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SULLA SOFFERENZA

Per un «amabile dovere di crescere»

© Il Segno dei Gabrielli editori 2023

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ISBN 978-88-6099-536-0

Progetto di copertina

Gabrielli editori

Stampa

Mediagraf spa (PD) Giugno 2023

Fuggire la sofferenza significa fuggire la propria salvezza.

Staretz Makarij di Optina

Presentazione

Una riflessione è perennemente presente nella vita umana: il senso, il perché e lo scopo della sofferenza, della fatica e del dolore della vita.

Pensare alla vicenda umana con tutta la sua sofferenza fa dubitare di Dio, del buon-messaggio, della vita come progetto, di una creazione in evoluzione verso un esito finale felice… insomma di tutto quella che sembra dare un senso ed uno scopo a quest’esistenza, «in hac lacrimarum valle».

Questo genera spesso disperazione, dubbio, rifiuto della vita; fuga da essa con evasione in strutture-di-senso, in modi-di-vita artificiali e falsi, se non addirittura fuga dalla vita stessa, nei suicidi. Non si tratta di riflettere sulla stranezza-scandalo di un Dio buono che consente la sofferenza dei suoi figli (il tema della teodicea) quanto sul possibile effetto educativo della sofferenza, se accettata, compresa, “valorizzata”. Tanto che è forse la riflessione più significativa possibile, di come la sofferenza possa “educarci”, tirarci fuori da noi stessi, farci crescere, portarci alla piena realizzazione della nostra umanità e del nostro essere persona.

Questo piccolo libro vuole offrire una serie di riflessioni, testimonianze, considerazioni, esperienze, sull’enorme, universale, eterno tema della Sofferenza: unde malum? Perché si soffre? Si può convivere con il dolore?

Come alleviarlo? Va negato? Ha una finalità, un senso?

È scritto “a due mani”: da un neuroscienziato, in chiave più filosofica e psicologica, in base ai suoi studi e all’attività terapeutica; e da un counselor spirituale, grazie alla sua esperienza di dieci anni in un Centro d’Ascolto Diocesano e di vita personale.

Gli autori sono entrambi cultori del pensiero di Pierre Teilhard de Chardin, forse l’unico che ha saputo offrire all’uomo una spiegazione accettabile – anche se comunque difficile da vivere – del “perché” della sofferenza dopo averla sperimentata nella condizione infernale delle trincee nella Prima Guerra Mondiale.

Sono stati inoltre indotti a riflettere sul tema dalle esperienze di sofferenza terribile, criminale, disumana, nei lager nazisti e comunisti, vissute da altri fondamentali testimoni del ’900: Pavel A. Florenskij, Etty Hillesum, Viktor Frankl.

Sarebbe presuntuoso ritenere di aver fornito, in queste pagine, risposte “definitive” al tema e agli interrogativi abissali che pone; ma forse qualche lettore potrà trovarvi delle “piccole” risposte: e questo già sarebbe per gli autori la miglior ricompensa.

Non c’è presa di coscienza senza sofferenza. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia.

C. G. Jung

Introduzione

Il tema di questa riflessione ha per oggetto la sofferenza umana in generale e, in particolare, quella di natura psichica, o dell’anima, che dir si voglia, nelle sue varie declinazioni: da quella correlata alla condizione antropologica-esistenziale, intesa nella sua incessante e faticosa ricerca di senso della umana esistenza, a quella configurabile nel suo doloroso e dirompente processo evolutivo.

In un contesto socio-culturale caratterizzato dalle più accattivanti “passioni tristi”, il dolore psichico, nella sua unicità e singolarità, si presenta come scandalo da aborrire; artatamente marginalizzato, entro i limiti della sua spettacolarizzazione, nella sua caratterizzazione individuale e collettiva, lascia prontamente spazio alla pervasiva cultura dell’effimero, proposta come rassicurante sigillo di una felicità “liquida”, tristemente destinata a naufragare. Di fronte al trionfo del tecno-dispiegamento, con l’avvento di ciò che molti, senza esitazioni, definiscono svolta antropotecnica, la sofferenza, quale componente non eliminabile dalla totalità del reale, rimane, tuttavia, la protagonista nella vicenda umana, sebbene scandalo da eludere dalla dialettica intra-intersoggettiva, attraverso abili artifici, soffocata da più facili accessi alla dimensione del piacere immediato, ricercato spasmodicamente in maniera parossistica. In tale humus algofobico, fino a configurarne una vera e propria «fuga edonistica dalla sofferenza»1, non c’è spazio per esprimere la propria vulnerabilità, fragilità e finitudine, quale specifica condizione strutturale dell’uomo, con la paura spesso vissuta in lacerante silenzio, a dispetto di una cultura dominata dalla martellante promessa di felicità, tutta di là da venire con i suoi icastici modelli di perfezione, per lo più irraggiungibili e astratti. La sofferenza, propria e altrui, rappresenta, tuttavia, uno dei nodi essenziali dell’esistenza, che, per quanto si voglia eludere, costituisce la vita stessa, nella sua concretezza, come a richiamarne alla coscienza la sua presenza, a volte discreta e umbratile, a volte lacerante, esigendo una risposta soggettiva di senso (o una sua proclamazione di non senso).

Le vicende storiche attuali, acuite dai drammatici eventi bellici, con la sequela di morte e distruzione, ci costringe a confrontarsi con la impietosa realtà della imperfezione umana, richiamando la riflessione sulla necessità di ridefinire più responsabilmente (e realisticamente) il nostro rapporto con la sua intrinseca condizione di “diminution”, espressione cara al pensiero del paleontologo gesuita Teilhard de Chardin.

Dopo tutto, «il nostro rapporto con il dolore (Schmertz) rivela in quale società viviamo»:2 dal contenuto di questa singolare constatazione, si pone in evidenza la modalità con cui l’uomo contemporaneo affronta la condizione della propria fragilità esistenziale, ineludibile compagna di quell’epilogo estremo rappresentato dalla morte. Del resto, in questo contesto, l’uomo, nel suo cammino storico, si costruisce anche grazie alle domande (e alle risposte) che originano dalla sofferenza.

1 M. Scheler, Il dolore, la morte, l’immortalità, LDC, 1983, p. 54.

2 Byung-chul han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, 2021, p. 5.

Il lavoro che qui viene presentato non mira a illustrare il tema del dolore psichico dal punto di vista psicopatologico, per la cui trattazione esistono testi specialistici, ma si prefigge di mettere in evidenza il carattere di irriducibilità della sofferenza, inserendola nel solco di un possibile orizzonte di senso che solo un costante atteggiamento interrogante può mantenere aperto. La sofferenza, così intesa, potrebbe costituire la fonte di una antropopoiesi, ovvero di quel processo straordinario di auto-compimento, dipendente dal costrutto culturale, da cui far scaturire quei valori dei quali si intravede la presenza nella promessa che la vita stessa possiede, sebbene la censura della sofferenza, operata dai prevalenti modelli culturali, non riesca a dissimulare. Nella riflessione riportata in queste pagine sarebbe auspicabile che si cogliesse il profondo rispetto nei confronti di tutti coloro che hanno in corso una sofferenza interiore: in particolare, il pensiero va ai pazienti incontrati e a tutti coloro che, anonimamente, serbano, segretamente, nel loro animo, un particolare motivo di sofferenza, e come tale non visibile, ma non per questo meno lacerante. Ciascuno porta dentro di sé un dolore che non sempre è dato di esprimere, in forza di quel nobilissimo valore rappresentato dal pudore, che, sebbene considerato desueto, non ne impedisce, in ogni caso, la sua lettura e la sua intensità nella timidezza dei gesti, o nelle cangianti e infinite espressioni del volto, accomunate, tuttavia, da uno sfuggente e sottile sguardo melanconico, velato, talora, da disperazione, tanto da poter dire con

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