativi, ognuno dei quali contente quindi un solo frammento di ‘verità’, lasciando così che sia lui, in queste condizioni, a farsi un quadro ‘chiaro’ della realtà. Analogamente il cervello non può attenersi ad un flusso di basso livello di informazioni in arrivo: deve mettere insieme i pezzi che possiede in una storia coerente ( w.y.s.i.a.t.i. “what you see is all there is” ). La coscienza fornisce la potenza di un sofisticato computer seriale. Proviamo a calcolare mentalmente il risultato della moltiplicazione 12 x 13. Si ha la sensazione di ciascuna delle operazioni aritmetiche che si sono susseguite, con o senza risultato, dentro la nostra mente, vero? Noi siamo coscienti delle strategie seriali che usiamo per moltiplicare (ed eseguire altre azioni, come ad esempio comprendere ‘frasi complesse’), possiamo riferire coscientemente qualsiasi strategia impiegata. In psicologia, una tale accurata introspezione, è inusuale, perché la maggior parte delle operazioni mentali è ‘opaca’ all’ occhio della mente; nel senso che noi non gettiamo alcuno sguardo sulle operazioni interne che avvengono per il riconoscimento di un volto, il pronunciare una parola, il gesto fulmineo per schivare un oggetto, ecc… . Perché quindi alcune operazioni diventano coscienti, e altre no? Perché laddove serve, la coscienza, si è evoluta per creare algoritmi, oppure per funzionare mediante algoritmi, ovvero stringhe di passaggi elementari accordati insieme. Ogni passaggio intermedio viene verificato e trasmesso a quello successivo. E’ come se nel cervello ci sia un ‘router’, che distribuisce in maniera flessibile le informazioni verso e dalle sue routine interne. La coscienza deve raccogliere le informazioni da svariati processori, sintetizzarle, e quindi trasmettere i risultati – simboli coscienti – ad altri processori, selezionati arbitrariamente; a loro volta questi processori applicano le loro abilità inconsce a questi simboli e il ciclo può ripetersi un certo numero di volte. Conscio e inconscio In questo modello descrittivo, ipotizziamo che ‘nel seminterrato’ ( l’inconscio ), un esercito di lavoratori inconsapevoli compie un lavoro estenuante, setacciando pile e pile di dati, informazioni. Nel frattempo, ‘di sopra’ ( mente conscia ), un comitato selezionato di dirigenti esamina soltanto un riassunto della situazione, prendendo lentamente decisioni coscienti in base a questo. Sotto lo stadio della coscienza una miriade di processori non coscient, operando in parallelo, s’impegna a fondo per estrarre l’interpretazione più completa e dettagliata dell’ambiente circostante. Il riassunto finale che ne deriva è un’opera mirabile di calcoli statistico-probabilistici, dunque eleganti e sofisticati ‘azzardi interpretativi’, un modello che, come ogni modello, prevede il permanere di alcune informazioni, e la cancellazione di altre, e per il comitato finale esiste solo il riassunto, il modello, e tutto ciò su cui può decidere, è solo ciò che si presenta ai suoi ‘occhi’. Daniel Kahneman, coniò un termine particolare per descrivere questo processo e il risultato al quale porta, ovvero W.Y.S.I.A.T.I. , acronimo di “what you see, is all there is”, tutto quello che vedi, per te, così è  . tutti le informazioni che non rientrano nel modello sono in un qualche modo


perse, e noi possiamo fare affidamento solo sul nostro modello, non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello di mettere in discussione il modello, anche perché non avremmo le informazioni necessarie; ecco perché non è così semplice cambiare convinzioni molto radicate! Diventa possibile solo se, agendo con un comportamento differente, otteniamo risultati differenti, allora le nuove informazioni in ingresso possono ri-configurare il modello precedente. La nostra coscienza, ci offre soltanto una rapida occhiata su quest’universo probabilistico – che gli statistici chiamano “campione” di tale distribuzione non cosciente. Un’occhiata che si apre un varco fra tutte le ambiguità e raggiunge una visione semplificata, un riassunto della migliore interpretazione, un riassunto del riassunto del mondo possibile in quel momento, che può essere trasmessa al nostro sistema decisionale. La coscienza, in sostanza, seleziona uno stimolo, e allenta di molto il divagare in parallelo a 360° dell’inconscio; ciò è straordinario nella risoluzione delle ambiguità, come ad esempio quelle di tipo visivo, come la “ballerina” che vediamo di seguito: qui l’immagine è fissa, mentre potete vederla in vari siti internet mentre ruota su sé stessa ( cercando “percezione ballerina” su un motore di ricerca dovreste trovarla ). Noterete che, secondo la vostra momentanea visione sembra ruotare in un verso (orario o anti-orario), se provate a chiudere gli occhi per un momento, e immaginare che giri nel senso opposto a quello che voi percepivate, quando riaprite gli occhi noterete che gira esattamente in senso opposto a come la vedevate girare all’inizio. Il cervello non ha nessun modo per dire in che senso gira la ballerina, ma soggettivamente noi non percepiamo nessuna ambiguità, perché non è possibile percepire una miscela delle due possibilità. La nostra percezione cosciente decide e ci lascia vedere una sola soluzione per volta. Le due interpretazioni si alternano, e vedrete che ogni x secondi la nostra percezione cambia, permettendoci di vedere la ballerina girare in un senso, e poi anche nell’altro. Questo fenomeno succede perché una volta che i neuroni visivi specializzati iniziano a ‘parlare’ fra loro, pronunciano i personali ‘voti’ in favore della percezione ‘migliore’, ovvero quella pro balisticamente più vicina alla media statistica, e così facendo l’intera popolazione di neuroni può convergere su tale interpretazione per … “confermarla”. Un po’ come il metodo che usava Sherlock Holmes, secondo il quale, quando avete eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità. Il passare in modalità tipo on/off da una visione all’altra ci dice che, nei casi ambigui, anche quando si è fatta largo una certa interpretazione cosciente, il nostro cervello continua a calcolare e rielaborare tutte le altre interpretazioni possibili, così può rimanere pronto a cambiare in ogni momento. Noi apriamo gli occhi, e il nostro cervello cosciente ci lascia vedere soltanto un’unica visione. Paradossalmente, il campionamento che ha luogo nel nostro cervello ci rende perennemente ciechi alla sua intima complessità. il campionamento sembra essere una genuina funzione dell’accesso cosciente, nel senso non avviene in assenza di attenzione consapevole. Nonostante i meccanismi neurali coinvolgono verosimilmente solo la fisica classica, l’intero processo, se osservato in maniera più olistica, possiede un’affascinante analogia con le teorie della


fisica quantistica. I quantistici ci dicono che la realtà fisica consiste in una sovrapposizione di funzioni d’onda che determinano la probabilità di trovare una particella in un dato stato. Ogni volta che ci preoccupiamo di compiere una misurazione, tuttavia, queste probabilità collassano in uno stato fisico di tutto o nulla. Stando alla teoria quantistica, l’atto stesso della misurazione fisica costringe le probabilità a collassare in un’unica misura definita. Nel nostro cervello avviene qualcosa di simile: l’atto stesso del prestare attenzione coscientemente ad un oggetto fa collassare la distribuzione di probabilità delle sue varie interpretazioni, e ci lascia percepire solo una di loro ( w.y.s.i.a.t.i. ). Cervello e libero arbitrio – attività spontanea Il cervello è la sede di un’intensa attività spontanea; è costantemente attraversato da configurazioni globali di attività interna che traggono origine non dal mondo esterno bensì dall’interno, dalla peculiare capacità dei neuroni di auto attivarsi in modo parzialmente, apparentemente, casuale. In sostanza il risultato è una ‘macchina’ dotata di libero arbitrio. William James chiamava “flusso di coscienza” – un interrotto scorrere di pensieri vagamente collegati, modellati principalmente dai nostri obiettivi del momento, e solo occasionalmente in cerca d’informazione nei sensi.

E’ come se la coscienza fosse il ‘pelo dell’acqua’, al di sotto del quale, a differenti livelli di profondità, esistono milioni di cose (le esperienze della nostra vita che abbiamo immagazzinato), che possono essere ‘colte’ dal nostro interesse; e devono costantemente essere disponibili alla cattura dell’attenzione, così da essere poi ‘ammesse’ all’accesso cosciente, ovvero uscire in superficie e rendersi percepibili coscientemente. Per usare un termine caro a Darwin, esiste una serrata competizione fra percezioni potenziali (che giungono dall’esterno) e pensieri (che giungono da ‘dentro’) all’interno del nostro cervello, per accaparrarsi l’accesso alla coscienza. Quando siamo sottoposti a due immagini simultanee, esse creano una competizione interna, e nel processo corticale l’attenzione non svolge un ruolo importante; ma lo svolge in quanto il ‘vincitore’ sarà lo stimolo al quale prestiamo maggiore attenzione, mentre l’altro tenderà a scomparire.


Considerazioni: Sottolineiamo il passaggio “modellati principalmente dai nostri obiettivi del momento”, perché ci serve da stimolo nel considerare quanto è importante, ai fini del processo mentale di valutazione, essere coscienti o meno di ciò che desideriamo all’interno di una certa situazione, o di dove è concentrata la nostra attenzione in un dato momento, cosa desideriamo che succeda (obiettivo); perché attorno a queste coordinate ruota buona parte del processo di interpretazione, che avrà come output un pensiero cosciente, che guiderà poi il nostro comportamento. La ‘limitatezza’ della mente conscia – selezione delle informazioni Abbiamo messo fra le virgolette la parola limitatezza, perché parliamo soltanto di quantità, ma se guardiamo al valore della sua funzione, esso è incalcolabile; qualcuno del resto diceva che: “non tutto ciò che si può contare conta, e non tutto ciò che conta può essere contato”. In ogni momento i nostri sensi sono raggiunti da un massiccio flusso di stimoli; però, la nostra mente cosciente sembra garantire l’accesso soltanto a una parte assai ridotta di questi. Mentre leggo queste righe la mia retina è ‘bombardata’ da informazioni sugli oggetti circostanti, le loro forme, colori; le orecchie sono raggiunte da molteplici suoni, e così il naso, la pelle, ma tutti questi elementi di ‘distrazione’ rimangono sullo sfondo inconscio, mentre mi concentro nella lettura; nel momento in cui io decido di volgere l’attenzione altrove, ecco emergere alla mia coscienza brandelli di queste informazioni che giungono incessantemente. L’accesso cosciente è dunque, per sua natura, insieme straordinariamente aperto, e incredibilmente selettivo, dotato di un ampio repertorio potenziale. Se prendo una fregatura, posso anche diventare auto-cosciente, ovvero le mie emozioni, le mie strategie, i miei errori e i miei rimorsi entreranno nella mia mente cosciente, e da qui ritorneranno indietro per una valanga di rielaborazioni, nuovamente inconsce, ai livelli superiori, per poi ritornare alla coscienza sotto un’altra forma, e così via in un processo di costante rimodellamento. Freud sosteneva che la coscienza è sopravvalutata. Consideriamo questo semplice fatto: noi siamo coscienti soltanto dei nostri pensieri coscienti. Poiché le nostre operazioni non coscienti ci eludono, noi sopravvalutiamo costantemente il ruolo che la coscienza gioca nella nostra vita mentale e fisica. Dimenticando lo stupefacente potere dell’inconscio, tendiamo ad ascrivere troppo le nostre azioni a decisioni coscienti e, quindi, contraddistinguiamo erroneamente la nostra coscienza come la nostra principale interprete della nostra vita quotidiana. Noi siamo ‘ridotti’, fondamentalmente, ad appena un pensiero cosciente alla volta (anche se un singolo pensiero può essere un sostanziale “blocco” composto di numerosi sottoelementi, come quando riflettiamo sul significato di una frase complessa). Quindi la coscienza deve ritrarsi da un argomento per avere accesso ad un altro, come capita quando parliamo al telefono, e una seconda persona pretende di parlare con noi. In programmazione neuro linguistica è stato anche dato un numero per convenzione a questa ‘capienza’, ovvero il magico 7±2 , quando cioè vengono presentati simultaneamente alla nostra attenzione più di 7 sottoelementi, iniziamo ad essere saturi, e a perdere coscienza di alcune informazioni (che vengono comunque registrate


inconsciamente e trattate fino ad un certo punto). Altri autori utilizzano come ‘unità di misura generica’ il bit, e sostengono che il nostro cervello può gestire simultaneamente fino a 110 bit al secondo; ascoltare una persona che parla ne ‘cattura’ 40, seguire distrattamente la tv ancora 40, quindi potremmo parlare (di un argomento non troppo complesso) con una persona, oppure ascoltarla in maniera superficiale, e seguire allo stesso tempo distrattamente la tv, ma se nel discorso di intromettesse una terza persona, l’equilibrio andrebbe a saltare. La nostra coscienza spesso è troppo lenta per riuscire a tenere il passo della velocità della presentazione di alcune immagini; l’atto di trasferire una lettera alla memoria è sufficiente a impegnare le nostre risorse coscienti abbastanza a lungo da creare un temporaneo periodo di ‘invisibilità’ per le altre. La mente conscia, a causa dell’accesso cosciente è sequenziale, a differenza della mente incoscia che è simultanea, e questo sistema di funzionamento porta a dei periodi di “refrattarietà psicologica”, ovvero mentre la mente cosciente sta elaborando un primo elemento, ulteriori input non posso essere elaborati e vanno messi in una sala di ‘attesa’ inconscia, e vi restano fino a che l’elaborazione del primo elemento non è terminata. Questo ‘collo di bottiglia’ che è l’accesso cosciente ci fa capire come l’impressione della simultaneità sia in verità un’illusione. Ma qual è il destino delle informazioni in ‘sala d’attesa’? A causa di ‘disturbi’ interni, pensieri dispersivi, oppure altri stimoli in arrivo, un elemento in sala d’attesa può essere cancellato e svanire dalla coscienza; tale fenomeno prende il nome di “blink attenzionale”, e più aumenta la durata del ritardo, che prolunga l’attesa, più è facile che arrivi. Considerazioni: Ecco perché il sovraccarico cognitivo, il surplus di informazioni ‘accattivanti’ ma spesso inutili ai quali siamo esposti oggi, grazie al web e agli strumenti utilizzati per entrarci, può creare problemi; perché un sistema sovraccarico deve costantemente fare pulizia, e tra un lancio di spazzatura e l’altro, potrebbe anche gettare stimoli utili. Per fortuna, come abbiamo già detto, il potere dell’attenzione potrebbe permetterci, unito all’avere degli obiettivi stimolanti, di tenere sempre in primo piano le notizie utili al fine del raggiungimento dei nostri piani; ma quando gli stimoli sono troppi, e il cervello sovra-lavora, diventa più difficile rimanere ‘sul pezzo’. Suggeriamo vivamente di fare un po’ di ‘pulizia’ dalle distrazioni che interferiscono nella nostra vita, e non c’è solo l’abuso di web da regolarizzare (quando lo si usa navigando a perditempo); molte persone hanno troppe attività insieme, oppure troppe idee nella testa in attesa di realizzazione, sono in costante stato di overload, sovraccarico mentale, e questo non sarebbe un problema se queste persone fossero ben organizzate, e se le attività pratiche, o di pensiero, in cui sono coinvolte portassero dei frutti concreti e soddisfacenti. Quando siamo troppo ‘pieni’ significa semplicemente che abbiamo sempre qualcosa sotto la lente di rielaborazione dell’accesso di coscienza, e la sala d’attesa piena; in queste situazioni, a causa del blink attenzionale, ci perdiamo grandi quantità di informazioni che sfrecciano vicino a noi, ma non abbiamo risorse per poterle notare e afferrare, perdendo così molte cose che potrebbero fare la differenza in meglio. Quindi, se vogliamo fare tante cose, dobbiamo avere un grande ordine mentale, perché ciò che facciamo ‘fuori’ e come lo facciamo, altro non è che la proiezione mentale della nostra ‘organizzazione interna. Siamo sempre in perfetta coerenza tra l’organizzazione interna e i comportamenti esterni,


l’interno si rispecchia, o meglio ancora si manifesta, si concretizza, nell’esterno! Ne abbiamo la riprova nel fatto che ognuno si sente a proprio agio nel modo in cui ‘ordina’ la propria stanza, mentre un’altra persona potrebbe chiamare ‘disordine’ quello che noi chiamiamo ordine … abbiamo avuto tutti una mamma e dunque è chiaro ciò di cui stiamo parlando  . Quindi se abbiamo la percezione che la nostra vita sia disordinata, o peggio, un disastro, oppure se siamo in confusione e non sappiamo cosa fare, ecco che il grande lavoro di riordino da fare è dentro, non fuori; è naturale che il mettere ordine ‘dentro’ , nei pensieri, dovrà tradursi automaticamente in alcune azioni ‘fuori’, ovvero dei nuovi comportamenti. In sostanza, c’è assoluta continuità tra il dentro e il fuori, tanto è vero che alcune filosofie evitano questa ingannevole e riduttiva definizione. Quindi ogni tanto prendiamo coscienza di com’è il nostro ‘traffico mentale’: è scorrevole? Ci sono rallentamenti? Tutto fermo? Perché se desideriamo una vita maggiormente gestibile e ordinata, è necessario trovare una centratura, rimanere lucidi e focalizzati. Un altro fenomeno interessante è la “cecità disattenzionale”, ovvero quel periodo di ‘isolamento’ mentale che si crea quando siamo particolarmente coinvolti all’interno di un compito che cattura tutta la nostra attenzione, e diventiamo dimentichi del mondo esterno. (vedi su youtube “Whodunnit?”) Il livello pre-cosciente – l’anticamera dell’accesso cosciente Molte informazioni rimangono dunque in una sorta di ‘sala d’attesa’ dell’inconscio, che possiamo definire pre-cosciente, e comunque a questo livello avviene un minimo di elaborazione, infatti se pensiamo ad alcuni segnali corporei, come il torpore di una gamba quando siamo seduti ‘male’, significa che nel frattempo sono avvenute delle elaborazioni interne, ci sono stati dei cambiamenti che, ad un certo punto, hanno richiesto la nostra coscienza per decidere di cambiare postura e porre rimedio al fastidio. L’accesso cosciente, rende ‘disponibile’ alla nostra mente, ciò che un attimo prima si trovava al livello pre-cosciente, in modo che possiamo decidere, agire, comunicare, pianificare, ecc.

Il ‘ritardo’ della coscienza rispetto al mondo Non possiamo essere attenti a parecchie cose alla volta. Il nostro cervello cosciente non può avere esperienza di due attivazioni simultaneamente, e ci lascia percepire soltanto un singolo ‘pezzo’ in qualsiasi determinato momento. Tra la percezione di uno stimolo e un altro c’è sempre un certo periodo di refrattarietà. Durante eventi ‘abituali’, avendo la mente in archivio un’esperienza pregressa da ‘pescare’, i tempi di accorciano un po’. La nostra consapevolezza degli eventi inattesi esibisce invece un considerevole ritardo rispetto al mondo ‘reale’. Non soltanto percepiamo consciamente solo una minuscola percentuale dei segnali sensoriali che ci bombardano; ma, quando lo facciamo, ciò avviene con un ritardo di almeno un


terzo di secondo (come succede agli astronomi che ‘ora’ osservano le stelle, ma ciò che vedono ‘ora’ è già avvenuto qualche milione di anni prima!). L’informazione che noi ‘ascriviamo’ al presente ‘cosciente’ è superata di almeno un terzo di secondo, e la durata di questo periodo ‘cieco’ può anche superare il mezzo secondo, quando l’input in ingresso è debole,o quando la mente è impegnata altrove (del resto lo sanno tutti che parlare al cellulare mentre ci si trova alla guida della propria automobile nel mezzo del traffico intenso può essere molto pericoloso). Per la maggior parte del tempo della nostra vita questo ritardo non crea problemi, possiamo goderci tramonti, film, concerti, senza avere la percezione che vi sia un ritardo, perché il mondo è abbastanza lento per la nostra coscienza ritardata, rendendola quindi adeguata. Quando invece cerchiamo di agire “in tempo reale”, ecco che le cose si complicano e ci rendiamo conto del ‘prezzo’ della coscienza lenta; basta provare a voler immortalare con la macchina fotografica il guizzo di una lucertola, qualsiasi cosa in movimento; un pianista non proverebbe mai ad attaccare un brano veloce, pretendendo di avere sotto controllo ognuna delle sue dita che volano sui tasti. Il controllo cosciente è una modalità troppo lenta. Per nostra fortuna il cervello possiede raffinati meccanismi per compensare questi gap. In primo luogo possiamo contare su un “pilota automatico” inconscio (il dito scottato si ritrae dal fuoco prima che arrivi la percezione del dolore, e questo riduce di molto i tempi di esposizione alla fonte scottante, con tutti i vantaggi del caso). Esistono un’intera gamma di circuiti senso motori veloci, che operano al di fuori della nostra consapevolezza cosciente. In secondo luogo possediamo un meccanismo di “anticipazione”, ovvero, tutte le nostre aree sensoriali e motorie contengono meccanismi di apprendimento temporale, che anticipano eventi del mondo esterno. Quando tali eventi si svolgono in maniera ‘prevedibile’ , ecco che tali meccanismi possono svolgere accurate anticipazioni; durante la nostra vita abituale & abitudinaria sono molteplici le operazioni prevedibili che svolgiamo, si pensi alla guida dell’automobile, lavarsi i denti, cucinare, guardare la tv, andare a correre, le attività del lavoro, ecc … . Tutta questa regolarità, con il suo alto livello di prevedibilità, ci consente di risparmiare molta energia pensiero, molto glucosio che è la benzina del cervello. Noi diventiamo intensamente consapevoli del ritardo imposto dalla nostra coscienza nel momento in cui il meccanismo di anticipazione si sbaglia. Se facciamo accadere accidentalmente un bicchiere, diventeremo pienamente consapevoli di quanto la nostra coscienza si sforzi per colmare il ritardo rispetto all’evento, ma ci troveremo poi a lamentarci della nostra lentezza e … sbadataggine  Differenza tra Attenzione e Accesso cosciente – una proficua collaborazione Ciò che chiamiamo attenzione è semplicemente il ‘setaccio’ , il filtro selettivo che fa da portale d’accesso per la coscienza. Il filtro selettivo serve per evitare il sovraccarico di informazioni ‘inutili’. Partendo da innumerevoli pensieri potenziali (che si muovono costantemente al di sotto della soglia della nostra attenzione e coscienza), a raggiungere la nostra mente cosciente è solo la crème de la crème, il risultato del complesso setaccio che abbiamo chiamato attenzione. Il nostro cervello elimina spietatamente l’informazione ‘irrilevante’, e alla fine isola un singolo oggetto cosciente, basandosi sulla sua importanza e sulla sua pertinenza ai nostri obiettivi del momento; mentre siete in vacanza con i vostri figli, e state cercando un bar dove fermarvi a fare merenda, e ciò implica che


nei paraggi abbia un parcheggio, vostro figlio potrebbe mettersi a strillare che vuole andare in un locale dove fuori ha visto un gioco a gettoni, mentre voi quel gioco non l’avete nemmeno visto, perché siete presi a cercare con lo sguardo uno spazio rettangolare grande quanto la vostra automobile … priorità differenti di vita! In sintesi, l’attenzione selettiva e l’accesso cosciente sono due processi distinti, ma collaboranti. E così è anche per le condizioni di veglia e vigilanza. Senza l’attenzione possiamo rimanere completamente ignari degli stimoli esterni. Dovunque vi siano stimoli multipli in competizione, l’attenzione appare rivelarsi un portale necessario per l’esperienza cosciente. Sembrerebbe quindi che la coscienza richiede sempre attenzione, ma non è così. Recenti ricerche hanno mostrato che la nostra attenzione può essere anche impiegata inconsciamente. In effetti sarebbe strano se, prestare attenzione a qualcosa, richiedesse la supervisione della consapevolezza. Per la nostra mente, sarebbe inefficace essere distratta di continuo da dozzine, o anche centinaia di possibili pensieri, e dover esaminare ognuno di essi in maniera cosciente prima di decidere quale sia degno di una seconda occhiata. La determinazione di quali oggetti siano rilevanti e debbano essere ‘amplificati’ è meglio lasciarla a processi automatici che operano nascostamente, perlopiù in parallelo. La nostra ribalta attenzionale è realizzata dunque da eserciti di cercatori inconsci che passano silenziosamente al vaglio pile di detriti, prima che uno di loro incappi nell’oro e ci avverta della sua scoperta. Nella mente inconscia avviene un incessante lavoro di ‘calcolo della distribuzione delle probabilità’, e di seguito nella mente conscia avviene la campionatura e scelta di una opzione per volta. Una parte del processo può così essere semplificata: cercatori inconsci  Attenzione selettiva (“verso dove” focalizzarsi e “cosa” approfondire)  consapevolezza (campionamento delle informazioni e accesso cosciente)   

Ogni volta che diventiamo consapevoli di un evento, si spalanca una miriade di possibilità: Possiamo riferirlo, sia verbalmente sia a gesti. Possiamo conservarlo nella memoria e recuperalo in seguito Possiamo valutarlo oppure agire nei suoi confronti

Tutti questi processi sono attuabili solo dopo che siamo divenuti consapevoli Distrazioni consce Vs distrazioni inconsce E’ stato affascinante scoprire in che modo stimoli consci o inconsci possono favorire o inibire le nostre attività. Oggi sappiamo che uno stimolo distraente inconscio (es. un’immagine presentata all’angolo dell’occhio molto velocemente), può favorire le azioni successive che richiedono attenzione, nella misura in cui questo stimolo è rilevante per l’attività svolta; i soggetti sperimentali si sono dimostrati più attenti, rapidi e precisi nelle risposte a stimoli presentati nella stessa


direzione in cui è stato presentato lo stimolo inconscio. Se lo stimolo presentato è visibile, dunque conscio, l’effetto distrazione può essere ridotto notevolmente, in quanto possiamo decidere consciamente di ‘eliminarlo’ dalla nostra attenzione; logico no? Se non ho avuto percezione dell’esistenza di una cosa, non posso decidere volontariamente di non seguirla, essa mantiene quindi tutto il suo potenziale disturbante; se invece l’ho vista, e mi rendo conto che può disturbare la mia attenzione, posso decidere di evitarla; del resto non tutti gli automobilisti che vedono pubblicità di splendide modelle in intimo finiscono per accartocciarsi nella macchina davanti . Forti rumori, luci accecanti e altri eventi sensoriali inaspettati attraggono irrefrenabilmente la nostra attenzione. Possiamo cercare con tutte le forze di ignorarli, ma essi invadono la nostra ‘privacy’ mentale; perché? Dentro di noi esiste un meccanismo, lascio ad altri la diatriba per decidere se è innato o acquisito, per rilevare potenziali pericoli per la nostra persona. Siccome ci sono attività che ci coinvolgono talmente tanto da assorbire completamente la nostra attenzione, è utile che vi sia un meccanismo che permetta a stimoli ‘importanti’ di irrompere attraverso i nostri sensi nella nostra attenzione del momento. Pensate ad un grido di terrore o dolore, il vostro nome urlato, un boato, odore di bruciato, ecc … . l’attenzione selettiva svolge questa importante funzione, operando oltre la nostra consapevolezza, per decidere quali input in arrivo richiedono le nostre risorse mentali. Daniel Kahneman, nel suo libro “pensieri lenti e veloci”, ha studiato brillantemente questo processo, utilizzando come nome metaforico “sistema1” per indicare questa parte ‘automatica’ dei nostri processi mentali, afferente al sistema involontario, sede delle abilità inconsce. Nel modello di kahneman il cervello agirebbe come una plancia di comando degli aerei, come la centralina di comando delle moderne automobili, che 24 ore su 24 monitora ogni dato in ingresso dall’esterno, e ogni attività interna, e fino a che tutto procede al meglio non vi sono cose da segnalare, mentre quando qualcosa non va come dovrebbe andare, tramite le sue spie segnala al conducente dove prestare attenzione. Le nostre spie possono essere considerati i nostri sintomi fisici, ma anche sensazioni ed emozioni. Quando vi sono attività di una certa complessità, oppure dove serve un ragionamento, ecco che l’attenzione selettiva inconscia viene dirottata ad un livello più cosciente, l’accesso cosciente, grazie al quale le informazioni possono essere operazionalizzate in maniera più profonda, significativa, efficace; ma a questo punto le cose rallentano, c’è maggiore dispendio di energia, il ragionamento richiede più zuccheri al cervello, più benzina al motore, c’è maggiore sforzo, entra in campo quello che Kahneman chiamò “sistema2”. C’è una bella differenza tra calcolare il risultato di 2 x 2, e di 24 x 72. O no? Coscienza e attenzione Le nostre intuizioni, possono essere reputate degne di fiducia? In un esperimento condotto da Ap Dijksterhuis, l’aver introdotto delle distrazioni durante un compito proposto ai partecipanti, ha rilevato un processo interno molto interessante, ovvero che la soluzione di un problema sembrerebbe beneficiare di un periodo di “incubazione” inconscio, all’interno del quale le informazioni vengono in un qualche modo trattate, per essere poi comunicate alla mente conscia tramite “intuizione”. Lo psicologo olandese presentava agli studenti un problema: dovevano scegliere fra quattro marche di auto, che differivano fino a dodici


caratteristiche. I partecipanti leggevano il problema, quindi a metà di loro era consentito pensare ‘consciamente’ per quattro minuti alla loro possibile scelta; l’altra metà, invece, era distratta mediante la risoluzione di anagrammi per la stessa quantità di tempo. Alla fine, sorprendentemente, il gruppo che era stato distratto sceglieva le auto migliori molto più spesso del gruppo a cui era consentito pensare consciamente (60% contro 22%). Considerazioni: Questo esperimento ci suggerisce che alcuni aspetti della risoluzione di alcuni problemi sono affrontati meglio ai limiti della non coscienza, piuttosto che con uno sforzo pienamente cosciente. E’ utile quindi, per certi problemi, dormirci sopra, fare una passeggiata, impegnarsi con una qualsiasi attività non correlata con il problema, per lasciare che la mente cosciente prenda il giusto distacco emotivo, lasciando una parte della trattazione del problema alla mente inconscia. L’ingresso del lavoro cosciente porta un aggravio di peso nella nostra memoria di lavoro, perché la mente cosciente, ‘razionale’, lavora in maniera sequenziale, linerare, ‘logica’, quindi è limitata per il fatto che può trattare solo poche cose per volta. Mentre la mente inconscia è simultanea, può operare medie ponderate all’interno di un quadro più ampio. Probabilmente, quando gli studenti si concentravano su ogni particolare delle auto da scegliere, tendevano a darvi un peso troppo eccessivo, restringendo il quadro di pensiero, e questo rallentava il processo. Nei processi inconsci, invece, si danno valori a molti più elementi, e si elaborano delle medie in un quadro più ampio.

Il sonno e l’intuizione “dormici sopra”, dicono alcuni quando si tratta di trovare una soluzione. Ma è veramente efficace il sonno? La risposta sembrerebbe affermativa. Molti sostengono di avere avuto delle intuizioni al loro risveglio. Molti esperimenti hanno confermato che il sonno favorisce il consolidamento, in una forma più salda, di una precedente conoscenza. Durante il sonno rimangono attivi neuroni situati nell’ippocampo e nella corteccia, e le loro configurazioni di attivazione “ripetono”, in una modalità veloce, le stesse sequenze di attività che intervenivano durante il precedente periodo di veglia. In sostanza il sonno avrebbe un ruolo fondamentale nel ‘fissare’ nella memoria a lunga termine gli eventi vissuti durante la giornata. È come se durante tutto il giorno apriamo e chiudiamo la cassa per mettere e togliere contanti durante la nostra attività, e a fine serata tiriamo il conto e ci rendiamo coscienti di quello che abbiamo combinato durante il lavoro del giorno. Durante la notte, nel sonno, il cervello rivede, rivive inconsciamente ad alta velocità tutta una serie di eventi, decidendo dove e come sistemarli nel grande archivio della memoria. Se si tratta di calcoli, considerazioni per giungere a decisioni, ecc … , durante il sonno il cervello riesce a rilevare regolarità “nascoste” e significative in sequenze apparentemente casuali, comportandosi come uno statistico esperto e compiendo medie ponderate.


Considerazioni: dobbiamo rispettare il nostro sonno; dedicarci un numero corretto di ore, dormire quando il corpo lo richiede, e fare in modo di vivere una vita dove il più possibile non vi siano obblighi di stare svegli, come ad es. il turno di notte, ma anche in questo caso, una volta tornati a casa dal turno, possiamo dormire la mattina o il pomeriggio. I ritmi circadiani del sonno/veglia sono fondamentali quindi non solo per il riequilibrio energetico, per il ristoro, per dare la possibilità al sistema parasimpatico di agire, dopo che il sistema simpatico ci ha “attivati” per fare ciò che dobbiamo fare. Dormire poco, o in maniera irregolare, ci porterebbe ad accumulare un grande disordine sulla nostra ‘scrivania mentale’, con la conseguenza di rendere più difficoltosa l’organizzazione del lavoro, il reperimento delle informazioni, lo spazio di azione in genere.

Perché alcune delle sensazioni si trasformano in percezioni consapevoli, mentre altre rimangono inconsce

L’immagine sopra, è un’illusione ottica detta “effetto troxler”; attenzione che nel termine ‘illusione’ non c’è nessun riferimento alla magia, ma semplicemente questo genere di immagini permettono di rilevare i meccanismi soggettivi di interpretazione che sono costantemente all’opera dentro di noi. L’immagine è ferma, immutabile, stabile, ma noi abbiamo la percezione di un costante e casuale movimento di comparsa e scomparsa di alcuni punti, a volte di tutto il cerchio che tracciano, altre volte ancora cambia la tonalità di grigio dei punti. Dentro il nostro cervello accade dunque costantemente qualcosa, e le firme della coscienza individuate permettono appunto di seguire cosa accade. Il ‘mito’ dei messaggi subliminali Per elaborare un’immagine dobbiamo esserne coscienti? Oppure possiamo percepire, classificare e decidere senza un intervento consapevole? Ogni volta che siamo concentrati su un singolo oggetto,


smettiamo di percepire tutto il circondario, del quale non ci stiamo occupando? Oppure, continuiamo a elaborarlo, però in maniera subliminale? E se lo facciamo, quanto progredisce nel cervello, senza ricevere la luce della coscienza? Secondo i più recenti studi, l’elaborazione non cosciente di uno stimolo progredisce fino ad un certo punto nel nostro cervello. Scansionando con sofisticate apparecchiature di imaging l’attività cerebrale, si è visto che la percezione subliminale può essere paragonata a un’onda da surf che si profila ampia all’orizzonte, ma che poi si limita a ‘bagnarci i piedi’ una volta raggiunta la riva; l’attività si limiterebbe alle aree posteriori del cervello, come il lobo temporale sinistro, associato ad esempio al significato delle parole; mentre la percezione cosciente, ovvero quando lo stimolo passa la soglia dell’accesso cosciente, è come uno tsunami, o meglio ancora una valanga, poiché l’attivazione sembra acquisire forza man mano procede nel suo percorso, arrivando ad attivare anche regioni cerebrali lontane (lobo parietale e prefrontale), le quali iniziano a scambiarsi reciprocamente messaggi, aumentandone così la forza Considerazioni: Per persone come noi oggi bombardate di stimoli da ogni dove sono domande interessanti, vero? Perché ci portano ad approfondire gli effetti del ‘bombardamento’ mediatico, del conteso circostante. Secondo quanto sappiamo oggi, praticamente tutte le regioni del cervello possono partecipare al pensiero cosciente e non cosciente. L’amigdala, per esempio, un gruppo di neuroni a forma di mandorla collocato sotto il lobo temporale, contrassegna importanti situazioni cariche emotivamente della vita quotidiana, ed è di particolare importanza per codificare la paura: uno stimolo che induce spavento, come la vista di un serpente velenoso, può attivarla su un binario veloce della retina, senza dover passare dall’elaborazione conscia dello stimolo a livello corticale. Si è scoperto che l’amigdala è in grado di ‘vedere’ parole subliminali, quindi non percepite consciamente, quando queste sono associabili a esperienze paurose, inquietanti. In sostanza, gli esperimenti condotti con sofisticate apparecchiature come la risonanza magnetica, hanno registrato delle scariche elettriche, che indicano che una parola scritta avanza lentamente attraverso il cervello, può essere identificata e anche compresa, il tutto senza l’intervento della coscienza. L’amigdala non fa parte della corteccia, e forse ciò la rende speciale e più automatica. La nostra corteccia è in grado di operare senza la nostra consapevolezza? La risposta è sì, parole e cifre ‘invisibili’, nel senso di presentate molto velocemente, o mascherate in mezzo ad altre immagini, arrivano parecchio in profondità nella corteccia, ma mai come quelle di cui diventiamo consapevoli. Ciò di cui noi diventiamo consapevoli, come ad esempio qualcosa di cui abbiamo esperienza visiva cosciente, è un’immagine altamente rielaborata, del tutto diversa dall’input grezzo che riceviamo dagli occhi. Noi non vediamo il mondo come lo vede la nostra retina. Infatti, sarebbe una visione orribile: un insieme ampiamente distorto di pixel chiari e scuri, che esplodono verso il centro della retina, mascherato da vasi sanguigni, con un grande ‘buco’ in corrispondenza del “punto cieco” da dove partono i fasci nervosi diretti verso il cervello; l’immagine sarebbe costantemente appannata, e cambierebbe con il movimento del nostro sguardo. Ciò che vediamo, invece, è una scena


tridimensionale, corretta dai difetti della retina, ‘rammendata’ in corrispondenza del punto cieco, stabilizzata per il nostro occhio e per i movimenti della testa, e reinterpretata enormemente sulla base delle esperienze precedenti di scene visive analoghe. Tutte queste operazioni, cento volte più complesse di Photoshop (che ritocca la realtà, non la crea), avvengono inconsciamente, e ad oggi nemmeno i computer più sofisticati riescono a replicarle così bene. La psicologia ha mostrato ampiamente non solo che la percezione subliminale esiste, ma anche che un’intera gamma di processi mentali può essere lanciata inconsciamente (anche se, nella maggior parte dei casi, non giunge pienamente a compimento). Riconoscimento di parole, elaborazioni numeriche, sono solo alcune delle attività che la mente può svolgere fino ad un certo punto senza l’intervento cosciente. Sotto certi aspetti, le operazioni subliminali della nostra mente superano le conquiste di quella cosciente. La vista, ad esempio, risolve continuamente complessi problemi di percezione spaziale, apportando correzioni, aggiustamenti, interpretazioni, con una precisione che nemmeno i più moderni e sofisticati software riescono ad eguagliare. Noi diventiamo consapevoli soltanto del risultato finale di questa complessa miriade di operazioni inconsce. La nostra esperienza cosciente è sempre ricostruita a posteriori, ma noi non abbiamo la percezione di inferire le cose, noi percepiamo l’esperienza come fosse istantanea, diretta, ciò che vediamo, sentiamo, fiutiamo, gustiamo, tastiamo, ‘ora’. Invece, in pratica, è in atto un’opera di assemblaggio costante delle informazioni, di ricostruzione dei ‘fatti’, come nel lavoro di un detective. Come fa la nostra attenzione a decidere se uno stimolo è rilevante? Un elemento chiave del processo di selezione è l’attribuzione di un valore a ogni potenziale oggetto del pensiero. Per sopravvivere gli animali devono possedere un meccanismo molto rapido di decisione di cosa ha valore positivo, e cosa negativo, rispetto a ciò che incontrano. Posso restare, o è meglio se scappo? Lo posso mangiare, oppure no? Attacco, o fuggo? La valutazione è un processo specializzato che richiede reti neurali evolute, collocate all’interno di un insieme di nuclei chiamati gangli basali (perché localizzati in prossimità della base del cervello). Oggi sappiamo con certezza che il nostro cervello ospita un insieme di ingegnosi meccanismi inconsci che monitorano costantemente il mondo attorno a noi, e dentro di noi, e gli assegnano valori che guidano la nostra attenzione, e formano il nostro pensiero, che si tradurrà poi in precisi comportamenti. Grazie a queste ‘etichette di valore’ subliminali, gli stimoli amorfi che ci bombardano, acquisiscono così forma, valore, peso, in modo da generare un ‘panorama di opportunità’, il mondo intorno a noi e la nostra situazione, così come ognuno di noi li percepisce. Ogni cosa assume una certa rilevanza, grazie anche agli obiettivi del momento, ed in base ad essa viene ordinata, secondo una scala di priorità. Soltanto l’evento più rilevante attira la nostra attenzione, e si guadagna la possibilità di entrare nella nostra coscienza, mentre, sotto il livello della consapevolezza, il nostro cervello inconscio valuta incessantemente opportunità dormienti, certificando che la nostra attenzione opera in maniera subliminale.


Considerazioni: queste ultime righe forniscono sostanza al campo della memetica, coniato da Richard Dawkins (leggi “il gene egoista”) e approfondito da Susan Blackmore (leggi “la macchina dei memi). Il meme starebbe alla psicologia come il gene alla genetica. Alcuni ricercatori hanno osservato che la semplice discendenza genetica non spiega fino in fondo il “perché” di certi comportamenti; perché certe mode dilagano fra le persone e rimangono attive per anni, mentre alcune solo per una stagione? Perché alcune ‘muoiono’ senza nemmeno vedere la ‘luce’? Pensate ai tormentoni musicali, a certe mode nel mondo dell’abbigliamento, certi stili nel mondo dell’arte, certi giochi di società, certe credenze (alieni, apparizioni di madonne), ecc … . I memi sarebbero a grandi linee come dei semi, ma con qualcosa in più, sarebbero delle unità di informazione auto-replicanti, come dotate di vita propria e di un proprio programma ‘interno’ che li spinge a propagarsi e cercare le condizioni per riprodursi; tali condizioni sarebbero rappresentate da un certo tipo di “modi di pensare”, forme di pensiero, ma anche comportamenti connessi ai tipi di pensiero. Usiamo una metafora per comprendere meglio questo modello interpretativo; noi sappiamo che in ogni parte del mondo c’è sempre un po’ di vento, e questo vento trasporta con sé semi di ogni genere, e questi semi sarebbero in competizione per accaparrarsi un pezzo di terreno per cadere e germogliare date certe precise condizioni (del terreno, ma anche climatiche); in ogni parte del mondo le culture da un lato e le esperienze individuali dall’altro creerebbero un certo tipo di ‘terreno mentale’, sul quale i sistemi di informazione, i comportamenti di individui influenti (leaders: politici, sportivi, dello spettacolo e della moda, della propria classe scolastica, i genitori nella famiglia), le culture stesse, agirebbero come venti che trasportano memi in competizione e in cerca di particolari ‘forme mentali’ per attecchire e dare vita a certi tipi di pensiero e comportamenti (che ricalcano quelli dei leaders inseminatori). Ora, chiediamoci cosa contribuisce a dare ‘forma’ ai nostri bisogni? Da dove vengono i modelli che abbiamo appreso? Di quali valori, modi di pensare, bisogni, sono portatori? Perché ognuno di noi, ad oggi, ha acquisito una particolare ‘forma mentis’, che per fortuna viene rivista costantemente dai processi interni, ma se non trova stimoli nuovi, viene confermata la sua forma precedente, se invece ne trova, può evolversi verso altro. Tale forma mentis è il terreno ideale per alcuni memi sì, e per altri no. Tale forma mentis, con i suoi obiettivi e bisogni del momento, ci porta a selezionare dall’ambiente tutta una serie di stimoli, mentre altri cadranno vittime della cecità disattenzionale, e andranno persi. Detto tutto questo, la coscienza è fondamentale, perché è una funzione evoluta, una proprietà biologica emersa dall’evoluzione poiché utile. La coscienza è nata per affrontare problemi che il sistema parallelo specializzato della mente inconscia non può affrontare.

Coscienza e linguaggio Reti di neuroni presenti nel nostro lobo temporale analizzano automaticamente non soltanto i diversi significati delle parole invisibili, ma anche la loro compatibilità con il trascorso contesto


cosciente. Parole ‘fuori contesto’ come “a colazione mi piace il caffè con il latte e calzini” ingenerano una particolare onda cerebrale chiamata N400 (dove N è la forma, che mostra sulla sommità un voltaggio negativo, e 400 è il suo picco di latenza, circa 400 millisecondi dopo la comparsa della parola). Il cervello dunque, può elaborare inconsciamente la sintassi e il significato di una frase composta appropriatamente. La N400 ha la stessa dimensione sia che le parole siano coscienti, oppure invisibili (perché presentate in tempi più rapidi di quelli necessari alla coscienza per captarle). Dunque la coscienza è irrilevante per la semantca, anche perché sarebbe poco ‘ecologico’ per il linguaggio se l’elementare processo della comprensione delle parole richiedesse sempre l’intervento della coscienza. Mentre leggiamo queste frasi non ci serve decifrare il significato di ogni singola parola, per poi metterle insieme in un messaggio coerente. La nostra mente cosciente si focalizza sul concetto nella sua interezza, sulla logica dell’argomento. Un’occhiata rapida a ciascuna parola è sufficiente a collocarla all’interno della struttura complessa del discorso. In programmazione neuro linguistica si parla di “intuizioni coerenti dei parlanti nativi”, sono strutture che permettono, all’ascoltatore di una certa lingua madre, di inferire immediatamente quanto una certa frase (nella sua lingua) sia ben formata dal punto di vista logico, semantico, grammaticale. I bambini dimostrano di possedere questa capacità già intorno ai 3/4 anni, infatti, prima ancora di aver iniziato a studiare la grammatica a scuola, sanno già coniugare i tempi dei verbi, parlano correttamente, e ci correggono quando diciamo una parola fuori dal contesto, o pronunciamo una frase grammaticalmente scorretta. La nostra mente inconscia (non cosciente), è così abile da recuperare in parallelo tutte le possibili associazioni semantiche di una parola, anche quando la parola è ambigua, e anche quando soltanto uno dei suoi significati si adatta al contesto. La mente non cosciente propone, quella cosciente seleziona. Quindi possiamo concludere che una parola invisibile è pienamente in grado di sollecitare un’attivazione su larga scala delle reti del cervello adibite alla comprensione; MA questa attività è confinata a un ristretto e specializzato circuito cerebrale, infatti durante l’elaborazione inconscia l’attività del cervello rimane confinata nel lobo temporale sinistro, il sito primario delle reti del linguaggio che elaborano il significato. Per contro, le parole coscienti, prendono il sopravvento su reti cerebrali più ampie, che invadono i lobi frontali, i quali fanno sperimentare quel senso soggettivo di ‘avere la parola in mente’. Quindi le parole inconsce, non sono così influenti come quelle coscienti. In Homo sapiens, l’informazione cosciente non si propaga unicamente all’interno della testa di un individuo. Grazie al linguaggio può balzare anche da una mente all’altra. Nel corso dell’evoluzione umana, la condivisione sociale dell’informazione, può essere stata una delle tante funzioni essenziali della coscienza. Il linguaggio umano, così come apparso nel genere Homo, unito a quello non verbale, ha costituito un notevole passo avanti nella rapidità con cui la sintesi cosciente può essere trasferita, consentendo di ‘portare fuori’ i nostri stati coscienti. Il ‘formulatore verbale’ può funzionare soltanto quando siamo coscienti. Non sempre possiamo esprimere i nostri pensieri coscienti con precisione, perché spesso la coscienza sommerge il linguaggio: noi percepiamo


enormemente più di quanto possiamo esprimere. Vi siete mai trovati in difficoltà nel trovare le parole per descrivere un’esperienza, o le vostre emozioni? La descrizione verbale raramente può essere esaustiva. Il linguaggio fornisce una formulazione categorica e sintattica dei pensieri coscienti che, congiuntamente, ci consentono di organizzare il nostro mondo mentale e di condividerlo con gli altri esseri umani. Condividere informazione con altri è una seconda ragione per la quale il nostro cervello trova vantaggioso riassumere dai dettagli delle nostre sensazioni del momento e creare un “compendio” cosciente. Le parole e i gesti ci forniscono solo un lento canale di comunicazione – solo dai 40 ai 60 bit per secondo. Perciò, il nostro cervello comprime drasticamente l’informazione in un concentrato insieme di simboli astratti assemblati in brevi stringhe, che sono poi inviati alla rete sociale. Sarebbe in realtà senza senso trasmettere agli altri un’immagine così precisa e dettagliata di quello che vediamo dal nostro punto di vista; ciò che gli altri vogliono non è una descrizione dettagliata del mondo come lo vedo io, ma un riassunto degli aspetti che sono verosimilmente anche confermati dal punto di vista dell’interlocutore. Considerazioni: quando si dice che ad ogni orecchio piace ascoltare la ‘sua’ campana. La mente è una matrice che forgia il contenuto, e tanto più il contenuto che trasmettiamo possiede una forma vicina alla ‘mente destinataria’, tanto più ciò che diciamo avrà possibilità di successo di arrivare. E’ chiaro poi che non è solo la forma che conta, ma anche il contenuto stesso deve destare l’interesse dell’interlocutore. Detto questo, aldilà dell’argomento di cui parliamo, sembra che una delle funzioni principali del linguaggio sia quella sociale, ovvero stringere relazioni, sollecitare comportamenti altrui.

Verso l’automatismo, la padronanza Tutta una serie di abilità possono essere sovrapprese, ovvero portate ad una soglia di padronanza tale da renderle automatiche, quindi attuabili efficacemente senza l’intervento della consapevolezza; si pensi al riconoscimento di lettere e numeri, ma anche attività più complesse come la guida dell’automobile (da parte di guidatori capaci), le abilità musicali, sportive, ecc … . in programmazione neuro linguistica si parla di 4° stadio dell’apprendimento, ovvero il livello “inconsciamente competente”, dove non ho più bisogno di sapere che so, lo metto in pratica e basta. Ore, giorni, anni di interazione con l’ambiente e i suoi stimoli, ci hanno permesso di ‘compilare internamente’ dettagliate statistiche di quali parti degli oggetti tendano frequentemente alla coesistenza. Con questa esperienza intensiva, alcuni neuroni visivi si sono specializzat per specifiche combinazioni, e per essi sono state create delle ‘corsie privilegiate’ per trasportare velocemente ed efficacemente le informazioni bypassando il collo di bottiglia dell’accesso cosciente. Possediamo neuroni straordinariamente selettivi che reagiscono soltanto a immagini, luoghi, un concetto, e persone specifiche – e si attivano soltanto in presenza di percezione cosciente. Questi neuroni possono specializzarsi al punto di attivarsi, quindi scaricare informazioni,


davanti ad una immagine del nostro partner, del nostro idolo sportivo o musicale, piuttosto che ascoltando certi brani, assaporando un certo cibo, ecc …; e la loro attivazione può essere avviata anche mediante ad una parola associata ad un certo stimolo, quindi ad esempio la parola “Obama” attiva un certo neurone tanto quanto la visione di un’immagine del presidente. Inserendo alla cieca un elettrodo nel cranio, e ascoltando un neurone a caso, potremmo trovare una cellula Barack Obama! Ciò implica che, in ogni determinato momento, milioni di tali cellule stanno scaricando in risposta alle scene che stiamo vedendo! Si ritiene che, insieme, i neuroni del lobo temporale anteriore formino un codice interno distribuito per persone, luoghi, e altri concetti degni di essere tenuti a mente. Questi neuroni sono altamente specifici per la scena visiva del momento, e tuttavia altamente invarianti; danno quindi una rappresentazione stabile nel tempo, ovvero ogni volta che pensiamo a Barack Obama, o sentiamo parlare di lui, si attivano le stesse cellule; per questo motivo la percezione è più soggettiva che obiettiva. Questo processo ci dice, pensare semplicemente all’immagine di Obama è sufficiente alla cellula per attivarsi, anche in assenza di qualsiasi stimolo esterno. Dire che un’unica cellula è sufficiente per indurre un pensiero cosciente è poco corretto; in verità l’informazione cosciente è distribuita entro una miriade di cellule, come i tanti pixel che insieme vanno a comporre un’immagine; immaginate parecchi milioni di neuroni, disseminati all’interno delle aree associative della corteccia, ognuno dei quali codifica un frammento della scena visiva; ogni neurone in sostanza è come un pezzo del puzzle, e quando si attivano tutti sincronicamente, ecco che formano potenziali cerebrali macroscopici che arrivano a passare la soglia di accesso cosciente, permettendoci così di avere coscienza dell’immagine che è andata formandosi. La maggioranza dei neuroni temporali anteriori mostra la stessa selettività per le figure reali o immaginarie, e per attivarli basta semplicemente richiamarle alla memoria. In poche parole vedere concretamente, e immaginare/pensare/ricordare, si equivalgono! I percorsi senso-motori dell’esperienza diretta si attivano anche quando pensiamo semplicemente. Quest’ultimo passaggio conferma la validità della visualizzazione come tecnica preparatoria ad attività concrete (sportive, artistiche, oratorie, ecc … ), e inoltre fornisce fondamento al modello della embodied cognition ( trad. cognizione incarnata ), secondo cui esiste un legame indissolubile tra la nostra capacità decisionale, le esperienze senso-motorie (come toccare un oggetto caldo o freddo) e i nostri comportamenti, giudizi, emozioni. Ogni forma di cognizione umana (pensiero) è incarnata, ovvero pienamente radicata nell’esperienza corporea - mente e corpo sono intrinsecamente connessi. Anche le attività cognitive più “astratte” sono trasformazioni di più basilari esperienze corporee Comprendere un’espressione linguistica comporta il ri-vivere (non necessariamente conscio) precedenti esperienze, attivando le strutture cerebrali dedicate alla percezione (sensi) e azione (sistema motorio). Pensieri e linguaggio sono dunque rappresentazioni, modelli di esperienze sensoriali corporee. Considerazioni: se passiamo molte ore a pensare male delle persone, a trovarci dei difetti, a trovare il ‘brutto’ nelle cose (e viceversa di tutto questo in positivo), di conseguenza iniziamo ad agire con comportamenti in linea con questi pensieri, ed è poi molto probabile che ciò possa educare il nostro cervello fino a sviluppare automatismo in questa abilità, e così perdiamo la possibilità cosciente di mettere in discussione questo processo. Ecco perché migliaia di persone nel


mondo sostengono il pensiero positivo, o quantomeno la capacità di orientarsi più sui risultati che sui problemi.

Lo spazio di lavoro neuronale globale – l’interfaccia cerebrale e la costruzione della nostra identità Ogni volta che noi diventiamo consapevoli di un inatteso brandello di informazione, il cervello, di colpo, sembra prorompere in uno schema di attività su larga scala. Tale attività è stata nominata come “Attivazione globale”. Una rete di neuroni che si eccitano l’un l’altro possono ‘precipitare’ rapidamente in un ‘modello globale’ di attività sincronizzata, proprio come un pubblico che, dopo le prime incerte battute di mani, prorompe in breve tempo in un fragoroso applauso. E proprio come un pubblico entusiastico , che poi procede alzandosi in piedi, fischiando, urlando, e diffondendo ancora di più l’applauso, i neuroni piramidali presenti negli strati superiori della corteccia trasmettono la loro eccitazione ad un vasto pubblico di neuroni riceventi. L’attivazione globale, avviene quando questa eccitazione supera una certa soglia e comincia ad autoalimentarsi, producendo così nella rete neuronale un’esplosione di attività. (tale fenomeno assomiglia a quello che i fisici chiamano ‘transizione di fase”, e i matematici ‘biforcazione’, un improvviso, pressoché discontinuo, cambiamento nello stato del sistema fisico). La sincronia fra neuroni facilità la comunicazione delle informazioni, proprio come nella comunicazione fra esseri umani, che viene altamente favorita dal sincronismo fra le rispettive modalità comunicative. La sincronia apre un canale di comunicazione fra neuroni distanti (come in uno stormo di uccelli, il sincronismo aiuta a fare in modo che la stessa cosa che fa un uccello da una parte dello stormo, può essere fatta simultaneamente da un altro che si trova molto lontano nello stesso stormo), canale che permette di fare in modo che neuroni che oscillano insieme possano condividere finestre di opportunità durante le quali essi sono pronti a ricevere e dare segnali l’uno dall’altro, aumentando così l’incidenza della loro ‘voce’. Se tutti cantiamo le stesse note, sincronizzati, all’unisono, ne deriva una maggiore ed efficace amplificazione, dove il tutto diventa più della somma delle singole parti. (accade nella danza, nell’amore, nella musica, nei team di lavoro, …). La massiccia sincronizzazione dei segnali elettromagnetici attraverso la corteccia, sincronizzazione che mette in comunicazione anche aree cerebrali distanti, è considerata una delle ‘firme’ più accreditate della percezione cosciente.

I ‘nuovi’ neuro scienziati, grazie alle straordinarie tecnologie di cui oggi dispongono, hanno individuato alcune firme riproducibili della coscienza, ovvero dei processi che funzionano sempre nella stessa maniera in tutte le persone, che possono essere stimolati dall’esterno, e che quindi possono essere considerati dei veri e propri marker cerebrali che, come i cookies in internet, tracciano i movimenti dell’informazione permettendo di ‘seguirla’; in seguito a queste scoperte sono giunti a ipotizzare un modello di funzionamento, per buona parte confermato su più fronti,


che presuppone l’esistenza interna di una sorta di “spazio di lavoro neuronale globale”, una sorta di lavagna, clipboard, spazio di condivisione dove si alternano, incontrano, intrecciano costantemente le informazioni e che da anche forma ai segnali che poi spaziano in ogni direzione nel cervello, veicolati da neuroni, cellule con lunghi assoni, corteccia cerebrale, ecc. Grazie allo spazio di lavoro neuronale globale, possiamo trattenere nella mente qualsiasi concetto che abbia un forte impatto su di noi; possiamo decidere quanto a lungo vogliamo che rimanga, e anche assicurarci che sia incorporato nei nostri progetti futuri. La coscienza (sempre intesa come accesso cosciente) gioca un ruolo ben preciso nell’economia computazionale del cervello, selezionando, amplificando e propagando pensieri rilevanti. Ma cos’è che determina il grado di rilevanza dell’informazione? Di sicuro, un ruolo importante è determinato dalle valutazioni di fiducia. Per essere utile a noi e agli altri, un nostro pensiero cosciente dev’essere caratterizzato uditivamente da un segno di fiducia. Non soltanto sappiamo quello che sappiamo, oppure che non sappiamo, ma ogni volta che siamo consapevoli di un brandello di informazione, possiamo ascriverlo ad un determinato grado di certezza, o di incertezza. Socialmente, infatti, cerchiamo continuamente di monitorare e verificare l’affidabilità delle fonti. Questo ci dice che lo stabilire legami di fiducia fra le persone, potrebbe anche essere utile ai fini del risparmio energetico dovuto alla costante verifica (solitamente degli amici ci si fida ciecamente), oltre che ad aumentare le possibilità di sopravvivenza e allentare il desiderio di controllo. Ecco perché il pettegolezzo riscuote grande successo per la maggior parte delle persone, potremmo spingerci a dire che ognuno “spettegola” alla sua maniera su qualcosa, forse perché mette in moto un seducente processo di ricerca e memorizzazione di “chi ha detto cosa”, e in base a “cosa l’ha detto”. La valutazione dell’incertezza sembrerebbe un processo cruciale. Osservando queste firme della coscienza, simili a onde che vanno e vengono, ci rendiamo conto che, tanto più le informazioni sensoriali che giungono ai ‘piani alti’, i livelli corticali superiori, sono coerenti rispetto ai ‘modelli’ ivi contenuti, tanto più la risposta ‘discendente’ sarà affermativa. RIASSUMENDO: la percezione cosciente è il risultato di un’onda di attività neuronale che sollecita la corteccia oltre la sua soglia di attivazione. Uno stimolo cosciente fa scattare una valanga auto amplificante di attività neuronale che finisce per attivare diverse regioni che risultano collegate fra loro. Durante questo stato cosciente, che comincia circa 300 millisecondi dopo la comparsa dello stimolo, le regioni frontali del cervello vengono informate degli input sensoriali secondo una modalità dal basso verso l’alto; ma queste regioni inviano anche un gran numero di proiezioni in direzione opposta, dall’alto verso il basso, e a molte aree, variamente distribuite. Il risultato finale è una rete cerebrale di aree sincronizzate, le cui diverse sfaccettature ci forniscono molte firme della coscienza: attivazione distribuita, in particolare nel lobo prefrontale e parietale, un’onda P3, amplificazione della banda gamma, e una massiccia sincronia a distanza. Considerazioni: In questo passaggio segnaliamo il ruolo importante delle emozioni, come amplificatore naturale del valore dell’informazione. E inoltre di come dovremmo applicare la regola Bayesiana della decisione ai nostri pensieri, e a quelli che riceviamo dagli altri; il prendere decisioni ottimali esigerebbe che ogni fonte di informazione esterna, e interna, dovrebbe essere soppesata il più accuratamente possibile, con una stima della sua affidabilità, prima che entri ufficialmente nel


nostro spazio di lavoro decisionale. L’essere entrati in una dimensione relazionale sociale, ha permesso lo sviluppo di aree interne, con le relative competenze, che ci permettono di avere idee migliori, perché messe a confronto con quelle degli altri. Esistono inoltre interessanti sviluppi legati al concetto di identità. Lo sviluppo di questa interfaccia sociale ha creato lo spazio per una nostra rappresentazione sociale. Nello stesso database accumuliamo dati circa la nostra conoscenza e le informazioni sugli altri, consentendoci così di effettuare costanti confronti fra noi e gli altri. Ecco che da queste reti cerebrali nasce l’immagine mentale del nostro ‘io’, come personaggio particolare, differenziato dagli altri. Noi trascorriamo la nostra vita monitorando il nostro comportamento quanto quello degli altri, e il nostro cervello statistico trae continuamente inferenze da quello che osserva, letteralmente “determinando la sua mente” man mano che procede. Imparare “chi siamo” è un’inferenza statistica dell’osservazione. Avendo trascorso un’intera vita con noi stessi, raggiungiamo una visione del nostro carattere, delle nostre conoscenze e una fiducia che è soltanto un po’ più affinata rispetto a quella che è la visione della personalità degli altri. N.B. : il nostro cervello non gode dell’accesso privilegiato ad alcune delle sue dinamiche interne. L’introspezione rende le nostre motivazioni e le nostre strategie interne trasparenti, mentre non abbiamo alcun mezzo sicuro per decifrarle negli altri. Tuttavia, non abbiamo mai un quadro autenticamente vero nemmeno di noi stessi, e rimaniamo ampiamente ignari dei veri determinanti inconsci del nostro comportamento, e quindi non possiamo predire accuratamente quale sarà quest’ultimo in circostanze che esorbitano dalla zona di sicurezza delle nostre precedenti esperienze trascorse. Il motto greco “conosci te stesso” , quando vuole essere applicato ai minuti dettagli del nostro comportamento, rimane un ideale inaccessibile. Il nostro “sé”, è soltanto un database riempito dalle nostre esperienze sociali, nello stesso format usando il quale noi cerchiamo di comprendere le altre menti, confondendo quindi il contenuto con il contenitore, il concetto con il concettualizzare; tutto questo, comprende verosimilmente evidenti lacune, incomprensioni, e illusioni. Spesso, quando valutiamo noi stessi, lo facciamo avviando un processo algoritmico, che include, come dati di calcolo probabilistico, elementi delle nostre esperienze passate (tra cui anche le osservazioni sugli altri), l’esistenza o meno di un obiettivo del momento, piuttosto che di un ‘fine ultimo’ (ad avercelo), e i dati in ingresso che, al momento, scatenano il processo di valutazione; esempio: siamo seduti su una panchina al parco, vediamo dei genitori che giocano con i figli, e se per caso, fra i pensieri prioritari in questo particolare momento della nostra vita, c’è la nostra relazione, o il fatto che non abbiamo una relazione, o il fatto che la nostra relazione non si sta evolvendo verso il fare degli figli come a noi piacerebbe, ecc …, ecco che parte il processo di elaborazione interna, un complesso calcolo probabilistico che si avvale delle funzioni associative della mente, quindi se abbiamo amici che hanno già avuto figli, ecco che nel calcolo rientra anche l’idea che ci siamo fatti circa questo evento, il cervello inizia ad operazionalizzare il tutto (ciò che vediamo ora al parco + il pensiero prioritario), inserendo anche suggestioni che sono il prodotto delle rielaborazioni sotto forma di convinzione circa tutto ciò che nel nostro passato, ad un qualche


livello, può essere associato al concetto di famiglia, quindi come percepiamo la nostra famiglia di origine (rapporti fra i nostri genitori, rapporti fra loro e noi, valori appresi, …), le nostre relazioni passate, i nostri pensieri astratti ‘partoriti’ nel passato ogni volta che abbiamo affrontato il tema famiglia, e a tutto questo si aggiunge l’effetto che ci fanno i nostri amici che hanno già figli, come li vediamo (e magari noi li vediamo felici, perché loro nonostante si lamentano, poi hanno occhi a cuore per il loro bimbi, e questo ci porta a pensare che in fondo siano felicissimi, ma non sappiamo in verità quali reali difficoltà o sentimenti si agitano nel fondo delle loro vite). Un processo complessissimo, che tratta una mole incredibile di informazioni, di cui quelle nel presente sono soltanto una miccia, un innesco emotivo di processo, e che accade in …. Pochi secondi! Quando diciamo che il cervello, con i processi mentali, “crea sé stesso” durante il suo cammino, sottolineiamo un fattore fondamentale, che possiamo osservare in ogni cosa ‘fisica’ che usiamo; tutte le cose che usiamo prendono la forma dell’uso che ne facciamo, gli pneumatici dell’auto si consumano a seconda di quanti kilometri facciamo, a seconda di come usiamo l’auto, a seconda se facciamo regolarmente bilanciamenti e convergenza, a seconda quindi se le ruote e le sospensioni sono bene in asse; e così è per tutto. Il cervello però non è un oggetto, che per l’appunto si consuma e basta, fino a che dobbiamo cambiarlo. Il cervello è vivo e in costante evoluzione, non c’è consumo, c’è evoluzione positiva o negativa, ovvero configurazioni, assetti che possono essere efficaci, oppure no. I motori di ricerca di internet ricalcano in maniera molto simile questo concetto, infatti funzionano registrando le quantità di accesso che effettuiamo ai vari siti, così possono inferire quelle che sono le nostre priorità di navigazione, in modo che i siti ‘preferiti’ siano più facilmente disponibili, dunque accessibili. Come abbiamo visto, il nostro cervello fa molto di più, ovvero non solo crea una gerarchia di pensieri ‘preferiti’, dunque prioritari, dove purtroppo ‘preferiti’ non significa per forza migliori, o buoni per noi, perché se pensiamo spesso ad un problema, ecco che questo rientrerà nei nostri ‘preferiti’. Il nostro cervello fa molto di più, in base alle esperienze che archivia, è in grado nel tempo di modificare anche le preferenze di gestione del tal pensiero x. È un dato di fatto per tutti che, in virtù delle esperienze vissute, molte delle nostre convinzioni o credenze sono cambiate nel tempo, a volte per nostro volere, a volte per fattori esterni alle nostre intenzioni (come è successo per S.Lucia o Babbo Natale!). Quindi il nostro cervello è dotato di Neuro-plasticità, ovvero la capacità di variare anche il modo in cui vengono trattati i vari contenuti. Possiamo dunque cambiare le nostre matrici di pensiero nel momento che queste si dimostrano non più utili o efficaci. Prima di tutto bisogna rendersi conto dell’esistenza di queste matrici, e non è così semplice, perché spesso e volentieri ci troviamo così ‘naturalmente’ a nostro agio nel nostro modo di vedere che le cose … che ignoriamo esista un modo di vedere le cose! Per noi, le ‘cose’, sono così! E anche quando abbiamo dei problemi, diventa spesso più facile cercare le cause ‘all’esterno’ di noi, piuttosto che al nostro interno; non tutti fanno in autonomia questo passaggio di consapevolezza che gli fa capire che è il ‘modo’ di ragionare che va cambiato, e non l’oggetto del ragionamento. Noi diciamo spesso: << guarda a ciò che non tolleri, e lì scoprirai alcuni limiti del tuo pensiero>>; questo passaggio sottolinea il fatto che il ‘mondo’ prende la forma del nostro ‘sguardo’, il cervello proietta all’esterno ciò che ha rielaborato al suo interno, quindi se non ci rendiamo conto che esistono e sono attivi questi processi di rielaborazione, rischieremo di vedere sempre e solo ciò che c’è dentro di noi e nient’altro, quindi le altre persone diventeranno


uno specchio di noi stessi, e non le conosceremo del tutto, con tutti i rischi che questo comporta. Per rompere l’incantesimo dello specchio, bisogna ogni tanto rompere lo specchio che ci separa dalle cose. E una delle finalità di questo scritto è proprio quella di contribuire alla maggiore conoscenza dei processi mentali che animano la nostra vita. La coscienza è il simulatore di realtà virtuale della mente, ma il cervello, come fabbrica la mente? Come si realizza il passaggio dal mondo ‘materico’, degli stimoli ‘oggettivi’ che vengono dal mondo esterno, e che entrano in un ‘oggetto’ come il cervello, alla visione soggettiva delle cose, ovvero il processo mentale di ‘soggettivazione’ della realtà? Questa è una domanda che non ha ancora ricevuto risposte La ‘cosa’ pensante Ma che cosa sono allora?una cosa pensante. Ma che cosa è ciò? È una cosa che dubita, intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, inoltre, e sente CARTESIO, Meditazione seconda

La conclusione riduzionista era nell’aria da un po’. Ovvero il pensare che tutte le nostre esperienze coscienti, dal suono di un’orchestra all’odore di un toast bruciacchiato, scaturiscono da una sorgente analoga: l’attività di massicci circuiti cerebrali che hanno firme neuronali riproducibili. Durante la percezione cosciente gruppi di neuroni cominciano ad attivarsi in maniera coordinata, all’inizio in regioni locali specializzate, quindi in vaste porzioni della nostra corteccia. Alla fine, esse invadono gran parte del lobo prefrontale e di quello parietale, rimanendo comunque altamente sincronizzate con le regioni sensoriali primarie. È a questo punto, quando si attiva repentinamente una rete cerebrale coerente, che sembra stabilirsi una consapevolezza cosciente. Abbiamo scoperto non meno di quattro affidabili firme della coscienza; quando diciamo affidabili lo diciamo perché sono riproducibili, perché si attivano sempre in relazione a certi stimoli, perché attivandole dall’esterno mediante elettrodi o stimoli sensoriali otteniamo sempre le stesse risposte. Le firme sono dei marcatori fisiologici che indicano se il partecipante ha fatto esperienza di una percezione cosciente (tali firme risultano assenti durante esperienze non coscienti). La prima firma: uno stimolo cosciente causa un’intensa accensione neuronale che conduce ad una repentina attivazione dei circuiti parietali e prefrontali. La seconda firma: nell’ECG l’accesso cosciente è accompagnato da un’onda lenta chiamata P3, che emerge con circa un terzo di secondo di ritardo rispetto allo stimolo. La terza firma: l’attivazione cosciente fa scattare anche una successiva e repentina scarica di oscillazioni ad alta frequenza. La quarta firma: molte regioni si scambiano messaggi bidirezionali e sincronizzati a lunga distanza nella corteccia, formando quindi una rete cerebrale globale. Uno oppure più di questi eventi potrebbe essere, tuttavia, ancora un epifenomeno della coscienza, assai simili al fischio del vapore di una locomotiva – che la accompagna sistematicamente, ma non le arreca alcun contributo. La causalità rimane difficile da valutare usando metodiche neuro scientifiche. Ad oggi possiamo dire con quasi assoluta certezza che l’attività elettrica dei neuroni può causare uno stato mentale, oppure, in maniera altrettanto semplice, cancellarne uno


preesistente. Non è una novità che, interferire con i circuiti cerebrali mediante particolari frequenze, scariche elettriche, neuroni impiantati in precisi punti del cranio, può portare alla momentanea cecità, alla creazione di allucinazioni, addirittura alla creazione di ricordi durante il sonno. In laboratorio è stato possibile manipolare la percezione soggettiva, lasciando intatta l’elaborazione inconscia. Teorizzare la coscienza – il modello dello spazio di lavoro neuronale globale Non abbiamo ancora risposto ai quesiti iniziali relativi al come si possa passare da misurazioni oggettive, quali firme della coscienza, sincronizzazioni, frequenze, ecc …, all’introspezione soggettiva. C’è bisogno di una teorizzare un modello di funzionamento, questa è la sfida in gioco. Un’altra definizione di coscienza potrebbe essere che, essa è condivisione ad ampio raggio dell’informazione nel cervello. La coscienza è un meccanismo ‘evoluto’ che ci permette di prestare attenzione a un brandello di informazione e di mantenerlo attivo all’interno di questo sistema di trasmissione. Una volta cosciente, l’informazione può essere dirottata flessibilmente verso altre aree, secondo i nostri obiettivi del momento. Pertanto possiamo fornirle un nome (all’informazione), valutarla, memorizzarla, oppure usarla per progettare o ‘predire’ il futuro. Il modello dello spazio di lavoro neuronale globale è quanto, fino ad oggi per noi, risponde al meglio ai quesiti posti. Premettiamo che “cosa sia” la coscienza, o perché abbia luogo, non ha ancora una spiegazione. Sono molte le domande senza risposta che ci stimolano nella continua ricerca: perché l’accensione neuronale ritardata, l’attivazione corticale e la sincronia a livello cerebrale dovrebbero creare uno stato soggettivo della mente? Come possono, questi eventi, per quanto complessi, generare un’esperienza mentale? Perché l’accensione dei neuroni nell’area cerebrale V4 genera una percezione del colore, e quella dell’area V5 un senso di movimento?  Anche se le neuroscienze hanno identificato molte corrispondenze empiriche tra attività cerebrale e vita mentale, il divario tra mente e cervello non sembra essersi ridotto affatto. Nessun esperimento mostrerà mai le centinaia di miliardi di neuroni presenti nel cervello umano che si attivano nel momento della percezione cosciente. Soltanto una teoria matematica può spiegare come il mentale si trasforma in neurale. Le neuroscienze hanno bisogno di una serie di leggi ‘ponte’, che colleghino un ambito all’altro. Servono molti, forse troppi livelli di spiegazione. Scatole cinesi, modelli frattali, livelli dentro i livelli, una grande complessità caratterizza i processi mentali e cerebrali. Lo spazio di lavoro neurale globale rappresenta l’attuale punto di convergenza di sessant’anni di modellizzazione in psicologia, e per ora, nell’attesa di un modello matematico il più fedele possibile, è il modello che più si avvicina nella descrizione della natura della nostra coscienza. Come funziona lo spazio di lavoro neurale globale Quando noi diciamo che siamo consapevoli di un certo brandello di informazione, intendiamo semplicemente questo: l’informazione è entrata in un’area specifica di immagazzinamento che la rende disponibile al resto del cervello.


Fra milioni di rappresentazioni che si muovono continuamente avanti e indietro nel nostro cervello al di fuori della nostra consapevolezza, ne viene selezionata una, a causa della sua rilevanza per i nostri scopi del momento, oppure perché associabile a qualche input esterno, e la coscienza la rende disponibile globalmente (la ‘mette sulla piazza’)a tutti i sistemi decisionali di livello superiore. Noi possediamo un router, un distributore mentale, un’evoluta architettura atta ad estrarre l’informazione rilevante e trasmetterla. Secondo questa teoria, la coscienza è soltanto condivisione dell’informazione a livello cerebrale. Ogni volta che noi ne diventiamo coscienti, possiamo trattenerla nella nostra mente a lungo dopo che la stimolazione corrispondente è scomparsa dal mondo esterno (del resto dopo aver passato una splendida serata con una persona a cui volete bene, il pensiero della serata e tutte le emozioni connesse può ‘accompagnarci’ rimanendo in ‘circolo’ nel nostro corpo per ore, vero?). È questo il motivo per cui il nostro cervello l’ha portata nello spazio di lavoro, che la mantiene indipendentemente dal tempo e dal luogo nel quale l’abbiamo percepita la prima volta. Di conseguenza, possiamo usarla in qualsiasi maniera ci piace (anche per stare male! Come quando non riusciamo ad accettare che una certa persona di cui siamo infatuati non vuole più vederci). In particolare, possiamo inviarla ai nostri processori del linguaggio e fornirle un nome; è questo il motivo per cui la capacità di effettuare dei resoconti è una caratteristica chiave dello stato cosciente. Ma possiamo anche conservare l’informazione nella memoria a lungo termine, oppure usarla per futuri progetti, quali essi siano. la teoria dello spazio di lavoro neurale globale propone che ciò di cui abbiamo esperienza come coscienza sia la condivisione globale dell’informazione. Il cervello contiene dozzine di processori locali (rappresentati dai cerchietti), ciascuno specializzato per un tipo di operazione. In ogni determinato momento lo spazio di lavoro seleziona un sottoinsieme di processori, stabilisce una rappresentazione coerente dell’informazione che questi codificano, la trattiene nella mente per una quantità di tempo arbitraria e la restituisce disseminandola praticamente in qualsiasi altro processore. Siamo di fronte all’idea di una clipboard mentale, una lavagna interattiva per lo scambio di informazioni. Non esiste nessun “io” che guarda dentro di noi! Non esiste nessun palcoscenico interno, non ci sono spettatori, ‘parti’ diverse che amano o ripudiano le informazioni, tutto coincide. Nello spazio di lavoro neurale globale, grazie agli Hubs forniti dai livelli superiori della corteccia prefrontale (ma anche in settori del lobo temporale anteriore e nel precuneo), avviene ‘l’assemblaggio’ coerente delle informazioni provenienti dai cinque sensi. Le varie regioni inviano e ricevono incessantemente informazioni e proiezioni avanti e indietro, funzionando in parallelo, facendole convergere verso questi hubs, o “zone di convergenza” come le definì Damasio, verso


una versione coerente, sincrona, stabile nel tempo. La percezione cosciente risulta completa quando tutto converge Considerazioni: Qualsiasi cosa della quale siamo consapevoli diventa disponibile a guidare le nostre decisioni e le nostre azioni intenzionali, facendo sorgere la sensazione che queste siano “sotto controllo”. I sistemi di linguaggio, di memoria a lungo termine, di attenzione e di intenzione fanno tutti parte di questo circolo interno di meccanismi d’intercomunicazione che scambiano informazione cosciente. Grazie a questa architettura dello spazio di lavoro, qualsiasi cosa della quale noi siamo coscienti può essere arbitrariamente reindirizzata e diventare il soggetto di una frase, la chiave di un ricordo, il fuoco della nostra attenzione, oppure il nocciolo del nostro prossimo atto volontario. Qualcuno disse: là dove va la tua mente, va la tua energia. E noi di cosa siamo coscienti ora? Dove concentriamo maggiormente la nostra attenzione? Sui problemi che ci affliggono? Sulla ricerca dei ‘perché’ abbiamo questi problemi? Oppure su ciò di meglio che desideriamo? Sui risultati che vogliamo ottenere nella vita, al di là di ciò che abbiamo ora? Cerchiamo in ogni modo di allontanare, reprimere, cancellare pensieri e sensazioni che non ci piacciono, oppure li accogliamo e accettiamo così come sono? Quali priorità stiamo creando nel nostro spazio di lavoro neurale globale? Quindi il consiglio è di lavorare sulla consapevolezza, come si fa nella mindfulness; perché quando le informazioni raggiungono la soglia di accesso cosciente si ha una maggiore attivazione mentale, ed è questa attivazione a configurare il nostro cervello. Quindi una accettazione consapevole dei problemi che abbiamo, è un buon modo per renderci più resilienti ai problemi stessi, perché avremo dalla nostra una maggiore attivazione neurologica.

La forma di una idea La sincronia neuronale è un aspetto fondamentale del processo. La rete cerebrale assomiglierebbe ad uno stormo di uccelli, uno sciame di lucciole dove il tutto è più della somma delle singole parti, e dove ogni singolo elemento armonizza la sua scarica secondo il ritmo cerebrale dello schema (pattern) del gruppo. In mancanza di coscienza il processo si attiva in maniera molto minore, ma a causa della mancanza dell’accesso cosciente, non può essere condiviso ad ampio raggio, e rimane dunque inconscio. Evochiamo una volta di più un’immagine mentale di questo codice neuronale per la coscienza. Immaginate i sedici miliardi di neuroni corticali della vostra corteccia. Ciascuno di loro si occupa di una piccola gamma di stimoli, a la loro semplice diversità è sbalorditiva: soltanto nella corteccia visiva si trovano neuroni che si occupano di facce, mani, oggetti, prospettiva, forma, linee rette, curve, colori 3D … . Ogni cellula veicola soltanto pochi bit di informazione riguardo alla scena percepita; però, collettivamente, esse sono in grado di rappresentare un immenso repertorio di pensieri. Il modello dello spazio di lavoro globale afferma che, in ogni determinato momento, da questa enorme gamma potenziale viene selezionato, a opera di cercatori inconsci, un singolo oggetto di pensiero, che diventa il fulcro della nostra coscienza. In questo momento, tutti i neuroni rilevanti si attivano in parziale sincronia, sotto la guida di un sottoinsieme di neuroni della corteccia


prefrontale. Tutti i neuroni silenti, continuano lo stesso a codificare informazioni, solo che non vengono ritenute rilevanti per la scena mentale del momento. C’è in atto una vera e propria selezione naturale, una competizione per accaparrarsi il posto sulla lavagna, ovvero lo spazio di lavoro globale. In poche parole, la percezione cosciente potrebbe essere paragonata alla scultura di una statua. Partendo da un blocco di marmo grezzo ed eliminandone pian piano la maggior parte, l’artista espone progressivamente la sua visione. Allo stesso modo, partendo da centinaia di milioni di neuroni dello spazio di lavoro, inizialmente neutro, che si attivano a un livello base, il nostro cervello ci lascia percepire il mondo riducendo al silenzio la maggior parte di loro, e mantenendone attiva soltanto una piccola frazione. L’insieme attivo di neuroni delinea, in maniera quasi letterale, i contorni di un pensiero cosciente. E’ attivo dunque un grande lavoro di inibizione, per ‘zittire’ neuroni portatori di informazioni ritenute irrilevanti, e un lavoro attivo di trasmissione delle informazioni. L’accesso cosciente ‘intaglia’ un pensiero in noi ‘scolpendo’ una struttura (pattern) di neuroni attivi e inattivi (che rimarranno a corollario) nel nostro spazio di lavoro globale. Il cervello irrequieto, attività spontanea e spazio di lavoro globale Un’attività organizzata spontanea è onnipresente nel sistema nervoso. Che la persona sia sveglia o addormentata, i due emisferi del cervello generano costantemente una massiccia quantità di onde elettriche ad alta frequenza. Quest’eccitazione spontanea è talmente intensa da dominare il panorama dell’attività cerebrale. Il sistema nervoso agisce come un meccanismo che genera i suoi stessi schemi di pensiero. Anche al buio, mentre riposiamo e “non pensiamo a nulla”, il nostro cervello produce costantemente complessi arrangiamenti di attività neuronale, in continuo mutamento. Un vasto sottoinsieme del circuito del linguaggio si attiva quando ascoltiamo un racconto, ma scarica spontaneamente quando riposiamo al buio – e con ciò ci fornisce un sostegno al concetto di “dialogo interno”. Possediamo inoltre una ‘rete dello stato di riposo’, chiamata rete di default-mode [ modalità di base ], che si attiva ogni qual volta riflettiamo su una situazione professionale, richiamiamo ricordi autobiografici, o paragoniamo i nostri pensieri con quelli degli altri. Incessanti scariche neuronali creano i nostri pensieri riflessivi, e questo flusso interno compete con il mondo esterno. O meglio, nei momenti di default-mode, il lavoro endogeno della coscienza interferisce con la capacità di essere consapevoli verso l’esterno. L’attività cerebrale spontanea invade lo spazio di lavoro globale e, se lo assorbe, può bloccare l’accesso ad altri stimoli per lunghi periodi di tempo. Abbiamo già incontrato una variante di questo fenomeno, che abbiamo definito “cecità disattenzionale”. In poche parole, quando siamo persi nei nostri pensieri, siamo “ciechi” stmoli esterni. La proprietà primaria del sistema nervoso è l’autonomia. L’attività neuronale intrinseca ha il predominio sull’eccitazione esterna. Di conseguenza, il nostro cervello non è mai sottomesso passivamente al suo ambiente, ma genera le sue stesse configurazioni stocastiche di attività.


Generando spontaneamente configurazioni fluttuanti di attività, anche in assenza di stimoli esterni, lo spazio di lavoro globale ci consente di produrre liberamente nuovi piani, di metterli alla prova e di cambiarli a volontà, se non corrispondono alle aspettative!  questo passaggio sostiene il principio della “variabilità necessaria”, secondo cui, se una cosa che facciamo non ci porta al risultato desiderato, possiamo sempre cambiarla fino a che non funziona. Inoltre ci conferma quanto il cervello funzioni come un “simulatore di realtà”. L’attività spontanea agisce come un “generatore di diversità”, i cui schemi sono costantemente modellati dalla valutazione del cervello riguardo a futuri vantaggi. I processi cerebrali vengono prima di quelli ambientali. È curioso notare come, in inglese, il generatore di diversità venga abbreviato con l’acronimo G.O.D., Dio! Le scariche casuali traggono origine da un disturbo termico che scuote costantemente le molecole; tale disturbo nell’ingegneria elettro-informatica si cerca di ridurlo al minimo, perché per l’appunto ‘disturba’ la trasmissione. Mentre nel nostro cervello tale disturbo non solo è tollerato, ma anche amplificato, probabilmente perché un certo grado di casualità è utile in svariate situazioni nelle quali cerchiamo una soluzione ottimale a un problema complesso, dove necessitiamo di ‘guizzi’ intuitivi che solitamente chiamiamo creatività. quest’ultimo concetto rinforza la pratica diffusa secondo cui per stimolare la creatività, spesso è interessante praticare attività ‘diverse’ rispetto al problema su cui si lavora, non correlate. Prendere le distanze, distogliere l’attenzione e concentrarla ‘casualmente’ su altro, musica, passeggiata, altro genere di attività, può favorire la generazione spontanea di casualità affine al funzionamento spontaneo della mente. L’attività neuronale casuale, ogni tanto, supera una certa soglia, e qui viene emesso uno spike (picco di attività). Spike casuali possono essere in seguito ‘assemblati’ in uno schema di attività globale. In sostanza ciò che inizia come un ‘disturbo’ locale finisce per diventare una valanga strutturata di attività spontanea che corrisponde ai nostri pensieri e ai nostri obiettivi segreti. Modera la nostra superbia pensare che il “flusso di coscienza”, le parole e le immagini che spuntano continuamente nella nostra mente e costituiscono il tessuto della nostra vita mentale, tragga la propria origine profonda da spike casuali scolpiti dai trilioni di sinapsi stabilite durante la nostra maturazione e educazione di una vita. Breve riassunto (fino a qui) Fino ad ora abbiamo stabilito che la maggior parte delle operazioni del cervello è non cosciente. Noi siamo ignari della maggior parte di quello che facciamo e che sappiamo, dalla respirazione al controllo della postura, dalla visione a basso livello ai sofisticati movimenti della mano, dalle statistiche delle lettere alle regole grammaticali – e durante la cecità disattenzionale, possiamo anche non vedere un giovanotto vestito da gorilla battersi il petto in mezzo a giocatori di basket (riferimento al test sull’attenzione di Simsons e Chabris). Una profusione sfrenata di processori inconsci agita il tessuto di ciò che siamo e di come ci comportiamo.


La teoria dello spazio di lavoro globale contribuisce a portare un po’ di ordine in questa jungla, conducendoci a classificare le nostre imprese non coscienti in contenitori distinti i cui meccanismi cerebrali differiscono radicalmente. Ripartiamo dagli stimoli esterni. In questo momento, mentre state leggendo, ci sono tutta una serie di stimoli esterni che sorpassano la normale soglia della percezione cosciente, tuttavia non li notiamo perché la nostra mente è pienamente concentrata su questo compito di lettura. I rumori intorno a voi, se decidete di prestarvi attenzione, potete facilmente notarli, ma ogni volta che vi concentrate sulla lettura ‘svaniscono’ dal vostro mondo mentale; la disattenzione impedisce la consapevolezza. Nel “catalogo dell’inconscio”, chiamiamo queste informazioni non coscienti (o coscienti in potenza/latenti), preconsce. Il preconscio è la sala d’attesa dell’accesso cosciente, della consapevolezza. Lo spazio di lavoro globale spiega il fatto che uno stimolo, quando entra nella nostra simulazione, la sua attivazione si propaga e alla fine attiva lo spazio di lavoro globale. A sua volta, questa rappresentazione cosciente crea un margine di inibizione circostante che impedisce a un secondo stimolo di entrare nello stesso momento. Questa fondamentale competizione è inevitabile. in quest’ultimo passaggio si fornisce supporto (senza averne l’intenzione) alla teoria dei “memi”, di cui abbiamo accennato in qualche passaggio, secondo cui, alcune idee, concetti, simboli, comportamenti, ‘sgomitano’ gli uni contro gli altri per accaparrarsi uno brandello di attenzione, proprio come i semi delle piante sono in competizione per accaparrarsi un brandello di terreno dove posarsi, attecchire e germinare. Ecco, alcune idee ‘lottano’ per arrivare prime e poter entrare nello spazio di lavoro di lavoro globale, e da lì risalire fino all’attenzione cosciente. All’interno della nostra mente avviene un’insolita staffetta all’interno della quale l’informazione prosegue nel suo cammino sostenuta da alcuni passaggi, messaggeri neuronali, che lavorano tanto per portare un certo messaggio, quanto per metterne a tacere altri in modo da delimitare al meglio il campo dell’idea. Il ‘silenziamento’ neuronale, atto a inibire disturbi, crea una sorta di collo di bottiglia, ed è inevitabile per lo stato cosciente, perché ci permette di percepire solo una cosa per volta. L’informazione precosciente, è collocata momentaneamente nella ‘sala d’attesa’ transitoria, posta all’esterno dello spazio di lavoro globale; e da questo punto cadrà nell’oblio e verrà cancellata, se entro un certo tempo non orientiamo su di essa la nostra attenzione. Lo stato precosciente contrasta nettamente con un secondo tipo di non coscienza, quello che viene definito stato subliminale. La differenza principale consta nel fatto che il messaggio precosciente, come abbiamo detto, può diventare conscio, mentre lo stato subliminale no. L’onda sensoriale in arrivo, stimolata da uno stimolo subliminale si esaurisce prima di creare quella valanga di attivazione che finisce sullo spazio di lavoro globale, e da lì poi si propaga per il livelli superori della corteccia prefrontale, con tanto di ritorno verso il basso e raggiungimento di altre zone cerebrali lontane. Altra categoria ancora è rappresentata dai cosiddetti schemi disconnessi (disconnected patterns); un altro livello del nostro archivio inconscio, che si differenzia dai due precedenti (stato precosciente e stato subliminale) in quanto totalmente inconsci. Un esempio di questi schemi è la respirazione, un processo che nasce nelle profondità del tronco cerebrale e raggiunge i muscoli


della gabbia toracica modellando i ritmi di ventilazione che ci mantengono in vita. Ingegnosi circuiti di feedback adattano i ritmi di ventilazione ai livelli di ossigeno e di biossido di carbonio presenti nel sangue, il tutto al di fuori della nostra consapevolezza. Il respiro è uno di quei meccanismi per noi quasi del tutto misteriosi, verso il quale possiamo portare un po’ di attenzione, ma essendo questo processo disconnesso dallo spazio di lavoro globale, tutte le informazioni relative al livello della co2 nel sangue non possono essere trasmesse al resto della corteccia; in poche parole tali circuiti rimangono cablati nel tronco cerebrale, e l’unica maniera che abbiamo per portarli alla mente consiste nel codificarli attraverso un’altra modalità sensoriale: diventiamo consapevoli di come respiriamo soltanto indirettamente, quando prestiamo attenzione al movimento del nostro torace! Un quarto modo mediante il quale l’informazione neurale può rimanere non cosciente è la diluizione. Prima dell’apprendimento, un messaggio neuronale era già presente nelle nostre aree sensoriali, ma solo implicitamente, sotto forma di un modello diluito di attivazione, inaccessibile alla nostra consapevolezza. Ovvero il nostro cervello contiene segnali che il suo possessore ignora. Infine una quinta ed ultma categoria della conoscenza inconscia giace dormiente nel nostro sistema nervoso, sotto forma di connessioni latent. Noi diventiamo consapevoli delle configurazioni di accensione neuronale soltanto se queste formano assemblaggi attivi su scala cerebrale. Nelle nostre connessioni sinaitiche quiescenti sono conservate esorbitanti quantità d’informazione. Persino prima della nascita, i nostri neuroni esaminano le statistiche del mondo e adattano di conseguenza le loro connessioni. Le sinapsi corticali, che ammontano a centomila miliardi nel cervello umano, contengono ricordi dormienti della nostra intera esistenza. Ogni giorno si formano e si distruggono milioni di sinapsi, in particolare durante i primi anni della nostra vita, quando il nostro cervello si adatta maggiormente al suo ambiente. Ogni sinapsi conserva un minuscolo bit di saggezza statistica. di fronte a questa inarrestabile neuroplasticità che muta costantemente configurazione, vien proprio da chiedersi: chi siamo … ad oggi?  I nostri ricordi posso restare dormienti per anni, con il loro contenuto compresso in una distribuzione di spine sinaitiche, e noi possiamo accedere direttamente a questa conoscenza sinaptica, perché il suo formato è del tutto differente dallo schema di accensione neuronale che sostiene i pensieri coscienti. Per recuperare i nostri ricordi abbiamo bisogno di convertirli dalla forma dormiente a quella attiva. Durante il recupero della memoria le nostre sinapsi promuovono la ricostruzione di un preciso schema di accensione neuronale – e soltanto allora noi ricordiamo in maniera cosciente. Un ricordo cosciente è soltanto un vecchio momento cosciente, la ricostruzione approssimativa di un preciso schema di accensione esistito un tempo. L’imaging del cervello mostra che i ricordi devono essere trasformati in esplicite configurazioni di attività neuronale che invadono la corteccia prefrontale e le regioni cingolate interconnesse, prima che noi riacquisiamo coscienza di un determinato episodio della nostra vita. Tale riattivazione di aree corticali distanti durante il richiamo cosciente alla memoria si adatta perfettamente alla teoria dello spazio di lavoro.


La distinzione fra connessioni latenti e attivazione spiega perché rimaniamo del tutto inconsapevoli delle regole grammaticali con le quali elaboriamo un discorso. Nella frase “John believes that he is clever” (“John crede di essere furbo”), il pronome “he” può riferirsi allo stesso John? Sì. E se invece scrivessimo “He believes that John is clever?” (“egli crede che John sia furbo?”) No. E “the speed with wich he solved the problem pleased John” (“la velocità con la quale ha risolto il problema ha compiaciuto John”)? Sì. Noi conosciamo le risposte, ma non abbiamo alcuna idea delle regole con le quali ci arriviamo! Le nostre reti del linguaggio sono sintonizzate per l’elaborazione di parole e frasi, ma questo diagramma di cablaggio è permanentemente inaccessibile alla nostra consapevolezza. La teoria dello spazio di lavoro globale può spiegare il perché: la conoscenza è nel formato sbagliato per arrivare all’accesso cosciente.  in PNL (programmazione neuro linguistica), prendendo spunto dagli studi di linguistica, si parla di “intuizioni coerenti dei parlanti nativi”, dimostrando come, “dentro ognuno di noi”, in quella che viene chiamata “struttura profonda”, vi siano le strutture necessarie per cogliere se una frase sia o meno “ben formata” secondo i requisiti/regole della nostra lingua madre. Se osserviamo infatti i bambini di età compresa tra i 3 e 5 anni, noteremo che la maggior parte di loro riesce a parlare abbastanza fluentemente la propria lingua madre prima ancora di aver studiato la grammatica a scuola (e se continuiamo ad osservarli noteremo che anche da adulti continuano a capire la loro lingua e a farsi capire abbastanza bene anche se non ricordano nulla della grammatica studiata  ). La grammatica differisce enormemente dall’aritmetica. Quando moltiplichiamo 24x31, ne siamo estremamente coscienti. Ogni operazione intermedia, la sua natura e il suo ordine, e anche gli errori, e anche gli errori occasionali che compiamo sono accessibili alla nostra introspezione. Quando elaboriamo un discorso, per contro, rimaniamo paradossalmente senza parole a proposito delle nostre elaborazioni interne. I problemi risolti dal nostro processore sintattico sono tanto ardui quanto quelli aritmetici, ma non abbiamo alcuna idea di come li risolviamo. Perché questa differenza? I calcoli aritmetici complessi sono compiuti passo dopo passo, sotto il diretto controllo


di nodi chiave della rete dello spazio di lavoro (area prefrontale, area cingolata e parietale). Tali complesse sequenze sono codificate esplicitamente dall’accensione dei neuroni prefrontali. Singole cellule codificano le nostre intenzioni, i nostri progetti, i singoli passaggi, il loro numero e anche i nostri errori e le loro correzioni. Quindi, nel caso dell’aritmetica, sia il progetto sia il suo svolgimento sono codificati esplicitamente dall’accensione neurale, all’interno dello spazio di lavoro neuronale che sostiene la coscienza. Al contrario, la grammatica è incrementata da gruppi di connessioni che collegano il lobo temporale superiore sinistro con il giro frontale inferiore, e risparmia le reti per l’elaborazione cosciente della corteccia prefrontale dorsolaterale. Non è ancora chiaro come i neuroni codifichino le regole grammaticali, ma si prevede uno schema radicalmente diverso da quello di codifica delle operazioni aritmetiche. IMPORTANTE: Un fatto straordinario è che l’intero meccanismo descritto con lo spazio di lavoro globale è soltanto parzialmente influenzato dagli input esterni. Il suo motto è autonomia. Esso genera i suoi stessi obiettivi, grazie a un’attività spontanea, e questi schemi a loro volta danno forma al resto dell’attività cerebrale secondo una modalità che procede dall’alto verso il basso [ Top-down ]. Inducono altre aree a recuperare ricordi a lungo termine, generano un’immagine mentale e la trasformano secondo regole linguistiche, logiche. Scimmie autocoscienti? L’autocoscienza sembra il candidato più importante per definire l’unicità umana. Anche i macachi, e probabilmente altri animali, possiedono uno spazio di lavoro globale simile al nostro, e quindi molto probabilmente un accesso cosciente simile al nostro, ovvero la capacità di diventare consapevoli di stimoli sensoriali selezionati. Ma la differenza notevole la fanno le funzioni cognitive superiori, i livelli “più alti” della corteccia prefrontale. Noi siamo Sapiens-sapiens, forse l’unica specie che “sa di sapere”. Noi possiamo riflettere sulla nostra stessa esperienza del riflettere, ovvero meta-riflettere; la meta-cognizione è dunque una capacità tipicamente nostra. La meta-cognizione, significa più o meno, conoscere i limiti della propria conoscenza, assegnando gradazioni di convinzione e di fiducia ai nostri stessi pensieri (alcuni studi segnalano che anche alcuni animali possiedono rudimenti di questa capacità). Donald Rumsfeld, segretario alla difesa di George W. Bush, ha definito la meta-cognizione avvalendosi della distinzione Known Knows (“le cose che sappiamo di sapere”), Known Unknown (“sappiamo che ci sono cose che non sappiamo”), e Unknown unknowns (“le cose che non sappiamo di non sapere”)  in programmazione neurolinguistica si parla di 4 stadi dell’apprendimento, e aggiungono quindi anche un quarto stadio, Unknown Knows (“cose che non sappiamo di sapere”), che starebbe ad indicare la competenza inconscia, ovvero quando le cose si fanno in maniera “naturale” e senza bisogno di doverci pensare, come accade nella maestria.


Il primo stadio sarebbe il Known unknows: non sappiamo nemmeno che esistono certe cose, quindi non possiamo nemmeno sapere di non saperle Il secondo stadio è il Known unknown: il so di non sapere socratico, dove ci rendiamo conto che esistono cose che ignoravamo, ma adesso ci rendiamo conto che esistono Il terzo stadio è il Known knows: il momento dell’apprendimento, il momento in cui ci rendiamo conto di tutto quello che serve sapere (o almeno di buona parte); qui si sperimenta saturazione mentale, si toccano i ‘limiti’ della mente conscia Il quarto ed ultimo è il unknown knows: dove le cose le facciamo senza più bisogno di pensarle, c’è automatismo, naturalezza, maestria, non si fa più fatica e c’è spazio mentale anche per altro Tornando al discorso degli animali, oggi sappiamo che anch’essi possiedono gli elementi caratteristici di una mente riflessiva, e quindi l’aggettivo sapiens-sapiens non dovrebbe essere appannaggio esclusivo dell’Homo. Ma soltanto l’Homo sapiens-sapiens usa le parole o altri simboli componendoli, come facciamo noi per dichiarare i nostri pensieri agli altri. Questa capacità di comporre i nostri pensieri può essere l’elemento fondamentale che promuove la nostra riflessione interiore. L’unicità umana risiede nella peculiare maniera con la quale noi formuliamo esplicitamente le nostre idee, usando strutture di simboli inserite una nell’altra o ricorsive. Ipotesi di funzione del linguaggio  In accordo con Noam Chomsky, possiamo sostenere che il linguaggio si è evoluto come un meccanismo di rappresentazione, piuttosto che come un sistema di comunicazione: il principale vantaggio che conferisce è la capacità di pensare nuove idee, più che la capacità di condividerle con gli altri. Il nostro cervello sembra possedere un particolare talento per assegnare dei simboli a qualsiasi rappresentazione mentale e per far entrare questi simboli in combinazioni del tutto nuove. Il linguaggio serve più per pensare che per condividere il pensiero! All’interno dello spazio di lavoro neuronale globale avviene un assemblaggio di concetti elementari che giacciono in ambiti di competenza diversi; i concetti di ‘dimensioni’ (altezza), ‘persona’ (Tom, John), ‘spazio’ (a sinistra, a destra, su, giù), ‘colore’ (rosso), oggetto (porta), ‘logica’ (non), o ‘azione’ (dato), ecc … vengono codificati da distinti circuiti cerebrali, ma in seguito la mente li assembla a piacere a seconda del contesto: “John non è più alto di Tom”, “a sinistra della porta rossa” , “Tom non è giù”, … . Riusciamo inoltre a distinguere “il fratello di mia moglie” da “la moglie di mio fratello”. Gli psicologi chiamano tutto questo complesso processo “teorie della mente”, un esteso insieme di regole intuitive che ci consentono di raffigurare ciò che pensano gli altri e di ragionarci sopra. Tutto questo ha portato alle nostre capacità uniche di progettare strumenti complessi, di teorizzare le leggi matematiche, ecc … . Lo studio approfondito del linguaggio umano svela procedimenti eleganti e complessi che giustificano le nostre straordinarie capacità di pensiero. La corteccia prefrontale anteriore è la candidata numero uno per la regia di queste straordinarie capacità; insieme all’area di Broca, la regione frontale inferiore sinistra (fondamentale nel


linguaggio umano). I neuroni dello strato 3 della regione frontale inferiore sinistra che inviano proiezioni a lunga distanza. E poi c’è anche la linea mediana anteriore cingolata, regione cruciale per l’autocontrollo. Coscienza e libero arbitrio Per quanto oggi si cerchi mediante sofisticati software di simulare il funzionamento del cervello, alle macchine, che sono esseri deterministici, mancano come minimo tre funzioni critiche: la comunicazione flessibile, la plasticità, l’autonomia. Il “comportamento” delle macchine è determinato dalla loro organizzazione interna, dal loro stato iniziale, e dagli input esterni introdotti. C’è quindi un quarto fattore fondamentale, che potremmo dire collega tutti e tre i precedenti, ovvero il libero arbitrio. Sir Roger Penrose ha proposto la visione secondo cui la coscienza e il libero arbitrio richiederanno la meccanica quantistica. Penrose e l’anestesiologo Stuart Hameroff, vedono il cervello come un computer quantistico. La capacità di un sistema fisico quantistico di esistere in molteplici stati sovrapposti sarebbe sfruttata dal cervello umano per esplorare possibilità quasi infinite in un tempo finito. Purtroppo queste tesi non hanno alcun fondamento scientifico, almeno per quanto riguarda l’evoluzione degli strumenti fino ad oggi. Non c’è in queste teorie una solida neurobiologia o scienza cognitiva. La maggior parte dei fisici concorda sul fatto che il bagno caldo di sangue nel quale il cervello si trova immerso sia incompatibile con il calcolo quantistico, che richiede bassissime temperature per evitare una rapida perdita di coerenza quantistica. E la scala temporale alla quale diventiamo consapevoli di aspetti del mondo esterno è ampiamente scollegata dalla scala in femtosecondi (10 alla -15) alla quale questa decoerenza quantistica avviene tipicamente. E ancora più importante è il fatto che se i fenomeni quantistici influenzassero alcune delle operazioni del cervello, la loro intrinseca imprevedibilità non soddisferebbe il nostro concetto di libero arbitrio. Sarebbe come se noi fossimo in preda a casuali incontrollabili scuotimenti generati a livello sub-atomico, come i contorcimenti e i tic incontrollabili di un paziente affetto da sindrome di Tourette; questa visione è incompatibile con il concetto di libertà di scelta che noi (intendendo con “noi” la visione degli scienziati che hanno scritto il libro) riteniamo opportuno. A noi piace pensare che, nelle circostanze adatte, abbiamo la capacità di guidare le nostre decisioni con i nostri pensieri di livello superiore, con i nostri valori e con le passate esperienze, con i nostri obiettivi che forniscono le priorità del momento, e poter così esercitare un controllo sui nostri impulsi indesiderati di basso livello. Ogni volta che prendiamo una decisione autonoma e consapevole, esercitiamo la nostra libera volontà, considerando tutte le possibilità a disposizione, ponderando e scegliendo quella che preferiamo. Poi potrà anche esserci ogni tanto un minimo di casualità, ma questa non è la caratteristica essenziale. Il nostro spazio di lavoro neuronale globale ci consente di raccogliere tutta l’informazione necessaria, sia dai nostri sensi, sia dai nostri ricordi, di sintetizzarla, di valutare le sue conseguenze, di ponderarla per tutto il tempo che vogliamo, e alla fine di usare questa riflessione interna per guidare le nostre azioni. Questa è ciò che chiamiamo decisione voluta. I nostri stati cerebrali non sono chiaramente spontanei e non sfuggono alle leggi della fisica – niente lo fa. Ma le nostre decisioni sono genuinamente libere ogni volta che sono basate su una


deliberazione cosciente che procede autonomamente, senza impedimento, ponderando attentamente i pro e i contro prima dio intraprendere un’azione. Quando avviene questo, possiamo parlare di decisione volontaria – anche se è, ovviamente, in definitiva causata dai nostri geni, dalla storia della nostra vita e dalle funzioni di valore che sono state inscritte nei nostri circuiti neuronali. A causa di fluttuazioni nell’attività cerebrale spontanea, le nostre decisioni possono rimanere imprevedibili, anche per noi. Tuttavia ribadiamo che, questa imprevedibilità, non è una caratteristica che definisce il libero arbitrio, non è la regola, ciò che conta è prendere decisioni autonome quando si può! La ricchezza dell’elaborazione dell’informazione fornita da una rete evoluta di sedici miliardi di neuroni cortcali va oltre ogni immaginazione attuale. I nostri stati neuronali fluttuano incessantemente in una maniera parzialmente autonoma, creando un modo interno di pensieri personali, e anche quando sono posti a confronto con identici input sensoriali, essi reagiscono differentemente, secondo il nostro umore, i nostri obiettivi e i nostri ricordi. Anche se tutti noi condividiamo lo stesso complessivo inventario di neuroni che codificano per il colore, la forma o il movimento, la loro organizzazione dettagliata trae origine da un lungo processo di sviluppo che ‘scolpisce’ in maniera differente il cervello di ciascuno di noi, selezionando continuamente ed eliminando sinapsi per creare personalità uniche. Il codice neuronale che deriva da questo incrocio di regole genetiche, esperienze trascorse e incontri casuali, è unico per ogni momento e per ogni singola persona. Il suo immenso numero di stati crea un mondo ricco di rappresentazioni interne, collegate all’ambiente, ma non imposte da quest’ultimo. Sensazioni soggettive di dolore, bellezza, brama o rammarico corrispondono ad attrattori stabili neuronali in questo panorama dinamico. Essi sono intrinsecamente soggettivi, poiché le dinamiche del cervello integrano i suoi input presenti in un affresco di memorie passate e obiettivi futuri, aggiungendo quindi uno strato di esperienza personale alle semplici sollecitazioni sensoriali. Ciò che ne emerge è un “presente ricordato”. Una cifra personalizzata del qui e ora, arricchita da ricordi persistenti e da previsioni anticipate, che proietta costantemente una prospettiva in prima persona sul suo ambiente: un mondo interno cosciente.

COSIDERAZIONI CONCLUSIVE: C’è qualche punto ‘attaccabile’ in questo modello presentato dagli autori del libro? Sicuramente sì, perché nella ricerca scientifica si procede per scoperte e demolizione di scoperte e nascita di nuove scoperte. Spesso gli scienziati hanno creato, grazie all’autorità loro concessa (da alcuni altri), vere e proprie parrocchie, con i loro presupposti, credo assoluti e dogmatici come assunti a fondamento del loro pensiero. E tutto questo ha portato a vere e proprie ‘battaglie culturali’, oppure ad ‘onanismo di gruppo’, ma comunque a situazioni che confondono e rubano energie all’obiettivo, o alla peggio, fanno perdere di vista l’obiettivo. A mio parere l’obiettivo è la qualità della vita di noi esseri umani, il trovare pratiche per migliorare l’efficacia delle nostre vite, e spesso i ‘teorici’, portando avanti il proprio ego come una lancia, si dimenticano di ciò per cui si sono impegnati a lottare, il regno dei viventi.


Quindi sono sicuro che qualcuno troverà qualche elemento per cui storcere il naso e aggrottare le sopracciglia, e va bene così. L’importante è non perdere mai di vista il motivo per cui si fa ricerca, la qualità della vita delle persone. Mi auguro che questo libro abbia contribuito alla scoperta della magnificenza di noi stessi, senza esaurire l’argomento, ma aprendo lo stimolo all’approfondire prima di abbracciare ciecamente visioni imposte da altri, seppur laureati, premiati, ecc … . Nessuno possiede ancora la verità in tasca su nulla, per cui mi piacerebbe ci fosse massima cautela quando si ‘vendono’ cure ‘miracolose’, metodologie ‘magiche’. Abbiamo capito che molte persone sono alla ricerca di risposte, di strumenti di controllo e previsione della realtà, di strategie per rendere il loro presente e futuro migliori, e che sono disposte a pagare molto per averli, ma non per questi possiamo permetterci di illuderle, vendendogli cose non dimostrate come se lo fossero. Abbiamo anche visto che “tutto” funziona con “alcuni”, perché ogni cervello possiede un algoritmo che lo rende unico nel suo funzionamento, ma la cautela è sempre d’obbligo. Spero che oggi, quando parleremo di mente, cervello, psicologia, conscio e inconscio, saremo maggiormente coscienti di quanto ad oggi possediamo modelli interpretativi della realtà, non sappiamo nemmeno se esiste una cosa corrispondente a quella a cui abbiamo dato un nome. Mi auguro inoltre che questa visione impermanente dei processi di pensiero, che ci racconta di un flusso in costante divenire di ciò che siamo, dia da subito fiducia a molti circa il fatto che il cambiamento è nella nostra natura, per cui nulla è eterno, e ciò vale per i momenti belli, per cui ci conviene muoverci per trovarne sempre di nuovi, e per i momenti brutti, che prima o poi passeranno dal momento che il cervello stabilirà nuove soglie, nuove mete e quindi nuovi modi di intendere ciò che succede, sia che lo vogliamo, sia che no, ma se c’è intenzione, e una direzione motivante, tutto il processo ne risente al meglio. Buon viaggio Gabriele Nani

www.gabrinani.it – gabriele nani: you tube, linkedin, twitter, facebook, google+


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