Ciò che non lava l'acqua

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Bruno Tognolini

Ciò che non lava l’acqua fàule


Bruno Tognolini è nato a Cagliari nel 1951, si è laureato al Dams di Bologna nel 1979, e ora vive un po’ a Bologna, un po’ a Lecce, e un po’ in viaggio per i mille incontri coi lettori. Dopo un decennio di teatro negli Anni Ottanta (drammaturgie con Vacis, Paolini, Baliani), per amore e mestiere è ormai da trent’anni autore “per i bambini e i loro grandi”. Ha scritto poesie, romanzi e racconti, programmi televisivi (4 anni di “Albero Azzurro” e 13 di “Melevisione”), testi teatrali, saggi, canzoni, videogame e altre narrazioni. È premio Andersen 2007 e 2011. Dopo diversi titoli rivolti ai più piccoli, per la prima volta Gallucci pubblica un suo libro destinato agli adulti.

immagine di copertina: salvatore garau “Cariatide con anima” 2012 acrilico e pigmenti su telone pvC 242 X 170 cm


Alta Definizione Gallucci



Bruno Tognolini

Ciò che non lava l’acqua fàule


Bruno Tognolini Ciò che non lava l’acqua ISBN 978-88-6145-981-6 Prima edizione ottobre 2008 Prima edizione nella collana Alta Definizione Gallucci aprile 2016 ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2016 2017 2018 2019 2020

© 2016 Carlo Gallucci editore srl Roma testo © 2008 Bruno Tognolini immagine di copertina © 2012 Salvatore Garau L’autore desidera ringraziare Vanna Fois, prima editrice di questo libro, che dolcemente, come una prima madre, tanto l’ha amato da lasciarlo andare.

gallucciHD.com

Il marchio FSC® garantisce che la carta di questo volume contiene cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Fo­rest Stewardship Council®) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, comunità indigene, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su www.fsc.org e www.fsc-italia.it All rights reserved. Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.


Ai miei nonni di Nuoro e Gavoi Agli altri nonni di Valtellina Ai miei genitori di Cagliari Alla salute e al rigoglio dei meticci



La lavandaia delle storie

Io sono una lavandaia. Lavo i panni qui in paese per la gente che ha abbastanza danaro per pagarmi e non lavarseli da sé. Mia luminosa bottega di lavoro è il lavatoio sul fiume sotto il cielo, coi suoi piani di pietra infissi dagli uomini e levigati dalle donne coi panni di generazioni; mia ombrosa bottega è il lavatoio comunale, con la bella tettoia di ghisa a riccioli e serti, con le vasche uguali affiancate, ogni vasca una donna; mia angusta e diletta bottega è la lavanderia sulla via principale, col suo basso incessante sciacquio e il suo vapore. Io lavo e lavo, io cavo il mio pane dall’acqua, le mani non stanno mai ferme e la bocca, per essere d’aiuto, parla e canta. E lava lava l’acqua – Bugia fa verità Ciò che non lava l’acqua neanche il fuoco laverà E brucia brucia il fuoco – Racconto fa memoria Ciò che non brucia il fuoco lava l’acqua di una storia Perché tutte le donne che lavano i panni, come si sa, fanno andare le mani e la bocca: cantano e 7


parlano, spargono dicerie, fatti, calunnie, peccati, segreti e bugie. Ma solo alcune son lavandaie delle storie: quelle che mentre lavano i panni con le mani fino a farli puliti, sanno lavare i fatti con la bocca fino a renderli storie. C’è chi vende falcetti e sonagliòli, e attrezzi che ai mestieri sono adatti; altri prendono laurea, prendono armi, aprono bar nelle grandi città; alcuni fanno formaggi mischiando caglio e latte, e altri fanno storie cagliando con bugia la verità. In ogni mestiere si guadagna e si perde, finché l’acqua bagna e l’erba è verde. In ogni mestiere si perde e si guadagna, e l’erba è verde finché l’acqua bagna .

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1 Fàula del sapone

Un giorno, per esempio, me ne stavo a lavare sul fiume. Lavavo i panni di gente ricca del paese, con un figlio chirurgo a Cagliari e un altro monsignore in continente; panni buoni, bella roba di gran prezzo, pizzi di Bosa, tovaglie a punto Teulada, corpetti di damasco e taffetà. Il sole mi canzonava dal suo cielo, già ardente e barroso alle dieci, chiedendomi quand’è che finivo con quell’acqua da nulla e gli davo qualcosa da seccare. L’acqua gli faceva pernacchie negli anfratti del fiume, piroette fra le pietre, furie di ballo nel filo di schiena della corrente. Tre paesane lavavano con me, una acerba, una matura e una passita. «Oggi i panni si lavano da soli» cinguettava la giovane, che doveva avere addosso un’allegria di fidanzati, di promesse cantate di notte giù per strada: «Li lava il fiume, non c’è bisogno di fatica» «Mai sia!» faccio io «Così il fiume mi ruba il mestiere!» La donna matura disse che son le mani di ragazza a fare il fiume lavandaio: a quell’età tutto può essere leggero, anche quella fatica insensata di lava9


re per un giorno intero con olio di gomito ciò che sarà sporcato in un giorno con olio di corpo, per essere lavato di nuovo con olio di gomito, e così senza fine. La donna vecchia brontolò che il fiume lavava da solo perché c’erano panni della casa di monsignore, e in cielo lo sanno e sciolgono sapone santo nelle acque. Io risi, perché avevano ragione tutte e tre. Chiesi se conoscevano la storia di Zìzi Sabonète. La giovane disse che non la conosceva e mi pressava gioiosa a narrarla; la media disse che la conosceva, ma non capiva che cosa c’entrasse col fiume che lava; la vecchia disse che dovevo usare la bocca con timore di Dio e rispetto dei suoi ministri. La conosceva, evidentemente, ma non tutta intera, e non tutta bella e vestita a festa come io l’ho fatta in anni di lava e risciacqua. E dato che la giovane ormai mi spruzzava dal fiume ridendo per farmela dire, e la media mi guardava tacendo e preparava le orecchie, e la vecchia preparava la bocca a dir male ma aspettava anche lei, io cominciai così:

Molti anni fa, tanti da non ricordarli una ragazza, ma non tanti da scordarli una vecchia, viveva in paese un bambino colpito dal martello di Dio, tonto come il pipistrello. Il suo nome da cristiano era Francesco, ma i paesani lo chiamavano Zìzi: 10


Zìzi Sabonète. Era piccolo e ben piantato, sano e di compagnia, ma scempio nell’intelligenza, la quale trovando un bel posto nell’età dei tre anni si era fermata e aveva fatto casa lì: ritardato mentale, diceva in parole italiane la maestra di scuola. Viveva, o meglio dormiva, in una catapecchia buia di fango e paglia ai margini del paese, con una vecchia solitaria in fama di strega che pareva di fango pure lei, e che mai si seppe per certo se avesse trovato quella creatura chissà dove o se l’avesse fatta lei, e chissà come. Non avendo di che campare nemmeno per sé, questa vecchia era ben contenta che quel suo bambino vagabondasse per il paese tutto il giorno, tornando dopo il tramonto ben nutrito, calzato e vestito, e profumato come un giglio di monte. Tutto il paese lo conosceva, infatti, e rideva di lui, lo interrogava per sentire gli spropositi, lo aizzava a fare mosse da matto, ma nel deriderlo al tempo stesso lo accoglieva, lo proteggeva e lo nutriva. Contenti loro di ridere di lui, contento lui che ridessero e dessero doni, contenti erano tutti. Ma lui contento era soprattutto quando qualcuno gli regalava del sapone. Saponi e saponette, per qualche bivio strano che aveva preso a un certo punto quella mente, erano la sua passione ed il suo credo, ciò che serviva e bastava per farlo felice. Di sapone parlava e cantava, il sapone chiedeva in dono e teneva in tasca, col sapone si lavava a ogni 11


fontana mani e braccia, viso e collo, e nella buona stagione testa e torso, con archi diamantini di spruzzi smaglianti nel sole. Ma soprattutto era incantato dalle bolle: erano quelle il motivo della cerca. Scalfiva in scaglie il sapone che otteneva in dono, scioglieva le scaglie in acqua e, con cannucce di fieno, occhielli d’erba e perfino con pollice e indice congiunti ad anello, soffiava da quella miscela bolle superbe, bucciucche fulgenti, lunas de sabone iridate che salivano lente e regali nel cielo di Dio. Zìzi allora le seguiva con lo sguardo, occhi e bocca spalancati in un incanto quasi dolente, che unito all’immancabile esclamazione «Mira mira mira bubbucciùcca!» che in italiano vuol dire bolla, muoveva i presenti al riso. Eccolo quindi apparire ai lavatoi, salutato dal giubilo materno e sguaiato delle lavandaie, che lo chiamavano preparando qualche scheggia di sapone da donare. Con loro Zìzi stava in paradiso: lì trovava in un colpo solo quelle mamme di tutti, quelle mani nell’acqua, quelle schiume divine ribollenti dai panni strizzati, quelle munifiche miniere del suo oro, l’acqua pura in cui scioglierlo, e il sole gaudioso per celebrare l’elevazione delle bolle. Più tardi eccolo nel cortile della scuola, a mietere risate e festosi affronti dai suoi coetanei di corpo e maggiori di testa, affronti che scivolavano come vento sulla sua pelle profumata di sapone. Le ma12


estre se lo abbracciavano pietose, anche forse per prendere respiro dal fetore dei colli zozzoni dei normodotati; e discutevano ancora una volta se fare le carte per mandarlo alla Scuola Mereu di Cagliari, che accoglieva ed educava tutti insieme cento bambini tontorroni come lui. Ma dopo averne parlato non facevano mossa perché quel degno intento si compisse: come maestre dello stato dovevano lodare il civile e moderno istituto, come mamme paesane sapevano bene che il posto di Zìzi era lì, in paese con loro. Ed eccolo infatti in piazza a mezzogiorno, fra i vecchietti catarrosi e ridanciani, generosi di motti salaci, di versi rauchi che si fanno al bestiame, di mosse brusche per mettere paura, ma pronti a serrarsi a difesa se qualcuno, consigliato male dal vino, con lui esagerava. Eccolo infine nelle cucine ombrose, a offrire alle donne asparagi selvatici, tzicòrie, cardi, altre erbe secondo la stagione, e averne in cambio pane, carezze, pancetta, formaggio e sapone; e qualche volta, per portarlo proprio all’estasi, non il solito sapone di cucina, ma una scaglia di sabonète, la saponetta emersa in gloria dal sacrario odoroso del bagno. Così passavano gli anni, senza traccia di mutamento nella mente di Zìzi, incantata per sempre, come stirpi successive di rondini o fioriture di gigli, per sempre uguali a se stesse attraverso le ere; ma 13


Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Print on Web a Isola del Liri (Fr) nel mese di aprile 2016


“Dalle acque profonde apprese le nuove storie che vi erano disciolte, seppe i casi accaduti in sua assenza. Rise felice di Zuanne Aresti, e della Morte che venne per suonare e fu suonata. Biasimò Matteo Canu, che aveva voluto frugare la campagna dell’anima. Si rallegrò della piccola bugiarda che aveva aperto la porta a Maskinganna. Apprezzò la salmodia di Yacu Murtas e del suo lungo odio poeta. Approvò la ragazza che voleva tatuarsi la vita. Si rattristò per la bambina Maria Pranta che s’impietrì. Si inorgoglì della valentìa di Predu Brusa, tracciatore di paradisi. Si consolò immensamente delle tane di guarigione, che ben conosceva. E infine giunse”.



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