È nel maggio del 1919, in una pausa dal più consistente lavoro su Al di là del principio di piacere, che Freud ripensa al tema del Perturbante. Ripensa, perché c’era già un “prima”, uno scritto abbozzato e lasciato per strada sull’argomento. Unheimlich, l’assurdo, da non credere, il pazzesco: terribile. Il termine, che non ha un corrispettivo affidabile nelle altre lingue, gioca sulla negazione della propria radice: ciò che è heimlich. Ed heimlich è tutto ciò che corrisponde a casa, famiglia, già noto, sicuro. È il territorio fidato della nostra esperienza nel mondo, il confine della nostra abitazione. Ma heimlich è anche, in una sua seconda accezione, ciò che è nascosto, celato. Ciò che non va visto, che “la decenza impone di tener coperto”.[1] Dunque heimlich e unheimlich, questi due termini che costituiscono l’uno l’opposto dell’altro, occupano anche uno spazio d’identità, convergono su di uno stesso significato. D’altronde è questo il campo che descrivono: quello del confine e della sua confusione. Perturbante è ciò che ci spaventa e ci giunge inaspettato. Non semplicemente ci spaventa, non solo ci giunge inaspettato; fa le due cose insieme. Un corpo che credevamo senz’anima inizia a muoversi, la visione di un volto
che pensiamo estraneo e scopriamo essere il riflesso del nostro, l’esperienza di un percorso che ci riporta ineluttabile al suo punto d’inizio, la ricorsività vertiginosa d’un labirinto. Ciascuno di questi fenomeni ha il potere di rendere terrificante l’esperienza soggettiva di vita, attraverso l’irruzione di un senso che stravolge il nostro credo quotidiano. Una cratofania per dirla come amava Mircea Eliade: una manifestazione di potenza, sovrapersonale e sovrannaturale (dove per naturalità intendiamo il nostro senso di normalità del vivere). E una ierofania: l’irruzione del Sacro nella nostra esperienza.[2] Quando il perturbante appare in una storia, fosse anche letteraria o fiabesca[3], il protagonista s’imbatte in una dimensione carica di presagi, progressivamente angosciosa, fino a giungere, sulla soglia della follia, alla comprensione che scardina dalle fondamenta la mappa razionale del proprio vivere. Ciò che avviene al protagonista ugualmente passa allo spettatore, attraversato da un senso di spavento, di angoscioso disorientamento. Ma non sempre è così. Non sempre ciò che per il soggetto della narrazione costituisce segno del Terribile, abbraccia lettore e spettatore in analogo spavento. Volendo tornare a un esempio già citato, è Freud stesso a porci di fronte al caso di Rampsinito, il Re egizio narrato da Erodoto nelle sue
Storie. La vicenda è gustosa e meriterebbe una digressione ma in sostanza può sintetizzarsi nella lotta strenua tra il vecchio e ricchissimo Re e un suo scaltro e canzonatore suddito. Questi, aiutato dalle indicazioni lasciategli dal padre in punto di morte, riesce ad accedere alla stanza in cui l’avaro e ricco Re custodisce le proprie monete d’argento e lo deruba di una parte dei suoi averi senza possibilità d’essere scoperto. Piccato nell’orgoglio come nelle tasche, il Re decide di attirare il ladro mettendo ad esca la propria figlia e concedendola all’uomo che avesse saputo raccontarle l’azione più scellerata e più intelligente commessa. Istruita ad afferrare per il braccio e trattenere chi avesse rivelato il furto nel palazzo reale, essa accetta il compito e dà inizio ai colloqui. Non ha molto da attendere perché le si faccia incontro il giovane ladro e, identificatolo, l’afferra prontamente per un braccio, a trattenerlo in attesa delle guardie. Anche qui, tuttavia, il piccolo canzonatore aveva predisposto un artificio e nascosto sotto un mantello il proprio vero arto, per presentare alla nobile fanciulla la mano d’un morto, tagliata via per l’occasione. La storia prosegue con la fuga del furfante e l’arresa del vecchio Re, che cede all’ammirazione per l’astuzia mostrata e sancisce la pace, porgendogli la figlia in sposa.
Ora, quale aspetto rende l’episodio della mano nella vicenda di Rampsinito perturbante per la principessa ma non per il lettore? Perché, noi non trasaliamo insieme alla principessa in un sussulto angoscioso nello scoprire che la mano appartiene ad un morto? “La risposta è facile –ci illustra Freud-: nel racconto di Erodoto noi siamo attratti non da ciò che prova la principessa bensì dalla superiore astuzia del ladrone. Può darsi che alla principessa non sia stato risparmiato il senso del perturbante, siamo persino disposti a credere che sia svenuta ma, quanto a noi, questa sensazione non la proviamo affatto giacché non ci immedesimiamo in lei, bensì nell’altro personaggio”. Forse la principessa sarà svenuta, noi no. Ciò che accade è che uno stesso fatto può divenire perturbante o meno a seconda degli occhi attraverso cui viene visto. La principessa e il ladro abitano due realtà differenti, perché esistono diversi confini da travalicare. Ma di cosa parliamo, quando parliamo di confini? Se unheimlich pertiene il trascendente, e lo riguarda per definizione, allora non può essere altro che un’eco di ciò che in assoluto trascende la nostra esperienza di vita: la morte. Ma la morte rimanda a un mondo ultraterreno; che accade dunque
quando al posto di una narrazione fiabesca ci troviamo di fronte ad una rivelazione profetica? Una verità viene rivelata attraverso
il
racconto
di
un’estasi,
di
un
vissuto
sovranaturale[4] Pochi avrebbero dubbi che si tratti di un’esperienza perturbante, unheimlich, l’incontro con il Sacro, ma se per il soggetto dell’esperienza la folgorazione dev’esser pari allo squarcio nel velo del Tempio di Gerusalemme, è più difficile dire cos’accada nel vissuto d’un pellegrino che si avvicini a quel messaggio, a quel racconto. Un caso vorrebbe che la visione profetica si appoggi sul corpo e sull’anima di chi vive l’esperienza estatica, rendendo quella persona un tramite -un pontefice- in quel ristretto passaggio tra la terra e il cielo, a beneficio dei fedeli che intendano salire sull’Arca. Ma per quanto si voglia essere ottimisti, è difficile credere che questo accada spesso o che sia la norma piuttosto dell’eccezione. Quel che più frequentemente potrebbe accadere è che ci si rechi sulla soglia del Tempio per condividere l’estasi, senza saper superare quel doppio confine che ci separa dall’altro. Eppure, è davvero dall’altro che possiamo attingere? L’invito a prendere ciascuno la propria croce
sulla soglia della
trasfigurazione,[5] rivela la necessità che non solo l’esperienza
del cambiamento passi attraverso il proprio corpo e la propria anima, ma ribadisce come ciascuno debba farsi punto d’inizio e di termine, Alfa e Omega, nel momento cruciale. In un percorso d’analisi il cambiamento s’avvicina al perturbante per due vie: perché dà accesso al tessuto familiare e perché rivela uno scorcio nuovo, talvolta inaspettato. Come nel racconto di Erodoto, passa attraverso le parole dell’altro, pur se solo per condurci al nostro crocevia. E a volte occorre fare molta strada, come nella storia del rabbino Eisik di Cracovia.[6] Questi, dopo aver sognato per tre notti un tesoro nascosto nel ponte che a Praga conduce al castello, decise di mettersi in cammino per la città dalle mille guglie. Appena giunto, prese a camminare giorno e notte in cerca di un segno che rivelasse l’esatta collocazione del suo tesoro. Ma nulla. Non un dettaglio che attirasse la sua attenzione, non una rivelazione. L’attenzione fu viceversa risvegliata nel capo delle guardie reali, da quella presenza
ostinata
ed
insolita.
L’ufficiale
si
avvicinò,
domandandogli cosa cercasse e -sentite le ragioni del rabbinoscoppiò a ridere: “Davvero hai consumato le tue suole sulle pietre di questo ponte per dar credito a un sogno? Credimi, io stesso ne ho fatto uno: raccontava di Cracovia e di un grande
tesoro nascosto nella casa di un rabbino di nome Eisik, Eisik figlio di Jekel. Avrei dovuto cercarlo in un angolo polveroso del salotto, sepolto dietro la stufa”. Il rabbino fece un inchino profondo e tornò di corsa a casa. Scavò nell’angolo trascurato della sala e trovò il tesoro che mise fine alla sua miseria.
1 2
1 Samuele, 5,6 In proposito sarebbe interessante soffermarsi sulla distinzione che corre
tra ierofania da un lato e aghiofania dall’altro, laddove la prima discende dal greco hieròs, sacro, e la seconda da aghios, santo. Distinzione perduta nella traduzione latina, dove sacer e sanctus condividono la stessa radice etimologica di sancire. 3
vedi l’esempio che dà Freud a proposito del Mago sabbiolino e del
racconto di Hoffman. 4
Il termine ekstasis in greco rimanda nuovamente alla questione dei
confini, significando letteralmente lo stare fuori di sé. 5 6
Mc 8, 34; Mt. 16, 24; Lc. 9, 23; Gv 12, 26. Riportata da Martin Buber, in Racconti Chassidici.