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PREFAZIONE di Paolo Gamberini sj
PREFAZIONE di Paolo Gamberini sj
L’atto di scomunica emesso dalle autorità religiose ebraiche il 27 luglio 1656 nei confronti di Baruch Spinoza non può non richiamare alla memoria i numerosi atti di scomunica del Sant’Uffizio della Chiesa cattolica nei confronti di pensatori (per esempio Galileo Galilei) e le recenti dichiarazioni di condanna della Congregazione per la Dottrina della fede nei confronti di teologi cattolici (Jacques Dupuis, Roger Haight e Jon Sobrino, per citarne solo alcuni).
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Quale è la ragione di queste varie condanne? Sia da parte delle autorità ebraiche di allora sia di quelle cattoliche dei nostri tempi, la questione rimane sempre quella. Più che le singole tesi eretiche che Spinoza avrebbe sostenuto (non credere nell’immortalità dell’anima, nell’identificazione di Dio con la natura, non riconoscere Dio come persona così come la Scrittura rivela), la scomunica vuole prendere a bersaglio una questione più essenziale. Spinoza, e così i teologi cattolici, con il loro pensiero e le loro tesi sono condannati perché non mirano a “riformare” la fede (ebraica o cristiana) ma finiscono per “deformarla”, snaturando così l’essenza stessa del credo.
La questione di fondo, quindi, è questa. La lettura che Spinoza fa della fede dei padri e custodita nella Torà porta ad una alterazione della fede biblica. Così pure quei teologi, condannati dalla Congregazione per la dottrina della fede, avendo negato l’unicità salvifica di Gesù Cristo, il senso reale dell’incarnazione di Dio, la resurrezione corporea di Gesù e la conoscibilità della trinità immanente, non hanno solamente contestato alcuni punti della fede cristiana ma ne hanno talmente trasformato la sostanza che questa rischia di andare perduta.
C’è da chiedersi a questo punto: ma cosa è mai essenziale nella fede biblica, condivisa da ebrei e cristiani? Non credo che si tratti solo di un modo di leggere la Scrittura. L’ermeneutica biblica ci ha ormai abituati a relativizzare le affermazioni della Scrittura, cioè a porle “in relazione” al contesto in cui vennero scritte e tramandate, e “in relazione” al linguaggio simbolico con cui ogni discorso sull’infinito ha senso. La Bibbia è “vera”, ma non letteralmente vera. Ciò che ancora si presuppone nelle facoltà teologiche, nelle sinagoghe e nelle chiese, è considerare implicitamente il teismo – la concezione di un dio separato dal mondo che interviene negli eventi del mondo – come la forma unica e necessaria della fede biblica. Svestire la Bibbia di questa forma non è trasformare la fede ma deformarla.
Se così è, significa che l’impresa ermeneutica, avviata per leggere non letteralmente la Scrittura, si ferma a metà e rischia di naufragare, poiché il metodo con cui si interpreta il contenuto della Bibbia non è applicato al contenente della Bibbia: cioè a quella sua forma culturale che è il teismo.
Spinoza, e come lui tanti teologi contemporanei (Roger Lenaers, John Spong e José María Vigil, ed altri) hanno seguito con coerenza questa purificazione ermeneutica della fede. Non tutti, e deve essere detto, hanno seguito Spinoza nella pars costruens ma si sono fermati a criticare il teismo. Tra autori e pensatori “post-teisti”, c’è quasi un’allergia a costruire un nuovo sistema di pensiero in cui comprendere e ridire la fede cristiana. Una certa allergia a tutto ciò che è “sistema” – retaggio forse della contestazione del ’68 e delle riserve della post-modernità verso ogni forma di pensiero dell’intero. Questa resistenza a “costruire” una visione organica entro cui comprendere le novità che da ormai da più di un secolo le scienze storiche e bibliche, le filosofie e le scienze ci stanno offrendo, costituisce un grosso limite per il post-teismo attuale. La lezione di Spinoza non può non incoraggiare a voler intraprendere un percorso costruttivo nell’approccio post-teista alla fede biblica.
A questo punto, diventa più evidente che si deve ben distinguere l’essenza della fede biblica dalle forme culturali con cui questa è stata espressa nei secoli. Se questa “essenza” non si identifica con la forma “teista”, significa che un’altra forma la può ben esprimere. Ma qual è, allora, l’essenza della fede cristiana? In ascolto del sistema di Spinoza e di una certa visione “mistica” della scolastica tardo medioevale ed inizi dell’età rinascimentale (per esempio: Tommaso d’Aquino, Meister Eckhart e Nicolò Cusano), ritengo che l’essenza della fede cristiana sia la divinizzazione dell’umano, ovvero l’unione di finito ed infinito, di materia e spirito, di natura e Dio. “L’essenza del Cristianesimo è la divinizzazione dell’uomo”.1 La forma “teista” è una forma di “umanizzazione del divino”, cioè una riduzione del divino in categorie antropomorfiche. L’ermeneutica biblica – a cui si richiama Spinoza e a cui continuamente gli esegeti contemporanei si rifanno – è un continuo svelamento di questa modalità “religiosa” di concepire “Dio”. Ma la fede biblica, e ancor più quella cristiana, è la contestazione di questa modalità religiosa poiché confuta ogni forma di riduzione “troppo umana” del divino. La prospettiva di Spinoza, così come di molti esponenti post-teisti, è di comprendere l’umano (e il creato) senza separarlo da Dio. L’uomo partecipa della vita divina. La divinizzazione del creato è l’essenza della fede biblica e cristiana. Come già Meister Eckhart prima di lui, così anche Spinoza ci invita a porci dal “punto di vista” più adatto a comprendere la vita divina e la sua creatura, cioè dal punto di vista dello sguardo eterno di Dio (sub specie dei).
In proposito è illuminante quanto afferma Tommaso d’Aquino nella Quaestio disputata “De Potentia Dei” (q. 13, art. 16, arg. 24). Quando si parla della relazione tra Dio e creato, bisogna porsi da due prospettive distinte. Se si
1 G. Barzaghi, Oltre Dio ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la deità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000, p. 85.
comprende Dio come la causa che governa e preserva l’esistenza di una creatura, si presuppone che la sua esistenza sia separata dal creatore: la creatura è da Dio e la creatura si distingue da Dio. Considerato in questo modo, Dio non è la sua essenza creativa. Ma se ci poniamo dalla prospettiva di Dio, la creatura è in Dio come nel potere della sua causa attiva e in colui che la conosce. In questo secondo modo, la creatura è l’essenza stessa di Dio, come afferma Gv 1,3: “Ciò che è stato fatto era la vita in lui”. Creatura in Deo est ipsa essentia divina.
Questo modo di considerare la creatura in Dio si avvicina alla visione di Spinoza. Infatti, una delle caratteristiche del suo pensiero è la negazione di una concezione di Dio separato dal mondo, che di volta in volta a sua discrezione ed arbitrio, interviene ora qui ed ora là. Tale è anche la concezione del post-teismo. Si potrebbe obiettare che tale concezione di Dio sia stata già negata dal deismo nell’Illuminismo. Anche per i deisti del XVIII secolo Dio avrebbe creato il mondo, lasciandolo poi alle sue leggi, senza dover più interferire ed intervenire. Il post-teismo si differenzia dal “deismo” e dal “teismo” per il fatto che entrambi o affermano o negano la concezione di Dio come un agente, un “attore” nel mondo. Il post-teismo, invece, sostiene che Dio è “attivo” nel mondo senza esserne attore. Considerare Dio “attore” è ancora comprenderlo un ente tra gli enti. Forse un ente “più” potente (che fa miracoli, si incarna e risorge, crea il mondo e lo giudica) ma sempre alla stregua degli altri enti. Dio è Sommo Ente. Ma Dio non è né “attore” né “inattivo” nel mondo. Dio è Atto Puro, attività assoluta (in greco: ἐνέργεια, energia). Il post-teismo concilia in sé le due esigenze sottese nel teismo (Dio agisce nel mondo) e nel deismo (Dio lascia autonomia al mondo), affermando – come dice Teilhard de Chardin – che Dio fa sì (Atto Puro) che le cose si facciano (autonomia). Le accuse rivolte al post-teismo di essere una riedizione del deismo del XVIII secolo sono dunque infondate. Ciò che contrad-
distingue Spinoza è di aver “costruito” un sistema monista (e non monoteista) in cui il mondo è compreso in Dio, nella sostanza divina: originaria attività creatrice di tutte le cose.
È quanto mai “fruttuoso” conversare con autori del passato. Dal passato non impariamo solo “errori” ma la possibilità di continuare ad “errare” – nel senso di camminare – verso una maggiore comprensione del divino in noi e in tutte le cose. Come ricorda Paolo in conversazione con Baruch: “Bisognerebbe ripartire proprio da quei pensatori del passato, e non, che troppo spesso abbiamo deciso di ignorare”.
p. paolo gamBerini sj ha conseguito la laurea in Filosofia presso l’Università del Sacro Cuore di Milano e il dottorato in Teologia presso la Philosophisch–Theologische Hochschule “Sankt Georgen” di Francoforte, in Germania. Membro dell’Associazione Teologica Italiana. Professore associato all’Università di San Francisco (California). Professore di Teologia alla Pontifica Facoltà Teologica San Luigi di Napoli. Autore di numerosi articoli per “La Civiltà Cattolica” e altri periodici, così come di libri, tra cui “Commento alla Dignitatis Humanae”, Serena Noceti – Roberto Repole (a cura di); Pathos e Logos nel pensiero di Abraham J. Heschel, Città Nuova, Roma 2009; Un Dio relazione. Breve manuale di dottrina trinitaria, Città Nuova, Roma 2007; Questo Gesù. Pensare la singolarità di Gesù Cristo, EDB, Bologna 2005