Il Grand Tour nella Calabria estrema

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Parco Culturale della Calabria Greca

Il Grand Tour nella Calabria estrema Tra bellezza sublime e filoxenĂŹa di omerica memoria Franco Tuscano


Filoxenìa

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Parco Culturale della Calabria Greca

Il Grand Tour nella Calabria estrema Tra bellezza sublime e filoxenĂŹa di omerica memoria Franco Tuscano


Regione Calabria

Assessorato Agricoltura Foreste e Forestazione

PSR Calabria 2007/2013 - Asse IV - Piano di Sviluppo Locale Néo Avlàci

Immagini tratte da: Collezione Lacquaniti; Edward Lear, Diario di un viaggio a piedi, Rubbettino 2009 Foto: (archivio GAL Area Grecanica) di Enzo Galluccio e Med Media - Comunicazioni Integrate Progetto grafico: Francesco Falvo D’Urso © Rubbettino Editore 2016 - © GAL Area Grecanica


Sommario

La Cultura del Territorio e la Cultura per il Territorio

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Le radici del grand-tour nell’area dello Stretto di Messina: cenni storici

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Il Grand Tour nella Calabria estrema

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Considerazioni 37 Conclusioni 40


La Cultura del Territorio e la Cultura per il Territorio Filippo Paino Presidente GAL Area Grecanica Il GAL Area Grecanica, società a servizio dello sviluppo della zona Jonica reggina a metà strada tra la Città di Reggio Calabria e la Locride, ha assunto come linee strategiche della propria azione quelle di migliorare la competitività dei settori economici (agricoltura, artigianato e turismo) e favorire la crescita della componente immateriale dello sviluppo che è la cultura con la consapevolezza che la ricchezza culturale e l’identità locale possano accelerare ed accompagnare, se non trainare, il processo di sviluppo dell’intera Area. La Collana del Parco dei Greci di Calabria è una iniziativa nata nell’ambito del Programma di Sviluppo Locale Neo Avlaci (Nuovo Solco) finanziato con le risorse del PSR Calabria 2007/2013. Si tratta di un contributo che l’Agenzia di Sviluppo Locale vuole offrire per memorizzare e valorizzare, in modo integrato, un’immensa e millenaria stratificazione di saperi, conoscenze, produzioni ed arte che si sono affermati in questo territorio rurale interpretato e fotografato come spazio economico, naturale e culturale. Questa Collana ha una duplice finalità: da un lato quella di incrementare la conoscenza del considerevole e variegato patrimonio culturale grecanico e dall’altra quella di realizzare un efficace ed utile strumento di promozione del territorio impreziosito quest’ultimo dalla presenza della Minoranza Linguistica dei Greci di Calabria. I volumi della Collana, redatti con la consulenza di esperti del territorio e pubblicati con la collaborazione di Rubbettino Editore, spaziano su vari campi della cultura grecanica (musica, enogastronomia, lingua, iconografia, natura, fiabe e arte nelle sue varie declinazioni) e vanno a costituire un primo nucleo di volumi che si rivolgono sia ad un pubblico interessato a conoscere meglio le peculiarità dell’Area Grecanica ma ancor più al mondo giovanile che si sta allontanando dalla dimensione storica locale. Quindi diventa essenziale un intervento per preservare e valorizzare questo mondo fatto di beni intangibili quali la lingua dei Greci di Calabria, il dialetto, il know-how, le tradizioni, le arti e altri fattori materiali e produttivi raccogliendoli e sistematizzandoli in una Collana orientata principalmente alle nuove generazioni ed alle scuole senza escludere un importante uso ai fini turistici. Con questa interpretazione della cultura il GAL Area Grecanica inaugura un “nuovo solco” con l’intento di farci scorrere dentro tutte quelle energie positive che possono operare per fertilizzare una terra che solo apparentemente e statisticamente è arida.


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Amìddalo glicìo ene to chùmama ena mmeli ti thorùme stin imèra…

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(La nostra terra è una mandorla dolce un miele che ritroviamo nel giorno…)

1  Da “Sette canzoni orientali” – E. Castagna e S. Nucera

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Prefazione Le radici del grand-tour nell’area dello Stretto di Messina: cenni storici Il grand-tour consisteva in un viaggio di istruzione che i rampolli delle famiglie nobiliari, gli artisti e gli intellettuali d’Oltralpe effettuavano in Italia, alla scoperta del patrimonio storico-culturale del Belpaese. Viaggi che potevano avere la durata di anni, durante i quali non è difficile immaginare questi giovani sognatori apprendere i linguaggi universali dell’arte rinascimentale, percorrere itinerari naturalistici o archeologici, assaggiare pietanze esotiche. Se tuttavia tale fenomeno trova la sua piena espressione a partire dall’età umanistico-rinascimentale e in special modo dopo il XVII secolo, la frequenza di viaggi conoscitivi compiuti sulle rive dello Stretto di Messina e nell’area greco-calabra della Bovesìa da parte di personalità storiche di spicco può essere contestualizzata anche in epoche anteriori. Nel corso del VI secolo a.C., la Magna Grecia, insieme all’Egitto e alla Mesopotamia, costituisce uno dei tre centri per eccellenza del sapere, una valenza giustificata dalla presenza capillare dei Pitagorici, le cui teorizzazioni innovative – basti in questa sede ricordare la dottrina dell’immortalità dell’anima, l’intuizione della sfericità della terra o il moto armonico dei pianeti che precorreva in parte l’eliocentrismo teorizzato in età moderna – riguardavano tutti i settori dello scibile umano: scienza, politica, costume e religione. Un bagaglio di conoscenze e divagazioni scientifiche che furono successivamente smarrite dall’Occidente medievale. In questo ambiente fecondo di idee, al fine di arricchire la sua formazione e coltivare i suoi interessi filosofici, nel corso dei primi decenni del IV sec. a.C., giunse Platone. «[...] Dunque le generazioni umane non si sarebbero mai potute liberare dalle sciagure, finché al potere non fossero giunti i veri e autentici filosofi oppure i governanti delle città non fossero divenuti, per una grazia divina, essi stessi veri filosofi. Questi pensieri avevo in mente quando venni in Italia [l’odierno Sud della Calabria, nell’accezione antica del termine] e in Sicilia per la prima volta». Platone, Settima Lettera 326 A.

Il celeberrimo fondatore dell’Accademia lasciò Atene nel 399 a.C., in seguito al processo e alla conseguente condanna a morte che i suoi concittadini inflissero a Socrate. Nel corso del decennio successivo, errando fra Megara, Cirene e l’Egitto – le antichissime tradizioni culturali di quest’ul9


timo, con tutta probabilità, ispirarono a Platone l’allegoria di Atlantide – alla ricerca della «vera filosofia», Platone si avvicinò soprattutto alle sette mistico-religiose dei Pitagorici di Magna Grecia e Sicilia, prima di recarsi a Siracusa, ove tentò tre volte di mettere in pratica il suo modello ideale di governo, la Repubblica guidata dai filosofi. Che Platone, nel corso del suo peregrinare, sia giunto anche nel territorio reggino è un’ipotesi comprovata da diversi elementi: in primo luogo, la città dello Stretto divenne, a partire dalla chiusura dei «sinedri» (le «scuole» pitagoriche) indetta da Crotone e da altre poleis intorno al 450 a.C., il luogo privilegiato di asilo per gli iniziati alle dottrine matematiche, astronomiche, musicali e filosofiche elaborate dai Pitagorici. Inoltre, Platone stesso dovrebbe aver dedicato a un pitagorico reggino suo amico, Teeteto, il primo libro della Scienza. L’itinerario del filosofo ateniese in Magna Grecia può essere ascritto al genere del grand-tour anche per via delle recensioni, di carattere etnogastronomico, non propriamente positive, pervenuteci in merito. «Appena giunto mi disgustò la vita che quivi era chiamata felice, piena com’era di banchetti italioti e siracusani, e quel riempirsi lo stomaco due volte al giorno e non dormir mai solo la notte». Platone, Settima Lettera, 326 B

Non un grand-tour, ma certamente un viaggio significativo sul versante della divulgazione della neonata religione cristiana nell’area dello Stretto viene compiuto nel 61 d.C. da Paolo di Tarso. «Costeggiando, giungemmo a Reggio». Atti degli Apostoli, 28,13.

Paolo sbarca presso il Pallantion – il porto antico di Rhegion, ricavato entro un promontorio, oggi scomparso, che sorgeva fra l’attuale Zona Tempietto e la Stazione F.S. Centrale – dalla nave “Dioscuri”. In città si stanno celebrando le Feste Artemisie (in onore della divinità Artemide/ Diana, protettrice della caccia e sorella di Apollo), fra fiumi di vino dolce e banchetti rituali, mentre la cittadinanza al gran completo è riunita nell’area del vetusto santuario policromo della divinità; un coro composto da trentacinque fanciulli, accompagnati da un maestro e da un flautista, è giunto da Messina per l’occasione. L’Apostolo delle Genti chiede di poter parlare alla folla, ma le autorità – per scherno – gli concedono il tempo necessario affinché un mozzicone di candela, posto su di un’antica colonna ionica diroccata, cessi di ardere. L’oratore inizia quindi a predicare 10


ma – una volta consumatasi la cera della candela – ecco che, per incanto, prende fuoco il marmo della colonna; in base alla vox populi, con tale prodigio sarebbe cominciata l’epopea della Reggio cristiana. Gli echi della venuta di Paolo si intravedono altresì sul versante del patrimonio antropologico del Mezzogiorno italiano, in particolar modo nella tradizione dei sanpaolari, individui ritenuti discendenti del santo, immuni dal veleno dei serpenti o dalle punture dei ragni, una credenza mediata da un passo tratto dagli Atti degli Apostoli (28, 3-4), laddove l’autore racconta che Paolo, morsicato da una vipera alla mano a Malta, non riportò alcuna conseguenza. Un grand-tour vero e proprio, anche se semisconosciuto, è quello che compie nel XVI secolo il pittore Pieter Bruegel il Vecchio, il quale immortalerà in alcuni dipinti gli scenari più suggestivi della costa reggina. Nel Der Triumph des Todes (1562 ca., Museo del Prado, Madrid) l’artista fiammingo dipinge con dovizia di particolari l’attacco pirata del turco Dragut sul litorale dell’odierna Archi, con la Torre di Pentimele e la città di Reggio in fiamme sullo sfondo. A Bruegel il Vecchio è attribuibile inoltre la bozza di un disegno assai importante per gli storici locali, poiché costituisce l’ultima testimonianza visiva del Promontorio Calamizzi, l’antico porto naturale della città dello Stretto e luogo sacro della polis in età protostorica e classica, inabissatosi definitivamente nel 1562-63. Natale Zappalà

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…Era difficile lasciare una località così interessante, così pittoresca come la Marina di Bova, dove pochi viaggiatori sono stati ed andranno probabilmente, senza conservarne una veduta: così fu disegnata mentre i pescatori presso i quali avevamo passato la notte, gettarono le loro reti a mare, per darci un pò di pesce…

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Il Grand Tour nella Calabria estrema Tra bellezza sublime e filoxenìa di omerica memoria Franco Tuscano

Libri e scritture di viaggio (la cosiddetta “letteratura odepòrica”, ovvero, “attinente al viaggio”) si intensificano grazie alla pratica del Grand Tour, attraverso cui, a partire dal ’500, i rampolli europei di buona famiglia completano gli studi “puntellando” il proprio background culturale. Fin dal principio, si evince che tra le mete preferite dai viaggiatori c’è il “Belpaese”: l’Italia, tappa obbligata in seguito alla rinnovata cultura umanistica, in quanto, tra il XV ed il XVI secolo, la nostra penisola è “la grande officina di una rivoluzione artistica di assoluto rilievo internazionale” . La Calabria, quella ionica in particolare, è rimasta però spesso ai margini degli itinerari di viaggio, che interessano invece, seppur parzialmente, la costa tirrenica fino a Reggio, meta ultima del traghettamento verso la Sicilia (c’è una diceria, mi sia consentito dire, che riguarda la Calabria in generale, secondo la quale i viaggiatori che si spingevano a Napoli concludevano lì il loro percorso, o, nel caso in cui fossero temerari più degli altri, raggiungevano la Sicilia via mare, evitando il “pericoloso” attraversamento della Calabria. Non la pensavano così, evidentemente, i vari François Lenormant, George Gissing, Alexandre Dumas, ecc., i quali, non si privarono di un “tour” in quella che veniva considerata una “ultima Thule”). La Calabria “estrema”, poi – “frontiera culturale”, perché roccaforte greca in terra latina, ma soprattutto “cerniera”, “anello di congiunzione” fra Oriente ed Occidente – appare un’isola remota ed immobile, “nel tempo ma fuori dal tempo” , fuori dalla storia, separata non solo fisicamente ma anche culturalmente dal resto dello “stivale”; una terra rimasta “off limits” per gran parte dei grandtourist, e colpevolmente ignorata, quando non – addirittura – mistificata dalla storiografia. Oltre che terra irraggiungibile, la Calabria tutta non gode di una buona reputazione, in quanto gravata dal forte pregiudizio relativo alle sue “proverbiali insidie”, rappresentate soprattutto dalla presunta pericolosità dei suoi abitanti, descritti come briganti, ladri ed assassini (a tal proposito, è curioso far notare come il grandissimo Gerhard Rohlfs, il quale, amava l’Italia ed adorava la 1

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1  Cesare De Seta, L’Italia nello specchio del grand-tour, in “Storia d’Italia”, Torino 1982, pp. 142-143. 2  T. S. Eliot, The waste land, Londra 1922.

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Calabria, di cui, arrivò a visitare 365 località(!)… avesse confessato che l’unica truffa subita in Italia, in più di 60 anni di continue visite, si fosse verificata a Roma e, per di più, ad opera di due suoi connazionali…). Intraprendere un viaggio in Calabria – parentesi a parte – diventa perciò una sorta di “avventura al buio” che pochi sono disposti ad affrontare, anche se, è bene precisarlo, le considerazioni e le paure iniziali vengono quasi sempre ribaltate ed i pregiudizi cancellati dal contatto diretto con la gente di questi luoghi, che ha sempre manifestato, nei confronti di “qualsiasi” visitatore, la sacralità del valore della ospitalità che affonda le sue radici nella “filoxenia” di matrice greca. Quindi, le insidie (presunte) “naufragano” sistematicamente di fronte ai sentimenti ed ai comportamenti “xenofili” profondamente scolpiti nel cuore del popolo calabrese, che – oserei dire – fanno parte integrante del suo DNA. Sta di fatto che però, in genere, il “Voyage en Italie” terminava a Napoli (a volte con un’appendice in terra di Sicilia, raggiunta quasi sempre via mare), ultimo avamposto – secondo le convinzioni più diffuse dell’epoca – della civiltà, prima dell’ignoto rappresentato dalle sconosciute selve calabresi. Difatti, l’antico e sempre ripetuto adagio: “vedi Napoli e poi… muori” che, nel 1787, Wolfgang Goethe – tra quelli che “saltarono” la Calabria – riporta nella lingua originale, trovò echi fino a tardi; analogo concetto avrebbe espresso, nel 1806, Augustin-François Creuzè de Lesser: “L’Europa finisce a Napoli, e per giunta vi finisce assai male. La Calabria, la Sicilia e tutto il resto sono Africa”. Eppure, qualche tempo prima, “quegli estremi lembi del territorio conosciuto sotto il nome di ‘Regno di Napoli’, erano noti, fuori dai propri confini, solitamente attraverso rappresentazioni mirabolanti, fornite da tutta una serie di scrittori che ne magnificavano pressoché ogni centimetro quadrato; ne risultava quasi l’illusione di un paradiso incontaminato, magari selvaggio al punto giusto, ma dove la natura era stata prodiga al punto da manifestare tutta la sua benevolenza anche fra le più aride contrade” . Così si legge – più o meno – nella celeberrima “Descrittione di tutta Italia” del più grande geografo ed erudito del ’500, il domenicano Leandro Alberti (1479-1552), che nel 1526 visitò la Calabria, “dove nascono e scaturiscono tutti i beni”; in Philip Cluver, storico e geografo tedesco (1580-1622); in Lucas Holstein detto Holstenius (1596-1661), geografo e filologo tedesco. E ancor prima il filologo ed umanista bizantino Costantino Lascaris (14341501): “L’Italia, la Sicilia e gran parte della nostra stessa Grecia, hanno un grande debito verso la Calabria che è la loro nutrice…”; e poi, anche Giovanni Pontano (1429-1503), un altro esponente dell’Umanesimo meridionale, che accenna alla “soavità e ricchezza del paesaggio calabrese e all’intelligenza dei suoi abitanti”. Ed una volta menzionato l’Umanesimo, mi sia consentito 3

3  Giuseppe F. Macrì, Il tempo, il viaggio e lo spirito negli inediti di Edward Lear in Calabria, Laruffa Editore, Reggio Calabria. 2012, p. 17.

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quanto meno citare due tra i più illustri “prodotti” della nostra troppo spesso vituperata terra, i “seminaresi” Barlaam e Leonzio Pilato, ovvero coloro i quali non a torto possono essere considerati tra i veri precursori dello stesso movimento letterario e, tra l’altro, maestri di greco di “personaggi” del calibro di Petrarca e Boccacio. A parte quest’ultima parentesi riguardante i nostri illustrissimi corregionali, relativamente agli autori più sopra citati, non si tratta di calabresi e quindi non c’è il rischio di carattere campanilistico, e, dunque, quali sono stati i “parametri” – c’è da chiedersi – che indussero tanti studiosi a sbilanciarsi in maniera così vistosa e, se vogliamo, eccessiva, nei confronti della Calabria? Una interessante chiave di lettura ci viene fornita dallo storico calabrese Augusto Placanica, la cui acutezza, sobrietà ed equilibrio sono ampiamente riconosciuti: “Lungo tutta l’età moderna, dal tardo ’400 fino al ’700, della Calabria, gli scrittori parlano assai spesso in termini entusiastici, accreditando l’immagine di una regione bellissima, feracissima e – soprattutto – carica di antichissime glorie…” . Ed è qui che il Placanica fa rientrare il concetto filosofico-letterario della Kalokagathìa, proveniente dall’ambito del poema epico greco-antico. Etimologicamente è la crasi fra le parole kalòs kai agathòs, che significano letteralmente: “bello e buono”, quest’ultimo aggettivo anche inteso come sinonimo di valoroso. Si trattava di una espressione utilizzata – soprattutto – per definire gli eroi dell’epos omerico come Achille o Ettore (non certo il bel Paride, né il “mitico” Narciso), e indicava l’ideale di perfezione umana, basandosi su un principio che coinvolgeva sia la sfera etica che quella estetica, ovvero su una credenza fondamentale nella grecità classica, secondo la quale la bellezza esteriore coincide con quella interiore, ed entrambe sono “interdipendenti”: chi è bello è dunque buono e viceversa. Viene cioè fissato “in nome della Kalokagathìa, il primato della Calabria in una sinergia di splendori tanto fisici quanto spirituali, e ribadito il concetto delle due sue grandezze, quello della feracità e bellezza della sua terra e quello della originalità intellettuale dei suoi abitanti: un mito positivo destinato a durare a lungo…” . 4

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La realtà, in effetti, non era così rosea, almeno da un punto di vista sociale, e l’idea di una Calabria Felix “tout court”, per merito della kalokagathìa, non avrebbe potuto continuare a lungo, infatti, già i vari Gabriele Barrio, Girolamo Marafioti e Gian Lorenzo Anania (autori calabresi tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600), cominciano a sollevare qualche dubbio sulla presunta “felicità” della terra calabra. Ma è soprattutto verso la fine del XVII secolo che inizia a cambiare la percezione della Calabria, e si abbatte su di essa un ulteriore “terremoto”, in aggiunta a quello fisico (1638), in quanto si instilla nell’immaginario collettivo l’idea che quelle lande remote siano più

4  Augusto Placanica, Storia della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma 1999, p. 279. 5  Augusto Placanica, op.cit., pp. 280-281.

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affini all’Inferno dantesco che al “Paradiso” descritto dall’Alberti. Infatti, comincia a diffondersi una pesantissima diceria nei confronti dei calabresi: si tratta “della tradizione dell’antica Roma di associare ai magistrati operanti nei domini sottomessi, persone private della dignità di uomini liberi, che avevano il compito di assolvere alle funzioni più crudeli, quali la tortura dei condannati in processo. Questa tradizione si intreccia con il destino dai romani stessi riservato ai Bruzi, rei di aver costituito il nerbo delle milizie di Spartaco: cosicché, prende a diffondersi l’aberrante credenza popolare secondo cui, essendo il fustigatore di Cristo un servo del magistrato romano, questi era bruzio; e per estensione all’intero popolo bruzio viene affibbiato l’incredibile quanto ignominioso epiteto di ‘persecutore di Cristo’. I calabresi, cioè, in quanto discendenti dei Bruzi, sono macchiati e marchiati per sempre dall’onta derivante dall’aver osato torturare il Figlio di Dio; ma, mentre Cicerone, almeno, operava dei distinguo fra Bruzi e popolazioni magnogreche, già Aulo Gellio (120-180 circa) aveva provveduto ad estendere a tutte le popolazioni della penisola calabra l’ignominioso attributo” . 6

6  Giuseppe F. Macrì, op. cit., p. 32.

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Il pregiudizio, secondo Placanica, era da ricercare nella letteratura spagnola della prima età moderna, che essa assorbiva dalla cultura napoletana. Era Napoli, insomma, che aveva avviato un processo antitetico rispetto alla kalokagathìa, un pregiudizio che si protrae per tutto l’Ottocento e oltre; infatti, lo stesso George Gissing, – “costretto”, addirittura, a fare testamento prima di scendere nella terra dei “selvaggi d’Europa” – nel manifestare ai suoi ospiti napoletani l’intenzione di intraprendere un viaggio in Calabria, si dovette scontrare con lo sbigottimento e l’incredulità della coppia di affittacamere presso cui dimorava, che lo voleva dissuadere dall’avventurarsi nelle “terre maledette”, poiché un viaggio in terra bruzia equivaleva – secondo loro – ad un viaggio in Marocco. C’è da aggiungere che il pregiudizio scaturiva anche dal fatto che spesso l’intellettualità napoletana era dominata da figure di ex provinciali – magistrati, funzionari, letterati – da molto tempo immigrati in Napoli: nella memoria di costoro, l’antico ambiente di provenienza – dal quale si erano quasi “rabbiosamente” tratti fuori, spesso a costo di durissimi sacrifici – si palesava denso di barbarie e d’ignoranza. Nonostante ciò, la Calabria, e parzialmente anche quella “estrema”, è meta prescelta – anche in seguito al Grande Sisma del 1783 – di viaggiatori e studiosi provenienti da varie parti d’Europa (solo per citarne alcuni: Dierkens, Vivan-Denon, Saint-Non(?), Swinburne, Witte, Strutt , Keppel-Craven, Lear, Douglas, Tuzèt, Destrée, Brandon Albini, ecc.). Le pagine di questi scrittori che per lo più percorrono i loro itinerari a piedi (Douglas a cavallo, Tuzèt in auto – siamo nel primo ’900), sono “memorie di carta” che prendono la forma di giornali di viaggio, di approfondite inchieste sociali, di suggestive note antropologiche che proiettano la Calabria in generale, e quella estrema in particolare, in una dimensione quasi eterea; una terra “insidiosa” ma bellissima e seducente, che si svela – come mirabilmente riesce a sottolineare Lear – con due “facies”: infernale e paradisiaca. E tracce di terra infernale le troviamo almeno fino agli inizi del ’900, se è vero come è vero, che in un articolo pubblicato nel “Marzocco” di Firenze, Ada Negri (“lumbàrd”, si direbbe oggi), scrivendo di “Maestri e Maestre in Svizzera”, non poté fare a meno di compiangere la piccola maestra calabrese in viaggio con una rivoltella in tasca per la sua difesa personale, necessaria – capite? – necessaria in Calabria. Ma la rivoltella in tasca della maestra calabrese sarebbe passata alla storia, se all’illustre poetessa di Lodi non fosse giunta una degnissima ed a tratti “tranchant” risposta, proprio da un’altra insegnante, non calabrese ma di Pinerolo(!), Giuseppina Le Maire, del seguente tenore: “Venite, Ada Negri, venite in Calabria, e vedrete se bisogna sempre stare in vedetta e portare la rivoltella. Parlo per esperienza lunga di anni. Io sono salita solo a Verbicaro, il Verbicaro famigerato, a Bova, a Savelli, ad Ardore, per deserte strade mulattiere: passai ore in stazioni isolate aspettando il pas7

7  Arthur John Strutt fu uno dei pochissimi, se non l’unico “grandtourist”, ad aver subito un’aggressione (con percosse) da un gruppetto di ladri e malfattori, in Calabria, e precisamente a Caraffa di Catanzaro, durante il suo “Pedestrian Tour”; ma non era solo, come Strutt vorrebbe farci credere: quando l’aggressione ebbe luogo, era accompagnato non solo dal suo caro amico inglese William Jackson ma anche dai francesi Fouret, De Valfort e Pourrat, i quali si erano uniti a loro nel corso della discesa nell’estremo Sud.

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saggio del treno, e rimasi sempre meravigliata della rusticana cortesia dei pochi che incontravo… Credetelo, o poeta, si è più sicuri della proprietà e nella persona, nei più recessi alpestri della Calabria, che non nei grandi parchi delle capitali… La giovane maestra che ama tanto il suo villaggio, non si sarà ella invece provveduta dell’arma di difesa quando lasciava il suo romito asilo selvaggio per avventurarsi nel gran mondo civile?... Perdonate, Ada Negri, se oso commentare una vostra frase, ma lo faccio perché la frase ribadisce una leggenda divenuta nefasta per la Calabria, che è ormai tempo di distruggere…”.

Alle nobilissime parole di Le Maire, fanno eco, sempre nel primo ’900, le parole di Giuseppe Isnardi – scrittore sanremese che è uno dei più profondi conoscitori della Calabria e che nel corso della sua vita di studioso, si prodigò nel far conoscere, comprendere ed onorare la terra del sole: “In certi italiani, e più ancora negli stranieri, esiste una ingiusta offensiva diffidenza per la taciturna fierezza di quell’umile gente... Bisogna addentrarsi nella Calabria, percorrere strade,

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sentieri, vederla nelle sue parti più alte e lontane, per conoscere bene, insieme al più caratteristico paesaggio, l’anima delle popolazioni” . Ma andando un po’ a ritroso, quasi utilizzando una sorta di tecnica del flashback, come accennato, a partire dagli ultimi decenni del ’500 e per tutto il ’600, molti giovani aristocratici britannici, in primis, presero a percorrere in lungo e in largo l’Europa e particolarmente l’Italia al fine di perfezionare la propria educazione umanistica e prepararsi alle professioni ed alle carriere più prestigiose. Un’avanguardia di un’armata volta alla conquista pacifica – di una parte almeno – del “Vecchio Continente”, i cui autentici pionieri possono essere considerati Thomas Hoby (1530-1566), Thomas Coryat (1577-1617) e Fynes Moryson, il quale, nel 1617, pubblicò il suo “Itinerary”, un resoconto del viaggio compiuto – anche – in Italia, che si rivelerà un’opera antropologico-geografica di notevole interesse e diverrà un modello di riferimento per la letteratura odepòrica. Per la maggior parte, l’esperienza di viaggio non era un vezzo, ma un abito mentale, un “cursus honorum” con finalità didattiche, che con minore enfasi interessò, successivamente, anche i rampolli delle classi dirigenti francesi e tedesche (il “Kavalierstour” era in Germania una sorta di esoterica iniziazione), ma anche fiamminghe, olandesi, svedesi, ecc., e, a partire dagli anni ’70 del ’700, la borghesia colta: politici, diplomatici, archeologi, filosofi, antiquari, romanzieri, poeti, pittori, ecc. A suggestionare i grandtourist erano, per lo più, le testimonianze dell’antichità ed il sentimento estetico che suscitavano i paesaggi sconosciuti e “selvaggi”. Questa originale esperienza fu battezzata Grand Tour con l’uscita, nel 1670, di “An Italian Voyage or a compleat Journey through Italy”, di Richard Lassels. Essa durava mediamente da uno a tre anni, ed esigeva una paziente preparazione e grandi doti organizzative; si procedeva, tra l’altro, quasi sempre a piedi, su un mulo o in carrozza con un fido accompagnatore, talvolta soli, “accettando da chiunque ospitalità, chiedendola a tutti” . In verità, il Grand Tour svolse per diverso tempo una funzione – a tratti – catartica, nel senso più esteso del termine: di purificazione, liberazione, rigenerazione. Partire per giungere in Calabria significava andare alla ricerca delle bellezze artistiche, ma anche varcare una delle ultime Thule delle civiltà europee. Se i primi viaggiatori erano mossi dal desiderio di raccogliere informazioni e catalogare dati sui diversi luoghi visitati (notizie storiche, usi, costumi), verso la metà del ’700, quando il “Voyage” assunse una connotazione interclassista, cambiata la mentalità, si privilegiò sempre più il culto pre-romantico dell’impressione che “è ad un tempo percezione visiva e descrizione dei luoghi, sagacia dell’occhio e voracità del conoscere, emotività e malinconia…” . Un culto, si vedrà, legato al sublime, al pittoresco. 8

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8  Giuseppe Isnardi, Calabria, a cura dell’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno in Italia, Roma 1926. 9  Atanasio Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel Sud, Edizioni di Comunità, Milano 1982, p. 12. 10  A. Mozzillo, op.cit., pp. 24-25.

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E fu verso la fine del XVIII secolo, che col Voyage Pittoresque si riconobbe l’importanza didattica del disegno e lo si cominciò ad elogiare come strumento di diffusione della cultura e della conoscenza dei luoghi visitati. Ecco perché molti viaggiatori si fanno accompagnare da pittori, disegnatori, incisori. In tale ottica, il Voyage Pittoresque de Naples et de Sicilie di Jean-Claude Richard De Saint-Non (mecenate, archeologo, umanista, disegnatore, incisore e viaggiatore francese), pubblicato in 5 volumi “in folio” tra il 1781 e il 1786, è uno degli esempi più completi e riusciti. Com’è noto, all’impresa cooperarono alcune decine di persone tra artisti, disegnatori, architetti ed incisori, chi in viaggio come Denon e i valenti paesaggisti Claude-Louis Chatelet, Louis-Jean Desprez, Jean-Augustin Renard, Jean-Honorè Fragonard, Hubert Robert, chi stando a Parigi con il compito di mettere assieme un’opera di moderna editoria con il suo pregevole apparato di ben 284 Tavole e 411 Incisioni e Tavole numismatiche, e subito tradotta e più volte ristampata in Inghilterra e Germania. Il Voyage Pittoresque, incentrato sulla riproduzione di città, strade, monumenti, montagne, golfi ed altri luoghi variamente pittoreschi, contribuì non poco ad attirare l’attenzione di studiosi ed accademici europei – anche in seguito agli straordinari ritrovamenti di Ercolano e Pompei e al disastroso macro-sisma del 1783 – sull’immenso patrimonio archeologico, 21


monumentale e paesaggistico del Mezzogiorno d’Italia. Il viaggiatore modello, in genere, doveva essere anche un bravo disegnatore e se in tal senso poco inclinato, provvedeva personalmente a “reclutare” artisti con cui condividere l’esperienza itinerante. Il “Tour” in questione, era stato ideato e voluto dai fratelli Richard (Jean-Claude Richard – meglio conosciuto come l’Abate di Saint-Non – e Louis-Richard de la Bretèche) e Jean Benjamin de Laborde, musicista e poligrafo, del quale però, prima della discesa nella “terra infernale” calabra, vi fu una controversa defezione rispetto al “contratto” stipulato con i fratelli Richard. L’Abbé de Saint-Non non si scompose più di tanto e, assumendo – in toto – la “direzione dei lavori”, ingaggiò, in primis, uno degli intellettuali più colti e raffinati dell’epoca, Dominique Vivant-Denon, cui fu affidato l’incarico di guidare una troupe di paesaggisti, pittori ed architetti del Voyage e di compilare un puntiglioso diario di viaggio. Lo scrittore si mise subito all’opera, raggiunse Roma e, dopo una breve sosta, alla fine di novembre 1777 era già a Napoli con una ben assortita équipe di collaboratori, tra cui Chatelet, Desprez e Renard. Qualche mese dopo, l’8 aprile 1778, il gruppo si incamminò verso le regioni più meridionali, nel “cuore” delle terre della Magna Grecia (di Renard, per la cronaca, non è però documentato alcun disegno relativo alla Calabria). Denon conosceva bene l’Italia, che considerava una seconda patria; era un archeologo, diplomatico, disegnatore e maestro della tecnica pittorica dell’acquaforte, e fu colui che diede l’avvio all’egittologia. Egli confezionò un resoconto del tour dalla forte impronta sentimentale, in cui pittoresco e sublime hanno una parte rilevante. A questo punto, si apre un’aspra diatriba fra Saint-Non e Vivant-Denon: quello che noi conosciamo della tappa calabrese, all’interno del Voyage Pittoresque, è solo in parte – in realtà – “farina del sacco” dell’Abate, il quale, quantunque fosse uno scrittore di talento, intervenne nel testo rimaneggiandolo con molta nonchalance, col risultato – forse – di appesantirlo, “caricandolo” di citazioni antiche. Riteneva Saint-Non, evidentemente, che l’aver pagato a buon prezzo l’opera gli avesse garantito il diritto di assumerne la proprietà… Le sue descrizioni si riferiscono quindi a dei luoghi che egli non conosce direttamente (in quanto, in realtà, non oltrepassò Napoli), ma per il tramite di Denon e della sua équipe di artisti. L’utilizzazione dei propri scritti non piacque a Denon che tentò in tutti i modi, purtroppo senza riuscirci, di farsi riconoscere i propri diritti. Ma, alla fine, ciò che conta è il risultato e il Voyage rappresenta una delle più memorabili imprese editoriali del XVIII secolo. Stupende, è il caso di citarle, alcune descrizioni della Calabria felix di Denon: non è il solito paese inospitale, infestato ad ogni passo dai banditi, ma una terra benedetta da Dio, dove montagne e pianure si alternano con le loro bellezze e ricchezze; “una terra che è l’immagine dell’età dell’oro, del Paradiso terrestre… Forse il paese dell’universo più bello, più ricco, più fertile e più completo per ogni specie di produzione” . 11

11  Calabria felix, a cura di A. Coltellaro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

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E circa alcune splendide descrizioni del Saint-Non (seppur fornite di “seconda mano”), come si fa a resistere alla tentazione di non riportare una delle più belle pagine di filoxenìa dell’intera sua “Opera Magna”, che guarda caso si svolge proprio nel cuore della Bovesìa, ovvero nella Marina di Bova, tra l’altro immortalata da un’immagine di rara bellezza dello Chatelet: “…Continuammo dunque a marciare fino ad una roccia assolutamente dirupata, e di cui la caduta arriva al mare. Non c’era modo d’andare più lontano e cominciavamo ad essere veramente turbati di ciò che ci sarebbe potuto succedere, quando attraverso le onde e gli scogli trovammo a tentoni un sentiero stretto e quasi a picco, che ascendemmo con coraggio, senza sapere dove ci conduceva e quasi senza speranza di poterlo continuare. Dopo averlo percorso per qualche tempo, una debole luce si mostrò infine da lontano e ci servì di faro per guidarci al più ignorato di tutti i porti, ad una specie di vecchia casa o antico castello isolato sulla cima di una roccia. Questo luogo selvaggio e come abbandonato si chiama Bova. Trovammo arrivandoci la casa piena di uomini di assai cattivo aspetto, armati di coltelli, di fucili, e avendo tutti l’aria di un molto cattivo umore: è certo che nulla era meno rassicurante, e non poteva essere meglio paragonato ad un ricovero di ladri. L’accoglienza che ci si fece al primo accesso non fu delle più gradevoli, ma come con risoluzione, fermezza ed onestà si trova asilo dappertutto, non avemmo più presto reso conto dell’oggetto del nostro viaggio e dell’imbarazzo nel quale ci trovavamo, non conoscendo né il paese né la strada, che i nostri ospiti, che si erano sparsi, al primo colpo d’occhio, così strani e così aspri, fecero ben presto buon cuore e con franchezza, tutto ciò che poterono per riceverci. Non trovammo per cena che un grosso cavolo di cappuccio, che alcuni marinai andarono a cercarci nella loro barca: era tutto ciò che possedevano di commestibile, con un po’ di pane e di aceto. Mangiammo fino alla costola il cavolo cappuccio, che ci parve tenero e delizioso; ci seminarono della paglia tritata a terra, bevemmo alla salute dello Stato e dei nostri ospiti, e ci coricammo allegramente, in mezzo a tutte quelle persone, che ci imitarono, e che non avevano assolutamente voglia di farci male. L’indomani si fu in piedi all’alba, un po’ impediti, come si può credere dalla bontà dei letti. Apprendemmo che i camerati della gita, che ci avevano fatti sì grande paura, erano gli uomini d’equipaggio di un piccolo bastimento di pescatori, spezzato dall’onda, e incagliato sulle rocce e sugli scogli, a poca distanza dal luogo dove eravamo. Appena il sole si levò, ritornammo con sollecitudine al bordo del mare, e ai piedi delle rocce sulle quali avevamo passato la notte, per godere ancora del colpo d’occhio della Sicilia e dell’Etna. Vedemmo da lontano la sommità della montagna scoperta e fumante. Non ci parve così sbalorditiva a questa grande distanza, la sua forma conica, la sua base allungata, la sua elevazione trovandosi soprattutto senza oggetto di comparazione, diminuivano molto l’idea gigantesca che ci eravamo formata, e non fu che riflettendo sulle 23


nevi di cui la vedemmo a metà della sua altezza, e malgrado i calori dell’estate, che avemmo l’idea più giusta della sua prodigiosa altezza. Era difficile lasciare una località così interessante, così pittoresca come la Marina di Bova, dove pochi viaggiatori sono stati ed andranno probabilmente, senza conservarne una veduta: così fu disegnata mentre i pescatori presso i quali avevamo passato la notte, gettarono le loro reti a mare, per darci un po’ di pesce…” . 12

12  Jean-Claude Richard de Saint-Non, Viaggio Pittoresco, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

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Andando – cronologicamente – un po’ più avanti (siamo nel primo ’800), ecco che si “materializza”, all’interno dei cosiddetti grandtourist, la figura di Karl Witte, al cui “inserimento” va però data una particolare chiave di lettura: sebbene fosse il pastore cattolico anglo-irladese John Chetwode Eustace, nel suo “Classical tour through Italy executed in the year 1802…”, a dare notizia – “en passant” – dell’esistenza di comunità grecofone nell’estremo Sud d’Italia, si deve, appunto, al dantista tedesco Karl Witte (1800-1883) il merito – enorme, per certi versi – di avere concretamente segnalato l’esistenza di un’isola alloglotta “greca di Calabria”, dando – per così dire, “ufficialmente” – inizio ad una serie di pubblicazioni sulla “glossa greka” parlata nell’estrema punta dello stivale. I tre canti greco-calabri, riportati alla luce da Witte durante il suo tour del 1820, risulteranno, di lì a poco, un eccezionale input per uno studio più approfondito della lingua e della cultura greca di Calabria. Nel 1821, infatti, in un articolo della rivista “Gesellshalter” (n° 105, p. 97), il giovane studioso tedesco (“ragazzo prodigio”, in quanto appena tredicenne, nel 1814, gli era stata conferita la laurea in Filosofia che è tuttora un record – “youngest doctorate” – registrato nel Guinnes dei primati), divenuto in seguito professore di Diritto nella Università di Halle, rendeva nota la sua “scoperta”: il canto Bovese (o greco-bovese, o greco-calabro, che a dir si voglia), “Iglio pu olo ton cosmo porpatì”/ Sole che per tutto il mondo cammini. Il medesimo canto, insieme ad altri due di cui aveva ottenuto copia dal Witte, pubblicava, con erudito commento, il glottologo August-Friedrich Pott (1802-1887), nella rivista “Philologus” del 1856. I tre testi, tratti dal Philologus, furono oggetto di studio di Domenico Comparetti, che li corredò di alcune osservazioni nella nota dello “Spettatore Italiano” (giugno 1859, pp. 452-455), e poi, da qui, fu un rifiorire di studi sul cosmo greco-calabro: da Morosi e Pellegrini a Karanastasis e Rohlfs; il contributo di quest’ultimo – in particolare – fu preziosissimo per “ridisegnare” la storia linguistica e culturale della Calabria.

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Nel 1847, il Topos ricorrente per la Calabria era che fosse abitata da uomini primitivi, lontani da ogni forma di civiltà e che i suoi boschi pullulassero di briganti e delinquenti, per cui appariva assolutamente necessario munirsi di una scorta armata per affrontare un viaggio verso quella “terra infernale”. In tale contesto, Edward Lear merita un’attenzione particolare per il suo interessantissimo resoconto del viaggio – corredato, tra l’altro, di splendide litografie – effettuato nella provincia reggina, di cui visitò 37 paesi, dal 25 luglio al 5 settembre 1847, insieme al suo fido amico John Proby ed al mulattiere Ciccio, il reggino che gli fu guida fedele; resoconto pubblicato nel 1852 con il titolo: “Journals of a landscape painter in Southern Calabria” (Diario di un pittore di paesaggio nella Calabria Meridionale). La prima edizione italiana fu stampata nel 1973 col titolo: Diario di un viaggio a piedi – Reggio Calabria e la sua provincia. Lear è un personaggio straordinario: molto amato in Inghilterra – suo Paese d’origine – per essere un artista poliedrico: eccellente scrittore, brillante pittore ed incisore, apprezzato compositore musicale, abilissimo disegnatore (nel 1846 fu richiamato in Patria per dare lezioni di disegno alla Regina Vittoria…), ma conosciuto soprattutto per essere l’inventore del “Nonsense”, cioè del “Nonsenso”, delle “Insensataggini”. Infatti, i suoi “Limericks” – strofe di 5 versi rimati – produ26


cono un effetto umoristico, suscitano ilarità per la loro particolare cadenza ritmica, per i contrasti di senso e per la deliberata assurdità del loro contenuto. Egli visitò l’intera provincia reggina “mosso da intenzioni di puro godimento estetico e spirituale di contemplazione della natura”. Fu suggestionato, tra l’altro, dall’immaginifico paesaggio delle linee gotiche della rocca di Pentedattilo: “Via via che si procedeva, le vedute dei mirabili dirupi di Pentedattilo apparivano di una bellezza stupefacente e selvaggia. Quando il sole tramontò, con uno splendore di tinte purpuree, le vedute di Pentedattilo composero una scene così magica e difficilmente descrivibile… La grande massa appuntita si sollevava isolata sopra le colline adiacenti, formando uno di quei paesaggi calabri da essere considerato l’essenza del bello… “Certo che, una volta arrivati sulle alture di fronte a Pentedattilo, esso appare agli occhi incantati come qualcosa di magico e tale vista ripaga ogni sforzo fatto per raggiungerla…” . 13

Con il suo lapis, il grandtourist inglese ha saputo costruire immagini capaci di enfatizzare dettagli in un modo che – forse – né la pittura né la fotografia sanno “rendere”. Immagini attraverso cui il creatore del Nonsense ha saputo svelarci la potenza suggestiva di luoghi ricchi di leggenda, dal fascino vertiginoso fatto di visioni spettacolari, nelle quali si assapora il fremito dell’infinito… Il viaggio a Reggio Calabria – che gli appariva come un “vasto giardino” – e provincia (l’allora Calabria Ultra Prima) condusse Lear nel cuore di un territorio che si apprestava a vivere un momento rivoluzionario, anzi, proprio nel momento stesso in cui si accendeva la fiamma della rivolta antiborbonica che sarebbe stata repressa nel sangue, e di cui, nelle pagine dell’autore inglese, avvertiamo i prodromi nelle incertezze e nelle ansie delle famiglie del reggino dove egli trovò ospitalità. All’interno della provincia reggina, la Bovesìa è senz’altro uno dei luoghi che più lo ha colpito. La Bovesìa appunto, regione appartata fra le “torreggianti forme d’Aspromonte”, nell’800 sembrava tagliata fuori da ogni “circuito”, persino interno alla punta estrema meridionale della Calabria; per cui, chiaramente, vedervi giungere in piena estate del 1847 uno straniero, dovette certo sembrare straordinario agli occhi degli abitanti di Bova; per giunta, come accennato, erano tempi di ansia e preoccupazione per la situazione socio-politica, infatti di lì a poco, agli inizi di settembre, Reggio ed il Distretto di Gerace cominciavano il loro Risorgimento che avrebbe anticipato – a livello nazionale ed europeo – il rivoluzionario 1848. Ma quel visitatore non era un personaggio qualsiasi, se è vero come è vero che la presenza di Lear aleggia tuttora a Bova, rievocata dalla lapide che adorna il Palazzo Comunale, ed associata

13  Edward Lear, Diario di un viaggio a piedi…, pp. 130-133.

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pure al cosiddetto “Sentiero dell’Inglese”, pensato per le forme turistiche più ecosostenibili. Il viaggio a piedi permette una moltitudine di osservazioni che solo colui che cammina “lento e percettivo” può avere; è il modo migliore per conoscere “al microscopio” l’ambiente. La Calabria, – terra considerata piena di insidie – sappiamo, era stata attraversata da tanti altri viaggiatori, forse in maniera un po’ meno “attenta”: Swinburne, Vivant-Denon, Keppel-Craven, Strutt, ecc. Ben presto, Lear ha modo di apprezzare e sottolineare la cordialità della gente, di decantare quello spirito di ospitalità che affonda le sue “rize” (radici) in un passato plurimillenario come quello greco: così come la filoxenìa era sacra presso i Greci, ora, l’ospitalità è sacra presso i “greci di Calabria” (ed estensibile a tutta la gente di Calabria); qualcosa che fa parte del corredo genetico delle popolazioni di questi territori, che non poteva passare inosservato all’ospite inglese, né, come sappiamo, alla stragrande maggioranza dei viaggiatori stranieri del Grand Tour. Il mondo visitato da Edward Lear è spesso indifeso, stanco, vessato, ansioso, preoccupato, a volte sospettoso, ma – badate – mai dimentico del suo “sacro ospite”. Un valore sacrale, quello dell’ospitalità, che più volte viene sottolineato, quasi enfatizzato. Dell’attuale Area Grecanica, Bova era (ed è) la “capitale”, la “Chora”, il centro spirituale e culturale del comprensorio; la Bovesìa – nota anche come “Area grecofona” – era (ed è) la zona del suo mandamento, il territorio che comprendeva i Comuni di Condofuri (con Gallicianò ed Amendolea), Roghudi e Roccaforte. Questi paesi, a cui si aggiunge Bova Marina/Jalò tu Vua, sono i satelliti del Pianeta Bova, dove vivono gli eredi della Magna Grecia, i “Greki tis Kalavrìa” (Greci di Calabria). E Lear non vede l’ora di giungere in quella che lui chiama la “città greca”; nell’avvicinarsi ad essa egli sciorina, quasi ostenta – nel definirla – una serie di aggettivi forti: “azzurra”, inaccessibile”, “eterna”, “torreggiante”, “maestosa”. Egli rimane colpito anche dalla bontà dei cibi (uova, fichi, cetrioli, vino, fagioli, pere, ecc.), dalla generosità delle persone, e dal fatto che i domestici rifiutino rispettosamente il denaro (le mance). Di Lear ci resta il “Diario” come testimonianza del suo interesse per la provincia di Reggio: un resoconto illustrato e commentato con ricchezza di particolari, come nessun altro viaggiatore, prima di lui, aveva saputo fare.

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Come già visto, nella nota dedicata all’esperienza – in Calabria – di Giuseppina Le Maire e di Giuseppe Isnardi, finanche nel primo Novecento (ma si andrà anche oltre…), il pregiudizio nei confronti della “terra bruzia” non accenna ad attenuarsi; è spesso ancora molto radicato in coloro che non hanno vissuto direttamente un’esperienza nella punta dello “stivale”. Le esperienze dirette sono invece tutt’altra cosa e chi le vive non tarda a decantare la bellezza “Kantiana” della Calabria e la filoxenìa omerica dei suoi abitanti. Ed è in tale ottica che vanno inquadrati i viaggiatori del ’900, tra cui: Norman Douglas, Jules Destrée, Maria Brandon Albini. Con la sua “Old Calabria” (Vecchia Calabria), Norman Douglas, scrittore inglese nato in Austria, ci lascia in eredità una delle testimonianze più interessanti dei grandtourist. Egli visita la Calabria tra il 1907 e il 1911; è in quest’ultimo anno che è ospite della Bovesìa, di cui, tra l’altro, decanta “uno dei più notevoli vini italiani” , il Bacco di Bova, appunto. A Bova, nella “città greca” di Lear, nota ed annota che la popolazione è bilingue. Sottolinea anch’egli il proverbiale spirito d’accoglienza di questi posti: “La signora che mi ospitava fu così gentile da intonare per me, due o tre canzoni nel linguaggio (grecocalabro) del luogo... Il notaio si rivelò un signore affabilissimo…” . Anche Jules Destrée lascia la sua testimonianza nella “inchiesta di viaggio” annotata nella sua opera “Impressioni di viaggio – La Calabria”, pubblicata nel 1930 a Bruxelles. Egli è colpito dalla bellezza dei bovini della Bovesìa: “Le mucche ed i buoi sono magnifici. Sono ben curati. Il loro pelo grigio è lucido. Non ho visto una sola bestia che avesse sui fianchi macchie di sterco. Le grandi corna orizzontali conferiscono loro una certa maestosità. Ho avuto l’occasione di vederne in gran numero, a Bova. Il mercato aveva luogo nel letto pietroso di un torrente senz’acqua. Dal mare fino alla montagna era uno spettacolo mobile, nero e bianco, di uomini e di bestie, indaffarati e rumoreggianti sotto il sole” . Il Destrée si riferisce alla “Fiera di S. Pasquale”, così denominata perché, oltre a svolgersi – fino ai primi decenni del ’900 – nel greto dell’omonima fiumara, si teneva nella terza domenica di maggio, in concomitanza con la ricorrenza di S. Pasquale (17 maggio); richiamava agricoltori, allevatori e commercianti, non solo di tutto il circondario e del versante ionico meridionale, ma anche del versante tirrenico e addirittura da Napoli. Questi “giungevano con vaporetti che attraccavano alla baia naturale di Capo S. Giovanni ed acquistavano ovini e, in particolare bovini, tanti 14

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14  Norman Douglas, Old Calabria (Vecchia Calabria) Diario di Viaggio, Londra 1915. 15  Norman Douglas, op.cit. 16  Jules Destrée, Impressioni di viaggio – La Calabria, Bruxelles 1930.

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erano gli allevamenti presenti in zona” . Ma l’avvocato e politico belga rimane quasi stupefatto dalla estrema cortesia della gente: “L’accoglienza riservataci a Bruzzano ha assunto proporzioni trionfali. Tutto il paese si era raggruppato attorno all’auto e, quando scendemmo, con una serie di frasi lusinghiere ci dettero il benvenuto. Petali di rose furono gettati sulle signore… E poiché ci eravamo soffermati ad ammirare una di quelle coperte ricamate, disposta come un parato su un muro, ci furono portate tutte quelle del paese, non per vendercele, ma per il piacere di farci piacere… E siccome eravamo rimasti estasiati per la varietà dei disegni bizantini, una delle tessitrici ci chiese l’indirizzo per ricamarcene una e sottolineare, così, il riconoscimento che meritava la nostra visita” . Con Maria Brandon Albini siamo oltre la metà del ‘900, ma la “musica” della filoxenìa omerica non cambia… La scrittrice di origine lombarda naturalizzata francese, nella sua “Calabria”, così si esprime: “Il fatto stesso che la Calabria, grazie ai suoi rilievi montuosi, sia stata tagliata e ‘salvata’ dalle invasioni venute dal Nord, ha permesso ad alcune minoranze di stabilirsi nel territorio e di restare isolate sino ai nostri giorni. Si tratta di comunità greche… che si sono annidate in cima alle montagne. Esse hanno mantenuto la loro lingua, i loro costumi, le loro cerimonie e le loro canzoni originali. Il sentimento dell’onore è molto vivo, l’ospitalità vi è sacra, come al tempo di Omero…” . Le pagine finora descritte hanno voluto essere un invito al viaggio, alla conoscenza di una terra di cui i grandtourist (gli “uomini del Nord”, i viaggiatori “d’oltralpe”) hanno resuscitato il fascino, le – presunte – insidie, le unicità… la bellezza sublime dei luoghi, la filoxenìa di omerica memoria. 17

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17  AA.VV., La vallata del S.Pasquale e presenza ebraica in Calabria in età antica, Tipografia Iiriti, Reggio Calabria 2002, p.150. 18  Jules Destrée, op.cit. 19  Maria Brandon Albini, Calabria, 1957, trad. it. di A. Coltellaro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.

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Intendo chiudere – “in bellezza”, oserei dire – la mia breve “carrellata” di viaggiatori, dedicando un po’ di spazio ad un personaggio, Gerhard Rohlfs che, senza nulla togliere a tutti gli altri, è davvero straordinario, un autentico “gigante” della filologia, glottologia e dialettologia, un “meridionalista” convinto più di chiunque altro che definire grandtourist può apparire molto riduttivo, a tratti irrispettoso, considerato che si tratta di un personaggio che per ben 62 anni… (dal 1921 al 1983) è “sceso” numerosissime volte in Calabria dalla sua Germania, per effettuare quegli “Scavi Linguistici” che hanno rivoluzionato la storia linguistica e culturale della nostra regione, e verso il quale il sottoscritto – che ha avuto l’inestimabile privilegio di conoscerlo alla fine degli anni ’70 – nutre una incommensurabile stima. La conoscenza era dovuta al fatto che lo scienziato tedesco, persona – tra l’altro – simpaticissima, era un amico di famiglia (in passato, era stato più volte ospitato da un mio prozio, anch’egli studioso e suo fido collaboratore in occasione dei suoi studi e delle sue ricerche linguistiche nella Bovesìa). Non vorrei apparire particolarmente ossequioso e ridondante nel ritenere che – quantunque il lessico della lingua italiana sia molto ricco – non sia facile trovare un aggettivo che riesca a testimoniare, a “contenere” l’opera del grandissimo Gerhard Rohlfs, grandtourist sui generis, ma nel 32


senso più positivo dell’espressione. Certo, la sua opera la si potrebbe definire straordinaria, non tanto e non solo per l’enorme produzione letteraria inclusa, ma soprattutto per la sua “dimensione” sovranazionale, comprendente, oltre che l’Italia, la Germania, la Svizzera, la Romania, il Portogallo, la Svezia, l’Inghilterra, la ex Jugoslavia, Malta e il Principato di Monaco: terre nelle cui unità nazionali e regionali lo studioso tedesco, attraverso uno scientificissimo “scavo linguistico”, ha inciso sempre in maniera significativa. Per l’Italia però, e ancor di più per la Calabria, sua patria adottiva, e per la Bovesìa, – cuore pulsante della grecità calabrese – la sua opera può essere considerata un vero e proprio “unicum”. Per mezzo del suo faticoso ma efficacissimo “modus operandi”, “spalmatosi” lungo un ampio arco di tempo (dal 1921 al 1983), egli ha letteralmente riscritto, ridisegnato la storia linguistica (e quindi, culturale) dell’intera Calabria e della sua parte meridionale, in particolare. Anzi, egli ha anche fortemente contribuito a “ridisegnare l’anima” della gente di Calabria, rivitalizzandone quei sentimenti di orgoglio e di fierezza per le “rize palèe” (antiche radici) troppo a lungo sopiti. In tal senso, fece molto effetto la dedica comparsa nel 1932 in apertura del “Dizionario dialettale delle tre Calabrie” e ripresa, con qualche variante, nell’edizione riveduta – della stessa opera – del 1977, dal titolo: “Nuovo dizionario dialettale della Calabria”; la dedica recitava testualmente: “A voi fieri calabresi che accoglieste ospitali me straniero, dedico questo libro che chiude nelle pagine il tesoro di vita del vostro nobile linguaggio…”. Parole che testimoniano un sincero, profondo affetto per la gente di Calabria e per la Calabria, sua “seconda patria”, terra che egli desiderava ardentemente venisse redenta attraverso la riconquistata dignità di popolo a seguito della riscoperta dei valori culturali regionali da parte dei suoi abitanti. Il contatto diretto e prolungato con i calabresi gli consentì di ribaltare molti luoghi comuni e falsi pregiudizi legati a questa regione che godeva di una cattiva fama: terra di briganti, ladri, assassini… Beh, in 62 anni, pur frequentando i luoghi più remoti ed impervi di essa – visitò 365 paesi(!) – Rohlfs non incontrò mai alcun problema (per la cronaca, venne truffato una sola volta, a Roma, esattamente a Piazza San Pietro, e ad opera di due suoi connazionali…). Fin dalla sua prima apparizione nella punta estrema dello stivale (1921), non fece altro che decantare – come molti altri grandtourist avevano in parte già fatto – il senso di ospitalità riscontrato nella umile e laboriosa gente di questi territori, le cui radici – valori eterni – affondano nella antica filoxenìa di matrice greca, che ne ha profondamente plasmato l’identità, fino ad “ossificarla”. Gerhard Rohlfs può essere considerato non solo “Ipsis Italis Italior” (secondo una felice definizione di Giuliano Bonfante), ma, addirittura, “più calabrese dei (o di molti) calabresi”. Egli ha incarnato, per diversi decenni, quella che può essere – a ragione – ritenuta una eccezionale, stupefacente figura di “tedesco meridionalista”. Dal Nord al Sud dell’Italia, dal continente alle isole, egli parlava, incredibilmente, ad ognuno con il dialetto del luogo. Addirittura, in Calabria, arri33


vava a correggere la gente del posto: trovandosi a S. Agata del Bianco, ospite del dottor Zappia, non esitò ad “ammonire” un altro ospite del posto, “reo” di aver sbagliato una forma sintattica dialettale locale. Inoltre, riusciva, con grande tatto ed intelligenza, a mettere d’accordo tra di loro – cosa non semplicissima – i cittadini di Gallicianò, Roghudi e Bova che a causa delle risapute differenze linguistiche diatopiche, a volte, avevano qualche difficoltà a capirsi.

Ma è soprattutto in una delle aree da lui maggiormente “battute”, la Bovesìa, che sentì “echeggiare i suoni di un remotissimo passato magnogreco”, e percepì quella sensazione di immortalità di quei suoni, veicolati dai deperibili organi fonetici . È qui, nella Bovesìa, a Bova – che egli considerava “monumento nazionale della grecità” – e dintorni (Bova Marina, Gallicianò, Roghudi, Roccaforte del Greco), che egli effettua una parte fondamentale dei suoi celeberrimi “scavi linguistici”: parimenti all’archeologo che scavando riporta alla luce resti di città sepolte, l’archeologo delle parole di Tubinga fa altrettanto con i “monumenti linguistici”che apparivano definitivamente “sotterrati”; riporta in “superficie”quei “dorismi”anteriori alla Koinè del IV sec. a.C., che attestano la grecità linguistica 20

20  Gerhard Rohlfs, Nuovi scavi linguistici nell’antica Magna Grecia, Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Palermo 1972.

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megaloellenica della nostra terra. In tale contesto, c’è da aggiungere che alcune altre forme lessicali doriche, riesumate dal Karanastasis, dal Kapsomenos e soprattutto dall’Andriotis – quest’ultime “esclusive” del “greco di Calabria” o “greco-bovese” che a dir si voglia – decretano incontrovertibilmente la validità della tesi rohlfsiana, ponendo un punto fermo sulla “vexata quaestio” riguardo all’origine dell’idioma. I due tipi di scavo, quello archeologico e quello linguistico, si completano fra di loro: se l’archeologo, infatti, usa il piccone, Rohlfs effettua il suo scavo nel solco più profondo, “nel centro della terra” (linguistica) del luogo d’indagine. Insomma, scavo nel senso di “scasso” penetrante, “abissale”, nella “miniera” linguistica del posto; scavi che hanno reso immortale la figura dello scienziato tedesco, a cui tutti i territori da lui indagati e in particolare la sua amatissima Calabria, devono un’imperitura gratitudine.

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Considerazioni Prima di avviarmi alla conclusione, vorrei aggiungere una considerazione relativamente ai grandtourist: purtroppo, il Mezzogiorno d’Italia non ha avuto – in generale – significative testimonianze di carattere narrativo che guardassero al proprio passato. Spesso, della storia dei nostri Padri, altro non restano che lunghe serie di freddi atti pubblici (compravendite, contratti, certificati, ecc.). Forse per questo, in particolare in questi ultimi quattro secoli della nostra storia, pare che la più acuta, attenta e direi anche “oggettiva” memoria storica del Sud sia stata – per così dire – delegata ai protagonisti del Grand Tour, ai viaggiatori stranieri – alcuni dei quali mossi, quasi, al “devoto pellegrinaggio” da una mai sopita nostalgia verso le terre del sole, delle antiche civiltà. In effetti, è accaduto, non di rado, che i cultori di storia della società meridionale, a causa della penuria delle fonti narrative, si siano fiduciosamente rivolti alle opere dei grandtourist, fino almeno all’800 inoltrato (epoca in cui cresceva, a vista d’occhio, il loro numero). Da sempre, i nostri studiosi sono concordi nell’affermare che i più alti livelli di oggettività e competenza dell’universo meridionale siano stati raggiunti dai numerosi viaggiatori d’oltralpe, attratti dalla “terra del Mito”. Gli scritti di questi “pellegrini” costituiscono, in un certo senso, anche una sorta di “risarcimento” verso le popolazioni del Mezzogiorno, non solo in termini di “recupero documentario”, ma anche per l’alto livello di “investimento affettivo” che ha caratterizzato le loro “discese” nel profondo Sud. Quel “profondo Sud” che nella storia “ufficiale” è prevalentemente sinonimo di arretratezza e miseria, nella prosa dei viaggiatori, “miracolosamente”, torna ad essere non solo la terra del Mito, ma anche una terra catartica, di “primordiale incontaminata purezza” in cui lo spirito si rigenera e l’anima ritrova se stessa. Insomma, la “storia” raccontata dagli “amici girovaghi” europei, sembra quasi rappresentare una sorta di “vendetta” nei confronti di quella storia “ufficiale”che ha sempre sottostimato, quando non addirittura mistificato, la “nobile” terra della Kalokagathìa.

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Conclusioni Infine, dopo aver rievocato le radici storiche, le bellezze sublimi ed il valore sacrale attribuito all’ospitalità in quella terra per lungo tempo considerata una “ultima Thule”, è possibile immaginare una “nuova” fioritura del Grand Tour? Intanto, bisogna ricordarsi che la Calabria si posiziona al “top” di tutte le regioni europee per patrimonio culturale, soprattutto per quanto concerne il suo segmento archeologico, sebbene, ancora, la conoscenza effettiva di esso – anche paradossalmente da parte degli “indigeni”, nonché dei forestieri e degli stranieri che scelgono come meta la nostra terra – sia indiscutibilmente molto bassa. È pur vero che, però, solo se il patrimonio culturale da giacente diventa vivente, si può avere una “Calabria felix”, che non vuol dire – strettamente – una Calabria felice, ma una Calabria dove siti archeologici, castelli, chiese, musei, palazzi storici, bellezze naturalistiche e paesaggistiche, diventino patrimonio vivo e fecondo, per il presente e per il futuro. D’altronde, la nostra regione non deve inventarsi nulla, è ricca, ha la cosiddetta “materia prima”; deve solo esser capace di promuovere e valorizzare quello che ha; non ha bisogno di sussidi, in senso stretto. Il dissesto idrogeologico ed i terremoti, in passato, hanno fatto scempio specie nel Sud della nostra regione. Dell’inestimabile patrimonio culturale di cui era pervaso ogni centimetro di questa terra, è rimasto, però, grazie a Dio, ancora tanto che a nostro avviso basterebbe – se conosciuto e adeguatamente valorizzato da un’attenta programmazione – a restituire lavoro, vitalità, attrattività ai nostri borghi, città, coste, montagne, ecc. E poi, le nostre tradizioni popolari, l’enogastronomia, “l’oro verde”: il bergamotto; tutto questo è ancora in attesa di diventare fondamentale parte attiva di itinerari, di circuiti turistici tematici, di turismo culturale. Certo, le aree archeologiche non possono essere prive di manutenzione ordinaria, né la segnaletica può essere vecchia ed inadeguata. La stessa fruibilità del bene culturale (musei, parchi, ecc.) deve essere garantita in maniera ottimale e senza soluzione di continuità. Purtroppo, però, lo stato di precarietà strutturale ed organizzativa contraddistingue molte eccellenze del patrimonio calabrese. Per concludere, ritengo sia auspicabile, come accennato, che la stessa gente del luogo, cominci ad osservare il proprio territorio – per penetrarne l’essenza – non più con occhi distratti, in quanto, come si sa, il vero viaggio di scoperta – quello di proustiana memoria, per intenderci – “non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi…”.

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Ai grandtourist contemporanei, invece, raccomanderemmo: “Venite nella Calabria estrema, in finibus Calabriae, venite nella terra che diede il nome all’Italia, nella terra – tuttora – di filoxenìa omerica; siate però lenti e percettivi, fate come i classici viaggiatori del Grand Tour: sedate la vostra fretta, venite – per attraversare il Mito – a piedi, o se venite in auto fate come fosse una carrozza…; liberatevi di ogni pregiudizio, senza tener conto delle scarne notizie di ‘seconda mano’ o lette da qualche parte; svestitevi degli abiti del turista tout-court per visitare, magari in piccoli gruppi, quella terra dalle radici plurimillenarie e crocevia di antiche civiltà che nessuno vi ha mai raccontato…”. Quella terra dalla bellezza struggente, mitica, imprevedibile, che cambia scenari e storie chilometro dopo chilometro; solare e radiosa, “spalmata” fra spiagge bianchissime lambite da un mare cristallino e il verde tenebroso aspromontano con la bellezza superba e magica dei suoi borghi incastonati nelle rocce; con background naturali capaci, come un’opera d’arte, di essere sublimi fino al punto, talvolta, di “turbare” l’anima dell’osservatore…

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‌Certo che, una volta arrivati sulle alture di fronte a Pentedattilo, esso appare agli occhi incantati come qualcosa di magico e tale vista ripaga ogni sforzo fatto per raggiungerla‌

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BIBLIOGRAFIA

A.A.V.V., La vallata del S. Pasquale e presenza ebraica in Calabria in età antica, Tipografia Iiriti, Reggio Calabria 2002. Brandon Albini M., Calabria (1957), trad. it. di A. Coltellaro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. De Saint-Non J. C. R., Viaggio Pittoresco, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. De Seta C., L’Italia nello specchio del Grand Tour, in “Storia d’Italia”, Torino 1982. Destrèe J., Impressioni di viaggio. La Calabria, Bruxelles 1930. Douglas N., Old Calabria. Vecchia Calabria. Diario di viaggio, Londra 1915. Eliot T. S., The Waste Land, London 1922. Isnardi G., Calabria, a cura dell’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, Roma 1926. Lear E., Diario di un viaggio a piedi, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2010. Macrì G. F., Il tempo, il viaggio e lo spirito negli inediti di Edward Lear in Calabria, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2012. Mozzillo A., Viaggiatori stranieri nel Sud, Edizioni di Comunità, Milano 1982. Placanica A., Storia della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma 1999. Rohlfs G., Nuovi Scavi Linguistici nell’antica Magna Grecia, Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, Palermo 1972. Vivant-Denon D., Calabria felix, a cura di A. Coltellaro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

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MISTO

Da fonti gestite in maniera responsabile

Questo volume è stato stampato da Rubbettino print su carta ecologica certificata FSC® che garantisce la produzione secondo precisi criteri sociali di ecosostenibilità, nel totale rispetto del patrimonio boschivo. FSC® (Forest Stewardship Council) promuove e certifica i sistemi di gestione forestali responsabili considerando gli aspetti ecologici, sociali ed economici

Stampato in Italia nel mese di febbraio 2016 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it


Filoxenìa

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