Anteprima - Inquietudini di Cera

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Autori italiani moderni


DA L L O S T E S S O AU T O R E L’amu leto dell’essere 2008 – sb c edizioni

M artini bias crime 2010 – b o open editore

Favole rac c onti e dintorn i 2011 – eracle edizioni


GAETANO BARRECA I nq u i et u di n i di c e r a AN TE P RI M A GR A TU I TA


© 2011 GAETANO BARRECA Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’editore. Ogni riferimento a luoghi e persone è puramente casuale e frutto di fantasia.

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Supervisione grafica, illustrazione di copertina Marco Rotoli - www.marcorotoli.com

Editing

Miriam Mastrovito e Pia Barletta - strepitesti.blogspot.com

Supporto tecnico Alberto Giorgi


Ad Alberto, che sostiene i miei sogni donandomi razionalitĂ e saggezza. A lui, senza il quale starei ancora cincischiando nei miei pensieri.



INQUIETUDINI DI CERA

Londra, Ottobre 2011

L

’autunno è la stagione che amo di più. Mi soffermo ad alzare lo sguardo e a scrutare tra i rami e le foglie il cielo d’ottobre, ad

ascoltare lo scricchiolio che provoca il mio passo sul manto ingiallito che ricopre il marciapiede. Adoro incamminarmi la mattina presto e percorrere le vie di Angel, il mio quartiere a due passi dalla City dove le porte dai tanti colori si aprono a inizio giornata. Gente che scende qualche scalino sfiorando le ringhiere nere di ferro battuto con la bicicletta al seguito, uomini in giacca e cravatta con lo zaino e il loro caffè d’asporto, bambini in divisa scolastica che corrono sui monopattini. Ambulanti che all’entrata delle Tube Station vendono frutta, fiori e i giornali del mattino. La mia Londra che si sveglia! Eccomi qui nella mia postazione preferita, il Kika Café, un ritrovo filippino a Highbury Corner dove preparano un buon caffè organico. Eccomi qui nel mio giorno di riposo con il mio tablet a riproporre la nuova edizione dell’Amuleto dell’Essere, e a suggellare la mia fase di scrittore esordiente. Osservo dalla grande finestra il bus rosso carminio a due piani, linea 19, quello che ogni mattina rincorro per andare al lavoro. I taxi neri passano e penso alla mia vita, quando nel 2008 Elena mi contattò dopo una separazione lunga dieci anni. Aveva trovato il mio primo romanzo durante le ricerche per la sua tesi in psicologia, una 7


breve controllata su facebook ed eccomi. Il timido ragazzino diciannovenne del primo anno universitario perugino si era trasformato a sua insaputa in uno scrittore. Ci incontrammo a Roma, pochi giorni prima di Natale, e davanti a un tè mi propose di andare a vivere a Londra. Io che mai in vita mia avrei pensato di abbandonare l’Italia. Sorrido, e penso all’avventura fantastica di questi due anni di vita nel Regno Unito. Lasciando la mia città universitaria, ho messo in valigia i miei sogni rimasti a marcire dentro quel cassetto per troppo tempo. La voglia di vivere e di realizzarmi mi aveva reso un folle temerario; decisi di affrontare il viaggio, vendere tutto quello che avevo e partire, pur non riuscendo a formulare una singola frase corretta in inglese. Che sorpresa rendersi conto che Prego si dice You’re welcome su quest’isola. Pensandoci arrossisco della mia ingenuità, e ai trent’anni che mi hanno fatto finalmente capire la strada da percorrere. Londra, il cuore dell’arte e della cultura europea dei nostri tempi, una città da condividere con scrittori e poeti provenienti da tutto il mondo, una metropoli che crea e che distrugge. Inquietudini di cera vissute in un regno in cui persino il caffè si dice regular, dove siamo tutti normali. Chi può comprendere lo faccia, chi non vuole viva nel suo mondo ovattato e consideri l’individualità un equilibrio sopra la follia. Gaetano Barreca the Italian writer from London

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“L’errore è nel sentimento dell’amore o nell’uomo che non vuole comprenderlo? Cos’è che in me non va? Mi struggo, ma non trovo ragione. Forse, i miei desideri sono così ostinatamente puri che non vedono il male nei miei intenti, tanto da non riuscire a trovare la dissonanza con il dono d’amare che Dio mi ha fatto, a comprendere alcuno sbaglio.” Dal diario di Alessandro Martini



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Prefazione

«Matta! Cosa avrai mai da scrivere a quest’ora del mattino?» si starà chiedendo Gilberto, il mio gatto. Faccio la linguaccia e continuo ad annotare su questo quaderno i miei ricordi, osservando incuriosita i frammenti di maiolica blu che un tempo componevano l’Amuleto dell’Essere. Mi domando se questo scarabeo spezzato sia servito veramente a qualcosa. Gli unici due clienti della mia pensione hanno già fatto colazione e sono usciti per fare un giro in città. Due ragazzi inglesi venuti in Puglia per una breve vacanza, appassionati del cibo, del sole e del gesticolare così vivace e buffo tutto italiano. Se non fosse che la mattina devo friggere per loro uova, funghi e bacon, avrebbero tutta la mia benedizione. Che generazione dannata questi ragazzi, sono fantastici, sono il frutto delle nostre ribellioni, delle nostre mode e dei nostri sogni. Eppure questi due topini sorridenti dal color bianco latte e i capelli rossicci, hanno una marcia in più. Sono liberi di essere. Gilberto si stiracchia rizzando il suo pelo tigrato, e si volta dall’altra parte continuando a godere dei raggi del sole che filtrano dalla finestra, sembra voglia dire «Iannarèdde, smettila di guardarmi, lasciami riposare.» Osservo la sua coda dritta e mi incuriosisce il pensiero che un gatto abbia sette vite. Quante ne ha un uomo? Quanti incontri possibili e inimmaginati possono avvenire in un solo frangente, quante cose cambiano nel nostro percorso esistenziale? 11


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Aspetto inutilmente un suo miagolio, eppure a volte vorrei che il mio mangia croccantini a tradimento mi parlasse. Da queste parti non si hanno tanti amici. Mio caro micione, scrivo di Icaro, di quel ragazzo che sul finire degli anni novanta è venuto ospite nel nostro piccolo albergo, cercando un riparo per la notte. Assetato di vita, era scappato dalla sua famiglia adottiva per trovare il coraggio di intraprendere la sua rivoluzione umana. Non puoi non ricordarlo, sembrava un angelo che aveva dimenticato di essere una creatura celeste, e io mi sono sentita una fata buona nel regalargli quelle parole vere che alla fine dicono sempre le stesse cose: «Ascolta te stesso.» Stamattina il postino ha consegnato un pacco, tu dormivi come al solito e non te ne sei accorto. All’interno c’era un cofanetto contenente le lettere di Icaro, scaglie del suo amuleto e un messaggio da parte della dottoressa Cairoli. “Il calore del sole non spaventerà più Icaro. Vivere e cercare di capire il mondo interiore di quel ragazzo sono state per me emozioni uniche. Un rincorrersi di percezioni emotive. La paura di vivere, di soffrire, il rancore, il timore di non capire o forse di comprendere fin troppo bene. Libertà di volare, sfida e coraggio. Il messaggio di queste vite è chiaro. Icaro e Alessandro, è così che mi piace ricordarli, anime atte a vivere le loro passioni e ad ardere di sentimento pur di essere semplicemente vive. Inquietudini che costringono a cercare le loro verità dentro se stessi e poi in giro per il mondo. I Poeti di Cera sono geni incompresi, folli temerari capaci di vedere al di là delle cose. Viaggiatori instancabili che vivendo di passione e sogni lasciano un segno indelebile tra la gente rivoluzionando il mondo. 12


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A te Iannarèdde, che hai dato a Icaro la cera perché costruisse le sue ali, lascio queste memorie. Lui avrebbe voluto così.” Dai, non puoi non ricordare la dottoressa Cairoli, era appena ritornata dall’Inghilterra e accarezzandoti aveva portato con sé dei biscotti allo zenzero e un buon tè, non ti sei staccato un attimo dal suo grembo. Eri in piena pace dei sensi, sembravi in paradiso. Parlammo a lungo di Icaro e di Alessandro, i giovani Montecchi e Capuleti che pagarono con la vita il loro semplice sogno d’esistenza. Penso all’amore, quel sentimento che rincorriamo inutilmente e senza fiato. Rifletto sul tempo che passa inesorabile, sulla mia vecchiaia e sul meraviglioso dono che ho ricevuto incontrando quel ragazzo. C’è un desiderio che vorrei realizzare prima di addormentarmi per sempre. Volare sulle coste meridionali dell’Inghilterra, sedermi sulla spiaggia di Brighton assieme alla presenza di Icaro che ora domina quel paesaggio, ammirare la carcassa ferrea del West Pier dimenticato in mezzo al mare. Nel soffio del vento gelido d’autunno accompagnato dal vociare dei gabbiani, stringere nelle mani questo cofanetto al cospetto dell’oceano. Dove un Icaro speranzoso scriveva al suo amato di esser per la prima volta felice, lontano dalla violenta cultura del massacro individuale. Va bene pelosissimo amico mio, probabilmente sono troppo sentimentale, e sarà per questo che nel paesino pugliese mi chiamano a pàcc’. Matta! Si può essere matti o geni, precorrere i tempi e con ostinazione lottare per i propri diritti, tocca solo scegliere quanto in alto si vuole volare. I poeti di cera sono anime inquiete che scrivono le loro vite lasciando il segno del loro passaggio, squarciando il manto sociale, vivendo lottando con passione. Fedele a me stessa, anch’io nel 13


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mio piccolo ho scritto la storia di ribellione del mio tempo, subendo la malevolenza delle comari di paese. Il divorzio, anche come scampo alle violenze coniugali, era mal visto da Dio: «Meglio morire!» si diceva «piuttosto che vivere di tale vergogna.» Sono sopravvissuta e forse anch’io sono poetessa di cera. Una donna che non ha mai avuto bisogno di dimostrare nulla se non la propria intelligenza. Non pensi micione mio? Dormi, gli inglesini non torneranno prima di stasera, sei proprio un insopportabile pigrone.

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Da Icaro, per Toshi Lettere universitarie

Perugia 12 e 13 settembre 1999, cielo stellato. «Posso chiamarti?» quel semplice messaggio mi ha cambiato la vita. È notte, abbiamo appena finito di parlare. La batteria del telefonino ha posto fine alla magia che ci univa con i suoi dolorosi e sterili bip bip, che ci hanno riportato alla realtà. Già, dopo un anno di silenzi, per alcuni minuti siamo entrati in una dimensione sospesa, tutta nostra, umana e vera, in cui ci siamo capiti. E ora, nel silenzio della notte, scrivendoti, lascio che le cose addormentate nel mio inconscio escano gentilmente fuori affinché mi accompagnino in questa lunga lettera che mi appresto a scrivere. La notte che mi attende sarà lunga, può generare mostri ma è anche in grado di portare consiglio, spegnendo la confusione del mondo esterno e illuminando quello interno, aiutandoci a far chiarezza dentro noi stessi, per portarci sulla via dei ricordi e comprendere quanto siamo stati in grado di costruire e distruggere fin qui, fino a questo momento 15


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della vita in cui l’inchiostro della penna lascia il suo segno indelebile su queste pagine che ti raggiungeranno. Fuori fa freddo, ma un pensiero di felicità riscalda le mie speranze. Così, al lume della ragione e col cuore in mano, colgo l’occasione per raccontarti il mio percorso d’essere umano, le verità sulla mia vita che fino a questo momento ti ho negato, l’adozione e le sue conseguenze, perché non mi sarebbe piaciuto esser compatito, volevo solo essere amato. Perdonerai errori di forma o di grammatica, la lingua che uso per esprimermi è tanto, troppo vicina a quella parlata. Non faccio della mia scrittura una questione di stile, io racconto, non decoro le storie. Da questa telefonata, inaspettata, ho compreso che siamo veramente specchi; messi uno di fronte all’altro, questi mostrano simili speranze e sogni comuni ma ancor di più somiglianti ombre del passato. Da quando ci siamo lasciati ti ho mostrato rabbia e risentimento, ho finto interessamento, ma tu hai avuto pazienza, sempre. Hai atteso il vero Icaro, quello che hai amato, lasciando che io mi sfogassi, anche se in tutto quello che stava accadendo intorno e dentro di me tu non c’entravi niente. Grazie! Adesso, mi farebbe piacere che tu mi dessi ascolto.

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Almeno essere umano Le ragioni del Minotauro

Era il 1985, quasi Natale, in tivù trasmettevano il film animato Peter Pan e l’isola che non c’è. Avevo dieci anni e ricordo che in quell’atmosfera di festa, in quel tepore familiare, col fuoco acceso, sdraiato sul divano al calduccio sotto il mio piccolo plaid, con le luci dell’albero che armoniosamente e a intermittenza illuminavano il mio volto, sognante mi affezionai a Peter. Quel bambino capace di far volare Wendy e i suoi fratelli lontano dalla loro triste realtà, facendogli vivere fantastiche avventure ed emozioni. Crescendo, senza mai dover diventare adulti. Neverland, un luogo dov’è importante essere se stessi e non conformarsi alle regole della società. Un luogo dove non devi vergognarti di avere sogni e speranze diverse dagli altri, dove l’unicità è la base di tutto. Tutto era magico in quel periodo, anch’io volevo condividere un amore magico e speciale, avere accanto una persona con cui crescere e vivere la favola di quegli anni. Fu da quel momento che cominciai a innamorarmi della gente solo perché proiezione nella realtà di qual17


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che modello della mia fantasia. Lì iniziarono anche i miei guai. Nel settembre ’86 iniziai la prima media e dopo tre giorni PAM! Vidi un ragazzo della terza che assomigliava a Peter. Fabio, un tipo tranquillo ma un po’ strafottente. Con l’ingenuità di un bimbo che vive le prime emozioni, i primi sussulti del cuore, scrissi qualche messaggio e un biglietto d’amore per lui. Ricordo che aspettandolo al cancello all’uscita da scuola, prima di consegnargli il mio messaggio, strinsi quel foglietto forte al cuore, inspirando profondamente. Così, come se fosse normale, senza immaginarne le conseguenze. Mentre allungavo le braccia per consegnare alle sue mani quella lettera che tanto mi faceva arrossire ma che dava speranza a un futuro felice, Fabio s’irrigidì e sul suo volto percepii paura mista a stupore. In quel momento non compresi. Lo capii dopo, quando i miei sentimenti vennero sbandierati ai quattro venti. Quando la gente, con non molto tatto, mise al volto pulito di un bambino d’undici anni, fatto d’ingenuità, fantasia e sogni una maschera contrapposta, fatta di spietata realtà, sesso e pregiudizi, sporca dei peccati degli adulti. In poco tempo, di bocca in bocca venne fuori il primo ricchione, poi frocio, detti a volte con cattiveria, altre con un’urtante naturalezza. Ancora oggi non riesco a dimenticare l’accanimento e la cattiveria di quei compagni e di alcuni loro genitori. Nessuno si curò mai del disagio e dell’imbarazzo che provavo. Stavo male, non capivo il motivo per il quale mi deridevano. Comprendevo che non era normale amare un altro uomo, però, il mio amore era innocuo e pulito, era puro, era mio. Cosa importava alla gente? Così, per anni e anni fui il ricchione, il frocio della situazione da prendere in giro quasi con familiare simpatia. E siccome non ero il ragazzino che gioca a calcio, che tocca le compagne, che dice parolacce, mi vedevano come un essere sbagliato. Sommavano questo punto di vista al mio amore diverso ed ecco che 18


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ero additato, come nel film Mery per Sempre1, ma questo non era un film, era la mia vita. Ero così divenuto un piccolo mostro, dal quale tutti dovevano allontanarsi perché avrei potuto deviare le loro menti o ancor peggio quelle dei loro figli, ingenui e impauriti di fronte alle brutture del mondo. Forse io non lo ero? Nel corso degli anni, poi, delle persone veramente cattive, arrivarono a trattarmi come un malato e pronunciavano spesso discorsi di conversione allo scopo di riportarmi sulla retta via. Benché credessi in Dio (ci credo tuttora), fu allora che mi allontanai dalla Chiesa, lasciai il mio vestito da chierichetto per indossare quello da demone che la gente mi aveva cucito sulla carne. Gesù Cristo mi è testimone delle sofferenze patite, ero solo, vittima del pregiudizio e dell’ignoranza. Iniziai allora, pian piano ad allontanarmi dalla realtà. Puoi immaginare le risatine, le occhiatine, le battutine, gli scherzetti diventati il pane quotidiano e che a me arrivavano sotto forma di pugnali, così, gratuitamente. Eppure delle ragazze ero amico. Ci capivamo. Stavo bene con loro. Mi piacevano perché erano gentili ed educate. Non avevo bisogno della fidanzatina o di vantarmi d’avventure mai avute, o di dire «figa qua, figa là!». Ero educato, studioso e questo mi mise in buona luce con i professori e a casa. Ero contento. Almeno facevo il mio dovere, no? Andando alle scuole superiori, e cambiando aria e compagni, pensavo che l’incubo sarebbe terminato, invece, eccoti qualcuno che deve comunque torturarti come se vivessimo nel medioevo. Mi sentivo piccolo, sbagliato, impotente, condannato. Pur 1. Mery per Sempre è un film del 1989 diretto dal regista Marco Risi, ambientato a

Palermo e basato sull’omonimo romanzo di Aurelio Grimaldi. Il titolo prende spunto dalla storia di uno di questi ragazzi, un transessuale che si fa chiamare Mery, e che un giorno viene arrestato per il tentato omicidio di un cliente mentre si prostituisce. Il film ha avuto anche un seguito in Ragazzi fuori del 1990, diretto ancora una volta da Marco Risi. 19


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continuando a credere nel mio sogno d’amore cominciai a sentirmi diverso. Ero anch’io un ragazzo, ma perché non ero come gli altri? Stavo bene con me stesso, però ero diverso agli occhi altrui. Non capivo, e ciò mi faceva paura. Donne e uomini erano così amici e nemici per me. Per me erano tutti semplicemente persone, ma crescendo compresi che il sesso imponeva differenze. Al contrario, io mi sentivo neutrale, poiché vivevo semplicemente di sentimenti. Non capivo perché la gente vedesse come scritto nella mia fronte frocio. Avevo l’orribile sensazione che chiunque, anche gli sconosciuti, potessero cogliere i miei timori, ed entrare nel mio mondo interiore (già fragile) calpestandolo di proposito. In questo, forse, non ero uomo. Non ero abbastanza duro da nascondere, con naturalezza, paure e speranze. Non ero in grado di ostentare un coraggio che non avevo, ero solo una piccola pecorella impaurita e smarrita, che non aveva potuto trovare il suo pastore poiché chi era stato designato a sorvegliare il pascolo era vittima di una bigotta cecità interiore. Anche se seguita dal cielo, questa pecorella fu abbandonata a se stessa, senza una guida in terra. E quale fossa dei leoni migliore della visita militare2, per scontrarsi con i lati peggiori dei cosiddetti maschi? Nelle caserme c’è il peggio dell’uomo rozzo, represso, insensibile, fanfarone. Lì mi sono reso conto che se essere uomo significa essere come loro, allora no grazie, seguo il mio percorso d’essere umano. Nessun uomo mi ha mai dato un buon esempio da seguire per costruire la mia identità sessuale. 2. In Italia, la leva obbligatoria è arrivata la prima volta ai tempi di Napoleone ed è poi stata in vigore dall’inizio del Regno d’Italia (1861) per 144 anni. La leva è stata sospesa a partire dal 1º gennaio 2005 con la legge Martino. Si era chiamati alla visita medica di leva al compimento dei 18 anni (circa) e se dichiarati idonei si svolgeva servizio obbligatorio in marina, esercito o aeronautica solitamente con incarichi di bassa responsabilità (servizi) o incarichi di servizio nei corpi di combattimento (ad esempio fuciliere); solitamente dalla visita all’arruolamento passava al massimo un anno.

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~ Mio padre adottivo fa l’esperto, il saccente, fa la voce grossa, ma è vuoto! Mio padre genetico è morto, si dice fosse cattivo. Tentò di accoltellare mia madre appena venne a sapere che era incinta di me. Mia madre adottiva è severa e strafottente, a volte acida, ma nasconde debolezze e fallimenti. Mia madre genetica è viva, l’ho incontrata una sola volta, come più avanti ti spiegherò, mi ha dato l’impressione di essersi incattivita a causa delle sfortune patite nella vita. Mi vengono i brividi se penso che sotto sotto questa famiglia è una continuazione della prima. Già, perché per quanto possa sembrare irrazionale, io del passato dei miei genitori adottivi conosco poco o nulla. Si odiano tra loro, ma si sopportano allo stesso tempo. Sia sulla mia adozione, che sul loro rapporto hanno nascosto e deformato un sacco di storie. Non hanno vita sociale, non ridono mai. Diffidano di tutti. Si alleano contro il loro unico figlio durante le guerre. Ho perso le speranze di cambiarli, non spreco più le mie energie. Loro, per contro, dicono che io mi rinchiudo nel mio mondo e non racconto mai nulla di me, che tutto quello che traspare è l’immagine di un ragazzo bugiardo e spendaccione (vedi voce esami, viaggi etc.). Non posso negare l’evidenza dei fatti, io sono così! Come posso cambiare davanti a questi due vecchietti che non fanno mai nulla per godersi la vita nelle sue forme più belle? Se propongo qualcosa di diverso respingono, criticano e deridono. E allora vaffanculo! Sto bene con me stesso e non certo per le cose che mi hanno dato loro, ma ciò che ho voluto trovare e conquistare fuori e dentro di me. Insomma, alla fine della fiera c’è un quadro triste, per me che a ventiquattro anni ho voglia di conquistare il mondo. Invece vivo con i nonnetti e mi viene una rabbia, mista a malinconia, nell’osservarli buttati sul divano a guardare La Signora in Giallo o La Ruota della 21


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Fortuna. Al contempo, non voglio più essere arrabbiato con loro, questa è la loro felicità, il loro bizzarro equilibrio. I miei sbalzi d’umore, i miei scudi vengono innalzati perché voglio essere lasciato in pace e quando succhi soldi non è facile, prima o poi te lo fanno presente e così il conflitto irrisolto ricomincia. Tra i miei genitori non c’è più amore, mi chiedo se ce ne sia mai stato. Forse mi hanno adottato proprio per questo, per cercar di rinvigorire il loro rapporto. Non voglio sembrarti irriconoscente nei loro riguardi, ma non ho mai visto affettuosità o complicità in loro, mai! Eppure ho sempre avvertito una differenza caratteriale e genetica tra me e loro, come un sesto senso che mi guidava verso conoscenze già insite in me, ma criptate. Facevo un sogno ricorrente in passato, sembrava volermi comunicare qualcosa che non potevo sapere, ma di cui ero in un certo senso conscio: l’adozione appunto. Sognavo spesso di essere in compagnia di Trilli, la fatina amica di Peter Pan. Sorvolavamo insieme una terra in cui la grande ricchezza e lo spazio interminabile si estendevano come un’ossessione. Un deserto verde di quiete, che provocava un’incredibile gioia al nostro animo quando incrociavamo con lo sguardo le alte e bianche mura di un castello di pianta ottagonale, circondato da una distesa di pini. Era Castel del Monte3. Entrando in quel luogo medievale, antico e misterioso, dove a ognuno degli otto angoli si innalzava una torre, ci accorgevamo che quel maniero con la sua maestosità dominava un paesaggio vasto che arriva fino al lago Gargano. Lì, in lontananza, notavo un bagliore che mi faceva sempre sussultare il cuore. Così con 3. Castel del Monte è un edificio del XIII secolo costruito dall’imperatore Federico II in Puglia, È situato su una collina della catena delle Murge occidentali a 540 metri sul mare, nell’elenco dei monumenti nazionali italiani dal 1936 e in quello dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO dal 1996.

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Trilli, lasciando quel posto, volavamo in un paesino arroccato su un monte dalle bianche case. Sorvolando una strada un po’ malandata, atterravamo davanti alla porta di un’abitazione. La fatina brillava di luce propria fino a scomparire, illuminando il numero di quella casa, il civico 4. Poi la grande porta si apriva e dietro questa c’era mia madre. La mia vera madre. L’abitazione era vuota, c’era lei, avvolta in un abito colorato a fiori con un nastro rosa tra i capelli, con gli occhi lucidi e quasi sorridente, che dolcemente accarezzava il mio viso. Era tutto così calmo e silenzioso. In quelle notti, cercavo di cogliere delle sensazioni, mi sembrava di avvertire l’odore del balsamo dei suoi lunghi capelli neri, il calore delle sue mani. Stavo bene, mi sentivo protetto. Poi, d’un tratto, la sentivo strillare in lacrime e i miei occhi osservavano impauriti il suo volto allontanarsi, fino a scomparire dietro la grande porta, mentre venivo trascinato via, a forza, da due uomini sconosciuti vestiti di nero. In modo insistente e assordante, la moka sul fuoco fischiava per avvertire che il caffè era pronto. Ricordo che, dimenandomi, urlavo a squarciagola: «mamma, mammina», ma dalla mia bocca non usciva alcun suono. Tutto così bastardamente improvviso. L’unica sensazione che percepivo era un gran senso d’impotenza e quando mi svegliavo di soprassalto, sudato e impaurito nel mio letto, razionalizzando che quello era solo un sogno, iniziavo a piangere a dirotto. Ero un bimbo, eppure all’età di venti anni compresi che quel sogno mi rimandava a una realtà di tanti anni prima, a un’età che poteva essere quella dei quattro/cinque anni, dimenticata. Perché il trauma subito era stato così forte, che la mia psiche per autodifendersi aveva cancellato dalla mia mente quei ricordi. 23


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Adozione, l’innocente colpa d’esistere

Come ingenua fu la mia infanzia e parte della mia adolescenza, così lo fu la scoperta dell’adozione. Nell’estate del 1996, due anni e mezzo prima che le nostre strade s’incontrassero, in treno conobbi una signora che era stata in Germania per lavoro. Diceva di essere una cartomante. La cosa m’intrigava, così durante il viaggio, per gioco, incominciai a farle qualche domanda sulla mia vita. Rimasi affascinato dall’interpretazione che dava e associava a ognuna delle sue carte. Non potevo immaginare, però, che non quei tarocchi, ma una semplice domanda, da lì a poco avrebbe caratterizzato il mio futuro. Le chiesi come mai avessi due cognomi. A questa domanda, rispose semplicemente che avrei dovuto chiederlo ai miei genitori. Così, alla fine di quel viaggio che concludeva il mio secondo anno da studente universitario a Perugia, una volta giunto a quella che ritenevo la mia casa, ebbi la risposta. Le valigie stavano ancora all’ingresso, mentre mia madre, in soggiorno, prendendo dei documenti da un cassetto del grande mobile in noce, rivelava tranquillamente la verità sul mio affidamento, con estrema semplicità, quasi come se non le importasse nulla di ciò che stava facendo o dicendo. Anzi, ebbi come l’impressione che si stesse finalmente togliendo un gran peso dal cuore. Mentre ti scrivo, mi rendo conto di come in modo assurdo quelle valigie rimaste all’ingresso durante la rivelazione della mia adozione, rappresentassero quasi l’allegoria degli anni vissuti in quella casa; l’amara consapevolezza di essere un ospite, a tratti indesiderato. Inizialmente presi la rivelazione con calma, stranamente con calma. Finché, portato il bagaglio in camera, sdraiato sul letto con gli occhi sbarrati incominciai a fare un viaggio nei miei ricordi. Lì incominciò la mia agitazione. Mi sentivo stordito, ma comunque felice di avere la conferma di quel qualcosa che il mio inconscio in pratica già sapeva, di non essere loro figlio e quindi di non aver nulla di gene24


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tico in comune con i miei adottivi. Perciò potevo staccarmi da quelle che erano solo le loro influenze psicologiche. E, poiché non conoscevo i miei veri genitori, qualunque cosa buona o cattiva dipendesse dal loro patrimonio genetico non lo avrei mai saputo e di conseguenza non mi avrebbe influenzato emotivamente. Avevo ormai intrapreso il mio percorso di essere umano, avevo creato la mia identità a mie spese e raggiunto la consapevolezza di essere me stesso. Eppure, alla mia vita mancava qualche tassello. Il giorno dopo la scoperta decisi di andare nel luogo che mi aveva visto nascere - le Murge - zona dell’entroterra pugliese. Da quel giorno compresi un po’ come ragiona certa gente. Tutti, dalle persone comuni ai negozianti, dalla zia al vicino di casa, mostrarono falsità, finta commozione e chissà quali altri pensieri e sentimenti celati nella testa. Io andavo in pace, per respirare qualcosa di mio, seppur appartenente a una dimensione remota e rimossa. Era davvero come tornare sulla scena di un antico flash-back, perché il paesello sembrava immerso in un’atmosfera irreale, antica, lontana dal presente. Mi sentivo un intruso venuto ad ascoltare battute già dette. A ogni modo dovevo recitare anch’io la mia parte, anche se non facevo più parte della trama. Quello non era più il mio film, ero uscito dalla scena, come comparsa, già venti anni prima. Non avevo un programma, agivo d’istinto: volevo solo parlare con quello che era rimasto della mia famiglia e poi andar via per tornar nel presente, nella mia pellicola. Chissà perché tutti mi guardavano come se fossi stato un alieno, incuriositi e impauriti allo stesso tempo. Mi temevano. Ognuno raccontò cose diverse, non sempre congruenti con la mia storia. La cosa che mi colpì di più, per quanto fosse grottesca è che, sebbene io fossi piombato improvvisamente lì, tutti i personaggi sembravano d’accordo nel dire certe cose piuttosto che altre, in pratica tutti sapevano cosa dire, senza sbavature… chissà, forse era davvero un film. In ogni caso, nessuno mi disse: 25


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«Icaro, come stai? Come ti senti? Cosa ne pensi? Come vivi nel tuo nuovo mondo?» Io poi non feci domande, ma loro sicuramente avevano le risposte. Bizzarro, tutto bizzarro! Dovevi esserci, sembravano tante bambole all’ora del tè. Per me quelle furono ore significative, giacché tutto il senso della mia esistenza sembrava trasparire da lì, ore dilatate e velocissime allo stesso tempo. Forse gli altri si sorpresero della mia calma. Forse si aspettavano un ragazzo isterico o instabile, in vena di vendetta o di chissà che. Sapevo che tutti stavano recitando, però speravo che cogliessero le mie emozioni, perché io tentavo di cogliere le loro.

La mia vera famiglia Mio fratello e mia madre genetici vivono in condizioni misere. Le mie altre due sorelle sono state adottate. Una da un riccone militare di Milano e l’altra da un mercante di un altro paese delle Murge. Entrambe non vogliono saperne nulla di me e del nostro passato. Delle due ho incontrato solo la seconda. Mi feci trovare sotto il balcone della sua abitazione, le dissi: «Sono tuo fratello!», come se fossi il postino che quotidianamente passava di lì per consegnare le lettere. Mi diede una risposta, che forse avrei dato anch’io con la stessa fermezza: «Mi hanno già sconvolta in passato e non ho intenzione di farmi del male di nuovo, così». Nonostante tutto, mi fece salire in casa per offrirmi un caffè e una merendina, di cui conservo ancora l’incarto, come ricordo, l’unico di mia sorella. La somiglianza tra noi due era evidente, le raccontai della mia nuova vita e di com’ero, in un certo senso, alla ricerca di me stesso. Le rivelai che avevo già incontrato nostro fratello, ma che non sapevo che questi avesse ricevuto l’ordine di non disturbarla. 26


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Forse ora lei pensa che io e lui siamo uguali, forse no, comunque sono sicuro di averla turbata, me ne dispiace,. Spero abbia compreso che non era mia intenzione. Fortunatamente quella mattina lei era sola in casa. Sennò immagina che casini sarebbero venuti fuori con i suoi adottivi. Purtroppo, a malincuore, ho poi costatato che mio fratello e mia madre genetica sono falsi, maligni… probabilmente perché terribilmente sfortunati. Ricordo che offrii aiuto a lui, invitandolo a casa e condividendo i miei spazi. Voleva arrivare solo ad assumere il mio posto, facendosi benvolere e mettendomi a disagio ostentando i suoi interessi che agli occhi di mio padre volevano essere del figlio ideale. Quando ho percepito questo atteggiamento, ho tagliato ogni contatto. Posso provare a capirlo, però mi dispiace che non si sia sforzato di coltivare un possibile affetto tra noi due. Mio fratello ha tre anni più di me, mi somiglia nell’aspetto e in certi atteggiamenti, tanto che rabbrividivo nel vedermi rispecchiato in lui. Però è cattivo e ambiguo. Cosa peggiore, ha avuto problemi con i carabinieri, se si parlava di loro o li vedevamo, lui s’innervosiva. Forse avrebbe voluto raccontarmi la sua vita, ma probabilmente la paura o la vergogna non gliel’hanno permesso e questo mi è molto dispiaciuto. Gli ho offerto il mio cuore ma lui ha visto solo i soldi e magari lui, più di altri, mi vedeva ricco e viziato. Che amarezza… che ricordo! Al di là di ciò, quando li incontrai la prima volta, lui e mia madre genetica si scusavano in continuazione per le condizioni misere in cui vivevano e insistevano a giustificarsi per la mia adozione. Spiegazioni che non volevo, perché già me l’immaginavo, tantomeno pretendevo affetto, avevo fatto un tuffo nel mio passato per cercare un dialogo, seppur breve… un dialogo tra esseri umani. Quello che ho avvertito però, è stato un gran senso di disagio e per degli attimi lunghi una vita, quella vita mancata, ci siamo capiti. 27


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Mentre mi aggiravo in quelle stanze cadenti e respiravo odori antichi di muffa e di paese, guardavo le foto dei miei genitori da giovani, i quaderni di mio fratello con una grafia che anch’io avevo alle elementari e mi proiettavo a mia volta in un altro film, ancora più remoto, sentendo scivolare sulla pelle la differenza abissale che c’era tra il mio mondo e il loro. Mio fratello venne ospite a casa mia per qualche giorno. Settimane dopo compresi che era meglio allontanarlo del tutto, come ti accennavo prima. In questo mi hanno aiutato due miei amici, Claudia e Roberto, che rientrano nella specie più falsa di amici che si possa incontrare, ma ciò l’ho capito molto più tardi. Intanto in quell’anno, il 1996, eravamo legatissimi, perciò decisi di raccontare loro tutte le mie preoccupazioni e mi diedero ragione. Così furono loro ad affrontare mio fratello, gli dissero chiaramente che si stava approfittando di me, stranamente lui capì l’antifona e se ne andò. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Ringraziai lei, e ricordo ancora la soddisfazione che le si leggeva in volto quando disse: «Figurati, per gli amici questo e altro». Lo disse come una pettegola agguerrita che aveva avuto la meglio sulle amiche. Poi successero delle brutte cose che mi allontanarono, soprattutto da Roberto. Per quanto riguarda i miei genitori adottivi, per tutta la durata dell’esperienza, non hanno fatto altro che darmi contro, alleandosi come solo loro sanno fare, quando il resto del tempo si ucciderebbero. Tentai di dir loro che era tutto sotto controllo e che non avevo intenzione di combinar guai, ma… un po’ perché non mi sono saputo spiegare, un po’ perché loro sono tonti, sono venute fuori solo liti. E che tu ci creda o meno è da quel momento che decisi che era inutile comunicare con loro, mi avevano rotto le palle. Ancor oggi non abbiamo dialogo, considerando che io i miei segnali li ho inviati, ma loro non hanno fatto altro che ignorarli o distruggerli. Quindi, puoi 28


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ben dedurre che scoprire di quest’adozione mi ha chiarito i dubbi che, più o meno, direttamente avevo su me e il mio mondo circostante. Sono deluso da come mi sono state nascoste tante cose, o meglio, da come siano state deformate, come se io fossi stato stupido per capirle. Ecco perché mi sentivo l’ultima ruota del carro, ecco perché quel senso d’impotenza, d’inferiorità, di estraneità. Proprio perché non ho basi affettive, d’identità e di luogo precise, definite. Mani e visi sconosciuti mi hanno spostato di qua e là e in me tutto si è mischiato senza forma. Ora che lo so, posso convivere e attenuare il mio senso di vuoto. Anche se non so tante cose e non le saprò mai… adesso sento d’aver l’animo in pace, senz’altro più in pace. Bene il sonno mi vince, sono le 4:30! Continuo domattina, tanto ormai il fiume di parole chi lo argina più? Buonanotte.

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Mamma, la vita mi ha insegnato molto più di quanto tu abbia potuto fare! Londra, 17 maggio 2010

Mamma, sono diventato egoista. La mia continua insoddisfazione mi ha trasformato. Mi ha fatto iniziare a viaggiare lontano, sempre più lontano. Prima Perugia, poi Londra e ora penso già all’America. Sto bene con me stesso mamma, tanto! Mi volto indietro, e mi accorgo che in questi ultimi dodici anni sono stato solo. Era ovvio che non avreste potuto aiutarmi a realizzare i miei sogni, ma sono arrabbiato perché me lo avete proibito. Mamma, ti voglio bene, ma la vita mi ha insegnato molto più di quanto tu abbia potuto fare. Mi hai trasmesso valori autentici, importanti, ma non sufficienti per vivere. La speranza non è nel futuro, son cresciuto ripetendomi: «Un giorno sarò felice», ma il tempo passava e il dunque non arrivava. L’umiltà a poco serve se rinunci all’ambizione, ti rende un fallito.

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E il male mamma? Il male va affrontato, non allontanato. Non possiamo tenere le persone che amiamo lontano dal male, ma possiamo aiutarle ad affrontarlo, stando loro vicino. Nella vita gli errori vanno commessi, per poter dire: «Ci ho provato», per poter capire se quella che stavo percorrendo era la strada giusta da seguire. Dietro a uno sbaglio si possono aprire altre porte. Siamo tutti alla ricerca di noi stessi, siamo tutti diversi, unici, speciali. La mia più grande colpa è stata quella di non osare, la mia paura di essere solo. Me lo ricordavi sempre e ciò mi faceva sentire impotente, sbagliato. Nessuno avrebbe potuto rimediare ai miei guai, prendersi cura di me, ma così facendo sono divenuto schiavo della vita, del lavoro, dell’amore per paura! Questa non è vita. Quando a trent’anni decisi di smettere di sopravvivere, tu eri la mia confidente mamma, ma eri così amorevolmente preoccupata del tuo figlio lontano che non mi hai mai dato una parola di conforto, ritenendo i miei desideri folli. Non volendo, mi hai sempre ostacolato e io sono dovuto partire per mete sempre più lontane, pur di non ascoltarti. Non possiamo sempre adeguarci mamma, questo non è vivere. Tu e papà mi volevate architetto, mentre io volevo diventare illustratore. Non mi hai mai incoraggiato. Le tue parole erano: «Siamo poveri, quella è una strada che possono percorrere solo le persone che hanno i soldi, e poi ci sarà sempre qualcuno più bravo di te pronto a fregarti il posto.» Lo ricordo quel discorso, avevo diciott’anni ed eravamo nella tua camera da letto. Nemmeno un mese dopo sono andato a studiare lontano da casa e mi sono sentito finalmente libero. Mi hai educato all’amore come prova di sacrificio e dedizione alla persona che ti sta accanto. Ho provato questo sentimento. Questo è un sentimento puro mamma, bellissimo, ma ti sei scordata di insegnarmi che l’amore e il 130


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rispetto per se stessi rimangono i valori più importanti. E io mi ero perso. Non trovando quello che cercavo son partito ancora una volta, verso l’Inghilterra. Qui, alla soglia dei miei trent’anni, mi sto educando a osservare la vita, ma la cosa più difficile è imparare a perdonarmi. È difficile mamma, tu ti sei mai perdonata? Non ho nulla da rimproverarti, perché per me sei speciale, ma ti sei sempre dimenticata di volerti bene e questo mi ha sempre fatto tanta rabbia, mi ha reso un figlio infelice. Forse è questo che non ti ho mai perdonato, forse è questo il motivo dei miei sbalzi d’umore con te. Tante volte ti ho fatto capire che per essere felici bisogna fare delle scelte, affrontare la vita e non adeguarsi agli eventi e alle circostanze. La vita nasconde a volte tanta magia, non è solo sacrificio. Siamo simili mamma, tanto simili da farmi paura. Io non voglio essere come te, voglio sbagliare, voglio sognare. Detesto il pensiero che la mia felicità sia determinata da un’altra persona. Se non amo me stesso chi potrebbe amarmi? Chissà che figlio volevi mamma. Tu e papà eravate così felici quando sono nato, me lo raccontavi sempre per farmi sentire amato. Papà, quando seppe che ero un maschietto, andò al bar del quartiere e offrì da bere a tutti. Mi volevate così tanto bene che vi siete dimenticati di prendervi cura di me, tanto che sono cresciuto per strada, perché la strada era meno pericolosa dei parenti di papà. Voglio fare cazzate, voglio ridere, voglio amare, voglio avere tanti amici e sognare, mamma, sognare tanto. Tu non hai mai visto il mondo e non hai idea di quanta bella gente si incontri viaggiando. Fino a oggi non sono riuscito a prendermi cura di me e del mio sogno perché troppo sottomesso alla paura di non esserne capace, dall’ansia di star perdendo tempo. O forse, perché il bambino dentro me voleva che 131


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fossi tu a prenderti cura di lui, a dargli il permesso di sognare. Sentirmi autorizzato a essere felice. È orribile. Adesso voglio imparare a fare tante cose, come ora, a fare il nodo alla cravatta, da un papà virtuale e presente trovato su Youtube. Voglio anche sedermi alla scrivania e iniziare a disegnare, piano piano. Tratto dopo tratto. Senza che nessuno mi picchi o molesti i miei desideri. Ho un dono mamma, un dono che non avete mai compreso. Tuo figlio non era diverso bensì speciale, e questo ancora non l’hai capito. Ho perdonato la vita, perché mi ha reso quello che sono oggi. Mi piace il modo in cui sto diventando uomo. Perché le brutture del passato mi hanno reso una persona sensibile, capace di vedere e percepire cose che inizio ad apprezzare. Sono diventato uno scrittore, ma tu non te ne sei mai accorta e a volte sembra che te ne vergogni. Essere scrittore non è un lavoro, è Essere. Chissà, magari ho iniziato a scrivere proprio perché avevo bisogno di essere ascoltato. Avevo bisogno di scrivere, di sfogarmi un po’, di riflettere. Chissà che starai facendo ora? È una settimana che non ti sento. A Londra sono le ventuno, in Italia le ventidue e tu starai finendo di lavare i piatti prima di andare a letto e ringraziare Dio che anche questa giornata sia finita. Avrò riversato tutti i miei sentimenti in modo confuso su questo foglio, pieno di errori, come sempre. Li accumulo perché mi portino a riflettere. Ed ecco che, scrivendo, ho compreso che ho una cosa importante da fare, da imparare, affidarmi alla vita facendone parte. Non è facile, ma sarà il mio nuovo obiettivo, per costruire un me stesso lontano dai tuoi insegnamenti, dalle costrizioni della società. Un qualcosa che va al di là di tutto. È difficile ascoltarsi mamma, a me fa paura. Ma voglio farlo perché merito tanto. Perché voglio iniziare a prendermi cura di me stesso. Ho ricevuto una grande lezione di vita, ho compreso che quello 132


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che siamo dipende sempre dalle scelte che facciamo. E io, abbandonando il demone della paura chiamato fallimento sento d’aver fatto la scelta giusta. Se non proviamo, se non osiamo come possiamo dare occasione alla vita di renderci felici? Tuo figlio Alessandro

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Dad e Daddy, L’emozione del giorno che verrà Londra, 18 Agosto 2010

Quando ci conosceremo avrai già avuto un nome. Chissà che bel nome! E tu come sarai, chissà dietro quel nome che bimbo monello si nasconderà? Provo tanta emozione al pensiero del giorno che verrà. Già immagino la timidezza dei primi momenti assieme, ma ti abituerai presto, bimbo mio, perché sarà l’amore ad accompagnare il nostro viaggio. Penso a quando passeggeremo nei parchi, e il solo pensiero mi riempie il cuore di gioia infinita. E le tue prime cotte, che emozione! Non ti nasconderò mai la tua adozione, essere stati adottati non è una vergogna, sei stato un figlio voluto, Dio ti ha messo al mondo perché tu sia felice. Sarai un figlio speciale, amato. Perché non tutti hanno due padri. Per te, saremo Dad e Daddy. Daddy sarà un bravo papà, te lo prometto. Te lo prometto perché sarò io a scegliere la persona con cui 135


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condividerò l’amore per te, per la nostra famiglia. Avremo tanto da insegnarti, ti educheremo all’importanza dell’amore per se stessi e per il prossimo. Alla responsabilità di prendersi cura dei propri sogni. Ti educherò al concetto sensato di rispetto, che non è sinonimo di sottomissione ma di accettazione di un pensiero diverso dal nostro. Ti racconterò la storia della mia vita e quella di Daddy, della nostra infanzia, di quando ci siamo incontrati la prima volta. Non ti farò crescere in Italia, perché il paese in cui Dad è cresciuto, per quanto meraviglioso possa essere, non ha compreso che l’individualità è la fonte più pura dell’autoespressione. Non sarai un figlio infelice ma completo! Torneremo in Italia per le vacanze, perché l’Italia è un paese magnifico, ricco di storia e di cultura, che voglio tu conosca. Perché è un paese che Dad ama. Ci saranno i tuoi nonni ad accoglierti, che non si vergogneranno di te bimbo mio, non lo faranno mai, combatteranno il loro pregiudizio e il parere della gente appena vedranno il tuo dolce visetto. Appena capiranno che bimbo monello e pieno di vita sei. Perché conosco il cuore di tua nonna e l’amore di una madre è grande, tanto! E al sol pensiero di ciò mi vengono le lacrime agli occhi. Vi immagino seduti a giocare insieme, o ancora immagino te mentre dormi sul lettone dei nonni mentre io e mia madre beviamo un caffè parlando in cucina. E tu nel dormiveglia ascolterai le nostre voci che daranno tranquillità ai tuoi sogni, così come accadeva a me quando ero bambino, in quel tepore familiare, prima di abbandonare la mia famiglia e iniziare il mio percorso di crescita lontano dalla mia terra. Avrai tanti compagni con cui giocare, non sarai un bimbo solo perché per Dad la famiglia e gli amici, il vivere in società sono importanti. Ti insegnerò che confrontarsi con gli altri non vuol dire essere come gli altri e che essere cocciuti, fermi sulle proprie idee, non porta mai nulla di costruttivo. Ti insegnerò che ammettere i propri sbagli, 136


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cambiare idea è sintomo di grande intelligenza. Solo gli stolti non cambiano mai parere. Ti permetterò di fare tanti errori, accetterò ogni tuo sbaglio perché Dad ha compreso che sbagliare è importante per crescere. Soffrire è importante per diventare belle persone e io voglio che tu lo sia. Volersi bene, rispettarsi, ascoltarsi, lottare per i propri ideali è importante. Ti insegnerò tanto bimbo mio, perché quando sarai grande voglio che tu sia in grado di essere uomo, ma molte di queste cose saranno sentimenti ed emozioni che maturerai dalle tue esperienze personali, dalla tua crescita individuale. Sicuramente cresceremo insieme, non si finisce mai di migliorarsi e di imparare, non si finisce mai di diventare belle persone. Io con i miei trent’anni ho appena deciso di farlo, e voglio iniziare a sentirmi tale volendomi bene. Capiterà tante volte che mi vedrai piangere, perché Dad ha un cuore debole. E se mai sentirai che Daddy e io litigheremo, non dovrai aver paura, perché anche quello è volersi bene, è cercare di capirsi, anche quello in modo assurdo serve a essere felici. Posso farti mille promesse, posso scrivere mille cose oggi, in questo momento che sto seduto col mio tè a Islington mentre fuori piove. Posso prometterti che sarò un bravo genitore, ma non so se sarà cosi. Anche il più bravo dei genitori è odiato e poi amato dai propri figli. Non è detto che avremo gli stessi punti di vista o le stesse opinioni ma cercheremo di capirci. Forse non sarò il bravo padre che credo. Ma chi stabilisce quando un genitore è capace di fare il suo dovere? Siamo tutti risultato delle esperienze precedenti, siamo tutti nati figli. Dad oggi mentre scrive è felice, attende l’emozione del giorno che verrà. Alessandro Martini

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Grazie!

Ai miei genitori, che mi vogliono bene, anche se solo crescendo ho imparato a rispettare i loro punti di vista. A loro che sanno ma non vogliono sapere, e sono orgogliosi del loro figlio lontano. A me stesso, vivendo d’inquietudine per appagare l’insaziabilità delle mie idee di giustizia e amore, ho iniziato a viaggiare e scrivendo sono diventato un Poeta di Cera. Un uomo folle e capace di precorrere i tempi divenuto testimone di una temeraria ma possibile rivalsa sociale. Ai nuovi e vecchi amici, ad Alberto, Daniel, Luciano e Marco e sempre nel cuore Cristian, Marica, Elena e Gianni. Loro che hanno conosciuto un bambino timido e ribelle che senza saperlo sarebbe diventato Lo scrittore italiano che viene da Londra. Questo libro lo dedico alla libertà e ai miei nipoti, a loro che sono il nostro futuro. Affinché possano godere di un mondo nuovo, meraviglioso e libero. Frutto delle nostre quotidiane lotte. A loro che sono il nostro futuro dedico ogni mia battaglia. CALABRIA ORA mi ha dedicato un’intera pagina di giornale, un articolo meraviglioso che mi ha reso un personaggio pubblico. Leggendo sorridevo e pensavo come questo fosse solo il punto d’arrivo, e che dietro all’articolo c’erano trentadue anni di vita condivisa con tanti amici, una vita fatta di gioie e pianti, soddisfazioni e fame. 139



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“Lo scrittore di rinnovata giovinezza” di Angelo Nizza

Barreca, scrittore, reggino. In Italia a 29 anni sarebbe già vecchio, a Londra no! In quel di Canterbury lo conoscono come “Lo scrittore italiano che vive a Londra”. Si chiama Gaetano Barreca e s’insedia nella City due anni fa, quando aveva ventinove anni e in Italia era già ritenuto un vecchio. «È qui che ho incontrato il mio magnate, il nipote del celebre autore austriaco Stefan Zweig. A lui ho dedicato il mio secondo romanzo, il “Martini Bias Crime. Io sono Amore”, vincitore del premio “Libro del mese”, nel giugno del 2011, sul sito letterario il “Romanziere”». Questo giovanotto dal viso simpatico e sorridente, arriva da Reggio. Lui è uno di quelli che le chiacchiere delle comari qualificano con l’espressione “bravo ragazzo”. Lavora per mantenersi agli studi, frequenta l’università a Perugia e si laurea in “Archeologia e storia 141


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dell’arte”. Partecipa a campagne di scavo a Pompei e collabora con il museo diocesano di Gubbio. Intanto, pensa alla narrativa e pubblica la sua prima fatica letteraria, a taglio esistenziale: le dà la forma di un epistolario e la intitola “L’Amuleto dell’Essere. Lettere dal mio mondo interiore”. Commenta: «Pensavo di trovare una nuova realtà basata sul sistema di meritocrazia, con più opportunità e dove costruire un futuro sereno in cui realizzare i miei sogni di scrittore. Sistemarsi, come dicono da noi al Sud, la mia priorità di allora». Ma deve ricredersi. Di fronte a un calice di birra, seduto al tavolino di un pub nei pressi di Angel, Gaetano è critico nei confronti del consueto andazzo delle cose: «Se nel meridione siamo soggetti a una cultura di onore e mafia, nel resto d’Italia sono abituati a una peculiare chiusura di gruppi familiari e alla massoneria. Essere figlio di… è un passaporto versatile che funziona ovunque. Ho vissuto undici anni nella mia città universitaria, che all’esperienza di uno studente lavoratore, fatta di contratti falsi e sindacati, oltre a tarallucci e vino, non ha dato molto in termini di aspirazioni di vita». Non è né amareggiato, né deluso. E’ convinto di quello che dice e non ha rimpianti. Anzi, esce fuori il suo lato lirico: «Senti di valere e comprendi che sei in gabbia, privato di distendere il tuo essere, di esprimere quel che sei». E, ancora, una pioggia di interrogativi: «Crescere voleva dire realmente trovare un posto fisso come insegnante o banchiere? Vivere significava adeguarsi e accontentarsi dell’onore e gloria di un ambiente culturale morto che persisteva a vivere della gloria del suo passato? Cos’era quell’inquietudine inespressa che non dava pace al mio animo?». Il “bravo ragazzo” reggino non ci sta. Parte. Bazzica l’Europa. Firenze, Roma, Barcellona, Amsterdam. Poi, s’imbatte in Londra. Ecco che cos’è la metropoli al di là della Manica: «Capitale di artisti e sognatori. Tante culture che convivono lontano dal concet142


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to di punizione divina o peccato originale. Una città che basa il suo potenziale sul concetto di diversità e innovazione, che crede ancora ai sogni e che mette al primo posto la meritocrazia anche a chi incomincia la sua carriera come lavapiatti». Guai a dirsi vecchi: «Qui a trent’anni non sei ritenuto carne da macello, ma vivi nel pieno delle tue forze intellettuali e artistiche». Gaetano rinasce, ritrova gli stimoli e sente di avere una chance per tentare di essere felice. Perché, alla fine conta sentirsi in pace con sé stessi e avere un pizzico di agio rispetto all’ambiente in cui ti trovi. Si badi: non è benessere economico, ma è quella sensazione di comodità che viene dal sentirsi collocati nel giusto posto. Sapersi orientare, darsi dei punti di riferimento. Non si sa per quanto durerà, ma al momento è così. Oggi, per arrotondare, fa il cameriere nel caffè del museo impressionista della “Courtauld Gallery”, è volontario all’“Estorick collection” di arte moderna italiana e studia per migliorare il suo inglese. «Il tutto continuando a scrivere e lavorando con passione per tradurre il mio primo romanzo. Presto in Italia uscirà il libro per bambini “Favole e Dintorni”, scritto insieme ad altri nove autori. Ci impegneremo a promuoverlo lungo tutta la penisola e – precisa Gaetano – lo presenterò con orgoglio all’“Italian book shop” di Leicester Square». Angelo Nizza per CALABRIA ORA, 13 Novembre 2011

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