1998 2012

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Premessa Quando penso a quello che è successo negli ultimi anni nel nostro Paese, sarei tentato di scrivere una lettera. Ma da inviare a chi? A Mr. Angelino, oppure magari al caro Letta? Al nostro caro e vecchio saggio Napolitano? Di cose da scrivere ne avrei, eccome. Soprattutto per far capire loro, quanto continuino a rimanere distanti anni luce dalle nostre quotidiane difficoltà, lontani soprattutto dalle angherie che ci regala un sistema (e uno Stato) che ormai non ci è più amico. Loro, da una parte, alle prese con quelle pesanti responsabilità, ossia più che altro le solite beghe di un palazzo sfarzoso e scintillante, dove si mette in scena il teatrino di quella telegenica politica che pare una telenovela: non giunge mai a capo di nulla. Dall’altra parte noi, gente comune che, boccheggianti e intrappolati come pesciolini rossi dentro al nostro piccolo acquario, facciamo i conti con la nostra quotidianità: le bollette, il mutuo da pagare e la spesa al supermercato sempre più cara. Una lettera mi verrebbe anche troppo lunga, e chi la leggerebbe mai? Allora scriverò e basta; che cosa diventeranno poi queste pagine proprio non lo so, di certo so soltanto che son scritte di getto da uno che negli ultimi tempi ha messo in discussione un bel po’ dei suoi vecchi ‘punti fermi’. Infatti, da quando ho realizzato che presto avrei perso la mia impresa, mi è nato velocemente il desiderio di capire perché tutto questo stia accadendo in modo così frequente e diffuso. Nel tentativo di fare un po’ d’ordine nei miei pensieri, scrivere sicuramente mi sarà d’aiuto e magari, chissà, potrà servire da spunto di riflessione anche a qualcun altro; soprattutto a quelli che, come me, improvvisamente e inaspettatamente, sono stati costretti a osservare, impotenti, gli sforzi di una vita sbriciolarsi come castelli di sabbia. Penso, infatti, soprattutto a quelli che hanno una vita professionale temporaneamente interrotta, alle persone che sono rimaste senza un lavoro e a tutti quelli che, per andare avanti, devono far quadrare i conti. Infine, ovviamente, non posso non pensare 1


anche a coloro che di fronte alle difficoltà si sono arresi, magari anche solo per un istante, compiendo il gesto estremo. In molti ci chiediamo quanto durerà ancora tutto questo, ma non possiamo saperlo; a tutti ricorderei che comunque non ci si deve arrendere: nella vita, infatti, i successi e i trionfi, come le sconfitte e i disastri, sono solo impostori che vanno trattati allo stesso modo. C’è una frase, nella poesia di un grande scrittore anglo-indiano, che tutti dovremmo scolpire nell’anima: «if you can meet with triumph and disaster and treat those two impostors just the same»*.

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If di Rudyard Kipling.

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I Highway to Hell My friends are gonna be there too I’m on the highway to hell (AC/DC) In questi eleganti uffici, che erano il cuore pulsante della nostra impresa, oggi non c’è più nessuno. Le stanze sono fredde, mute e vuote, tutte le persone che lavoravano qui, sono state licenziate dopo che l’azienda di famiglia, una piccola ma storica impresa edile, ha dovuto fermarsi, ripiegando dapprima in liquidazione e poi in procedura di concordato preventivo. La colpa del dissesto sembrerebbe esser stata soprattutto nostra, per una gestione inefficace, dicono gli specialisti, ma la realtà è però un po’ più complessa, e io, più ci penso, ricostruendo gli eventi di questi ultimi anni, più mi convinco che non sia andata proprio così. Alla fine non è stata solo e semplicemente la nostra incapacità. Quando la mattina varco il portone di questa dimora ottocentesca, che a metà anni Novanta era diventata la sede amministrativa della nostra impresa, salendo l’importante scalinata in pietra bianca, con la sua balaustra ben restaurata, ripenso a che cosa sia stato questo posto fino a pochi mesi fa. Nel compiere quest’azione, una leggera angoscia mi assale, ed è accompagnata anche da una buona dose di rabbia che inevitabilmente mi prende lo stomaco. Questa sede era stata il coronamento di tanti sforzi e sacrifici e, alla sua inaugurazione, nel 1998, pareva un luogo dove si sarebbe potuto lavorare meglio, crescere e prosperare ancora con i nostri collaboratori. Non è stato così e di certo non è andata come si pensava. Un vero peccato, poiché l’azienda era sicuramente tra le ditte più blasonate della nostra provincia e il nostro nome rappresentava una lunga, solida e storica attività che era sorta nel lontano 1937.

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Uscendo da quegli uffici, ieri, sono risalito in auto e accendendo la radio, mi sono ritrovato ad ascoltare un arrugginito ma intramontabile buon pezzo rock. In quel momento Highway to Hell, degli AC/DC, nel quale Bon Scott cantava: “anche i miei amici saranno lì e io sono sull’autostrada per l’inferno” mi sembrava proprio che calzasse a pennello; metaforicamente mi sentivo proprio così, ossia lungo una strada infernale e lastricata di difficoltà. Purtroppo ero anche sicuramente in buona compagnia, poiché incontravo sempre più spesso persone che erano alle prese con le stesse vicissitudini. Anche la stampa che leggevo riportava molti casi di ex floride e storiche attività che chiudevano i battenti; sulla piazza trovavo un bel po’ di gente e di imprenditori, oggi diventati ‘ex’, che vivevano esperienze difficili e simili alla mia. Paradossalmente, quest’atmosfera mi faceva anche sentire un po’ meglio o forse solamente meno solo; magari, banalmente, era semplicemente la regola del “mal comune mezzo gaudio”, ma questo non poteva servire a portare un gran sollievo. Infatti mi rendevo conto che molte di queste persone, che di colpo affogavano nella più completa precarietà, trascinavano con sé anche i propri dipendenti e collaboratori. Ragion per cui il mercato del lavoro risultava sempre più saturo; provaci in quella stagnazione a trovare un posto stabile: missione impossibile. Un circolo vizioso, una catena fatta d’imprenditori, artigiani, commercianti e professionisti che, abbassando la saracinesca, si tiravano dietro i tanti posti di lavoro di tutti coloro che in queste attività vi lavoravano, ampliando sempre più un terribile strappo sociale. Un danno, questo, che si faceva sempre più serio, dinamica maledetta, che portava un mucchio di gente letteralmente per strada; per tutti loro (e anche per me) tutto era da rifare, c’era una vita che in qualche modo bisognava reinventarsi, al fine di poter ritrovare il sistema per guadagnarsi la famosa “pagnotta quotidiana”. Non si può dire che serpeggiassero sentimenti di allegria e di sicuro tantomeno c’era ottimismo nell’aria in quei giorni verso la fine del 2012. Per me, che ho passato da poco i quaranta, era la prima volta che osservavo, in maniera chiara e inequivocabile, gli effetti della crisi vissuti direttamente; così mi ritrovavo a notare anche un sacco di persone che prima non erano mai state ossessionate dal far 4


quadrare i conti del mese e che invece ora dovevano attrezzarsi. In alcuni casi, notavo che, per riuscire a mantenere un certo livello e una parvenza di normalità, più di qualcuno metteva le mani nei propri risparmi. Così purtroppo si consumavano quelle riserve messe da parte per far fronte agli eventi imprevisti della vita! In pratica, si percepiva che le cose erano realmente cambiate per tutti, e io, nato nei primi anni Settanta, senza più un lavoro e sentendomi perciò anche un po’ smarrito, potevo proprio aderire (e a buon titolo) a quella famosa ‘generazione X’ categoria di nati fra metà anni Sessanta e fine Settanta. La generazione senza identità e senza più nulla di rilevante da dire, i cosiddetti “figli della de-industrializzazione”. I pensieri spesso si accavallavano e così mi tornavano in mente persino i versi di Dante: «Nel mezzo del cammin di nostra vita [appunto, più o meno, intorno ai quarant’anni] / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita». Magari ero semplicemente solo un po’ esaurito, ma sta di fatto che, comunque sia, a quarant’anni suonati era proprio così: da qualche mese la vecchia via, quella conosciuta e percorsa per decenni, con tutte le sue sicurezze e le sue abitudini, era effettivamente abbandonata. La mia ‘via’ professionale e lavorativa era letteralmente scomparsa, era stata come cancellata, si era praticamente quasi disgregata all’improvviso, e non era certo l’unica, ormai erano centinaia di migliaia, forse milioni, le vie che erano state de-materializzate. E la cosa grave era che il triste fenomeno non si era mai fermato negli ultimi anni e forse anche adesso, mentre scrivo, altre decine di queste vie stanno per scomparire. Persino precise e inconfutabili statistiche lo attestano: la disoccupazione sale come la febbre di un malato grave, ed è evidente che questo è diventato un problema molto serio, perché è una tendenza che si consolida anno su anno: il 2012 è stato un ulteriore annus horribilis per l’economia, e realizzarsi professionalmente è alquanto difficile e lo è un po’ più che nel 2011, e in quell’anno siamo andati un po’ peggio che nel 2010, e così via… da quasi una decina d’anni.

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In quanto ad aspettative e speranze per il futuro, insomma, si sta innegabilmente peggiorando, e trovare un’occupazione stabile è una specie di miraggio, un calvario che, in poche parole, se non diventa un mezzo inferno, poco si discosta. Quindi alla fine, quello che mi ronzava per la testa, gli AC/DC, Dante e tutto il resto, non era solo frutto di un esaurimento nervoso e neppure fosche elucubrazioni di una mente stanca; semmai era frutto della situazione che in tanti subivamo. Aggiungerei pure una ulteriore (ironica) citazione: «Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate». Già, soprattutto voi che vi accingete a entrare nel mondo del lavoro qui, nel nostro bel Paese, l’Italia. Purtroppo però, era un po’ tutta la vecchia Europa (salvo rare eccezioni) che soffriva, e il problema dilagava; quello che balzava agli occhi, secondo la mia opinione, era il fatto che non ci si poteva più limitare a immaginare il precario come un giovane uscito da poco dalla scuola, che non trova lavoro per ciò che si è preparato a fare nella vita, come il neolaureato che viene assunto con contratti chiamati ‘stage’ o ‘a progetto’. Certamente questi erano i casi eclatanti, quelli più diffusi, quelli classici che tutti abbiamo imparato a conoscere, ma bisognava considerare una cosa: tra i precari ora si ritrovavano anche tutta una vasta miriade di persone che provenivano dal mondo imprenditoriale e dal lavoro autonomo. Così gli imprenditori, gli artigiani, gli esercenti e i professionisti, tutti quelli che insomma componevano il cosiddetto ‘esercito delle partite IVA’, si assottigliava sempre più. Anzi franava a valle, come sommerso da una specie di slavina e tutta una serie di ruoli, professioni e figure non riuscivano più a farcela e non potendo più andare avanti, decidevano di chiuder baracca! Il concetto di precario quindi, si è ormai diffuso tra i cittadini, percorrendo qualsiasi direzione; si è propagato tra le più varie età ed estrazioni sociali. Il lato grave di tutta la faccenda, è che queste persone sono vittime di un sistema-paese che non perdona, anzi, tanto più sono stati individui degni e per bene, tanto più sono stati penalizzati e lasciati soli.

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Mi spiego meglio. Tra tutte queste chiusure e cessazioni di attività, ve ne sono migliaia e forse centinaia di migliaia, che non corrispondono assolutamente allo schema opportunistico del tipo: l’attività non va più come un tempo, non si guadagna abbastanza, gli utili rimangono insoddisfacenti, ergo si chiudono i battenti. No, moltissime di queste chiusure, derivano dal fatto che proprio si sono semplicemente esaurite le forze – economiche, fisiche e spirituali – e quindi non essendovene più di disponibili si è arrivati al punto di non ritorno. Vi sono moltissimi casi di cessazioni di attività con titolari che hanno assolutamente sempre mantenuto una condotta moralmente irreprensibile, e ispirandosi (come si dice) ‘al buon padre di famiglia’, cercando di non licenziare, hanno provato in tutti i modi a onorare gli impegni e a resistere. Per mantenere le propria impresa aperta hanno provato tutto e anche di più, ma alla fine, quello che hanno ottenuto, è stato solo di scarnificarsi economicamnete e anche moralmente. Più di qualcuno è pure finito sul lastrico, perdendo ben oltre i beni aziendali, perché non sono bastate né la volontà, né i sacrifici, né altro; infatti in questo mercato (mondiale) che non perdona e che è divenuto estremamente aggressivo e pieno di concorrenza (spesso anche sleale), spesso rimangono vani i tentativi per rimanere a galla. Per carità, per fortuna ci sono ancora aziende che vanno abbastanza bene, ma la realtà è che sono sempre più delle mosche bianche e non basteranno queste rare eccezioni a riportare l’asticella dell’occupazione verso l’alto. Poi, innegabilmente, tutto questo accade anche perché, a mio modo di vedere, il nostro sistema economico è sempre più contaminato da cinismo ed esasperazione. Noi in Italia (ma in varie forme anche nel resto d’Europa) rappresentiamo ormai una periferia che, paradossalmente, è super regolamentata a confronto del modo globale di far affari, divenuto più selvaggio che mai, e sempre più fatto di reperimento di manodopera a bassissimo costo. Poi ci sono anche le speculazioni di ogni tipo e c’è pure la finanza stronza, quella mezza evanescente, che con metodi a volte a metà tra creatività e scientificità, si è inventata quei freddi logaritmi che han partorito mostri, come per esempio i derivati. Si pigiano i tasti sulle tastiere delle borse di tutto il mondo e le 7


transazioni corrono; dai tabelloni e sugli schermi capita che qualcuno (pochi) guadagna molto e tanti altri perdono. Intanto, il vero saper fare, quello dell’industria e dell’artigianato delle imprese (soprattutto le piccole) viene travolto e triturato nell’ingranaggio. Risultato: si perde occupazione! Ma c’è una cosa ancora più grave in tutto questo: lo Stato non aiuta, anzi, in un certo modo assicura che tutto ciò abbia luogo e compie la finale demolizione, attraverso pesanti colpi, assestati con maestria.

Sono botte di burocrazia aggrovigliata e

appiccicosa e pugni di tasse pesanti, che inferti alla cieca, non risparmiano nessuno. Poi bisogna aggiungere anche quella proverbiale lentezza della giustizia civile, così è bella che compiuta la disfatta; qui più che in ogni dove, lo Stato finisce per tutelare i più furbi e non certo gli operosi e onesti cittadini. L’emblema di ciò è che se normalmente nel resto d’Europa ti rivolgi a qualcuno per intimorirlo dicendo “ti faccio causa” qui vale esattamente l’opposto, infatti se vuoi scoraggiare un interlocutore basta dirgli “fammi causa”. Quindi direi proprio che le chiusure e le serrate non rappresentano altro che i ‘caduti’ di una guerra causata da un’economia che va disumanizzandosi, ma anche e soprattutto dall’abbandono di una politica rimasta soltanto avida e sempre troppo disinteressata al mondo reale. In tanti abbiamo atteso e sperato che i governi prendessero quelle indispensabili decisioni dettate dal semplice buon senso. Ma alla fine non si è mai visto niente, il nulla è arrivato sempre puntuale sotto questo cielo perennemente uguale a se stesso. Anche i miei amici saranno lì e io sono sull’autostrada per l’inferno.

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II (I Can't Get No) Satisfaction I can't get no satisfaction. 'Cause I try and I try and I try and I try. (Rolling Stones) L’impulso a raccontare la storia della mia impresa nasce da un fatto: la mia mano, il 15 maggio del 2012, ha firmato la delibera di cessazione dell’attività aziendale dell’impresa di famiglia. Tuttavia, non dico anni prima, forse anche solo una manciata di mesi prima, questa cosa non avrei potuto crederla possibile. L I Q U I D A Z I O N E. Questa procedura, sia volontaria sia ordinaria o coatta, è qualcosa con la quale in tanti stiamo prendendo confidenza, purtroppo sempre più frequentemente e velocemente. E così anch’io, anche qui, nell’ex fiorente Nord-Est, ho dovuto gettare la spugna: dopo ben settantacinque anni di attività, ci arrendiamo e si chiude! La saracinesca si abbassa, con l’inaspettata e per certi versi paradossale comprensione da parte dei collaboratori. Alcuni di loro, infatti, assistendo al progressivo e inarrestabile logorio economico, che era divenuto inevitabilmente anche il logorio del nostro umore, pur andando incontro all’ineluttabile destino della perdita del posto di lavoro, che sino a un paio d’anni prima pareva sicuro, hanno saputo comunque trovare frasi consolatorie in nostro favore. La chiusura è per tutti un evento doloroso, anzi direi traumatico. Di sicuro lo era per noi, una famiglia che deteneva ben salde le mani sul timone della propria barca, un’impresa edile tramandata da padre in figlio per tre generazioni. Ma ancor più e soprattutto questo trauma lo vivevano loro, i nostri dipendenti, che subivano una situazione che come una slavina rovinava addosso all’improvviso. Erano buttati in mezzo alla strada senza che noi potessimo farci più niente; del resto, a nostra volta, anche noi comunque finivamo esattamente nella stessa condizione. 9


Così, in pochi giorni o forse qualche settimana, è sembrato che, all’improvviso, inesorabilmente tutto accadesse. Si avverava quello che, in effetti, era già scritto nel destino dei report dei vari consulenti economici e nelle analisi del commercialista. Già qualche anno prima ci avevano dato il consiglio di licenziare massicciamente per alleggerire la struttura e cercare di esternalizzare la produzione. Outsourcing e altri termini del genere. Non li avevamo molto ascoltati; licenziare non è così semplice, quando vivi una realtà aziendale tipo la nostra, che assomiglia a una famiglia allargata. Interrompere il rapporto di lavoro significa misurarsi con le facce dei dipendenti che conosci e che vedi ogni giorno, nonché con le famiglie che ci sono dietro di loro. Come si fa, dopo decenni, dire a gente che stimi: “da domani resti a casa”? È molto difficile infliggere questa punizione a persone che non se lo meritano e quindi, tra le varie opzioni possibili, questa è l’ultima che prendi in considerazione. Poi, diciamo anche che, se magari hai un collaboratore che tra i tanti e vari è meno meritevole (ma l’azienda ha più di quindici dipendenti) rimani ingessato in quelle super tutele che normativa e potere sindacale attuano. Quindi ti devi sorbire anche quelli che (seppur siano eccezioni) magari non meriterebbero di essere protetti a spada tratta. In ogni caso, guardandomi in retrospettiva, mi sembra proprio che il destino aziendale fosse segnato, perché ridurre i costi del personale era comunque soltanto uno dei tanti problemi che bisognava risolvere. Forse questa nostra storia, per quanto ordinaria, è un po’ l’emblema di come vanno le cose ultimamente, perché tantissime imprese (troppe) sono cadute in grave difficoltà. D'altronde, come si poteva rimanere in piedi quando si concatenava tutta una serie di fattori negativi? Era la disfatta, colpiti come eravamo da una serie infinita di problemi: mancanza di lavoro, commesse in caduta libera e i rari contratti accaparrati con spericolate aggiudicazioni dalle pessime condizioni. Se poi a tutto questo aggiungevamo: 1) La robusta e sempre crescente pressione fiscale, con tasse soffocanti. Ma parlare del prelievo fiscale è quasi superfluo, tutti odiano questo sistema che 10


preleva il sessanta percento e rimane quasi cieco verso gli evasori; evvai di IRES, IRAP, eppoi a cascata tutto il resto. 2) Il catastrofico peso dei mancati pagamenti: sembrava che quasi nessuno pagasse più. Bene che ti potesse andare, tutti pagavano tardi. 3) Gli ingestibili costi degli interessi sugli anticipi delle fatture e sulle linee di credito dei nostri amici ‘strozzini’ sarà pure un termine a dir poco politically incorrect, ma sì, mi riferisco proprio a loro - le banche; quelle che anni prima erano venute a bussare alla nostra porta, proponendoci di diventare clienti e spianandoci la strada verso nuovi fidi (magari pure appioppandoci anche un bel derivato). 4) L’IVA sempre più cara, quella la devi versare subito, anche se il cliente non ha pagato la fattura. Lo Stato, lo sai, lui si ti può far attendere… ma guai a te farlo aspettare. Era come l’effetto domino, cade una pedina che ne urta un’altra, che cade e così via, cade tutto! Costi sempre più in alto e il gioco è fatto. Con questa dinamica, in poco tempo, quel dannatissimo piccolo ‘monticello’ di patrimonio e capitali che la famiglia si è messa alle spalle in decenni, si erode e viene aggredito come in un fenomeno carsico. In brevissimo tempo, di quella collinetta (il tuo patrimonio) rimane assai poco e ti ritrovi con le spalle scoperte; non hai più quelle buone garanzie da offrire agli istituti, i tuoi finti alleati, quelli che tra l’altro concorrono in modo diretto a quella erosione di cui sopra. Poi accade che, improvvisamente loro (le banche) ti voltano le spalle. Del resto mio nonno lo diceva già trent’anni fa: “la banca ti presta l’ombrello con il sole ma se piove te lo toglie”. Un circolo vizioso, per niente virtuoso, che ti fa andare con il fiato corto, e in azienda s’innesca quella sindrome da grave carenza d’ossigeno e non rimangono molti spazi di manovra. Eh già, saranno gli effetti collaterali di questa crisi planetaria che proprio non vuole e forse non può cessare che ti martellano. Crisi… crisi… Era questa una 11


parola quasi consumata e abusata, che risuonava da anni, ma c’era pur sempre chi rassicurava e sosteneva che non ci si doveva poi preoccupare troppo. Infatti sembrava che i ristoranti fossero pieni e si vociferava che era più che altro un atteggiamento, uno stato psicologico e mentale sbagliato. Altroché, bravi! Infatti nella vita reale e sulla strada, giorno dopo giorno mica si sentivano gli effetti. No! Macché, erano solo brutte sensazioni e pessimismo, eccome no! Guarda caso però, nel nostro settore gli investimenti erano sempre più fermi e tutto pareva congelarsi. Ordini che cadevano falcidiati, mese dopo mese, ma noi, fessi, si teneva duro. Se alcuni politici, come Berlusconi e più tardi il Prof., dicevano che bisognava essere ottimisti, perché entro breve saremmo andati meglio, forse era vero, no? Fidiamoci, dai, bisogna essere positivi. La ripresina vedrai, arriverà, non la vedi la famosa luce in fondo al tunnel? Sì, come no, ciao! L’ennesima balla per guadagnare tempo, e non so per fare cosa. La realtà rimaneva assai diversa; intanto noi eravamo arrivati in poco tempo a non avere quasi più commesse. I pochi appalti che restavano disponibili erano sempre più rari, diciamo come briciole di pane gettate tra i piccioni in piazza San Marco. Questo ovviamente contribuiva a far diventare le trattative sempre più ardue e anche insostenibili: poca domanda e offerta in saturazione. Un bel mix per far cadere i ricavi e rendere il cash flow sempre più esiguo e anche molto irregolare. Senza i flussi di cassa, che sono come un ‘flusso d’ossigeno’ per la tua azienda (e specie per le banche) sei strozzato; il sistema, inesorabilmente, ti taglia. C’è poco da fare, funziona così, fine della storia. Noi, l’impresa, negli ultimi anni, avevamo tentato di ristrutturarla, l’avevamo un po’ rimpicciolita, cercando di tagliare i costi e mettendoci a risparmiare su tutto, su ogni cosa: sui macchinari, sull’attrezzatura, e persino cercando di centellinare la cancelleria. Purtroppo, però, anche se si facevano sforzi enormi, non era possibile riuscire a lavorare in modo sostenibile, in un mercato in cui ci si doveva battere con una concorrenza divenuta oltremisura esasperata. Accadeva sempre più spesso di accaparrarsi commesse che non erano per nulla opportunità di crescita e di lavoro, erano semplicemente delle rogne. Sempre più spesso, infatti, questi maledetti lavori 12


generavano ricavi e potevano garantire anche un minimo di flussi di cassa, ma l’utile di certo non esisteva più. Anzi, sempre più frequentemente non si riuscivano a ripagare nemmeno i costi, e sovente si generavano perdite. Proprio per questo motivo, ad un certo punto, noi decidemmo che lavorare a ogni costo sarebbe stato controproducente, e così pensammo di rifiutare alcuni lavori. Scansavamo per lo meno quelli che ci davano la certezza di non poter ripagare nemmeno i costi, pensavamo fosse la cosa migliore da fare, la più sensata ma, senza più ordinativi, purtroppo ben presto facemmo i conti con il nostro portafoglio ordini. Questo si assottigliava sempre più e il ricorso alla cassa integrazione non tardò ad arrivare. Comunque non mollavamo, sapevamo che prestarsi al gioco del mercato significava massacrarsi, ma riuscivamo a proseguire con questi pochi lavori che classificavamo come i “meno peggio”. I ritmi lavorativi però rallentavano inesorabilmente, la struttura di questa nostra impresa non riusciva a proporzionarsi correttamente e a volte mi pareva quasi di avere a che fare con una creatura che non riusciva a placare la sua sete. Per quanto si facesse, l’azienda rimaneva sbilanciata, con un assetto di costi sempre troppo alti e sovradimensionati. Mi ricordo che all’epoca leggevo un libro: Storia della mia gente di Edoardo Nesi, scrittore, ex imprenditore del tessile. Ne cito un passo: «qualsiasi impresa avessi fatto nascere in questi ultimi cinque anni, oggi sarebbe messa male di sicuro. Se avessi ascoltato chi mi proponeva di aprire una nuova azienda tessile, fare il viticoltore del chianti, costruire o comprare appartamenti a Miami o a Montevarchi, fondare una galleria d’arte contemporanea, creare una linea d’abbigliamento, con ogni probabilità avrei perso soldi a bocca di barile». Capivo esattamente cosa intendesse, per noi andava proprio in quel modo. Sono forse pessimista? No, non lo sono affatto, semplicemente questo è quello che accade oggi: le aziende che riescono a generare utili (soprattutto le piccole e medie imprese) sono veramente poche. Inevitabilmente ciò accade per varie e complicate ragioni ma fondamentalmente, a mio giudizio, è proprio il sistema economico così com’è concepito oggi che non può funzionare. Ovviamente, poi, soprattutto nel 13


nostro Paese, è lapalissiano che politiche dissennate abbiano peggiorato ancor più le cose che altrove. Nel caso della nostra azienda, nella fase terminale della sua storia, diciamo soprattutto negli ultimi tre anni, abbiamo attraversato momenti difficili e anche molto amari. Infatti il papà, che nel 2009 era ancora amministratore delegato della società, per sua volontà, non attingeva più il becco di un quattrino da qualche anno. Lui, per così dire, lavorava gratis (e già lì per me comprendere era difficile) perché non riteneva giusto gravare sui famigerati costi, così già troppo elevati. Dopo un paio d’anni che ripeteva di non capire più il comparto dove aveva operato per più di quarant’anni, cedette il timone al sottoscritto; siccome lui, oltre all’orgoglio, provava per ‘la creatura’ (la sua impresa) anche una specie di affetto parentale e aveva deciso che non poteva stare a guardare la barca affondare. Del resto, l’esistenza di quest’azienda di famiglia, non era mai stata messa in discussione. Vuoi che, dopo tutti quegli anni di servizio e una storia così lunga, seppure tra gioie e dolori, non si potesse far qualcosa per aiutarla in qualche modo? Decise che non poteva risparmiarsi e senza batter ciglio, per ben due volte nel giro di ventiquattro mesi, decise di rimpinguare di tasca propria le perdite societarie iniettando sostanza fresca. Il vecchio capitano non poteva lasciare navigare in cattive acque quella sua barca malconcia. Ma come dargli torto? Sembrava bastasse farla approdare in porto, in acque calme e sicure e aspettare che la burrasca finisse. Ma le previsioni, diciamo così, purtroppo erano sbagliate, e alla grande, perché altro che burrasca, si preparava un susseguirsi di tempeste maledette che, una dopo l’altra, anche se abbiamo cercato di fare il possibile, alla fine ci hanno fatto colare a picco e fu come un naufragio. Tutto è stato inutile. Col senno di poi, altro che ricapitalizzare e ripianare le perdite, era meglio far scender le scialuppe e mettersi in salvo. Quella, in realtà, sarebbe stata la sola cosa da fare. Io non posso essere soddisfatto. Perché ho provato, mi sforzo e riprovo ma non posso, proprio non posso.

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III The price you pay Oh, the price you pay, the price you pay Now you can’t walk away from the price you pay (Bruce Springsteen)

Questa impresa edile, negli ultimi due anni, era come una fornace accesa: potevi solo buttar dentro soldi ma di risultati, picche! Spendere e bruciare altro capitale, questo era ciò che serviva per tenerla in funzione e non chiudere; era il prezzo da pagare se non si voleva fermare l’attività e licenziare gli operai. Molti di loro erano diventati di famiglia ed era impossibile, per noi, decidere di mandarli tutti a casa. Sebbene la situazione apparisse insostenibile, si pensava che alla fine ce l’avremmo fatta e questo sentimento aveva preso (anzi, direi contagiato) soprattutto il papà, il quale non aveva il coraggio di abbandonare la barca (ossia la nostra impresa) al suo destino e non voleva nemmeno lasciar a casa la nostra gente. Egli era sicuramente molto legato a questa entità, e anche più di me; ma non in senso affaristico, infatti già da qualche anno, non eravamo che immersi in stress e pensieri . Piuttosto questo legame, era invece un sentimento d’affetto, poiché quest’attività era anche un po’ la nostra storia e da più di una generazione; rappresentava l’avventura della nostra famiglia e rappresentava quindi l’orgoglio del cognome che portiamo. Prima del duemilasette, nel nostro campo, questa società era ritenuta da tutti quasi un modello di riferimento, direi che fosse considerata tra le imprese più affidabili nel nostro ambito territoriale, sia per qualità dei servizi offerti che per serietà. In questa impresa, nata nell’ormai lontano 1937, io in fondo, ci ero cresciuto: nelle stanze dei suoi uffici avevo giocato, studiato e fotocopiato libri, avevo rilegato le tesine universitarie e disegnato i miei primi progetti. Poi avevo anche approcciato i primi computer, quelli in linguaggio MS-DOS, e ‘smanettato’ con il primo Windows

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3.11, navigando nell’Internet dei modem a 56K. In fine avevo realizzato lì anche le mie prime esperienze lavorative. Proprio non avrei mai pensato di arrivare quasi a maledirla questa impresa, un giorno, riconoscendola solo come fonte inesauribile di problemi. La spettabile ditta era strutturata nel classico e tipico modo della piccola impresa: due fratelli (il papà e lo zio) discendenti diretti del fondatore (il nonno); e poi eravamo arrivati noi, i figli dei due fratelli. Era un’impresa composta da impiegati e operai, in tutto ventotto unità, al massimo poco più di trenta, dipendeva dai periodi. Da tre generazioni, da padre in figlio si tramandava il mestiere dell’impresario edile e per me, già prima di finire le scuole superiori, quell’azienda costituiva il luogo delle opportunità, dove ero certo che presto avrei occupato il mio posto, infatti da quest’organizzazione avevo potuto ricevere tutta la preparazione e gli insegnamenti che erano necessari per avviarmi in quel mondo: le costruzioni. Quindi ero fiero di farne parte e sapevo che anche i nostri dipendenti si trovavano bene; da noi i salari e gli stipendi erano erogati con la massima regolarità e puntualità. Tutti quelli che vi lavoravano, spesso dichiaravano che erano orgogliosi di far parte di quella squadra e probabilmente anche loro si sentivano parte di un’avventura. Praticamente quest’azienda si era occupata, per quasi un secolo, della sorte di decine e decine di famiglie, benevolmente,

efficacemente e

ininterrottamente; era irreale iniziare ad avvertire che quel meccanismo si stava inceppando. Fino a quel momento io non l’avevo potuta che percepire come una sorta di piccola comunità, con una sua specifica identità e funzione sociale. In questa comunità, ci avevo messo piede molto presto, già da prima dell’adolescenza; i cantieri li avevo conosciuti fin da bambino. Li visitavo con il nonno, il quale, lungo il viale del tramonto, poco prima di ritirarsi, mi portava con sé nei suoi piccoli viaggi lungo le strade di quella che, all’epoca, era la rampante provincia veneta, a bordo di una Peugeot celeste. Raggiungevamo i luoghi dei lavori e già in prossimità delle recinzioni dei cantieri si avvertiva il tipico rumoreggiare dei macchianari. Udivo i tipici suoni delle martellate date dai carpentieri, poi tutto il resto: i demolitori, i 16


trapani e le seghe elettriche; a coronamento del baccano c’era l’immancabile sottofondo dei chiassosi e fumosi motori diesel, quelli dei camion e delle scavatrici. Nella bella stagione, varcato l’ingresso, spesso ci si ritrovava anche avvolti da quella polvere insidiosa, formata dal fango secco, pestato e ripestato dalle ruote dei mezzi d’opera. All’interno del cantiere si scorgeva il classico ‘accampamento’ con tutti i suoi baraccamenti: i magazzini, le mense, gli uffici e tutto il resto di container. Da noi, questi luoghi, comunque, erano abbastanza ordinati, si vedeva che tra quei mucchi di sabbia, sacchi di calce e cemento, c’era un certo coordinamento. Tutti i pacchi erano posti su dei bancali e solitamente ordinati in file; c’erano blocchi di laterizio, mattoni e anche altri materiali, come tavole di legno e opere provvisionali d’ogni tipo. Si respirava operosità, i muri si levavano dalle fondamenta e tutt’intorno i muratori affaccendati, tamponavano i perimetri di queste strutture nascenti. La gru ruotava e restando in movimento perpetuo, smistava le casse e le carriole che con i sacchi di calce e cemento che andavano per i vari piani di quell’edificio che cresceva veloce e tutto procedeva in fretta, con quelle betoniere che ronzando non smettevano mai di girare. Era un ambiente dove nessuno stava fermo, c’era una specie di ordinata frenesia e a me, a quel tempo poco più che bmbino, i muratori parevano anche un po’ temerari, issati com’erano su quei ponteggi, a metri e metri d’altezza. Penso fosse più o meno il 1980 e le persone che incontravo nel cantiere, i nostri muratori, all’epoca erano ancora tutti veneti, sicché la lingua ufficiale, era rigorosamente il nostro dialetto. Ricordo anche il vestiario (che non era esattamente quello che conosciamo oggi, con abbigliamento tecnico e antinfortunistico): era usuale portare i blu jeans con la canottiera bianca. Altra tipica usanza: d’estate i muratori mettevano i fiaschetti di vino, quelli rivestiti di paglia, dentro a un secchio d’acqua fresca, all’ombra delle frasche, ad aspettare la pausa pranzo. Ma tutte queste cose già da tanto tempo comunque non si vedono più. Al rientro da questi brevi viaggi, verso il pomeriggio inoltrato, si rientrava verso la casa del nonno; sul retro, lì vicino, cinto da alte mura, c’era il magazzino dell’impresa. Siccome il pesante portone in ferro era spesso sbloccato, infilarsi 17


dentro, con mio cugino, era un gioco da ragazzi. Lo era letteralmente e sebbene non ci fosse permesso entrare, noi furtivamente e in incognito, ovviamente lo facevamo lo stesso. Lì si trovava sempre qualcosa da fare, le ispirazioni per immaginare e fingere qualcosa non mancavano mai; raccattando avanzi di ferraglia e pezzi di legno ci costruivamo qualsiasi cosa, magari un carretto o magari una spada, con un po’ della nostra fantasia tutto veniva semplice. Nel magazzino, poi, si trovavano anche i mezzi che non erano impiegati in cantiere, oppure che erano fermi per la manutenzione; talvolta un furgone, un camion o un’escavatrice. Noi potevamo dar sfogo alla nostra creatività e così, mentre i nostri coetanei giocavano con i modellini in scala, noi saltavamo sopra ai veri mezzi d’opera e simulavamo qualsiasi cosa. Gli anni passavano in fretta, o almeno così mi sembra oggi, e verso la fine delle scuole superiori, in estate, si cominciò a mettere piede in cantiere per imparare qualcosa di concreto e muovere così i primi passi dentro a quel settore: le costruzioni edili. Io ero assegnato a un nostro impiegato tecnico, un geometra di cantiere con il quale me ne andavo in giro tutto il santo giorno, aveva un Fiorino con il vano bagagli sempre carico. Lui era un tipo che pareva parecchio serioso (e forse severo) a volte addirittura un po’ arcigno anche, ma comunque dopo aver fatto bene la sua conoscenza ho capito che era una brava persona. Anzi, nonostante le apparenze, era proprio una pasta d’uomo Pierangelo (il geometra) e anche se brontolava sempre, alla fine si faceva dare una mano; da quelle piccole incombenze, come far rilievi, tracciare e annotare, io imparavo. Bisognava sistemare in bolla la livella, leggere le quote sulla stadia e tracciare; matita da muratore alla mano e si segnavano linee grigie, poi a volte queste linee, sul fondo di scavi sempre fangosi, diventavano di calce bianca. E così, diametri di tondini d’acciaio, cemento, lastre e calcestruzzo pompato: una fondazione, un muro e poi un solaio. Io, ancora pivello (e non ancora geometra) anche solo a ronzargli intorno, assorbivo tutto un mondo nuovo imparando cose utili. Forse la strategia dei nostri ‘vecchi’ era fare in modo di farti scivolare dentro a questo ‘circo’ pian piano, così anno dopo anno, prendevi sempre più dimestichezza con l’ambiente e quasi inconsapevolmente l’azienda, a poco a poco, ti 18


apparteneva sempre di più. O magari chissà, mi verrebbe da pensare che, impercettibilmente e senza accorgermene, fossi io che pian piano appartenevo sempre più a lei, la nostra impresa di famiglia. Comunque sia, arrivarono molto presto anche gli anni Novanta, con il corso di laurea in architettura e i quasi trenta esami superati; con quella gran voglia di emanciparmi e congedarmi in fretta dal mondo accademico veneziano, scalpitavo all’idea di poter finalmente diventare economicamente autosufficiente. In fondo il pensiero di poter lavorare nell’impresa di famiglia mi era sempre appartenuto. Nel 1998 la laurea fu una pratica evasa; successivamente poi, nemmeno il tempo di finire la cerimonia che, con ancora il piede sulla linea di quell’agognato traguardo, già da subito (il giorno dopo) iniziava la mia carriera lavorativa. Sul tavolo subito i primi compiti da ufficio e le prime responsabilità; all’inizio erano un po’ spezzettate qua e là tra ufficio e cantiere. Mi ricordo perfettamente, era l’ottobre del 1998 e da lì a un paio d’anni lo scenario che mi era familiare, tutto quello che conoscevo ed ero abituato a vedere da sempre, iniziò a modificarsi. Dapprima sembravano inezie, ma anno dopo anno tutto cominciava a mutare radicalmente; andavano in pensione alcuni capomastri, i nostri storici capi cantiere, quelli che definirei i veri e propri pilastri delle nostre faccende cantieristiche, ossia i nostri ‘colonnelli’. Cosa mica da poco, perché man mano sparivano così anche le canottiere bianche e i fiaschi di vino, con anche lo scanzonato dialetto ‘polentone’ che lasciava il posto ad altri accenti e a lingue diverse. Infatti, i nuovi innesti nella squadra, i muratori che venivano assunti per rimpiazzare quelli che se ne andavano a godersi la meritata pensione, per lo più erano giovani, spesso provenienti da nazioni extracomunitarie. La maggior parte di loro proveniva dalla ex-Jugoslavia, ma qualcuno arrivava anche dal nostro profondo Sud, soprattutto Calabria e Sicilia. In ogni caso, dopo un mese di prova, se te la cavavi bene con la cazzuola, le tavole, i chiodi e dimostravi di essere volenteroso, eri ‘arruolato’, assunto a tempo indeterminato.

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Nel frattempo io, dopo l’ingresso ufficiale in campo, ero stato nominato consigliere delegato e responsabile di implementare il sistema di qualità aziendale. All’epoca, bisogna riconoscerlo, fui diligentemente impegnato in questa veste: era una mansione che credevo di dover eseguire nel migliore dei modi, mentre oggi, se ci ripenso (apriamo una veloce parentesi) mi convinco sempre più che quel bel sistema, fatto di procedure e moduli, era solo l’ennesima burocrazia caricata nelle strutture delle piccole imprese. E noi piccoli imprenditori, come dei fessi, abbiamo applicato tutti quei bei concetti che ci hanno propinato le nostre brave organizzazioni di categoria; in realtà, era solo un metodo che ha permesso la nascita di una miriade tutta nuova di consulenti e società di servizi. Noi, intanto, ci appesantivamo ulteriormente; un bel mix di concetti, in un certo senso anche un po’ utopici, che si basava sul miglioramento continuo e sul fatto di controllare e procedurare qualsiasi attività aziendale, con l’effetto che poi, ogni singolo gesto, veniva espresso per vie più o meno formali e “scientificamente” rintracciabili. Belle teorie, insomma, tanta e tanta carta in più, che doveva essere compilata e sempre minuziosamente aggiornata; roba che diventava talvolta anche più importante della stessa sostanza, ossia come erano fatti concretamente i lavori. Come se le nostre piccole aziende fossero state tutte delle multinazionali, dove magari ha un senso controllare e rintracciare ogni virgola. Così, per esempio, capitava che spedissimo il modulo soddisfazione cliente al quale poi nessuno rispondeva, oppure, per ordinare un semplice pacco di chiodi dovevamo trasmettere il fax, utilizzando l’idoneo modulo ordine di fornitura; ovviamente andandolo a pescare nel fantomatico albo dei fornitori… E ancora: si predisponeva l’organigramma aziendale con il mansionario, esponendolo in tutti i locali aziendali; capirai, con tutte le filiali sparpagliate per il mondo e quelle centinaia di dipendenti! Ma va là… eravamo i soliti quattro gatti, però l’importante era esporre (orgogliosi più che mai) quei bei certificati che in fogli ben incorniciati venivano appesi al muro. Diventavano la giusta scenografia di una realtà sempre più fatta di apparenza; paradossi, anche perché poi, nessun cliente scelse mai la nostra spettabile impresa 20


grazie a una di queste fantastiche certificazioni, attestanti la nostra superba pianificazione e gestione per la qualità. Comunque, poco importa (chiudo la parentesi), di certo però è un peccato aver perso tutto quel tempo a riempir talmente tanta carta da contribuire alla deforestazione dell’Amazzonia. L’impresa, comunque, che possedeva anche questi bei certificati, fortunatamente aveva anche i suoi bei cantieri e questa era la cosa più importante; sebbene le cose fossero in cambiamento, si procedeva abbastanza bene e io (verso la fine degli anni Novanta)

facevo

sostanzialmente,

integralmente eravamo

un

parte gruppo

della

squadra.

affiatato,

ed

Noi

dell’azienda,

eravamo

diventati

fondamentalmente anche un gruppo multietnico. Dal caposquadra al manovale c’erano obiettivi da perseguire, e secondo me ognuno dava il meglio che poteva, facendo il proprio mestiere con rettitudine e con senso del dovere. All’epoca, la nostra clientela, che nel nostro campo sarebbe corretto chiamare committenza, era esigente ma fedele; in ogni caso “il cliente ha (quasi) sempre ragione”, si sa, è un dato di fatto, quindi noi, con la nostra organizzazione cercavamo sempre di soddisfarlo. Ovviamente più il committente era storico, e quello per fortuna a noi non mancava, più aveva la precedenza sugli altri. Noi annoveravamo, tra i vari clienti, una sorta di aficionados; questi erano economicamente ben dotati, dei gran signori, insomma, che pretendevano poche cose: velocità, rispetto dei tempi e in generale, ovviamente, che i lavori fossero ben fatti. Queste persone, investitori o industriali che fossero (ma molto spesso erano industriali della zona), ci sceglievano perché ci conoscevano molto bene e sapevano che potevano fidarsi di noi. Avevano semplici, chiare e precise aspettative, e noi sapevamo non deluderli. Questi committenti, per lo meno qualcuno di loro, con il tempo, avevano preso una certa dimestichezza con la nostra impresa e avrebbero persino potuto chiamare per nome alcuni dei nostri capi cantiere. In effetti, a volte, capitava che costoro pretendessero di dettarci i nomi del personale che preferivano avere nei loro cantieri. Quello era il tipo di cliente che non potevi perdere, quindi laddove possibile, si cercava di accontentarli persino in questo; loro, comunque, contraccambiavano e ci garantivano un’assoluta 21


continuità

della

produzione,

commissionandoci l’ampliamento

di

un loro

stabilimento, o il rifacimento degli uffici, e poi magari la ristrutturazione di una loro proprietà. Quindi era impossibile non tenerli in considerazione; poi tra l’altro, tutta gente per bene, persone rispettabili e di parola, soprattutto erano anche buoni pagatori, davvero sempre puntuali. Alcuni di questi committenti hanno segnato la mia memoria, con gesti tipo firmare l’assegno direttamente in cantiere, senza che si dovesse attuare alcun avviso di pagamento. Altro che sollecitare e altro che spedir raccomandate! Molti di questi eleganti signori,

erano

vestiti in completo d’ordinanza

Confindustriale; poi però, in qualche caso, potevi anche imbatterti in personaggi singolari, quasi un po’ stravaganti. Per esempio ne ricordo uno su tutti: barba e capelli folti, piuttosto lunghi e ingrigiti, direi che già a prima vista fosse originale, aveva occhi vivaci ed estetica austera, pareva un po’ a metà tra Mangiafuoco e Garibaldi. L’atteggiamento e il carisma era quello di un genialoide e anticonformista (ricchissimo) signore; s’era costruito un impero basato sulla fabbricazione di tubi in plastica che aveva saputo progressivamente ingrandire, fino ad arrivare a gestire vari stabilimenti e filiali estere che davano lavoro a centinaia di persone. Lo potevi, tutto sommato, incrociare di rado, magari in jeans e camicia, come anche in elegante completo blu, in giacca e cravatta, ma spesso era anche accessoriato da un vezzo, tipo un foulard, oppure un bracciale di cuoio, o un paio di colorate scarpe scamosciate. Scendeva da una delle sue automobili sportive, e facendo un giro per il cantiere controllava i lavori. Una volta ricordo che potesse dar l’idea di essere incazzato, forse telefonava, immagino per chiamare il progettista, mi pareva anche un po’ sbraitasse e vedendo la scena, deducevo che fosse emerso qualche problema, magari pure serio. Dopo un giorno invece, ti arrivava un fax, che era una lettera di encomio per l’impresa, la quale, a suo giudizio, aveva svolto i lavori in modo più che soddisfacente. Cose da non credersi oggi; infatti non si sarebbero mai più ripetute.

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In questo scenario, con il nuovo millennio alle porte, noi riponevamo fiducia su questi signori e loro ricambiavano selezionando la ditta per la realizzazione di nuovi interventi. Oggi, quella routine dei tempi andati mi pare quasi come un idillio, anche se non è così, perché capitava che taluni ci annotassero dei difetti; talvolta, alcune lamentele preludevano al fatto di dover anche rifare una qualche parte d’opera, o ripetere un lavoro, ma la cosa fondamentale è che c’era assoluta correttezza; mi ricordo che esisteva una reciproca fiducia e non esisteva mai l’intento di approfittarne, non si inventavano storie per non saldare i conti. Sebbene non fosse un gioco da ragazzi, perché anche all’epoca esisteva (eccome) la concorrenza, e infatti anche allora i prezzi venivano ‘tirati’, in generale tutto procedeva bene. In quel contesto il magazzino era un porto di mare, con camion e furgoni che partivano e arrivavano; tutti noi della squadra, dall’ufficio al cantiere, eravamo sempre molto indaffarati. Cosa non da poco, all’epoca, esistevano ancora gli utili! Magari bassi ma c’erano… E ripensandoci, anche se non è passato molto tempo, tutto questo oggi mi appare una specie di epopea lontana ed incredibile. La nostra storica impresa edile, come dicevo, godeva di un buon nome e le nostre performance erano riconosciute da decenni; quindi, in provincia di Vicenza, non c’era quasi nessuno che non conoscesse il nostro cognome. Nell’ambito delle costruzioni, dai committenti agli studi di progettazione, chi voleva fabbricare qualcosa, finiva facilmente per interpellarci. Intendiamoci, non si facevano affari d’oro ma tutto procedeva con un andamento che generava una certa soddisfazione; si lavorava bene insomma, io avevo pure un buon stipendio e non immaginavo che tutto ciò non sarebbe durato per molto. Nel trambusto generale, lentamente ma inesorabilmente, appena passato il nuovo millennio, ho iniziato a percepire che nella nostra quotidianità, stava insinuandosi una specie di nuovo germe. Era come una specie di virus che dopo una relativa lunga incubazione poi si sarebbe trasformato nella malattia che avrebbe spezzato questa sorta di benevola e quotidiana consuetudine.

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Per lo più distratti dal Millennium bug e dal cambio €uro / £ira, in molti, non ci accorgemmo che i mercati della nuova era venivano contaminati anche da nuove modalità; anzi, si potrebbe dire che l’economia girasse sempre al solito modo ma le esagerazioni prendevano piede, sempre di più. Iniziava a manifestarsi tutto ciò, ma questa progressione era un’evoluzione piuttosto lenta, che senza clamore forse era partita da lontano e probabilmente, in qualche modo, ciò era anche l’inizio di ciò che poi ci avrebbe proiettato ben bene dentro all’economia globalizzata. Mi ricordo che in varie situazioni avvertivo che qualcosa iniziava a darmi fastidio; il lavoro a poco a poco, mi entusiasmava meno e a volte mi sembrava che non potesse più piacermi abbastanza. Lavoravo provando una certa sensazione di disagio, era come una specie di insofferenza ma non mi era chiaro del tutto, verso chi, o cosa. Forse era la concorrenza sempre più agguerrita a darmi fastidio, o forse ero disilluso dal fatto che gli storici e affezionati committenti stessero ritirandosi sempre più. Molti di loro, infatti, lasciavano spazio ad altri nuovi committenti, i quali però di certo non avevano il medesimo atteggiamento; questi non volevano (e forse ne potevano) mantenere rapporti fiduciari, come invece era accaduto con i clienti che ci erano rimasti fedeli lungo tutto l’arco degli anni Ottanta e Novanta. Macchè, questi erano diversi, fatti di una pasta differente, non li definirei nemmeno committenti ma semmai semplicemente speculatori. Sta di fatto che, anche se in modo appannato, tutto iniziava a farmi sentire che qualcosa non funzionava più come prima; non capivo se ero io a essere inadeguato, se era il passaggio generazionale, con il papà che mi lasciava sempre più spazio, oppure se banalmente era la nostra azienda che non andava più bene. Magari avevamo strategie superate, o inefficaci, che non ci permettevano di gestire questa nuova fase “moderna” nel modo migliore. Nel giro di una manciata d’anni comunque, ben presto, tutto sarebbe diventato molto più chiaro e queste sensazioni, per certi versi inaspettate, da lì a poco mi avrebbero

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proiettato alla vigilia di ciò che in seguito divenne un rigetto per questo nostro sistema economico. Diventavo sempre più critico nei confronti di un modo di fare affari che non mi piaceva e che mi sembrava lontano dalle necessità ambientali e sociali; mi pareva proprio che quasi tutto stesse cambiando in peggio. Negli attori del processo economico riscontravo che si accentuavano abitudini e modi di fare meccaniche e molto ciniche dove l’unica regola era massimizzare il profitto, e ad ogni costo. Quindi, se qualche anno prima percepivo i nostri committenti come rispettabili signori, ora invece (soprattutto in alcuni casi) consideravo il cliente come una sanguisuga; non è certo positivo avvertire sentimenti conflittuali proprio verso chi ti offre una commessa e quindi, in teoria, ti dà l’opportunità di lavorare e di crescere. Questo cattivo cliente – e mi sembrava che non se ne potessero proprio più trovare di buoni – era forse anch’egli intrappolato dentro le regole del sistema; voglio considerare questa attenuante perché, di fatto, anch’egli era infervorato da tutta una serie di meccanismi (assurdi) e da una serie complessa di fattori, dove il fine giustifica i mezzi facendo sempre prevalere solo e soltanto la ricerca del proprio interesse. In quell’epoca, nel passaggio fra vecchio e nuovo conio, le speculazioni avanzavano poderose, e infatti l’appartamento che costava cento milioni di lire nel 2000, nel 2002 passava già a circa ben 100 mila euro! Praticamente il doppio. Questo fenomeno agiva come un fattore anabolizzante per il mercato immobiliare e sembrava spingere tutti a voler investire e a fare affari nel mattone. Una specie di doping finanziario che conduceva a un fermento, tale da scatenare una vera e propria corsa, una specie di febbre. Anzi era un febbrone (e pure da cavallo) per il mattone, e la qual cosa condusse il mercato a dilatare talmente tanto gli investimenti immobiliari che si intraprese la direzione verso un vaneggiamento collettivo. Si aprivano nuovi cantieri creando in modo massiccio nuovi immobili, ovviamente ciò avveniva sovrappopolando d’offerta un mercato a dismisura, che quindi ben presto doveva per forza ingolfarsi del tutto. Ancora case, palazzi e appartamenti; ancora nuovi 25


operatori, con una concorrenza che aumentava sempre di più; si aprivano nuove immobiliari e anche altre nuove imprese di costruzioni; in poche parole, domanda e offerta parevano in costante stabile espansione. Entrare nel nostro comparto era molto semplice perché non prevedeva (e non prevede) alcun tipo di filtro; non esistono abilitazioni, né patenti o altro e poi non servono nemmeno chissà quali investimenti. Quindi chiunque, anche tanti improvvisati, avevano la possibilità di cimentarsi in questo promettente settore, bastava più o meno un furgone con sopra una carriola e saper approssimativamente tirar su un muro. Ci si recava in camera di commercio e con l’iscrizione si era pronti, così ogni mese altre centinaia di società erano sul mercato. Già, il mercato, tanto c’è sempre lui pronto a selezionare, giusto? Quel mercato ha sempre ragione ed è questo il bello del turbo capitalismo, deregolamentato e con la propensione all’elevata concorrenzialità. Perché mai limitare o peggio impedire, a chi ne ha voglia e capacità, la possibilità di aprire una nuova azienda e cominciare una nuova avventura in un settore così promettente? Chissà che ora queste domande, ronzino anche nelle teste dei capoccioni, spero però non soltanto nelle tragiche occasioni, tipo le catastrofi naturali, terremoti, alluvioni e via dicendo. Dove poi son tutti bravi a ricordare che nel mondo delle costruzioni esiste una certa inadeguatezza di taluni operatori e magari talvolta si pensa (fondatamente) che sia un mondo opaco, permeato anche persino da sprazzi di disonestà ed illegalità. Il risultato è che costruzioni appena realizzate, che sembrano fatte di cartone, vengono giù alla prima scossa tellurica! E tutti appunto si interrogano su fatto di come sia possibile tutto ciò. Come può accadere tutto questo in un paese civile e avanzato come il nostro? Le opere edili, tutte, dalla banale casa in cui viviamo, al ponte del viadotto, come anche le scuole dove mandiamo i nostri figli, sono strutture complesse. I fabbricati e le opere civili sono architetture e opere d’ingegneria che dovrebbero essere eseguite con la massima cura e perizia, da soggetti competenti e di conclamata professionalità. La fabbricazione edile passa (o meglio dovrebbe passare) attraverso processi e 26


materiali di inconfutabile qualità. Invece nel nostro Paese, la bella Italia, le cose che riguardano questo importante settore sono lasciate un po’ al caso: non ci sono esami da sostenere ne titoli da conseguire, chiunque dall’oggi al domani, può professarsi impresario edile! Semplicemente si apre un’azienda e poi ci si butta nella mischia. Tanto il nostro bravo mercato, che seleziona, cresce, decresce, cambia rotta, fa tutto da sé e ha sempre ragione. Magari anche esasperandone le tendenze, come successe quando anche la finanza (vedi soprattutto da fine millennio fino ai primi anni duemila) attraverso le banche si gettò a capofitto nel grande affare, perché questa meravigliosa espansione bisognava sostenerla ed appunto finanziarla. Alla fine dava ottimi ritorni. Ecco come quella fervida speculazione immobiliare, per una manciata d’anni, non conobbe più limiti; tutti sembravano voler investire in ciò che veniva definito un vero e proprio bene rifugio. Case, appartamenti, uffici, nuovi centri commerciali: si costruiva di tutto e il mattone diventava l’emblema dell’investimento sicuro. Altroché, una vera garanzia, così molti potevano dar sfogo alla propria capacità creativa e al proprio fiuto per gli affari, dal fruttivendolo all’avvocato, dal piccolo imprenditore al commerciante, chi aveva da parte due palanche poteva gettarsi in quella speculazione che garantiva ottimi ritorni. Si costituiva l’immobiliare e via, a costruire il condominietto poi da vendere o da mettere a rendita. Così, in mezzo a questo entusiasmo generalizzato, il Paese in breve fu trasformato in una specie di enorme cantiere, dove pullulavano nuovi palazzi e palazzetti. Centinaia, e forse migliaia, di nuove unità ogni mese venivano immesse in questo mercato, con l’offerta che cresceva sempre più e intanto, durante questo processo, mutava l’urbanizzazione della nostra nazione; dappertutto, dal paesello di campagna, alla periferia di città c’erano blocchi, scatoloni e scatolette che si ergevano nuovi, cementificando un territorio già di per sé parecchio denso di edifici. Le nuove lottizzazioni non si contavano e anche la politica, con i cari sindaci (almeno la maggior parte di loro) erano felici di poter incassare gli oneri di urbanizzazione con i quali risollevavano le sorti delle loro amministrazioni locali. Erano contenti di poter 27


finanziare quei nuovi marciapiedi, e le asfaltature e realizzare giardinetti attrezzati; tutta roba con la quale poi si conquistavano l’elettorato. Così anche qui, nel “rampante” Nordest, chilometri quadrati di scura e fertile terra veneta venivano svenduti agli usi speculativi e passavano da agricoli a urbanizzati. Ma vuoi mettere a confronto le coltivazioni con la moderna e avanzata tecnologia del cemento; la crescita la si annusava, era lo ‘sviluppo’, era la modernità del ‘progresso’.

Bisogna dire che, tra l’altro, forse un po’ all’americana, i centri

commerciali erano anche sempre più grandi e multifunzionali con i megastore, i multisala e gli outlet d’ogni tipo; poi anche le zone residenziali divenivano sempre più pittoresche e uniformate a uno stile universale. Cosa grave, si privilegiavano quasi sempre i nuovi progetti, quindi si finiva per consumare sempre nuova terra vergine che ovviamente diveniva progressivamente sempre più rara e costosa. Un gran peccato non aver cavalcato questo fenomeno anche per riqualificare e recuperare aree post-industriali, siti dismessi e borgate obsolete e degradate, questa diavolo di speculazione edilizia almeno alla fine sarebbe anche servita a qualcosa. Ma del resto, si sa, nel nostro paese, fatto di tanti edifici storici e anche di tante lungaggini, fra comuni enti e soprintendenze varie, il restauro e il riutilizzo preludeva a tempi biblici, quindi scoraggiava assolutamente nel modo più categorico. Per questo veniva preso in considerazione assai marginale. Così si perse pure una epocale occasione per

modernizzare e valorizzare il

patrimonio immobiliare esistente: veramente un gran peccato! E tutti questi nuovi scatoloni che fine avrebbero fatto? Chi avrebbe mai pensato che poi, alla fine, tanti di questi tecnologici contenitori fatti di acciaio, vetro e cemento sarebbero rimasti vuoti? Ma, appunto, all’epoca era facile costruire; il sistema bancario, proprio all’opposto di oggi, elargiva fantastiche linee di credito pretendendo garanzie molto modeste, sicché per realizzare questi moderni e spesso temerari progetti, veniva utilizzata un’esasperata leva finanziaria. In tal modo, soprattutto poco prima del 2000 e fino a metà del primo decennio del nuovo millennio, qualsiasi uomo d’affari e faccendiere, 28


mettendo sul piatto un capitale minimo, spesso anche solo pari al 10% rispetto al valore necessario per realizzare il progetto, poteva partire per l’avventura. Si presentavano quei quattro conti del cosiddetto ‘business plan’ e via… era fatta, diventavi ‘palazzinaro’. Innegabilmente c’era parecchio fermento, ma gradualmente il sistema andava saturandosi completamente, era ovvio che l’offerta, in breve tempo, avrebbe superato la domanda; però sembrava che nessuno volesse pensarci. Eppure il termometro dell’assorbimento degli immobili risultava rallentare, ma nessuno si fermava e si andava avanti. Quando l’ingorgo diventò bolla immobiliare che scoppia, allora si che i lavori diminuirono repentinamente e la concorrenza, che si era messa in moto fra gli operatori da anni, divenne ben presto guerra della sopravvivenza. Molti si adeguarono a lavorare sottocosto, sebbene fosse un’assoluta assurdità; pur di riuscire a mantenere le posizioni conquistate molte imprese, in diverse forme e modi, svendevano il loro lavoro. Ma era solo l’inizio, infatti verso fine 2007 il malessere dell’intero comparto fu accompagnato da un sistema economico nazionale non più in buona salute; sicché la grande fuga dalla nostra manifattura divenne ancor più poderosa. Questa, in realtà, era una tendenza che andava solamente a consolidarsi, perché era partita una buona decina d’anni prima. Tutto ciò preludeva a quella consistente e rischiosa deindustrializzazione del nostro territorio; lo sapeva l’imprenditore tanto quanto l’operaio e lo sapevano benissimo le istituzioni, ma niente, nessuno intervenne mai per frenare questo fenomeno. Così il manifatturiero, che era la spina dorsale del saper fare italiano, la colonna portante della nostra economia da oltre un secolo, si disgregava; però non suonava alcuna sirena, gli allarmi, anche qui, nell’ex emergente Nordest, rimanevano silenti; e questo nonostante la solida tradizione di importanti comparti e filiere. Del resto chi poteva rimanere sul mercato a quelle condizioni globali? Chi avrebbe potuto resistere con costi così elevati? Da noi produrre costava sempre di più e il costo del lavoro diveniva insostenibile se confrontato a quello delle economie emergenti; eppoi, come già detto, la tassazione era (e rimaneva) da sempre esorbitante. C’era poco da fare, 29


chi doveva competere nel mercato globale doveva trovare alternative, pena l’esclusione dal mercato stesso. Ben presto, a cominciare soprattutto dai settori più propensi all’internazionalizzazione, come per esempio il tessile, si iniziarono a smantellare le catene produttive nostrane, con molti imprenditori che, non reggendo più la concorrenza internazionale, si spostavano.

Forse l’alternativa per queste

aziende sarebbe stata consumarsi e “perire” a causa di margini che si facevano inesistenti. Quindi anche per queste ragioni: via, andiamo via di qui. Andiamo in Romania, in Serbia, in Slovacchia, oppure in Bulgaria, Turchia o magari nel Nord Africa. Anche più distante, nel Sudest asiatico, in India o in Cina. Pensare che da piccolo, per mandare qualcuno a quel paese, si diceva “ma vai in Cina” I gruppi più grossi, come pure anche tante P.M.I. letteralmente scappavano via di qua e andavano ovunque potessero garantirsi la sostenibilità dei conti. Forse, in alcuni casi, anche solo una migliore redditività. In Veneto e soprattutto a Vicenza, il tessile era stato il ‘fiore all’occhiello’ della nostra operosa industria per quasi un secolo; ciò che succedeva, senza che la politica battesse ciglio, era anche incredibile. Un intero distretto, con tutta una filiera dietro a sé, stava gradualmente per essere smantellato e così, progressivamente, i lanifici e le tintorie chiudevano; i marchi del pronto moda spostavano i loro stabilimenti all’estero e questo non riguardava più solo la Schio della Lanerossi, o la Valdagno dei Marzotto, succedeva dappertutto. Una miriade di fabbriche e fabbrichette minori, talvolta comunque con marchi di successo internazionale, sembravano non poter più rimanere qui, dove erano nate. E dietro di loro, via, altre aziende ancor più piccole emulavano pari pari, con i piccoli capitani d’azienda che decidevano, anche loro, di de-localizzare e spostare le loro produzioni. Anche la moda e il casual d’innumerevoli e conosciuti brand nostrani, famosi in mezzo mondo, come Diesel, Replay e Gas Jeans, con tanti altri ancora (come il distretto calzaturiero e sportivo) mantenevano qui i loro centri nevralgici; rimanevano gli uffici con magari i settori design & progettazione, oppure i reparti di ricerca e

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sviluppo sul prodotto, i reparti commerciali con la logistica ecc. Ma le catene produttive: via, via, spostarle altrove. Non ci si poteva più permettere di avere operai qui, era meglio spostarsi dove costavano un quarto e a volte anche meno. Eccola l’internazionalizzazione e il mercato, ancora una volta tutto si dovrebbe regolare da sé, giusto? Ha il mercato sempre ragione? Certo, che sì! Infatti ecco che la musica si diffonde e anche in altri settori, come la meccanica sofisticata (la cosiddetta meccatronica) con gran parte dell’automotive e fino all’industria automobilistica attuano la medesima strategia. Parecchi, davvero tanti erano gli imprenditori che si organizzavano e pianificavano di smantellare le loro fabbriche; centinaia, forse migliaia di catene produttive a poco a poco sparivano e altri nuovi capannoni rimanevano vuoti. Con le scritte affittasi e vendesi e con altri nuovi operai che perdevano il loro posto di lavoro. Molti degli imprenditori e artigiani che rimanevano qui, erano sempre più soggetti a praticare la solita politica dei prezzi al ribasso; ovviamente non calavano tanto i prezzi al consumo (quelli per i consumatori) che com’è noto, va già bene se si mantengono abbastanza stabili. I prezzi di filiera però, che appunto, nella nostra matura economia si compongono di decine di passaggi (e ogni intermediario deve ricaricare il suo utile) si abbassavano. Perciò, in tutti i settori, non si sentivano che lamentele e tutti affermavano di aver sempre minore margine operativo e utili inconsistenti. Arrivati a questo punto, se da una parte i consumatori faticano a mantenere un certo livello, e dall’altra parte anche le imprese vanno sempre più col fiato corto io non penso serva essere dei geni per capire che c’è qualcosa che non funziona più. Ma allora chi è che ci guadagna in questo diavolo di sistema? Saranno mica quelle poche e rare gigantesche realtà? Vuoi che magari, da questa situazione, abbiano saputo anche trarre ulteriore vantaggio? Forse è così, non lo so; magari guadagna chi, in casi particolari e circoscritti, rimane in quelle cosiddette nicchie di mercato, riparati da quella concorrenza che si è fatta esasperata. Oppure saranno appunto i 31


‘pesci grossi’ dell’economia a rimanere i veri padroni del sistema, con le famose multinazionali e i loro vari oligopoli che con le tentacolari lobby mantengono efficientemente le loro posizioni di netta dominanza. Sinceramente non mi è chiaro, sicuramente non ho certezze, ma di una cosa sono convinto: la retroguardia, fatta soprattutto di piccola industria, di artigiani, di professionisti ed esercenti, in gran parte soffre sempre più. Oggi, per loro (e fino a poco tempo fa anche per me) rimangono solo le briciole, ma queste rimangono solo nei casi migliori. Se questa categoria, che costituiva la media

borghesia del nostro Paese, è in costante

compressione verso il basso, ed è soggetta a farsi una concorrenza esasperata per poter lavorare in un sistema dove tutto è ridotto al saper comprare al prezzo più conveniente e dove s’è innescata la cosiddetta guerra fra i poveri, sicuramente l’impoverimento rimarrà assicurato. Ecco a cosa si è ridotta la vita di un azienda: più o meno una costante battaglia per non soccombere, la battaglia per poter rimaner a galla. Forse la solida e proverbiale capacità del mercato di potersi autoregolare da solo è quindi smarrita? ma che hanno fatto (e che fanno) le istituzioni? Beh, è chiaro: sono rimaste a guardare o, peggio, hanno rivolto lo sguardo altrove e così alla classe dirigente, il nostro establishment economico-politico (forse realmente in mano ai soliti noti, come i politici di professione e le potenti famiglie della grande industria e della finanza) è andato bene così. Mi chiedo se arriverà un cambio di rotta e mi rispondo che, secondo me, se non arriverà, ci sarà uno scossone. Quindi voi cervelloni e classe dirigente, forse è meglio che meditiate seriamente di cambiare rotta, perché se continuiamo con l’industria che cede ai trasferimenti, alle chiusure e alle riorganizzazioni, e spariscono le catene di montaggio, e l’occupazione cala sempre di più, care istituzioni è meglio che non restiate placide a guardare. Perché prima o poi tutto questo genererà un prezzo da pagare. Oh il prezzo che paghi, il prezzo che paghi. Ora non puoi allontanarti dal prezzo che paghi. 32


IV Bad moon rising I see the bad moon arising I see trouble on the way (Creedence Clearwater Revival)

Quel fantastico mondo delle costruzioni, il cosiddetto settore trainante, dopo che molta della manifattura made in Italy era sparito, non se la passava affatto bene. Le cose, appena superato il 2006, andavano davvero male e da lì in poi non poterono che peggiorare. Situazione che si appesantiva e scenario del mercato immobiliare che iniziava a mostrare segni di vera e propria refrattarietà; le case, gli appartamenti, gli uffici e i negozi man mano diventavano sempre più difficili da piazzare. Nel contempo, anche i soldi pubblici si esaurivano, quindi poche scuole, teatri e altro da costruire. Cosa ci era rimasto? Cosa restava da fare agli impresari se gli storici e affezionati clienti, che per anni avevano garantito la costruzione di nuovi stabilimenti, erano fuggiti verso le mete del salario a 400 dollari al mese? Pensare che qualche anno fa, la nostra locale e benemerita Associazione Industriali aveva organizzato pure i viaggi studio per approfondire la possibilità di sbarcare fuori confine. Per esempio a Šamorin, in Slovacchia, c’erano nuove opportunità di business; infatti, alcuni imprenditori locali, non si lasciarono scappare l’occasione e aprirono proprio lì i loro nuovi stabilimenti. Come potevano rinunciare a un fisco più umano e, soprattutto, come potevano non approfittare di detassazioni e agevolazioni varie che quei governi mettevano in campo? In questi posti, sembravano attenderli a braccia aperte i nostri imprenditori! Questa era la piega che aveva preso il paese, infatti anche nel nostro comparto, dopo che progressivamente quei cari vecchi clienti erano svaniti, anche noi, come tanti, non avevamo molte alternative e ci gettammo in pasto ai palazzinari; sembrava che ancora vivessero di una certa rendita questi galantuomini. In realtà altro non era che 33


l’onda di ritorno di una speculazione che per qualche anno aveva goduto di un dirompente successo. Diciamo che non era esaurita e quindi questi erano i nostri nuovi clienti;

appunto gli speculatori, gente che non arrivava dall’industria ma

piuttosto dall’ambiente della finanza faccendiera. Molti erano definiti immobiliaristi d’assalto, praticamente pescicani, a loro non poteva proprio fregar niente di niente, né della tua storia, né del tuo buon nome, né di come lavorassero i tuoi capimastri; volevano solo ed esclusivamente il prezzo più basso, fine della storia. Che belle dinamiche da ricordare quelle, con i nostri prezzi che scendevano sempre; ma questo non accadeva solo negli appalti privati, macché, l’offerta di imprese e pseudo tali, era talmente elevata che, anche negli appalti pubblici, la concorrenza diventava pazzesca. La soglia della cifra che si offriva al fine di aggiudicarsi una commessa si abbassava sempre più, fino ben oltre i limiti della sostenibilità economica e sempre più spesso alcuni decidevano (e talvolta anche noi) di lavorare a qualunque prezzo. Era come navigare a vele spiegate verso il ‘suicidio economico’. Ma la svolta vera si ebbe di lì a poco, quando - a bolla immobiliare scoppiata precipitavano in disgrazia pure questi nuovi cattivi committenti, appunto gli immobiliaristi. Si trovarono, in men che non si dica, con le ‘pezze al culo’ (perdonate il francesismo) e quindi a noi, gli impresari edili, a meno di non voler tentare l’avventura estera, rimanevano solo ed esclusivamente proprio quei rari appalti pubblici fatti da uno stato che già era (diciamo la verità) praticamente sull’orlo del fallimento. Tutti comunque si sforzavano di accaparrarsi il maledetto appalto, anche se era semplicemente antieconomico; ma si partecipava, ad ogni costo. E tutti passando verso una tremenda selezione, diversamente significava non lavorare e quindi chiudere. Perché non si poteva trovare altro e nulla di migliore. Tanto per non farsi mancare nulla, eravamo pure scivolati dentro all’èra del contenzioso facile; nel favorire e tracciare la via di questa disfatta, bisogna ricordarselo bene, c’erano anche appunto le leggi sull’appalto pubblico. Il ‘massimo ribasso’ sicuramente peggiorava ulteriormente le condizioni di un mercato quasi 34


senza domanda ma zeppo di offerta; un ambiente economico che insomma, lasciava ai disperati (come noi) campo libero per potersi dar battaglia fino all’estremo. Questa complessa questione, però merita un minimo di spiegazione, infatti, non proprio tutti erano disperati; anzi, evidentemente c’erano anche delle imprese che sapevano bene come aggirare l’ostacolo. In poche parole, ecco che cosa avveniva negli appalti pubblici: le opere (le strutture e i vari edifici) venivano messi in gara a una cifra che in effetti non lasciava spazio proprio a nessun ribasso, ma con la drammatica fame di lavoro che aumentava sempre più, si presentavano decine e spesso anche centinaia di imprese. Tutte erano pronte a sparare la loro bordata, ossia il famigerato sconto, il numerino che poteva decretare l’aggiudicazione o meno della commessa. Così, miriadi di imprese, provenienti da tutto il territorio nazionale, entravano in concorrenza diretta e, follemente, esprimevano la loro offerta, proponendo il loro numero: appunto il ribasso (ossia lo sconto). Questi numeri, nell’ultimo periodo, e soprattutto dopo il 2010, usualmente arrivavano anche al trenta - quaranta per cento. Ma a volte anche di più, perciò eravamo arrivati a modalità del tipo supermarket: paghi uno e porti via due! Dopo questa aggiudicazione, l’impresa aveva poche alternative che riassumo velocemente: 1. La più semplice delle possibilità era che, ancor prima di finire i lavori, fallisse soccombendo sotto il peso di un offerta economica insostenibile. 2. Un’altra possibilità era che, nel tentativo di riuscire (in tutti i modi) a far quadrare i conti, facesse economia su tutto e impiegasse ciò che sul mercato si potesse reperire al prezzo più basso; questo presupponeva, sia l’utilizzo di manodopera a basso costo (sub-appalto selvaggio) sia, ovviamente, la possibilità di installare componenti, prodotti e materiali di dubbia qualità (quando non scadenti). Il noto risultato era produrre opere mal costruite, che manifestavano problemi e deperivano precocemente. 3. La possibilità peggiore, per il nostro Stato, era quella che colpiva direttamente le sue già esauste casse; in tale ipotesi, l’impresa assegnataria (se era ben 35


addestrata) riusciva a dar “l’assalto alla diligenza”. Non era una cosa facile e tantomeno non lo potevano fare gli improvvisati; erano aziende attrezzate a mettere sotto scacco (a livello tecnico e legale) la P.A. con l’ausilio di avvocati, professionisti, consulenti e tecnici vari. In tal modo, le carte dell’appalto venivano gestite accuratamente e tra raccomandate e perizie varie, si poteva riuscire a ribaltare la frittata. Magari dimostrando che il progetto era incompleto, oppure semplicemente per il fatto di aver rinvenuto quelle sorprese (di natura imprevedibile) che avevano fatto lievitare i costi d’appalto. Risultato: una bella revisione dell’offerta causata da quei giustificati motivi che legittimavano all’impresa i ‘maggiori oneri’ che raddrizzavan le sorti dell’appalto. Economicamente si recuperava parecchio e la P.A.* doveva sborsare i danè. Impresa: 1 Pubblica amministrazione: 0 – e fine della partita. Appalto che da 100 lievitava fino a 200 con conseguente aggravio economico di costi a carico della collettività. 4. Infine, l’ultima delle ipotesi, era che l’impresa per salvarsi utilizzasse un certo mix delle prime tre possibilità. Capirete bene quindi che durante gli ultimi due anni d’attività della mia impresa, parlare di prezzi, che come dicevo erano sempre troppo bassi (con poi pure l’aggravante dell’incertezza sugli incassi) per me era diventato una specie di chiodo fisso. Vivevo sulla pelle questa situazione ogni giorno, ma di certo non erano solo queste le ragioni delle mie riflessioni, dei miei ripensamenti sul mio lavoro e in generale delle frustrazioni. Diventavo sempre più critico anche verso il sistema economico e percepivo il libero mercato come una sorta di consunto paradigma. Nella sostanza rimanevo d’impronta liberale (almeno credo) ma mi accorgevo anche, e soprattutto negli ultimi anni, che tendenze e modi di fare di tutti noi, attori di questo teatro, stavano cambiando in peggio. Infatti c’erano innegabilmente dei mutamenti in corso e mi trovavo ad avere a che fare con tutta una serie di operatori (fornitori, clienti, colleghi e anche avversari) che sembravano schegge impazzite. * (pubblica amministrazione)

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Nell’ambiente lavorativo avevo la sensazione che si estendesse un certo deterioramento dei rapporti umani, e sentivo che eravamo arrivati a comportarci tutti in modo troppo cinico e competitivo. In tutte le varie trattative, negoziazioni e patteggiamenti, tutti spingevano sempre più verso il conseguimento del massimo risultato; fare affari a ogni costo era diventato usuale. Avvertivo che s’era quasi instaurata una certa crudeltà, anzi, direi quasi una ferocità, una spietatezza che portava tutti a inquadrare solo l’obiettivo profitto. Paradossalmente, tra l’altro, questo margine era sempre più difficile da ottenere, e quando c’era era veramente scarso. Quindi, e qui sta il paradosso, se volevi restare vivo dentro questo sistema e rimanere in ballo, non avevi molte possibilità, potevi solo tirar diritto senza guardare in faccia nessuno, in sostanza facendoti crescere il “pelo sullo stomaco”. E tutto questo per conseguire che cosa poi? Risultati esigui e incerti - Ne valeva la pena? Poi nel fenomeno subentra (soprattutto negli ultimi anni) anche l’aggravante avidità; un sostantivo questo che era diventato - ed è - sempre più il grande propellente del sistema economico; bisognava accaparrarsi nuovo business e fare numeri nonostante un mercato dal motore imbolsito. Ma quando solo questo diventa importante, di certo non ci possiamo aspettare che l’etica e il buonsenso possano prevalere. Ecco, questa secondo me è una delle ragioni per cui questo nostro capitalismo, votato al mero guadagno e soprattutto al consumismo estremo (spesso fine a se stesso) ha preso il sopravvento facendoci perdere la giusta dimensione. Questo è un meccanismo che in tanti cominciamo ad avvertire come un sistema malato, nel quale si innescano puntualmente sempre nuove e svariate esagerazioni. Quelle che poi appunto prendono forma in gigantesche bolle speculative che inevitabilmente, ad un certo punto, scoppiano. Già da fine anni Novanta e poi, nel primo decennio degli anni Duemila, abbiamo iniziato a conoscer bene queste dinamiche, assistendo anche fin troppe volte all’ingolfamento del sistema. Magari sarò pure un po’ troppo filosofico, ma c’è poco 37


da fare, alla fine dipende molto anche dal fatto che il desiderio di possedere sempre di più, di conquistare, di ampliare e aumentare le proprie ricchezze, è divenuto il nostro globale standard umano. Così sembrerebbe che l’importante, oggi più che mai, sia fare affari, arricchirsi e accumulare; mi viene in mente Oliver Stone, il regista che ha saputo interpretare gli anni Duemila con il film cult Wall Street: Money Never Sleeps - il denaro non dorme mai. Questo sequel del più vecchio Wall Street del 1988, è una buona rappresentazione di come molti cercassero (e cerchino anche oggi) di speculare al massimo e ovunque sia possibile. Infatti, il protagonista, Gordon Gekko, diventa l’emblema dell’avidità, ma sicuramente non è solo finzione, in parte è effettivamente proprio così, perché questa economia e questo sistema ci spingono a ragionare in questi termini. Tutto è anche divenuto pure più evanescente: poca concretezza, scarsa verità e meno concretezza da un lato e, dall’altro, sempre più carta, tastiere e transazioni, le quali poi corrono via etere. I luoghi importanti, i veri templi del capitalismo dell’èra post industriale, sono divenute le borse. Ecco dove l’economia dell’alta finanza, fatta di numeri e di elettronica corre virtualmente, ecco come quotidianamente essa ha il sopravvento sull’economia reale. Oggi l’importante è scommettere e far girare i capitali, passarseli di mano, scambiare e poi guadagnare. E questa bramosia di accumulo spesso è anche il fine che giustifica i mezzi. Pertanto non esistono filtri e non ci sono più freni a queste speculazioni (globali). Infatti gli Stati, spesso stanno a guardare, incapaci di contrastare tutto ciò, o magari a volte, persino favorendo questo sistema che antepone al bene collettivo, pochi specifici e particolari interessi economici, i quali si fanno sempre più grandi e corrono freneticamente da Paese a Paese. Tutto ciò talvolta ha dato anche l’illusione che fosse facile vincere alla lotteria, con il gioco della ‘roulette’ borsistica; infatti sono milioni e milioni i piccoli risparmiatori avvicinatisi in modo massiccio a questa specie di gigantesco gioco d’azzardo ma poi, quando arriva lo scossone (come per esempio nel marzo 2000, quando la bolla della ‘New Economy’ scoppiò) restano con il famoso cerino in mano. Ed è così da almeno 38


una buona ventina d’anni, è tutto un susseguirsi di ulteriori esagerazioni, crescenti speculazioni diventano bolle, che repentinamente si gonfiano e poi scoppiano. Intanto però, c’è chi dal gioco (e sono i veri giocatori, quelli che manovrano il mercato globale, come per esempio le supersocietà fatte di banche, fondi e megacorporation) trae sempre una nuova ed enorme ulteriore quantità di ricchezza, la quale poi la si incanala e la si gestisce, verso una ripartenza e verso nuovi picchi, generandone ancora e sempre di più. E come vediamo questa ricchezza rimane alquanto mal distribuita. Anche nel settore delle costruzioni la bolla immobiliare nacque con queste modalità. Si portò il comparto a una rapida espansione, gonfiandolo come una mongolfiera, eppoi, inevitabilmente, si giunse alla deflagrazione. Dopo lo scoppio, arrivò inesorabilmente la paralisi e la svalutazione dei valori degli immobili; quindi, a ripensarci, noi del settore siamo stati dei bei fessi a pensare che tutto questo non sarebbe successo. Si vabbè, ok, trainanti, anticiclici e tutto quel che si vuol dire ma in realtà, dovevamo aspettarcelo, perché già verso il 2004 - 2005 si vedeva che la curva dell’espansione cominciava sostanzialmente a rallentare. Benché fossimo già con un piede sul ciglio dello strapiombo, non abbiamo voluto crederlo; si blaterava, appunto, del fatto che un settore primario, com’era (e com’è) quello delle costruzioni non potesse avere conseguenze così catastrofiche. E invece: un milione di posti di lavoro persi in un biennio, migliaia di aziende chiuse, tra cessate e fallite, e tutta una classe sociale, appartenente alla “media borghesia” che va scomparendo. Una moltitudine di persone, fatta da quella categoria di operatori, come imprenditori, artigiani, liberi professionisti, tecnici e consulenti vari, che occupavano vari livelli di questa “middle class”. Fu una catastrofe per tutta una filiera, e per tutto un bacino di attività, che comprendevano anche i distretti industriali che tradizionalmente gravitavano attorno alla galassia delle costruzioni. Come le industrie dedite ai prodotti per l’edilizia, i prefabbricati, la produzione di laterizi e anche il settore dell’impiantistica e in generale delle finiture.

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Ma non ci si doveva, né si poteva, lamentare troppo. Tanti sostenevano che la crisi era in fondo anche un modo per far pulizia nel settore e per far nascere nuove idee; si diceva persino che tali condizioni avverse potevano essere un moltiplicatore di opportunità. Chissà, magari per qualcuno fu così in effetti ma non lo fu di certo per la maggioranza; soprattutto non lo fu per quei testardi e orgogliosi piccoli e medi imprenditori, che continuavano a gestire le loro “botteghe” sbattendo la testa sul muro e senza cedere. Loro, senza quasi rendersene conto, sborsavano capitali per tenere su la serranda e non chiudere, e mentre erano occupati a tener duro, intanto, abbandonavano il loro status sociale e venivano risucchiati sempre più verso il basso. Ironia della sorte, non mollando, orgogliosi di tenere aperta la loro attività, nel frattempo venivano anche scannati da un sistema fiscale che prosciugava quell’ultimo sangue rimasto nelle vene, finendoli del tutto. E allora dobbiamo per forza ripensare e metter in discussione un bel po’ di concetti, sicuramente, a mio avviso un mercato così non si può che definire difettoso. Infatti va anche facendosi strada una pesante ineguaglianza, che è sempre più visibile; esiste sempre più una differenza marcata tra le classi sociali e si è formato una specie di solco fra la gente comune e la gente di potere; è un vero e proprio valico, che mette da una parte i poveri e i meno poveri, e dall’altra i ricchissimi e super ricchi. Si tocca con mano: milioni di cittadini, progressivamente, abbandonano quella moderata agiatezza che era il tradizionale status del benessere diffuso e sempre più rinunciano a molte delle comodità e dei beni che prima davano per scontati mentre, dall’altra parte, pochi privilegiati dilatano i propri sfarzi. In taluni casi questi lussi vengono pure esibiti con stili di vita pregni di eccessi, perché esibire per alcuni, si sa, è importante. Ma talvolta poi, il voler dimostrare a tutti i costi, diventa, oltre che di cattivo gusto, pure un fenomeno contradditorio; ed ecco che alcune finte ricchezze, del tutto simulate, vengono mostrate anche solo per una serata o per un week end. E ti ritrovi a osservare così alcuni locali della città, il venerdì sera, che paiono tramutarsi in set di cinematografici stile Hollywood. 40


Altro che crisi, pensi… ma invece è solo il vecchio e ultimo retaggio di quello stile che un po’ ha fatto scuola, ha fatto breccia soprattutto tra fine anni Novanta e primi anni Duemila - e ancora oggi un poco resiste - lo stile che definirei tipo ‘billionaire’; nonché quello assimilabile al nostro ex presidente del consiglio e alla sua corte. Party eventi e locali alla moda, parcheggi con file di macchioni davanti all’entrata; tutto in rigorosa bella mostra; nulla di male, per carità, solo emblema di effimera finzione. Un po’ come negli yacht di tanti porti e porticcioli, dove vengono ormeggiate le barche che poi battono bandiera inglese o sudafricana; quelle che fanno capo alle società di broker e charter e vengono utilizzate per il noleggio. Divertimento e semplice esibizionismo, e per qualche ora ci si dimentica della realtà, ovvero, che la gran parte della popolazione si sta impoverendo sempre più. Ma ad alcuni personaggi basta rimanere al centro dell’attenzione mediatica, così li vedi spesso fotografati appollaiati su divanetti di locali alla moda, dove scorrono bollicine appena sciabolate; salvo poi ritrovarli sui titoloni della carta stampata, dove li riscopri mezzi faccendieri, o peggio bancarottieri, magari anche quasi più famosi di prima. Mostrare la ricchezze, anche quelle che magari non si possiedono, far vedere al mondo la propria potenza; chissà, è una cosa, questa, che a volte mi fa pensare. Per esempio ripenso anche a quel famoso modello di vita che trovava posto nelle cronache patinate di metà anni 2000, dove apparivano le esagerate e sgargianti feste mondane fatte di lusso, lustrini e belle accompagnatrici, dove gli incontri del jet set erano il trampolino di lancio dei famosi immobiliaristi d’assalto. Personaggi, questi, che hanno anche vissuto la loro epopea - proprio tra il 2006 e il 2007 – poi marchiati come i ‘furbetti del quartierino’; i protagonisti erano i vari Coppola, Ricucci e company. Quelli che volevano dare la scalata alle società della finanza del salotto buono (vedasi le eclatanti manovre su RCS e BNL) e si conquistarono la vetta velocemente tanto quanto poi finirono nella polvere. Come dei flash mi torna in mente qualche episodio, tipo interviste o servizi televisivi dove personaggi, come per esempio Matteo Cambi (famoso guru delle T-shirt dal

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fiore stampato sulla schiena) in un’intervista televisiva del 2007, aveva affermato che «è bello anche averle le cose e non usarle». Già, sarà pure così, certo che oggi, a me, quell’èra sembra proprio al tramonto. E’ stridente confrontare questa fenomenologia , generatasi proprio ancor più in questa moderna economia della finanza e della speculazione con gli esempi della industrializzazione e dello sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta; probabilmente molti atteggiamenti contemporanei in quell’era sarebbero stati considerati addirittura riprovevoli. Ma del resto tutto questo è lo specchio di come sono cambiate le cose, infatti oggi – almeno questa è una mia idea – il modo di essere e di fare impresa spesso non hanno più molto a che fare con i rapporti di fiducia e la serietà vecchio stampo. Il valore e il rispetto per la parola data frequentemente viene meno, troppo spesso e nella frenesia ci siamo abituati ad essere più che altro concentrati a perseguire ciecamente solo il mero proprio vantaggio. Si contratta e a volte si media e lo facciamo bene, perché siamo più istruiti e disciplinati, per certi versi siamo più bravi e siamo anche più ‘international’, ma di fatto siamo diventati però anche meno sereni e forse anche un po’ più litigiosi; così siamo anche tutti cresciuti nella diffidenza reciproca; perché «Business is business» dicono gli anglosassoni. E figuriamoci se nel nostro settore - le costruzioni - era diverso; man mano che il tempo passava, s’imparava a speculare sempre di più sulla pelle altrui, perché bisognava appunto allinearsi alle consuetudini del mercato e delle sue regole, diversamente non stavi in piedi, eri fuori. In sostanza credo proprio che sia questa moderna e contradditorio iper-liberale economia che ci spinge sempre di più verso il limite; bisogna applicarsi al fine di trovare le migliori condizioni, spremere e ottenere il massimo, sempre e ovunque. Oggi si deve strappare la migliore offerta, bisogna saper schiacciare al massimo e ottenere quasi l’impossibile. Anche negli accordi fra le parti la scientificità è ben applicata, in modo veramente esaustivo; tutto deve trovare la specificazione nelle moderne clausole di contratti che diventano fascicoli sempre più spessi. Perché tutto deve essere studiato a tavolino, con tanto di consulenti 42


legali, a causa del fatto che tutti sono con la paura di farsi fregare dagli altri. Altro che quelle scarne paginette e una stretta di mano, com’ero abituato a vedere quindici anni fa. Ciò nonostante il pesce piccolo continua ad esser mangiato dal pesce più grande, e i subappaltatori rimangono disposti a tutto pur di lavorare. Con loro, alla solita maniera, si procede e quindi vai di spremitura; tanto poi, c’è chi fa lo stesso con te. Ecco perché già qualche anno fa mi pareva proprio che, in queste condizioni, nessuno ma veramente nessuno, potesse più lavorare né con soddisfazione, né (tanto meno) con serenità. Dopo più o meno un anno dallo scoppio dei mutui sub prime del mercato USA, anche qui eravamo ormai alla fase di stallo; c’erano ancora gli pseudo affaristi dell’ultima ora con gli ultimi ritardatari che tentavano di chiudere le loro ultime operazioni: nuove iniziative immobiliari che magari erano già in sviluppo. Ma si trovavano oramai tremendamente spiazzati, perché anche le banche cominciavano a tirare i freni; anzi, ben presto gli istituti cominciarono proprio a remare indietro a tutta. La vena di questo lungo e irrefrenabile (effimero) sviluppo si era proprio esaurita ma gli attori della filiera, che non potevano starsene lì a morire come le mosche quando arriva l’inverno, tentavano comunque di passare in qualche modo questa pessima e fredda stagione; il mercato restava ingorgato e nessuno voleva cedere. La competizione che rimaneva in atto non poté che peggiorare e si fece durissima. Le gare, soprattutto quelle pubbliche, erano molto diradate e diventavano delle vere e proprie aste; il prezzo perdeva d’importanza, ci si era scollegati dalla realtà perché l’essenziale rimaneva l’aggiudicazione per portarsi a casa l’appalto, era pur sempre lavoro ma solo così, tanto per poter tirare a campare e attendere tempi migliori. Si lavorava e non si poteva ragionare troppo sulle condizioni, perché si pensava che un fenomeno del genere sarebbe presto passato, in poche parole tutti attendevano di passare il guado. Lavorare in tali condizioni, provocava notevole stress, molti impresari prendevano rischi sempre maggiori e le contestazioni aumentavano, con i pagamenti che si diluivano sempre di più nel tempo. Vivere la professione 43


dell’impresario rappresentava un disagio e lo respiravi nell’aria, infatti molti erano accompagnati anche da brutti pensieri e dal Maalox per lo stomaco. Ma tutti eravamo parte di un ingranaggio. O accettavi di far parte di questo tipo di meccanismo, o ti fermavi, sgombravi il campo e chiudevi. Ciliegina sulla torta, dopo le difficoltà e la pressione fiscale bisognava pure sorbirsi tutta quella massa di carte di una burocrazia barocca e arzigogolata. Leggi nuove e intempestive, aggiornamenti normativi angoscianti e talvolta anche stupidi; era come una pianta in perenne fioritura e trovavo incredibile come le promesse dei politici per far calare la pressione di questa orrenda macchina rimanessero sempre e solo promesse. Non si semplificava mai un fico secco, niente di niente e rimaneva la solita montagna di carta da gestire e archiviare. Ma dopo il danno, pure la beffa, perché per districarsi in quella ragnatela, si pagavano pure fior fiore di consulenti. Era un po’ come se lo stato facesse in modo di pensarle giuste per poterti inceppare; mi sono chiesto spesso se non vi fosse un chiaro e preciso intento di sabotarci, ma forse era invece solo la stupidità di un sistema burocratico, che più che altro, tende a tenersi in piedi autoalimentandosi.

Vedo sorgere una luna cattiva. Vedo arrivare problemi.

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V Welcome to the jungle You know where you are? You are down in the jungle baby (Guns N’ Roses)

In quella situazione, tra il 2008 e il 2009, cominciavo a pensare chi me lo facesse fare. Come si poteva andare avanti così? Si capiva che eravamo giunti al crinale che preludeva a una inesorabile discesa; quella che avrebbe condotto tante imprese al tracollo. La nota crisi dei sub prime, scoppiata al di là dell’Atlantico un anno prima, si ripercuoteva con tutti gli effetti negativi su tutto il settore del ‘real estate’ e questi effetti si propagarono velocemente, espandendosi fino a tutta la regione europea e intaccando anche il Medio Oriente, dove iniziava a soffrire persino Dubai, simbolo dello sviluppo immobiliare per eccellenza. Non c’era più alcuno scampo, e sebbene alcuni si fossero illusi che qualcosa o qualcuno potesse (e anche dovesse) prendere contromisure per attutire gli effetti di quell’imminente disastro economico, in realtà non si mosse una foglia. Le istituzioni (tutte) rimanevano invischiate nelle loro solite beghe; impegnate a elaborare quei vari condoni, oppure a organizzare i rimpatri dei capitali esteri e mettere a punto le detestabili leggine ad personam. Peggio ancora, i megafoni della politica, imperterriti, continuarono a farci sapere che la crisi, in fondo, non era poi così preoccupante. Di coordinare e organizzare quelle minime e urgenti misure per fare in modo di spegnere l’incendio in corso, macché, niente e nessuno tra coloro che avevano in mano le leve del potere se ne preoccupò. La casta (solo così la possiamo chiamare) rimase distaccata e lontana dai problemi da risolvere e dalla vita reale; la casta rimaneva retoricamente appigliata alle sue infinite litanie da pseudo campagna elettorale, con le solite parole ormai stantie. La ‘cabina di regìa’ non esisteva ma se 45


esisteva era preoccupata più che altro a mantenere il proprio potere, quello si che la politica dei partiti lo sapeva far bene. Evvai di comunicati, interviste e baruffe, parole, parole e ancora parole; fino alla nausea, con le voci autorevoli dei partiti che intensamente si appellano alla responsabilità, e poi vai anche di tranquillizzanti messaggi di ottimismo, tipo: «non siamo la Grecia». Ma bisogna riconoscerlo, del trainante settore delle costruzioni, invece la politica un po’ se ne preoccupava, eccome. Preoccupazione… già questo termine significava più che altro aprire l’ombrello protettivo sui grandi appalti: la TAV, le varie Pedemontane, i raddoppi autostradali, i termovalorizzatori, il Ponte sullo Stretto (dove centinaia di milioni sono stati bruciati ma non vedremo mai nulla) e tutti i vari project financing iper milionari. Lì si che si interveniva, per loro le costruzioni erano per lo più espressione di questi mega lavori, dove si contava la solita manciata di note imprese e cooperative che si spartivano la torta. Di tutto il resto, della galassia fatta di piccole imprese e piccole opere, nonché di quel milione e mezzo (abbondante) di addetti senza più occupazione, non fregava un granché a nessuno; e intanto il settore sprofondava sempre più nella disgrazia. In quella situazione gli appalti di piccolo taglio disponibili erano sempre meno, perché, con quel dannato nostro conclamato debito pubblico monstre, lo Stato aveva deciso di “puntellare” solo queste mega infrastrutture, mentre per il resto si chiudevano i rubinetti di spesa, quindi alle amministrazioni locali si impediva di spendere i propri soldi attraverso il famigerato patto di stabilità. Per le nostre imprese edili si scatenava l’ancestrale guerra fatto di battaglie fino all’ultimo sangue, prevaleva ormai solo l’istinto di sopravvivenza; i committenti storici, quelli che ho in precedenza definito gli aficionados, si erano estinti, e i nuovi committenti (gli immobiliaristi d’assalto) erano oramai anche loro alla canna del gas. Dopo tutto questo, veniva pure a mancare l’appalto pubblico. Ciò che stava accadendo in quella stagione forse non si era mai visto prima; sul terreno di gioco non c’erano solo le difficoltà dovute alla crisi, scatenate da un mercato che si restringeva, no. C’era una vera e propria drammatica fame di lavoro, una fame che si 46


distribuiva efficacemente e pesantemente a tutta la filiera. Colpiva tutti: fornitori, subappaltatori, artigiani e squadre che lavoravano ‘a cottimo’ e così, questi ultimi, appunto i cosiddetti “cottimisti”, che erano l’ultima evoluzione malsana di un mercato cinico che mirava principalmente a scaricare le rogne a chi sta nel girone inferiore. Queste squadre di operai che venivano remunerati per le quantità effettivamente svolte (quindi per esempio un tanto al chilo, o tanto al metro quadrato e metro cubo) stavano alla base dell’organizzazione piramidale economica. Ovviamente praticavano tariffe molto basse e talvolta, ahimè, provenivano anche da contesti, per così dire, opachi; tale fenomeno assomigliava parecchio a quello del cosiddetto ‘caporalato’ che imperversava soprattutto nel settore agroalimentare del nostro Sud, con tutte quelle dinamiche annesse e connesse, tipo impiego di bracciati clandestini, lavoro sommerso e irregolarità varie. Da noi nell’edilizia, non era poi tanto diverso, faccende non sovrapponibili ma simili; infatti anche nel nostro comparto, arrivarono quelle figure prive di scrupoli, che comandavano truppe fatte di uomini (schiavi) mal pagati e talvolta appunto anche non propriamente regolari. Questi operai spesso dovevano dimenticarsi i minimi salariali e le coperture INPS e INAIL, diversamente quale poteva mai essere la via per praticare quelle loro tariffe? Nessuno se lo chiedeva? In ogni caso era un metodo irresistibile per abbassare i costi e quindi intaccò l’intero settore, ovviamente contribuendo rovinare il mercato regolare. Infatti sempre più frequentemente, al fine di far fronte a prezzi insostenibili, si utilizzavano questi metodi anche nella catena superiore. Molte imprese conosciute, “regolari” e pure blasonate, affidavano a queste organizzazioni le opere da costruire e diveniva usuale subappaltare selvaggiamente; si iniziava a subappaltare opere già subappaltate, con gli impresari che potevano scaricare buona parte del rischio economico su chi stava sotto usufruendo di condizioni a prezzi stracciati. Nel frattempo molte ditte avviavano quelle ristrutturazioni aziendali che tagliavano i posti di lavoro dei muratori specializzati, addetti ben addestrati quelli, e provenienti da una vera e propria tradizione. Ma con loro i libri paga erano assai pesanti a 47


confronto dei lavoratori a cottimo; costavano circa 35 euro l’ora, il doppio rispetto a quest’ultimi. In tal modo poi le imprese potevano anche risparmiare a livello finanziario, perché mentre il dipendente rappresenta un costo mensile fisso, il cottimista viene contrattualizzato a seconda delle esigenze, quindi è trattato alla pari di un qualsiasi fornitore: pagamento sessanta / novanta, e sempre che vada tutto bene. Ecco spiegato, in breve, il perché di questo dilagare del contratto di subappalto: molte imprese avevano modo di diminuire i famigerati costi, proprio come nel caso dei colleghi imprenditori di altri settori industriali internazionalizzati che appunto delocalizzavano. Va da sé, alcuni esagerarono e sfruttarono un’occasione, anche perché un sistema poco trasparente si faceva sempre più strada e quanto più il fenomeno prendeva piede, tanto più dilagava e tanto più anche le organizzazioni malavitose trovavano il modo di infiltrarsi dentro agli appalti. Sebbene tutto fosse sotto gli occhi di tutti, perché lo sapevano gli operatori come le associazioni di categoria e i sindacati, nessuno fece nulla di concreto per porre limiti a questa giungla. Poco importava e nella battaglia senza esclusioni di colpi, a poco valevano le leggi e le normative; più che altro valeva la regola mors tua vita mea. Proprio come nella giungla.

Sei nella giungla, caro. Benvenuto nella giungla!

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VI

Drive Maybe I ride Maybe you walk Maybe I drive to get off (R.E.M.) Condurre un’impresa non è esattamente come guidare una macchina, è più complicato, ma vorrei metaforicamente tentare questa similitudine. Infatti eravamo come in una folle corsa e nonostante le difficoltà tutti procedevamo. Tutti tenevamo le mani ben salde sul volante e il piede schiacciato sull’acceleratore. Verso la direzione del nulla. Queste macchine (le nostre aziende) le conducevamo, cercando di farle correre, e ognuno provava a rintracciare una via percorribile, una traiettoria possibile, quella che ti potesse almeno far schivare le asperità più dure. In verità però, le strade (tutte le strade) erano dissestate e pericolose. Molti di noi, queste aziende, le conducevamo quasi per abitudine e perché pensavamo di mantenere il nostro ruolo, la nostra posizione sociale. Secondo me alcuni avevano l’idea che proseguire in quella specie di rassicurante routine per alzarsi presto la mattina, andare in ufficio, visitare i cantieri, dirigere, coordinare e via dicendo (come fosse l’unica cosa possibile da fare). Invece avremmo dovuto rassegnarci al fatto che molte di quelle macchine non aveva più carburante; ma sembrava non importante perché quello che contava era non arrendersi. L’importante era ritrovarsi nelle varie assise e riunioni e conferenze dell’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) con i colleghi e altri simili. Lì, come dei semi-disperati ci raccontavamo i travagli di un dannato mestiere; visto che tutti eran messi abbastanza male, in fondo ci si sentiva nella norma e sembrava

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che andasse bene così, continuavi a sentirti parte di quel mondo e ti potevi definire imprenditore edile. In realtà, se qualcuno di noi avesse smesso l’attività in anticipo, magari anche solo qualche anno prima e fosse andato in vacanza in un villaggio quattro stelle ai Caraibi, forse ci avrebbe rimesso di meno. E’ un paradosso ma è vero. Se si fosse agito così molti avrebbero risparmiato un sacco di soldi; quindi tutto sommato in tale ipotesi saremmo stati imprenditori più oculati. Ma nessuno voleva smettere di guidare la propria ‘macchina’, tutti sempre mani ben salde sul volante e piede schiacciato sull’acceleratore, proviamoci almeno ancora per un po’. Le ragioni? Sicuramente sono complesse e molteplici. Secondo me, però, molte sono collegate al fatto che mollare la propria attività, non è una mossa, né facile, né frequente, in campo imprenditoriale. Lasciare significa spesso non potersi più sentire legati a quell’identità aziendale che porta spesso il cognome della propria famiglia e significa anche non poter più far parte di un mondo. Significa alzare bandiera bianca, ritirarsi dalla competizione e significa non poter più sentirsi alla pari degli altri tuoi simili. Questo all’imprenditore crea un certo disagio, poi banalmente a volte subentra l’incaponimento per semplice incredulità (perché ci si dice “Ma come io scendere a tali compromessi” io cambiare vita, io azzerare tutto). Non è facile risparmiarsi dolorose conseguenze, sembra che sia impossibile e quindi alla fine si persevera. Magari ottimisticamente e in buona fede si prova fiduciosamente a non mollare, perché si pensa che proseguire e insistere con impegno porti sempre buoni risultati. Invece non è un automatismo e purtroppo non sempre si è ripagati dagli sforzi, a volte bisognerebbe solo accettare la sconfitta e far subentrare la rassegnazione. Verso la fine del 2010, incominciando ciò che è stato l’ultimo periodo di esistenza della nostra attività, anche noi non avevamo ancora ceduto; non mollavamo e, come tanti, forse semplicemente non eravamo pronti a farlo. In quel periodo credo che tutti - per una sorta di autodifesa e istinto di sopravvivenza - facessero un po’ a modo loro. Ossia tutti si guidava e si tentava di rimanere in carreggiata con queste nostre 50


imprese, e ognuno lo faceva con i propri mezzi, anche a seconda della propria etica; si provava a non sbandare lungo quelle strade divenute le vie di un sistema che si era fatto complesso e controverso, un mondo giunto all’apice delle sue alterazioni e che spesso si rendeva anche surreale e in decadenza. Forse, per capire il logorio e la pressione alla quale eravamo sottoposti, bisognerebbe averci vissuto dentro. Siccome conosco di ciò che parlo penso che soltanto ora, dall’esterno, arrivo a capire quanto fosse assurdo voler tenere duro a ogni costo. Comunque oggi porsi troppe domande, e trovare delle spiegazioni esaurienti è abbastanza inutile; probabilmente il fatto di non voler ammettere che la corsa sia finita e rimanere increduli di fronte al fatto di dover scendere da quella macchina, che ti è appartenuta da sempre, non ti rende sufficientemente lucido. Eppoi, in aggiunta ci sono remore morali che ti bloccano, perché sai perfettamente che se decidi di girare la chiave e spegnere la macchina azzeri anche di colpo le aspettative di decine di persone. I tuoi operai e i collaboratori sono il tuo staff, è la tua gente e non vuoi farli precipitare in difficoltà. Da noi anche gli ultimi arrivati erano lì da almeno un decennio; c’erano i Rudi e gli Ivan con i loro cognomi un po’ difficili da pronunciare e per questo non di rado venivano italianizzati dagli altri loro colleghi nostrani. Non si può dire che non fossero tutti ragazzi in gamba, ormai erano “allevati” e quindi esperti; tutti infatti provenivano da un addestramento pluridecennale. Queste persone, prima di venire a cercare lavoro in Italia, avevano vissuto la tragedia della disgregazione Slava e taluni anche la guerra; qualcuno di loro spesso mi raccontava delle bombe che arrivavano fino alle porte delle loro case ma c’era anche chi aveva dovuto indossare la divisa imbracciare il fucile e combattere. In ogni caso, dopotutto, da noi Croati, Serbi e Bosniaci avevano tutti imparato a non odiarsi, lavorando fianco a fianco, collaborando in modo proficuo, da noi avevano imparato una lingua e un mestiere. Era quell’italiano contaminato anche da termini dialettali che provenivano dagli altri loro colleghi veneti; questo misto di etnie non costituiva alcun problema, nel team tutti s’impegnavano duramente nel proprio lavoro.

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Ebbene anche queste considerazioni avevano un peso specifico nelle scelte da fare, perché quelle capacità e quell’arte, che si era tramandata con fatica e quasi inculcata, si sarebbe facilmente dispersa. Quindi ripensando a queste dinamiche, mi convinco una volta in più del fatto che la nostra impresa, come gran parte delle piccole imprese, in fondo era una piccola comunità. Da noi esistevano amicizie e tutto funzionava insomma come una sorta di grande famiglia; ma appunto in questo non c’era nulla di straordinario, perché la maggior parte delle P.M.I. penso abbia questa connotazione, questo stampo familiare. In ogni caso, nonostante tutte le considerazioni, i pensieri, i ricordi, l’orgoglio, le remore e tutto il resto, non c’è scampo: dopo il 2010 non abbiamo potuto più arginare i problemi; la conducevo questa maledetta macchina ma giorno dopo giorno mi accorgevo che eravamo arrivati in prossimità del bivio. Non c’era più molto tempo e non c’era scampo. La decisione fatale, perché inesorabilmente capivo che ero prossimo al dover fermare tutto, era sempre più vicina. Da quella macchina dovevo scendere, non vi erano altre alternative. Sebbene non sia semplice, né decidere di farlo né compiere l’azione per realizzare ciò, era giunto il tempo di compiere la scelta. Non è certo una cosa facile, ne veloce; fermare un’azienda è come fermare una macchina in corsa, non puoi farlo all’istante. Rischieresti di perdere il controllo e a quel punto la sbandata diventerebbe assolutamente inevitabile; questo lo vuoi evitare, vuoi almeno risparmiarti conseguenze che peggiorerebbero ancor più la situazione. Quando alla fine ci sei e ti rendi conto che sei fermo, allora capisci davvero di aver gettato la spugna; ma del resto oltre che essere necessario tutti ti hanno incitato di farlo. Sia il tuo commercialista, sia gli altri tuoi consulenti, a quel punto sei finito come un pugile alle corde, quando ai bordi del ring, anche se non sei ancora andato al tappeto, sei talmente malmesso e c’è chi getta per te la spugna. Comunque hai stoppato quella folle corsa e per ora tutto è finito, sei pervaso da un certo sollievo ma anche dallo smarrimento; a tratti senti come uno stordimento anche lo sconforto si fa strada. Anche perché sai bene che le fatiche spirituali non sono 52


finite, ma forse questo te lo aspettavi, infatti sapevi bene che da lì in poi sarebbero stati momenti difficili. Per un certo periodo pensi, ripensi e analizzi i fatti, in poche parole ti tormenti, ma prima o poi sai anche che ti darai pace, questo già lo intuisci perché a intermittenza, quando per l’ennesima volta arrivi a concludere che comunque era stato provato tutto, una certa serenità per fortuna inizia a sopraggiungere e scende dal cervello fino al cuore. Avevamo cercato di tagliare i costi, provato a reperire nuovi lavori e persino interpellato intermediari per verificare se non vi fosse qualcuno che potesse essere interessato al nostro storico nome; ma niente, mai nulla aveva prodotto alcun esito. Quindi ripercorrendo tutta la trafila arrivavi appunto a tranquillizzarti; poi realizzi che, se si fosse oltrepassato un certo limite, sicuramente tutta la vicenda sarebbe anche ulteriormente stata aggravata. Diciamo che non avevo fatto la cosa giusta, quella decisione era semplicemente stata l’unica opzione possibile. Fine. La mia vita nel post impresa, è cambiata parecchio, alcuni giorni passano lenti e a volte, di notte, il sonno latita, ovviamente sono tanti i pensieri che assillano la mia mente ma penso sia abbastanza normale. A volte penso che quella diavolo di macchina ne aveva percorsa di strada (e per quasi un secolo), quindi a tratti non mi pare ancora possibile che tutti gli ultimi accadimenti siano divenuti realtà. Fa un po’ male ripensare al fatto che, seppure vecchia e malandata, quella macchina prima era sempre andata bene e se l’era saputa cavare anche in situazioni difficili. Se la sua storia potesse esser paragonata ai chilometri percorsi, quell’azienda (che di storie da raccontare ne aveva, eccome) di strada ne aveva fatta veramente tanta. A volte mi dico: “perdio, va bene la giungla e la concorrenza, i prezzi bassi, le tasse e la mancanza di liquidità, ma gli altri allora come diavolo fanno a rimanere in piedi?”. Ma prima o poi dovrò semplicemente farmene una ragione, perché appunto di alternative (ne sono convinto) non ne esistevano. Pensare che, mentre guidi un’azienda, in realtà non sei solo; lì con te c’è qualcuno che ti tiene compagnia mentre fatichi. Rimane seduto proprio al tuo fianco ed è quella 53


specie di socio occulto che muto ti osserva - è lo Stato, che si prende sempre qualcosa, anche se non guadagni, lui di certo non ti ha mai dato né un suggerimento e tantomeno né un aiuto. Sebbene costui sia anche lui il proprietario della tua macchina, egli non è paragonabile né a un navigatore , né a un assistente. Piuttosto è come una specie di autostoppista, salito a bordo furtivo, mentre eri alla stazione di servizio e con arma alla mano, ti ha prima estorto il portafoglio e poi ti ha obbligato a scarrozzarlo in giro. Il fatto che ora tu stia rallentando per fermarti, perché la macchina ha finito la benzina, gli rode non poco ma questa volta non ci può fare niente. Di certo gli dispiace, e non poco, perché sa bene che non potrà più pretendere nulla da te; dovrà scendere e cambiare auto, scegliendosi un nuovo guidatore. Ma attenzione caro autostoppista, perché di questi tempi, per te sarà sempre più difficile trovare un altro guidatore che abbia voglia di intraprendere una folle corsa verso la direzione del nulla.

Forse io corro. Forse tu cammini. Forse io guido per scendere.

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VII This is the End This is the end, beautiful friend This is the end, my only friend, the end Of our elaborate plans, the end Of everything that stands, the end (The Doors)

E così, nel maggio del 2012, in una manciata di minuti, procedo e sottoscrivo i documenti preparati dai consulenti. Ero amministratore unico da poco più di un anno quando tutta questa specie d’illusione, che era stata la mia impresa, in una soleggiata mattina, si dissolse. Fu mio, infatti, l'ingrato compito di firmare l’atto con cui si decretava lo scioglimento della società: un cognome, il mio, uguale a quello del fondatore, mio nonno, per di più con lo stesso identico nome, ripreso da lui in quanto primo nipote maschio. Erano indubbiamente state storie di vita diverse, le nostre; condizioni, persone, eventi e dinamiche di epoche differenti. Lui, a far da sfondo dello scenario aveva gli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni del furore e del miracolo economico italiano; io invece provenivo da un decennio di foga speculativa e progressivamente ribassista, che ora andava esaurendosi. L’economia reale stava virando verso una palude stagnante. All’epoca del nonno io non c’ero, ma da quelle foto in bianco e nero incorniciate nelle pareti dei nostri uffici, desumo che fosse un po’ come solcare il mare in barca a vela con il vento in poppa. Avevo la conferma di ciò anche dai racconti ascoltati da qualche nostro vecchio capo cantiere che a metà anni Ottanta era ancora attivo. Certo, sia ben chiaro, con questo non intendo dire che alla sua epoca fosse facile, anzi, quella era una generazione abituata a soffrire, erano venuti fuori dalle indicibili sofferenze del conflitto mondiale, provando la paura, la povertà e le sofferenze.

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Parliamo di gente che, da quelle esperienze, aveva tratto la forza e la voglia di riscattarsi; era veramente tutto da rifare. Al confronto noi, dai sessantottini dei baby boomers, passando per la X generation e approdando ai giovani d’oggi, nati lungo l’arco degli anni Ottanta, tali cattive esperienze proprio non possiamo dire di averle affrontate (e per fortuna) perciò non possiamo né lamentarci, né piangerci addosso. Fino a qualche tempo fa siamo stati le generazioni simbolo di una vita comoda, infatti senza troppi sacrifici abbiamo ricevuto tanto, a volte pure troppo, perché per noi, la bicicletta nuova, il motorino, i vestiti, il cibo a volontà e ultimamente anche il cellulare è roba scontata. Noi abbiamo avuto (quasi) tutto, compresa l’istruzione, lo sport e i viaggi all’estero; tutto forse proprio anche grazie quella generazione che aveva vissuto l’esperienza della guerra. Avremmo potuto illuderci che tutto sarebbe filato sempre liscio, pensando che tutto potesse procedere in modo anche persino troppo facile; ma invece no, non è andata e non andrà così perchè magari questa crisi è un’occasione, affinché anche noi si possa vivere il nostro momento, facendo la nostra parte e cambiando parecchie cose. Perché di fatto, sostanzialmente e necessariamente, è innegabile che vi siano un bel pò di cose da stravolgere. Qualche anno fa un vecchio impresario (oggi ottantenne) incontrato durante un sopralluogo per una gara d’appalto, mi disse che secondo lui le cose non andavano di certo bene, tuttavia non capiva quell’abusare del vocabolo ‘crisi’ e aveva pronunciato le seguenti parole: «C’è crisi, sicuro che c’è, ma che parola è per voi crisi? Sai cos’è la crisi? La crisi è quella di sessantacinque anni fa, quando con una vacchetta da latte, un po’ di galline e un orto si dovevano far mangiare tre famiglie. Quella era la crisi». Mi aveva indubbiamente fatto riflettere, immaginavo che, effettivamente, quello fosse il Veneto di allora, che usciva dalla Grande Guerra. Quella era gente che aveva saputo superare sofferenze indicibili e sobbarcarsi enormi sacrifici ma era una generazione che, con quella gran voglia di rivalsa, era riuscita poi in pochi anni a ridisegnarsi un destino e a risollevarsi. Mettendoci impegno e tanta tenacia, con testa,

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braccia e cuore, erano riusciti a riconquistarsi un futuro promettente, riemergendo dalla miseria. Credo che in quell’epoca la vita e i rapporti tra le persone, anche nel lavoro, fossero radicalmente diversi e penso che, probabilmente, esistesse più rispetto reciproco e umanità. Esisteva anche la fedeltà per la parola data; mi ricordo per esempio, di aver sentito spesso narrare il fatto che mio nonno suggellasse anche qualche affare importante con la proverbiale (e sola) stretta di mano. Ovviamente si perdeva la faccia e si comprometteva seriamente la propria credibilità se poi non si mantenevano le promesse. Durante gli anni Cinquanta l’impresa del nonno (che nel frattempo era diventato anche Cavaliere del Lavoro) impegnava quasi un centinaio di operai ed eseguiva lavori in tutta la regione; l’impresa costruiva scuole, palestre, cinema e case popolari in tutta la provincia di Vicenza. Anche opere importanti, come il Palazzo di Giustizia, un appalto, quello, che nel 1958 era stato considerevole; anzi forse uno dei lavori tra i più rilevanti di quel periodo in città.

A quel tempo l’impresa edile si stava

ulteriormente sviluppando, si ampliava e si dotava anche di quell’attrezzatura e macchinari, che poi la posero all’avanguardia - oggi diremmo che era tra i ‘player’ importanti della nostra provincia - cosa che era diventata un segno distintivo di continuità. Da quello che so per certo, anche all’epoca non erano affatto rose e viole, si dovevano fronteggiare un mucchio di problemi e di imprevisti, quelli, in un’azienda di costruzioni non mancano mai e comunque, anche in quegli anni, la produzione tendeva ad alternare periodi di grande affanno con altri più leggeri. Però il mercato sicuramente era molto meno aggressivo rispetto a oggi e l’impresa, anche nei periodi più difficili (penso per esempio alle crisi verso metà anni Settanta oppure nei primi anni Ottanta) aveva sempre tenuto; una soluzione si era sempre trovata e dai momenti difficili se ne era sempre venuti fuori. Ora tutto è cambiato, sono molti a non sapere come diavolo uscire da questa situazione, e forse sono molti anche quelli che non riescono a vedere un futuro. Credo 57


che confrontarci con quell’epoca non abbia nemmeno molto senso, ma forse non dovremmo essere troppo pessimisti. Infatti, come quelle generazioni raggiunsero traguardi impensabili nell’arco di un ventennio, creando i presupposti per realizzare il famoso “miracolo italiano”, anche noi non dobbiamo perdere la speranza. Beninteso che la speranza da sola non è mai bastata, dovremmo anche essere consapevoli del fatto che, ciò che viviamo non è una crisi, ma semmai è un cambio d’epoca; è un salto, è un volo da spiccare e un grande cambiamento di mentalità. Forse, stiamo avendo la nostra occasione di ripartire e ridisegnare un futuro diverso e migliore. In ogni caso da quel passato degli anni Cinquanta (che peraltro non è molto lontano) potremmo trarre anche buoni spunti e preziosi insegnamenti, per esempio studiando l’operato degli uomini che seppero portare l’industria e lo sviluppo della creatività e della tecnologia, coniugandole a un grande rispetto per l’utilità. Fu infatti uno sviluppo economico che divenne lo strumento per migliorare la società e le proprie comunità; basta analizzare i tanti casi delle nostre vecchie eccellenze imprenditoriali, quelle fatte di tante fabbriche e opifici dai caratteristici mattoni rossi, dove uomini illustri e illuminati (come Adriano Olivetti, Gaetano Marzotto, e tanti altri) fondavano il saper fare italiano. Con attività imprenditoriali permeate di responsabilità sociale, dove le fabbriche che si costruivano erano simbolo di lavoro, di sviluppo duraturo e concreto. Erano semplicemente attività concepite con buon senso e senza le moderne speculazioni. Anche nel caso della storia del nonno e della nostra impresa, io sinceramente intravedevo un po’ questo tipo di presupposto; ripercorrendone la storia avevo infatti avuto la diretta testimonianza, di come l’azienda fosse ben ricordata nella memoria del territorio, proprio perché era un’organizzazione che aveva dato la possibilità a molte persone di imparare un mestiere e avere un lavoro stabile. Alcuni, poi, quel mestiere l’avevano imparato talmente bene che decisero a loro volta di camminare con le proprie gambe e aprire altre nuove attività. Quando pensavo a queste cose, una volta in più, mi dispiaceva dover essere l’uomo che staccava la spina e che coincideva con la fine di quella storia; realizzavo che 58


chiudere era terminare definitivamente un percorso che veniva da lontano. Seppure con tutte le attenuanti che mi concedevo, l’impossibilità di dare corso alla continuità aziendale non poteva che esser vissuta come un fallimento. Era un attimo scivolare dentro ai ricordi dell’ultimo periodo; mi tornavano alla mente le riunioni con i collaboratori e gli operai, gli incontri con le rappresentanze sindacali e tutte le altre varie vicissitudini. Ricordo che, quando fissavo l’ennesima riunione con i dipendenti, per comunicare a tutti che molto probabilmente eravamo vicini al capolinea e quindi per loro era tempo di dedicarsi anche alla ricerca di una nuova occupazione, mentre parlavo, con un tono di voce che non convinceva del tutto nemmeno me stesso, mi sembrava strano essere arrivato a quel punto. A tratti, mi sentivo anche crudele per il fatto di renderli partecipi al tracollo e, procedendo nelle parole, nella mia testa s’insinuavano pensieri confusi; prima di tutto mi chiedevo se stavo trovando le parole giuste; poi, allo stesso tempo, mi chiedevo se quelle fidate persone mi capissero veramente e se comprendessero il fatto che agivo senza alternative. Non so se loro, in qualche modo, si sentissero traditi, magari qualcuno avrebbe potuto addirittura pensare che chiudere e licenziare fosse un modo per fare i nostri interessi. In effetti, visto il periodo che si attraversava, approfittando del poco lavoro, più di qualche azienda aveva messo in atto delle veloci manovre per salvare il salvabile e azzerare tutto, compresi i famigerati costi aziendali. Alcuni di questi imprenditori, poi, assoldando appunto quelle squadre a cottimo che lavoravano a costi imbattibili, erano ripartiti leggeri come piume, con strutture aziendali molto snelle. Pareva che alcuni ce l’avessero anche fatta a re-ingranare la marcia; comunque questo non era il nostro caso. Mentre tentavo di spiegarmi, osservandoli, percepivo chiaramente l’irrequietezza dei più; tra quelle facce stanche c’erano i volti di chi è abituato a faticare fisicamente parecchio. Le mie mani gesticolavano, afferravo qualche foglio sul tavolo dove mi ero appuntato alcuni dati economici aziendali eclatanti che leggevo, appunto, per far capire loro che non avevo più alcuna alternativa. Intanto osservavo le loro mani, che rimanevano ferme una sull’altra; erano le mani sgualcite da quel mestiere che, 59


seppure tra i più belli e vari, perché si fa all’aria aperta, ha molto a che fare sia con nebbiose e gelate mattine invernali e sia con la calda e afosa canicola estiva tipica della pianura padana. Qualcuno di loro mi scrutava con sguardo severo a occhi fissi, forse quasi per rimproverarmi, oppure magari solo come in attesa di qualcosa d’altro, ma procedevo senza fornire loro alcun appiglio, perché proprio non potevo creare false illusioni; di speranze sulle quali farli aggrappare non ne avevo più. Al termine capivo solo una cosa: quelle parole giuste che cercavo non esistevano e, alla fine dei miei discorsi, loro non avevano molte domande da farmi. Io non potevo aggiungere null’altro e tutti si alzavano dalle sedie. Alcuni guardandomi perplessi, uscivano con aria quasi un po’ stordita. Io rimanevo solo, e tornando alla mia scrivania riflettevo ancora, facendomi le solite domande e pensando che dietro a tutti quei volti c’erano anche delle famiglie. Pareva quasi impossibile che stesse veramente per accadere anche a noi; soltanto fino a pochi anni prima tutti credevamo che quell’impresa fosse ben piantata in solide fondamenta, e la consideravano inossidabile. Ma ecco, semplicemente sbagliavamo. Penso che stiamo vivendo un periodo, in cui un sistema ben collaudato e consolidato, che per decenni ha funzionato, stia entrando in stallo; le teorie e i processi che lo governavano non sono più adeguati e non stanno più, essi stessi, al passo coi tempi del pianeta e infondo anche con i nostri tempi, quelli dell’uomo e della sua umanità. Purtroppo dentro a questa discontinuità non sono poche le coscienze e le identità che si sono smarrite e non così raramente abbiamo visto, che questa crisi può anche arrivare tragicamente a uccidere. E’ accaduto, e non poche volte, nell’ultimo biennio; infatti tragicamente troppe persone hanno deciso di farla finita; una tragica esperienza, poco tempo fa, mi ha purtroppo coinvolto direttamente. Era precisamente il 31 dicembre del 2011 quando un collega che conoscevo ci ha lasciati per sempre. Si chiamava Antonio e aveva cinquantaquattro anni. La sua impresa era stata fondata negli anni Settanta da suo padre, lui la dirigeva con al suo fianco anche i figli, ossia i nipoti del fondatore. A mezzogiorno di quel giorno, appunto la fine dell’anno 2011, 60


Antonio mi ha telefonato per farmi gli auguri, dicendomi anche di porgere tanti cari saluti al papà, perché, aveva aggiunto, «sai lo conosco bene». In realtà non era una persona che io avevo avuto modo di incontrare spesso, ma alcune volte, alle riunioni della locale Associazione Industriali, avevamo scambiato qualche parola e qualche idea; soprattutto c’eravamo un po’ raccontati le varie e reciproche impressioni sul difficile e duro momento che vivevano le nostre imprese. Antonio era un uomo alto e di costituzione robusta e quello che ricordo di lui, sinceramente, si rifà a questa immagine di solidità. Non mi aveva mai dato l’impressione di essere triste o sconfitto; certo in alcuni casi, ricordo bene che era preoccupato e anche stanco; quindi per nulla diverso da me o tanti altri colleghi. In quel periodo erano parecchi gli impresari che parlavano con amarezza di come andavano le cose e molti erano pure incazzati. Probabilmente anche Antonio lo era, perché si sentiva, come tanti, abbandonato e quasi tradito da un sistema che prima gli era stato amico e probabilmente nutriva una certa amarezza, per il fatto che il sistema bancario aveva repentinamente fatto retromarcia su alcuni progetti già avviati. Anche lui, poi, era rimasto molto deluso dalle istituzioni che dovevano in qualche modo rappresentarci e difenderci ma invece rimanevano sostanzialmente distaccate dai nostri problemi reali. Esattamente come fa la politica con i cittadini, dove, anche se la base pensa che vadano cambiate le cose e riformate le regole, poi non accade mai nulla. In quel periodo, nel settore, molti pensavano che dovevano essere messe in campo misure per fare in modo che il mercato di riferimento divenisse più trasparente. Quindi egli pensava (come me) che sia la politica sia le istituzioni e le associazioni di categoria non dessero abbastanza voce ai nostri problemi concreti; avevamo parlato in più di un’occasione, del fatto di come, anche la rappresentanza e i vertici di categoria (ossia quelli che parlano) rimanessero quasi sempre invischiati in tanti bei discorsi. Spesso parole misurate e fin troppo ben equilibrate nascondono ciò che rimane celato sullo sfondo: la solita proverbiale retorica che scherma logiche di spartizione per cariche e poltrone. Infatti, anche dietro agli equilibri verticistici di una categoria del mondo associativo, tal volta sono i più forti e quelli più in vista che 61


dominano, e quindi, nonostante convegni, proclami e gran discorsi, tutto resta ingessato, magari a quelli che contano sta bene così, appunto esattamente come in politica. Io e Antonio avevamo in parte condiviso questi argomenti e anche simpatizzato, anche se non ero a conoscenza che lui avesse una situazione aziendale non felice, proprio come la nostra e del resto come tante altre. Quella telefonata, anche se mi era sembrata un po’ strana - perché era la prima volta che mi chiamava al cellulare - di certo non mi aveva fatto presagire nemmeno di striscio quella sua tragica e fatale intenzione. Non lo avevo capito io come nemmeno nessun altro fra i colleghi raggiunti da quel saluto che era in realtà un drammatico addio. Antonio a pochi minuti di distanza da quei saluti maledetti, probabilmente in soli pochi istanti di disperazione, aveva deciso di farla finita. Quando ricevetti la telefonata da parte di un collega che mi diceva, con voce quasi rotta dal pianto, che Antonio se ne era andato per sempre, subito non realizzai affatto; pensai a qualcosa di imprevedibile, come un incidente, un infarto o cose simili. Ben presto, purtroppo, ritrovai il filo logico di quelle scarne e tristi spiegazioni ricevute al telefono e dovetti realizzare cosa era accaduto. In quel periodo, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, la conta di coloro che avevano deciso di compiere il gesto estremo, era balzata agli onori della cronaca, tanti furono i suicidi. Non posso, parlando di questo tragico evento, non riportare la lettera che sua figlia Laura scrisse alla figlia di un altro imprenditore edile che pochi giorni prima aveva compiuto il medesimo gesto: «Cara Flavia, mi chiamo Laura Tamiozzo e sono la figlia di un imprenditore edile della provincia di Vicenza il quale ha preso la stessa decisione di tuo padre; il 31/12/2011 mio papà si è impiccato nel capannone della nostra azienda... Mio padre ha sempre vissuto per l'azienda, è sempre stato il suo valore più grande. Si sentiva responsabile nei confronti dei suoi dipendenti e delle loro famiglie, loro dovevano sempre percepire lo stipendio, era la loro certezza e questa certezza non doveva mai venire meno. Da quando è iniziata questa crisi “mondiale” il papà non è stato più lo stesso. Il modo di lavorare è cambiato, ci siamo trovati di fronte, sempre più spesso, a persone che, dopo aver commissionato i lavori, non hanno più provveduto a pagare i conti, chi 62


per un motivo, chi per un altro. La moda degli ultimi tempi è quella di “contestare” qualsiasi cosa per avere la scusa di non pagare più gli Stati di Avanzamento Lavori. E così, dopo aver portato avanti il cantiere, pagato i dipendenti e i fornitori ci si trova che i soldi non arrivano. Poi ti trovi davanti a certa gente che si fa gli auto-sconti, anche di €60.000,00 al colpo e se accetti bene, altrimenti non vedi nulla… Mio padre è morto per amore, per amore della sua azienda e specialmente nei confronti dei suoi dipendenti; viveva con il terrore di tradirli, di non essere in grado di pagare loro gli stipendi. Questo pensiero lo logorava, finché non ha più retto... Mi fa rabbia guardare la televisione, ora non si parla che della nave che è affondata, pare non ci siano altri argomenti; sembra che al Governo vivano su un altro pianeta, la Manovra Monti non sarà di certo quella che solleva il Paese, la gente è già affossata, aumentano le tasse e per le imprese non c'è alcun aiuto concreto. I consumi sono fermi perché la gente non ha più soldi, le aziende saltano in continuazione, le persone sono senza lavoro, gli stipendi non bastano per arrivare a fine mese. Le banche non prestano più soldi alle aziende, sembra quasi che il loro scopo sia quello di farti chiudere i battenti. Chissà perché... Ho letto un articolo, una tua intervista, in cui dichiari che avete scritto una lettera a Monti ma non avete avuto alcun riscontro. Che male che fa sentire questo! Purtroppo mi viene da dire: “siamo soli”. Stiamo lottando contro i mulini a vento, nessuno ci dà retta, a nessuno interessa di noi. Ma noi Flavia ci dobbiamo fare forza, dobbiamo lottare per questo».

Questa è la fine magnifico amico. Questa è la fine mio unico amico, la fine dei nostri piani elaborati, la fine di ogni cosa stabilita, la fine.

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VIII Soul to Squeeze Where I go I just don’t know I go to, got to, gotta take it slow When I find my peace of mind I’m gonna give you some of my good time (Red Hot Chili Peppers)

Dopo tutte le traversie, i ripensamenti e le sofferenze, dopo i licenziamenti e lo stop delle attività aziendali e dopo persino gli eventi tragici, con i lutti che avevano purtroppo colpito alcune famiglie di colleghi, era arrivato il momento della firma sui documenti. Pochi minuti e hai fatto, in quella strana e soleggiata mattina di maggio tutto è finito, tutto se n’è andato e ti sembra anche che tutto si sia fermato. Ironia della sorte: hai suggellato la chiusura della tua impresa entrando proprio in una stanza di quel tribunale di Vicenza che, anche se non ci avevi mai messo piede prima, è un luogo che conosci. Quello infatti è proprio l’edificio che è fotografato in bianco e nero, incorniciato sui muri dei tuoi uffici; quel famoso palazzo di giustizia, completato nel 1959 dal nonno con i suoi operai, all’epoca una delle commesse più importanti realizzate dall’impresa. Dopo la firma, i problemi sembrano arginati e dentro ti senti una sorta di triste leggerezza; i tuoi ex uffici sono già vuoti da tempo e anche il magazzino è parzialmente sgomberato; ora con catena e lucchetto, rimane chiuso anche quello. I macchinari e tutte le attrezzature che rimangono lì intanto attendono; è tempo di vendere, o meglio di svendere. Talvolta rimani da solo, facendo avanti e indietro per il piazzale, ripensi a che cosa ha rappresentato quel posto per decenni; quindi è ovvio che come minimo ti senti malinconico. Forse ti sei lasciato alle spalle tutto ciò per sempre e se fosse possibile vorresti ritornare indietro; vorresti tornare al punto di partenza, più o meno a quindic’anni fa. Magari potresti estirpare tutte quelle difficoltà 64


sul nascere e rimediare a tutto, ma dovresti riportare le lancette indietro, a ben prima che le difficoltà finanziarie cominciassero e ben prima che la concorrenza si facesse impossibile. Attueresti diverse strategie, organizzeresti l’azienda diversamente, forse come hanno fatto altri, con una struttura molto più leggera e dando la caccia a opportunità diverse…. Per esempio proveresti a specializzarti nel restauro, chissà, lì sì che forse si sarebbe potuto trovare un mercato meno affollato. E poi soprattutto vorresti anche ritornare a un momento prima che il papà decidesse di buttare dentro quel capitale personale che alla fine non è servito a risolvere nulla, se non a conquistare un po’ più di tempo (ma nemmeno poi tanto). Col senno di poi lo fermeresti, gli spiegheresti che quei soldi sarebbero durati il tempo d’una stagione. In ogni caso, con tutti quei ‘se’ e quei ‘ma’ non ci fai un granché, e sapere se saresti riuscito a dare quella continuità aziendale, come prima riuscirono a fare tuo nonno, tuo papà e tuo zio, quando nel passato si erano superate altre situazioni difficili, riconsegnando quell’impresa al seguito della sua storia, quella storia che porta il tuo cognome, non è dato a sapersi. Ma le lancette non possono essere riportate indietro, è accaduto e perciò devi solo imparare ad accettare questo fatto, chiuso. Dopo la cessazione dell’attività bisogna fronteggiare anche il fatto che, siccome il nome era noto e visto che parecchie persone hanno anche un po’ di legittima curiosità, vi sono domande alle quali devi rispondere e frasi di circostanza che devi ascoltare. Per lo più quelle esclamazioni di routine, tipo «non lo sapevo, è incredibile che sia successo anche a voi» e così via. Ma la coscienza è pulita, pertanto a testa alta si fila dritti e ci si forza di pensare che bisogna ricominciare una storia nuova; in un primo momento è difficile, ma dopo che è subentrata l’accettazione si deve pur ritrovare quella fiducia e quell’energia per poter inquadrare obiettivi tutti nuovi. Posso fortunatamente constatare che alcuni sentimenti, con il passare del tempo, mi hanno quasi del tutto abbandonato: lo smarrimento e la malinconia si fanno sempre

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più deboli, ma inevitabilmente, ancora oggi, un po’ di rabbia talvolta non mi lascia del tutto. Una buona parte di questa mi rimane appiccicata; a volte penso che la indirizzerei principalmente verso il nostro Stato. Perché resta completamente alieno e anzi direi ostile, verso chi si assume la responsabilità di fare impresa e di intraprendere in modo serio e onesto. Questa è una rabbia che poi tende pure salir di livello, quando pensi al fatto che, nell’ultimo decennio, la nostra impresa (con mediamente a una trentina di dipendenti, ha versato - solo di IRAP - circa ottocentomila euro. Paradossale, situazione questa per chi detiene dipendenti svolgendo quindi anche una funzione sociale. Infatti lo Stato, come in un mondo all’incontrario, consentiva a chi fa attività imprenditoriale senza assumere, magari utilizzando esclusivamente il subappalto, di pagare poco o nulla. Questo significa solamente scoraggiare le assunzioni. E poi penso anche che, nel 2009, nel pieno delle nostre difficoltà, sempre il nostro solito caro Stato, dava l’opportunità a faccendieri e uomini d’affari vari di rimpatriare cospicui capitali, magari usciti illecitamente dal nostro paese, riportandoseli dentro ai confini nazionali per la modica cifra del cinque percento. Erano soldi creati con maneggiamenti e intrighi spesso in modo quanto meno opaco. Che schifo, mi vien da pensare. Intanto comunque, mentre cerco di smaltire questa rabbia residua, per fortuna vengo distratto dal fatto che devo rimboccarmi le maniche e crearmi una vita professionale tutta nuova, non posso stare con le mani in mano, non usufruisco di ammortizzatori sociali e non ho alcun tipo di “paracadute” sociale. Mi devo attivare per portare a casa la mia pagnotta quotidiana, tanto più ora, che siamo diventati tre. E allora provo direttamente, giorno dopo giorno, cosa significa cercare lavoro: siti specializzati, invii di curriculum, telefonate, informazioni, ufficio per l’impiego e tutto il resto. Ma per ora tutto rimane nella calma più assoluta. In ogni caso, mi tengo distante da qualsiasi vizio e dai videopoker, se ho tempo libero penso, leggo e scrivo; diciamo che mi sto schiarendo le idee e, devo dire, anche se non so ancora cosa farò domani, so molto bene che cosa non farò mai più. 66


Di certo non farò più l’impresario edile, mettendomi in proprio e rischiando capitali per avviare una nuova attività, magari chiedendo in prestito alle banche le somme necessarie per avviarmi; meno ci hai a che fare e meglio stai. Non creerò più nessuna nuova occupazione perché qui non conviene crearla e poi non m’inguaierò ancora ficcandomi in quelle stupide aste, dove tutti sono sempre pronti a strozzarsi. Poi so bene che non voglio più saperne di tutte le riunioni convegni e conferenze varie, dove poi alla fine tutti sono costretti a uniformarsi e talvolta anche a mordersi la lingua e più o meno obbligati a tenere la coda tra le gambe; in quei siti istituzionali non è concesso mostrare pubblicamente ribellione verso leggi inadeguate. Quindi basta con l’A.N.C.E. e Confindustria, basta con raduni allineati e conformi al sistema, per di più con gli onorevoli dei partiti che ci prendono per i fondelli, spesso invitati come ospiti illustri. Proprio loro, i predicatori delle sinfonie trite e ritrite di promesse e proposte mai mantenute. Così il sistema non potrà più spremermi come un limone e io non dovrò più preoccuparmi né delle tasse, né degli studi di settore, e non mi preoccuperò più né di Irap, né di contributi sul lavoro, né di autorizzazioni e né di permessi (quelli che, oltre a essere economicamente onerosi, ti costano il tempo infinto di protocolli, file negli uffici della P.A. e richieste in carta bollata. Mentre cercherò di capire cosa fare, proverò a ritrovare lucidità e intanto, senza frenesia, mi farò la mia vita. Lascerò correre questo periodo aprendomi a nuove prospettive e cercherò nuovi spunti, poi la notte ricomincerò a dormire, dimenticandomi di tutte queste cose. Forse mi appariranno ancora più chiare ed evidenti le ragioni di questa sconfitta, che però non è la sconfitta di un’intera classe imprenditoriale e ne è figlia della ‘gestione inefficace’. E’ semmai il frutto dell’assalto quotidiano di un sistema sbagliato, una guerra che lascia sul campo i suoi caduti.

Non so dove sono diretto, devo prenderla con calma e quando troverò la pace della mia mente, vi dedicherò un po’ del mio tempo.

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IX Spirits in the Material World There is no political solution To our troubled evolution Have no faith in constitution (The Police)

La crescita. Oggi questa è una parola magica; viatico pronunciato da tutta la politica, di destra e di sinistra. Ma è anche il principale assunto neoclassico dell’economia, la prosperità del sistema si basa sul fatto che le produzioni devono aumentare, sempre, tanto quanto i consumi. Questo perpetuo movimento verso l’alto è veramente possibile? E se lo è, questa crescita, così come la intendiamo, è compatibile con la sostenibilità del pianeta e quindi con l’umanità? Forse, dopo gli anni Ottanta e poi, lungo gli anni Novanta, i segni e le crepe del sistema acquisivano già una certa evidenza ma, a quel tempo, non era facile come oggi individuarli. Infatti i difetti che ci avrebbero condotti allo stato attuale rimanevano sporadici e nascosti, per così dire, sotto pelle. La porzione di popolazione sottoposta a difficoltà e stress era esigua, ora invece, questa economia un po’ pazza e un po’ inceppata ci mostra molte crepe, le quali si manifestano sempre più frequentemente e si allargano. Molti aspetti di questo sistema, inequivocabilmente appaiono in declino e in tanti iniziano a pensare che, se non si cambierà, a breve termine assisteremo a un sostanziale crollo dell’attuale sistema economico. Uno dei segnali che già oggi evidenzia una serie complessa di problemi, è il regresso delle potenzialità economiche dell’intera middle class. Infatti, le capacità di acquisto delle famiglie è diminuita fortemente negli ultimi anni; però in parallelo, aumentano sempre più le grandi ricchezze, con ineguaglianze sociali sempre più rilevanti. La situazione dal punto di vista ambientale, va anche peggio, perché assistiamo 68


inconfutabilmente al fatto che, inseguire solo quel mero aumento delle produzioni e dei consumi, non fa che peggiorare le condizioni dell’aria che respiriamo, trasformare gli oceani in discariche e avvelenarci il cibo. Tutto sta, a mio avviso, diventando così facilmente evidente ed eclatante, che non è necessario essere scienziati per capire il fatto che, se percorreremo ancora sempre la solita vecchia via, perseguendo gli stessi obiettivi e aumentando produzioni e consumi, non solo le cose peggioreranno, ma alla fine subiremo conseguenze molto pesanti e forse catastrofiche. Ergo, rincorrere la crescita perpetua è un errore; probabilmente teorizzare a supporto e in favore della crescita è semplicemente qualcosa di superato. Le parole crescita/crisi in effetti sono oggi abusate e forse un po’ svuotate di contenuti, perché questo binomio non rappresenta altro che le due facce della stessa medaglia. Alla fine si tratta semplicemente di parole per teorie consunte, logore quanto questa economia che, orientata ai consumi del mercato globale spinge verso un cieco esaurimento delle nostre risorse terrestri. Quelle tanto preziose e pure risorse che sin qui ci hanno potuto garantire il sostentamento e lo sviluppo lungo la storia. Il limite sta per essere oltrepassato ma se errare humanum est, perseverare autem diabolicum, quindi penso che se di errori commessi e comprovati ne abbiamo fatti tanti significa che siamo chiamati a fermarci e a riflettere. Chi s’interroga su questi temi viene talvolta sbeffeggiato, oppure tacciato di pessimismo cosmico (o magari da Mr. B. pure di esser comunista). La gran parte dei poteri ufficiali, che tendenzialmente tendono a controllare i media, sembrano voler sviare l’attenzione verso il solito PIL, il debito pubblico, lo spread e l’IVA che aumenta ancora, poi si condisce il tutto con le solite vuote beghe politiche, una manciata di gossip, un pizzico di cronaca nera e infine, ove e quando possibile, anche una spruzzatina di abiti succinti e Burlesque. Il gioco è fatto, il minestrone è pronto. Pare di stare su una specie di Matrix. Cambiamento, ecco questa è la vera e unica parola possibile, perché siamo dinnanzi a un cambio d’epoca e tutti ne siamo coinvolti. Ri-adeguamento, discontinuità e recupero sono le nuove necessità; perché anche se non vogliamo o non possiamo, 69


tutti saremo obbligati a fare tutti la nostra parte. E’ direttamente Lei, la nostra madre terra che ci invia i segnali; a uno, nessuno e centomila inizia a presentarci il conto. L’unica verità e amara realtà è che abbiamo esagerato, quindi per estirpare questi nostri mali recenti, come i costi sociali delle aziende che chiudono, la disoccupazione, gli avvelenamenti dovuti a

cicli rifiuti non sostenibili, le

contaminazioni di aria e acqua con tutte le varie Ilva, i poli-cloro-bifenili e l’Eternit sparpagliato ovunque, dobbiamo imporre (e imporci) un radicale cambiamento. Molto passa attraverso un cambiamento nostro, personale e individuale; se non lo faremo altro che scherzi, e altro che PIL! Quindi penso sia naturale chiedersi se il Prodotto Interno Lordo sia davvero così importante; se il PIL rappresenti veramente la ricchezza di un popolo. Per me no, almeno non più e non ora; invece in alternativa, dovremmo iniziare ad associare i dati che riguardano il PIL con ciò che realmente conta davvero per l’umanità, come il grado d’istruzione, la saggezza e la cultura. Il PIL dovrebbe essere integrato da aspetti non solo economici, che mettano in rilievo per esempio quanto sia possibile godersi la salubrità dell’ambiente e del territorio in cui si vive, di fruire di spazi verdi e disporre di tempo libero, ossia tutta quella serie di cose che ci rendono esseri umani compiutamente e realmente felici. Sembra che questi concetti, ripresi da quel discorso pronunciato poco più di quarant’anni fa, il 18 marzo del 1968 da Robert Kennedy all’Università del Kansas, per ora restino ancora lontani dal poter trovare applicazione. Credo di non essere antagonista e non sono contro il modello ‘liberista’; esso si è propagato e diffuso ormai in tutto il globo, ovviamente con delle consistenti varianti, ma da Occidente a Oriente e da Nord a Sud, il capitale e la libera iniziativa hanno avuto la meglio sui Paesi che si professavano comunisti. Infatti, nella centenaria dualità fra questi due sistemi diversi il fatto che le teorie marxiste siano state sconfitte è un fatto inconfutabile ed è anche un bene. Il comunismo è stato superato dalla storia e le sue teorie sono state quasi del tutto messe da parte; in effetti penso che di quel socialismo reale, non ci fosse granché da salvare. Tutto era basato su di una società 70


totalmente egualitaria, senza la proprietà e tutto si fondava anche nella comunanza dei mezzi di produzione, una utopia che appunto è stata un fallimento. Proprio in nome e per conto di quelle teorie, in diverse regioni del globo e in epoche differenti, sono state inflitte numerose sofferenze alle popolazioni dominate da queste dottrine. Le oligarchie che le implementavano, spesso predicavano bene e razzolavano in tutt’altro modo; spesso isolati e immersi nel potere e nel lusso, quasi come nelle monarchie dei re assolutisti. Se la storia ne ha decretato la fine politica, sociale ed economica di queste dittature e quasi tutte sono rimaste sepolte sotto le macerie del muro di Berlino, una ragione c’è. Nonostante ciò bisogna pur considerare che il libero mercato di questo nostro moderno super liberismo globalista sta risentendo di una sorta di mutazione genetica, che logora l’uomo e il pianeta e non possiamo certo permetterci di credere ingenuamente, che questo sistema sia privo di difetti e che stia solo e sempre dalla parte giusta. Tutt’altro, perché a ben guardare, nel sistema si sono inserite caratteristiche, che a poco a poco si sono trasformate in esagerazioni – degenerazioni che tendono a trasformare la vita degli individui più che altro in consumatori. In tal modo, le produzioni di oggetti scarsamente utili e i consumi elevati, sono diventati il motore principale di un’economia malata, che con le speculazioni e gli sperperi di preziose risorse (per altro anche sempre più rare) non fa altro che intasare l’umanità di rifiuti. E si accumulano gli sprechi! Tale sistema ha potuto puntare verso l’esagerazione, da quando il super potere della finanza ha progressivamente aumentato il suo ruolo, nella pancia dell’economia si sono insediati i germi dell’autodistruzione. Stiamo camminando lungo un confine pericoloso: quello che delinea l’incompatibilità tra il nostro sistema economico e l’ecosistema, con le nostre vere umane esigenze. Quindi penso sia normale e ragionevole porsi criticamente verso questo nostro modello di riferimento, fin qui riconosciuto come universale. Un ‘material world’ globale, iper-liberista e consumista, che con le sue varie differenze, si è propagato in 71


tutto il mondo; probabilmente l’attrattiva è stata quel grado di benessere e di libertà che si è diffuso in tutti i Paesi liberi e industrialmente evoluti, soprattutto nell’occidente. Questo ha prodotto una certa e varia emulazione, così, alcuni Stati (recentemente diventati superpotenze economiche) come Cina, Russia, Brasile, l’India e molte altre nuove talentuose regioni del globo, per arrivare a questo traguardo, si sono convertite ai grandi affari del mercato, e seppur con ricette analoghe ma diverse, negli ingredienti base hanno instaurato economie che, anche se non propriamente libere hanno largamente fatto ricorso al consumismo e pure alla finanza d’azzardo con le ritrovate, solite, spregiudicate e immancabili speculazioni. Certo la faccia positiva della medaglia è visibile. Tutto ciò ha fatto crescere e progredire questi Stati, perché anche lì sono sorte (per lo meno in parte) nuove fasce sociali benestanti e tanti nuovi ricchi. Oggi, anche in questi paesi, un’apprezzabile fetta di popolazione può godersi un certo grado di benessere ma se al nuovo modello, applichiamo lo schema delle nostre vecchie economie mature, tra quanto tempo anche questi Pesi inizieranno a risentire degli effetti collaterali causati dal doping speculativo-finanziario che stiamo sperimentando noi qui? Oggi, il circuito globale dei mercati è divenuto sempre più aperto e favorisce un aumento progressivo di scambi e affari: le produzioni, i trasferimenti, lo sfruttamento di risorse, i consumi e le transazioni si fanno sempre più fitti, ampi e consistenti. In questo scenario molte aziende multinazionali hanno gradualmente potuto conquistare nuovo e ulteriore potere, così un agglomerato di organizzazioni gestiscono sempre più enormi interessi, creando una sorta di zoccolo oligarchico, che manovra una fetta molto importante dell’economia e della finanza mondiale. Ovviamente al fine del proprio sostentamento, questa oligarchia agisce sempre di più (e deve farlo) nel solco dei propri particolari interessi; ma questi interessi non sempre collimano con quelli del bene comune. Anzi sono proprio questi interessi che scatenano molti dei fenomeni che sono nocivi a ciò che definirei la misura umana. Basti pensare appunto all’esasperazione e alla incontrollabile concorrenzialità, che scaturiscono in assidua ricerca di produzioni a basso costo; in approvvigionamenti di risorse a basso prezzo. 72


Una costante ricerca di nuovi siti, uno spostamento continuo sia geografico ma anche morale, questa economia ricerca solo il proprio vantaggio, il business annusa dove e come i disperati di turno possono garantire il raggiungimento dello scopo. Come una gigantesca movimentazione, vi è un continuo svuotamento da una parte e riempimento dall’altra, che si ripercuote sugli equilibri mondiali sia a livello sociale che ambientale. Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. E’ il cosiddetto “Butterfly effect”. Beh, figuriamoci allora se non lo provoca tutto questo eccitamento speculativo; l’aggravante è che oggi queste dinamiche, sono appunto enormemente condizionate e direi anche falsate e amplificate, dal fatto che viene tutto convogliato attraverso i canali del mercato finanziario mondiale. Evvai di trading ad alta frequenza e ricerca esasperata di massimizzare i profitti attraverso ulteriori nuove speculazioni e attività tanto lecite quanto aliene alle necessità delle comunità e dei territori. E così si consolida sempre più il distacco con l’economia reale. Ma allora, mi chiedo, tra politiche monetarie, espansive e non espansive, tra fisco a maglie strette per recuperare sul debito e austerità – Tapering – Abenomics e tutto il resto, dove siamo diretti? Stiamo forse andando verso una gigantesca “alterazione” che si tramuterà in una moderna aberrazione economico-sociale? Credo che tutti dovremmo riflettere profondamente su questi argomenti e anche cercare di accrescere la nostra cultura a riguardo, perché alcune delle conquiste della nostra civiltà, quelle che davamo per scontate, iniziano a vacillare proprio anche a causa dei mutati equilibri macro-economici mondiali. Quindi non so se dobbiamo veramente essere così convinti del fatto che questo mercato globale saprà autoregolarsi sempre e comunque da solo. Intanto Europa, Stati Uniti e Giappone, ossia le regioni del globo che fino a pochi anni fa rappresentavano le punte di eccellenza del mondo avanzato, oggi annaspano faticosamente. Sapranno veramente riprendersi e passerà tutto come una sorta di influenza? Oppure, il nostro è un impero emblematicamente in declino, che con nuove stagnazioni e 73


nuove miserie, venticinque anni dopo la caduta di quel muro di Berlino (che trascinò definitivamente il comunismo nella polvere) oggi si trova esso stesso a fare i conti con l’alba di un lacerante sgretolamento? Questo nostro impero consumista aveva forse da sempre dentro di sé una specie di “bug” e probabilmente è solo giunto il tempo di cercare delle alternative; la dimostrazione del fatto che qualcosa non va e si è inceppato - lo si vede e lo si tocca con mano – già da qualche tempo. Una progressiva divaricazione fra le classi sociali, una disparità marcata e poderosa è divenuta caso di studio e analisi. Un fenomeno che studiosi, luminari di economia e scienze sociali non tralasciano di approfondire; infatti, anche in ambito accademico, da qualche tempo si è avviato un dibattito e alcuni economisti stanno prendendo in considerazione tesi non proprio consuete. Per esempio, in The Price of Inequality di Joseph Stiglitz sono analizzati i meccanismi politici e finanziari che hanno portato alla disfatta la ‘middle class’ statunitense. Nel trattato vengono analizzate e passate al setaccio proprio quelle dinamiche che hanno concorso alla disintegrazione di quel mito americano che s’identificava, da sempre, nel Paese simbolo delle opportunità. Così oggi appare quanto mai consunta anche quell’inossidabile iconografia del self-made man, ossia dell’uomo venuto dal nulla, che con buone idee, intraprendenza e impegno, si poteva conquistare il benessere economico e ritagliare un posto importante nella società. Eh, già, anche lì, nella moderna America, possiamo riscontrare che questo tipo di mito è quasi tramontato, e questo proprio perché (appunto secondo Stiglitz) le deviazioni e le esagerazioni di un sistema che non riesce più ad autoregolarsi efficientemente impediscono la rigenerazione e il ricambio nelle classi sociali; di fatto intralciando quella sana ridistribuzione di ricchezza e capitale che, originariamente, era il motore del benessere diffuso. Stiglitz racconta proprio questo, il fatto che nella modesta ripresa economica tra il 2009 e il 2010, il novantatré per cento della totale crescita di ricchezza sia stato detenuto solamente dall’uno percento dei percettori del reddito. Sproporzioni tali da essere spaventose ma numeri efficaci per farci comprendere bene, il fatto che questa 74


ricchezza, rimane quasi esclusivamente disponibile solo e soltanto per una cerchia ristretta (troppo ristretta) di potere. E forse questo potere è come un nucleo, che trae vantaggio proprio da questo tipo di moderna economia, è un’élite che poi ha tutto l’interesse di manovrare quanto più possibile la politica e influenzare i governi, plasmando a proprio vantaggio leggi e regole. Non è un caso se il comune senso popolare stia rivolgendo un crescente interesse verso l’intreccio fra politica ed economia; alla fine abbiamo la precisa esigenza (e il diritto) di sapere e comprendere. Mettere in luce i rapporti tra i circuiti economici di megacorporation, grossi intermediari finanziari, fondi e la politica non è che un bene. Infatti forse sono proprio queste entità che hanno forzato l’originaria configurazione del sistema economico libero sin qui conosciuto. Ma questo fortunatamente lo iniziamo a percepire più chiaramente tutti. Non possiamo negare che vi siano entità che muovono ricchezze con cifre impressionanti, capitali multimiliardari paragonabili al PIL di piccoli stati sovrani vengono infatti gestiti da una sorta di rich-club phenomenon che inevitabilmente cerca - spesso riuscendoci - una sponda affidabile nella politica. Ecco perché mega aziende e politica diventano a volte un binomio simbiotico, per governare i rapporti e gli intrecci di interessi comuni affini, peccato che però spesso non coincidono affatto con il bene comune. Questi poteri talvolta si definiscono “forti” oppure occulti, chiamiamoli come vi pare – magari anche semplicemente malaffare, comunque sia il fenomeno esiste! Se ci riferissimo solo alla nostra specifica Nazione poi…

allora si che questi

connotati sono anche ben più eclatanti e visibili: basti pensare, in generale, a come vengono gestiti i conflitti d’interessi (e non penso solo a Berlusconi) oppure all’ingerenza che i vari comitati d’affari hanno nelle spartizioni degli appalti. E li, ancora una volta, non posso che pensare proprio al caso del mio settore: le costruzioni… dove talune organizzazioni, legate ai soliti nomi, agiscono da sempre come un asso pigliatutto. E chissà perché? Magari sarà solo un caso, o il destino fortuito, o pura maestria e bravura imprenditoriale! Chi lo sa? 75


Nel passato – come oggi – e soprattutto nei grandi appalti (le famose grandi opere, come autostrade, tangenziali, ospedali e vari ‘project financing’) la capacità di esserci è insita nel peso delle cifre, oliando i meccanismi giusti significa sedersi ai tavoli giusti. Questo sembra essere premiante e tutto il resto non conta poi molto, “tutto il resto è noia. L’importante e far girare i numeri, l’effettivo interesse della collettività può anche restare seppellito sotto colate di cemento e asfalto! Poi magari si pensa che comunque questo è un prezzo accettabile da pagare, perchè il volano che creano queste “grandi opere” porta ricadute economiche positive per il territorio, richiamando imprese minori e subappaltatori con un positivo incremento occupazionale. Purtroppo chi è del settore sa che invece non è così anzi la realtà spesso è assai diversa; per esempio nel caso della base “Dal Molin” di Vicenza, dove queste ricadute la politica le aveva pubblicizzate e sbandierate (evidentemente per conquistarsi consenso) ma in realtà erano solo le solite balle. Non si vide proprio alcun beneficio, né ricadute occupazionali per il territorio e i casi di coinvolgimento delle imprese locali fu cosa assai modesta e direi marginale. E di casi di cui parlare ce ne sarebbero tanti… come il Polo Ospedaliero Riunito dell’Alto Vicentino o la nuova strada Pedemontana Veneta (appalto in corso d’opera). Sempre le stesse dinamiche e sempre le solite imprese politicamente ben equipaggiate….

quindi

diciamolo forte e chiaro: da tangentopoli ad oggi non è cambiato niente. Ma se tutto questo accade è anche un po’ colpa nostra, di tutti intendo, perché il menefreghismo non porta alla consapevolezza e solo attraverso una minima voglia di informarsi e approfondire possiamo cercare di tutelare i nostri diritti. Quindi per non farci prendere soventemente per i fondelli dobbiamo solo tener bene aperti gli occhi, e chissà, forse parte tutto da questo. Magari dobbiamo solo cercare di essere più attivi e aver maggior coscienza, potrebbe essere un buon inizio per condizionare virtuosamente sia l’economia che la politica. Non c’è soluzione politica per la nostra tormentata evoluzione. Non avere fede nella costituzione! 76


(http://www.youtube.com/watch?v=95yXGNbtrBw)

«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani». Robert Kennedy

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X Revolution You say you got a real solution Well you know We'd all love to see the plan (The Beatles)

Dopo questi anni difficili, in compagnia di questa cosiddetta crisi, che probabilmente si trascinerà ancora per parecchio tempo, mi chiedo se riusciremo a spingerci verso direzioni diverse e nuove. Chissà se il cambio d’epoca che stiamo vivendo, perché è di questo che si tratta, ci porterà verso quel rinnovamento che è necessario. Se la risposta fosse affermativa, ma penso che alla fine lo sarà, vivremo una straordinaria occasione per sradicare un sistema politico-economico ormai logoro. Potrebbe essere una specie di rivoluzione che ci condurrebbe (una buona volta) a voltare pagina. Imprimere una discontinuità con quello che sono stati questi ultimi vent’anni significherebbe anche liberarci quell’establishment politico e finanziario che oggi, soprattutto qui, nel nostro bel Paese, governa e conduce i giochi, spesso travalicando la linea di confine che demarca il bene comune e anche il buon senso. Ma se dovessi rimanere lungo il filo musicale che mi ha condotto lungo i titoli di questi dieci capitoli, invocherei il genio di Battisti: «lo scopriremo solo vivendo». Comunque se e come accadrà dipende in buona parte da noi, certo non possiamo stare seduti e attendere che qualcuno compia il miracolo. Ci abbiamo già provato ma è stata una fregatura; quindi spero veramente che i tempi siano oggi maturi, affinché anche qui si possa correre il rischio di seppellire le vecchie logiche e cambiare veramente. Questo potrebbe portarci a diventare un paese normale, dove poter sviluppare una specie di nuovo Umanesimo, un Rinascimento politico, industriale e sociale; anzi mi correggo, prima di tutto un rinascimento culturale. Perché è proprio 78


da li che parte tutto, dal fatto che dobbiamo cambiare come popolo, modificando il nostro ego e gettando via quella strana voglia di essere sempre i più furbi e i più lesti. Ecco penso che serva innanzitutto un cambio di rotta della mentalità di ognuno di noi per poter costruire una collettività degna e un paese definitivamente civile. Dopodiché inevitabilmente le chiavi del cambiamento non potranno che passare attraverso uno sviluppo che sia sostenibile, in grado di integrarsi in armonia ai territori e alle comunità; e forse tutto ciò può realizzarsi soprattutto attribuendo una maggior importanza al significato della parola LOCALE! Che tornino al centro le Città e le Regioni, che sono la base per costituire forme di governo autenticamente più vicine ai propri cittadini. Forse uno dei problemi da risolvere, è proprio il fatto che non possiamo prescindere dalle realtà locali e dalle comunità; ciò non significa chiudersi ed essere culturalmente preclusi, un certo tipo di sviluppo, inevitabilmente non potrà che progredire verso quello che modernamente viene detto il villaggio globale, dove la mescolanza di culture e le contaminazioni crescerà, grazie soprattutto alla sempre più evoluta struttura tecnologica di reti informative, che rendono progressivamente il nostro mondo sempre più piccolo. Ma questo non significa comunque negare l’importanza del poter recuperare valori che favoriscano il ripristino di una dimensione economica e politica a misura d’uomo. Infatti questa contemporanea economia, tendenzialmente si è sbilanciata anche fin troppo verso la disumanizzazione e verso una totale incompatibilità ambientale, privilegiando solo i profitti e accrescendo la concentrazione di potere nelle mani di pochi. E allora è ora di cambiare, non ci sono alternative, e forse l’alba del cambiamento è già sorta, grazie anche ai mezzi nuovi di cui il cittadino dispone. Con queste nuove dinamiche per esempio il movimento spagnolo degli indignados si collega ad altri fenomeni, come occupy wall street, in rete le informazioni corrono e le novità prendono vigore. Anche le forme di contestazione e le proteste si organizzano, localmente ma collegandosi globalmente. 79


Mi torna in mente l’aforisma di Mark Twain: «Se con il nostro voto potessimo davvero cambiare le cose, ci avrebbero già tolto, in qualche modo, la possibilità di esprimerlo». Che dire… forse è veramente nato un nuovo tipo di possibilità per poter esercitare una pressione nei confronti di questo binomio politico-economico. Largo a queste nuove strade! Intanto però, alla prossima occasione io spero tanto che la gente corra a votare in massa, cacciando via questi pupazzari una volta per tutte. Per carità dappertutto esiste sia la virtù che il vizio (non propendo per le generalizzazioni) e anche li, dentro al parlamento, ci sarà pure qualcuno degno di poter esser chiamato “onorevole”. Ma non chiedetemi di dimenticare il fatto che molto spesso, è proprio nel perimetro dei partiti che si compiono i vari e tanti favori per compiere sconcezze e tutelare interessi di parte. Quindi cari onorevoli, se la vostra nobile attività politico-istituzionale appare oggi come minimo inefficacie, non stupitevi. E’ l’intera vostra categoria che risulta completamente squalificata agli occhi dell’opinione pubblica, e sarà questa pure una generalizzazione ma è la cosa più normale che potesse accadere. “NOI” continuiamo ad annaspare mentre “VOI”, che (ricordiamocelo sempre) percepite uno stipendio lordo mensile di 16.000,00 €, viaggiando gratis su treni e aerei e usufruite dei tanti privilegi elargiti dal palazzo, continuate a rimanere distanti dal mondo reale. Orsù non lamentatevi se per il cittadino oggi non rappresentate altro che la “casta”. Ma la luce in fondo al tunnel effettivamente esiste, non è certo quella raccontata da voi, deputati e rappresentanti del governo di turno; la vera luce è rappresentata dal fatto che noi cittadini siamo finalmente più informati e consapevoli. R I V O L U Z I O N E non significa necessariamente scendere in piazza con i forconi e tagliar la testa al Re. No, ci basta l’informazione e ci basterà esercitare al meglio quel diritto di preferenza che si chiama voto.

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Lasciarci alle spalle VOI, parolieri professionisti che da decenni ci tormentate in quell’assedio retorico da perenne campagna elettorale lasciando sempre tutto allo status quo, sarà una vera liberazione. Se tutto questo accadrà, sarà anche merito dei talenti che hanno messo sotto la lente d’ingrandimento quelle dinamiche che al cittadino rimanevano in ombra, fotografando finalmente da vicino il sistema e raccontandoci quel palazzo rimasto nell’oscurità. Clientelismo, favoritismi, inefficienza: abbiamo scoperto quel diabolico ingranaggio che drena dalle nostre tasche ogni risorsa disponibile. Il vaso di Pandora appare ora scoperchiato e la rapina del secolo è stata ripresa dalle telecamere: un sentito grazie a tutte le anime oneste che hanno contribuito a renderci edotti. Grazie ai libri come La casta degli autori Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella e grazie a Sanguisughe, di Mario Giordano. Questi testi potrebbero persino (anzi, dovrebbero) diventare obbligatori nelle scuole, perché questa nostra storia moderna merita di essere divulgata, analizzata e ricordata. Quindi auguriamoci davvero che si sia toccato il fondo, dopodiché, che siate amici di Grillo oppure no, non è altro che di un ‘reset’ ciò di cui abbiamo bisogno, un bel reboot and restart – un riavvio e una ripartenza. Venirne fuori non sarà facile e nonostante siano scesi i comici in politica rimane poco da ridere; ma comunque vogliate apostrofare le novità, credo che non sia affatto demagogico proporre l’allineamento dello stipendio da parlamentare alla media degli stipendi nazionali, giusto? Tantomeno lo è vietare all’eletto di esercitare una professione durante il mandato. E poi non penso affatto che sia da qualunquisti proporre di eliminare un vergognoso diritto alla pensione (ben 5.000,00 euro per dodici mensilità) con soli cinque anni di servizio. Ma forse non lo è nemmeno ridurre al massimo a due mandati le cariche nella pubblica amministrazione giusto? E magari abolire le provincie, e abolire gli ignobili rimborsi elettorali ai partiti non è poi così da populisti... 81


Comici o no da cosa dovremmo partire? Tagliare e risparmiare non è indolore ma è sicuramente possibile, e chissà con quei 200 milioni l’anno (i rimborsi ai partiti) quante nuove scuole si potrebbero essere costruite o sistemate. Ma sarebbe solo l’inizio, perché dovrebbero anche essere tagliati decine e forse centinaia di posti da dirigente –ovviamente stipendiati a peso d’oro – in enti pubblici inutili. E dovrebbero essere aboliti pure i consigli d’amministrazione di aziende statali in perdita sempre zeppi di tanti e vari riciclati e trombati della politica che percepiscono gettoni E se poi risparmiassimo anche su quei duemila ex parlamentari che percepiscono una bella pensione a tanti zeri, cosa che nel complesso, costa al contribuente altri duecento milioni l’anno, quante piste ciclabili potrebbero essere realizzate? E il Quirinale? Riusciremo mai a vedere ridimensionato pure il costo della casa dei nostri cari vecchi e saggi Capi di Stato? Tanti altri bei soldini - 220 milioni l’anno! Ricordiamolo: il palazzo della politica più costoso di tutta Europa. E poi, chissà se riusciremmo mai anche a tagliare gli sprechi più evidenti e tutte quelle sproporzioni e quelle esagerazioni, altro che Spending Review, fare risparmi di qualche miliardo potrebbe non esser così difficile. Se ce la faremo, significherà che avremo veramente saputo voltare pagina e sarà la volta buona in cui potremmo anche rischiare di non vedere più quelle belle facce, da professionisti dei bei discorsi. Come il sole al tramonto, un bel saluto, bye bye Berlusconi e Bersani; addio Finocchiaro, goodbye Casini e Gasparri e buon viaggio Calderoli. Alcuni, come Mastella, Di Pietro e Fini hanno già fatto da loro… La prossima volta, per favore, pensiamo anche a tutti gli altri Tu dici che hai una soluzione reale Beh, sai Ci piacerebbe vedere il piano. 10-09-2013 Gaetano De Franceschi

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